Indice • EDITORIALE.................................................................................3 di Antonio Fiore • I piatti della Memoria sulla tavola natalizia...........................4 di Lejla Mancusi Sorrentino • L’arte presepiale in Campania................................................10 di Susuanna Crispino e Maria Morgillo • NAPOLI Ciro a Santa brigida.................................................................................... 16 Napoli, nel tempio della tradizione Il San Carlo e la Galleria Umberto.......................................................... 18 europeo................................................................................................................. 20 Elogio della «mattozzità» Il culto di Sant’Aspreno................................................................................... 22 mimì alla ferrovia......................................................................................... 24 Un’ora di felicità gastronomica A spasso nel tempo fra gli scavi............................................................... 26 napoli mia............................................................................................................ 28 Apoteosi partenopea in tavola Piazza Municipio: un simbolo della città............................................... 30 palazzo petrucci............................................................................................. 32 Lo chef che reinventò la pizza La cappella dei Sansevero.............................................................................. 34 taverna dell’arte........................................................................................... 36 Il meglio delle Due Sicilie Capolavori dell’arte rinascimentale........................................................... 38 • provincia di NAPOLI Antica Osteria nonna rosa..................................................................... 40 Dove trionfa la gastronomia del cuore Vico Equense - Panorami mozzafiato....................................................... 42 Fenesta verde.................................................................................................... 44 Lo sguardo spalancato sui sapori Giugliano - Gioielli architettonici ricchi di storia............................. 46 il poeta vesuviano......................................................................................... 48 Tutta la cucina davanti a sé Torre del Greco - La natura, l’uomo e le Ginestre......................... 50 taverna estia..................................................................................................... 52 Gran finale con il «Vesuvio Buono» Brusciano - Con i Gigli tra arte e folclore......................................... 54 • avellino e provincia la locanda di bu........................................................................................... 56 L’Irpinia creativa di Pisaniello Nusco - Gioielli da ammirare affacciati al Balcone......................... 58 marennà................................................................................................................. 60 Un siciliano stregato dalla Campania Sorbo Serpico - Una conca di storia e natura incontaminata... 62 oasis sapori antichi...................................................................................... 64 Quando la cucina diventa poesia (oraziana) Vallesaccarda - Sulla via dei pellegrini................................................... 66 la pignata........................................................................................................... 68 Sinfonia della cultura contadina Ariano Irpino - Dalla Collegiata al Castello.......................................... 70 TABERNA VULGI.................................................................................................... 72 Un giramondo irpino di talento S. Stefano del Sole - Gli affreschi di Angelo Solimena.................... 74 • benevento e provincia il foro dei baroni........................................................................................ 76 Fuochi d’artificio nel cuore del Sannio Puglianello - Il borgo e le terme............................................................. 