Indice
• EDITORIALE.................................................................................3
di Antonio Fiore
• I piatti della Memoria sulla tavola natalizia...........................4
di Lejla Mancusi Sorrentino
•
L’arte presepiale in Campania................................................10
di Susuanna Crispino e Maria Morgillo
• NAPOLI
Ciro a Santa brigida.................................................................................... 16
Napoli, nel tempio della tradizione
Il San Carlo e la Galleria Umberto.......................................................... 18
europeo................................................................................................................. 20
Elogio della «mattozzità»
Il culto di Sant’Aspreno................................................................................... 22
mimì alla ferrovia......................................................................................... 24
Un’ora di felicità gastronomica
A spasso nel tempo fra gli scavi............................................................... 26
napoli mia............................................................................................................ 28
Apoteosi partenopea in tavola
Piazza Municipio: un simbolo della città............................................... 30
palazzo petrucci............................................................................................. 32
Lo chef che reinventò la pizza
La cappella dei Sansevero.............................................................................. 34
taverna dell’arte........................................................................................... 36
Il meglio delle Due Sicilie
Capolavori dell’arte rinascimentale........................................................... 38
• provincia di NAPOLI
Antica Osteria nonna rosa..................................................................... 40
Dove trionfa la gastronomia del cuore
Vico Equense - Panorami mozzafiato....................................................... 42
Fenesta verde.................................................................................................... 44
Lo sguardo spalancato sui sapori
Giugliano - Gioielli architettonici ricchi di storia............................. 46
il poeta vesuviano......................................................................................... 48
Tutta la cucina davanti a sé
Torre del Greco - La natura, l’uomo e le Ginestre......................... 50
taverna estia..................................................................................................... 52
Gran finale con il «Vesuvio Buono»
Brusciano - Con i Gigli tra arte e folclore......................................... 54
• avellino e provincia
la locanda di bu........................................................................................... 56
L’Irpinia creativa di Pisaniello
Nusco - Gioielli da ammirare affacciati al Balcone......................... 58
marennà................................................................................................................. 60
Un siciliano stregato dalla Campania
Sorbo Serpico - Una conca di storia e natura incontaminata... 62
oasis sapori antichi...................................................................................... 64
Quando la cucina diventa poesia (oraziana)
Vallesaccarda - Sulla via dei pellegrini................................................... 66
la pignata........................................................................................................... 68
Sinfonia della cultura contadina
Ariano Irpino - Dalla Collegiata al Castello.......................................... 70
TABERNA VULGI.................................................................................................... 72
Un giramondo irpino di talento
S. Stefano del Sole - Gli affreschi di Angelo Solimena.................... 74
• benevento e provincia
il foro dei baroni........................................................................................ 76
Fuochi d’artificio nel cuore del Sannio
Puglianello - Il borgo e le terme............................................................. 78
i giardini di marzo...................................................................................... 80
Il sogno realizzato di Ivana e Michele
Sant’Agata de’ Goti - La Perla del Sannio........................................... 82
la pignata........................................................................................................... 84
Pontelandolfo, tutto il gusto della tavola
Sepino - «Ciro» e le meraviglie dell’entroterra.................................. 86
• caserta e provincia
le colonne.......................................................................................................... 88
Rosanna ha inventato i «piatti parlanti»
Caserta - Visitare la casa di un re........................................................... 90
vairo del volturno...................................................................................... 92
Con Renato alla scoperta delle eccellenze casertane
Vairo del Volturno - Visita alla fortezza incantata............................. 94
al vecchio mulino......................................................................................... 96
Il «tianiello» e altre meraviglie locali
Teano - Una vita antica che rivive nel presente............................... 98
• salerno e provincia
il conte andrea............................................................................................100
Nobiltà della cucina salernitana
Salerno - La magia della storia: S. Sofia e il Duomo...................102
casa del nonno 13.....................................................................................104
Raffaele e il miracolo di San Marzano
Mercato San Severino - Tra Longobardi e Aragonesi.......................106
cucina antichi sapori................................................................................108
«Concerto» in onore di Peppe & Antonietta
Tramonti - La cappella rupestre di San Michele..............................110
divina commedia............................................................................................112
Volete mangiar bene? Andate all’Inferno
Giffoni Valle Piana - Fra la vecchia miniera e il torrente..............114
•
I vini, gioielli della Campania Felix......................................116
di Pino Savoia
4 - 13 Aprile 2009
della cucina regionale campana
Guida ai ristoranti
e ai monumenti della Campania
a cura di Antonio Fiore
STORIA
Ruvido, Piazza del Gesù Nuovo
opera di Quintino Scolavino Nicastro
in copertina
Maggio 2009
Critico Maccheronico
Direzione artistica
a cura di Antonio Fiore
Direzione editoriale
a cura di Giuseppe Napolitano
redazione
Susanna Crispino
Gianfrancesco D’Andrea
Graziana Iadicicco
Maria Morgillo
Nadia Maria Nacca
Irma Napolitano
Pino Savoia
Lejla Mancusi Sorrentino
Si ringrazia Gloria González
editore
© 2008 Inac-Ac
Via Bisignano, 68 - 80121 Napoli
Tel. 081 409456
[email protected]
www.pianetagustocampania.it
realizzazione grafica
Anna Napolitano
fotografie
Marcello D’Andrea, Giuseppe Minniti,
Giulia Napolitano
© 2007 Photos.com
Le foto degli itinerari sono di
Giuseppe Loffredo
www.6viaggi.com
www. eptnapoli.info
elaborazione grafica di Leyla Stellato
Cecom snc Bracigliano (SA)
CR
Luglio
C'è un nuovo modo per conoscere la Campania: sei viaggi fatti di eventi, mo
spettacoli, concerti e itinerari gastronomici. Memoria, emozioni, storia,
6 Dicembre 2008 - 6 Gennaio 2009
creatività e tradizione. Programmate il vostro 2009 in Campania su: www.6viaggi.
Campania 2009
Arricchite il vostro bagaglio
copertina
stampa
M
enu della memoria moltiplicato per venticinque, quanti sono i ristoranti e gli chef coinvolti in questo viaggio. Perché
quando si parla di memoria gastronomica di Napoli e della
Campania si entra in un territorio multiforme, dove il plurale è d’obbligo. Siamo dinanzi a un immaginario gastronomico stratificato sia in
senso storico che sociale, e al cui interno convivono armonicamente i
segni della cucina povera e delle mense nobiliari, il “Cuoco Galante” di
Vincenzo Corrado e “La cucina teorico pratica” di Ippolito Cavalcanti, il
ricordo ancestrale dei mangiafoglie, il rito plebeo dei mangiamaccheroni,
i piatti sapientemente infranciosati dei Monzù, il classico ricettario di
Jeanne Carola Francesconi, il richiamo sempre possente del mare, il
bianco abbagliante della mozzarella... Il tutto nel quadro di una cucina
che, pur essendo così identitaria e radicata nella tradizione, è anche
tra le più «globali» dell’Occidente, avendo integrato perfettamente nel
suo panorama ingredienti lontani: basti pensare all’avventurosa storia
del pomodoro, viaggiatore americano in principio apprezzato in Europa esclusivamente come pianta ornamentale e afrodisiaca, del quale
solo Napoli e la Campania seppero fare il perno di un intero universo
gastronomico al tempo stesso popolare e aristocratico: abbiamo perciò
chiesto a 25 tra i migliori chef campani di confrontarsi con questa tradizione ciascuno ARTI
a partire dalla propria esperienza, dal proprio territorio
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Giugno 2009
e addirittura dalla propria
«memoria» individuale, nella convinzione che
proporre delle ricette nelle loro versioni cristallizzate negli antichi manuali
non avrebbe reso un buon servizio a una cucina che non è archelogia
ma interpretazione, continua evoluzione, innovazione mai gratuita o
modaiola. Una gastronomia viva è quella che sa confrontarsi con il suo
glorioso passato ma anche con la contemporaneità, e questi menu ognuno «gemellato» a un luogo artistico e culturale in sintonia, a uno dei
prodotti tipici utlilizzati, e integrati da una dettagliata descrizione della
ricchissima enologia campana, altro orgoglio della nostra terra - vogliono
esserne la polimorfa (e gustosissima) dimostrazione.
Antonio Fiore
Critico maccheronico
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Editoriale
Assessorato al
al Turismo
Turismo
Assessorato
e ai
BeniCulturali
Culturali
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Beni
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I piatti della memoria sulla tavola natalizia
4
la poesia gastronomica del
Natale e ogni città, ogni paese,
ogni piccola contrada ha creato specialità tipiche degne del
grande evento, distinguendo
quelle di magro per il cenone
della Vigilia, quelle di grasso per
il pranzo di Natale, e riservando
le pietanze più ricche e opulente
per il veglione di Capodanno.
o i grossi e saporiti scampi. Per
evitare grassi animali, vietati nel
rispetto dell’astinenza imposta
dalla Chiesa, i vermicelli devono
essere alle vongole, che talvolta
sono scappate nelle
versioni più
modeste, oppure alla notte di Natale,
cioè con aglio,
olio, acciughe, prezzemolo,
capperi e
ulive. La
tradizioIl cenone della Vigilia a Napoli ne vuole
è il trionfo di tutte le verdure, che non
scarole imbottite, friarielli soffrit- manchi
ti, broccoli affogati, ma protago- la cosidnista assoluto è il pesce, dagli detta Inesemplari più umili, tra i quali salata di
un tempo era il baccalà oggi rinforzo,
dal costo proibitivo, ai più pre- in cui il
giati e costosi come l’aragosta cavolfio-
S
in dai primi giorni di dicembre comincia ad
aleggiare prepotente
l’atmosfera natalizia e si riaccende il desiderio di rinnovare
le tradizioni, intese soprattutto
come occasione di aggregazione familiare intorno alla stessa
mensa in un’atmosfera serena
e gioiosa. A Napoli il Natale è
festa gastronomica oltre che religiosa, retaggio di riti sacrificali
alla divinità che deve essere degnamente onorata con consumo
di cibi preziosi e rari. Una conferma emblematica dell’importanza del cibo nel rito natalizio
è offerta dalla scenografia del
Presepe dove la maggioranza
delle offerte portate dai pastori
sono mangerecce: ceste di frutta, di uova, di latticini, polli, pesci salumi, ecc. C’è la bottega
del macellaio, del panettiere,
quella del salumiere con
provoloni, salsicce e capicolli, c’è il forno per
pane e pizze, fanno
bella mostra i banchi
del mellonaro e del fruttivendolo con le ’nserte
di agli e cipolle, quello
del pescivendolo con le
tipiche
MENU DELLA MEMORIA
MENU DELLA MEMORIA
di Lejla Mancusi Sorrentino
Il cenone
della Vigilia
Faciteme magnà
spaselle e persino la tipica taverna napoletana con l’oste
sulla porta e i tavoli completi di
piatti e fiaschi di vino intorno ai
quali sono seduti gli avventori.
Spesso si tratta
di scene e personaggi anacronistici, come il
cacciatore, il frate,
i carabinieri e oggi tra i pastori
occhieggiano anche Bassolino,
Berlusconi, Pavarotti, Cannavaro, i Savoia e altri big di turno.
L’abbondanza di cibo su tutte
le mense, senza distinzione di
classe sociale, è profondamente sentita come un dovere per
solennizzare degnamente la
nascita del Signore. E’ questa
Santa Lucia, no chella d’’e canzone,
no chella d’ ’o cantante e l’orchestrina,
io preferisco chella d’ ’a cucina,
d’ ’a vungulella ’ncopp’ ’o maccarone.
D’ ’o pesce fritto, fatto uoglio e limone,
fore a na tavulella ’e na cantina,
piazzata ’mpont’ ’o taglio d’ ’a banchina,
cu’ ’o pede ’ncopp’ ’a barra ’e nu temmone.
E chesta è ’a poesia, niente cantante,
niente pusteggia pe pute’ magnà,
nu vermicello a vongole abbondante,
cu ’o petrosino crudo, addore ’e scoglie,
e ’a primma forchettata ti ‘a scustà…
si no svenisce mentre l’arravuoglie!
Raffaele Viviani
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Solo così riuscivano a garantirsi una parentesi godereccia,
una solenne abbuffata, dopo
un lungo anno di privazioni e
sacrifici, il consumismo attuale
era ancora tutto da inventare.
Il pranzo
di Natale
L’antica usanza prevede sulla
tavola di Natale la Minestra
maritata, che richiede una lunga e paziente preparazione,
composta da diverse specie
di verdure scottate separatamente, strizzate, tagliuzzate
e insaporite in un denso e saporito brodo realizzato con un
ricco assortimento di carni e
salumi: polpa di manzo, gallina, cotica, prosciutto (un tempo
era utilizzato l’osso), salsiccia
forte e, facoltativo un pezzo
di formaggio. E’ un piatto antichissimo, citato in letteratura
sin dal Quattrocento, essendo
in realtà la versione festiva
della povera zuppa di verdure
che rappresentava il desinare
giornaliero del popolo napoletano sin da tempi lontanissimi,
minestra considerata il piatto
nazionale, tanto da far meritare ai napoletani l’appellativo
di mangiafoglie, fino alla grande
diffusione della pasta che mutò
il loro soprannome in mangiamaccheroni. Per rendere onore
al nuovo epiteto dopo la mine-
stra seguirà un piatto di pasta,
un sontuoso timballo di maccheroni, condito con l’inimitabile
ragù napoletano, ben imbottito
di polpettine, mozzarella, piselli,
funghi e quant’altro la fantasia del cuoco suggerisce. Rituali
sulla tavola di Natale sono gli
animali da cortile – tacchino,
gallina, cappone, a scelta – farciti o al forno con patate, o in
umido con contorni vari. Per il
dessert non si può rinunciare al
panettone, simbolo del Natale
italiano ma in tema di dolci natalizi, senza timore di fare vieto
campanilismo, Napoli non teme
il confronto con nessun’altra città, sia per l’assortimento che
per fantasia di nomi e di forme:
oltre ai caratteristici struffoli e
alla tradizionale cassata nella versione napoletana senza
il bordo verde di pistacchio,
ci sono raffioli semplici o imbottiti, roccocò, sospiri, paste
reali, paste di mandorle, divino
amore, sapienze, mostaccioli e
susamelli, questi ultimi a forma
MENU DELLA MEMORIA
MENU DELLA MEMORIA
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re fa solo da supporto a olive
bianche e nere, filetti d’acciughe,
sott’aceti d’ogni tipo e colore e
tutti i sott’oli che si possano immaginare. Il pezzo forte del cenone è senza dubbio il capitone,
lesso, arrostito, marinato, fritto
o in umido, il capitone viene
mangiato più che per rito quasi
come un dovere da rispettare,
si dice a Napoli pe’ devozione.
Nonostante il suo prezzo salga
alle stelle nel periodo natalizio,
anche le famiglie più modeste
fanno qualsiasi sacrificio pur di
non rinunciarvi. Una complicata
e tortuosa simbologia identifica
nel capitone il serpente demoniaco da sconfiggere, schiacciato sotto i piedi della Vergine,
mangiato il quale si può finalmente celebrare la nascita del
Redentore. Nell’immaginario
popolare il capitone è considerato animale portafortuna,
capace di esorcizzare il maloc-
chio e, per simbologia fallica,
propiziatore di
fecondità e fertilità. L’usanza
è stata ereditata dagli antichi
Romani, presso
i quali l’anguilla
era tra i cibi di
rito per festeggiare i Saturnali
che cadevano
la notte del 25
dicembre , la
più lunga del
solstizio d’inverno che segnava il passaggio al nuovo anno.
L’anguilla rappresentava il ciclo annuale, l’anno che ritorna
sempre su se stesso, poi con la
sovrapposizione dei riti cristiani a quelli pagani che fecero
coincidere la ricorrenza religiosa della natività con gli antichi
festeggiamenti per il nuovo anno, a Napoli si è conservata la
tradizione di questo cibo simbolico denso di significati reconditi.
Anticamente le famiglie con
mezzi limitati, per evitare di
indebitarsi nell’acquisto di tutti i commestibili necessari ad
una degna tavola natalizia, sin
dai primi mesi dell’anno, prenotavano presso il salumiere
abituale un cesto ripieno di cibarie, chiamato sfrattatavula, e
lo pagavano a rate col versamento di pochi soldi alla settimana o lasciando l’eventuale
resto della spesa giornaliera.
di esse sempre con allusione al
serpente demoniaco da distruggere. Per prolungare in allegria
la permanenza intorno alla tavola natalizia con l’antico gioco
della tombola, tanto caro ai più
piccini, o con le più attuali partite a carte, a fine pasto compaiono cestini colmi di frutta secca,
oltre ai fichi, imbottiti e ricoperti
di cioccolato, e ai datteri, immancabili le ciociole o spassi –
noci, nocciole, arachidi, semi di
zucca, castagne del prete, ceci
tostati – che aiutano a passare
la serata tirando tardi tra piacevoli chiacchiere e allegre risate.
Il veglione di
Capodanno
Durante le feste di fine d’anno c’è
la consuetudine gentile delle strenne, uso che ebbe inizio niente di
meno che conTitoTazio, re sabino
contemporaneo di Romolo (siamo
Pignato Maritato fatto alla Napolitana
Pignato maritato fatto alla napolitana
Deh, se provaste mai, donne mie care,
certo altro buon mangiare
che noi con studio assai solem fare
d’una dolce pignata
d’un pezzo riposata
detta a Napoli tra noi la maritata,
fatta di torzi, d’ossa mastre e carne,
dove entra un pezzo di presciutto vecchio
salcizon sopressata e boccolaro
col suo finocchio e buon formaggio dentro,
che il sapor vadi a penetrar nel centro.
Oh che pignato raro
così sempre da noi tenuto caro!
Giovan Battista Del Tufo,
Ritratto o modello
della nobilissima città di Napoli, 1588
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salute, la parola strenna servì a indicare i doni apportatori di felicità
e di benessere che da allora amici
e parenti cominciarono a scambiarsi nel giorno di Capodanno.
Questi doni consistevano in genere in cose dolci come datteri, fichi
e altra frutta secca o anche vasetti
di miele, e quant’altro fosse in grado di esprimere le cose piacevoli
che si volevano augurare al destinatario per l’anno che cominciava.
Grandi erano nell’antichità i fe-
steggiamenti di Capodanno, giorno dedicato al dio Giano, divinità
dai due volti, l’uno triste e l’altro
sorridente, simboleggianti il passato e l’avvenire, l’anno trascorso e
quello che va ad incominciare.Anno nuovo, vita nuova: in quel giorno
i nostri antenati indossavano abiti
nuovi e cercavano di concludere
affari e realizzare guadagni nella
convinzione che un inizio positivo
avrebbe garantito fausti eventi
per tutto l’anno, superstizione
ancora oggi fortemente radicata
a Napoli nella credenza popolare che ha coniato il detto Quel
che si fa il primo dell’anno si farà
per tutto l’anno. Pertanto per
buon augurio in quel giorno si
dovrebbe evitare di piangere, di
arrabbiarsi, di bisticciare in modo da tener lontani questi tristi
sentimenti, mentre si devono fare
e progettare solo cose piacevoli.
Sulla scia di una siffatta convinzione, radicata da secoli, il cenone di Capodanno che si prolunga
ben oltre la mezzanotte, non può
che essere opulento e imperniato sulle specialità gastronomiche
più esclusive e raffinate. E’ di buon
auspicio per i prossimi dodici mesi
farsi trovare dall’arrivo del Nuovo
Anno seduti ad una tavola ricca,
nell’atto di assaporare pietanze
ricercate, insolite, diverse da quelle di tutti i giorni, attirando così
per magia imitativa, eventi straordinari e piacevoli per il futuro.
Nell’antichità per propiziarsi i
favori della divinità, si sacrificava
un animale grasso e ben nutrito. Superstite di questa usanza
è il cappone, ormai introvabile,
che veniva castrato alcuni mesi
prima per renderlo incline all’ingrasso ed era allevato con cure
particolari perché le sue carni fossero abbondanti, tenere e saporite.
Un altro rito propiziatorio di abbondanza, presente ancora nella
nostra tradizione, è di consumare
in quella notte cibi composti da
infiniti piccoli elementi, impossibili da contare, ciò che spiega
il significato delle lenticchie, da
mangiare in quantità, quante più
se ne mangiano tanti più soldi si
guadagneranno, e del Sartù di riso,
che presenta una doppia valenza magica: non solo ogni chicco
di riso rappresenta un soldino
ma c’è anche il ghiotto ripieno
che prelude a ricchezze future.
Analogo valore simbolico hanno le
melagranate che troneggiano nella fruttiera di Capodanno e i turgidi e dorati grappoli di uva, ogni
chicco ingerito mentre scoccano i
dodici colpi della mezzanotte vale
un anno di felicità.Abbondanza e
ricchezza sono racchiuse anche
nella cornucopia di croccante,
ricolma di struffoli, una miriade
di palline fritte avvolte nel miele.
Il brindisi di mezzanotte con lo
Spumante, rito diffuso in tutto il
mondo, è legato alla convinzione
che sarebbe di cattivo auspicio
pasteggiare con semplice acqua nelle ultime ore del 31 dicembre e durante il 1° gennaio.
A Napoli i fatidici dodici rintocchi che scandiscono il passaggio
dal vecchio al nuovo anno sono
completamente attutiti da botti,
petardi e fuochi d’artificio sparati
da tutti i terrazzi e balconi della
città nel duplice scopo di spaventare l’anno vecchio e farlo fuggire
con tutto il suo bagaglio di guai e
dolori e di accogliere l’anno nuovo
MENU DELLA MEMORIA
MENU DELLA MEMORIA
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quindi all’epoca della fondazione
di Roma), che nel primo giorno
dell’anno ebbe in dono un ramo di
verbena, erba apotropaica, capace
cioè di tenere lontano i malefici.
Poiché quel ramo di verbena proveniva dal bosco che circondava
il tempio della dea Strena, personificazione della sanitas = buona
in un’atmosfera di eccitazione e
allegria. La notte di San Silvestro
offre nella nostra città uno spettacolo unico al mondo, il cielo si
illumina a giorno, poi si arrossa
sullo sfondo delVesuvio, l’aria si fa
cupa, irrespirabile e una nuvola
densa di fumo avvolge nelle prime
ore dell’anno nuovo tutta la città
e il golfo. Anticamente, ma l’usanza si è protratta fino a qualche
decennio fa, la santabarbara avveniva anche per la mezzanotte
del 24 dicembre come raccontava
in versi l’abate Giulio Genoino
Se un tempo le feste erano l’unica parentesi di abbondanza al
termine della lunga astinenza
durata tutto l’anno, oggi rappresentano l’occasione tentatrice
per disattendere le ossessionanti
diete che ci perseguitano ininterrottamente. Ben venga dunque
la trasgressione per godere della
nostra ricca gastronomia natalizia... semel in anno licet insanire!
botti
Voglio spara’ li truone a lo Bammino
e quann’è mmezanotte vasa’ ’nterra,
e po’ ronfa’ diece ore a suonno chino
pe’ diggeri’ la mensa, e ffa la guerra
dimane a ’na gallotta e a ’no capone
co quattro mozzarelle de la Cerra...
Vi’ che te face fa’ la devozione!
Giulio Genoino, abate
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MENU DELLA MEMORIA
di Susanna Crispino e Maria Morgillo
10
Q
uanno nascette Ninno/quanno nascette Ninno a Betlemme/era notte
e pareva miezojuorno...”
In questi versi, che la tradizione
attribuisce a Sant’Alfonso Maria de’Liguori si intravede la
magia e l’ingenuità del presepe.
In quanto rappresentazione del
mistero della natività di nostro
Signore Gesù Cristo, il presepe
trae la sua ragione di essere
dalla descrizione riportata dai
vangeli di Luca e di Matteo.
Spesso oggetto di raffigurazione
pittorica e scultorea a bassorilievo fin dal periodo paleocristiano, la Natività viene fatta
rivivere per la prima volta a
Greccio nella notte del 1223 da
San Francesco, considerato l’iniziatore dell’usanza del presepe.
Ai francescani spetta il merito
di aver portato un po’ ovunque
il presepe natalizio, con lo scopo di diffondere il culto cattolico
e avvicinare ed educare i fedeli,
è così che il presepe arriva anche a Napoli. L’uso di allestire
il presepe a scopo devozionale
si sviluppa pienamente solo
in clima controriformista. Nel
Cinquecento, si ha una evoluzione delle statuette di legno, si
ricorre all’impiego di parrucche
con acconciature dell’epoca, di
occhi di vetro e delle parti nude
policromate. Nel corso del XVII
secolo, il presepe devozionale
napoletano, risente del gusto
Taverna, xviii secolo, autori vari
barocco e, in particolare, della
tendenza all’allestimento spettacolare e all’interesse più accentuato per il dato ambientale:
compaiono i quadri scenici del
mercato, della taverna e di tutta
la realtà circostante. Intanto il
presepe napoletano, diviene un
fenomeno di moda recepito e
diffuso sempre più in ambiente
laico. Nel Settecento, attraversa
il suo periodo più aureo: il numero dei personaggi cresce e
i gruppi scenici si ispirano alla
realtà del tempo. Si configura
in tal modo il presepe cortese
napoletano, diverso dal tradizionale presepe di chiesa a scopo
devozionale. Nel XVIII secolo la
rappresentazione presepiale, diretta di solito dalla regia di un
pittore o di un architetto, si sviluppa sullo “scoglio”, struttura
in legno ricoperta di corteccia
di sughero. Presenta degli ele-
menti scenici basilari: il mistero
della Natività, l’annuncio dei pastori e il diversorium (la locanda
presso cui Maria e Giuseppe
chiesero invano ospitalità), attorno ai quali ruota una affollata composizione che ripropone
uno squarcio aperto sulla Napoli settecentesca, ripresa nei
costumi e nelle attività della
sua gente. Il presepe risente, nel
corso del Settecento, dei ritrovamenti archeologici di Pompei
e Paestum, per cui viene reso
come un tempio in rovina dalle
classiche colonne a sostegno dei
resti del timpano che inquadra
la scena della Sacra Famiglia.
Le figure sono connotate da
una forte e viva espressività ed
esibiscono spesso costumi tipici
del Regno di Napoli, divulgati
dalle serie di immagini edite
in quel tempo dalle stamperie
reali. Gli abiti, eseguiti prevalen-
temente da sarti di professione,
sono realizzati in stoffe pregiate e talora, come i manti dei Re
Magi, adornati anche con pietre
preziose. Durante il governo di
Carlo di Borbone (1734-1788),
il presepe raggiunge il più alto
grado di espressività artistica,
favorito dall’interesse che vi
nutrì il sovrano. E’ noto che il
re si occupava della costruzione
del presepe, mentre la regina
sua consorte, insieme alle dame
di corte e alle principessine, si
occupava di preparare gli abiti
per i pastori del Santo presepe, anche per far cosa gradita
al re. Solitamente l’esecuzione
reggia di caserta, particolare del presepe
delle statuetta presepiali veniva
affidata a valenti scultori come
Antonio Vaccaro, i Bottiglieri,
Francesco Celebrano e ancora
Giuseppe Sanmartino ed altri.
Durante l’Ottocento, il presepe
è caratterizzato da una produzione artistica ripetitiva di copie
e falsi.Tale situazione risultava
dal mutamento delle vicende
politiche che inducevano la corte e l’aristocrazia ad abbandonare progressivamente questi
“diletti”, fino a quando, dopo
il 1860, sia per le minori disponibilità economiche, sia per
il conseguente affievolirsi della
sensibilità artistica, si giunse a
una produzione commerciale
accessibile un po’ a chiunque.
L’artigianato presepiale ha conservato fino ai giorni nostri la
sua tradizione, man mano che
ci si addentra nell’antichissima
via, che da piazza San Domenico Maggiore arriva a
via Duomo, ci si sente sempre più parte del denso flusso
di persone che trasporta fino
all’incrocio con la ripida strada,
denominata San Gregorio
Armeno dall’antico convento cinquecentesco. E’ qui che
la città di Napoli offre la sua
particolare interpretazione della festa natalizia. Le botteghe
MENU DELLA MEMORIA
L’arte presepiale in Campania
11
secolo, con figure di Giuseppe
Sanmartino, tra i massimi scultori napoletano del Settecento,
che, abilissimo a plasmare figure in terracotta, diede inizio ad
una scuola di artisti del presepio. Particolarmente suggestivo
da visitare e per di più oggetto
di un “miracolo di Natale” è il
presepe della chiesa di San
Nicola alla Carità, lungo via
Toledo: i pastori settecenteschi,
le statuine dei plastificatori
napoletani del XIX secolo e i
pastori semoventi, - pari a circa
trecento figurine- trafugati il
18 dicembre 2006, furono ritrovati quattro giorni dopo, per
la gioia dei bambini e dei turisti
che ancora oggi possono ammirarlo in tutto il suo splendore.
Sempre in provincia di Napoli,
procedendo lungo la strada
statale che da Castellammare
di Stabia conduce a Sorrento,
reggia di caserta, scoglio
a Mergellina, sono custodite,
cinque statue appartenenti a
uno dei presepi realizzato dallo
scultore Giovanni da Nola nel
‘500. Ma è di certo la Certosa
di San Martino, sulla collina
di Sant’Elmo, a custodire la più
ricca collezione di singole figu-
re presepiali, tra cui il celebre
presepe Cuciniello, dal nome del collezionista napoletano, che nel corso della sua vita
raccolse pregiati pastori, veri
pezzi unici, donandoli poi nel
1877 all’istituzione museale.
Realizzato tra il XVIII e XIX
reggia di caserta, particolare del presepe
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sono attive tutto l’anno e da
dicembre a gennaio ha luogo
una grande esposizione e vendita dei presepi e pastori, con
pezzi unici esportati in tutto il
mondo che rinnovano l’antica
rinomanza del presepe napoletano. Le bancarelle di San Gregorio Armeno offrono qualcosa
di più di una rappresentazione
scenografica. Oltre a essere il
luogo in cui si celebra l’evento
più importante per il mondo
cristiano, vengono ritratti tipici
atteggiamenti, peccati e usanze del mondo intero, un luogo
in cui si perpetua la tradizione
artistica, estetica di un popolo,
ma anche un luogo dove gli
eventi contemporanei, cittadini,
nazionali o mondiali irrompono
con la realizzazione di personaggi che potremo definire degli “infiltrati storici”. E da San
Gregorio Armeno proseguiamo
per il centro storico anch’esso
ricco di testimonianze dell’arte
presepiale. Nel complesso di
Santa Chiara, a pochi passi
da piazza del Gesù, si conserva
il più classico presepe gesuitico che coniuga i canoni ecclesiastici con la prorompente
vitalità delle scene popolari, fino
all’adiacente chiesa di Santa
Marta in cui il presepe occupa
un’intera parete. Di particolare
interesse è il presepe con figure
mobili conservato nella chiesa dello Spirito Santo, in
Via Toledo. Mentre nella chiesa
di Santa Maria del Parto,
reggia di caserta, salvatore fergola, bozzetto per un presepe, grotta con volo degli angeli
subito dopo Vico Equense, incontriamo Seiano, antico casale del territorio equense. Una
gita a Seiano è l’occasione per
visitare un caratteristico presepe allestito nella cripta della
chiesa di San Marco, proprio nella piazzetta del paese.
E’ una sacra rappresentazione
della natività che, riprende i
modi e le scene della tradizione presepiale settecentesca. In
un ambiente sotterraneo ricco
di atmosfera il visitatore scopre
una nuova realtà, ha l’impressione di non essere un semplice
visitatore, ma piuttosto parte
integrante di un mondo fantastico. E’ accolto da due piccole
nicchie: una, a destra, con San
Giuseppe falegname, l’altra a
sinistra, con l’Annunciazione
dell’Arcangelo Gabriele alla
Vergine Maria mentre è intenta
a filare; si sviluppa lungo dieci
stazioni di cui sette più grandi da un lato e tre più piccole
dall’altro. I sette “scogli” principali, propongono scene della
vita quotidiana, e lentamente
conducono all’evento principale
per poi riprendere ad illustrare
le arti e i mestieri, dove si illustrano le più antiche attività di
Seiano, a cui sono dedicate appunto le tre scene più piccole.
Da Napoli procediamo per
Caserta, dove una visita va
fatta al presepe conservato nella Reggia, ammirevole per la
grande esibizione scenografica,
datato al XVIII secolo, composto da milleduecento figure
risistemate in loco nel 1844,
data in cui fu incaricato Salvatore Fergola, pittore di corte,
per la composizione di quattro vedute che rappresentano
il presepe, che oggi ornano la
Sala dov’è conservato, e che
13
nati secondo i modelli originali.
E’ su questo sfondo che viene
collocata la scena della Natività,
lo schema è quello del presepe napoletano del settecento.
Suggestiva risulta anche la rappresentazione del presepe vivente di Teano, dove gruppi di
fedeli fanno rivivere la magia
del presepe tra le chiese e i
borghi, con la collaborazione di
vetrine e botteghe. Da Caserta
salerno, presepe dipinto
14
svolgono nella provincia di Caserta. Caratteristica è quella di
Vaccheria, piccola frazione di
Caserta, che non ha una tradizione molto lunga, ma l’attenzione e la cura poste nell’allestimento ne garantiscono l’interesse. I figuranti si muovono in
un ambiente che ripropone uno
spaccato di vita del XVIII secolo,
utilizzano attrezzi autentici e
indossano abiti di foggia settecentesca, fedelmente confezio-
ci spostiamo verso Benevento
dove dal 28 novembre presso
il palazzo Paolo V avrà inizio la
II Mostra presepiale intitolata
“Era notte e pareva miezijuorno” organizzata dall’Associazione Amici del Presepe. E da
Benevento molto piacevole è
una visita nel piccolo borgo di
Morcone, dove, come ogni anno, sarà ospitato il suggestivo
Presepe vivente, denominato
“Il presepe nel presepe” che
porta numerosi visitatori nelle strade del centro storico: la
scena della Natività è in porta
San Marco, l’Annunciazione e
la cavalcata dei Magi in piazza
San Bernardino. Da alcuni anni il Presepe si arricchisce della
presenza di figuranti come gli
“Ndocciati” di Agnone, con la
caratteristica torcia umana.
La tradizione del presepe continua da Benevento ad Avellino
dove nell’incantevole Santuario di Montevergine trova
posto il “Presepe del Mondo”, una mostra permanente di presepi di varie regioni
d’Italia e di altre nazioni del
mondo che documentano le
diverse realtà storiche e geografiche: molti presepi in mostra
provengono da nazioni lontane, come Messico e Vietnam. A
pochi chilometri dal capoluogo,
si può ammirare il suggestivo
Presepe Vivente di Forino,
rappresentato nella zona conosciuta come il Corpo di Forino,
costituita dalla cittadella fortificata sviluppatasi attorno al
Palazzo dei Principi Caracciolo,
risalente al XV secolo. Si accede
al Presepe attraverso la porta
principale del Corpo, attigua al
palazzo, mentre le scene presepiali trovano posto nelle cantine,
nei portoni e nelle stradine del
centro, spaziando dalla tradizione biblica e cristiana a quella
popolare forinese, di cui documentano anche arti e mestieri.
Vale la pena spostarsi in pro-
vincia di Salerno, precisamente
a Sarno, dove oggi è possibile
ammirare tre presepi che si
dipanano lungo la fascia pedemontana: uno in frazione Episcopio, un altro nell’antico Borgo de foris civitatis, ed il terzo
visibile nel dedalo di viuzze alle
spalle del monumentale municipio. Usano come scene vicoli
e case, e il terzo presepe presenta anche strutture architettoniche permanenti realizzate
ex novo. Chi giunge a Sarno, nel
periodo natalizio, ha l’impressione, estremamente suggestiva,
di aver fatto un viaggio a ritroso nel tempo. Il presepe vivente
nella zona dell’Episcopio, è il più
vecchio, si ripete da circa venti
anni e si articola nelle strade
più antiche della frazione. La
Natività è collocata in una stalla
tuttora funzionante. All’interno
di un vecchio “basso” un gruppo
di pastori e contadini intreccia
ceste di sarcine, mentre nella
bottega del fornaio esce l’intenso odore del pane appena cotto.
Per vari giorni, ogni sera, si ripetono antichi gesti, antichi suoni
e odori e il tempo si sospende. Il
più recente è il presepe del Borgo, ai lati della strada si trovano
portoni che introducono in case
a corte dalla pianta complessa
dove rivivono arti e mestieri tipici del luogo. I vari personaggi
che rivivono le scene tipiche del
presepe napoletano, si incastonano nel contesto urbanistico
ed architettonico in maniera or-
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hanno ispirato l’attuale allestimento, realizzato nel 1988. I
pastori di Caserta presentano
spesso abiti di seta con ricami
al filo d’argento o d’oro e bottoni d’argento. In alcune figure
è riconoscibile qualche personaggio di corte: una satira mordace sempre viva nel popolo.
Molte sono le rappresentazioni
di presepi viventi, che ogni anno,
durante il periodo natalizio, si
presepe, particolare
ganica. Il terzo presepe vivente,
più che decennale, è ambientato a ridosso del colle, in una delle più antiche zone del paese,
con vecchie case e vicoletti che
si inerpicano su per la collina.