78 i giardini di marzo...................................................................................... 80 Il sogno realizzato di Ivana e Michele Sant’Agata de’ Goti - La Perla del Sannio........................................... 82 la pignata........................................................................................................... 84 Pontelandolfo, tutto il gusto della tavola Sepino - «Ciro» e le meraviglie dell’entroterra.................................. 86 • caserta e provincia le colonne.......................................................................................................... 88 Rosanna ha inventato i «piatti parlanti» Caserta - Visitare la casa di un re........................................................... 90 vairo del volturno...................................................................................... 92 Con Renato alla scoperta delle eccellenze casertane Vairo del Volturno - Visita alla fortezza incantata............................. 94 al vecchio mulino......................................................................................... 96 Il «tianiello» e altre meraviglie locali Teano - Una vita antica che rivive nel presente............................... 98 • salerno e provincia il conte andrea............................................................................................100 Nobiltà della cucina salernitana Salerno - La magia della storia: S. Sofia e il Duomo...................102 casa del nonno 13.....................................................................................104 Raffaele e il miracolo di San Marzano Mercato San Severino - Tra Longobardi e Aragonesi.......................106 cucina antichi sapori................................................................................108 «Concerto» in onore di Peppe & Antonietta Tramonti - La cappella rupestre di San Michele..............................110 divina commedia............................................................................................112 Volete mangiar bene? Andate all’Inferno Giffoni Valle Piana - Fra la vecchia miniera e il torrente..............114 • I vini, gioielli della Campania Felix......................................116 di Pino Savoia 4 - 13 Aprile 2009 della cucina regionale campana Guida ai ristoranti e ai monumenti della Campania a cura di Antonio Fiore STORIA Ruvido, Piazza del Gesù Nuovo opera di Quintino Scolavino Nicastro in copertina Maggio 2009 Critico Maccheronico Direzione artistica a cura di Antonio Fiore Direzione editoriale a cura di Giuseppe Napolitano redazione Susanna Crispino Gianfrancesco D’Andrea Graziana Iadicicco Maria Morgillo Nadia Maria Nacca Irma Napolitano Pino Savoia Lejla Mancusi Sorrentino Si ringrazia Gloria González editore © 2008 Inac-Ac Via Bisignano, 68 - 80121 Napoli Tel. 081 409456 [email protected] www.pianetagustocampania.it realizzazione grafica Anna Napolitano fotografie Marcello D’Andrea, Giuseppe Minniti, Giulia Napolitano © 2007 Photos.com Le foto degli itinerari sono di Giuseppe Loffredo www.6viaggi.com www. eptnapoli.info elaborazione grafica di Leyla Stellato Cecom snc Bracigliano (SA) CR Luglio C'è un nuovo modo per conoscere la Campania: sei viaggi fatti di eventi, mo spettacoli, concerti e itinerari gastronomici. Memoria, emozioni, storia, 6 Dicembre 2008 - 6 Gennaio 2009 creatività e tradizione. Programmate il vostro 2009 in Campania su: www.6viaggi. Campania 2009 Arricchite il vostro bagaglio copertina stampa M enu della memoria moltiplicato per venticinque, quanti sono i ristoranti e gli chef coinvolti in questo viaggio. Perché quando si parla di memoria gastronomica di Napoli e della Campania si entra in un territorio multiforme, dove il plurale è d’obbligo. Siamo dinanzi a un immaginario gastronomico stratificato sia in senso storico che sociale, e al cui interno convivono armonicamente i segni della cucina povera e delle mense nobiliari, il “Cuoco Galante” di Vincenzo Corrado e “La cucina teorico pratica” di Ippolito Cavalcanti, il ricordo ancestrale dei mangiafoglie, il rito plebeo dei mangiamaccheroni, i piatti sapientemente