Più accurato nei costumi, più
accentrato e raccolto, è incentrato sulla Natività. Anche qui
le scene profane riproducono
la vita quotidiana quale in passato doveva essere nel paese.
Particolarmente interessante e
sicuramente da vedere è il presepe dipinto di Salerno. Nella trecentesca aula annessa alla
Cattedrale di Salerno, due
angeli posti nelle ogive ai lati
del portale d’ingresso accolgono
i devoti: uno regge un cartiglio,
l’altro si abbandona al dolce
suono della mandola. Al centro
nell’arcosolio, una candela accesa spicca su un cielo azzurrino.
Sagome simili a carte da gioco
tenute in piedi da un invisibile
giocoliere costituiscono questo
suggestivo presepe. Opera eseguita dal pittore Nicola Carotenuto, rappresenta l’immagine
autentica della città, colta nell’attimo della natalizia serenità e
confusa nel fantastico racconto
di altre epoche e di altri luoghi.
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Tozzetti di baccalà in pastella con salsa di capperi
Spiedino di carne misto in brodo di verdure nostrane
Pappardelle di crêpes con funghi porcini e frutti di mare
Filetto di spigola mandorlato su letto di scarole
Struffoli
Cassata
Piedirosso dei Campi Flegrei Doc - Pietraspaccata
Napoli, nel tempio della tradizione
Q
uando ti viene voglia di
tradizione, è a Santa
Brigida che devi andare.
Qui da Ciro non si seguono le mode, ma si suona ogni
giorno lo spartito dell’ortodossia
partenopea: nel luogo in cui – da
Marconi alla Bergman, sempre
lei – sono passati tutti è così più
o meno da una settantina d’anni.
Chi cerca il frisson della novità è
gentilmente pregato di rivolgersi altrove: da Ciro trovi i sapori codificati
di sempre, e il piacere della riconferma non fa rimpiangere quello
della scoperta.Anche perché a fare
gli onori di casa tra il piano terra
e il primo piano veleggia sempre
Luciano, cameriere anarchico, scrittore d’avanguardia e formidabile
memoria storica della città che ti
accoglie come se fosse ieri l’ultima volta che hai varcato la soglia.
Siedi al tuo tavolo e anche se dalla precedente visita sono trascorsi
venti anni ti senti subito a casa, pur
nel brusio e nel chiacchiericcio (e
del pezzo di carne: che secondo il
canone andrebbe mangiato a parte, ma che lo chef elargisce insieme
alla pasta come un gradito eccesso
barocco. E poi rigatoni ricotta e polpettine, carbonare, ragù, scarparielli
e tanto ancora, fino alle ricette delle
nostre nonne, come avviene per la
braciola di maiale perfetta per le
operazioni-nostalgia ( e sul bancone
Giorgio Baiano
dei contorni vedi tutto del territorio);
l’andirivieni di profumate pizze) in mentre dal carrello dei pesci ricco
cui anche gli oggetti sono un tuffo come una natura morta di scuola
proustiano nel passato: le preziose posillipina occhieggiano pezzogne,
appliques di Capodimonte rappre- cocci, saraghi. Oggi è il turno della
sentanti le maschere italiane e ge- spigola (mandorlata e su letto di
losamente custodite dal patron An- scarole). Subito dopo avanza il cartonio Pace ci sono ancora, anche se rello dei dolci: un trionfo di cannoli
non tutte e ventiquattro.“Una l’ho e babà e fragole, cassate napolerotta proprio io” confessa Luciano, tane e caprese (all’arancia). E di
e intanto leggi il menu double face: struffoli, le dorate palline immerse
lo capovolgi, lo rigiri e diventa carta nel miele senza le quali le feste
dei vini.Tra i primi piatti dominano natalizie sarebbero un po’ meno
gli ziti, prima sotto forma di sforma- feste. Così soddisfatti, ci si congeda
to alla siciliana, indi alla genovese. non con un addio ma con un arri“Scura, lucida e densa” come Je- vederci prima dell’obbligatoria tapanne Caròla prescrive, e completa pa nella vicina Galleria Umberto.
www.ciroasantabrigida.it
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Ciro a Santa Brigida
Napoli
indirizzo Via Santa Brigida 71/73
80132 Napoli
telefono 081 5524072- 5528992
chiusura domenica
carte di credito tutte
A persona
euro 55.00
vini inclusi
16
Con la funicolare di piazza Fuga, scendere
a Via Roma e proseguire sulla sinistra. La
prima traversa a destra è via S. Brigida. Da
piazza Municipio imboccare via Verdi e la
prima sulla destra è via S. Brigida.
17
18
L
’itinerario può cominciare dal
Teatro San Carlo, il più noto
teatro Lirico di Napoli, intitolato a San
Carlo in omaggio a Carlo di Borbone
e attualmente in restauro.
Con l’arrivo di Carlo di Borbone, nel
1734, Napoli era già una delle più
popolose città d’Europa, ma anche
una metropoli che doveva ritrovare
se stessa e la propria identità urbana. Fu proprio con il re Carlo che la
città venne investita da un ambizioso
programma edilizio.Tra i primi edifici
voluti dal sovrano è la costruzione
del Teatro Reale, nei giardini vicereali.
Questa iniziativa rappresentò l’ultimo
atto di una intensa politica di sviluppo del teatro napoletano, che aveva
il proprio punto di forza nelle rappresentazioni tenute nella Sala Grande
del Palazzo Vicereale, affiancato al
Teatro di San Bartolomeo, che assumeva in tal modo un ruolo privilegiato rispetto agli altri teatri napoletani.
Difatti, già sul finire del XVII secolo, il
San Bartolomeo ospitava scenografi e
teatro s. carlo, dettaglio della facciata
palazzo reale da piazza plebiscito
architetti del calibro degli Schorr o di
Galli Bibiena, e proprio per accogliere
le scenografie di quest’ultimo nonché
il vasto pubblico che questi riusciva
ad attirare, nel 1696, per volontà del
vicerè duca di Medinaceli, l’edificio
era stato ampliato. Nel 1737, anziché proporre un ulteriore ampliamento del teatro, ormai impossibile, il Re
decise di edificarne uno nuovo. I lavori
furono affidati a Angelo Carasale e
all’architetto regio Antonio Medrano, il
nuovo teatro fu inaugurato nel 1739.
L’imprenditore Carsale ricevette in
permuta il sito del vecchio Teatro, tra
via Medina e rua Catalana, e qui vi
realizzò la Chiesa della Grazianella
e due Palazzetti. Il Teatro San Carlo,
per la sua posizione, condizionò fortemente anche il progetto di ampliamento del Palazzo Reale, fortemente
voluto dal Re già nei primi anni del
suo Regno e con molta probabilità,
elaborato a partire dalla metà degli
anni Quaranta del secolo.
La facciata monumentale del Teatro
San Carlo è bellissima con un primo
livello in bugnato grigio ed un secondo
scandito da colonne ioniche, sovrastato
da un grandioso timpano e da altorilievi. L’interno è suggestivo, la platea e
Napoli
i sei ordini di palchi splendidamente
decorati con una profusione di ori e
stucchi, sono dominati al centro dal
Palco Reale, con l’insegna del Regno
delle Due Sicilie mentre il soffitto fu
affrescato da Cammarota con scene
del “Parnaso”. Dotato di una invidiabile
acustica, venne immediatamente consacrato a tempio della musica europea,
arrivando addirittura a contendersi il
primato con Vienna. Fra i suoi direttori
il San Carlo ebbe Donizetti e Rossini.
Di fronte al Teatro San Carlo è possibile ammirare la bellissima Galleria Umberto I. La sua costruzione
avvenne in un contesto di ristrutturazione edilizia e bonifica territoriale
resesi necessarie in seguito all’epidemia di colera del 1884. Furono sfollati
interi quartieri, e venne nominata una
commissione di professionisti cittadini,
per valutare i progetti di ricostruzione.
Nella ricostruzione, rientrava l’area di
Santa Brigida che prevedeva la demolizioni degli edifici preesistenti e
l’edificazione di quattro ampi edifici,
il piatto tipico
galleria umberto
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Il San Carlo e la Galleria Umberto
teatro san carlo, interno
collegati e impreziositi da una grande galleria in ferro e vetro, progettata
dall’ingegner Paolo Boubée.
La Galleria è formata da quattro ingressi, il più valorizzato è quello che
fronteggia il Teatro San Carlo, con un
porticato leggermente arcuato, che
forma un piccolo slargo, e una facciata sulla quale sono evidenti statue di
marmo e nicchie. Inaugurata ufficialmente nel 1892, la Galleria divenne
sede, tra la fine dell’800 e gli inizi del
900, di un centro artistico mondano
molta in voga all’epoca, al suo interno
era il Salone Margherita che ospitò
i maggiori artisti del varietà. Dopo una
fase di decadenza nel periodo tra la
prima e la seconda guerra mondiale,
attualmente è un ampio ed elegante
salotto cittadino, rappresenta uno dei
principali gioielli della città, a completamento di una zona già ricca di monumenti, strade e piazze importanti.
(M. M.)
Struffoli
Napoli
li struffoli rappresentano la memoria storica delle origini greche
dell’antica città di Palepolis, l’attuale Napoli, e vi giunsero venticinque secoli fa con i primi coloni greci, come indica l’etimologia del nome:
in greco stroggùlos significa «di forma rotonda». Di solito le palline di pasta
fritte e affogate nel miele, vengono modellate ad anello su un largo piatto
o in forma conica e guarnite con frutta candita e confettini Una presentazione barocca li vuole traboccanti da una cornucopia di croccante,
simbolo di abbondanza, ogni pallina mangiata sarà un soldo guadagnato
nell’anno nuovo. Il malizioso e simpatico duca Ippolito Cavalcanti nel
suo ricettario Cucina teorico-pratica (VII ed. 1852) racconta: quando ne
ho dovuto fare un complimento a delle Signore, queste mi han chiesto che
modellassi gli struffoli in forma di palle, che ci sentivano più gusto!
G
19
Scarole imbottite, mussillo di baccalà affumicato
Minestra maritata
Zuppa di lenticchie e castagne
Linguine alla puttanesca
Ragù misto (braciole, salsicce, polpette) con friarielli
Susamielli, Roccocò, Cassatina napoletana e Babà
Biancolella d’Ischia
Gragnano
A persona
euro 50.00
vini inclusi
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Elogio della «mattozzità»
A
lfonso Iaccarino, Alfonso
Caputo della «Taverna del
Capitano», Alfonso Gallotti
della «Taverna dell’Arte», Alfonso
Mattozzi dell’«Europeo», più qualche altro che dimentico: Alfonso
è un bel nome oggi in disuso ma
che si accorda assai bene alla cucina campana. Quanto a quella di
Mattozzi Alfonso nipote di Alfonso
e figlio di Eugenio non si tratta certo di una novità: il ristoratore di via
Marchese Campodisola amante
dei viaggi e del bon mot è una
vecchia conoscenza. L’arte dell’accoglienza non la si improvvisa: qui
vi fanno sentire come un ospite a
lungo atteso, in un’atmosfera mossa e informale ma mai dimentica
dei fondamentali della ristorazione.
Dunque, valzer dei saluti a parte,
nella luminosa rustica allegra sala
con alle pareti istantanee d’epoca,
quadri d’ambiente e caccavelle
di rame riuscirete a ricavarvi un
angolo di gastronomica riflessione
sott’olio e una squisita pizza con i
cicinielli; preludio degnissimo a due
zuppe da “buon ricordo”: eccellente quella di lenticchie e castagne
regna sovrana nel nostro «menu
della memoria». Ai secondi, elogio
della semplicità d’una cucina di
mare che propone il pescato del
giorno: cernia, rombo, scorfano. E
– Mergellina permettendo – offre
Alfonso Mattozzi e Luigi Zomeo
bandiera o altri pesci di relativa
persino nelle ore di punta, solita- nobiltà, ma non meno gustosi di
mente prese d’assalto da una altri più altolocati. Ma anche, coclientela esigente eppur frettolosa. me nel nostro caso, un ragù misto
Siamo nel cuore frenetico della City, come quello di una volta. A seguire,
ma se sarà Alfonso il Loquace a babà come non ne mangi spesso,
prendersi cura di voi potete star e tutti i dolci napoletani delle fecerti che l’esperienza si dimostre- ste, più piccoli cannoli siciliani e i
rà piacevole e, per certi piatti, me- conturbanti gelati-frutto di Lancusi.
morabile. Qui le pietanze (a parte A chiudere Calvados e tante botaurei standard come lo stocco quo- tiglie di anice (greca, macedone,
tidiano e il baccalà bisettimanale) libanese) ultima “fissa” di Alfonso,
seguono stagioni e pesca: dunque, patron dalle molte passioni e un
al via, arriva una grassa mozzarella solo amore: la “mattozzità”, uniodi Cancello Arnone, aromatici do- ne riuscita di saggia napoletanità
bloni di zucchine a scapece, funghi e di cosmopolitismo sornione.
www.europeomattozzi.it
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Europeo
Napoli
indirizzo Via Marchese Campodisola,
4/10 - Napoli
telefono 081 5521323
chiusura domenica e lunedì sera
carte di credito tutte
Con la funicolare di piazza Fuga, scendere a
Via Roma e proseguire in direzione di piazza
Borsa dove sulla destra c’è via marchese
Campodisola. Con il tram 1 o 4 scendere
alla fermata Università e proseguire verso
via marchese Campodisola.
21
22
Napoli
P
asseggiando sul corso Umberto
I guardando le scintillanti vetrine, si troverà la Basilica di San
Pietro ad Aram. Attirerà l’attenzione
del riguardante, il portale dell’ingresso secondario (XVI secolo), da
cui si accede alla chiesa. Questo è
in pietra scolpita a motivi di girali
vegetali e proviene dal Conservatorio dell’Arte della Lana (in vico
Miroballo). L’interno della chiesa
è a croce latina con quattro cappelle laterali, tutte impreziosite da
stucchi. E’ ricchissima di arte e di
storia e una menzione meritano i
bassorilievi del Nauclerio. In essa
si custodiscono opere di eccellente
fattura: nel transetto destro il San
Raffaele di Giacinto Diano, il Battesimo di Cristo di Massimo Stanzione, la Madonna con San Felice
da Cantalice di Andrea Vaccaro. Nel
presbiterio si trovano due tele giovanili del maestro napoletano Luca
Giordano: San Pietro e San Paolo
si abbracciano prima di andare al
martirio e La consegna delle chiavi.
Nelle rimanenti cappelle, tra gli altri,
dipinti di Sarnelli, Pacecco De Rosa,
Giacinto Diano, Cesare Fracanzano
e Nicola Vaccaro.
Lavori di restauro, effettuati nel
1930, hanno portato alla scoperta
di una cripta, di una chiesa paleocristiana e di catacombe: dal transetto
sinistro si scende nella prima che si
rivelò essere poi una chiesa paleocristiana a tre navate, articolate con
colonne monolitiche in marmo.
La chiesa è famosa perché, secondo la tradizione, custodirebbe l’Ara
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Il culto di Sant’Aspreno
cappella di sant’aspreno
cappella di sant’aspreno, colonnato del vestibolo
La cappella in origine era probabilmente la spelonca dove visse e fu
poi sepolto il santo, solo nell’VIII secolo fu creato un modesto luogo di
culto. Nel XVII secolo fu restaurata
su commissione del mercante Salvatore Perrella per grazie ricevute;
nel 1895 subì ulteriori interventi e
fu inglobata nel Palazzo della Borsa.
Internamente notevoli sono i mate-
riali di spolio: il vestibolo con colonne
provenienti, come si è già detto, dal
chiostro di San Pietro ad Aram (distrutto per l’apertura del Rettifilo);
l’acquasantiera in marmo, ricavata
da un’urna cineraria romana ed infine le transenne marmoree, ubicate
a sinistra dell’altare maggiore. Queste ultime, risalenti ai secoli IX-X,
hanno decorazioni che richiamano
il piatto tipico
Napoli, Chiesa San Pietro ad Aram
Petri, ovvero l’altare su cui pregò
San Pietro durante la sua venuta a
Napoli. Secondo la leggenda la struttura religiosa è sorta sul luogo dove,
inoltre, san Pietro aveva battezzato Santa Candida e Sant’Aspreno,
i primi napoletani convertiti, come
ricorda anche l’affresco nel vestibolo
(recentemente attribuito a Girolamo da Salerno). Alla fine del secolo
scorso, con i lavori del cosiddetto
Risanamento, i capitelli del distrutto
chiostro furono trasferiti nel sacello
di Sant’Aspreno in piazza Borsa. Intimamente, dunque, legato al tempio
di San Pietro quello, nei pressi del
porto di Napoli, di Sant’Aspreno al
Porto, famoso anche come chiesa
di Sant’Aspreno ai Tintori (per gli
artigiani che abitavano il quartiere).
le preziose stoffe orientali, di tipo
bizantino con un’iscrizione in greco
dove si leggono i nomi dei coniugi
Campulo e Costanza, indicati come
costruttori dell’edificio ma molto più
probabilmente artefici solo di un restauro. Un’ulteriore testimonianza
di epoca paleocristiana è una pietra
circolare che aveva funzione di fonte battesimale. (G. I.)
Struffoli
Babà
l Babà appartiene alla tradizione pasticciera napoletana nonostante sia
stato inventato dal re di Polonia Stanislao Leszczynski (o più probabilmente dal suo cuoco), suocero di Luigi XV re di Francia, che chiamò
così il proprio dolce preferito in omaggio ad Alì Babà, protagonista delle
Mille e una notte, di cui era appassionato lettore. Il Babà arrivò a Napoli
nella seconda metà del Settecento quando gli scambi tra Napoli e Parigi
erano continui, essendo sorelle le regine di Francia, Maria Antonietta, e
di Napoli, Maria Carolina. A Napoli il Babà fu perfezionato con la lunga
sbattitura della pasta per renderla più leggera e con una triplice lievitazione. Fondamentale la bagna al Rum per conservare la morbidezza al Babà,
tipici della zona di Sorrento i piccoli Babà imbevuti di Limoncello e chiusi
in barattoli di vetro.
I
23
Peperone ripieno
Parmigiana di melanzane
Sartù di riso
Polpi in cassuola
Babà
Gragnano - Vigna Mimì
A persona
euro 40.00
vini inclusi
24
Un’ora di felicità gastronomica
S
iamo, come chiarisce il
nome, dalle parti della
Ferrovia; eppure il fascino dell’ormai storico locale
dei cugini Giugliano è quello di
un affollato e allegro porto di
mare, frequentato anche da
star nazionali e hollywoodiane,
anche del tempo che fu (alle
pareti occhieggiano i ritratti
di Humphrey Bogart e Ingrid
Bergman, tanto per intenderci). Altra attrattiva fondamentale del luogo è rappresentata
dagli antipasti alla Mimì, vero festival delle preparazioni
“all’antica napoletana” con il
peperone imbottito, parmigiana di melanzane che quando
è “riposata” è ancora più buona, la celeberrima mozzarella
aversana, le pizzelle fritte, le
melanzane a scarpone e, come
optional, le gustose ricottine di
pecora e le scarole ’mbuttunate.Tra i primi piatti è d’obbligo
testare il pezzo forte del lo-
a piacere - pesci azzurri, sogliole, gamberoni e calamari
- da scegliere nell’esposizione
all’ingresso, ma non mancano
certo le carni tradizionali: filetto di manzo, bistecca ai ferri,
scaloppine, vitello arrosto e la
cotoletta alla milanese ormai
Foto storica
napoletanizzata da secoli, da
cale, le linguine alla Mimì: con degustare con uno dei tanti
taratuffoli, gamberi e scampi, rossi anche extraregionali comsono sempre all’altezza della presi nella doviziosa lista dei
loro fama, ma quando in car- vini; ma per il suo menu della
ta c’è (come accade in questo memoria, Mimì gioca la carta
periodo) il sartù di riso, scrigno vincente del mare, prevedendo
fastoso di delizie, il consiglio è i polpi in cassuola, piatto che
di non lasciarselo sfuggire: Mi- più napoletano non si può..
mì è infatti uno dei pochissi- Quanto ai dolci, soffice babà
mi locali campani ancora in (con il “creaturo”, un babà migrado di misurarsi con questa gnon d’accompagnamento). E
sontuosa ricetta che rinnova cassata autenticamente sicie rinverdisce l’era mitica dei liana, con il verde pistacchio
monzù, i cuochi della nobiltà intorno: va trangugiata però
infranciosata finiti poi a servi- in fretta, la gente si sta aszio nelle cucine della borghesia siepando minacciosa ai tavoli
napoletana emergente. Pesce e tutti hanno diritto alla loro
fresco, crostacei e molluschi ora di gastronomica felicità.
www.mimiallaferrovia.it
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Mimì alla Ferrovia
Napoli
indirizzo Via A. d’Aragona 19-21 Napoli
telefono 081 5538525
chiusura domenica tranne a dicembre
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Si puo raggiungere con la metropolitana,
fermata Garibaldi; con il tram scendere
a piazza Garibaldi. Con le spalle alla
stazione imboccare il Corso Garibaldi
sulla destra e all’incrocio con via Carriera
Grande girare la prima a sinistra è via
Alfonso d’Aragona.
25
26
Napoli
I
l viaggio nel sottosuolo di Napoli
sotterranea è una delle esperienze
più emozionanti e suggestive per qualunque visitatore. Nessuno conosce le
dimensioni effettive della Napoli buia,
ma gli speleologi hanno censito un totale di circa 700 cavità di quasi un
milione di metri cubi. Si può cominciare
da Piazza San Gaetano, nel centro
antico di Napoli, un percorso attraverso
cunicoli e cisterne. Degno di menzione è il teatro greco-romano visitabile
attraverso il pittoresco ingresso da un
“basso” in vico Cinquesanti. Ma si consiglia di non perdere nel cuore della
città partenopea, la visita alla chiesa
e al convento di San Lorenzo Maggiore che contiene tesori e sepolture di
uomini illustri. Oltre ad essere un prestigioso esempio di architettura angioina
a Napoli, il complesso permette di compiere un viaggio a ritroso nel tempo,
entrando a diretto contatto con quelle
strutture che costituivano l’area del foro
greco-romano: l’anima della città. Sarà
possibile osservare i resti dell’antico
macellum, l’antico mercato di epoca
romana tra il IV e V d. C., costruito su
scavi di san lorenzo maggiore, aerarium
scavi di san lorenzo maggiore, il criptoportico
di uno spazio lungo il lato sud del decumano maggiore. E poi c’è la tholos,
un tempietto di forma circolare posto
scenograficamente al centro dell’area
mercato, che conteneva l’immagine
sacra. Percorrendo una scalinata nei
pressi del chiostro (qui Giovanni Boccaccio incontrò la sua amata Fiammetta il Sabato Santo del 1336) si scende
sotto il manto stradale. L’atmosfera
si fa veramente affascinante e si vive
l’emozione di percorrere le antiche vie
che costeggiavano le botteghe ubicate
nei locali del criptoportico (la struttura
ad archi voltata che recintava l’area
dell’intero macellum). E’ possibile distinguere le antiche lavanderie pubbliche,
le fulloniche (riconoscibili dalle scanalature dell’acqua e dalle vasche in cui si
coloravano i tessuti) e alcuni forni. Sul
lato nord si situano i locali riconducibili
all’Erarium, l’ufficio pubblico di riscossione delle tasse. Questa struttura è
caratterizzata da un’entrata con due
pilastri sormontati da trabeazione, a
differenza delle arcate delle botteghe.
Sotto il pavimento romano sono state individuate mura in grossi blocchi
di tufo riconducibili a IV-V secolo a.C.
Scavi archeologici, compiuti nel primo
Novecento, hanno portato alla luce
questo spaccato della vita pubblica di
Naeapolis e hanno consentito il rilevamento quasi completo della basilica
paleocristiana su cui era stata costruita
la chiesa angioina. Sono state aperte
alla pubblica fruizione anche le fabbriche romane e i pavimenti medievali
sotto l’antica basilica cristiana di Santa
Restituta che agevolmente raggiungerete. Fondata nel IV secolo dall’imperatore Costantino, oggi presenta una
scenografica sistemazione barocca post
terremoto del 1688. E’ leggibile una
stratificazione della città antica dal IV
secolo a.C. al VI d.C. Si incontreranno
vasti ambienti sotterranei e un grande
spazio pavimentato in battuto e circondato da un ambulacro con colonne di
mattoni rivestiti di stucco. Un palinsesto
dall’età greca a quella costantiniana
comprende tutta la prima parte del
percorso di visita, ne fa seguito un altro
fatto di edifici romani sommersi da altri
paleocristiani, a loro volta cancellati in
età angioina. Sotto il cortile della curia
ci sono colonne e parti di pavimenti
mosaicati, datati a età tardo-romana. Si
tratta di mosaici eseguiti su fondo bianco e con soli grandi tessere bianche e
nere. Il linguaggio è ricco di espressione:
un frammento di scena di caccia o un
altro con due pantere ai lati di un vaso.
Questi attirano l’interesse del visitatore,
insieme ad un moncone di colonna in
il piatto tipico
scavi di san lorenzo maggiore, aerarium
scavi in santa restituta. sotto gli splendidi mosaici
bellissimo marmo africano. A un’altra
basilica paleocristiana dedicata al Salvatore (ma detta Stefania dal nome
del vescovo che alla fine del V secolo
la fece erigere) appartengono preziosi
MENU DELLA MEMORIA
MENU DELLA MEMORIA
A spasso nel tempo fra gli scavi
mosaici decorati da motivi astratti, croci,
serpentine e stelle, composti insieme
con grande sapienza. Insomma la città
si svela al visitatore sin nelle sue viscere
più profonde…(G. I.)
Struffoli
artù di riso
in dal Rinascimento la scenografia della tavola ebbe enorme importanza e grande risalto acquistò il centrotavola, chiamato surtout,
pezzo monumentale di oreficeria o porcellana, munito di numerosi bracci
per sostenere vassoi, piatti, contenitori, candelabri. Sul braccio centrale,
più alto degli altri troneggiava il piatto più importante e scenografico del
pranzo, detto appunto surtout, che sta sopra di tutto. Sulle tavole aristocratiche napoletane questo posto d’onore era riservato ai monumentali
timballi di pasta o di riso. Ancora oggi il Sartù di riso, particolarmente
ricco ed elaborato, è uno dei pilastri della cucina festiva, la sua sontuosa
presenza solennizza le ricorrenze importanti e soprattutto il cenone di
Capodanno perché il riso porta bene: ogni chicco mangiato corrisponde
ad un soldo che si guadagnerà nell’anno che sta per cominciare.
S
27
Polipetto verace al pignatiello con cialda di pane cafone
Paccheri di Gragnano
con ragù napoletano e ricotta di bufala
Coroniello di stoccafisso
con pomodorini del piennolo e olive di Gaeta
Migliaccio con salsa all’arancia
Gragnano - Cantine Grotta del Sole
Passito Mel - A. Caggiano
A persona
euro 35.00
vini inclusi
28
Apoteosi partenopea in tavola
P
iù che ortodossia, apoteosi partenopea: arrivò
in tavola un Vesuvio di
carta argentata, sciogliemmo
il tovagliolo annodato che teneva insieme il cartoccio, e
fummo travolti dagli effluvi di
mare che promanavano dallo
scrigno violato: cozze e vongole e seppioline e gamberetti e
polipetti nel loro sugo... Era il
cartoccio di pasta (tubettoni, o
altro) della mia prima volta da
«Napoli Mia». Questo locale
tra via Cristoforo Colombo e
piazza della Borsa, infatti, lo
abbiamo visto nascere, crescere e stagione dopo stagione
migliorarsi attraverso l’umile
tenacia e la silenziosa passione. Così Antonella (ai fornelli) e
Corrado (in sala) sono riusciti a
creare un’oasi di buon gusto e
di buone pietanze senza mai
tradire la linea di convivialità
partenopea insita già nel nome.
E dunque, a distanza di anni,
trascurare gli incontri con la
tradizione: in particolare, quello
con l’impegnativo ragù «pippiato» a oltranza, perfettamente
sposato ai paccheri gragnanesi. Chissà se riuscirebbe a far
cambiare idea a Eduardo De
Filippo, secondo cui l’unico ragù
possibile era quello che gli faceva mamma’ («A che m’aggio
Antonella Rossi
spusato a te, ne parlammo pe’
ritrovi gli antipasti genuini che parlà», osservava cinicamente
ti avevano colpito la prima il drammaturgo di «Sabato,
volta, ma anche sorprendenti domenica e lunedì», ma non
accostamenti: d’estate, l’insala- certo Corrado che di Antonella
ta di polpo, carote e sedano si è anche consorte). E lei è pure
fregia dell’aggiunta di piacevo- provetta pasticciera: una volta
lissime fettine di esotico cocco, della sua scomposta di millefoe i pomodori calabresi secchi glie con crema di ricotta, miele e
sono ripieni di calamarelle, pe- amarene un ammiratore scrisse
scespada, pinoli, peperoncino che era una delle cinque cose
verde tagliato sottile sottile... per cui valesse la pena vivere
Azzardi e scommesse vincenti (e io sono ancora alla ricerca
di Antonella che, acquistata or- delle altre quattro); oggi, nel
mai consapevolezza dei propri periodo delle festività, propone
mezzi, si misura con juicio con un altrettanto delizioso migliacla creatività. Senza però mai cio abbinato a salsa d’arancia.
Napoli Mia
indirizzo via Matteo Schilizzi, 18-20
Napoli
telefono 081 5522266
chiusura domenica. Dal lunedì al sabato
aperto solo a pranzo, venerdì e sabato
aperto anche a cena.
carte di credito tutte
Con la funicolare di piazza Fuga, fermata
via Roma, direzione piazza Municipio,
via De Gasperi, via Schilizzi. Con il tram
I o 4 scendere a piazza Municipio-Molo
Beverello, via De Gasperi, via Schilizzi.
MENU DELLA MEMORIA
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Napoli Mia
Napoli
29
“
…Ma che muraglie minacciose
vedo? Una fortezza, nel cuore
della città? Proprio così. L’osservo affascinato” (Herman Melville
1857). E’ Castel Nuovo (denominato così per distinguerlo dalle più antiche residenze reali di Castel dell’Ovo
e Castel Capuano), noto anche come
Maschio angioino. L’immagine della fortezza è fra quelle che meglio
rappresentò Napoli nel mondo, per
la sua collocazione sul mare che ne
lambiva un lato fu ripreso da molti
pittori e incisori con gusto cartolistico. Giganteggia al centro di Piazza
castel nuovo, cappella delle anime del
purgatorio
30
Municipio nella cui parte alta sorge
Palazzo San Giacomo (sede del
Comune di Napoli) che incorpora la
cinquecentesca chiesa di San Giacomo degli Spagnoli con la tomba
monumentale del vicerè Pedro da Toledo. L’imponente struttura fu eretta
nel 1279 da Carlo I d’Angiò, su progetto dell’architetto Pierre de Chaule e sin fin dalla sua fondazione fu
chiamato Castrum Novum. Durante il
regno angioino di re Roberto il saggio
che vi ospitò artisti e letterati tra cui
Giotto, Petrarca e Bocaccio, il castello
raggiunse il suo massimo splendore.
Nel 1442, con la conquista del regno da parte di Alfonso d’Aragona,
fu gradualmente ricostruito, secondo
le esigenze difensive del secolo XV,
con l’intervento dell’architetto maiorchino Sagrera. Oggi presenta una
pianta trapezoidale ed è circondato
da un fossato dove poggiano gli alti
basamenti delle cinque torri cilindriche. L’arco di trionfo, eretto per
celebrare l’entrata a Napoli di Alfonso d’Aragona nel 1443, segna il suo
accesso e ne costituisce il principale
ornamento. Infatti, i magnifici rilievi
scultorei sono tra le più significative
opere di scultura rinascimentale nel
Meridione. All’interno del castello è
ubicato il Museo civico che conserva affreschi, dipinti (il nucleo più
consistente proviene dalla Casa Santa
dell’Annunziata) e sculture (di Laurana, Gaggini e Malvito e molti altri)
dal XIV al XX secolo: testimonianze
storiche di un eccezionale mecenatismo. Nell’itinerario di visita è possibile
ammirare, tra l’altro, la trecentesca
Cappella Palatina, l’unico edificio
a conservare l’aspetto primitivo, con
resti di affreschi del ciclo giottesco
(realizzati tra 1329 e 1331 con Sto-
castel nuovo, sala dei baroni
castel nuovo
rie del Nuovo e Vecchio Testamento).
Gli affreschi, esposti alle pareti della
cappella, provengono dal Castello di
Casaluce (Aversa) e il loro principale autore è Niccolò di Tommaso da
Firenze su commissione della regina
Giovanna I e dei suoi più stretti cortigiani. Straordinarie anche le cappelle
dedicate rispettivamente alle Anime
del Purgatorio e a San Francesco di
Paola e ancora la Sala dei baroni,
sede di rappresentanza dei sovrani
aragonesi. Quest’ultima è uno dei capolavori del Sagrera: uno spazio monumentale dalla complessa copertura,
aperta al centro da un oculo (possibile ricordo delle rotonde dell’antichità,
ancor oggi visibili a Baia). Dopo la
biglietteria, sulla sinistra un ascensore
vi condurrà sulle terrazze del castello
dove si gode una vista mozzafiato
della città! Nell’ambito di interventi di restauro e valorizzazione del
Napoli
complesso monumentale sono stati
restituiti, inoltre, alla pubblica fruizione alcuni ambienti della cortina
orientale del castello dove, nel corso
di uno scavo, sono state rinvenute importanti testimonianze archeologiche
di epoca romana databili tra la fine
del I secolo a.C. e la seconda metà
del V d.C. Nell’ambiente denominato
Sala dell’armeria, un tempo destinata a magazzino di artiglieria, sono
state riportate alla luce una necropoli
altomedievale e significative tracce
del castello angioino. Nel corso dei
lavori di scavo per la realizzazione
della Stazione della Metropolitana
in Piazza del Municipio, sono emersi
notevoli e vasti reperti archeologici.
L’area è attualmente recintata, ma
i reperti sono perfettamente visibili.
Si tratta di mura e ambienti ancora
da datare, anche se paiono riferiti a
un’epoca tra la fine dell’età romana
e l’inizio del Medioevo. Sulla scorta di
documentazioni d’epoca, le costruzioni vennero ricoperte con la colmata
il prodotto tipico
MENU DELLA MEMORIA
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Piazza Municipio: un simbolo della città
castel nuovo, interno della sagrestia nella cappella di santa barbara
resasi necessaria per la spianata del
Maschio Angioino alla fine del Duecento. Si tratterebbe probabilmente
dei resti degli edifici che sorgevano
intorno alla chiesa di Santa Maria
ad Palatium, se non, addirittura,
proprio di questo edificio di culto, la
cui demolizione portò alla costruzione del monumentale complesso di
Santa Maria La Nova.
Nella zona di via Medina, vicino a Piazza Municipio, desta curiosità la stretta
Rua catalana, nota per le tante botteghe specializzate nella lavorazione
del ferro, del rame e della latta. Questa
strada e quelle limitrofe sono divenute
un allestimento stabile di ironici lampioni e sculture in ferro, firmate dai
maestri lattonieri. Magari può essere
divertente farvi un salto! (G.I.)
Pasta
Struffoli
di Gragnano
ragnano, fondo coltivato a cereali della gens Grania, sin dall’etimologia del nome rivela l’antica vocazione a essere Capitale della pasta.
Qui, dalla metà del XVI secolo, ebbe inizio la produzione dei maccaroni,
favorita dalla naturale posizione geografica e dal particolare microclima
che assicuravano la giusta umidità e la ventilazione ideale per essiccare
la pasta all’aperto nelle strade. Determinante fu anche la presenza, lungo
il torrente Vernotico, di oltre 20 mulini per la macinazione del grano e
di numerose sorgenti di acqua dalle caratteristiche minerali uniche per
realizzare l’impasto con tecniche e segreti tramandati di padre in figlio.
Ancora oggi le aziende di Gragnano sono in grado di garantire alla pasta
caratteristiche qualitative eccezionali e una vasta gamma di formati da
abbinare ai sughi e condimenti più diversi.