infranciosati dei Monzù, il classico ricettario di Jeanne Carola Francesconi, il richiamo sempre possente del mare, il bianco abbagliante della mozzarella... Il tutto nel quadro di una cucina che, pur essendo così identitaria e radicata nella tradizione, è anche tra le più «globali» dell’Occidente, avendo integrato perfettamente nel suo panorama ingredienti lontani: basti pensare all’avventurosa storia del pomodoro, viaggiatore americano in principio apprezzato in Europa esclusivamente come pianta ornamentale e afrodisiaca, del quale solo Napoli e la Campania seppero fare il perno di un intero universo gastronomico al tempo stesso popolare e aristocratico: abbiamo perciò chiesto a 25 tra i migliori chef campani di confrontarsi con questa tradizione ciascuno ARTI a partire dalla propria esperienza, dal proprio territorio 5 28 Giugno 2009 e addirittura dalla propria «memoria» individuale, nella convinzione che proporre delle ricette nelle loro versioni cristallizzate negli antichi manuali non avrebbe reso un buon servizio a una cucina che non è archelogia ma interpretazione, continua evoluzione, innovazione mai gratuita o modaiola. Una gastronomia viva è quella che sa confrontarsi con il suo glorioso passato ma anche con la contemporaneità, e questi menu ognuno «gemellato» a un luogo artistico e culturale in sintonia, a uno dei prodotti tipici utlilizzati, e integrati da una dettagliata descrizione della ricchissima enologia campana, altro orgoglio della nostra terra - vogliono esserne la polimorfa (e gustosissima) dimostrazione. Antonio Fiore Critico maccheronico MENU DELLA MEMORIA MENU della memoria Editoriale Assessorato al al Turismo Turismo Assessorato e ai BeniCulturali Culturali e ai Beni 3 I piatti della memoria sulla tavola natalizia 4 la poesia gastronomica del Natale e ogni città, ogni paese, ogni piccola contrada ha creato specialità tipiche degne del grande evento, distinguendo quelle di magro per il cenone della Vigilia, quelle di grasso per il pranzo di Natale, e riservando le pietanze più ricche e opulente per il veglione di Capodanno. o i grossi e saporiti scampi. Per evitare grassi animali, vietati nel rispetto dell’astinenza imposta dalla Chiesa, i vermicelli devono essere alle vongole, che talvolta sono scappate nelle versioni più modeste, oppure alla notte di Natale, cioè con aglio, olio, acciughe, prezzemolo, capperi e ulive. La tradizioIl cenone della Vigilia a Napoli ne vuole è il trionfo di tutte le verdure, che non scarole imbottite, friarielli soffrit- manchi ti, broccoli affogati, ma protago- la cosidnista assoluto è il pesce, dagli detta Inesemplari più umili, tra i quali salata di un tempo era il baccalà oggi rinforzo, dal costo proibitivo, ai più pre- in cui il giati e costosi come l’aragosta cavolfio- S in dai primi giorni di dicembre comincia ad aleggiare prepotente l’atmosfera natalizia e si riaccende il desiderio di rinnovare le tradizioni, intese soprattutto come occasione di aggregazione familiare intorno alla stessa mensa in un’atmosfera serena e gioiosa. A Napoli il Natale è festa gastronomica oltre che religiosa, retaggio di riti sacrificali alla divinità che deve essere degnamente onorata con consumo di cibi preziosi e rari. Una conferma emblematica dell’importanza del cibo nel rito natalizio è offerta dalla scenografia del Presepe dove la maggioranza delle offerte portate dai pastori sono mangerecce: ceste di frutta, di uova, di latticini, polli, pesci salumi, ecc. C’è la bottega del macellaio, del panettiere, quella del salumiere con provoloni, salsicce e capicolli, c’è il forno per pane e pizze, fanno bella mostra i banchi del mellonaro e del fruttivendolo con le ’nserte di agli e cipolle, quello del pescivendolo con le tipiche MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA di Lejla Mancusi Sorrentino Il cenone della Vigilia Faciteme magnà spaselle e persino la tipica taverna napoletana con l’oste sulla porta e i tavoli completi di piatti e fiaschi di vino intorno ai quali sono seduti gli avventori. Spesso si tratta di scene e personaggi anacronistici, come il cacciatore, il frate, i carabinieri e oggi tra i pastori occhieggiano anche