G
31
Sformatino d’anguilla con ripieno di «rinforzo»
Zuppetta di scarola con «struffoli» d’acciuga
Timpano di paccheri al ragù ripieni di ricotta
Variazione di baccalà:
fritto, arrostito con broccoli di Natale, coppetta in cassuola
Roccocò morbido con salsa d’arancia
Selim De Conciliis
Fiano Pietracupa
Piedirosso Mustilli
A persona
euro 45.00
vini inclusi
32
Lo chef che reinventò la pizza
V
ariazione di baccalà,
esplosione di carciofo,
stratificazione di pastiera. Se certe espressioni non vi
spaventano, «Palazzo Petrucci»
è il vostro ristorante. Coraggiosamente moderno in una delle
piazze architettonicamente più
classiche di Napoli, in cucina
vanta la presenza del poco più
che trentenne Lino Scarallo, partenopeo in esilio che alla «Maschera» di Avellino aveva dato
prova del suo innovativo talento
e che, ritornato in patria, si cimenta con la sfida più difficile,
risvegliare la sua città dal sonno gastronomico. Il tutto con un
servizio puntuale senza essere
sussiegoso (Antonio e Maurizio),
cura dei dettagli che fanno la
differenza (presa in consegna
dei soprabiti, visita guidata alla scelta del tavolo, luci giuste
e, segno di vero rispetto per
l’ospite, piatti caldi a pietanze
calde). Detto questo, avrei detto
Lino Scarallo
ancora poco se non aggiungessi che abbiamo a che fare con
un menu di prima qualità sia
per ingredienti (il lungo periodo
irpino ha lasciato su Scarallo
ottime conseguenze) che per
esecuzione tecnica: a cominciare dal benvenuto, che è spesso
una semplice lasagnetta tutta di
crudo (zucca, zucchina, gambero, fiore di sale affumicato, olio
cilentano a profumare), un boccone di piacere per prepararne
altri, e più intensi. Attenzione: la
sovrastante cucina (il locale è su
due livelli) non ha nemmeno un
www.palazzopetrucci.it
fuoco ma è tutta a induzione; il
bello è che Scarallo, come nei sogni degli chef, è entrato in cucina
ed era già così come l’avrebbe
voluta lui, perché il palazzo è
storico e la fiamma è vietata.
E tanto per far uscire dai gangheri i seguaci della santa fede
gastronomica ci sono i paccheri
all’impiedi. Per l’occasione li troverete nel sontuoso timpano, e
ripieni di ricotta. Le carni sono
dell’irpino Carrabs; mentre i formaggi li procura il prof Vespucci
ex Marennà, quello che conosce
le vacche podoliche per nome),
il baccalà lo reinventa in almeno
tre modi diversi. Però Scarallo ha
cuore di chef e mani di pasticciere: che stratificano la pastiera,
cilindrizzano il cioccolato, cubizzano l’annurca o come in questo
caso rendono morbido il coriaceo
roccocò. Oserà Scarallo riproporre anche nella paese della pizza
la metamorfosi di «margherita»
con cui stupì Avellino e provincia?
MENU DELLA MEMORIA
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Palazzo Petrucci
Napoli
indirizzo piazza S. Domenico Maggiore, 4
NAPOLI
telefono 081 5524068
chiusura domenica sera e lunedì a
pranzo
carte di credito tutte
Si trova nel Centro storico di Napoli.
Facilmente raggiungibile con la
metropolitana (fermata Dante) o con
la Funicolare centrale. Nelle adiacenze
ci sono parcheggi a pagamento.
33
34
L
a Cappella dei Sansevero
ubicata nei pressi della piazza
San Domenico Maggiore, fu costruita
verso il 1590 da Giovanni Francesco
Sangro, adibita a cappella sepolcrale
della famiglia ed inizialmente unita da
un cavalcavia al Palazzo Sangro che
consentiva ai membri della famiglia
di accedere direttamente al luogo di
culto.Varie sono le opere che si possono ammirare all’interno della stessa,
tra queste gli affreschi della volta, i
marmi colorati, i medaglioni dei cardinali e le statue che celebrano le virtù
dei componenti della famiglia (Amor
divino, Disinganno, Pudicizia, Zelo religioso, Liberalità). E’ inoltre conservata
una scultura del Cristo velato di grande
valenza storico artistica: opera di Giuseppe Sanmartino risalente al 1753,
realizzato in marmo trattato con arte
certosina tanto da dare l’impressione
Cappella SanSevero, Francesco Queirolo,
il disinganno, particolare
Cappella SanSevero, Francesco Queirolo,
L’educazione, particolare
di essere un velo poggiato sul corpo del
Cristo morto. Secondo la testimonianza
dello storico Cesare d’Engenio (1624)
la fondazione della cappella potrebbe
fissarsi intorno al 1590, quando Giovan
Francesco di Sangro duca di Torremaggiore, avendo fatto voto durante una
grave malattia, fece costruire in una
parte del giardino del suo palazzo
una «piccola cappella» per venerare
un’immagine della Vergine della Pietà.
Nel 1608 Alessandro di Sangro, figlio
di Giovan Francesco, ampliò l’ambiente
primitivo «perché non era capace al
concorso di molti, che la frequentavano
per gli infiniti miracoli» e destinò la
cappella, oltre che ai compiti di culto, a
luogo di sepoltura per la sua famiglia.
Il luogo sacro divenne presto meta di
pellegrinaggio popolare e conseguente oggetto di invocazioni. Sull’ingresso
della Cappella è visibile una lapide dedicatoria del 1613, di Alessandro de’
Napoli
Sangro di Sansevero, nipote di Giovan
Francesco, Patriarca di Alessandria ed
Arcivescovo di Benevento, che decise di
ampliare la preesistente piccola costruzione per renderla degna di accogliere
le spoglie sue e dei suoi discendenti. La
“Pietatella” così chiamata, diventa, la
cappella gentilizia della famiglia ed i
lavori si susseguono, con l’intervento di
artisti più o meno noti dell’epoca, fino
al 1642 quando, nuovamente, si interrompono per oltre cento anni. I lavori
riprenderanno, infatti, solo nel 1744,
con il VII Principe di Sansevero, Raimondo di Sangro, e saranno portati avanti
per tutto il successivo trentennio. A
testimoniare questa attività troviamo la
lapide che oggi campeggia all’esterno,
sulla destra del portale laterale della
Cappella, quella che era però, anticamente, la porta principale:
“O passeggero, chiunque tu sia, cittadi-
no o straniero, entra e adora l’immagine della Pietà Regina già da anni prodigiosa.Tempio gentilizio già sacro alla
Vergine e abilmente ampliato nell’anno
1767 da Raimondo de’ Sangro Principe
di Sansevero stimolato dalla gloria dei
suoi antenati, per conservare all’immortalità nei sepolcri le ceneri sue
e dei suoi. Guarda scrupolosamente
con occhi attenti e contempla ahimè
piangendo le ossa degli eroi cariche
di meriti. Quando avrai dato opportunamente culto alla Madre di Dio, un
contributo all’opera, e ai defunti ciò
che è giusto, pensa seriamente anche
a te.Va’ pure.”
La Cappella è costituita da una navata unica, risalente al 1590 di forma
rettangolare, alla quale si accede dal
fondo. Otto cappelle laterali (quattro
per lato) si snodano fino all’altare
maggiore mentre al centro dei due
lati lunghi, rispettivamente a sinistra e
destra entrando, si aprono la porta di
cui si è già detto e l’accesso alla “cavea
sotterranea”.
Cappella
SanSevero,
Francesco
Maria Russo,
dettaglio
di un affresco
della volta
Gran parte delle opere presenti all’interno della chiesa furono commissionate da Raimondo di Sangro ed a lui
si doveva anche la pavimentazione,
costituita da un mosaico bianco e
nero simboleggiante un labirinto (un
frammento del pavimento originale,
sostituito agli inizi del ‘900 si trova oggi addossato al muro della “cavea”) di
chiaro influsso massonico. Da un allegato al testamento del principe si evince
che originariamente ogni cappella doveva essere dedicata ad un antenato
MENU DELLA MEMORIA
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La Cappella dei Sansevero
mentre, in corrispondenza dei pilastri,
dovevano essere sepolte le rispettive
spose con una statua che ne rappresentasse una specifica virtù. A tale scopo vennero riutilizzate le quattro statue
preesistenti relative al I, II e IV Principe
di Sansevero, nonché ad Alessandro si
Sangro, iniziatore nel 1613 dei lavori di
sistemazione dell’edificio. Le altre opere
furono commissionate ad autori contemporanei come Francesco Celebrano,
Antonio Corradini, Francesco Queirolo e
Giuseppe Sanmartino. (M. M.)
Struffoli
Roccocò
il piatto tipico
I
Cappella SanSevero, giuseppe sanmartino,
il cristo velato
l Roccocò è uno dei dolci tipici del Natale napoletano, caratterizzato
dal pisto, sapiente miscuglio di noce moscata, pepe bianco, cannella e
chiodi di garofano, ridotto in polvere nel mortaio. Il suo nome è dovuto
forse alla forma rotondeggiante e barocca evocata dal termine francese
rocaille che ha definito quello stile e che inoltre significa pietraia con
allusione all’aspetto grezzo e bitorzoluto e alla notevole consistenza
di questi dolcetti pieni di mandorle tostate, sia intere che tritate. Nella
tradizione napoletana i Roccocò erano di rito per concludere il pranzo
dell’8 dicembre e la loro presenza nelle vetrine delle pasticcerie apriva
ufficialmente il periodo dell’avvento. Poiché si conservano a lungo potevano essere preparati in quantità sufficiente per durare fino a Natale.
35
Prosciutto
Scagliuozzo con friarielli e insalata di rinforzo
Fagioli alla maruzzara
Paccheri alle alici di menaica
Coroniello di stocco agrodolce
Insalata riccia tropeana
Sorbetto al basilico
Biancomangiare
Per’ e palummo Flegreo
Marsala
A persona
euro 35.00
vini inclusi
36
Il meglio delle Due Sicilie
U
n dedalo di stanzette
bene arredate secondo il gusto “borbonico” dichiarato sin dallo stemma araldico con il giglio che
occhieggia sulla verde porta.
E fuori non c’è solo il segno
dell’amour-passion verso i
tempi andati, ma anche l’uso
civilissimo (e a Napoli ancora
modernissimo) della lista delle
vivande e dei vini con relativi
prezzi. Insomma, nell’attesa
possiamo già farci un’idea di
quel che assaggeremo, precauzione utile dato che qui, evviva,
il menù cambia ogni sera. In
quello d’inverno troverete però
sempre i fagioli alla maruzzara e, tra i secondi di mare, un
impeccabile coroniello di stoccafisso in agrodolce. Sensazioni
e sentori del passato che si rafforzano con il sorbetto al basilico (intermezzo rinfrescante di cui s’è persa purtroppo
l’abitudine anche fra i grandi
quasi imprendibile nelle relazioni pubbliche: al punto che
persino procurarsi una di lui
fotografia per illustrare queste
pagine dedicate alla sua cucina diventa un’impresa quasi
impossibile, come convincere
Mina a ritornare in palcoscenico. Eppure tutta questa sua
ritrosia non gli ha impedito di
L’ingresso del locale
esere conosciuto e apprezzadella tavola) e i dessert “a uso to in mezzo mondo: prova ne
e costume napoletano”: pa- sia la rivista giapponese che
stiera, lieve crema d’arance o elogiava la sua ristorazione e
commovente biancomangiare, che lui ci mostrò con malceprima di chiudere con passito lata soddisfazione, tra l’altro
e grappa d’Aglianico, oppure in anni in cui l’unico Alfonso
con un marc de champagne: cuciniere universalmente conounica escursione oltre i confi- sciuto era Alfonso Iaccarino...
ni delle Due Sicilie ammessa Per un ostinato seguace delda Alfonso, prima Aragonese e la dinastia dei Borbone come
poi Borbone: Alfonso è Alfon- Gallotti, immagino che un ricoso Gallotti, molto più di un noscimento proveniente dalla
patron perché della Taverna patria dell’ultimo Imperatore
dell’Arte è l’ideatore e l’anima. regnante sulla terra abbia molProtagonista e ferreo consiglie- to più peso e importanza di un
re in sala, quanto defilato e nugolo di repubblicane stelle.
Taverna dell’Arte
indirizzo Rampe San Giovanni Maggiore,
1/A - Napoli
telefono 081 5527558
chiusura domenica
carte di credito mastercard e visa
Con il tram 1 o 4 scendere alla fermata
Università, imboccare via Porta di Massa,
proseguire per via Mezzocannone, girare
alla seconda sulla sinistra e salire sulle
Rampe San Giovanni Maggiore.
MENU DELLA MEMORIA
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Taverna dell’Arte
Napoli
37
38
I
n Piazzetta Monteoliveto, attaccata alla Caserma Pastrengo dell’Arma
dei Carabinieri, dopo i recenti restauri
è possibile ammirare la bellezza della
chiesa di Sant’Anna dei Lombardi
in Monteoliveto: uno degli episodi
paradigmatici del gusto del Rinascimento a Napoli. Costruita nel 1400 da
un ministro del re Ladislao, fu affidata
ai padri Olivetani e sottoposta a radicali lavori di ampliamento da parte di
Alfonso I di Aragona. Nel XVII secolo
fu trasformata in stile barocco e, nel
1799, concessa all’arciconfraternita
dei Lombardi. Nel 1805 parte della
chiesa crollò a causa di un violento
sisma ed in quest’occasione andarono
purtroppo distrutti inesorabilmente tre
preziosi dipinti del Caravaggio. Interventi restaurativi hanno permesso la
ricostruzione nella navata centrale del
cassettonato e delle cappelle rinascimentali di Piccolomini, Mastrogiudice
e Tolosa che costituiscono la principale
testimonianza dell’influenza toscana
nell’architettura cinquecentesca a Napoli.Tra le cappelle, tutte rinascimentali, si possono riconoscere ancora quella
Correale (con architettura ispirata alla
maniera di Giuliano da Maiano in cui
trovano alloggio sculture di Benedetto da Maiano) e la Cappella Tolosa
(di Giuliano da Maiano con sculture
dei Della Robbia e affreschi di Cristoforo Sacco). Nelle altre, invece, ci
sono tombe della nobiltà napoletana
del XV secolo e tutte sono decorate
da affreschi di ottima fattura tra cui
quelli di Francesco Solimena. All’interno, una vera e propria antologia della
scultura del XV e XVI secolo: l’altare
gione e l’Eternità, quasi a ricordare
ai monaci che lì mangiavano, ciò che
era richiesto alla loro vista per raggiungere la perfezione. Le pareti, infine,
sono attorniate da meravigliosi stalli
lignei decorati in tarsia, prodotti da
Giovanni da Verona, che riproducono alcuni monumenti rinascimentali di
Napoli (compresa la facciata originale
della chiesa stessa).
Rinascimentale è anche la vicina chiesa di Santa Maria La Nova col
chiostro: è tra le più importanti chiese
di Napoli. Edificata nel Duecento, venne completamente rifatta a partire dal
1596. Splendido il soffitto a cassettoni
in legno dorato nei quali sono inserite
ben 46 tavole dipinte: è abbagliante la
sua bellezza! Gli affreschi nella volta
del cappellone sono di Massimo Stanzione e raffigurano Scene dalla vita
di san Giacomo della Marca (16441646); l’altare maggiore custodisce
le spoglie del Santo titolare ed è sormontata da una tela documentata
a Francesco Glielmo nel 1626. I due
chiesa di monteoliveto, cappella piccolomini
Ligorio di Giovanni da Nola e l’altare
Del Pezzo di Girolamo Santacroce.
Nella zona absidale è conservato il
complesso scultoreo raffigurante il
Compianto sul Cristo morto di Guido Mazzoni, statue in terracotta a
grandezza naturale che, secondo la
tradizione, rappresenterebbero i membri della famiglia reale aragonese (il
Re Alfonso II d’Aragona, Giovanni
Pontano, Jacopo Sannazaro e Lucrezia D’Alagno cioè la favorita del
Re Alfonso il Magnanimo). Il realismo
è impressionante! L’opera si trova
Napoli
sull’altare della cappella Origlia
e ricalca altri due simili gruppi lavorati
da Guido Mazzoni nella sua Modena
ed a Padova (Busseto).
L’altro gioiello che si può ammirare
nella chiesa di Sant’Anna dei Lombardi
è l’antico Refettorio dei Monaci
Olivetani, poi divenuto sacrestia ed
oggi sala di riunioni della Confraternita dei Lombardi, affrescato con opere
pittoriche di primaria importanza
dall’aretino Giorgio Vasari .Il pittore,
con la collaborazione di Raffaelino
del Colle, raffigurò la Fede, la Reli-
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Capolavori dell’arte rinascimentale
chiesa di monteoliveto, compianto sul cristo morto, guido mazzoni
monumenti ai piedi dell’arcone sono
i sepolcri di Odetto di Foix (visconte
di Lautrec) e Pietro Navarro, realizzati
da Annibale Caccavello fra il 1550 e
il 1555; infine, nella terza cappella a
sinistra del cappellone, dei d’Aquino,
si ammirano la splendida decorazione marmorea di Cosimo Fanzago, le
statue di Ercole Ferrara e gli affreschi
con Storie di San Diego di Massimo
Stanzione.
Il chiostro piccolo presenta volte affrescate e numerosi monumenti funerari
quattro-cinquecenteschi disposti lungo
le pareti; nell’ex refettorio è l’Andata al
Calvario di Andrea da Salerno (1514
ca.). Merita una puntata il Museo
di arte religiosa contemporanea
con una ricca produzione sacra dal
1949 al 2006. (G. I.)
BS
iancomangiare
truffoli
il piatto tipico
I
l nome di questo dolce, Biancomangiare, deriva dall’essere composto
da ingredienti di colore bianco. Di questa delicata vivanda, che poteva
essere dolce o salata, esistono tracce in tutte le cucine europee in cui si
diffuse intorno al XIV secolo, partendo dalla Francia dove sembra abbia
avuto origine. Gli ingredienti più frequenti per realizzarlo erano petti di
pollo, altre carni bianche, pesce, farina di riso, zenzero, fiori d’arancio,
latte di capra o latte di mandorle per i giorni di magro; il tutto bolliva a
lungo con zucchero e lardo fino a raggiungere una certa densità. Oggi il
Biancomangiare è esclusivamente un dessert di cui esistono due versioni,
la prima utilizza latte di mucca, l’altra diffusa in Sicilia è a base di mandorle,
amido, zucchero, buccia di limone e cannella.
39
Farinata
Piedino di maiale croccante con zuppa di spolichini
Fusilli tirati a mano
cacio, pepe e uovo “rotto”, cipolla fondente e alloro
Pollo ruspante cotto piano piano allo spiedo
con rosmarino, aglio, patate sabbiate
e cremoso al Provolone del Monaco
Il buon dolce di una volta al profumo di limone
Zeppole di patate con zucchero e cannella
Degustazione di vini campani
A persona
euro 60.00
vini inclusi
40
Dove trionfa la gastronomia del cuore
Q
uesto è un posto che
mi sta nel cuore da
sempre: partito da
una cucina fondata
sulla pura genuinità, Peppe
Guida è approdato a una culinaria di personalità, che dal
radicamento territoriale sa
slanciarsi su terreni più arditi
senza rinnegare le origini, con
quel pizzico di (auto)ironica
saggezza che è solo dei più
bravi, e svegli. Dunque bando ai
salamelecchi, e dopo il brindisi
alle fortune d’un locale fattosi
ancor più caldo e accogliente,
sotto con il piatto di benvenuto,
nel quale non mancano mai le
melanzane e le olive sott’olio
della Nonna (è la mamma di
Peppe). E poi uno sguardo al
rinnovato menu, dal quale —
sotto la regia impalpabile ma
ferma di Eduardo Buonocore,
uomo-ovunque del locale — si
estraggono piatti come il bon
cito di triglia, uno di sanpietro,
uno di ricciola, uno di gamberoni, uno di nasello... ma per il
«menu della memoria» Peppe
ha approntato una serie di
spettacolari piatti di tradizione
intelligentemente rivisitata: tra
farinata, croccanti piedini di maGiuseppe Guida
iale e fusilli tirati pazientemente
a mano non potrà mancare la
bon di gamberi (crudi, farciti di gloria locale, ovvero il provoloricotta di pecora) che è sensua- ne del Monaco (lo fornisce la
lissima passeggiata in un pas- vicina «Tradizione» di Salvatore
sardiano «giardino d’autunno» Di Gennaro), sposato stavolta al
dove incontri broccoletti, noci, pollo ruspante, il tutto con gli
castagne, fagiolino, tartufo (nero, abbinamenti a cura del sommeBagnoli), sale (nero, Palm Island) lier Luigi Casciello.Tutte le cose
che, come nelle favole, parla- buone di una volta, comprese le
no. I classici della tradizione zeppole di patate della Nonna
nonnesca godono tutti ottima con zucchero e cannella (ansalute (genovese, tracchiulelle, che se io non rinuncio mai al
polpette di annecchia) ma si cioccolato fondente in cinque
può sperimentare anche il cal- consistenze). Per i fumatori
do freddo di paccheri trafilati al incalliti un robusto (e un Coubronzo. Cinque paccheri, cinque vreur) nel salottino di vimini: una
sapori diversi, perché uno è far- nuvola di felicità li avvolgerà.
www.osterianonnarosa.it
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Antica Osteria Nonna Rosa
Vico Equense - Napoli
indirizzo via Bonea 4
Vico Equense (NA)
telefono 081 8799055
chiusura domenica sera e mercoledì.
Aperto dal lunedì al venerdì solo a cena.
carte di credito tutte
Percorrere l’autostrada A3 Napoli Salerno
e uscire al casello di Castellammare
di Stabia. Proseguire sulla SS 145
Sorrentina sino a Vico Equense e seguire
le indicazioni per Pietrapiano.
41
42
Vico Equense
S
tazione balneare e di soggiorno,
dotata di moderne strutture ricettive e sportive, è distesa in bella
posizione su un banco tufaceo sporgente sul mare. La sua lunga costa
frastagliata, è ricca di piccole spiagge e nasconde misteriose calette,
alcune raggiungibili solo dal mare,
con pareti a strapiombo e rocce
dalle forme insolite che si aprono
su grotte naturali. Molto suggestive
le sorgenti di acque minerali, come
quella sulfurea dello Scrajo nota fin
dall’età imperiale come testimoniato da Plinio. Ma oltre al mare c’è
anche la montagna con la catena
dei Monti Lattari, coperti di ulivi,
con i numerosi casali per i prodotti
dell’agricoltura e dell’arte casearia. Da qui si gode un panorama
mozzafiato sulla costiera amalfitana! Nei dintorni del monte Faito,
una puntata può essere fatta nella
frazione di Massaquano, il più
VEDUTA CON LE TERME DELLO SCRAJO
Museo Mineralogico, Fossile di mesosauro
costruita per difendere il borgo. E’
noto come castello Giusso dal nome
del proprietario che lo acquistò.
E poi le chiese sono numerosissime,
Affreschi della trecentesca Cappella di S.anta Lucia a Massaquano
antico casale di Vico, per visitare la
cappella di S. Lucia, edificata nel
1385 in stile gotico, che conserva la
sua antica struttura. Internamente
era completamente affrescata nel
Trecento ma nel 1877 le opere furono interamente coperte. Grazie a
lavori di restauro si sono riportati
agli antichi splendori gli affreschi
e in particolare quello sul fondo
dell’aula con l’Assunzione della
Vergine.
Gli amanti dello sport potranno
praticare pallavolo e nuoto nei periodi estivi nei due borghi che vi
incanteranno di Marina di Vico e
Marina di Aequa rispettivamente
ad est e a ovest del promontorio.
Merita una visita l’Antiquarium che
conserva reperti archeologici (VIIV sec. a.C) provenienti da una ne-
cropoli preromana. Sempre presso
marina Aequa è stata rinvenuta una
necropoli romana che nei secoli
si è trasformata in un borgo di pescatori. In zona desta particolare
curiosità il Museo mineralogico
che presenta circa 3500 esemplari rarissimi, ma vi stupirà anche la
sua sezione dedicata ai fossili e ai
meteoriti.
Vico non ha solo monumenti antichi
ma conserva anche le vestigia di
una gloriosa fase angioina: in primis
il Castello che si staglia sul panorama con la sua imponente struttura
rossa. Fu costruito per volontà di
Carlo II D’Angiò sul finire del 1200,
ma poi rimaneggiato tra Seicento e
Ottocento. Della struttura originaria
resta solo una bassa torre merlata e una parte della cinta muraria
Chiesa di Santa Maria del Toro
ma vi emozionerà il panorama della
Chiesa dell’Annunziata a picco
sul mare, un incanto superiore ad
ogni immaginazione. Unica chiesa
gotica nella Penisola sorrentina, un
tempo cattedrale, fu costruita nel
primo trentennio del 1300 e più
volte ristrutturata. Un tempo completamente affrescata, nell’abside
sono di ottima fattura le tele settecentesche raffiguranti Le storie
della Vergine del Bonito e della stessa mano è anche la tela centrale
dell’Annunciazione. Nella sacrestia
si rinvengono i ritratti dei vescovi di
Vico risalenti al XVIII secolo. Merita
di essere visto anche il santuario di
Santa Maria del Toro, sulla collina omonima (un altro panorama
imperdibile), eretta in seguito al ritrovamento in una grotta dell’immagine di una Vergine, oggi all’interno
della chiesa. E’ interessante perché
nella prima domenica di settembre
vi si svolgeva una singolare processione dedicata alla Madonna del
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Panorami mozzafiato
chiesa di san giovanni evangelista
Toro: per l’occasione veniva scelto
un toro bianco che veniva legato al
carro sul quale si era collocata la
statua della Madonna.
Va segnalata infine la tradizione
gastronomica di Vico Equense, che
annovera, tra i piatti divenuti ormai
noti in tutto il mondo, la “Pizza a
metro”, specialità di cui si custodisce ancora il segreto e l’esclusività.
(G. I.)
Provolone
Struffoli
del Monaco
il prodotto tipico
I
l provolone di Sorrento è conosciuto anche come Provolone del Monaco,
denominazione addebitabile secondo alcuni ad un convento di frati
caseificatori, secondo altri al nome di un attrezzo, designato col nome di
monaco nell’area meridionale, su cui si regge la caldaia nelle aziende di una
certa dimensione. Ma l’ipotesi più accreditata vuole che il titolare di un
noto caseificio fosse detto ’u muonaco per il suo aspetto mite e fratesco,
consolatore di anime e corpi vedovili. Questo provolone ha forma di
pera senza testina e un peso di 2-3 kg, la pasta è morbida, uniforme, di
colore bianco, racchiusa in una scorza sottile, di colore giallo paglierino,
o bruno se affumicato. Il sapore dolce e delicato diventa più intenso nel
prodotto stagionato.
43
Zuppa della Vigilia
(scarole, baccalà, pinoli, uvetta passa, cavolo, vongole)
Frittelle ripiene di cavolo, gateau salsicce e friarielli,
funghi al forno, verza con castagne
Fettuccelle con cime di rapa e tartufi di mare
Baccalà fritto con insalata di rinforzo
(scarole, minestra cotta, cavolo cotto,
olive nere, papaccelle e acciughe)
Struffoli
Fiano di Avellino - Feudi di San Gregorio
A persona
euro 42.00
vini inclusi
44
Lo sguardo spalancato sui sapori
L
a «Fenesta Verde» (verde dal colore degli infissi,
suppongo) è spalancata
ormai da sessant’anni nel cuore antico di Giugliano, a due
passi dall’Annunziata. In cucina
fanno ottima guardia le sorelle
Luisa e Laura Iodice, ristoratrici
di terza generazione (tutto cominciò con un rifugio antiaereo
in cui i nonni offrivano riparo
e un bicchiere di vino durante
i bombardamenti), mentre in
sala Guido e Giacomo (mariti
rispettivamente di Luisa e Laura) garantiscono quell’affabilità non di facciata che rende
ancor più grata la sosta. Qui
si fa cucina rigorosamente di
stagione, e di territorio, con
ricette che ciclicamente si ripropongono senza mai venire
a noia perché custodiscono il
tesoro della genuinità e della
passione: allegramente e implacabilmente, il tavolo si va
tutti punti di forza di un locale
che dà il meglio di sé quando
la fiamma arde nei due ampi
camini (uno per sala, in quella
più ampia si susseguono le immagini delle mostre d’arte e di
fotografia che “Fenesta Verde”,
ora anche attivo centro di promozione culturale, propone a
ciclo continuo). Insomma, “FeLaura e Luisa Iodice
nesta Verde” rimane a tutt’ oggi
così riempiendo di leccornie e un rifugio contro i bombardadi emozioni ancestrali, che in menti: un tempo quelli aerei,
questo periodo si concretizza- adesso quello della cucina (e
no nella trionfale zuppa della dello stile di vita) massificati.
Vigilia ricca di scarole, baccalà, Da sessant’anni la stessa fapinoli, uvetta passa, cavolo e miglia, lo stesso luogo, che i
vongole; e poi frittelle ripiene titolari chiamano ancora con
di cavolo, il gateau salsicce e legittimo orgoglio provinciale
friarielli, i funghi al forno e «trattoria»: ma prima o poi
un’imperdibile verza con ca- dovranno ammettere anche
stagne. I frequentatori abituali loro che da «Fenesta Verde» lo
non rinunciano quasi mai alla sguardo ormai spazia lontano.
minestra maritata, alla clas- Del resto, l’ho sempre sospetsicissima pasta e fagioli e al tato: non si fa cucina di qualità
riso Carnaroli in più versioni: senza essere persone di qualità.
www.fenestaverde.it
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Fenesta Verde
Giugliano - Napoli
indirizzo via Licante - vico Sorbo, 1
Giugliano (NA)
telefono 081 8941239
chiusura domenica sera e lunedì
carte di credito visa e american express
Prendere l’autostrada Napoli- Roma,
uscire ad Afragola e imboccare l’asse
mediano in direzione Villa Literno
uscendo a Sant’Antimo; svoltare poi a
sinistra verso la chiesa dell’Annunziata
che si trova nel centro storico.
45
46
Giugliano
C
ittà fondata dai cumani o dagli
abitanti di Literno, deve il suo nome forse ad una villa di Giulio Cesare.
Appartenuta a nobili famiglie, qui morì
il letterato Giovan Battista Basile autore
de “Lo cunto dei cunti”. Di particolare
interesse è la chiesa dell’Annunziata
che sorge sull’omonima piazza, all’incrocio tra il Corso Campano e Via Licante. Caratteristica è l’elegante facciata della chiesa, articolata su due ordini,
mossa da doppie lesene che reggono
un timpano curvilineo. Essa presenta
un bel portale in piperno e porte con
bassorilievi lignei di ottima fattura. La
chiesa fu costruita sul sito di un piccolo oratorio, ma il primo documento
che la riguarda risale ad una bolla del
papa Clemente VII nell’anno 1528. Fu
costruita nel XVI secolo, in seguito fu
ampliata, assumendo l’attuale planimetria a croce latina ad un’unica navata
con piccole cappelle, profonda abside e
transetto. Molto ricca è la decorazione
barocca, il soffitto è a cassettoni dorati
con tele seicentesche tra cui la meravigliosa Presentazione al tempio dello
Stanzione. Nelle quindici cappelle sulla
giugliano, chiesa di santa sofia
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Gioielli architettonici ricchi di storia
giugliano, scalone e facciata di palazzo palumbo
giugliano, interno della collegiata dell’annunziata
navata ci sono altari le cui commissioni
si devono alle principali famiglie della
città, molte lapidi con stemmi scolpiti lo
ricordano. La cappella più grande è la
sesta a destra, dedicata alla Madonna
della Pace. E’ una sorta di chiesa nella
chiesa, a navata unica con cappelle,
transetto, abside e cupola. In essa si
ammirano diversi dipinti del XVII secolo di Carlo Sellitto, Nicola Cacciapuoti e
Giovanni Sarnelli ed una decorazione
in stucco. Prezioso è l’organo ligneo
dorato della fine del Seicento, seguito
da un elegante pulpito in stile rococò.
La zona absidale con la balaustrata
marmorea si presenta come un’articolata e grandiosa macchina barocca:
l’altare si staglia contro la parete di
fondo ed è introdotto dai pregevoli stalli
lignei del coro. Sull’altare maggiore da
vedere è la ricca tavola dell’Annunciazione di Angelillo Arcuccio. In questa
chiesa si venera una statua in legno
della Madonna della Pietà che, secondo una famosa leggenda, fu gettata in
mare dai turchi e salvata dagli angeli
che la depositarono sulle spiagge di
Cuma. Qui i buoi vedendola inchinarono le zampe al suo cospetto e per
tal motivo i contadini la portarono a
Giugliano. L’episodio si tramanda anche in un’antica immagine che sfila
per il paese durante la festa in onore
della Vergine della Pace che inizia dalla
vigilia di Pentecoste e dura per una
settimana intera. Adiacente alla chiesa
dell’Annunziata vedrete il campanile
che si eleva su tre piani e presenta
la classica bicromia grigio piperno del
basamento e arancione del laterizio. La
sua costruzione iniziò nel 1794. Nella
parte mediana è installato un orologio meccanico e nella parte terminale
vi è la cella campanaria. A destra del
campanile si vede la facciata ottocentesca dell’ospedale che completa il
fronte sulla piazza. La sua architettura richiama alcuni stilemi della vicina
facciata settecentesca della chiesa con
pinnacoli e lesene. Sempre a Giugliano una puntata può essere fatta alla
chiesa di Santa Sofia, costruita a fine
Seicento su un edificio preesistente.
L’interno colpisce per la sua bellezza
barocca con episodi veterotestamentari
del Cacciapuoti, il campanile e l’organo
in legno rivestito d’oro zecchino. Degno
di nota anche il campanile dove sono
murati marmi provenienti da Cuma.
Tra i palazzi nobili si segnala quello
Palumbo (già Stigliano) con un salone
riccamente affrescato. (G. I.)
Friarielli
il piatto tipico
F
giugliano, parrocchiale san nicola
riarièlle è termine dialettale che risale agli inizi del Novecento e nel
Napoletano indica i broccoletti di rapa o cime di rapa, benché la
loro presenza nella cucina napoletana sia molto più antica. In questa
denominazione sono accomunate specie diverse fra loro sia per forma
e dimensioni che per aspetto dell’infiorescenza e per il sapore dolce
o amaro, diversità dovute alle caratteristiche climatiche delle aree di
produzione, alle tecniche e all’epoca di coltivazione. In ogni caso la parte
commestibile è rappresentata dalle foglie più giovani e tenere e dalle infiorescenze, i cui fiori non devono ancora essere aperti. La parola prende
origine dal tradizionale modo con cui sono cucinati, soffritti in padella,
senza precedente lessatura, con aglio, olio, sale e peperoncino forte.
47
Baccalà mantecato con zuppetta di peperoni
e pomodori al basilico, veli di pane croccante al sesamo
Ravioli di ricotta con salsa di zucca e scampi
ed emulsione di nero di seppia
Capitone confit in foglia d’alloro
e spuma calda di insalata di rinforzo
«Pastorelle», scomposta del Cilento con salsa al cioccolato,
marmellata d’albicocche e miele d’acacia
Coda di volpe - Cantina del Taburno
Cilento bianco - Azienda Barone
Asprinio d’Aversa - Grotta del Sole
A persona
euro 40.00
vini inclusi
48
Tutta la cucina davanti a sé
S
iamo in piena «zona
Leopardi»: qui, nel
paese dove il poeta di
Recanati soggiornò nel periodo
napoletano, il torrese Carmine
Mazza, diploma alberghiero ed
esperienze all’Olivo anacaprese
con Glowig e dagli Iaccarino a
Sant’Agata sui Due Golfi, ha rotto
gli indugi e deciso di rischiare
in proprio al pianoterra d’una
gialla palazzina moderna: pochi
coperti e molte idee, a cominciare
dai panini fatti in casa (origano,
pomodoro, rosmarino) e dal
benvenuto, mentre la giovane
addetta di sala Amalia versa in
calice non il solito prosecchino,
ma un Gewurztraminer di
aromatica personalità. E intanto
ci consegna la lista, redatta
nell’ordinato corsivo stile primo
Don Alfonso. Menu degustazione
di sei portate e, alla carta, puoi
scegliere tra cinque antipasti,
cinque primi, quattro secondi
Carmine Mazza
e due dolci più selezione di
formaggi. Oggi a occhio e
croce ci sarà da divertirsi tra la
sfogliatella salata, la variazione
di zucca e gli altri prodotti,
tutti provenienti dall'orto del
poeta vesuviano: freschi, o
accuratamente conservati se
non è stagione. Arrivano poi i
primi piatti che Amalia, aversana
trasferitasi qui causa fidanzato
torrese (per chi non l'avesse
capito: il fidanzato è Carmine),
spiega con flemma tutta atellana:
mediterraneità in primo piano,
www.ilpoetavesuviano.135.it
ma anche un esotico risotto al
curry (con peperone rosso e
gamberi alla maggiorana) che si
imprime nella memoria e nelle
papille gustative. Si capisce che
Carmine, nelle cucine importanti
che ha frequentato, ha fatto ciò
che ogni bravo allievo deve fare:
rubare il più possibile ai maestri,
e poi rifare le cose a modo suo.
Reinventando un cibo «sacro»
della festa come il capitone in
versione confit, o ritornando
alle sue origini cilentane con la
pastorella, dolce natalizio che lui
«scompone» per l'occasione: una
sorta di zeppola fritta ripiena
di castagne, cacao, nocciole e
marmellata di albicocche in cui
ogni ingrediente cambia ruolo e
funzione. Segno che uno chef
di talento, con il tempo e la
dedizione, può persino diventare
un bravo pasticciere. E in fondo
Carmine ha appena 23 anni, e
ancora tutta la cucina davanti.