Bassolino, Berlusconi, Pavarotti, Cannavaro, i Savoia e altri big di turno. L’abbondanza di cibo su tutte le mense, senza distinzione di classe sociale, è profondamente sentita come un dovere per solennizzare degnamente la nascita del Signore. E’ questa Santa Lucia, no chella d’’e canzone, no chella d’ ’o cantante e l’orchestrina, io preferisco chella d’ ’a cucina, d’ ’a vungulella ’ncopp’ ’o maccarone. D’ ’o pesce fritto, fatto uoglio e limone, fore a na tavulella ’e na cantina, piazzata ’mpont’ ’o taglio d’ ’a banchina, cu’ ’o pede ’ncopp’ ’a barra ’e nu temmone. E chesta è ’a poesia, niente cantante, niente pusteggia pe pute’ magnà, nu vermicello a vongole abbondante, cu ’o petrosino crudo, addore ’e scoglie, e ’a primma forchettata ti ‘a scustà… si no svenisce mentre l’arravuoglie! Raffaele Viviani 5 Solo così riuscivano a garantirsi una parentesi godereccia, una solenne abbuffata, dopo un lungo anno di privazioni e sacrifici, il consumismo attuale era ancora tutto da inventare. Il pranzo di Natale L’antica usanza prevede sulla tavola di Natale la Minestra maritata, che richiede una lunga e paziente preparazione, composta da diverse specie di verdure scottate separatamente, strizzate, tagliuzzate e insaporite in un denso e saporito brodo realizzato con un ricco assortimento di carni e salumi: polpa di manzo, gallina, cotica, prosciutto (un tempo era utilizzato l’osso), salsiccia forte e, facoltativo un pezzo di formaggio. E’ un piatto antichissimo, citato in letteratura sin dal Quattrocento, essendo in realtà la versione festiva della povera zuppa di verdure che rappresentava il desinare giornaliero del popolo napoletano sin da tempi lontanissimi, minestra considerata il piatto nazionale, tanto da far meritare ai napoletani l’appellativo di mangiafoglie, fino alla grande diffusione della pasta che mutò il loro soprannome in mangiamaccheroni. Per rendere onore al nuovo epiteto dopo la mine- stra seguirà un piatto di pasta, un sontuoso timballo di maccheroni, condito con l’inimitabile ragù napoletano, ben imbottito di polpettine, mozzarella, piselli, funghi e quant’altro la fantasia del cuoco suggerisce. Rituali sulla tavola di Natale sono gli animali da cortile – tacchino, gallina, cappone, a scelta – farciti o al forno con patate, o in umido con contorni vari. Per il dessert non si può rinunciare al panettone, simbolo del Natale italiano ma in tema di dolci natalizi, senza timore di fare vieto campanilismo, Napoli non teme il confronto con nessun’altra città, sia per l’assortimento che per fantasia di nomi e di forme: oltre ai caratteristici struffoli e alla tradizionale cassata nella versione napoletana senza il bordo verde di pistacchio, ci sono raffioli semplici o imbottiti, roccocò, sospiri, paste reali, paste di mandorle, divino amore, sapienze, mostaccioli e susamelli, questi ultimi a forma MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA 6 re fa solo da supporto a olive bianche e nere, filetti d’acciughe, sott’aceti d’ogni tipo e colore e tutti i sott’oli che si possano immaginare. Il pezzo forte del cenone è senza dubbio il capitone, lesso, arrostito, marinato, fritto o in umido, il capitone viene mangiato più che per rito quasi come un dovere da rispettare, si dice a Napoli pe’ devozione. Nonostante il suo prezzo salga alle stelle nel periodo natalizio, anche le famiglie più modeste fanno qualsiasi sacrificio pur di non rinunciarvi. Una complicata e tortuosa simbologia identifica nel capitone il serpente demoniaco da sconfiggere, schiacciato sotto i piedi della Vergine, mangiato il quale si può finalmente celebrare la nascita del Redentore. Nell’immaginario popolare il capitone è considerato animale portafortuna, capace di esorcizzare il maloc- chio e, per simbologia fallica, propiziatore di fecondità e fertilità. L’usanza è stata ereditata dagli antichi Romani, presso i quali l’anguilla era tra i cibi di rito per festeggiare i Saturnali che cadevano la notte del 25 dicembre , la più lunga del solstizio d’inverno che segnava il passaggio al nuovo anno. L’anguilla rappresentava il ciclo annuale, l’anno che ritorna sempre su se stesso, poi con la sovrapposizione dei riti cristiani a quelli pagani che fecero coincidere la ricorrenza religiosa della natività con gli antichi festeggiamenti per il nuovo anno, a Napoli si è conservata la tradizione di questo cibo simbolico denso di significati reconditi. Anticamente le famiglie con mezzi limitati, per evitare di indebitarsi nell’acquisto di tutti i commestibili necessari ad una degna tavola natalizia, sin dai primi mesi dell’anno, prenotavano presso il salumiere abituale un cesto ripieno di cibarie, chiamato sfrattatavula, e lo pagavano a rate col versamento di pochi soldi alla settimana o lasciando l’eventuale resto della spesa giornaliera. di esse sempre con allusione al serpente demoniaco da distruggere. Per prolungare in allegria la permanenza intorno alla tavola natalizia con l’antico gioco della tombola, tanto caro ai più piccini, o con le più attuali partite a carte, a fine pasto compaiono cestini colmi di frutta secca, oltre ai fichi, imbottiti e ricoperti di cioccolato, e ai datteri, immancabili le ciociole o spassi – noci, nocciole, arachidi, semi di zucca, castagne del prete, ceci tostati – che aiutano a passare la serata tirando tardi tra piacevoli chiacchiere e allegre risate. Il veglione di Capodanno Durante le feste di fine d’anno c’è la consuetudine gentile delle strenne, uso che ebbe inizio niente di meno che conTitoTazio, re sabino contemporaneo di Romolo (siamo Pignato Maritato fatto alla Napolitana Pignato maritato fatto alla napolitana Deh, se provaste mai, donne mie care, certo altro buon mangiare che noi con studio assai solem fare d’una dolce pignata d’un pezzo riposata detta a Napoli tra noi la maritata, fatta di torzi, d’ossa mastre e carne, dove entra un pezzo di presciutto vecchio salcizon sopressata e boccolaro col suo finocchio e buon formaggio dentro, che il sapor vadi a penetrar nel centro. Oh che pignato raro così sempre da noi tenuto caro! Giovan Battista Del Tufo, Ritratto o modello della nobilissima città di Napoli, 1588 7 salute, la parola strenna servì a indicare i doni apportatori di felicità e di benessere che da allora amici e parenti cominciarono a scambiarsi nel giorno di Capodanno. Questi doni consistevano in genere in cose dolci come datteri, fichi e altra frutta secca o anche vasetti di miele, e quant’altro fosse in grado di esprimere le cose piacevoli che si volevano augurare al destinatario per l’anno che cominciava. Grandi erano nell’antichità i fe- steggiamenti di Capodanno, giorno dedicato al dio Giano, divinità dai due volti, l’uno triste e l’altro sorridente, simboleggianti il passato e l’avvenire, l’anno trascorso e quello che va ad incominciare.Anno nuovo, vita nuova: in quel giorno i nostri antenati indossavano abiti nuovi e cercavano di concludere affari e realizzare guadagni nella convinzione che un inizio positivo avrebbe garantito fausti eventi per tutto l’anno, superstizione ancora oggi fortemente radicata a Napoli nella credenza popolare che ha coniato il detto Quel che si fa il primo dell’anno si farà per tutto l’anno. Pertanto per buon augurio in quel giorno si dovrebbe evitare di piangere, di arrabbiarsi, di bisticciare in modo da tener lontani questi tristi sentimenti, mentre si devono fare e progettare solo cose piacevoli. Sulla scia di una siffatta convinzione, radicata da secoli, il cenone di Capodanno che si prolunga ben oltre la mezzanotte, non può che essere opulento e imperniato sulle specialità gastronomiche più esclusive e raffinate. E’ di buon auspicio per i prossimi dodici mesi farsi trovare dall’arrivo del Nuovo Anno seduti ad una tavola ricca, nell’atto di assaporare pietanze ricercate, insolite, diverse da quelle di tutti i giorni, attirando così per magia imitativa, eventi straordinari e piacevoli per il futuro. Nell’antichità per propiziarsi i favori della divinità, si sacrificava un animale grasso e ben nutrito. Superstite di questa usanza è il cappone, ormai introvabile, che veniva castrato alcuni mesi prima per renderlo incline all’ingrasso ed era allevato con cure particolari perché le sue carni fossero abbondanti, tenere e saporite. Un altro rito propiziatorio di abbondanza, presente ancora nella nostra tradizione, è di consumare in quella notte cibi composti da infiniti