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Il Poeta Vesuviano
Torre del Greco - Napoli
indirizzo viale Europa, 42
80059 - Torre del Greco (NA)
telefono. 081 8832673
chiusura domenica sera e lunedì
carte di credito in via di attivazione
Percorrere l’Autostrada Napoli-Salerno
e uscire a Torre Annunziata Nord,
proseguire per via Nazionale fino alla
chiesa del Buon Consiglio e poi svoltare
a sinistra su viale Europa.
49
50
Torre del Greco
È
il paese del corallo nelle sue
varietà, delizia per gli occhi di
tutte le donne! Capolavoro della
natura lavorato dall’uomo, è avvolto da un alone di mistero sin dalla
sua formazione: il sangue gocciolato
dalla testa recisa di Medusa si sarebbe poi pietrificato in corallo. Considerato terapeutico, è un simbolo
apotropaico. La lavorazione del corallo a Torre ha inizio nei primi anni
dell’Ottocento e ancora oggi è molto
viva ed apprezzata. Nel museo Liverino sarà possibile ammirare veri
e propri gioielli realizzati in diversi
paesi con differenti tipi di corallo di
diverse epoche: a partire dallo stile
neoclassico (dalle forme austere e
eleganti) al periodo “frutti-fiori” (con
incisioni di fiori, frutta e foglie) alla
fase delle torchon (collane con piccole sfere di coralli intrecciati insieme). Presso l’Istituto statale d’arte
è visitabile anche il Museo storico
del corallo con esempi unici di gioielli in corallo, lava, conchiglia e madreperla. Ma Torre del Greco non
è solo la città del corallo, distesa ai
piedi del Vesuvio al centro del golfo
di Napoli, la mitezza del clima e lo
spettacolare panorama di cui gode
hanno affascinato uomini di tutti i
tempi che qui hanno edificato ville
residenziali in parte visitabili: dalla
nobiltà borbonica che trascorreva
a Torre la stagione estiva a personalità come Giacomo Leopardi
cui è dedicata l’omonima via che
sale fino alla villa delle Ginestre
dove il poeta, infermo e bisognoso di
aria salubre, soggiornò e scrisse «La
villa delle ginestre, ingresso
ginestra» e «Il tramonto della luna».
La dimora leopardiana, tipica della
fase finale del Settecento napoletano, posta in un fondo rustico sulla
lava vesuviana, ha un pianterreno
con un piccolo vestibolo e alcune
stanze fra cui quella abitata dal
poeta. Bella la terrazza aperta al
monumento a giacomo leopardi
panorama! Sempre del XVIII secolo è anche la villa del marchese di
Vallelonga (Catanzaro), residenza
estiva del ricco signore. L’edificio è
stato acquistato dalla locale Banca
di Credito Popolare che l’ha adibita
a prestigiosa sede Centrale. Ancora
tra le ville merita una visita quella
del Cardinale, costruita nel 1774
da Gennaro de Laurentiis, con la bella facciata sormontata dalla statua
di San Gennaro, l’elegante scalone in
marmo e il salone centrale con decorazioni settecentesche in stucco.
Ma il più importante e ricco monumento storico della città è il Monastero dei Padri Osservanti
Minori detti Zoccolanti. Sorto nella
seconda metà del Cinquecento, fu
eretto su una collina nei pressi della
porta di Capotorre. E’ un compiuto
esempio di struttura monasteriale
con corte centrale e porticato al
piano terra. Tutto il primo piano fu
adibito al culto e alle celle, mentre
nel piano inferiore vi erano le cucine, la chiesetta del Santissimo, il
cimitero, il refettorio ed alcune sale
di ricovero che ospitavano personaggi illustri della curia napoletana
e romana per guarire soprattutto da
patologie respiratorie e reumatiche.
Oggi purtroppo rimane ben poco
di quello che doveva essere l’antica
struttura. Sono andati perduti gli
scanni di legno che cingevano la sala ed anche la pregevole decorazione ad affresco che ornava il soffitto
di cui restano soli pochi frammenti
con un Padre Eterno benedicente.
La decorazione deve essere datata
agli anni successivi al 1578 (data di
fondazione) e presenta analogie con
quella delle vele del chiostro napoletano di S. Maria La Nova.Torre ha
anche un’area di interesse archeologico, risalente al I secolo d.C., nella
“contrada Sora”, caratterizzata
dai resti dell’omonima valle e da un
complesso termale, ora praticamente sulla spiaggia torrese.
Le chiese di Torre del Greco furono spesso riedificate su edifici più
antichi, distrutti nel corso dei secoli
dalle implacabili eruzioni laviche del
Vesuvio. Tra queste: la parrocchia di
Santa Croce (sec. XVI, ma ricostruita dal 1796) con il suo campanile
barocco e l’altare maggiore di marmi pregiati con il quadro dell’Invenzione della S. Croce e altre opere di
Paolo De Matteis, di Lorenzo Vaccaro e di Francesco Solimena. Danni
subì anche la vicina seicentesca
chiesa di San Michele e l’area
ipogea della chiesa dell’Assunta
con i suoi cunicoli scavati al di sotto dell’eruzione del 1794. Un’area
ipogea, invece, ancora intatta con
le vestigia dell’antica chiesa, è visibile, accedendovi tramite una scala,
nella chiesa di Santa Maria del
Principio. Qui è rimasto l’antico
pavimento maiolicato e un affresco
della Madonna del Principio con S.
Lorenzo e S. Stefano. Torre è città
d’arte in tutte le sue accezioni e ne
è una prova anche la cosiddetta Fe-
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La natura, l’uomo e le Ginestre
antichi gioielli in corallo
sta dei quattro altari che
si celebra la domenica successiva
a quella del Corpus Domini. In tal
occasione si espongono tele, con raffigurazioni sacre, di circa 20 metri
di altezza per altrettanti di larghezza, poste su imponenti armature di
legno. Ma gli artisti locali realizzano
anche riproduzioni di quadri famosi
fatti con petali di fiori o con segatura colorata. (G. I.)
Capitone
il piatto tipico
U
n tempo il fiume Sarno era ricco di anguille e in quelle zone della
Campania si è conservata l’antica tradizione di mangiare anguille
durante tutto l’anno: fortunatamente alcuni esemplari sono ricomparsi in
questo fiume dopo i drastici interventi di bonifica. Il capitone altro non è
che l’anguilla femmina che nel periodo della riproduzione accumula grasso
e aumenta di peso e di lunghezza. Anguille e capitoni sono a Napoli il
pezzo forte del cenone della vigilia di Natale, arrostito, fritto, in umido o
marinato, il capitone viene mangiato più che per rito, pe’ devozione, poiché
una tortuosa simbologia identifica il capitone con il serpente demoniaco
da sconfiggere, schiacciato sotto i piedi della Vergine, mangiato il quale
può finalmente essere celebrata la nascita del Redentore.
51
Mangiamo con le mani (sfizi ed altro)
Apparentemente un uovo...
(tuorlo marinato, insalatina di asparagi e acqua di pomodoro)
Crème caramel di baccalà
su passata di fagioli cannellini e peperoni «crusc’»
Ravioli di farina cotta ripieni di melanzana e mozzarella
su salsa di pomodoro e basilico
Coniglio al profumo di ginepro cotto a bassa temperatura
su finocchi gratinati e cipollotto
Parfait di liquirizia, spuma di zucca confit alla vaniglia
Vesuvio buono (tortino al cioccolato Guanaya,
zenzero e crema gelata al latte
Piccole delizie
Degustazione vini dell’azienda Vestini Campagnano
Cherry Pedro Ximenez
A persona
euro 75.00
vini inclusi
52
Gran finale con il «Vesuvio buono»
N
ella cittadina che contende a Nola la paternità della festa dei
Gigli (il primo giglio “emigrato”
a New York partì da Brusciano
nel 1939), un laboratorio enogastronomico che ogni anno fa
un balzo in avanti in qualità,
creatività, cultura dell’ospitalità. Accanto all’inventore e patron Armando Sposito (e alla
moglie Margherita, “angelo
custode” della cantina) sono
cresciuti bene i figli Francesco
(ai fornelli) e Mario (in sala).
Risultato? Una “Taverna” sempre meno rustica e sempre più
raffinata. Spazio accogliente e
luminoso, tavoli ben distanziati e la cucina che, più che a
vista, sembra in cinemascope. Nei piatti, i prodotti che
rappresentano l’eccellenza
campana, ma spesso anche
selvaggina e anguille di Comacchio grazie alla virtuosa
liaison tra Armando e Igles
diario dei ricordi gastronomici,
non hanno voluito rinunciare
a un tocco di scherzosa ma
acuta nostalgia: nostalgia del
tempo in cui si mangiava con
le mani, come dimostrerà la
serie di stuzzichini d’apertura;
per continuare a giocare sui
sapori primari e apparenteLa famiglia Sposito
mente semplici: si fa presto a
Corelli della lontana “Tameri- dire uovo, ma quando il tuorlo
ce” di Ostellato, nel Ferrarese. è marinato già le cose cominFantasia sbrigliata e un certo ciano a cambiare. E il baccalà,
gusto della provocazione intel- pur servito col tradizionale peligente non mancano mai nel perone “croccante”, si presenta
menu del locale: nella passata sotto forma di creme caramel.
stagione, ad esempio, assaggiai Il coniglio, delizia delle tavole
un azzardatissimo e riuscitis- d’una volta che va via via spasimo “tartufo & tartufo”, ge- rendo da quelle contemporamellaggio verbale e di gusto nee, è al profumo di ginepro
tra il tartufo nel senso di fungo ma cotto a bassa temperatura.
ipogeo e il tartufo nel senso di E per il gran finale della festa
“taratuffolo”, il delizioso mol- bruscianese dei sapori arriverà
lusco amatissimo sulle tavole l’eruzione (ironica strizzatina
marinare. E anche stavolta che d’occhi al centro commerciaper la nostra iniziativa Arman- le nolano firmato da Renzo
do e Francesco pescando nel Piano) d’un “Vesuvio buono”...
www.tavernaestia.it
indirizzo via Guido De Ruggiero, 108
Brusciano (NA) telefono 081 5199633
chiusura domenica sera e lunedì. Aperto
da martedì a venerdì solo a cena, sabato
anche a pranzo. carte di credito tutte tranne
american express
Percorrere il raccordo autostradale Napoli-Salerno in
direzione Caserta-Roma,imboccare l’uscita Centro
direzionale in direzione Pomigliano-Cercola.Uscire a
Pomigliano centro-Paesi vesuviani.Prendere la strada
provinciale Pomigliano-Somma e arrivare a Castello
di Cisterna, proseguire in direzione Brusciano.
MENU DELLA MEMORIA
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Taverna Estia
Brusciano - Napoli
53
54
Brusciano
I
l paese di Brusciano è citato in
epoca angioina e appartenne al
potente monastero di Montevergine.
Ma il territorio vanta origini antichissime: autori greci e latini narrando
avvenimenti che vedevano come protagonista l’antica città di Nola, hanno
evidenziato come i territori compresi
tra Napoli e la stessa Nola, avessero
una notevole importanza strategica.
Brusciano visse per secoli della luce riflessa da Nola, seguendone le sorti.
Compreso tra le pendici del Monte
Somma e la zona dei Regi Lagni, vanta una particolare origine geologica.
Grazie a scavi archeologici sono state
rinvenute alcune tombe di cui molte
di epoca etrusca, spesso in esse vi
sono corpi di guerrieri con il cimiero,
la corazza, l’armatura militare e un
ricco corredo funerario. A Brusciano
si individuano due aree di interesse
archeologico: una presso via Bellini,
l’altra verso via Quattromani (così
brusciano, festa dei gigli
MENU DELLA MEMORIA
MENU DELLA MEMORIA
Con i Gigli tra arte e folclore
brusciano, scorcio
chiamata per la presenza un tempo
di quattro nuclei familiari nel luogo). Vicino al corso si trova l’edificio
più importante del paese che è la
Chiesa di S. Maria delle Grazie risalente al XV secolo, ma che
ha subito numerose trasformazioni
fino all’inizio del XX secolo. Prezioso
è il soffitto a lacunari e la cantoria
sopraelevata in corrispondenza della
porta d’ingresso centrale. Gli altari risalgono al XIX secolo e gli affreschi
del catino absidale sono della seconda metà del XX secolo. Interessante
anche l’adiacente Confraternita della
Pietà. Ancora una chiesa da visitare è
la parrocchiale di San Sebastiano che
fu eretta nei primi decenni del XVIII
secolo dalla famiglia Cucca. Nel Novecento fu acquistata dalla Curia di
Nola e restaurata in seguito ai danni
sismici del 1980. L’interno a navata
unica con cappella laterale ha una
caratteristica cupola a bulbo in asse
rispetto all’altare maggiore. Un dipinto del XVIII secolo raffigura La Madonna delle Grazie con S. Sebastiano
e S. Rocco, patroni di Brusciano. Di
particolare interesse storico, culturale
e etnoantropologico è anche il Vico
Tre Santi a Cortaucci in cui avvenne
il Miracolo di Sant’Antonio. Era l’anno 1875 e la povera Zi Cecca De
Falco, avendo un figlio in gravi condizioni di salute, si rivolse a S. Antonio
promettendogli una coroncina tutta
d’oro per il bambinello qualora avesse
ricevuto la grazia della guarigione del
figlio. Il ragazzo riacquistò la salute,
ma il debito non poté essere onorato
così come promesso. Le ristrettezze
economiche della povera mamma le
permisero nel giorno della processione solo di lanciare dal balcone della misera casa 16 ostie: di esse, 13
andarono a posizionarsi, costituendo
una sorta di corona sospesa nell’aria,
proprio sul capo del bambinello di S.
brusciano, facciata e interno della chiesa parrocchiale di s. maria delle grazie
Antonio. Da quell’evento miracoloso
che destò la riconoscenza di tutta la
comunità nacque la Festa dei Gigli
che si tiene annualmente l’ultima domenica di agosto. Il colosso in legno
e cartapesta, riccamente decorato,
viene portato a spalla dalla paranza
in segno di devozione. Sembra un
carro allegorico e coinvolgerà grandi e piccini. Si consiglia una visita al
paese anche in occasione del Carnevale quando i ragazzi fabbricano un
fantoccio di rami, simbolo dell’inverno,
e lo incendiano affinché dalle ceneri
del legno bruciato possa scaturire una
primavera dal clima mite e temperato
per la fertilità della terra e il futuro
raccolto. (G. I.)
Melanzana Violetta Napoletana
il prodotto tipico
O
riginaria di India e Cina, la melanzana fu diffusa dagli Arabi nei paesi
del Mediterraneo, anche il nome deriva dall’arabo badingian preceduto dalla parola mela nel senso di pomo, frutto. Esistono numerose
cultivar di melanzane, differenti per forma, colore e sapore. La più diffusa
in Campania è la Violetta lunga di Napoli con frutti a forma di clava, buccia
lucida di colore viola scuro, polpa biancastra, tenera, leggermente piccante,
con pochi semi. Un tempo si usava sbucciarle, affettarle e sistemarle a
strati con sale grosso in un colapasta per eliminare il liquido amaro, anche
se molti considerano la sfumatura amarognola il maggior pregio di questa
melanzana. Oggi le coltivazioni moderne offrono un prodotto dal gusto
meno forte che non ha più bisogno di preparazioni preliminari.
55
Ricotta fritta di Montella versione 2008/2009
Interpretazione della parmigiana di melanzane
Risotto con rosso d’uovo e tartufo nero di Bagnoli Irpino
Cecaluccoli con pomodorino, pepe nero
e cacioricotta salato di Montella
Maialino con le mele annurche e olio alla vaniglia
Dessert
Degustazione di vini dell’Irpinia
A persona
euro 75.00
vini inclusi
56
L’Irpinia creativa di Pisaniello
A
ntonio Pisaniello e la sua
«Locanda di Bu» (Bu è
il nome del primogenito): un vulcano gastronomico
in piena attività. Autodidatta
di talento (a 13 anni imparò a
fare pizze in Sicilia, a 18 aprì un
pub nel parcheggio del locale
di famiglia, «Il Gastronomo»)
è, tra gli chef irpini di nuova
generazione, quello più aperto
alle innovazioni. Il suo locale,
incastonato in uno dei 100
borghi più belli d’Italia, è una
minuscola “elle” con una parete rosso-Barletta e una biancoTrani (misteri della bioarchitettura) che custodiscono appena
trenta coperti suddivisi in pochi,
ben distanziati tavoli dal fine
tovagliato color panna. Tagli di
luce laterali, legni colorati biologicamente all’olio di mandarino:
eleganza minimal per una cucina di creatività maxi. Nel corso
dell’ultima mia visita, tanto per
intenderci, incontrai cose come
Antonio Pisaniello
la foglia di basilico fritto con pomodoro e fiordilatte, la cipolla
ramata di Montoro stufata con
mosto cotto e miele di castagno, la millefoglie di lingua di
vitello affumicata con patate
e rosmarino, e tra gli antipisti
la ricotta fritta di Montella, allora era con patate e colatura
di alici: oggi non so. Ma so che
nel suo menu della memoria è
prevista anche l’interpretazione
pisanelliana della parmigiana di
melanzane, il risotto con rosso
d’uovo e, evviva, il tartufo nero
di Bagnoli Irpino. Ai primi piat-
www.lalocandadibu.com
ti, retour alla tradizione con i
cecaluccoli (pasta fresca tirata
a mano) con pomodorino, pepe nero e cacioricotta salato di
Montella, mentre il maialino,
pur essendo servito secondo
l’ortodossia campana con la
mela (annurca) è impreziosito
dall’olio alla vaniglia. Vini: l’ultima carta era tutta campana,
ricca di oltre 100 etichette più
rosse che bianche affidate a
Jenny, sommelière e moglie di
Pisaniello; gli irpini ci sono tutti
e nelle annate giuste. Sui dolci,
Pisaniello nell’occasione non si
sbottona, limitandosi a mettere
in menu un laconico «dessert»:
ma, conoscendolo, so che ci sarà
da sorprendersi e da divertirsi;
ricordo ancora la pasta al forno
salata con crema di annurca e
salsa inglese, la cupola di frolla
con crema pasticciera, e nocciole esaltata da un calice di iberico Pedro Ximenez «Hidalgo»
di bel colore mogano. Suerte!
MENU DELLA MEMORIA
MENU DELLA MEMORIA
La locanda di Bu
Napoli
indirizzo vicolo dello Spagnuolo, 1
Nusco (AV)
telefono 0827 64619
chiusura domenica sera e lunedì
carte di credito tutte tranne diners
Percorrere l’Autostrada Napoli-Bari e uscire
ad Avellino Est. Proseguire in direzione
Nusco per 35 chilometri. In alternativa
si può percorrere la SS 7 che dista 3
chilometri dal bivio di Passo Manteca.
Distanza da Napoli 81 chilometri.
57
usco meglio noto come il Balcone
dell’Irpinia, è il comune più alto e
panoramico dell’avellinese, vera e propria oasi naturalistica dove è possibile
fare passeggiate a piedi ed escursioni in
tutta la zona circostante. Il centro storico, sorge ai piedi di una collina, intorno
ai ruderi del castello, in epoca longobarda, Sant’Amato, il primo vescovo e
patrono di Nusco, raggruppò gli abitanti
dei villaggi circostanti. Il borgo ha origini
medievali ma il suo aspetto attuale è
nusco, campanile della cattedrale
58
quello sei-settecentesco in particolar
modo del seminario vescovile e dei palazzi nobiliari delle famiglie Ebreo, Natale,Astronomica, Ciciretti e Teta, tutti recuperati dopo il disastroso terremoto del
1980. Il centro abitato è caratterizzato
da strade pulitissime, facciate intonacate di fresco, portoncini e finestre ben
curati, piazze piazzette e slarghi che
colpiscono per le vivaci pavimentazioni
lastricate con decorazioni geometriche
e di fantasia. Gli esterni dei palazzetti
sono intonacati con vivaci pitture colorate che danno risalto ai fregi, stemmi
e cornici sopravvissuti alla catastrofe.Tra
i monumenti da visitare di particolare rilievo risulta essere il Seminario
vescovile e la Cattedrale di Santo
Stefano voluta da Sant’Amato quando
Nusco venne elevata a sede vescovile
nell’XI secolo. Imponente edificio il cui
impianto attuale risale al 1600 con una
torre campanaria bianca del 1891. La
cattedrale è suddivisa nel suo interno in
tre navate, contraddistinta da una doppia fila di colonne che sorreggono archi
a tutto sesto. Ai lati delle navate minori
si aprono le cappelle, all’interno delle
quali sono custodite opere preziose. Di
notevole importanza sono il coro ligneo
settecentesco sopraelevato sormontato
da affreschi dello stesso periodo, il presbiterio, uno straordinario pulpito ligneo
del Seicento ricco di bassorilievi e i quattro mausolei dedicati ad altrettanti vescovi. Spicca l’armoniosa struttura della
cripta ipogea in stile romanico, con volta
a crociera sorretta da grosse colonne,
che conserva affreschi del Settecento
con la raffigurazione di numerosi vescovi che si sono succeduti a Nusco e le
ossa di Sant’Amato. Non ultimi infine tra
i monumenti da visitare a Nusco sono
i ruderi del Castello, che un tempo era
un miniero inespugnabile.
Dopo aver visitato Nusco una tappa va
fatta al Convento di San Francesco
a Folloni a Montella.
Il Convento, nasce secondo una leggenda per volere di San Francesco d’Assisi, il quale, tornando dalla Puglia, nel
cuore dell’inverno, passò per Montella
Nusco, Palazzo di Piazza Natale
montella, campanile del convento
di s. francesco a folloni
sistemandosi per la notte nel bosco di
Folloni. Il giorno seguente il santo partì
ma lasciò lì dei frati, su richiesta de di un
certo Ragone Balbano conte di Conza
e di Montella, affinchè edificassero un
romitorio e con il loro operato convertissero i ladri che infestavano il bosco.
La primitiva struttura del romitorio è
a tutt’oggi ancora visibile sotto il pavimento della sacrestia: piccola chiesa di
semplice struttura con un vano unico e
la copertura sostenuta da colonnine di
piperno.Agli inizi, com’era consuetudine
ai tempi di San Francesco, i frati costruirono nei pressi della piccola Chiesa
delle semplici abitazioni in legno, come
quelle della gente povera del luogo, ma
negli anni a venire costruirono opere
in muratura. Un antico muro inglobato
nel chiostro quattrocentesco testimonia
ancor oggi i continui lavori di amplia-
mento e gli interventi atti a rafforzare
le strutture squassate dai frequenti
terremoti.
Il Convento è sempre stato sostenuto
dai benefici dei sovrani delle dinastie
che si succedettero sul trono di Napoli
e dei feudatari del luogo che concessero ai frati munifici privilegi di cui fanno
fede molti documenti d’archivio. San
Francesco a Folloni, nel XVI secolo,
ebbe una nuova fase che determinò
la costruzione di due chiostri e di una
grande chiesa. Nel XVIII secolo, questa
fu demolita e nuovamente ricostruita
dal 1746 al 1769. Per la grandiosità
dell’insieme, la finezza dei marmi e del
pavimento maiolicato, la leggerezza
degli stucchi e dei legni del pulpito, la
chiesa desta nel visitatore una grande meraviglia. Fu soppresso in epoca
napoleonica e di nuovo in epoca postunitaria, poté riavere i suoi frati solo nel
1933. Ospite del convento è stato, negli
anni che vanno dal 1934 al 1935, il
principe di Piemonte Umberto di Savoia, il quale profuse ingenti somme
MENU DELLA MEMORIA
N
Nusco e Montella
montella, chiostro del convento
di s. francesco a folloni
di denaro per restaurare il convento
e per dotare la chiesa di preziosi parati di seta di San Leucio. Proprio in
tema di tessuti va ricordato il famoso
restauro effettuato da Lucia Portoghesi,
delle vesti del conte Diego Cavaniglia,
feudatario di Montella e Bagnoli nella
seconda metà del XV secolo, ritrovate
sul suo corpo nel monumento funerario
sito nella sagrestia. (M. M.)
MENU DELLA MEMORIA
MENU DELLA MEMORIA
Gioielli da ammirare affacciati al Balcone
Tartufo nero di Bagnoli Irpino
il prodotto tipico
L
nusco, chiesa di san giuseppe
a natura incontaminata della verde Irpinia, il terreno umido e le basse
temperature formano l’habitat ideale per il tartufo, parola che deriva dal
tardo latino territufer, cioè escrescenza della terra. Bagnoli Irpino solo da qualche
decennio ha compreso in pieno la ricchezza che si nasconde nei boschi che
circondano il paese sito sotto il Monte Laceno, dove ogni anno si raccolgono
oltre sessanta quintali di prezioso tartufo nero. Per il suo inconfondibile aroma,
complesso e penetrante, il tartufo di Bagnoli Irpino aggiunge ai piatti un tocco di
tale prestigio e ricercatezza da trasformare il cibo più semplice in una pietanza
d’alta cucina. Dalla buccia rugosa e la polpa scura striata da sottili venature
chiare, il tartufo irpino è composto essenzialmente di acqua, fibre e minerali
ed è quindi irrilevante nel computo delle calorie di un piatto.
59
Passata di ceci, baccalà e pizza di scarola
Candele alla «genovese» di cipolle ramate
Guancia di manzo brasata all’aglianico con purea di zucca
Profumi e sapori d’autunno
Terrina di ricotta, composta di fichi fioroni, noci e ... spezie
Degustazione vini dell’Azienda Feudi di San Gregorio
A persona
euro 60.00
vini inclusi
60
Un siciliano stregato dalla Campania
P
aolo Barrale: uno chef
capace di unire il prodotto terragno locale, il non
lontano mare e le suggestioni
gustative della sua terra (latte
di mandorle, sale di Mozia) in
ammirevole sintesi. Il 34enne
Barrale è infatti siciliano di
Cefalù, e viene dalla nidiata di
ragazzi-prodigio diplomati alla
scuola di Heinz Beck, fino a poco fa stellato consulente gastronomico di «Marenna’», affascinante bunker del gusto annesso
all’azienda vinicola dei Feudi di
San Gregorio. Paolo tiene dunque in gran conto il Regno delle
Due Sicilie in chiave di tecnica,
divertita rivisitazione: si pensi al
triplo appetizer degustato nel
corso della nostra ultima visita
al locale di Sorbo Serpico, composto da a) ricotta di fuscella
con dattero candito nel miele e
alici di Cetara; b) cubo pressato
di per’ e musso accompagnato
da micro-coppetiello contenen-
celebri «passatine», o a un piatto che più napoletano non si
può (malgrado le nordiche origini: non Genova come in tanti
credono, bensì Ginevra, Genève),
cioè la genovese, che lui prepara con la saporitissima cipolla
ramata. La guancia di manzo
all’Aglianico «della casa» è cotta
per ore a bassa temperatura, e
Paolo Barrale
le verdure sono sempre di state sale e pepe per condire; c) gione (qui non ci sono solo la
«Napoli 2 volte» consistente terrazza sui vigneti o l’immensa
in una tazzina da caffè di ve- e scenografica cantina con tavotro colma di spuma di fagioli lissimo per cene sotterranee, ma
di Controne e ridotto di cozze anche l’orto didattico), mentre
spolverato di caffè e nocciole. il carosello di profumi e sapori
Più, nel cucchiaino, un mitile in d’autunno prosegue prima con
tempura. Per chi a tavola ama i formaggi irpini («verticale» di
lo spiazzamento intelligente podolici, Carmasciano...) e poi
(e saporito) a «Marenna’» c’è con i fuochi d’artificio finali
da spassarsela: ma lo chef sa che arrivano dalla spettacolail fatto suo anche quando de- re cucina a vista cucina a vista
ve vedersela con la tradizione. sotto forma di dessert: noci,
Assaggiare, per credere, la sua fichi o ricotta? Barrale vi farà
passata di ceci con baccalà che «marennare» («merendare»
non ha nulla da invidiare a più in lingua irpina) con tutti e tre.
www.feudi.it
MENU DELLA MEMORIA
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Marenna’
Sorbo Serpico - Avellino
indirizzo Località Cerza Grossa Sorbo Serpico (AV)
telefono 0825 986666
chiusura domenica sera, lunedì e martedì
carte di credito tutte
Percorrere l’autostrada Napoli-Bari e uscire
al casello di Benevento est, proseguendo poi
lungo l’Ofantina fino all’uscita di Sorbo Serpico.
Dopo aver attraversato il paese svoltare a
destra fino a raggiungere l’azienda Feudi di
San Gregorio, di cui il ristorante fa parte.
61
I
l Comune di Sorbo Serpico è un
piacevole paesino della conca avellinese, situato nella valle del torrente
Salzola, ai piedi dei monti Piacentini,
centro della Comunità Montana “Terminio - Cervialto”. Per la sua posizione,
circondato da bellissime campagne, vi
si può godere lo splendido panorama
di tutta la valle circostante. Questo
comune è ideale per le escursioni a
piedi o in bicicletta attraverso le sue
campagne. Qui si respirano i profumi di una natura incontaminata che
conserva i resti di un passato ricco
di storia e di arte, l’aria è salubre e
l’ospitalità è accogliente.
sorbo serpico, torre del castello
62
Il suo nome deriva da due termini latini, sorbus - antica pianta diffusa nella
zona - e serpeus - serpente - dovuto
con molta probabilità alla presenza
in quest’area, in età romana, di un
luogo di culto dedicato a Serapide. Il
territorio era conosciuto già all’epoca
dei romani i quali ne sfruttarono le
risorse idriche. Particolarmente carat-
panorama di sorbo serpico
teristici erano i ruderi di un acquedotto
di età imperiale, che portava l’acqua
fino alla colonia Augusta Abellinarum
(odierna Atripalda), oggi non più visibili.
Il centro storico si sviluppò nel medioevo e già dal 901 se ne attestata
l’esistenza, quale casale di Conza. Fu
successivamente feudo autonomo dei
Gesualdo, dei Galeota e dei Della Marra di Serino.
Non può mancare una visita al Castello Medioevale, che si trova sul
colle Serpico, immerso nella vegetazione dal quale è possibile ammirare i
ruderi dell’antico abitato abbandonato
nel XV secolo.
Notevole anche il seicentesco Palazzo Brancaccio che presenta un
bel portale, con il suo cortile interno
lastricato e la facciata con numerosi
balconi e ancora la Cappella della
Madonna della Neve, situata su
una collina all’interno della quale è
custodito un affresco settecentesco di
ottima fattura.
Da Sorbo Serpico ad Atripalda il
percorso è breve e vale la pena fare
una sosta. Atripalda è posizionata
sulle rive del fiume Sabato, a pochi
chilometri dal capoluogo avellinese, in
un territorio che un tempo fu sede
di importanti centri sanniti, fra cui
la ricca e famosa Abellinum. Le sue
origini risalgono al 570 circa quando
Abellinum fu conquistata dai Longobardi e la città fu ridotta in stato di
miseria, quasi totalmente abbandonata dai suoi abitanti. Poco distante da
Abellinum, nei pressi della Chiesa di
Sant’Ippolisto, sorse il primo nucleo
Sorbo Serpico e Atripalda
di Atripalda. Il toponimo di Atripalda
sembra essere legato al longobardo
Truppoaldo che ereditò parte della
contea di Avellino dalla sua famiglia, gli
Adelferii. L’insediamento di Truppoaldo
nel castello, che presto fu circondato
da numerose abitazioni, dette un nuovo impulso alla vita del borgo appena
sorto. Il lungo periodo di prosperità
proseguì anche nel XIV secolo, difatti
l’unione di due famiglie importanti
del luogo, avvenuta nel 1332, con il
matrimonio fra Simona Orsini, signora
di Atripalda e Tommaso Marzano, si
rivelò assai proficua per l’economia.
Successivamente, nel 1484, il feudo
passò dagli Orsini alla regina Giovanna
d’Aragona, nel 1564 divenne proprietà
dei Caracciolo che nel 1572 ottennero
il titolo ducale. Proprio durante la dinastia dei Caracciolo la città divenne
un importante centro commerciale e
manifatturiero.
Nel luogo dove sorgeva l’antica Abellinum, denominata oggi Civita, sono
ancora visibili resti di numerosi edifici
atripalda, cortile del conservatorio
della purità
sia pubblici che privati. Di notevole interessa risulta essere lo “Specus Martyrum”, il cimitero in cui furono sotterrati
i martiri della Chiesa di Sant’Ippolisto,
elevata a collegiata nel XVI secolo, all’interno della quale si conservano antiche
colonne e manufatti dell’epoca romana. Sono da visitare anche la Chiesa
dell’Arciconfraternita dell’Annun-
ziata, nella quale è possibile vedere
una splendida Annunciazione di scuola
fiamminga, la Chiesa del Santissimo
Rosario, dove si trovano le tombe dei
membri della famiglia Caracciolo, e il
Conservatorio della Purità, edificio
sorto nei primi decenni del Settecento.
Non ultima da annoverare è la cosiddetta nuova Dogana, centro della
vita commerciale di Atripalda, costruita
verso la fine dell’Ottocento, oggi sede di
manifestazioni e mostre.
Poco distante dal centro abitato si possono ammirare le rovine del Castello
medioevale e il Palazzo Caracciolo che oggi purtroppo è in stato
di abbandono. Il palazzo, gravemente
danneggiato dal terremoto del 1980, è
caratterizzato da una pianta a forma
di cavallo con cortile centrale, probabilmente disegnato dall’architetto Cosimo
Fanzago, fu ristrutturato nel 1787 dal
principe Giovanni Caracciolo che ampliò
notevolmente anche il parco dotandolo
di giochi d’acqua e di preziosi reperti
archeologici. (M. M.)
MENU DELLA MEMORIA
MENU DELLA MEMORIA
Una conca di storia e natura incontaminata
Baccalà
il prodotto tipico
U
atripalda, chiesa di s. ippolisto
n tempo il pesce fresco era reperibile solo nei centri costieri, gli abitanti
delle zone interne dovevano accontentarsi del pesce salato per rispettare l’obbligo di astinenza dalla carne imposto dalla Chiesa nei numerosissimi
giorni di magro che, sommati a quelli di digiuno, superavano la metà dell’anno.
Grande importanza assunse quindi il merluzzo salato o seccato, rispettivamente baccalà e stoccafisso, che giunse nel napoletano verso la fine del Seicento e
trovò nei dintorni del grosso centro di Somma Vesuviana il luogo ideale per
lo stoccaggio, la preparazione e il commercio, grazie alla presenza del fiume
Sebeto che forniva i notevoli quantitativi di acqua necessari alla sua lavorazione.
Il termine baccalà, dallo spagnolo bacalao, è metatesi del tedesco kabeliau,
mentre stoccafisso viene dall’olandese antico stocvish, cioè pesce bastone.
63
Vellutata di fagioli bianchi della Baronia
con polpettina di scarole e olio di Ravece
Fiano spumantizzato
Zeppola di patate e baccalà
su crema di pomodoro e olio al sedano
Greco di Tufo
Raviolone di ricotta in salsa di noci e aglio bruciato
Falanghina vendemmia tardiva
Agnello in cottura lenta e lunga
su purè di patate e riduzione di Taurasi
Taurasi
Millefoglie in verticale
con crema casalinga, granella di nocciole e visciole
Fiano passito
Piccola pasticceria
A persona
euro 65.00
vini inclusi
64
Quando la cucina diventa poesia (oraziana)
U
n’esperienza che vale
il viaggio (anzi almeno due, perché dopo
la prima volta avrete già voglia
di tornare): leviamo i calici alla
famiglia Fischetti per l’umile
tenacia con cui prima hanno
conquistato la leadership della
ristorazione irpina, e poi gestito
un successo non sempre facile
da amministrare. Lo spazio è
luminoso, gli oggetti di arredo
sono scelti con cura; s’è da tempo ricavata una sala smoking
e una per le degustazioni, ma
i tocchi d’eleganza non hanno
fatto di quest’angolo d’Irpinia
una bomboniera internazionale buona per tutte le latitudini;
e uno sguardo al menu, tutto
orgogliosamente territoriale,
toglie ogni residuo dubbio: qui
si fa grande cucina (in una cucina grande, e a vista) restando
fedeli a se stessi. Ricordo con
commozione, in una delle mie
ultime visite, le uovo strapazza-
scarole e dall’olio di Ravece,
seguita alla zeppola di patate e
baccalà su crema (di pomodoro) e olio (al sedano!). Ai primi
piatti, il raviolone (fatto in casa:
ma per le sorelle Michelina e
Maria Luisa Fischetti ai fornelli
la casalinghitudine è la norma)
vanta la presenza dell’aglio bruciato, uno dei piaceri della vita
La famiglia Fischetti
che il berlusconismo tenta (in
te (decorate da listelle di Car- questo caso invano) di vietarci;
masciano) con polvere di pepe- l’agnello irpino è cotto piano
roni «cruschi», cioè croccanti, o piano in riduzione di Taurasi, la
la minestra di di fave fresche castagna del pre-dessert viene
con cipolle, patate e menta, o i servita in millanta modi diver«trilli» con asparagi e pecorino, si e la millefoglie è verticale...
o ancora la minestra “oraziana” Con l’impeccabile Puccio in
(con essa il Poeta si consolò da sala a condurvi per mano tra
una delusione d’amore) a base gli incanti dei “sapori antichi”
di farro e cicerchie. Ma - per e il fratello sommelier Carmirestare al «menu della memo- ne a guidarvi tra le meraviglie
ria» approntato per l’occasio- dell’enologia Irpina (l’ultima volne - ecco la vellutata di fagioli ta avevo contato in carta novebianchi della Baronia, una vero cento etichette, più il carrello dei
«unicum» dell’Irpinia estrema, vini “al bicchiere”) vi sfidiamo a
impreziosita dalla polpettina di sbagliare un piatto, o un vino.
www.oasis-saporiantichi.it
indirizzo via Provinciale, 10
Vallesaccarda (AV)
telefono 0827 97021 - 0827 97444
chiusura giovedì e la sera dei giorni
festivi
carte di credito tutte
Percorrere l’Autostrada Napoli-Bari A16
e, una volta usciti al casello di Vallata
percorrendo la strada statale 91 bis
delle Puglie per circa 5 Km. di splendido
paesaggio incontaminato ed immerso
nel verde, si arriva a Vallesaccarda.