piccoli elementi, impossibili da contare, ciò che spiega il significato delle lenticchie, da mangiare in quantità, quante più se ne mangiano tanti più soldi si guadagneranno, e del Sartù di riso, che presenta una doppia valenza magica: non solo ogni chicco di riso rappresenta un soldino ma c’è anche il ghiotto ripieno che prelude a ricchezze future. Analogo valore simbolico hanno le melagranate che troneggiano nella fruttiera di Capodanno e i turgidi e dorati grappoli di uva, ogni chicco ingerito mentre scoccano i dodici colpi della mezzanotte vale un anno di felicità.Abbondanza e ricchezza sono racchiuse anche nella cornucopia di croccante, ricolma di struffoli, una miriade di palline fritte avvolte nel miele. Il brindisi di mezzanotte con lo Spumante, rito diffuso in tutto il mondo, è legato alla convinzione che sarebbe di cattivo auspicio pasteggiare con semplice acqua nelle ultime ore del 31 dicembre e durante il 1° gennaio. A Napoli i fatidici dodici rintocchi che scandiscono il passaggio dal vecchio al nuovo anno sono completamente attutiti da botti, petardi e fuochi d’artificio sparati da tutti i terrazzi e balconi della città nel duplice scopo di spaventare l’anno vecchio e farlo fuggire con tutto il suo bagaglio di guai e dolori e di accogliere l’anno nuovo MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA 8 quindi all’epoca della fondazione di Roma), che nel primo giorno dell’anno ebbe in dono un ramo di verbena, erba apotropaica, capace cioè di tenere lontano i malefici. Poiché quel ramo di verbena proveniva dal bosco che circondava il tempio della dea Strena, personificazione della sanitas = buona in un’atmosfera di eccitazione e allegria. La notte di San Silvestro offre nella nostra città uno spettacolo unico al mondo, il cielo si illumina a giorno, poi si arrossa sullo sfondo delVesuvio, l’aria si fa cupa, irrespirabile e una nuvola densa di fumo avvolge nelle prime ore dell’anno nuovo tutta la città e il golfo. Anticamente, ma l’usanza si è protratta fino a qualche decennio fa, la santabarbara avveniva anche per la mezzanotte del 24 dicembre come raccontava in versi l’abate Giulio Genoino Se un tempo le feste erano l’unica parentesi di abbondanza al termine della lunga astinenza durata tutto l’anno, oggi rappresentano l’occasione tentatrice per disattendere le ossessionanti diete che ci perseguitano ininterrottamente. Ben venga dunque la trasgressione per godere della nostra ricca gastronomia natalizia... semel in anno licet insanire! botti Voglio spara’ li truone a lo Bammino e quann’è mmezanotte vasa’ ’nterra, e po’ ronfa’ diece ore a suonno chino pe’ diggeri’ la mensa, e ffa la guerra dimane a ’na gallotta e a ’no capone co quattro mozzarelle de la Cerra... Vi’ che te face fa’ la devozione! Giulio Genoino, abate 9 MENU DELLA MEMORIA di Susanna Crispino e Maria Morgillo 10 Q uanno nascette Ninno/quanno nascette Ninno a Betlemme/era notte e pareva miezojuorno...” In questi versi, che la tradizione attribuisce a Sant’Alfonso Maria de’Liguori si intravede la magia e l’ingenuità del presepe. In quanto rappresentazione del mistero della natività di nostro Signore Gesù Cristo, il presepe trae la sua ragione di essere dalla descrizione riportata dai vangeli di Luca e di Matteo. Spesso oggetto di raffigurazione pittorica e scultorea a bassorilievo fin dal periodo paleocristiano, la Natività viene fatta rivivere per la prima volta a Greccio nella notte del 1223 da San Francesco, considerato l’iniziatore dell’usanza del presepe. Ai francescani spetta il merito di aver portato un po’ ovunque il presepe natalizio, con lo scopo di diffondere il culto cattolico e avvicinare ed educare i fedeli, è così che il presepe arriva anche a Napoli. L’uso di allestire il presepe a scopo devozionale si sviluppa pienamente solo in clima controriformista. Nel Cinquecento, si ha una evoluzione delle statuette di legno, si ricorre all’impiego di parrucche con acconciature dell’epoca, di occhi di vetro e delle parti nude policromate. Nel corso del XVII secolo, il presepe devozionale napoletano, risente del gusto Taverna, xviii secolo, autori vari barocco e, in particolare, della tendenza all’allestimento spettacolare e all’interesse più accentuato per il dato ambientale: compaiono i quadri scenici del mercato, della taverna e di tutta la realtà circostante. Intanto il presepe napoletano, diviene un fenomeno di moda recepito e diffuso sempre più in ambiente laico. Nel Settecento, attraversa il suo periodo più aureo: il numero dei personaggi cresce e i gruppi scenici si ispirano alla realtà del tempo. Si configura in tal modo il presepe cortese napoletano, diverso dal tradizionale presepe di chiesa a scopo devozionale. Nel XVIII secolo la rappresentazione presepiale, diretta di solito dalla regia di un pittore o di un architetto, si sviluppa sullo “scoglio”, struttura in legno ricoperta di corteccia di sughero. Presenta degli ele- menti scenici basilari: il mistero della Natività, l’annuncio dei pastori e il diversorium (la locanda presso cui Maria e Giuseppe chiesero invano ospitalità), attorno ai quali ruota una affollata composizione che ripropone uno squarcio aperto sulla Napoli settecentesca, ripresa nei costumi e nelle attività della sua gente. Il presepe risente, nel corso del Settecento, dei ritrovamenti archeologici di Pompei e Paestum, per cui viene reso come un tempio in rovina dalle classiche colonne a sostegno dei resti del timpano che inquadra la scena della Sacra Famiglia. Le figure sono connotate da una forte e viva espressività ed esibiscono spesso costumi tipici del Regno di Napoli, divulgati dalle serie di immagini edite in quel tempo dalle stamperie reali. Gli abiti, eseguiti prevalen- temente da sarti di professione, sono realizzati in stoffe pregiate e talora, come i manti dei Re Magi, adornati anche con pietre preziose. Durante il governo di Carlo di Borbone (1734-1788), il presepe raggiunge il più alto grado di espressività artistica, favorito dall’interesse che vi nutrì il sovrano. E’ noto che il re si occupava della costruzione del presepe, mentre la regina sua consorte, insieme alle dame di corte e alle principessine, si occupava di preparare gli abiti per i pastori del Santo presepe, anche per far cosa gradita al re. Solitamente l’esecuzione reggia di caserta, particolare del presepe delle statuetta presepiali veniva affidata a valenti scultori come Antonio Vaccaro, i Bottiglieri, Francesco Celebrano e ancora Giuseppe Sanmartino ed altri. Durante l’Ottocento, il presepe è caratterizzato da una produzione artistica ripetitiva di copie e falsi.Tale situazione risultava dal mutamento delle vicende politiche che inducevano la corte e l’aristocrazia ad abbandonare progressivamente questi “diletti”, fino a quando, dopo il 1860, sia per le minori disponibilità economiche, sia per il conseguente affievolirsi della sensibilità artistica, si giunse a una produzione commerciale accessibile un po’ a chiunque. L’artigianato presepiale ha conservato fino ai giorni nostri la sua tradizione, man mano che ci si addentra nell’antichissima via, che da piazza San Domenico Maggiore arriva a via Duomo, ci si sente sempre più parte del denso flusso di persone che trasporta fino all’incrocio con la ripida strada, denominata San Gregorio Armeno dall’antico convento cinquecentesco. E’ qui che la città di Napoli offre la sua particolare interpretazione della festa natalizia. Le botteghe MENU DELLA MEMORIA L’arte presepiale in Campania 11 secolo, con figure di Giuseppe Sanmartino, tra i massimi scultori napoletano del Settecento, che, abilissimo a plasmare figure in terracotta, diede inizio ad una scuola di artisti del presepio. Particolarmente suggestivo da visitare e per di più oggetto di un “miracolo di Natale” è il presepe della chiesa di San Nicola alla Carità, lungo via Toledo: i pastori settecenteschi, le statuine dei plastificatori napoletani del XIX secolo e i pastori semoventi, - pari a circa trecento figurine- trafugati il 18 dicembre 2006, furono ritrovati quattro giorni dopo, per la gioia dei bambini e dei turisti che ancora oggi possono ammirarlo in tutto il suo splendore. Sempre in provincia di Napoli, procedendo lungo la strada statale che da Castellammare di Stabia conduce a Sorrento, reggia di caserta, scoglio a Mergellina, sono custodite, cinque statue appartenenti a uno dei presepi realizzato dallo