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Oasis Sapori Antichi
Vallesaccarda - Avellino
65
66
Vallesaccarda e Trevico
V
allesaccarda, paese in provincia
di Avellino, è stata fino al 1958
una frazione della vicina Trevico. E’
un paese di antiche origini, le scoperte
archeologiche nelle località Mattine
e Taverna delle Noci lasciano ritenere che la zona fosse abitata già in
età romana. Il primo nucleo del centro abitato, tuttavia fu edificato con
molta probabilità in epoca cristiana,
lungo la via che i pellegrini di Trevico
percorrevano per recarsi in visita alla
Madonna di Anzano, oggi situata
nella vicina provincia di Foggia. Dotata
di un notevole valore paesaggistico,
caratterizzato dalla presenza della
montagna di Trevico che sovrasta il
paese, Vallesaccarda non conserva
monumenti di particolare rilievo artistico e culturale.
Da Vallesaccarda vale una visita il
paese di Trevico, situato all’estremità orientale della provincia di Avellino, sulla montagna omonima, il cui
centro abitato, si sviluppa su un lieve
rivolto a oriente, ed è il più elevato
dell’Avellinese. L’origine del nome e
tuttora incerta, alcuni riferiscono il toponimo a un’antica divinità pagana,
trevico, piazzale antistante la cattedrale
veduta di vallesaccarda
la dea “Trivia”, alla quale, in questo
luogo, era dedicato un tempio. Altri
invece, fanno risalire il nome del paese all’epoca sannitica, allorquando in
questa zona sorgevano villaggi sparsi
-“vici”- come testimoniano i numerosi
ritrovamenti archeologici. Secondo la
studiosa Carla Marcato il nome deriva
da i “tres vicos” tipici delle fondazioni
medioevali. Il primo riferimento sicuro
sulla esistenza di un centro chiamato
Trivici si rileva da una satira del poeta Orazio, che descrive un viaggio da
Roma a Brindisi dove vengono forniti
numerosi particolari sul pernottamento in una villa vicina Trivici nella quale
il poeta attese invano l’arrivo di una
ragazza per trascorrere insieme la
notte. Trevico nel Medioevo fu una
potente roccaforte posta a guardia
di una vasta baronia sulla quale ebbe, per un lungo periodo, il primato
politico e amministrativo.
Gli ultimi signori di Trevico furono i
Loffredo, i quali lo ricevettero da Elvira, figlia del gran capitano spagnolo
Consalvo Fernandez de Cordova, nel
1515, e lo tennero fino all’abolizione
dei diritti feudali.
Nel paese sono conservati, ancora
intatti, i segni del suo passato. All’ingresso di via Roma è visibile in tutta
la sua imponenza, la Porta Iacovella o
Port’Alba, costruita nel 1578 come
ingresso a oriente, caratterizzata da
un arco a tutto sesto retto da due
pilastri in pietra viva. Nella parte
più alta del centro storico è possibile
ammirare la cinta muraria, una torre
cilindrica e altri ruderi di un possente
Castello, del quale ancora oggi non è
certa l’epoca della costruzione, alcuni
studiosi lo fanno risalire all’epoca dei
normanni. Poco distante dal Castello è
la Chiesa dell’Assunta o della Madonna della Libera, il cui ingresso fu
ricavato in una torre campanaria quadrangolare. Al suo interno sono conservati un fonte battesimale in pietra,
del 1618, un coro ligneo del Settecento e una nicchia rivestita in marmo,
del XV secolo. Di notevole importanza
è la Cripta della Cattedrale che in
origine dovette essere il primo tempio
dove i cristiani della zona pregavano.
Ha una pianta centrale, e le pareti
sono quasi interamente affrescate: sul
lato destro dell’ingresso, dopo aver superato un elegante portale gotico in
pietra locale che porta la data 1472,
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Sulla via dei pellegrini
Trevico, Ruderi del Castello, sullo sfondo la Stazione metereologica
si può ammirare un trittico affrescato raffigurante San Domenico, Santa
Caterina e alcuni Membri incappucciati di una Congrega del luogo . Altri
edifici da segnalare sono la Chiesa
di San Rocco, il Monumento ai
Caduti, e il Palazzo Petrilli - con
una caratteristica torre angolare - e
Palazzo Calabrese. Da Trevico, per
la sua posizione di osservatorio privilegiato su numerose vallate e centri
abitati, è possibile spaziare con lo
sguardo su vastissimi orizzonti, fino a
comprendere gran parte della Puglia,
del Molise, della Campania e della
Lucania. (M.M.)
Fagioli bianchi della Baronia
il prodotto tipico
C
trevico, chiesa di san rocco
oltivato sin dall’antichità in molte regioni d’Italia, il fagiolo fu a lungo considerato cibo rustico per contadini. Questa specie antica, nota anche a
Greci e Romani, è da identificare con i fagioli dall’occhio originari delle regioni
tropicali dell’Africa e dell’Asia. Le numerose varietà di fagioli attualmente in
commercio sono di provenienza americana e si diffusero nel XVI secolo. Oltre
ai borlotti e ai cannellini di importante diffusione, esistono numerose altre
varietà di rilevanza solo locale. E’ il caso dei fagioli bianchi della Baronia di cui
esistono due varianti, una dal seme reniforme simile al cannellino ma leggermente più schiacciato, l’altra dai semi piccoli e tondi, chiamati anche quarantini,
perché vengono fuori dopo 40 giorni dalla messa a dimora. Ambedue sono
teneri e saporiti e, se freschi, richiedono tempi brevissimi di cottura.
67
Sfogliata classica napoletana
con patate e funghi di bosco in salsa di tartufo
Pancotto arianese con cicoriette selvatiche
e patate con lardo del territorio
Zuppa di fagioli e castagne con tagliolini in grano saraceno
Paccheri con patate e broccoli, aglio, olio e peperoncino
in colatura di alici
Baccalà al vapore in olio di Ravece con pinoli tostati
e anelletti di cipolla in crosta di mais
Millefoglie scomposta
con crema di ricotta di bufala e castagne
Degustazione di vini dell’Irpinia
A persona
euro 46.00
vini inclusi
68
Sinfonia della cultura contadina
S
edetevi fiduciosi, questo baluardo dei sapori irpini merita una visita più che attenta.
E la cucina della benemerita famiglia Ventre vi aiuterà nel compito,
costringendovi amorevolmente a
non distogliere le pupille e le papille da piatti che rappresentano
l’apologia della tipicità e la quintessenza della genuinità. di una delle
aree irpine più legate alla propria
storia e alle proprie consuetudini.
E se per il menu della memoria
e delle feste l’entrée tiene conto
della lezione barocca napoletana
con la sfogliata di patate e funghi
(ma questi ultimi con la inebriante
salsa di tartufo che li accompagna
ed esalta, sono ovviamente e orgogliosamente locali) con gli antipasti
siamo già in piena irpinitudine, con
una ricetta povera e saporitissima
come il pancotto arianese cui le
cicoriette selvatiche e il lardo locale regalano un surplus di gusto
perduto e ritrovato. La zuppa di
fagioli e castagne con tagliolini di
mi) si cucina e si onora il baccalà, che oltre a essere un pesce è
anche nordico: Guglielmo Ventre
in quest’occasione lo propone al
vapore ma accompagnato da
un’altra delle meraviglie stavolta
autenticamente irpine, ovvero il
luminoso, sensoso e sensuale olio
di Ravece. E sul dessert la pasticceria non rinuncia al colpo d’ala
Guglielmo Ventre
della rivisitazione, con la millefoglie
grano saraceno sono un’altra sin- scomposta alla crema di ricotta e
fonia d’uno spartito gastronomico castagne. Irpinia vuole ovviamente
contadino che viene da lontano, dire anche vino, e qui i principamentre nel secondo “primo”, i li Taurasi e Aglianico li troverete
paccheri con patate e broccoli, la tutti (nel caso dell’Aglianico, pure
salernitana colatura di alici è lo quello del vicino e concorrenteVulstruggente sogno esotico di una ture): tutte occasioni per scoprire
cultura che, cresciuta lontano dal la carta a sorpresa che Guglielmo
mare e dalla costa, ne ha sempre Ventre gioca a fine pasto, e che è
subito il misterioso e leggendario una carta dei formaggi di quelle
fascino. A proposito, l’Irpinia è an- che non s’incontrano spesso a Sud
che l’area dove con più passione e di Roma: dal Bagoss al Canestravarianti (Portogallo a parte, che di to v’è elencata (e descritta) ogni
ricette ne conta 365, una per ogni delizia vaccina, ovina e caprina
giorno dell’anno, e quando arriva dell’Italia che resiste (alla massil’anno bisestile sì che sono proble- ficazione dei saperi e dei sapori).
www.ristorantelapignata.it
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La Pignata
Ariano Irpino - Avellino
indirizzo viale dei Tigli, 7
Ariano Irpino (AV)
telefono 0825 872571-0825 872355
chiusura martedì
carte di credito tutte
Percorrere l’autostrada A16 NapoliBari, uscire al casello di Grottaminarda,
proseguire in direzione Ariano Irpino.
69
70
Ariano Irpino
A
riano Irpino ha antiche origini, sorge molto probabilmente
nell’Alto medioevo. Rappresenta una
delle cittadine più ricche di storia e
di monumenti dell’Irpinia. Nella zona
i primi insediamenti individuati sono
la necropoli preistorica di La Starza,
dalla quale si sono rinvenuti notevoli
ceramiche del Neolitico, e il centro
italico e poi romanico di Aequum
Tuticum, che sorgeva a qualche chilometro dall’attuale abitato.
L’origine del nome Ariano deriva, secondo alcuni studiosi, dal latino ab
Ara Iani, che la lega ad un santuario anticamente situato sulla collina
in onore di Giano. Altre ipotesi fanno
invece supporre che il suo nome de-
Ariano Irpino, particolare
della facciata della Cattedrale
ariano irpino, il castello e la villa comunale
rivi dalla presenza nella zona di un
fundus arianus. Si ipotizza che uno
dei suoi primi feudatari sia stato uno
dei dodici conti normanni tra i quali
fu divisa nel 1042 la Puglia. Nel 1139
Ariano fu cinta d’assedio, da Ruggero
il Normanno con esito negativo, questi
non soddisfatto ci riprovò una seconda
volta, nel 1140, riuscendo nella sua
impresa, una volta assediata, cominciò a promulgare le sue prime leggi
davanti al parlamento. Vari furono i
tentativi di assedio nel corso dei secoli: nel 1255 dai saraceni di Manfredi,
fu conquistata con l’inganno e venne
devastata e saccheggiata, dagli Angioini
e dagli Aragonesi.
Ariano ha vissuto periodi di grande
splendore, in un documento del Consiglio di Castiglia al tempo di Filippo IV di
Spagna e di Napoli, si descrive Ariano
come “molto popolosa, unica nella Provincia del Principato Ultra e di grande
importanza per il Regno di Napoli, con
piazza d’armi e con un antico castello
non facile da espugnare, munito di torri
di avvistamento, fossati a secco, mura e
fortini, che non serve soltanto da difesa
a quella provincia, ma soprattutto è il
baluardo del Regno”.
E’ stata più volta devastata dai terremoti, con danni gravissimi alla città e
ai suoi monumenti. I restauri successivi ai terremoti sono particolarmente
evidenti nella Cattedrale di Ariano,
dedicata all’Assunta, sorta in età longobarda sui ruderi del tempio di Apollo,
con un campanile molto più recente
che si affaccia sulla città. La parte più
antica dell’edificio attuale è la facciata
cinquecentesca, iniziata nel 1502 per
volere del vescovo Hippolitis e ultimata
dal suo successore Carafa. Anche i portali e gli altorilievi della Vergine (al centro), di Sant’Ottone patrono di Ariano
(a sinistra) e di Sant’Elziario (destra),
risalgono allo stesso periodo. Il timpano
è stato abbassato dopo il terremoto del
1732. Il suo interno è costituito da tre
navate in stile barocco, mentre il fonte
battesimale è del 1070. Tra gli altri
monumenti degni di nota ad Ariano è
la Collegiata di San Michele Arcangelo, nella parte bassa del centro.
Ancora particolarmente suggestivo è il
Castello situato nel punto più alto del
paese, con le sue torri tronco-coniche
in stile aragonese costruite nel Cinquecento. Dagli scavi effettuati sono state
riportate alla luce mura dei periodi
longobardo e normanno.
Nel centro storico una visita va fatta
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Dalla Collegiata al Castello
ariano irpino, centro storico
ai quattro musei presenti nel territorio:
Museo archeologico, all’interno del
quale sono esposte ceramiche, oggetti
in bronzo, monili in ambra e argento,
cippi e monete degli insediamenti preistorici di Casalbore e La Starza e di
quello romano di Aeequum Tuticum; il
Museo diocesano con esposti dipinti, paramenti, oggetti sacri e reliquiari
tra cui di particolare rilevanza risulta
quello del Vannini, datato al 1452, e il
coro ligneo di Fra Tommaso da Vasto
del XVI secolo; il Museo Giuseppina
Arcucci, nel convento delle suore dello
Spirito Santo, all’interno del quale sono
conservati documenti, oggetti sacri e
opere d’arte legate alla presenza delle
religiose cassinesi ad Ariano; il Museo
della Ceramica, infine ma non ultimo, dove è possibile ammirare opere
di artisti e artigiani locali che vanno
dal Cinquecento fino ai giorni nostri, e
importanti documenti d’archivio relativi
alla storica locale. (M. M.)
Olio di Ravece
il prodotto tipico
I
Ariano Irpino, Cattedrale,
altorilievo della madonna assunta
n Irpinia, sulle colline dell’Ufita, sin dall’epoca angioina (XIII e XIV sec.)
si affermò la coltivazione dell’olivo, consolidatasi durante la dominazione
spagnola e giunta al massimo sviluppo nel XIX secolo, favorita dall’ambiente
pedoclimatico dell’Irpinia con terreni ricchi di sedimenti vulcanici e un clima
influenzato dalla dorsale appenninica che attraversa l’intero territorio. Ma
la peculiarità dell’olivicoltura irpina è data da una oliva di grande pregio, la
Ravece, nota anche come Curatone e Olivona. E’ una varietà rustica, molto apprezzata per la produttività costante e per l’elevata qualità dell’olio, sebbene
la resa sia piuttosto bassa. Il colore dell’olio di Ravece è verde, se giovane,
oppure giallo paglierino, il profumo è fruttato con sentori di pomodoro,
armonico, con intense ma gradevoli punte di amaro e piccante.
71
Lenticchie con crema di pecorino e tartufo irpino
Minestra di Natale con stracciatella d’uovo al formaggio,
pinoli e uva passa
La scarola ’mbuttunata con gli spaghettoni
Faraona con castagne del prete e misto di funghi
Struffoli morbidi di ricotta, miele e salsa di agrumi
Fiano A Casa
I
l suo piatto delle origini, la
«maialata» (filetto di maiale panato, cotto in olio, poi
disossato e ri-cotto al forno con
burro) è finito anche al «San
Domenico» di New York, dove
Tony May l’ha messo in carta
dopo la tournée statunitense di
Giovanni Mariconda. Ma intanto la cucina di «Taberna Vulgi»
continua a crescere, ragion per
cui si rende doverosa una sosta
a Santo Stefano del Sole, Campania profonda, Irpinia confinante con il Salernitano, e dalla
vocazione fino a poco tempo fa
assai contadina e poco turistica:
il locale di Mariconda, nato —
come indica il nome — per soddisfare gli appetiti della plebe,
si è nel giro di poche stagioni
evoluto in luogo di elezione per
buongustai a caccia di emozioni, e se Santo Stefano è ora un
nome che compare nell’agenda
dei gourmet non solo campani
il merito è appunto di Giovanni,
Giovanni Mariconda
che oltre a raffinare continuamente le proprie proposte, è appassionato e sincero testimonial
delle eccellenze locali, sempre
pronto a dare una mano (e
a volte tutt’e due) ai colleghi
ristoratori vicini. Le sale della
“Taberna” sono adesso tre (più
il salottino da avana e distillati
con fornita gastrobiblioteca) e
l’ultima nata è la più suggestiva, con ampi finestroni affacciati
sul verde, centritavola fantasiosi
(sassi e fil di ferro a citare un
viaggio di studio nei Paesi Baschi), carta dei vini ad ampio
Aglianico e Piedirosso EME’ I Capitani
Taberna Vulgi
indirizzo contrada Casino, 6 - Località S.
Pietro - Santo Stefano del Sole (AV)
telefono 0825 673664
chiusura domenica sera, lunedì e martedì
carte di credito tutte
A persona
euro 42.00
Percorrere l’autostrada A16 Napoli-Bari, uscire
al casello Avellino ovest. Seguire la segnaletica
del raccordo autostradale AV-SA. All’altezza
dello svincolo per Salerno, uscire ad Atripalda.
Imboccare la Strada Provinciale 5 “Turci” e
seguire le indicazioni per S. Stefano del Sole.
vini inclusi
72
Un giramondo irpino di talento
spettro nazionale e approfondita
attenzione alle etichette irpine
di pregio, e formaggi del territorio (podolico, pecorino «di grotta» e Carmasciano i vanti della
casa). Ma, ora che s’è scoperto
creativo, Mariconda non arretra
di fronte alle sperimentazioni,
dall’antipasto al dessert: a Helsinki, durante i recenti Mondiali
di atletica, propose Maalaisleipää peltomiehen tapaan e
Liköörihedelmäkakku, ovvero
«scomposta di fresella» e «zuppa inglese in trasparenza». Ma
per il menu della memoria Giovanni ha attinto a piene mani ai
ricordi di territorio e di famiglia,
ai giorni in cui le feste si “santificavano” gastronomicamente
con le lenticchie, il pecorino e il
tartufo ovviamente irpino, con la
“minestra di Natale” arricchita
dalla stracciatella d’uovo, con la
scarola ‘mbuttunata e con un
piatto ricco e raro come la faraona con le castagne del prete.
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Taberna Vulgi
Santo Stefano del Sole
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74
Serino, Canale di Serino e Borgo S. Stefano
S
erino è uno dei comuni più estesi
della provincia di Avellino, secondo lo storico Francesco Scandone, il
suo nome ha antichissime origini e
deriverebbe dall’osco “sarino” che vuol
dire “chiaro”.
L’imperatore Claudio tra il 54 e il 41
a.C. fece costruire un acquedotto che
da Serino arrivava fino alla “Piscina
Mirabile” presso Miseno (Na), dove
i romani, per l’approvvigionamento
idrico della flotta militare, scavarono nel tufo della collina di Bacoli un
grandioso serbatoio. Da allora le acque sorgive di Serino hanno sempre
servito Napoli.
Nel 1885 fu costruito un nuovo acquedotto ampliato poi nel 1924, che
utilizza le sorgenti Urciuoli, Pelosi, Acquara. Di notevole interesse è l’Area
Archeologica in località Ogliara
dove è possibile visitare la Civita (un
fortilizio longobardo) e avanzi per
lungo tempo ritenuti i resti dell’antica
Sabatia.
Serino, dettaglio di un affresco nel Convento di San Francesco
Serino,Crocifissione,
olio su tela di Angelo Solimena, 1705
Non può mancare una visita a Canale di Serino, frazione di Serino, che
ha dato i natali a due personalità di
spicco della pittura del 700 a Napoli,
Francesco ed Angelo Solimena.
Padre del pittore Francesco Solimena,
Angelo, detto l’Abate Ciccio (Canale di
Serino 1657- Nocera de Pagani 1747),
risulta essere una principali figure di
artisti che hanno contribuito allo sviluppo del barocco e del roccocò, divenendo uno dei più famosi pittori della
sua epoca. Originario della provincia di
Avellino, vive per gran parte della sua
vita a Nocera de’ Pagani (oggi Nocera
Inferiore) dove sposa Marta Grisignano. Si rifugia a Canale di Serino per
sottrarsi all’epidemia di peste da cui è
invasa Nocera. Fu allievo del solofrano
Francesco Guarino, che era già affermato come pittore alla corte di Ferdinando III Orsini, principe di Solofra e
duca di Gravina.Tra il 1657 e gli inizi
del 1660 Angelo eseguì 21 tele per il
soffitto del Santuario di Materdomini
di Nocera Superiore, mentre nel 1662
si trasferì definitivamente a Nocera e
aprì bottega di pittore “al borgo”. Nel
1667 fu chiamato a completare la decorazione della chiesa del Monte dei
Morti, tomba della famiglia Orsini. Le
sue prime opere documentate sono la
Pentecoste, eseguita nel 1654 per la
Collegiata di San Michele a Solofra e i
dipinti coevi per il soffitto della Chiesa di Sant’Andrea a Sant’Agata,
allora appartenente al Comune di
Serino. Angelo Solimena ha lasciato
tracce della sua attività anche nella
sua Serino. Varie testimonianze sono
state raccolte sulla sua attività pittorica negli anni tra il 1655 e il 1657.
Dipinge una Madonna delle anime
Purganti con S. Antonio e S. Gaetano
per la chiesa del Santissimo Corpo di Cristo in S. Sossio di Serino e
per la stessa ha completato nel 1655
una Madonna col Bambino, S. Domenico, S.Gaetano e S. Matteo, iniziata
da Francesco Guarino, del quale è la
figura di S. Matteo, ancora una Sacra
Famiglia, firmata e datata 1682, nella
chiesa di S. Michele di Serino e
il Martirio di San Lorenzo , firmato e
datato 1704 nella chiesa parrocchiale
di Canale sua città natale.
il prodotto tipico
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Gli affreschi di Angelo Solimena
borgo s. stefano, chiesa di s.vito
Caratteristico da visitare è anche il
borgo di Santo Stefano, così chiamato fino al 1863 per la devozione
al culto del patrono del luogo. Tra
gli edifici meritevoli di visita sono la
Chiesa di San Giovanni, dalle linee
classicheggianti, caratterizzata da una
curiosa bifora inserita all’interno nel
timpano, che svolge funzioni di torre
campanaria. Di particolare interesse
sono anche le due finestre in stile barocco che ornano la Chiesa di San
Vito, detta anche di Santo Stefano,
ornata da un orologio piccolo collocato nella parte superiore dell’edificio,
concluso da due campane sospese a
una semplice intelaiatura di ferro. Sulle
origini del paese non si conosce molto,
i pochi ritrovamenti archeologici testimoniano una scarsa frequentazione
del luogo. In epoca romana, il territorio
dell’odierno Santo Stefano rientrava
nel comprensorio dell’antica Abellinum,
l’attuale Atripalda. (M. M.)
Castagna di Serino
a diffusione di una delle migliori castagne campane sui rilievi picentini
e del serinese è da attribuire alle cure dei frati dell’abbazia di Cava
dei Tirreni che si dedicarono tra l’XI e il XII secolo al miglioramento dei
castagneti presenti sulle loro proprietà, come documentano gli antichi
manoscritti tramandati dalla paziente opera dei monaci Benedettini.
Nella denominazione «Castagna di Serino» si comprendono due cultivar
locali, la Montemarano e la Verdole, la prima è considerata tra le migliori
varietà italiane ed è caratterizzata dalle dimensioni medio-grosse dei
frutti, il colore bianco-latte del seme e la polpa dolce e croccante. La
raccolta avviene intorno alla metà di ottobre, metà del prodotto viene
destinato al mercato internazionale, il resto è ripartito tra consumo
fresco e industrie di trasformazione.
L
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Pan’ cuott’ cu fasul’ e friariell’
(pancotto di cime di rapa su passatina di fagioli della regina
e lardo di Faicchio, olio al rosmarino)
Past’ e patan’
(rivisitazione della pasta e patate con colatura di alici)
Elogio al “pelatiello” (maiale nero casertano)
Piccola pasticceria
Salsa di cioccolato calda
Gelato al torrone di San Marco dei Cavoti
“LA” Kolsch birra artigianale di Faicchio o Asprinio di Aversa I Borboni
Aglianico Azienda Cinquelance o Aglianico I Pentri
“LA” dark strong ale birra artigianale di Faicchio o Nocillo “‘E Curti”
A persona
euro 45.00
Fuochi d’artificio nel cuore del Sannio
F
uochi d’artificio a Puglianello: ogni visita al “Foro
dei Baroni” si risolve in
pirotecnia di sapori, fantasmagoria di accostamenti, festa
per occhi e palato. A cominciare dal benvenuto, con Raffaele D’Addio in cucina e con
il suo braccio destro Pasquale
Marzano in sala (e non solo)
sai già che non ti annoierai:
varcato il discreto ingresso
nella piazzetta storica del piccolo paese sannita, ti troverai
in due salette ad archi con
non più di 30 coperti, pronto
a partecipare a un esaltante
show del gusto, a cominciare
dai pani e dai grissini che cambiano impasto e foggia a ogni
visita (allo strutto, alle nocciole, baguette, girelle ai semi di
papavero...). Raffaele, ex allievo del “magister” Antonello
Colonna, è un giovane chef di
galoppante fantasia, capace di
preparare cose come il piccio-
zio stampa) ecco il pancotto di
cime di rapa su passatina di
fagioli (quelli detti «della regina») e una nuvola di lardo di
Faicchio; la pasta con le patate,
piatto che più povero e terragno non si può, si avvale delle
inedite suggestioni marine offerte dalla colatura di alici, e
ai secondi scatta l’elogio del
Raffaele D’Addio
«pelatiello»: trattasi in realtà
ne in doppio gioco di cotture: del maiale nero tipico del Cail petto (sotto vuoto) su insa- sertano, ma che anche il Sanlatina di carciofi all’aceto di nio ha da tempo adottato con
mele, e la coscetta croccante straordinari risultati. Ai dolci, il
in riduzione di Aglianico. Per posto d’onore spetta al torrone
quello che definisce invece «il di San Marco dei Cavoti, altra
mio racconto sul nostro terri- gloria sannita qui riproposto
torio», invece, si è attenuto a sotto forma di gelato: (ve l’ho
piatti di maggior tradizione, detto, con la cucina di D’Addio
pur se amorevolmente rivisi- le sorprese non finiscono mai.
tati in un’ottica che scarta le E con Pasquale continuano
tentazioni modaliole per an- anche quelle in bicchiere: se
dare al cuore della qualità per pensate che la birra artigianaesaltarla: è allora (stuzzichino le sia solo un affare di fratacdi benvenuto a parte, su cui chioni nordici, quella di Faicchio
domina un impenetrabile silen- forse vi farà cambiare idea.
www.ilforodeibaroni.it
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Il Foro dei Baroni
Puglianello - Benevento
indirizzo piazza Chiesa, 6
Puglianello (BN)
telefono 0824 946033
chiusura lunedì. Aperto solo la sera.
Sabato, domenica e festività anche a
pranzo.
carte di credito tutte
vini inclusi
76
Percorrere la superstrada CasertaTelese: uscita S. Salvatore, Puglianello,
Amorosi.
77
78
Puglianello e Telese
P
uglianello è un centro agricolo
situato presso la sponda sinistra
del fiume Volturno nella media valle
Telesina. Il nome della valle deriva
dall’antica città osco-sannita di Telesia, divenuta poi colonia romana.
Il toponimo di Puglianello, secondo
alcuni studiosi, deriva dal diminutivo
Pugliano, una località oggi appartenente al vicino comune di San Salvatore
Telesino, sul cui territorio si trovano i
resti di Telesia. Con molta probabilità i
puglianesi si sarebbero trasferiti presso
il Volturno in seguito ai saccheggi e alle
ripetute distruzioni cui l’antica Telesia
venne sottoposta nel corso dei secoli
dando vita ad una piccola Pugliano.
Dal ritrovamento di una lapide nel
territorio di San Salvatore Telesino, si
evince che Pugliano era una colonia
romana con a capo la nobile famiglia
Pullia. In epoca longobarda la zona cominciò a svilupparsi vista la presenza
di numerosi casali, corti, masserie, dotate anche di luoghi di preghiera come
chiese e piccole edicole, attestata in
un documento dell’800. Il nucleo del
centro abitato è costituito dal Castello medioevale e dalla parrocchiale. Il
Castello, oggi raffigurato nello stemma
comunale, pur essendo stato rimaneggiato più volte, conserva interessanti
elementi dell’impianto originale: la
pianta quadrangolare con quattro
torri cilindriche e due accessi frontali
ad un ampio cortile interno. Inesistenti i barbacani, le strutture di rinforzo
con feritoie in uso nel XII secolo, con
molta probabilità crollati in seguito a
un terremoto. Degne di nota le due
cappelle che testimoniano il forte sen-
puglianello, il castello
timento religioso vivo in questo territorio; la Cappella della Madonna
del Carmine, realizzata nel 1871,
al suo interno è una raffigurazione
della Madonna, esempio pregevole di
pittura su maiolica di scuola cerretese
e la Cappella di San Rocco citata
in un atto del 1596 in cui la si indica
edificata vicino al castello. Le edicole
votive si rifanno alla scuola artistica
della ceramica cerretese.
Da Puglianello passiamo per Telese e
facciamo una sosta alle sue terme. Le
acque di Telese hanno una tradizione
antichissima, sono tra le più note della
Campania e di tutto il Mezzogiorno.
Le sorgenti sulfuree comparvero dopo
il terremoto del 1349 che causò la
fuoriuscita di acque minerali.
Ricche di sali minerali, di anidride carbonica e di idrogeno solforato, le acque
si sono rivelate utilissime per la cura
delle malattie della pelle, dell’apparato
digerente, dell’apparato respiratorio
e dei reumatismi. Il loro utilizzo per
scopi curativi risale probabilmente già
all’epoca romana. Il luogo dove oggi
sorge Telese era abitato già al tempo
dei sanniti, con il nome di Tulosiom,
anche se sono poche le tracce che
permettono agli archeologi di ricostruire quel periodo. Numerosi sono
invece i resti monumentali della Telese
romana, difesa da una poderosa cinta
di mura, che sorgeva a metà strada
tra la moderna Telese e San Salvatore Telesino. La prima volta che si ha
menzione di Telese è con Tito Livio, il
quale narra che questa fu occupata
da Annibale durante la seconda guerra
punica.
Fu gastaldato longobardo alle dipendenze del Ducato di Benevento nell’Alto Medioevo, e venne saccheggiata due
volte dai Saraceni di Fondi (nell’847 e
nel 863). Distrutta e ricostruita con i
normanni nell’XI secolo, conobbe una
seconda epoca di splendore. Le rovine della città antica sono visibili nella
campagna tra San Salvatore Telesino
e Telese Terme. L’attività termale di
Telese si svolge in gran parte nello
stabilimento che si trova in Piazza
Minieri, che è il nome della famiglia
che alla fine dell’800 si prodigò per
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Il borgo e le terme
telese, il lago
far conoscere l’attività termale locale. I reparti di cura sono immersi in
un parco di alberi secolari tra i più
estesi d’Italia ove si trovano i bacini
delle sorgenti. Nel “Parco delle Terme”
ci sono anche due piscine di acqua
termale sorgiva, la piscina “Goccioloni
e la piscina “Pera”, una terza piscina
termale si trova nei reparti termali del
Grand Hotel Telese,. La dotazione del
Parco delle Terme si completa quindi
con alcune strutture ricreative, tra cui
un parco giochi per bambini, con uno
stabilimento per l’imbottigliamento
dell’acqua e con un centro congressi
di circa 500 posti. (M. M.)
Torrone di San Marco dei Cavoti
il piatto tipico
A
telese, le terme
San Marco dei Cavoti sin dal Settecento era presente la produzione
di torroni a base di miele, mandorle e albume d’uovo, consolidatasi
all’epoca di Ferdinando I di Borbone che, ghiotto di questo dolce, ordinò
che ne fosse realizzato un tipo particolare dedicato a sua moglie Maria
Carolina d’Austria, chiamato appunto Torrone della Regina. Quando
nell’Ottocento approdò a Napoli il cioccolato, conquistando ogni classe
sociale, anche la provincia fu contagiata e in tutta la Campania si diffuse la
passione per la nuova delizia. Nel Beneventano, dove già esisteva una lunga
tradizione del torrone, fu del tutto naturale abbinare le due specialità,
furono così inventati i celebri Croccantini, chiamati anche Baci ed altre
specialità che rallegrano le tavole natalizie di tutto il mondo.
79
Frennule alla Falanghina
Sformatino di funghi al tartufo nero su fonduta allo zafferano
Melanzana ripiena di ricotta e polpa di mela annurca
Pizzette di patate con verdure del luogo e mozzarella
Farro e verdure - Salumi e caciocavallo del Sannio
Montesole Greco Brut
Tagliolini con ragù di pomodorini
e insalata di frutta secca
Ravioli di ricotta e mozzarella
con ragù di pomodorini e guanciale
Aglianico Delius Cantina del Taburno o Cesco di Nece Aglianico Mustilli
Lasagnetta di maiale con caciocavallo e radicchio
accarezzata da patate con pesto di olive nere
Montesole Taurasi
Sformatino di babà con crema amarena,
al caffè o al cioccolato fondente
Rivisitazione del tiramisù senza caffè
Millefoglie di panettone con crema di torrone di Benevento
e cioccolata shakerata
Montesole Colli Irpini
A persona
euro 30.00
vini inclusi
80
Il sogno realizzato di Ivana e Michele
R
istorante, agriturismo,
osteria? Meglio definirla un’ospitale casetta di
campagna curata sin nei nei minimi particolari, dove all’interno
troverai oltre all’ottima cucina di
Ivana anche la grande passione
musicale di Michele, collezionista
dei Beatles e di Lucio Battisti, una
delle cui più famose canzoni dà
appunto il nome al locale. Due
sale dove si pranza o cena, più
saletta destinata alla lettura o alla
degustazione di sigari cubani e
altro (e attenti a entusiasmarvi
davanti all’autografo di Paul McCartney che Michele vi mostrerà con orgoglio).Tra un portata
e l’altra, dal terrazzino puoi ammirare uno splendido panorama
sannita con vista su Sant’Agata
de’Goti. Questo il piccolo grande sogno (realizzato in quel di
Traugnano) di Ivana e Michele,
giovane coppia partenopeosannita innamorata persa della
violi, gnocchi, fusilli, cavatelli lunghi
e secondi piatti a base di suino
locale con citazione speciale per
la lasagnetta di maiale. Nella sezione dessert si fanno notare la
rivisitazione del tiramisu’ (senza
caffè), gli sformatini di baba’ (al
gusto di cioccolato fondente, di
crema amarena, di caffè) senza
dimenticare l’ormai classica torta
Ivana Rizzotti
alla ricotta e pere. Ma Michele
gastronomia, prima come curiosi e Ivana (sempre accompagnati
buongustai, poi come agguerriti dalla piccola Giuliana, prometmilitanti di associazioni cultural- tente gourmet in erba) sono
culinarie come il Club del Criti- anche due globetrotter del gusto:
co Maccheronico e infine come e dai loro viaggi intorno al piacreatori in proprio: la cucina di neta dei sapori lui torna sempre
Ivana offre con fantasia (senza con scorte di vini extraregionali
stravolgerli) i grandi prodotti della ed extranazionali da affiancare
terra sannita, dai caprini ai cacio- alla ricca selezione sannita (eccavalli, dai salumi all’olio al maiale cellente anche il vino di famiglia
paesano alla mela annurca.Tra gli proveniente dalle colline di Suviaantipasti si segnalano le frittatine, no): ecco i grandi vini di Borgogli sformatini al tartufo, i salumi gna ma anche il raro Pelaverga
di Morcone, il farro e le verdure. piemontese con cui brindare alla
Pasta fatta in casa: tagliolini, ra- tenacia dei due «giardinieri».
www.santagatadeigoti.net
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I Giardini di Marzo
Contrada Traugnano - Sant’Agata de’ Goti - Benevento
indirizzo Contrada Traugnano
82019 Sant’Agata de’ Goti (BN)
telefono 333 9191858 - 339 672100
chiusura sempre aperto solo su prenotazione
carte di credito no
Percorrere l’autostrada A1 e uscire a Caserta
sud,seguire le indicazioni per Marcianise.Arrivati
a Maddaloni, proseguire in direzione Amorosi,
uscire a Sant’Agata de’ Goti, attraversarla e
imboccare la SS 33 per Durazzano, fino a
raggiungere ContradaTraugnano.
81
82
Sant’Agata de’ Goti
S
ant’Agata de’ Goti è situata
nella zona sudoccidentale della
provincia di Benevento, ed occupa un
territorio composto in parte da colline
e montagne. La data di fondazione del
centro, non è nota, ma si sa per certo
che durante la seconda guerra sannitica, l’area fortificata venne assediata dai
Romani. Il centro storico di Sant’Agata
sorge su una rocca di tufo, molto suggestivo il paesaggio caratterizzato dall’abbondanza del verde e da piccoli ruscelli.
Il nucleo abitato ha una conformazione
della pianta a “spina di pesce” distribuito
all’interno di una ellisse, caratterizzato
da una serie di stradine trasversali. Il tipo
di architettura che è possibile ammirare
è prevalentemente in tufo, materiale di
cui è ricco il sottosuolo del paese, attraversato da un sistema di grotte e cunicoli
che formano una città sotterranea collegata al castello. Ci sono dei tratti in cui le
abitazioni si sovrappongono al perimetro
delle mura, che in origine dovevano avere
tre porte d’accesso tra cui la Porta dei
Ferrari e la Porta di via Bocca, della quale oggi resta una gradinata e un varco
rudimentale.Vari sono gli slarghi che si
aprono nel dedalo delle viuzze, tutti di
forma irregolare. La piazza principale è
sant’agata de’ goti, cripta della cattedrale
sant’agata de’ goti, scorcio della cittadina
quella collegata al Castello, situato a
sud dell’area urbana. Edificio imponente
ma molto stratificato, probabilmente nato in epoca normanna o forse ristrutturato sulla base di una fortezza longobarda.
Circondato un tempo da un ampio parco che si estendeva fino a San Giovanni,
attualmente risulta essere separato dalla
cittadina da un boschetto municipale,
un giardino pubblico con pini impiantati nell’Ottocento. All’interno del Castello
si possono ammirare, su alcuni soffitti,
i dipinti (appena distinguibili) fatti eseguire dopo il 1696 dal pittore Tommaso
Giaquinto su commissione del feudatario
Marzio Carafa III. Degno di nota l’affresco del Giaquinto eseguito nel 1710 che
raffigura Diana e Atteone. Sempre dal
Castello dipendeva anche una Cappella
comitale, all’interno della quale furono
custodite dall’XI secolo le reliquie di San
Menna. Tra l’altro alcuni ritengono che
questa cappella corrisponda all’odierna
Chiesa di San Menna, che sorge
nella stessa piazza, di fronte al Castello.
Costruita nel 1110, fu consacrata dal
Papa Pasquale II, al suo interno sono
conservate una lastra tombale di Antonio
De Tramonto, del 1361, e alcuni reperti
dell’età longobarda e romano-gota. Il suo
impianto è a tre navate, con tre absidi
, l’area del presbiterio è sopraelevata e
il pavimento è in gran parte ricoperto
da un mosaico cosmatesco, derivato
da quello desideriano e bizantino di
Montecassino. Di notevole interesse è
il portale, sorretto da due elefantini di
gusto orientaleggiante, con una iscrizione
sormontata da un fregio composto da
un girale d’acanto che esce dalla bocca
di due pesci. Interessanti sono anche i
Palazzi nobiliari, Palazzo Carbone,
Palazzo Picone e Palazzo Viscardi, costruiti in seguito ad una parziale
demolizione ottocentesca del tessuto
urbano medioevale. La più importante
testimonianza architettonica di età longobarda a Sant’Agata è la Chiesa di
Sant’Angelo in Munculanis. Il suo
impianto è basilicale a tre navate prive
di transetto. E’ possibile riscontrare tracce
sia del antico pavimento in pietra che del
pavimento settecentesco in cotto, visibili
anche le antiche decorazioni pittoriche
dell’abside, demolita probabilmente per
fare spazio alla stradina retrostante. Si
possono ammirare nelle murature della
navata sei monofore strombate, occluse
nel Settecento in seguito alla creazione
di una falsa copertura a botte decorata
da una pittura di Angelo Mozzillo. Da
segnalare anche la ex Chiesa del
Carmine, oggi sconsacrata e adibita ad auditorium e spazio espositivo,
fondata nell’XI secolo, nel periodo che
va dal 1728 al 1755 questa chiesa ha
svolto la funzione di Cattedrale mentre nell’Ottocento ospitò la parrocchia
di Sant’Antonio poi convertita in Congregazione laica sotto il titolo dei Sette
Dolori. Altri edifici degni comunque di
nota sono: la Chiesa di Santa Ma-
sant’agata de’ goti, chiesa di san menna
ria di Costantinopoli, con
una sontuosa facciata tipica del tardo
Rococò napoletano, il Convento del
Santissimo Redentore, tenuto dalle Liguorine, che ricordano il più famoso
vescovo di Sant’Agata,Alfonso Maria dei
Liguori, che resse la diocesi nel 1775.
Non si può non fare una visita alla
Cattedrale di Sant’Agata, sede del
Vescovato e del Seminario. L’originaria
fabbrica risale al X secolo, si sviluppava
su un impianto longitudinale, con abside ad est, diviso in tre navate da due
serie di otto colonne. Successivamente
alcuni ampliamenti distrussero l’area
absidale dilatando le cappelle e inglo-
bando le colonne all’interno dei pilastri.
Sulla facciata erano tre portali, di cui
quello principale molto influenzato da
quello della chiesa di San Menna. La
pavimentazione era a mosaico decorato
con motivi geometrici, oggi rimasto solo
in una parte del transetto della chiesa.
Al di sotto dell’area presbiteriale si trova
la cripta romanica, restaurata diverse
volte. La Cattedrale fu danneggiata dal
terremoto del 1456. Il campanile crollò
nel 1614, e fu ricostruito per volere del
vescovo Ettore Diotallevi il quale commissionò anche le due statue lignee dei
protettori del paese, Sant’Agata e Santo
Stefano. Nel 1718 la Cattedrale si arricchì di una scultura di Giovan Battista
Antonini, manierista berniniano, autore
delle statue del colonnato di San Pietro
a Roma. Caratteristico il soffitto, costruito nel 1748, intagliato da Mastianello
Bellotto e dipinto da Giovanni Cosenza. Il
completamento dell’atrio della Cattedrale, iniziato con Alfonso Maria dei Liguori,
fu portato a termine dal vescovo Paolo
Pazzuoli tra il 1792 e il 1799. (M.M.)
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La Perla del Sannio
Mela Annurca
il prodotto tipico
O
riginaria dell’agro puteolano, la mela annurca è il fiore all’occhiello della
melicoltura campana, definita regina delle mele è riconoscibile in alcuni
dipinti pompeiani e ercolanesi. Così la descriveva G. B. Della Porta (1535-1615):
«Le mele che si producono a Pozzuoli hanno la corteccia tutta rossa, sì da sembrare
macchiate di sangue e sono di dolce sapore...volgarmente sono dette Orcole» Plinio
infatti le aveva indicate come Mala Orcula perché prodotte a Pozzuoli intorno
all’Orco, cioè l’oltretomba, da cui anorcule. La polpa delle annurche è soda,
croccante, succosa, aromatica, prerogative che si conservano immutate anche
dopo lunga conservazione a temperatura ambiente.Vengono raccolte ancora
acerbe e poste a maturazione su letti di paglia dove manualmente vengono
rigirate di continuo fino ad assumere la caratteristica colorazione rossa.
83
La ricottina di fuscella e l’insalata di pere, nocciole e caprino
Il baccalà di nonna Elvira con il sedano, le noci e l’uva appesa
Il cestino di pane raffermo con i fagioli, le castagne
e l’olio di frantoio di Ortice
La polpetta cacio e uova nella salsa di pomodoro
Zuppa di porro con cialde di caciocavallo
podalico e funghi spinaruli
Cavatielli con il ragù di tracchiulelle e cacioricotta
Stracotto di vitello dell’Appennino nell’Aglianico
con il tortino di patate di montagna
Crema gialla con le amarene quarantine e la sfoglia croccante
Piccola pasticceria tradizionale natalizia
Coda di volpe La rivolta
Novello Primo Fiore Cantina del Taburno
Aglianico Santiquaranta
Piedirosso Kerres I Pentri
Passito ISS I Pentri
A persona
euro 45.00
vini inclusi
84
Pontelandolfo, tutto il gusto della storia
I
l titolare è il torreggiante
pentro-sannita Gaudenzio
Di Mella; ai fornelli c’è sua
moglie, la molisana (nata a
Toronto) Irene Muccioli, che
ha portato in dote un corredo
di buoni sapori della sua terra
(Molise, non Canada). Il tutto
si riflette in un dovizioso antipasto misto dove spiccano, a
seconda delle stagioni, i crostini
al tartufo e al lardo del Molise
(altro che Colonnata più o meno apocrifo!), il quasi violaceo
prosciutto del Fortore (in alternativa quello di Pietraroja), il
baccalà dedicato alla memoria
di «nonna Elvira» servito con il
sedano, le noci e l’uva appesa,
ricotta e pecorini selezionati con pazienza tra i piccoli
produttori della zona, squisite
polpette cacio e uova. Set esaltante concluso in bellezza con
una zuppa di porro con caciocavallo podolico e rari funghi
spinaruli. Si cena (o si pranza)
dei prodotti d’eccellenza del
Sannio e di tutto l’Appennino: il
vitello che, nella versione «stracotto» all’Aglianico domina fra
le carni nel periodo invernale,
ma anche le castagne, i fagioli,
le patate di montagna e l’apprezzatissimo olio di frantoio
(varietà Ortice); in caso di neve troverete quasi certamente
Irene Muccilli
un piatto ipercalorico come la
circondati da scaffali colmi di pignata (trattasi del pentolone
bottiglie divise per regione; di che sobolle instancabilmente
fronte, invece, sono in espo- nei giorni più freddi) con le
sizione libri su un solo tema, cotiche di maiale. Ma il suquello appunto dell’eccidio di ino lo troverete di sicuro nei
Pontelandolfo, una delle pagine cavatelli tirati a mano con il
più nere e censurate dell’Italia ragù di tracchiulelle e cacioriimmediatamente post-unitaria: cotta. Festa di sapori e sapori
popolazione massacrata, don- della festa con la crema gialla
ne violentate, case bruciate per con le gustosissime amareordine del generale Cialdini e ne «quarantine» e il camino
a lungo ignorate dalla storia acceso che riscalda anche il
ufficiale. Gaudenzio e Irene cuore. Qui, nella terra dei brisono gli appassionati custodi ganti, il tempo può provare a
di quegli eventi lontani, ma so- fermarsi almeno per il tempo
prattutto gli ostinati testimonial d’un pranzo. O di una cena.
www.ristorantelapignata.com
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La Pignata
Pontelandolfo - Benevento
indirizzo via Ferrara, 1
Pontelandolfo (BN)
telefono 0824 851635 e 347 8107725
chiusura lunedì
carte di credito tutte
Percorrere l’autostrada A16 Napoli-Bari
(direzione Bari), uscire a Benevento,
proseguire in direzione Telese, dopo
circa 12 Km prendere la superstrada
che porta a Campobasso e uscire a
Pontelandolfo.
85
86
Sepino e Pietraroja
S
epino è un paese in provincia
di Campobasso, particolarmente
suggestivo per le sue rovine. A circa tre
chilometri dalla nuova Sepino, sorgono
le rovine di Saepinum romana, edificata
dopo la sconfitta della città sannita, situata sulla vicina collina di Terravecchia
ed espugnata durante la seconda guerra
sannitica dal console L. Papirio Cursore,
come ricorda Tito Livio. I superstiti si
stanziarono nella pianura, nei pressi di
un antichissimo bivacco di transumanti.
Nacque così, sul tratturo PescasseroliCandela, la piccola città romana, costruita interamente in pietra locale. Degna di
nota è la zona archeologica di Saepinum,
caratteristica per le sue costruzioni di case rustiche che incorporano con effetto
spesso pittorico pietre lavorate di età
romana. Molto famosa è una iscrizione
ancora oggi visibile, posta su una delle
porte che dice “De grege oviarico”, con
molta probabilità fatta affiggere dalla
suprema autorità giudiziaria dell’impero a garanzia dell’immunità del transito
degli armenti. Di particolare rilievo, oltre
alle mura, alle porte, al cardo massimo
e al decumano, al teatro, al foro, alle
terme e quant’altro, sono le tracce della vita vissuta della città: il mercato, la
tintoria, il frantoi, il mulino, le locande, le
osterie, gli scarichi idraulici delle case e
i canali di scolo delle strade. Saepinum,
in epoca imperiale, divenne meta turistica per molti nobili romani dell’epoca.
Non può mancare una visita al centro
abitato della nuova Sepino, che conserva
le tipiche caratteristiche medievali. Da
un ampia ed elegante piazza sia accede a tipici violetti, da cui si raggiunge il
Centro Storico e la Chiesa di Santa
sepino, santuario di s. cristina, reliquiario
sepino, la porta sul decumano
Cristina, forse costruita quando la popolazione, alla fine dell’Alto Medioevo,
abbandonò Altilia per fondare, l’attuale
Sepino: il Castellum Saepini, legittima
erede della città romana. Singolare risulta essere il campanile dell’Insigne
Collegiata con una guglia a forma di
“bottiglione”, interamente costruita dagli artigiani dell’epoca. Nel Santuario di
Santa Cristina, risalente al XII secolo, ma
quasi interamente trasformato, notevole è la Cappella del Tesoro, istituita
nel Seicento dal principe Carafa. Al suo
interno si conservano otto busti seicenteschi di Santi in rame e bronzo argentato
ospitati in tabernacoli con sportelli lignei
finemente intagliati, ancora è possibile
ammirare il busto settecentesco di Santa
Cristina in oro e argento, ricoperto dagli
innumerevoli doni dei fedeli. Una reliquia
della Santa, custodita in una preziosa teca a forma di braccio. Pregevoli ostensori
del Tesoro di Santa Cristina. Caratteristica è la fontana nel centro della piazza
principale, i cui rubinetti indicano i punti
cardinali. In origine l’abitato era circondato da una cintura muraria a forma quasi
ellittica, con quattro porte, munita di torri
sulle quali spiccava il castello. Sono visibili,
attualmente, alcune torri e tre porte: la
porta Meridionale, la porta Orientale, la
porta di Corte o porta Borrelli. Il castello
fortemente danneggiato dal terremoto
del 1805 è stato abbattuto. Meritevoli
di attenzione sono il campanile romanico della Chiesa di San Lorenzo, la
Chiesa di Santa Maria e del Purgatorio, l’ex Chiesa di Santo Stefano,
adibita oggi a teatro ed a sala conferenze, numerose fontane come quella della
Canala e del Mascherone, i particolari
stemmi in pietra, le scritte latine, i sobri
palazzi, il Ponte San Rocco.
Dopo aver visitato Sepino non può
mancare una visita a Pietraroja borgo situato ai piedi dei boschi e delle
rocce del Monte Mutria. Proprio da
Pietraroja proviene il più importante
dinosauro fossile noto con il nome di
Ciro, mai scoperto in Italia. Il fossile appartiene ad un esemplare di dinosauro,
Scipionyx samniticus, che all’epoca della
morte aveva poche settimane di vita.
il prodotto tipico
La sua fama si deve anche allo stato di
conservazione, realmente eccezionale.
Di questo rettile gli studiosi hanno potuto analizzare perfino gli organi molli
interni e le fibre muscolari; in particolare
hanno notato che le zampe anteriori
sono munite di tre artigli affilati e che
davanti alla spalla si trova un osso a forma di V detto furcula che è normalmente presente nello scheletro degli uccelli
per collegare il muscolo alle ali; questo
elemento è presente anche in altri dinosauri terrestri ed è considerato come
una delle testimonianze dell’evoluzione
fra i dinosauri e gli uccelli.Ad accogliere
una lastra che ospita i resti fossili di Ciro
(trattasi di un calco, in quanto l’originale
viaggia continuamente tra i vari musei), è il Paleolab, un museo che sorge
a pochi metri da un giacimento in cui
abbondano fossili di pesci, resti vegetali
e tracce di invertebrati. Trattasi di un
moderno museo multimediale dove il
visitatore esce dalle sale piacevolmente
arricchito di un bagaglio di conoscenze
e informazioni sulla storia geologica della cittadina e dei suoi antichissimi “abi-
tanti”, oggi fossili. Sulle orme del cucciolo
di dinosauro, e seguendo il percorso del
Paleolab, con una serie di esperienze
interattive da vivere in prima persona,
il visitatore compie un vero e proprio
viaggio fino ai tempi più remoti ed impara a conoscere i segreti principali di
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«Ciro» e le meraviglie dell’entroterra
pietraroja, scipionyx samniticus
quel mondo scomparso. Dopo la visita
al Paleolab, non può mancare una passeggiata sul lastrone calcareo, formato
sul fondo di una laguna circondata da
isole simili alle odierne Bahamas, dove
sono stati ritrovati i fossili. Sono pochi
i siti paleontologici in Italia, così emozionanti da visitare come risulta essere
Pietraroja. (M. M.)
Olio di Ortice
uveat olea magnum vestire Taburnum”,“conviene rivestire di oliveti
il grande Taburno”, scriveva Virgilio nelle Georgiche, e l’olivo già
presente nel Sannio sin dal VI sec. a. C., si diffuse nella zona caratterizzando fortemente il territorio insieme alla vite. Tra le varietà di olive
più apprezzate spicca la Ortice che, sparsa un po’ in tutta la Campania
con nomi diversi, ha il suo areale di elezione sulla media e alta collina
beneventana. L’Olio di Ortice al consumo si presenta di colore giallo
oro, con intense sfumature verdi da giovane, all’olfatto rivela piacevoli
note erbacee e sentori di pomodoro, è armonico al gusto con intense
e gradevoli sensazioni di amaro e piccante. Ricco di polifenoli, garantisce
una protezione contro agenti ossidanti conservando inalterate nel tempo
le caratteristiche organolettiche. E’ ideale su pesce, insalate e legumi.
“I
87
Aperitivo Casertano in mp3
(racconto guidato dei principali prodotti del territorio)
Ortaggi, frutta, erbe aromatiche e cremoso di bufala
Palla di mozzarella
(Mozzarella sciolta farcita con taglierini al basilico, rimozzata, impanata e fritta)
Filetto di bufalo, ricotta e stracotto tradizionale
Pere ed erbette alla confettura di San Marzano
I dolci di sempre
Falerno Villa Matilde
Passito Eleusi
A persona
euro 65.00
vini inclusi
88
Rosanna ha inventato i «piatti parlanti»
C
he non vi venga in
mente di addentare la
prima portata: si tratta infatti di un coriaceo lettore
Mp3, dalla cui cuffia una voce
registrata vi guiderà alla scoperta delle tipicità naturali del
Casertano. Nel piatto, al centro null’altro che un bicchiere
d’acqua del Taburno, e tutt’intorno una nera e liscia pietra
vulcanica (anche questa non
inghiottitela, ma limitatevi a
manipolarla), una foglia di cicoria selvatica, una fettina di mela
annurca, un’alice (il Tirreno non
è poi lontano) impanata con
pane di lievito madre centenario e origano, un cuore di filetto
di Nero casertano, un sorso di
rosso Falerno. Un rapido e suggestivo audiogiro dei sapori del
territorio che dimostra come la
titolare e chef Rosanna Marziale stia mettendo a frutto la
sua curiosità di cuoca giramondo, gli stage da Berasategui e le
e qualche straniero scelto con
cura, però dominano i casertani di rango come i vini di Villa
Matilde dei fratelli Avallone o
di Telaro. Come secondo piatto,
per il menu della memoria (rivisitata) la Marziale ci propone
un filetto di bufala ripieno di
ricotta (ovviamente di bufala)
e di stracotto tradizionale. Ma
Rosanna Marziale
«Le Colonne» restano un capresenze a kermesse interna- posaldo storico anche in pazionali dove ha affinato lo stile sticceria: tra la sfogliatella allo
coniugando le eccellenze del zabaione e gocce di cioccolato,
territorio alle sperimentazioni. il croccante di nocciola e crema
In menu le passioni-ossessioni pasticciera con scorza di limomarzialiane, vaddassé piatti a ne e il bocconcino di casatiello
base di mozzarella di bufala dolce (specialità casertana)
e di carne bufalina: solare la in infuso di cioccolato, e fino
«palla di mozzarella», sciolta, alla piccola pasticceria Sicilia
farcita con taglierini al basili- style la fantasia di Rosanna si
co, rimozzata, impanata, fritta sbizzarrisce allo voce «i dolci di
e servita su crema di piselli in sempre»: carrellata di dessert
un piatto dalla foggia inedita in cui non sfigurerebbe, dopo
(una sorta di fondina inclinata) tante elaborazioni e sapienti
ma assai funzionale. Da bere sperimentazioni, una bianca,
un sacco di cose, anche Triple A tonda, nuda e cruda mozzarella.
www.lecolonnemarziale.it
MENU DELLA MEMORIA
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Le Colonne
Caserta
indirizzo viale Giulio Douhet, 7-9
Caserta
telefono 0823 467494
chiusura martedì. Aperti solo a pranzo.
carte di credito tutte
Percorrere l’autostrada A1 in direzione
Roma, uscire al casello di Caserta nord,
imboccare il viale Giulio Douhet che è
l’ex via Nazionale Appia.
89
90
Caserta, la Reggia vanvitelliana
M
olti uomini e donne del Settecento e Ottocento avrebbero voluto
avere il privilegio- che oggi chiunque
ha - di visitare quella splendida e nobile
dimora del re a Caserta che supera
in magnificenza ogni altra d’Europa. La
città è nota a livello internazionale per
la presenza della magnifica Reggia
vanvitelliana, annoverata nella lista
Unesco come patrimonio dell’Umanità,
costruita da Luigi Vanvitelli su commissione di Carlo III di Borbone nel 1752.
Il palazzo dalla pianta rettangolare, con
quattro grandi cortili interni, si estende
su una superficie di ben 45000 metri
quadrati. Tre vestiboli ottagonali si allineano lungo l’asse centrale dell’edificio
costituendo il cosiddetto cannocchiale
ottico, ideale collegamento con il parco
e la cascata, posta scenograficamente
al culmine della fuga prospettica così
creata. Salendo lo scalone d’onore del
palazzo, un tripudio di architetture, decori e statue incanta il visitatore conducendolo al vestibolo superiore tra leoni
marmorei, le statue della Maestà Regia,
della Verità e del Merito. Lo scalone ha
una doppia volta ellittica, di effetto originalissimo, affrescata dal solimenesco
Girolamo Starace. Qui si collocavano i
musici per salutare l’arrivo del re e degli
invitati in occasione dei grandi ricevimenti. Al termine dei 118 gradini della
scala reale, sulla sinistra si accede agli
appartamenti di rappresentanza col
Salone di Alessandro Magno. A destra
di quest’ultima si estendono gli appartamenti ottocenteschi i cui lavori iniziarono in epoca murattina (1806-1815).
Splendida è la sala del Trono - destinata
alle pubbliche udienze - dove vi sono gli
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Visitare la casa di un re
CASERTA, FONTANA DI EOLO
stemmi delle Dodici Province del Regno
e i medaglioni celebranti i re di Napoli
da Ruggero il Normanno a Ferdinando
II. Nelle retrostanze ottocentesche è
possibile ammirare la cosiddetta sedia
volante, un moderno ascensore che serviva per salire senza fatica dal piano
interrato. Da non perdere la camera da
letto di Gioacchino Murat di puro stile
impero. Se si retrocede poi al salone
d’Alessandro, sulla sinistra si susseguono
le sale dell’appartamento settecentesco,
adorno di parati e stoffe leuciane. Da
notare nel percorso i bellissimi quadri
di Philipp Hackert - vedutista settecentesco caro a Ferdinando IV - per ammi-
PALAZZO REALE, particolare del pRESEPE
PALAZZO REALE, LA FACCIATA
rare quei paesaggi incontaminati da lui
ritratti. Interessante è anche il Bagno di
Maria Carolina d’Austria col complicato
e divertente gioco di specchi che consentiva alla sovrana di spiare la gente
che passeggiava nei corridoi. Segue la
Biblioteca Palatina, voluta da Maria
Carolina d’Austria con volumi tra i più
rari e prestigiosi al mondo.Alle pareti gli
affreschi neoclassici di Füger e i disegni
preparatori vanvitelliani dell’Opera del
Palazzo. Il presepe - segno di grande
devozione della famiglia borbonica - incanta grandi e piccini per i suoi pastori
in terracotta abbigliati con costumi in
seta prodotti nel vicino borgo leuciano.
A seguire nell’ iter la Pinacoteca che
ospita i quadri di re e regine borboniche, nature morte di pittori italiani e
non solo e scene di guerra. Rientrando
negli appartamenti dal Salone di Alessandro si accede a Terrae Motus, una
collezione permanente di arte contemporanea nata dalla volontà del noto
gallerista napoletano Lucio Amelio di
costituire una raccolta di opere legate
dal leitmotiv del terremoto del 1980.
Rappresenta un unicum come collezione tematica contemporanea italiana!
Sempre nel vestibolo superiore una
puntata merita la Cappella Palatina,
in parte distrutta dai bombardamenti
della guerra. Al pianterreno, nel secondo cortile vi stupirà il Teatrino
di corte, un capolavoro dell’architetil prodotto tipico
tura teatrale settecentesca Percorso
l’atrio del palazzo, si esce nel Parco,
annesso al palazzo, con una serie di
scenografiche fontane e cascate che
gli conferiscono una grandiosità senza
pari e contribuiscono a farne una delle
più belle regge del mondo. Di grande
fascino anche il Giardino inglese
realizzato nel 1786 sotto la guida del
giardiniere Graefer per volontà di Ma-
ria Carolina che aveva voluto adeguarsi alle nuove mode. Presenta reconditi
boschetti e su uno scoglio sporgente da
un laghetto c’è la statua di Venere accosciata, nell’atto di uscire dalle acque.
Interessante è una grotta semicircolare
detta criptoportico con volta a botte
con lacunari, colonne, pilastri, statue e
il pavimento a mosaico che simulano
un’antica rovina. (G. I. )
Mozzarella di Bufala
l di là delle varie ipotesi circa la presenza del bufalo in Italia, sicure
testimonianze del suo allevamento si hanno a partire dal XII-XIII
secolo. Sin dal XII secolo i monaci del Monastero S. Lorenzo in Capua
usavano offrire una mozza o provatura con un pezzo di pane ai componenti del Capitolo che si recavano lì ogni anno in processione. All’inizio
sembra che venissero prodotte solo ricotte e provole affumicate che si
conservavano più a lungo e potevano essere trasportate anche lontano.
La mozzarella invece, per la sua deperibilità, veniva prodotta in quantità
limitata e consumata localmente. Dalla seconda metà del Settecento,
con l’impianto della Tenuta Reale di Carditello in provincia di Caserta,
la mozzarella diventa una presenza costante sui mercati di Napoli. La
parola mozzarella è diminutivo di mozza, da mozzare.
A
91
Stuzzichino di benvenuto
Spumante metodo classico
Baccalà mantecato all’olio extravergine
con salsa di cipolla rossa di Alife
Pallagrello bianco
Paccheri con ragù bianco di maiale nero
marinato al Casavecchia
Casavecchia
Agnello laticauda in diverse interpretazioni
Taurasi
Millefoglie al mascarpone di bufala
Falanghina passita
A persona
euro 55.00
vini inclusi
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Con Renato alla scoperta delle eccellenze casertane
A
mbiente caldo e avvolgente (bei disegni alle
pareti dedicati al vicino
Borgo Normanno); illuminazione
moderna ma non «sparata»; vasellame dalle fogge insolite ma
che rispondono alle esigenze
visive dello chef... Piccoli significativi mutamenti di un locale
di gran pregio e qualità in cui
di immutate nel tempo restano
solo due cose, la timidezza dello
chef-patron Renato Martino e,
collegata a questa, la porta della
cucina tuttora priva di oblò, così
nessuno lo vede se non si va di
persona a sradicarlo dai fornelli.
In sala, però, c’è Luigi: quasi un
sosia di Renato (in molti pensano sia il fratello) che vi spiega
nei dettagli una carta frutto di
grande sforzo creativo. Nel corso
dell’ultima nostra visita ci siamo
deliziati di fronte alla doviziosa
scelta di pani (alla ricotta su foglie
di alloro, ai carciofi, a cassetta col
Renato Martino
maiale, grissini al sesamo), al memorabile lardo di Nero casertano
al vapore con balsamico, quenelle
di borragine, crema di ceci, alla
strepitosa crema di cavolfiore con
lingua di vitellone brasata e salsa
agrodolce al cioccolato, ai succulenti paccheri (Gerardo Di Nola)
con ragù di salsiccia, succo di carota e pistacchi, trionfo di Sud e
territorialità. Nel suo «menu della
memoria» Renato propone oggi
il baccalà mantecato con salsa a
base di cipolla rossa di Alife (un
piatto che anche in Veneto se lo
www.vairodelvolturno.com
sognano) e due suoi ingredienticavalli di battaglia: sto parlando
del già citato Nero casertano (qui
proposto con i paccheri, sotto forma di ragù bianco, e marinato
al Casavecchia, gloria enologica
riscoperta da Peppe Mancini e
Manuela Piancastelli) e l’agnello
Laticauda in diverse «interpretazioni»: io ne ricordo cinque (e al
pansiero ancora mi commuovo);
trattasi della spalla maturata in
olio e poi cotta, delle rosee costolette, dello spiedino di coscia
impanata in farina di mais e delle
ormai quasi introvabili animelle
(ghiandole endocrine dell’animale
giovane, lì decorate con asparagi
selvatici) e del cervello gratinato
di morbida e peccaminosa sensualità. Ai dessert, troverete un
nome semplice - millefoglie al
mascarpone di bufala -; ma, conoscendo Renato, aspettatevi una
creazione molto più complessa (e
affascinante) del nome che porta.
MENU DELLA MEMORIA
MENU DELLA MEMORIA
Vairo del Volturno
Vairano Patenora - Caserta
indirizzo via IV novembre, 60 - Vairano
Patenora (CE)
telefono 0823 643018
chiusura domenica sera e martedì
carte di credito tutte
Percorrere l’autostrada A1 Napoli-Roma
e uscire a Caianello, proseguire per 5
chilometri in direzione Isernia, superare
Vairano Scalo e poco dopo sarete arrivati
a Vairano Patenora.
93
MENU DELLA MEMORIA
94
V
airano Patenora è una roccaforte a guardia del territorio che
la circonda, posta in una posizione
strategica tra la valle del Medio Volturno e quella pianura compresa tra
il massiccio del Montemaggiore e il
gruppo vulcanico di Roccamonfina,
è un centro di traffici tra l’alto casertano e il Molise. Ha origini antiche e
i vairanesi sono fieri del loro primato:
qui fu registrato il primo documento
in lingua italiana nel 960 d.C. Ha un
impianto urbanistico tipicamente medievale e a quest’epoca risalgono la
primitiva cinta muraria e l’originario
castello, ormai ridotto a rudere ma
comunque dotato di un immenso
fascino. Alla struttura fortificata si
giunge per una strada panoramica
che parte dall’abitato in pianura e
conduce fino alla cosiddetta Porta Castello. Non riuscirà difficile al turista
attento ricostruire quella maestosa
fortezza, articolata intorno ad una
corte maggiore, dove chiaramente
sono presenti le tracce degli antichi
ambienti: la cavallerizza, l’antica sala
dell’adunanza, le cucine con i forni
e le carceri. Luogo inespugnabile a
difesa del territorio, piace a grandi e
piccini che vi immaginano i tentativi di
soldati nemici di scalata e intrusione.
La fortezza nel 1193 seppe, infatti,
resistere strenuamente all’assedio di
Roffredo dell’Isola e dell’imperatore
Enrico VI di Svevia. La sicurezza strategica e la confortevole abitabilità
del borgo sono testimoniate anche
dalla visita e permanenza di re Carlo I d’Angiò e del papa Gregorio X.
E’ considerato a buon ragione uno
interno del castello
maestosi ruderi sono la testimonianza
più eloquente del passato splendore
della struttura specie sotto Federico
II che vi dimorò. Un tempo qui era
custodita la statua della Madonna
del Cardellino oggi nella chiesa di S.
Bartolomeo, patrono del paese a cui
si attribuiscono miracolose capacità
di protezione dagli attacchi nemici.
Per chi ama l’arte si consiglia anche
una visita alla chiesa di San Giovanni nell’omonimo casale che conserva
affreschi probabilmente della scuola
del Solimena. (G. I.)
MENU DELLA MEMORIA
Vairo del Volturno
Visita alla fortezza incantata
chiesa di san tommaso
Interessante per comprendere il sistema difensivo tipico delle strutture
architettoniche del XIV e XV secolo è
anche il casale “La Terra”. L’originalità
del luogo è data proprio dalla miscela
tra le caratteristiche strade gradonate,
popolate da edifici di carattere principalmente rurale, ed i più insigni
esempi, perfettamente integrati, della cultura feudale. Il medioevo rivive
anche nell’abbazia della Ferrara, centro cistercense immerso nel verde. I
il prodotto tipico
Vairano patenora, il borgo
degli esempi maggiori di architettura
militare di epoca medievale con le
tipiche “scarpe” troncoconiche delle
torri di età angioina. Ma intorno al
1495 i d’Avalos restaurarono e potenziarono il castello conferendogli
l’aspetto che in massima parte conserva ancora oggi. Seguendo i modelli
difensivi aragonesi, furono resecate le
torri, livellate le cortine e accentuate
le rastremazioni murarie per costituire un possente blocco fortificato.
Nuovi lavori furono effettuati dalla
famiglia Mormile che adibì il castello a uso abitativo, murando gli spazi
intermerlari e allargando le feritoie.
Agnello Laticauda
n provincia di Benevento, nell’alto Sannio, pascolano le pecore di razza
Laticauda, che trassero origine all’epoca dei Borbone forse da un
incrocio tra la pecora Nord-Africana con l’Appenninica locale. La razza
prende il nome dalla caratteristica coda corta e larga: latis = larga e cauda
= coda. La carne di queste pecore presenta caratteristiche di elevata
qualità: è particolarmente tenera, magra, con scarso contenuto di grassi
insaturi, digeribilissima e fornisce proteine ad alto valore biologico e
un discreto contenuto in ferro. In particolare differisce dalle altre carni
ovine per i ridottissimi tassi di acido capronico (in pratica non puzza)
e per il basso contenuto di colesterolo, associando al gusto delicato un
valore nutrizionale e dietetico sicché ha tutti i titoli per entrare di diritto
nella dieta mediterranea.
I
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MENU DELLA MEMORIA
Quenelles di ricotta con gelatina di pomodoro
Carciofo in pasta sottile
Gnocco di patate e broccoli con «sfriarielli» di maiale
Tortello con ragù giovane di bufalo
Maialino nero casertano (tianiello) in foglia d’uva
Verdure di stagione
Formaggi
Dessert
Falanghina Porto di Mola
Aglianico Telaro
A persona
euro 45.00
vini inclusi
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I
l Vecchio Mulino è davvero
un vecchio mulino (ancora
nel dopoguerra vi si macinava il grano di contrabbando con
pietra francese, oggi smontata
ma in bella vista), e di conseguenza è l’unico ristorante al
mondo dove se apri una porta
vedi dinanzi a te precipitare
scrosciando un fiume (per gli
amanti della geografia: si chiama Savone). Pietro Balletta ai
fornelli, Dino Casale in sala (e
alla cantina): soci, coetanei, cugini, costituiscono un affiatato e
ormai rodato duo che in pochi
anni è stato bravo a passare da
una cucina di assoluta semplicità a una coinvolgente sintesi di
genuinità e riscoperta di sapori
antichi. Qui dominano la Regina
Castagna e Sua Maestà il Fungo, che in stagione trovi abbinati
in dense e gustosissime zuppe;
ma il Casertano è pur sempre
la patria di delizie carnali e vegetali come il maialino nero e
to i formaggi locali-globali che
sono uno dei vanti del «Vecchio
Mulino»: si va da certi rari pecorini e caprini prodotti in minime
quantità nella vicina Fontanelle
al tête de moine del Giura
svizzero, all’inglese Stilton in
versione cremosa da gustare,
magari, con marmellate di fichi
o di pomodori, oppure ancora
Pietro Balletta
con il miele della vicinissima Tela mela annurca, dunque sarà ano, delicato come l’olio che ivi
difficile non cedere alle loro lu- si produce. E in chiusura, largo
singhe. Il suino casertano qui ai dolci: Barletta seguirà nella
detto «tianiello», in particolare, loro preparazione l’estro (e la
Pietro Balletta lo propone per materia prima) del momento,
l’occasione avvolto in foglia ma io scommetto sulla presend’uva, ma rappresenta solo la za dell’annurca e della castaterz’ultima tappa di un viag- gna, che qui ho assaggiato con
gio nel gusto che si apre con diletto nella pasta sfoglia con il
quenelle di ricotta e gelatina di cioccolato (la prima) e sotto forpomodoro, prosegue col carcio- ma di tronchetto (la seconda).
fo in pasta sottile, continua a In ogni caso, il caffè arriverà in
esaltarsi con lo gnocco di patate tazzine con il coperchio, tocco
e broccoli e col tortello di ragù d’eleganza che conserverà indi bufalo. Doppia gratificazione tatto il calore, l’aroma e il rianche alla fine: ecco innanzitut- cordo d’un pasto ben riuscito.
www
www.ciroasantabrigida
.alvecchiomulino.it
.it
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Il «tianiello» e altre meraviglie locali
Al Vecchio Mulino
Furnolo diNTapoli
eano - Caserta
chiusura lunedì sera e martedì
carte di credito tutte
indirizzo via S. Caterina Boccaladroni, 1
Furnolo di Teano (CE)
telefono 0823 886291 - 328 7255900
Percorrere la Napoli-Roma e uscire al
casello di Caianello. Imboccare la SS
372 Telesina fino all’uscita di Casale,
proseguire fino a Furnolo che è una
frazione di Teano.
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98
Teano
S
e ami l’archeologia una città campana che devi assolutamente visitare è Teano, ricordata soprattutto
per l’incontro tra Garibaldi e Vittorio
Emanuele II, ma in primo luogo scrigno
di tesori antichi. Capitale dell’antico
popolo italico dei Sidicini (da qui il nome Teanum Sidicinum) che furono gli
ultimi a cedere alla potenza di Roma,
dopo la conquista dell’Urbe divenne
municipio e conobbe un periodo di
grande sviluppo, tanto da essere definita da Strabone la principale delle città poste lungo la via Latina. Al
tempo della Repubblica e dell’Impero
fu luogo di villeggiatura della nobiltà
romana e si arricchì di molti edifici
tra cui il foro, le terme, la basilica,
l’anfiteatro e il teatro. Quest’ultimo
è quello meglio conservato e, secondo
uno schema adottato anche per altri
santuari italici, occupa la parte bassa
dell’area sacra, sulla cui sommità è
situato il tempio. L’edificio fu ampliato alla metà del II secolo d.C. fino a
raggiungere un diametro di 85 metri;
vi si costruì una scena, riccamente decorata, dell’eccezionale altezza di oltre
24 metri. A breve distanza dal teatro,
la nostra attenzione si attesta, però,
sui resti dell’anfiteatro che si situa a
cavallo del tracciato delle mura. A giudicare dalle strutture in vista, dovrebbe
essere stato costruito in età sillana con
rifacimenti successivi. Dell’originario
impianto urbano del IV secolo a.C., a
schema ortogonale, sono sopravvissuti
i resti della cinta muraria dell’arce, in
opera quadrata, nonché le strutture
lungo la via Latina relative a quartieri
abitativi. I bambini potranno immagi-
MENU DELLA MEMORIA
MENU DELLA MEMORIA
Una vita antica che rivive nel presente
teano, il teatro romano
potrete incontrare diverse chiese ricchissime, quella del Monastero di S.
Caterina o quella di Santa Maria
de Foris. Ma l’edificio simbolo della
città è il Duomo, eretto nel 1116, rifatto su disegno di Andrea Vaccaro nel
1630 e ricostruito dopo l’ultima guerra
mondiale da Roberto Pane. L’interno è
il prodotto tipico
teano, facciata della cattedrale
nare le antiche lotte combattute in
questo luogo! Restando in zona da
vedere sono i ricchissimi corredi funerari, databili tra l’epoca arcaica e quella
ellenistico-romana, delle necropoli scavate nelle località Torricelle e Orto
Ceraso, questi ultimi permanentemente esposti nelle splendide sale dell’edificio tardogotico noto come Loggione,
sede del Museo Archeologico. Di
eccezionale interesse poi la statuaria
proveniente dagli scavi condotti negli
ultimi anni nel teatro romano. Nel
museo teanese, infine, si può anche
rivivere un po’ della città romana.
Sotto una passerella trasparente che
unisce trasversalmente le due navate
tardogotiche sono conservati e fruibili
al pubblico interessanti testimonianze
di un prestigioso edificio con ambienti
riscaldati e loggiati decorati con motivi
a mosaico. Nei pressi del Loggione
basilicale con colonne e capitelli in parte provenienti da monumenti romani.
Oltre alla cappella di San Paride – una
vera chiesa a sé stante con quadri di
Francesco de Mura – si nota l’altare
maggiore con un Crocifisso dipinto su
tavola, attribuito o al Maestro di Giovanni Barrile o a Roberto d’Oderisio.
Non mancano percorsi naturalistici: le
sorgenti Santuccia, Sonola e San
Paride sgorgano nel tufo grigio campano ma è probabile provengano da
colate laviche sepolte. Fuori dalla cittadina si trova lo stabilimento termale
delle Caldarelle in cui furono rinvenute
numerose monete. (G. I.)
Maiale Nero Casertano
itato da Columella nel suo De re rustica, il maiale nero casertano è tra
le razze più antiche e pregiate d’Italia. Durante il regno di Francesco
I di Borbone, il ministro britannico Lord Malmesbury, gran buongustaio, si
recò in visita alla Reggia di Caseta dove rimase letteralmente conquistato
dallo spettacolo maestoso dei prosciutti, ventresche, salami, lardi, strutti che
pendevano dal soffitto delle immense cucine. La meraviglia si tramutò in entusiastico apprezzamento al momento dell’assaggio, seguì un rapido confronto
tra la razza Casertana, detta anche pelatella, magra ma saporitissima, e quella
inglese, grassa, robusta ma del tutto insapore. Fu così che due scrofe e due
verri furono imbarcati sulla ‘Sea Nymph’ per fondare nuove razze di suini
che avessero il sapore dell’una e la mole dell’altra, e ai primati del Regno di
Napoli si aggiunse anche quello di aver esportato i primi porci.
C
99
Variazione di zucca, fagioli e formaggi campani:
parmigiana di zucca e provola con crema di fagioli
crème brulée di zucca e fagioli con crema di monacone
sfogliatella ripiena di ricotta su composta di zucca e fagioli
Perrella 2005 - De Conciliis
Fusilli della tradizione cilentana
con pesto di noci e nocciole picentine e colatura di alici
Pietramara Fiano di Avellino 2007 - I Favatii
Filetto di dentice con zuppa di maruzzielli
e broccolone della tradizione natalizia
Fontanavigna 2006 - Terre del Principe
Nobiltà della cucina salernitana
L
’insegna raffigura uno
stemma nobiliare attraversato da una forchetta. Araldica tutta gastronomica, visto che Conte è solo
il cognome del titolare, Andrea
(Mario), che in pochi mesi ha
fatto di questa ex paninoteca
il luogo che non c’era della
ristorazione salernitana: pulito, solare, elegante senza
affettazione, attento al mare,
agli aromi e al territorio circostanti ma non pigramente
seduto sulla tradizione. Merito
del «Conte» è quello di aver
messo insieme una giovane
squadra all’altezza del compito, a partire dal 31enne
ed entusiasta chef, Raffaele
Pappalardo (e dal suo secondo, Giulio Cascino, 20 anni ma
già 100 idee, soprattutto in
fatto di dessert). Si apra dunque la vitrea sliding door
che immette nel locale,dove
il maître Roberto Adduono
in ben tre preparazioni: sotto
forma di parmigiana, in sembianza di crème brulée e in
consistenza di composta, ad
accompagnare la sfogliatella
ripiena di ricotta. Elogio delle
radici anche per le paste: sui
fusilli della tradizione cilentana in cui si sposano almeno
due prelibatezze della sua
Raffaele Pappalardo
terra, le nocciole dei Picentini
e lo chef de rang Valentino e la colatura di alici che preVicinanza si prenderanno para lui stesso, visto che la sua
professionalmente cura di voi città natale è anche la patria
illustrandovi il menu escogita- di questa prezioso intingolo dito da questo giovane talento retto discendente del romano
che resta ben ancorato alle «garum». E che dire del totano
sue origini di Costiera (è nato e patate? Chiunque si sia fera Cetara, esordì ai fornelli d’un mato a mangiare da Massa
ristorante amalfitano): lo capi- Lubrense in giù sa che questo
sci subito dagli antipasti, che piatto in cui si uniscono miraprevedono un’invitante «varia- bilmente terra e mare è forse,
zione» sul tema della amata più che una ricetta, un imbozucca lunga tipica della festa lo culturale: attendo con ansia
della Maddalena ad Atrani, golosa di conoscere la «verche lì si chiama «sarchiapo- sione di Raffaele» realizzata
ne» e che Papplardo proporrà per i menu della memoria.
www
Il.ciroasantabrigida
Conte Andrea .it
Panzarotto ripieno di castagne su zuppetta di sorbe
Antheres passito di Aglianico - Mastroberardino
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Il Conte Andrea
SN
alerno
apoli
indirizzo via Roma, 268 - Salerno
telefono 089 9951832
chiusura lunedì. Domenica e festivi
aperto solo a pranzo
carte di credito tutte
A persona
euro 45.00
vini inclusi
100
Percorrere la Napoli-Salerno, uscire al
casello di Salerno e seguire le indicazioni
per il centro.
101
G
uardando dall’alto, nell’abbagliante e suggestiva cornice del mare e
del cielo, Salerno è come aggrappata
ai fianchi della montagna, in una posizione spettacolare sul golfo. Con la conquista dei longobardi nell’VIII secolo, e
in particolare con Arechi II, fu un centro
di vitale importanza nel Mezzogiorno
diventando, inoltre, centro di studi con
la celebre scuola medica salernitana (la
più antica istituzione medica dell’occidente). Salendo per il vicolo dei Barbu-
salerno, atrio e campanile del duomo
102
ti – il cui nome deriva dai longobardi
“dalle lunghe barbe” – si giunge in uno
spazio oggi tradizionale teatro all’aperto. Affrontando i gradoni del suggestivo
vicolo Gisolfo II si arriva a largo Conforti
dove è il complesso di Santa Sofia
che deriva la sua intitolazione principalmente da Costantinopoli dove il culto
per la santa, protettrice della Sapienza, era particolarmente sentito. Esso
nacque nell’area detta “Nova Civita”
poiché lì il regnante Guaiferio andava
realizzando un ampliamento della città
con il nuovo palazzo principesco e la
cappella di San Massimo. Tra X e XI
secolo (il primo riferimento cronologico
è il 1026) fu fondato questo convento
che risulta essere il primo dell’ordine
benedettino a Salerno. Rimase sotto la
giurisdizione dell’Abbazia di Cava fino
al 1575, quando passò successivamente all’Arcivescovo di Salerno. Nel 1592
fu affidato ai padri gesuiti perché si
dedicassero all’educazione giovanile.
Nel 1778 Papa Clemente XIV ordinò
la soppressione dell’ordine ed affidò la
struttura religiosa ai carmelitani. Con
la requisizione napoleonica del 1807,
fu destinato a tribunale civile fino a
quando, nel 1938, con la costruzione
dell’odierno palazzo di giustizia, la struttura diventò sede di una scuola statale.
Per diversi anni è rimasto in stato di
abbandono, in condizioni conservative
non ottimali, ma poi è stato restaurato
e sovente ospita importanti mostre.
Oggi (inaugurato nel 2002), infatti, l’ex
convento è il palazzo delle esposizioni, soprattutto di arte contemporanea,
della città: negli anni passati qui sono
state realizzate importanti rassegne su
Mirò,Wahrol e Pablo Picasso.
Attualmente i resti del monastero del
XI secolo sono in via Trotula de’Ruggiero al civico 7: due volumi sono messi in
comunicazione tra loro da un giardino
gentilizio delimitato da un tratto di mura longobarde. L’ingresso è costituito da
un interessante portale a sesto ribassato in piperno grigio. Ai piani superiori
desta meraviglia un ambiente dalla vol-
salerno, cripta del duomo
ta con padiglione finemente decorata
con stucchi e dipinti a mezzo fresco
raffiguranti Scene allegoriche, databili
tra la fine del XV e gli inizi del XVII
secolo. Recenti interventi restaurativi
hanno portato alla luce una bella quadrifora traforata con archi intrecciati
(risalente al XIII secolo) che riecheggiano quelli del vicino chiostro di San
Francesco.
A ridosso del convento si situa la chiesa (oggi) dell’Addolorata che sorge sui
resti di un edificio religioso più antico.
Con l’arrivo dei gesuiti si intrapresero
dei lavori ma, trascorsi tre secoli, una
radicale opera di restauro fu voluta
dall’arcivescovo Marino Paglia (come
testimonia l’iscrizione sul prospetto
Salerno
principale). L’Addolorata è caratterizzata da due ordini di lesene corinzie
raccordati da volute. Nella parte superiore, un grande finestrone rettangolare illumina l’interno, mentre il timpano,
forato da un ovale, chiude la facciata.
Alla chiesa si accede percorrendo una
scala a doppia rampa curvilinea, di
gusto tardo-barocco.
Cuore della città è il quartiere medievale la cui arteria principale è via dei
Mercanti. Le strade, strette, oggi ricche
di negozi, seguono le tracce dell’impianto urbanistico medievale conservando
splendidi palazzi d’epoca e gran parte
dell’architettura religiosa. Sulla sinistra
di S. Sofia, già in via Tasso, si incontrerà il
Palazzo appartenuto alla famiglia Lauro,
ramo dell’illustre Casa Sanseverino. Sulla
destra, invece, piazza Alfano I, custodisce
il monumento più illustre della città, quel
prezioso scrigno antico che è il Duomo. Eretto tra 1076 e il 1085, fu rifatto
nella prima metà del XVIII secolo ma
resta un importante esempio di architettura normanna. Bellissimo è il vasto
il prodotto tipico
salerno, museo diocesano,
croce di roberto il guiscardo
atrio porticato: al di sopra delle colonne
antiche si snoda un’elegante loggia con
decorazioni a intarsio. L’interno, rifatto a
causa del terremoto del 1688, conserva nella navata mediana due splendidi
amboni decorati riccamente a mosaico
(XII-XIII secolo) e un cero pasquale appartenente alla stessa epoca. Numerosi
i monumenti sepolcrali tra cui quello
famoso di Margherita di Durazzo. Le
scale vi condurranno alla barocca cripta
con decorazioni favolose. Sulla destra
della chiesa il romanico campanile di 56
metri della prima metà del XII secolo
è osservabile anche da via Roberto il
Guiscardo. Attiguo alla cattedrale vi è
il Museo diocesano (ingresso in Largo
Plebiscito) che offre una panoramica
dell’arte salernitana attraverso i secoli.
Si segnala la croce detta di Roberto il
Guiscardo (XI sec.), il ciclo degli avori
(XII), l’Exultet (XIII) e opere addirittura del Caravaggio, Stanzione, Ribera e
Giordano. All’uscita, per via della Porta,
si arriva a Largo d’Aquino dove è la
chiesa di San Domenico (1272-1275)
e il monastero (oggi caserma Pisacane).
Quest’ultimo è noto per aver ospitato San Tommaso d’Aquino del quale
si conserva un manoscritto al Museo
Diocesano. Avendo del tempo a disposizione da non perdere il vicino Museo
archeologico provinciale nel complesso
monumentale di San Benedetto, uno dei
musei topografici più interessanti della
Campania. (G. I.)
Colatura di Alici
llustre antenato della Colatura di alici è il garum degli antichi Romani
che lo mettevano su tutte le pietanze per insaporirle.A Cetara la presenza di questo condimento sapido e profumato, prodotto secondario
alla conservazione delle alici, si perde nella notte dei tempi. Qui infatti
sin da tempi antichissimi, le alici venivano conservate cosparse di sale in
botti di legno che, dopo alcuni mesi, dalle doghe un po’ scollate facevano
colare il liquido risultante dalla maturazione delle alici. L’economia ristretta della zona che impone il “nulla si butta”, suggerì di utilizzare questa
salatissima salsa in vari modi. Sarà vera questa leggenda che raccontano
i cetaresi? Sta di fatto che la colatura ha riscosso sempre un grande
successo ed è sempre più apprezzata dai buongustai per dare un tocco
speciale a molti cibi.
MENU DELLA MEMORIA
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La magia della storia: Santa Sofia e il Duomo
I
103
Zeppola di pasta cresciuta con alici cetaresi
Fiano Donnaluna - De Conciliis
Uovo in purgatorio su zuppetta
di pomodori cuore di bue
Aglianico rosato Denazzano Maffini
Minestra di cicoriette selvatiche con
polpettine di porco al profumo di limone
Aglianico Donne di Corte Villa Raiano
Zite spezzate ripiene di mozzarella al ragù all’antica
di pomodoro San Marzano con medaglione di cotica
Falerno del Massico rosso Villa Matilde
Agnello interpretato alla nostra maniera
con genovese di mela annurca
Falerno del Massico rosso Villa Matilde
Antica pasticceria napoletana
Moscato Lambiccato Giuseppe Longo
A persona
euro 50.00
vini inclusi
104
Raffaele e il miracolo di San Marzano
A
ttraverso un camminamento che dà modo di
passare davanti alla
splendida cucina a vista, si
arriva a una breve scala da
cui godi un suggestivo colpo
d’occhio sullo spazio sottostante: soffitto a volta, pietra viva,
legno, calici scintillanti sui tavoloni, e in fondo fiammeggia
promettente un forno. Scenario
da taverna medievale, se non
fosse per l’elettricità, i tocchi
di design e per il fatto che a
venirti incontro non è l’unto
oste della malora dei romanzi
picareschi ma Raffaele Vitale,
gran volpone della ristorazione
territoriale di qualità. «Casa
del nonno 13» (il nonno è
quello del nuovo socio, il 13 è
il numero civico della via su cui
s’affaccia il locale) Raffaele ha
realizzato un sogno coltivato
a lungo, cucina sopraffina in
ambiente accogliente e «multiplo», elegante al pianoterra e
Giuseppe Stanzione
«di tradizione» nella cantinataverna. Ai fornelli Giuseppe
Stanzione che per i menu della
memoria ha costruito una sinfonia di tradizione (qua e là
reinterpretata con acume) in
sei movimenti. A voi il piacere
di «leggere» lo spartito nota
per nota, anche se ci piace
qui segnalare (oltre all’altrove
introvabile minestra di cicoriette selvatiche con polpettine di
porco al profumo di limone e
altre rarità) la presenza, nel
ragù «all’antica» con medaglione di cotica di maiale, del po-
Casa del nonno 13
indirizzo via Caracciolo 13 Mercato San
Severino - fraz. Sant’Eustachio (SA)
telefono 089 894399
chiusura martedì
carte di credito tutte
Percorrere il raccordo autostradale NapoliSalerno, proseguire per l’autostrada
A1, poi imboccare la A16, superato il
cartello di Salerno, proseguire lungo la
A30 e uscire a Mercato San Severino.
Proseguire in direzione Roccapiemonte
e sarete giunti a Sant’Eustachio.
modoro San Marzano: vecchia
gloria dell’agro nocerino-sarnese estesasi alla grande cucina
campana storica, e che proprio
grazie all’impegno di cultori
come Raffaele sta lentamente
tornando agli antichi splendori.
Sull’agnello, però, la sopresa: è
accompagnato dalla genovese, fatta però stavolta con le
mele annurche, assaggiare per
credere. Su queste e sulle altre meraviglie in programma
Domenico Sarno, il sommelier
che amministra con competenza e passione 350 etichette,
propone un ragionato viaggio
che dal Cilento si allarga ad
abbracciare le altre fondamentali realtà vitivinicole della regione, dall’Irpinia alla Terra di
Lavoro. Ma se anche voi come
Oscar Wilde sapete resistete a
tutto tranne che alle tentazioni, lasciatevi uno spazio per il
finale con i capolavori dell’antica pasticceria napoletana.
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Casa del nonno 13
Mercato San Severino - Salerno
105
106
Mercato San Severino
S
ulla ripida collina che domina
dall’alto Mercato San Severino sono visibili i ruderi del complesso monumentale del castello
medievale che costituisce uno dei
più notevoli episodi di architettura
militare dell’Italia meridionale, è
composto da un primo nucleo di
fondazione longobarda, un secondo
normanno ed un terzo svevo - angioino - aragonese. L’interesse storico
ambientale è reso evidente dalle
rovine superstiti dei suoi ambienti
e delle sue tre cinte fortificate.
Il Castello faceva parte insieme
ad altri quattordici fortilizi della
“cortina di ferro” edificata intorno
all’anno Mille tra Castellammare di
Stabia e Serino. Assediato due volte,
nel 1486 e nel 1496, da Ferrante I e
Ferrante II di Aragona, fu sede della
famiglia Sanseverino fino al 1552,
anno in cui Ferrante Sanseverino,
resti della chiesa del castello
MENU DELLA MEMORIA
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Tra Longobardi e Aragonesi
mercato san severino, palazzo comunale
promotore della “congiura dei Borbone” contro Carlo VIII, fu punito
con la confisca del feudo ed esiliato
in Francia. Mercato San Severino
è caratterizzato dalla presenza di
splendidi palazzi rinascimentali e
da chiese che rievocano l’antica
storia del luogo. Nella Piazza centrale degno di visita è l’imponente
Palazzo Vanvitelliano, così chiamato per lo scenografico scalone
e le prospettive dell’edificio che richiamano le opere del Vanvitelli, ex
convento dei Domenicani che ospita
oggi il Municipio.
Per accedere al Castello, dalla Piazza, si imbocca a piedi la strada
asfaltata che comincia a sinistra del
Palazzo Vanvitelliano, ad un certo
punto è visibile un cartello accanto
alla strada che indica il confine del
parco archeologico che protegge
la collina del castello e l’inizio del
viottolo che sale verso i ruderi. Un
sentiero sassoso, porta alla prima
cerchia di mura in corrispondenza
di un torrione circolare. Procedendo
si superano degli scavi archeologici,
effettuati dai ricercatori dell’Università di Salerno, che hanno portato
alla luce resti di officine, sistemi per
l’uso di macchine da difesa, ceramiche e monete di vario genere. Salendo per una gradinata si giunge alle
due torri gemelle, che formano l’angolo più scenografico del complesso.
Altri scavi sono visibili oltre le due
torri, scendendo a sinistra si arriva
ai resti di una chiesa gotica, ricca
di affreschi, voluta dai Sanseverino,
mercato san severino, palazzo comunale, cortile
riportata alla luce sotto al torrione
inferiore. Una leggenda narra che
proprio qui San Tommaso d’Aquino,
il prodotto tipico
recatosi a trovare la sorella Teodora,
sposata Sanseverino, ebbe l’ultima
visione prima della morte che lo col-
se sulla strada per la Francia, dove
si recava in qualità di ambasciatore
del Papa. (M. M.)
Pomodoro San Marzano
a tradizione vuole che il primo seme di questa varietà sia arrivato in
Italia intorno al 1770 come dono del Perù al Regno di Napoli e fu
piantato a San Marzano sul Sarno dove trovò il suo habitat ideale, infatti
ancora oggi l’area di produzione è l’agro nocerino-sarnese e alcune zone
dell’agro acerrano-nolano. La raccolta avviene nel mese di agosto protraendosi talvolta fino a Settembre inoltrato. Il San Marzano è un pomodoro di
forma allungata, parallelepipeda, di colore rosso vivo, con due depressioni
longitudinali sui lati opposti. La polpa è consistente, di sapore agrodolce, e
la pelle si stacca facilmente rendendolo particolarmente adatto alla pelatura, caratteristica che ha fatto del San Marzano il pomodoro più adatto
all’industria conserviera dei pelati. I primi stabilimenti di trasformazione
furono impiantati in Campania da Francesco Cirio nel 1882.
L
107
Cannolo di sfoglia
ripieno di ricotta e soppressata di Tramonti
Cestino di pesce azzurro
con provola affumicata di Tramonti su crema di patate
Raviolo ripieno di filetto di scorfano
con pomodorini e cime di rapa
Filetto di baccalà gratinato al forno
con erbe aromatiche e patate su crema di farro
Semifreddo agli agrumi
Dolce delle Clarisse (melanzane al cioccolato e Concerto)
Tramonti bianco DOC Costa D’Amalfi az. San Francesco
Tramonti rosso DOC Costa D’Amalfi biologico Az. Monte di Grazia
A persona
euro 40.00
vini inclusi
108
«Concerto» in onore di Peppe & Antonietta
S
ùbito dopo il valico di
Chiunzi, ecco una frazioncina di Tramonti, uno slargo, sulla sinistra un edificio basso
e un’insegna discreta. Entrammo,
guardammo, ci piacque, e da allora ogni volta che possiamo ci
sediamo a uno dei tavoli di «Cucina Antichi Sapori», il locale che
Giuseppe Francese, chef tramontino con esperienze in loco e poi
in Padania, s’è inventato meno
tre anni fa, complice la moglie
Antonietta a raccordare la cucina con la luminosa sala. L’atmosfera, piacevole e riposante,
conferma l’ottima impressione
ricevuta al primo impatto; pani
fatti in casa (ai pomodori secchi,
alle olive nere e tanto altro ancora) prima di dare il via al menu
della memoria, in cui Peppe e
Antonietta hanno voluto sintetizzare il meglio delle specialità
della loro terra sospesa tra cielo,
mare e vitigni (e infatti tutti i piat-
Giuseppe Francese
ti saranno abbinati al Tramonti
Costa d’Amalfi sia in versione
bianca che rossa, provenienti
dall’annessa cantina a pianta
circolare). Qui, ad esempio, trovi
una straordinaria soppressata
ma anche favolosi pesci azzurri e scorfani; pomodorini, erbe
aromatiche e prodotti dell’orto
sono scelti con maniacale cura
ogni giorno secondo il principio
del «chilometro zero», e caciocavalli e pecorini provengono tutti
dai caseifici circostanti. Questa
è anche la patria di un agnello
www.cucinaantichisapori.it
indirizzo via Chiunzi, 72 - Tramonti
- frazione Campinola (SA)
telefono 089 876491 e 3475943389
chiusura martedì
carte di credito tutte tranne american
express
Percorrere l’Autostrada Napoli-Salerno
e uscire ad Angri seguendo poi le
indicazioni per il Valico di Chiunzi in
direzione Tramonti. Arrivati in località
Campinola troverete uno slargo e sulla
sinistra l’edificio che ospita il ristorante.
strepitoso, e se non lo trovi in
carta è solo perché procurarselo
è un’impresa, e Peppe ha scelto
dunque di proporlo a voce solo
quando c’è (comunque, chiedetelo: tentar non nuoce). Il filetto
di baccalà gratinato si concede
la licenza di farsi accompagnare
dall’esotica crema di farro; ma al
momento del dessert sappiate
che Tramonti è il luogo natale
delle melanzane al cioccolato:
Antonietta le serve «cu’ ’o Cunciert’», una sinfonietta di orzo,
cannella, chiodi di garofano,
calamo, china, bucce di agrumi
eccetera inventata dalle Clarisse del convento di Tramonti, così
gradevole da diventare in breve
il rosolio più imitato di tutta la
Costiera (e dell’interno). Non c’è
casa, qui, che non faccia il suo
Concerto, quello di «Cucina Antichi Sapori» è prodotto artigianalmente, e pare nato apposta
per accompagnare il cioccolato.
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Cucina Antichi Sapori
Tramonti
109
110
I
l nostro itinerario parte da Tramonti in provincia di Salerno. Si trova tra i
monti Lattari in una valle che conduce
al mare. Le abitazioni sono sparse in
numerose frazioni, dotate ognuna di
una chiesa parrocchiale. Alcuni storici
datano la fondazione di Tramonti al I
secolo a.C., e la attribuiscono ai Piacentini, che dovettero cercare riparo nella
vallata perché messi in fuga dai Romani. Altri storici fanno invece coincidere
la fondazione del paese al IV secolo o
addirittura al VI d.C., anche se in virtù di
alcuni ritrovamenti, tra cui urne cinerarie romane, vasi fittili, avanzi di sepolcri
e monete dell’alto e basso impero, tale
datazione non è pensabile. Tramonti, per la sua posizione sovrastante il
Valico di Chiunzi, è stata sempre un
luogo di difesa. A Cesarano, prezioso
baluardo per la difesa di Tramonti, è
possibile visitare la Chiesa dell’Assunta, al cui interno è conservata, sul
pavimento, una lapide sepolcrale del
1581. Di notevole interesse risulta essere anche Pucara dove troviamo la
Tramonti, particolare del pavimento della Chiesa di San Pietro a Figlino
Chiesa di Sant’Erasmo, riedificata
nel 1412 e poi nel 1533 sui ruderi
dell’antica Chiesa di San Sebastiano.
Da segnalare è il portale, ornato da due
colonne finemente lavorate.Al suo interno sono visibili alcune tele della scuola
di Luca Giordano e un’urna cineraria
Gete di tramonti, cappella rupestre di san michele
conservata in sagrestia. Curioso ma
molto interessante è il locale al quale
si accede dalla sagrestia che serviva da
particolare luogo di sepoltura: i morti
venivano posti su un sedile in pietra
dotato di un foro al centro e, dopo il
periodo della cosiddetta “colatura”,
venivano tumulati. Sempre a Pucara
degno di nota è il Conservatorio
dei Santi Giuseppe e Teresa, edificato nel Settecento e che in origine
serviva come luogo per l’educazione
delle nobili fanciulle napoletane. Tra
gli insediamenti rupestri presenti nella
zona, a Gete di Tramonti, è possibile
ammirare in una grotta una chiesetta
dal fascino particolare dedicata a San
Michele Arcangelo. Si tratta di una
antica chiesa del casale di Gete, purtroppo distrutta da una alluvione nel
1735. Di quell’antica chiesa è visibile,
oggi, una Cappella Rupestre che, per
Tramonti, Pucara e Gete
la sua architettura, per il suo impianto,
per il sistema costruttivo e per la decorazione dei sottarchi, si può datare alla
seconda metà del XIII secolo.
La Cappella si inserisce negli insediamenti rupestri della Costiera Amalfitana. La sua presenza è l’espressione del
Cristianesimo dei primi secoli ed è testimonianza della presenza di monaci
provenienti dalla regione balcanica (V-VI
sec.) per sfuggire alle lotte iconoclaste.
Si presenta all’ingresso con due fornici
ed è formata da due navate, una più
ampia a sinistra ed una più piccola a
destra, le cui volte seguono l’andamento
naturale della roccia. Le volte a crociera
su archi ogivali presentano due colonne,
una delle quali è di rara fattura, con
capitello corinzio (l’altra è un rifacimento). Lo stile è gotico con tratti romanici.
L’interno è decorato sulle sue superfici
- dalle caratteristiche forme di ciottoli
di fiume levigati e rotondi ricoperti di
intonaco - da semplicissime decorazioni
floreali oramai quasi illeggibili.
L’arco di ingresso a questo vano è diviso
il piatto tipico
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La Cappella rupestre di San Michele
chiesa dell’assunta a cesarano
in due parti, quello inferiore a tutto sesto, in origine collocato a livello inferiore
rispetto al piano di calpestio dell’aula, in
quanto in essa fu realizzata una sepoltura collettiva, mentre al di sopra dell’altra apertura si intravede l’estradosso
della cupola con alcune decorazioni a
stelle dipinte con terra color ocra. La
copertura presenta le caratteristiche ti-
piche delle architetture amalfitane con
le volte estradossate finite con il battuto
di lapillo. All’interno gli archi realizzati
dovevano probabilmente delimitare
uno spazio cimiteriale, visti i numerosi
resti umani riportati alla luce durante
i lavori di restauro, sistemati da Monsignor Alfonso Ferraioli in urne coperte
da cristalli di protezione. (M. M.)
Dolci delle Clarisse
a Melanzana dolce fu inventata nel 1600 a Tramonti nel Conservatorio
di S. Giuseppe e Teresa. Le suore di questo educandato preparavano
un infuso liquoroso mettendo a macerare per 30 giorni nell’alcol bucce
di limoni verdelli, chiodi di garofano, anice stellato, cannella, liquirizia, noce
moscata, erbe profumate come timo, maggiorana, citronella e molte altre
fino a raggiungere il numero di circa cinquanta componenti. L’alcol così
aromatizzato veniva filtrato e diluito con uno sciroppo d’orzo, il liquore
ottenuto, battezzato Concerto d’erbe, era usato dalle suore per profumare
i dolci, in esso intingevano anche le melanzane fritte per la Melanzana
dolce. A Tramonti si è conservata la tradizione di preparare il Concerto
sia nelle case private che nei liquorifici artigianali. A Napoli ’a mulignana
c’’o ddoce chiudeva di rito il pranzo per la festa della ’nzegna.
L
111
«Mallone» con salsiccia all’Aglianico e crema all’aglio
Tortino di caciocavallo dei monti Picentini
con verdure grigliate
Denazzano di Maffini
Risotto di porcini e timo su fonduta di caciocavallo
Tagliatelle alla nocciola di Giffoni con ragù di faraona,
frutta secca e salsiccia
Aglianico Donnaluna di De Conciliis
Cappone ripieno su fondente di scalogno
Combination di Luna rossa
Semifreddo al torroncino con salsa al miele e frutta candita
Lambiccato di Longo
A persona
euro 40.00
vini inclusi
112
Volete mangiar bene? Andate all’Inferno
U
na volta andai a cena
all’Inferno (girone dei
Golosi, suppongo), ovvero in una delle sale in cui è
suddiviso questo atipico ristorante giffonese: tre sale, una per
ciascuna delle Cantiche dantesche, oggi ulteriormente migliorate da nuovi, radicali interventi.
Ma non si creda che qui i fratelli Renato e Marco Contesimo
indulgano a suggestioni gastronomiche di dubbio effetto, tipo
la testina alla Conte Ugolino o
la costata alla Ciacco: no, qui
il pasto è tutt’altro che «fero»,
e ce ne accorgiamo subito, a
partire da un benvenuto sempre cangiante: il mio - per dire
- fu un semplice fiore di zucca
ripieno di mousse di ricotta e
impreziosito da una riduzione
di balsamico e basilico. Non so
Dante, ma io in quest’Inferno ci
sto da dio: e fra l’antico «mallone» (una minestra) con salsiccia
all’aglianico e crema all’aglio
Gaetano Morese
e il tortino di caciocavallo dei
circostanti monti Picentini con
verdure grgliate, sono certo che
anche voi gradirete. Il risotto
è a base di porcini e timo su
fonduta di caciocavallo, ma le
tagliatelle sono alla nocciola, la
vera regina di Giffoni, condite
con ragù di farona, frutta secca
e salsiccia; mentre il piatto forte
è un vero classico della festa
d’un tempo, il ricco cappone
ripieno d’ogni edibile ben di
dio su fondente di scalogno. In
Purgatorio, cioè nella sala adiacente, troneggiavano, almeno al
www.ristoranteladivinacommedia.com
tempo della mia prima visita,
salumi e affettati (cavallo, anatra, e l’«esotico» Colonnata), pecorini, erborinati: e i formaggi
freschi della benemerita Taverna Penta nella vicina Pontecagnano. Di stagione in stagione,
i fratelli Contesimo e il bravo
chef Gaetano hanno imparato
a puntare con determinazione
sempre maggiore sul territorio
e sulle sue eccellenze, e i risultati sono ormai sotto gli occhi
(e le papille) di una clientela
sempre più affezionata, che
trova anche nella porposta dei
vini quel legame con le radici
che la massificazione del gusto
rischia continuamente di recidere. Non qui, dove tra i vini
di Maffini, De Conciliis e Longo riscopri i piaceri d’un’area
appartata della Campania. Se
tutti gli Inferni fossero simili
a questo, vorremmo peccare
molto per essere condannati ad abitarvi per l’eternità.
MENU DELLA MEMORIA
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Divina Commedia
Giffoni Valle Piana - Salerno
indirizzo traversa Fortunato, 5 - Giffoni
Valle Piana (SA)
telefono 089 866124
chiusura lunedì. Dal martedì al sabato
aperti solo a cena, la domenica solo a
pranzo.
carte di credito tutte
Percorrere la tangenziale di Salerno, fino
all’uscita Zona Industriale, imboccare la
strada provinciale da Fuorni a Giffoni
Valle Piana.
113
114
U
na piacevole giornata a contatto
con una natura ancora splendidamente intatta tra castagneti ben
tenuti e terrazzati si può trascorrere
a Giffoni Valle Piana. Si possono fare
lunghe passeggiate, respirando aria
buona e godendo del panorama con
una bella vista sulle aguzze montagne
calcaree. Il sentiero più attrezzato è
quello delle “miniere di ittiolo” così
denominato perché dedicato a una
vecchia miniera oggi abbandonata.
Qui veniva estratto un particolare tipo di ittiolite (roccia contenente pesci
fossili) formatasi a partire da 250 milioni di anni fa ed oggi usato sia come
combustibile che come antisettico in
medicina. Il caratteristico odore dell’ittiolite vi accompagnerà per tutto il
viaggio e se amate l’avventura potrete
esplorare con prudenza le cavità con
l’ausilio di una torcia, magari vedendo qualche pesce fossile. Il percorso
giffoni valle piana, noccioleto
giffoni valle piana, fossili
di circa un’ora è abbastanza agevole
sia per bambini che per adulti, quasi
tutto in discesa e per lo più dotato
di parapetti in legno. E’ consigliabile
anche nelle giornate assolate perché
quasi tutto all’ombra.Nelle mattinate
autunnali o primaverili il terreno può
diventare un po’ fangoso (specie dopo le piogge) ed è perciò consigliabile
indossare degli scarponcini da montagna per godersi senza problemi la
visita. Pannelli esplicativi vi guideranno
sull’iter da seguire. In fondo alla valle
si potranno ammirare i noccioleti e
di fronte suggestive guglie calcaree.
Merita una visita anche il solitario
convento di San Giovanni a Carbonara, fondato nel 1490. Gli amanti
delle traversate apprezzeranno senza
dubbio i paesaggi mutevoli dalle maestose quinte del Terminio alle valli e ai
noccioleti di Giffoni, nota soprattutto
per il Film Festival. Quest’ultimo è un
evento internazionale dove sono pre-
senti i più importati personaggi del
mondo dello spettacolo. La nocciola è
una produzione secolare della zona,
una specialità da non perdere è quella
tonda. Incantevole è la frazione più
piccola di Giffoni, quella di Terravec-
Giffoni Valle Piana
chia, completamente ristrutturata nel
pieno rispetto della sua originaria conformazione architettonica. Adagiata
sul cucuzzolo di una collina immersa
in un uliveto secolare, potrete raggiungere a piedi i ruderi di una roccia
seguendo un bel sentiero dal quale si
gode una vista mozzafiato sulla valle
del torrente Picentino fino al mare.
Avendo del tempo a disposizione si
consigliano anche le frazioni di Santa Maria con la chiesa di S. Maria
dei Vichi (identificata a lungo con il
tempio costruito da Giasone mentre
errava per la conquista del Vello d’oro)
e il Castel Rovere (una favolosa e
pittoresca costruzione, oggetto di
strane leggende di mala sorte). Un
fiore all’occhiello della vicina frazione di Mercato è il trecentesco gotico
convento di San Francesco con
dipinti di stile marcatamente giottesco. Durante le vacanze natalizie con
la durata di circa un mese si svolge
la Mostra internazionale di arte
presepiale con l’esposizione dei bei
presepi della tradizione napoletana e
il piatto tipico
SENTIERO PER LA MINIERA DI ITTIOLo
MENU DELLA MEMORIA
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Fra la vecchia miniera e il torrente
GIFFONI VALLE PIANA, CHIESA DI SAN GIOVANNI A CARBONARA
ogni anno vi è una nazione o regione
ospite. Accanto al lato nord del chiostro fu edificata una chiesa dedicata
alla Sacra Spina (una delle reliquie
più importanti della cristianità, donata
a Giffoni dal cardinal de Rossi che a
sua volta l’aveva ricevuta da Carlo IV),
oggi conservata nella chiesa della
SS. Annunziata. Viene esposta ai
fedeli i venerdì di marzo e il venerdì
santo e, secondo la tradizione, espo-
sta al bacio dei fedeli si tinge di rosso
sangue. Da non perdere la piazza
Mercato, una delle più belle della
provincia, con il palazzo baronale e
la fontana che è stata realizzata su
disegno del Vanvitelli. Nel rione Campo
a trecento metri dalla piazza si trova
il tempio di Ercole, sorto su una
necropoli romana, in cui si potranno
osservare un frammento di colonna e
pochi resti di mosaici. (G. I.)
Nocciola
Struffoli
di Giffoni
ffettuosamente chiamata Tonda di Giffoni, questa pregiata nocciola
è stata coltivata in Campania da tempi antichissimi, menzionata
negli scritti di Catone, Columella, Plinio e Virgilio e raffigurata in dipinti
murali a Pompei e Ercolano. Oltre al sapore pieno e all’aroma gradevole, la nocciola di Giffoni ha altre caratteristiche morfologiche, quali
la forma sub-sferica che consente di recuperare frutti interi dopo la
rottura del guscio e la facile pelabilità dopo la tostatura, che ne fanno un
prodotto adatto alla trasformazione industriale. L’interesse dell’industria
dolciaria verso la nocciola di Giffoni è enorme per l’infinità di prodotti
che ne derivano: frutti interi per confezionare torroni d’alta qualità, o
snack raffinati, granella per guarnizioni dolciarie o pasta da utilizzare in
pasticceria e gelateria.
A
115
VINI IN CAMPANIA
di Pino Savoia
116
Aglianico
Il Rosso per antonomasia
Due interpretazioni della potenzialità dell’Aglianico
L’Aglianico è il vitigno a bacca nera più
coltivato ed importante della Campania. Originario della Magna Grecia, deve il suo nome alla volgarizzazione del
termine greco “Ellenikon” in Hellenico,
Hellanico, fino ad arrivare ad Aglianico.
Conosciuto fin dall’antichità e legato
a filo doppio con il Falerno, prima doc
del mondo, l’Aglianico è oggi diffuso in
diversi ambienti pedoclimatici. Nelle
province di Benevento e Caserta con il
nome di Aglianico Amaro ( di qui l’origine secondo alcuni del termine dal greco
“a-glucos” senza zucchero), nella provincia
di Salerno col nome
Aglianicone, nella
provincia di Napoli
col nome di Aglianichello, ed infine nella
provincia di Avellino
col famoso Aglianico
di Taurasi. Un vitigno,
dunque, in grado di
offrire vini di elevatissimo livello qualitativo
in tutta la Campania,
dall’estremo Cilento,
dove dà origine a
vini morbidi, corposi
con complessi aromi
di spezie , fino ai confini con il Lazio.
L’Aglianico diffuso nel Sannio rappresenta il vitigno base per alcune produzioni enologiche di pregevole qualità: l’Aglianico del Taburno, il Sant’Agata
de’ Goti, il Solopaca ed il Guardiolo.
A differenza dell’Aglianico di Taurasi il vino prodotto presenta un corredo
aromatico meno speziato e più fruttato con nuances di more e ribes nero.
In bocca il vino è meno asciutto e tannico, con una gradevole morbidezza e facilità di beva fin dai primi anni. Indovinato è l’abbinamento con
primi piatti con sughi di carne, con spezzatini di maiale o con i caprini
stagionati. Nella versione rosato la sua freschezza ricca di frutta rossa
si abbina ai salumi , alle zuppe di pesce e di verdure. Nella provincia
di Caserta l’Aglianico si configura, oltre che nella DOC Galluccio , nel
leggendario Falerno del Massico. Si narra infatti che Bacco, sotto mentite
spoglie, chiese ospitalità al vecchio Falerno; commosso dalla sua generosità
fece nascere sulle pendici del Monte Massico viti
lussureggianti. I più grandi poeti dell’antichità hanno
tessuto le lodi di questo vino così pregiato e longevo.
Petronio addirittura racconta che durante la famosa
cena di Trimalcione fu servito un Falerno vecchio di
100 anni. Oggi il Falerno prodotto con uve Aglianico
e Piedirosso (oltre alla versione prodotta con uve
Primitivo) si caratterizza per i suoi odori di frutti di
bosco, amarene selvatiche, ma anche humus e note
minerali. Fresco, sapido ed equilibrato, è un degno
compagno della minestra maritata, del maiale con
le mitiche “papaccelle” e dei primi piatti tradizionali
napoletani come gli ziti spezzati con la genovese.
Aglianico
del Taburno
Aglianico
del Taburno
rosso rosso
Vitigni: Aglianico (min. 85%), altri (max 15%)
Gradazione alcolica min.: 11,50%
Invecchiamento: 2 anni
Produzione max: 100 qli/Ha
Irpinia Aglianico
Irpinia Aglianico
Vitigni: Aglianico (min. 90%), altri (max 10%)
Gradazione alcolica min.: 11,00%
Produzione max:120 qli/Ha
Asprinio
Il vitigno più alto d’Italia
Biancolella
Il vitigno innamorato del mare
L’Asprinio è da sempre tra i vini più amati dai napoletani,
forse per la sua capacità di dissetare, riconosciutagli fin
dal 1500 addirittura dal bottigliere del Papa Paolo III.
Quale che sia la sua origine ( alcuni lo vogliono introdotto durante la dominazione francese e proveniente
dalla famiglia dei Pinots), l’Asprinio presenta una unicità
legata al territorio con un’area di coltivazione ridotta
(solo 22 comuni nelle province di Caserta e Napoli) ed
al tradizionale sistema di allevamento adottato fin dal
tempo degli Etruschi: l’alberata. Le viti si arrampicano,
maritate al pioppo, fino a 15 metri, cariche di grappoli
che devono essere raccolti su altissime scale. Dal vitigno
Asprinio, si ottiene oltre al tipo bianco fermo caratterizzato da un grande nerbo acido, agrumato, virilmente
secco, anche un vino spumante di grande eleganza
e personalità. L’abbinamento gastronomico è con la mozzarella di
bufala campana o la pizza, anche
se non disdegna affatto l’incontro
d’amore con il fritto di verdure in
tempura, la classica frittura di pesce, o ancora sodale compagno di
un pranzo dove sono i prodotti del
mare a fare da padroni.
Il Biancolella è un vitigno che ama il mare. Si trova solo
a Ischia sua terra d’elezione, Procida, dove è denominato Teneddu, e a Capri dove è chiamato San Nicola.
Come vitigno complementare lo ritroviamo anche
nelle DOC Campi Flegrei, Penisola Sorrentina e Costa
D’Amalfi. Il suo legame col mare è viscerale, fin dalla
sua nascita. Portato dai Greci nel 770 a.C. a Ischia
( Pithaecussai) ribattezzata poi dai Romani Aenaria
(terra del vino), il Biancolella rappresenta per qualità
e produzione una vera chicca enologica. Vinificato in
purezza dà vita al vino doc Ischia Biancolella ricco di
sentori floreali e macchia mediterranea, e unitamente alla Forastera alle tipologie Ischia bianco e Ischia
spumante. Freschi e fruttati, serbevoli e ricchi di sapori
minerali sono vini che adorano la cucina marinara
campana, come le zuppe di pesce e crostacei profumate di erbe aromatiche, le paste artigianali con
frutti di mare e pomodorino, oppure l’abbinamento
per antonomasia col coniglio di fossa all’ischitana.
VINI IN CAMPANIA
I vini, gioielli della Campania felix
Biancolella
Biancolella
Vitigni: Biancolella (min. 85 %), altri (max 15%)
Gradazione alcolica min.: 10,50%
Produzione max: 100 qli/Ha.
Asprinio
Vitigni: Asprinio (min. 85%), altri
(max 15%)
Gradazione alcolica min.:
10,5%
Produzione max: 120 qli/Ha, nel
caso di controspalliera; 4 kg/mq di
parete verde nel caso di alberata
Spumante
Vitigni: Asprinio in purezza
Gradazione alcolica min.:
11,50%
Produzione max: 120 qli/Ha, nel
caso di controspalliera; 4 kg/mq di
parete verde nel caso di alberata.
117
Coda di volpe
L’uva “volpina”
Falanghina
Il vitigno figlio del “fuoco”
Il Casavecchia è prodotto nel quadrilatero Pontelatone,
Formicola, Castel di Sasso e Liberi, tutti comuni in provincia di Caserta. Di quest’area ne parlava già Plinio nel
“Naturalis Historia” quando decantava l’alta qualità del
vino di Trebula Balinensis, l’attuale Treglia di Pontelaone.
Per quanto riguarda però l’origine del Casavecchia bisogna ricollegarsi all’epidemia di oidio che distrusse la
gran parte delle varietà di viti campane nel 1800. Un
ceppo centenario (risalente a ben 3 secoli prima), fu
però ritrovato praticamente illeso ai primi del ‘900. E da
quel ceppo, che si trovava all’interno di un vecchio rudere
(forse proprio perciò scampato all’epidemia), i contadini
della zona ricavarono le marze con cui reimpiantare i
propri vigneti. L’uva di quell’antica costruzione romana, fu
così ribattezzata “ l’uva ‘e chella casa vecchia”. Oggi il Casavecchia si presenta come un vino dai profumi erbacei,
di foglie secche, di frutti di bosco, di carruba, di liquirizia,
morbido al gusto ed apprezzato negli abbinamenti con
carni rosse importanti, primi piatti con sugo di castrato,
formaggi a pasta dura sapidi di stagionatura.
Il vitigno Coda di Volpe bianca è conosciuto da tempi
remoti. Le prime tracce scritte di esso risalgono al I secolo
d.C. nella Naturalis Historia di Plinio. Le origini dell’affascinante nome Coda di Volpe sono ascrivibili all’identificazione con le antiche uve Alopecis, il cui nome deriva dalla
peculiare forma del grappolo che ricorda appunto la coda
di una volpe. È un vitigno tipicamente campano, diffuso
solo sul territorio regionale. Anche se è coltivato in tutte
le province della Campania, lo ritroviamo soprattutto in
provincia di Avellino, Benevento e Napoli. È presente come
vitigno prevalente nella composizione del vino DOC Lacryma Christi del Vesuvio bianco.Vinificato in purezza dà
vita all’omonima tipologia monovitigno nell’ambito dei vini
DOC Taburno e Sannio. In questi ultimi casi, il Coda di Volpe si presenta come un vino intrigante per il corredo aromatico ricco di nuances floreali
(fiori gialli), fruttate ( pesca,
albicocche) e contrassegnato
al gusto da una piacevolezza
di beva davvero invidiabile.
Queste note caratteriali ne
fanno un vino versatile negli
abbinamenti tanto con i piatti
di pesce cucinati in maniera
semplice, come il baccalà in
umido, tanto con le zuppe di
legumi di cui è ricca la tradizione gastronomica delle zone
interne della Campania.
Coda di Volpe
Il nome Falanghina deriva dal termine “falanga”, e cioè il palo utilizzato
per appoggiare i ceppi di vite, che
rappresenta il passaggio storico-viticolo dalla viticoltura greca a quella
latina. La nobile origine della falanghina è suffragata dalla presenza
tra le varietà del Real Orto Botanico
di Napoli. Autorevoli testi segnalano
la radicalizzazione della falanghina
nel 1800 nelle zone del Vesuvio, del
monte Somma e dell’Isola d’Ischia.
Quindi storicamente la falanghina
è una varietà che nasce dal “fuoco
vulcanico” e vive su terreni ricchi di
tufi, pomici e ceneri. Oggi la falanghina è prevalentemente coltivata il
provincia di Napoli, Caserta e Benevento.Tuttavia, notevole è la differenza genetica tra i due vitigni: quello
diffuso nei Campi Flegrei e quello
beneventano. La falanghina rappresenta in Campania, per estensione,
il secondo vitigno autoctono, essendo
il primo l’Aglianico. Essa è presente
nelle DOC Campi Flegrei, Falerno
del Massico, Capri, Sorrento, Costa
d’Amalfi, Lacryma Christi del Vesuvio.
Il tipo beneventano invece caratterizza le DOC Guardiolo, Sant’Agata
dei Goti, Sannio, Solopaca, Taburno
e Galluccio.
Vitigni: Coda di volpe bianca
(min. 85%), altri (max 15%);
Gradazione alcolica min.:
11%;
Produzione max 120 qli/
Ha.
Falanghina
Falanghina
Vitigni: Falanghina (min. 85%), altri
(max 15%);
Gradazione alcolica min.: 11%;
Produzione max: 120 qli/Ha.
Casavecchia
Vitigni: Casavecchia (max
85%) altri vitigni (15%)
Gradazione
alcolica: rosso
(max 11,5%)
ris. (max 12%)
Produzione:
rosso e ris. produzione max
9uva /Ha ton
118
Un unico vitigno
per due vini molto diversi
Per molto tempo si è creduto che in Campania ci fosse un solo tipo di Falanghina
detta Flegrea. Recenti studi hanno invece appurato l’esistenza da un punto di
vista genetico di un’altra varietà detta Beneventana da cui si ottiene un vino
con profumi e sapori molto diversi da quella flegrea. Una delle caratteristiche
che rende unica la DOC dei Campi Flegrei è la pianta da cui deriva, detta a
piede franco, e cioè senza portainnesto. Si tratta di una vigna originaria, la “Vitis
Vinifera”, non innestata su ceppi di vite americana, che è rimasta inalterata
all’attacco della fillossera che devastò i vigneti europei nella seconda metà del
Diciannovesimo secolo.Tale unicità produce un vino dal bouquet fine, elegante,
con note floreali (fiori di agrumi), e fruttate (mela, albicocca, pesca) particolarmente intense. Il sapore secco, fresco ed equilibrato chiude piacevolmente con
un finale amarognolo di melograno. Ciò ne fa un compagno ideale dei risotti con
crostacei e frutti di mare, di pesci locali quali la pezzogna alla brace, un flan di
verdure, e dei formaggi freschi quali caprini e mozzarella di bufala. A differenza
della prima, invece, la Falanghina del Sannio ha un corpo ed una gradazione
alcolica maggiore, oltre ad un intrigante e caratteristico aroma affumicato. I
profumi del vino sono meno floreali e minerali e più fruttati e rotondi (banana,
albicocca secca, mandorla, miele), con un gusto più morbido e pieno. Si abbina
quindi a minestre di legumi, zuppe con i funghi, carni bianche, senza disdegnare
affatto piatti di pesce con salse delicate ed aromatiche. Della Falanghina esiste
anche una versione spumante molto fine ed elegante, ed una versione passita
ricca e complessa di note di frutta secca, miele, anice che la accompagnano
naturalmente all’abbinamento con la pastiera napoletana e con tutti i ricchi
dolci della tradizione partenopea.
VINI IN CAMPANIA
VINI IN CAMPANIA
Casavecchia
L’uva ‘e chella casa vecchia
Falanghina
Campi Flegrei
Falanghina
Campi Flegrei
Vitigni: Falanghina (min. 90%), altri (max 10%)
Gradazione alcolica min.: 11%
Produzione max: 120 qli/Ha
FalanghinaFalanghina
spumante Spumante
Vitigni: Falanghina (min. 90%), altri (max 10%)
Gradazione alcolica min.: 11,50%
Produzione max: 120 qli/Ha
Falanghina
Beneventana
Falanghina
Beneventana
Vitigni: Falanghina (min. 90 %), altri (max 10 %)
Gradazione alcolica min.: 11%
Produzione max : 110 qli/Ha
119
Due territori a confronto,
una sola grande anima: il Fiano
Greco
L’élite dell’antichità
Lacryma Christi
Questo sacro, antico vino
Il vitigno Fiano sembra essere legato ad Apianum ( vecchio nome del comune di Lapio, nelle colline di Avellino) ed indica quell’uva che
già Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historia
citava come dolce e di cui andavano ghiotte
appunto le api. Un’altra ipotesi riguardo l’origine del nome è quella
legata alla
discesa in
quel di Lapio di una
popolazione ligure
gli Apuani,
sfuggiti al
governo di
Roma e trasferitisi nell’Ager Taurasinus. In
ogni modo, il Fiano era molto apprezzato
già nel Medioevo. Nel registro di Federico II
di Svevia è annotato un ordine per tre “salme” di Fiano. Anche Carlo d’Angiò doveva
amare questo vino, al punto da impiantare
nella propria vigna ben 16.000 viti di Fiano. Il
vitigno trova la sua
massima espressione in Irpinia,
dove vinificato in
purezza dà origine
alla DOCG Fiano
di Avellino (un’area
di 26 comuni tutti in
provincia di Avellino).
Il Fiano rientra come
vitigno principale
nelle DOC Cilento
bianco e Sannio
Fiano.
La differenza sostanziale tra i due tipi di Fiano più conosciuti ed apprezzati, quello di Avellino e quello del Cilento dipende soprattutto dai
diversi terroir. Il clima poco meridionale dell’Irpinia spiega il carattere
del Fiano: gli inverni sono molto rigidi, in estate c’è sempre una buona
escursione termica, il caldo non è mai asfissiante. I terreni, poi, di origine
vulcanica, sono sciolti e freschi.Tutto ciò porta ad avere un vino strutturato, minerale, dotato di una forte personalità ed eleganza.
Per cui il Fiano di Avellino si presenta con un corredo
aromatico floreale (rosa e fiori di tiglio) e fruttato (pera
e nocciola sopra tutti), fine (con note fumè e mentolate),
con un gusto fresco e morbido al tempo stesso. Come
ogni grande vino trova molteplici abbinamenti legati al
territorio ma anche alla grande cucina d’autore. Bevuto da giovane o nella versione spumante accompagna
degnamente primi piatti importanti di pesce e crostacei,
pesce in pasta di sale e fior di capperi, zuppe di funghi
e cereali, etc. Con qualche anno sulle spalle invece stupisce con primi piatti col tartufo bianco, ravioli con ricotta, noci ed aglio
bruciato, carni bianche elaborate, formaggi a pasta dura e semidura
come il Caciocavallo Podolico semistagionato, etc.
Il Fiano del Cilento è molto diverso dal cugino irpinio: protetto dalla
estensione della piana del Sele, il Cilento è quasi l’unica zona della
Campania a non aver subito l’influenza del Vesuvio e ciò naturalmente
si riflette sulle caratteristiche della terra. Il Fiano cresce così con minori
componenti minerali e minore acidità, che in vinificazione portano ad
un vino meno fresco ed elegante. Di contro abbiamo un grado alcolico
piuttosto sostenuto, una buona struttura di base ed una maggiore grassezza nel vino. Caratteristico al naso con fiori e frutti maturi (mandorla,
mallo di noce, kiwi), note mielate, burrose ed accenni muschiati. Un gusto
morbido e ricco che trova un matrimonio d’amore con le pappardelle con
i funghi porcini, le ricche minestre della tradizione cilentana, i risotti col
vino bianco e carpaccio di pesce azzurro, il tonno leggermente scottato
con colatura di alici.
Le origini del vitigno Greco si perdono nella notte dei tempi. Originario della Tessaglia , fu importato in Campania
dai Pelasgi, che ne diffusero la coltivazione prima sulle
pendici del Vesuvio e poi in alcune aree della provincia di
Avellino, in particolare Tufo, il cui terreno ricco di zolfo ed
altri minerali risultò ideale . Secondo Columella ed altri
scrittori latini deriverebbe dall’Aminea gemina o gemella,
in quanto presentava un grappolo doppio. Dalle viti “Aminee” si ottenevano i migliori vini bianchi dell’antichità. Il
Greco oggi è presente ovunque nel Mezzogiorno, ma è
a Tufo ed in provincia di Avellino (solo 8 i comuni onorati
della DOCG Greco di Tufo) che ha trovato la sua massima espressione. Grande struttura, elevata freschezza
e complessità aromatica sono i tratti distintivi di questo
nobile vino. Nella tipologia spumante o nella versione
ferma, quando giovane, grazie ai suoi aromi fragranti e
fruttati (mela cotogna, noce, sambuco), oltre che di erbe
e spezie si abbina piacevolmente con frutti di mare crudi,
pesce al forno profumato al timo, risotti di mare, formaggi
freschi. Grazie alla sua longevità possiamo apprezzarlo,
da “maturo”, con primi piatti di pesce, pomodoro ed erbe
aromatiche, con calamari e crostacei alla griglia, coccio
all’acqua pazza o carni bianche poco elaborate. Il Greco
come vitigno inoltre compare nella composizione della
DOC Capri bianco, nelle tipologie di bianco delle doc
Vesuvio, Cilento, Sorrento oltre che come monovitigno dei
vini DOC Taburno, Sant’Agata dei Goti, Sannio.
La leggenda racconta che Lucifero, scacciato dal Paradiso, ne
rubò un lembo e lo portò sulla terra a formare il Golfo di
Napoli. Gesù Cristo, addolorato per questa perdita, pianse, e lì
dove caddero le lacrime divine sorse la vite del Lacryma Christi.
Questo vino noto fin dall’antichità, contornato da un alone di
fulgide storie è stato per molti anni il biglietto da visita enologico
di Napoli all’estero. Era soprattutto conosciuto nella versione
dolce, ancor oggi presente come spumante, briosa di frutta
candita e perfetta per accompagnare la sfogliatella napoletana.
Ma il Lacryma Christi in versione secca è oggi un vino molto
piacevole ed interessante. Prodotto con Coda di Volpe in purezza o assieme a Falanghina,Verdeca e Greco si presenta con un
corpo energico ma non pesante, fresco e sapido con nette note
di nespola ed albicocca. L’affascinante beva e la mineralità ne
fanno il protagonista indiscusso dell’abbinamento con la cucina
da strada napoletana e con le intriganti preparazioni culinarie
che hanno ad oggetto il pesce azzurro.
Fiano di Avellino
Fiano del Cilento
Vitigni: Fiano (min. 85%), Greco,
Coda di volpe bianca e/o Trebbiano T. (max 15%)
Gradazione alcolica min.:
11,5%
Produzione max: 100 qli/Ha
Vitigni: Fiano (loc. detto Santa
Sofia) (60-65%), Trebbiano T.
(20-30%), Greco e/o Malvasia b.
(10-15%), altri (max 10%)
Gradazione alcolica min.: 11%
Produzione max: 100 qli/Ha
GrecoGreco
di tufodi Tufo
Vitigni: Greco (min. 85%), Coda
di volpe bianca (max 15%)
Gradazione alcolica min.:
11,50%
Produzione max: 100 qli/Ha
Bianco*Bianco
Vitigni: Coda di volpe bianca (loc. detta Caprettone) e/o
Verdeca (min. 80%), Falanghina e/o Greco (max 20%)
Gradazione alcolica min.:
11%
Produzione max: 100 qli/
Ha
Rosso Rosso
Vitigni: Piedirosso (loc. detto
Palummina) e/o Sciascinoso
(loc. detto Olivella) (min. 80
%), Aglianico (max 20 %)
Gradazione alcolica min.:
12%
Produzione max : 100 qli/
Ha
VINI IN CAMPANIA
VINI IN CAMPANIA
120
Fiano
L’uva amata dalle api
Rosato Rosato
Vitigni: Piedirosso (loc. detto
Palummina) e/o Sciascinoso (loc. detto Olivella) (min.
80%), Aglianico (max 20%)
Gradazione alcolica min.:
12%
Produzione max: 100 qli/
Ha
Qualora i vini raggiungano
gradazioni alcooliche inferiori
(11% per il bianco, e 10,50%
per il rosso e il rosato), essi
dovranno essere denominati
Vesuvio e non potranno riportare in etichetta la dicitura Lacryma Christi.
121
Piedirosso
Il più napoletano dei vitigni
Taurasi
Il rosso aristocratico
Birra?
Sì, campana
Il Pallagrello bianco è un vitigno molto antico, la cui origine
risale all’antica Grecia. Fu un vino molto apprezzato da
Ferdinando IV di Borbone che gli riservò un posto d’onore
nella sua Vigna del Ventaglio di San Leucio a Caserta. Si dice
che questo vino gli piacesse al punto di vietare il passaggio
in località Ponticello nella cittadina di Piedimonte Matese
dove appunto aveva fatto impiantare il Pallagrello. L’attuale zona di produzione coincide con i territori di Caiazzo,
Castel Campagnano e Castel di Sasso, tutti in provincia di
Caserta. Il Pallagrello è un vino strutturato, con una buona
gradazione alcolica, caldo, solare, con sentori di frutta esotica,
pesca, albicocca, che si presta molto bene agli abbinamenti
con le paste e legumi, le zuppe autunnali, ma anche con i
primi piatti della saporosa cucina marinara. Nella versione
vendemmia tardiva è particolarmente indicato con i nobili
crostacei, i paccheri vongole e bottarga, il pollame e gli animali da cortile se cucinati ad arte.
Il Piedirosso è il vitigno a bacca nera più diffuso in Campania dopo l’Aglianico. Presente in modo particolare nelle
aree vulcaniche della provincia di Napoli, è un’uva che già
i Latini conoscevano col nome di “Colombina”. È l’origine
del nome che colora con un timbro partenopeo la storia
di questo vitigno: “ Per’ e palummo” , che deriva da una
caratteristica morfologica dell’uva, e cioè il colore rosso
dei pedicelli degli acini che ricorda la tinta della zampa
dei colombi. Il Piedirosso dà vita a vini di grande tipicità
come le DOC Campi Flegrei ed Ischia (tipologie rosso e Per
‘e palummo), Capri, Lacryma Christi del Vesuvio, Penisola
Sorrentina (sottozone Gragnano, Lettere, Sorrento), Costa
d’Amalfi (sottozone Furore, Ravello,Tramonti), Sant’Agata
de’ Goti. Il vino si presenta poco tannico, con un gusto
morbido ed equilibrato, ricco di delicati odori di frutti rossi
ed erbe aromatiche quali timo, salvia, lavanda. Si abbina
magistralmente con il sartù di riso e polpettine, con i
timballi di paste, le frittatine di maccheroni, ma anche
con gustose zuppe di pesce.
Piedirosso e Olivella (altra uva tipica) danno poi origine ad
un altro famoso vino: il Gragnano della Penisola Sorrentina.Vino rosso frizzante, con una spuma delicata e fine,
esplode in un tripudio di piccoli frutti rossi ed amarene
che chiudono il quadro aromatico con un inconfondibile
aroma di affumicato. È d’uopo
berlo accompagnandolo con la
pizza o con il “panuozzo di Gragnano”, ma grosse soddisfazioni
le offre con piatti giustamente
grassi e succulenti come le tipiche salsicce e friarielli.
Unico vino rosso a DOCG della Campania, il Taurasi per
la sua austerità, eleganza, vigoria e longevità è definito
il Barolo del Sud. Prodotto in 17 comuni irpini (situati
su colline medio alte tra i 400 e i 600 m), trova il suo
habitat naturale in terreni vulcanici e argillosi-calcarei
ricchi di potassio e minerali. È un vino aristocratico ricco
di profumi di sottobosco, marasca, spezie ( pepe nero,
chiodi di garofano), tabacco, petali di rose secche, con un
gusto pieno, astringente e persistente che vira col lento
procedere del tempo verso una più saggia morbidezza.
Queste note caratteriali ne fanno un campione negli
abbinamenti gastronomici con la selvaggina da piuma, la
cacciagione, i piatti di carne rossa strutturati e succulenti
della tradizione irpinia e non solo. Entusiasmante dopo
10 anni di vita con la faraona cotta a bassa temperatura
e salsa alla liquirizia, o con i grandi formaggi stagionati
come il Pecorino Laticauda.
La birra artigianale rappresenta la nuova frontiera della grande qualità made in Campania. Non una scommessa, ma una
salda realtà, la birra dei microbirrifici è sempre più apprezzata sia dai singoli consumatori che dai ristoranti gourmet. Nello
specifico la Kolsch di Faicchio è una bionda dal colore velato,
fragrante, leggera dai profumi agrumati ed ottenuta con il
metodo dell’alta fermentazione. È una birra a tutto pasto,
anche se il meglio di sé lo offre in abbinamento alle fritture
di pesce o di verdure. Interessante è anche l’abbinamento con
le carni bianche non eccessivamente salsate, o con i formaggi
a pasta dura filata come il Provolone del Monaco. La Dark
Strong Ale di Faicchio è invece una birra doppio malto dal
colore bruno con intense note tostate e speziate, ottenuta con
il metodo dell’alta fermentazione. Gli abbinamenti più audaci
sono con ostriche e tartufi di mare crudi, crostacei e carpacci
di pesce. Ma sposa magnificamente anche primi piatti dal
sapore deciso, formaggi di lunga stagionatura e secondi piatti
di cacciagione. Infine un abbinamento insolito ma di gran
classe è con i dessert a base di cioccolato fondente.
Pallagrello
Pallagrello
Vitigni: Pallagrello
Gradazione alcolica: 13,5%
Produzione: 6,77 Kg. per Ceppo
122
Vitigni: Aglianico (min.Taurasi
85%), altri (max 15%)
Gradazione alcolica min.: 12,00%
Produzione max: 100 qli/Ha
Invecchiamento: 3 anni, di cui uno in botte
Il Taurasi , se invecchiato
per almeno 4 anni, di cui
18 mesi in botte, e in possesso di una gradazione
alcolica non inferiore a
12,50%, può riportare in
etichetta la dicitura “riserva”. Deve essere commercializzato solo in bottiglie
di forma bordolese di
vetro scuro, con tappo di
sughero.
VINI IN CAMPANIA
VINI IN CAMPANIA
Pallagrello
Il vino del Re
Kolsch Kolsch
Gradazione alcolica: 5%
Temperatura di servizio:
5/7°C
Dark
Strong
Ale
Dark
Strong
Ale
Gradazione alcolica: 7,5%
Temperatura di servizio:
8/10°C
123
Nocillo
L’elisir delle streghe
Il Moscato è un grande vitigno , ancora però in via di affermazione in Campania. Diffuso ovunque era il vino della
domenica, della festa, che rallegrava e mitigava il duro lavoro
dei campi. Oggi, dopo un periodo di oblio enologico, si è ripresi a produrlo oltre che nel Cilento (DOC Castel San Lorenzo)
anche nel beneventano (Moscato di Baselice). Nascono così
vini dolci, aromatici e complessi (confettura di albicocche,
fichi secchi, mandorle tostate, cannella) che possono essere
bevuti da soli o accompagnati alla pasticceria secca ed ai
dolci pasquali.
Il Lambiccato della Valcalore ( DOC Castel San Lorenzo)) è
legato, invece, ad una vecchia tradizione risalente a quando
il vino si otteneva goccia dopo goccia da una sorta di filtro
molto rudimentale che richiamava l’alambicco. Ed era il vino
della festa del Santo patrono. Oggi il vino prodotto si presenta
in una seducente veste briosa, con netti riconoscimenti di
mele cotte, frutta candita, arance amare ed un gusto fresco,
dolce ma non stucchevole. Oltre che sulla piccola pasticceria
napoletana e sui dolci natalizi, se ne può provare l’abbinamento con i piatti agrodolci orientaleggianti.
A Napoli, nei quartieri più antichi, c’è ancora chi continua
a chiamarlo “‘a merecina”, la medicina. Stiamo parlando
del Nocillo (prodotto a Benevento, in Penisola Sorrentina
e nei Paesi Vesuviani), un elisir-liquore al quale in effetti
vengono riconosciute popolarmente proprietà febbrifughe
e sedative, oltre che ben più certe funzioni digestive. È un
liquore avvolto da un alone di magia e superstizioni popolari che lo
vogliono
prodotto attraverso il rispetto di una
ricetta ed un
cerimoniale
antico. È ricavato dal mallo verde delle
noci messe in infusione nell’alcol assieme a spezie ed erbe
aromatiche nella notte del solstizio d’estate, la notte di
San Giovanni, il 24 giugno. Secondo la leggenda in tale
notte si raccoglierebbero da tutto il mondo le sacerdotesse
di Diana, le “janare”, le streghe maliarde che affascinano l’uomo e lo rendono schiavo del diavolo. Nella notte
del Sabba quindi si combatte la negatività delle janare
raccolte sotto gli alberi di noce, raccogliendo le noci ed
aspettando il trionfo della luce
sulle tenebre.
L’aroma del Nocillo è inconfondibile, fine, lievemente muschiato,
impreziosito da nuances di chiodi
di garofano, china, cannella: un
fine pasto che sa davvero stregare i palati.
Moscato
Moscato
Vitigni: Moscato B. (min. 85%), altri (max 15 %)
Gradazione alcolica min.: 12%, di cui svolti 8,50%
Produzione max: 100 qli/Ha
Il Castel San Lorenzo, Moscato,
se immesso al consumo con una
gradazione alcolica non inferiore
a 13,50%, di cui l’8,50% svolti,
può riportare in etichetta la dicitura lambiccato.
Dicembre 2008
6
8
10
12
14
16
124
sabato
7
lunedì
9
S. Nicola di Bari
Immacolata Concezione
mercoledì
11
venerdì
13
domenica
15
martedì
17
Beata Vergine Maria di Loreto
S. Valerico abate
S. Giovanni della Croce dottore
S. Albina martire
domenica
S. Ambrogio vescovo
martedì
S. Siro di Pavia vescovo
MENU DELLA MEMORIA
VINI IN CAMPANIA
Moscato e Lambiccato
I vini delle feste
giovedì
S. Damaso papa
sabato
S. Lucia Vergine
lunedì
S. Maria Crocifissa di Rosa vergine
mercoledì
S. Lazzaro di Betania
125
18
20
22
24
26
28
126
giovedì
19
sabato
21
lunedì
23
mercoledì
25
venerdì
27
domenica
29
S. Graziano di Tours vescovo
Liberato martire
S. Francesca Cabrini vergine
S. Irma e S. Adele
S. Stefano primo martire
SS. Innocenti martiri
venerdì
S. Elia martire
Gennaio 2009
30
domenica
1
martedì
3
giovedì
5
sabato
7
lunedì
9
S. Pietro Canisio dottore
S. Vittoria
Natale del Signore
S. Giovanni apostolo ed evangelista
S. Tommaso Becket vescovo
martedì
S. Eugenio di Milano
31
giovedì
2
sabato
4
lunedì
6
mercoledì
8
Maria Madre di Dio
S. Genoveffa vergine
S. Amelia vergine
S. Raimondo di Penafort sacerdote
venerdì
SS. Giuliano e Basilissa
10
mercoledì
S. Silvestro papa
venerdì
SS. Basilio e Gregorio vescovi
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Dicembre 2008
domenica
B. Angela da Foligno religiosa
martedì
Epifania di Nostro Signore
giovedì
S. Severino abate
sabato
S. Aldo eremita
127
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