scultore Giovanni da Nola nel ‘500. Ma è di certo la Certosa di San Martino, sulla collina di Sant’Elmo, a custodire la più ricca collezione di singole figu- re presepiali, tra cui il celebre presepe Cuciniello, dal nome del collezionista napoletano, che nel corso della sua vita raccolse pregiati pastori, veri pezzi unici, donandoli poi nel 1877 all’istituzione museale. Realizzato tra il XVIII e XIX reggia di caserta, particolare del presepe MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA 12 sono attive tutto l’anno e da dicembre a gennaio ha luogo una grande esposizione e vendita dei presepi e pastori, con pezzi unici esportati in tutto il mondo che rinnovano l’antica rinomanza del presepe napoletano. Le bancarelle di San Gregorio Armeno offrono qualcosa di più di una rappresentazione scenografica. Oltre a essere il luogo in cui si celebra l’evento più importante per il mondo cristiano, vengono ritratti tipici atteggiamenti, peccati e usanze del mondo intero, un luogo in cui si perpetua la tradizione artistica, estetica di un popolo, ma anche un luogo dove gli eventi contemporanei, cittadini, nazionali o mondiali irrompono con la realizzazione di personaggi che potremo definire degli “infiltrati storici”. E da San Gregorio Armeno proseguiamo per il centro storico anch’esso ricco di testimonianze dell’arte presepiale. Nel complesso di Santa Chiara, a pochi passi da piazza del Gesù, si conserva il più classico presepe gesuitico che coniuga i canoni ecclesiastici con la prorompente vitalità delle scene popolari, fino all’adiacente chiesa di Santa Marta in cui il presepe occupa un’intera parete. Di particolare interesse è il presepe con figure mobili conservato nella chiesa dello Spirito Santo, in Via Toledo. Mentre nella chiesa di Santa Maria del Parto, reggia di caserta, salvatore fergola, bozzetto per un presepe, grotta con volo degli angeli subito dopo Vico Equense, incontriamo Seiano, antico casale del territorio equense. Una gita a Seiano è l’occasione per visitare un caratteristico presepe allestito nella cripta della chiesa di San Marco, proprio nella piazzetta del paese. E’ una sacra rappresentazione della natività che, riprende i modi e le scene della tradizione presepiale settecentesca. In un ambiente sotterraneo ricco di atmosfera il visitatore scopre una nuova realtà, ha l’impressione di non essere un semplice visitatore, ma piuttosto parte integrante di un mondo fantastico. E’ accolto da due piccole nicchie: una, a destra, con San Giuseppe falegname, l’altra a sinistra, con l’Annunciazione dell’Arcangelo Gabriele alla Vergine Maria mentre è intenta a filare; si sviluppa lungo dieci stazioni di cui sette più grandi da un lato e tre più piccole dall’altro. I sette “scogli” principali, propongono scene della vita quotidiana, e lentamente conducono all’evento principale per poi riprendere ad illustrare le arti e i mestieri, dove si illustrano le più antiche attività di Seiano, a cui sono dedicate appunto le tre scene più piccole. Da Napoli procediamo per Caserta, dove una visita va fatta al presepe conservato nella Reggia, ammirevole per la grande esibizione scenografica, datato al XVIII secolo, composto da milleduecento figure risistemate in loco nel 1844, data in cui fu incaricato Salvatore Fergola, pittore di corte, per la composizione di quattro vedute che rappresentano il presepe, che oggi ornano la Sala dov’è conservato, e che 13 nati secondo i modelli originali. E’ su questo sfondo che viene collocata la scena della Natività, lo schema è quello del presepe napoletano del settecento. Suggestiva risulta anche la rappresentazione del presepe vivente di Teano, dove gruppi di fedeli fanno rivivere la magia del presepe tra le chiese e i borghi, con la collaborazione di vetrine e botteghe. Da Caserta salerno, presepe dipinto 14 svolgono nella provincia di Caserta. Caratteristica è quella di Vaccheria, piccola frazione di Caserta, che non ha una tradizione molto lunga, ma l’attenzione e la cura poste nell’allestimento ne garantiscono l’interesse. I figuranti si muovono in un ambiente che ripropone uno spaccato di vita del XVIII secolo, utilizzano attrezzi autentici e indossano abiti di foggia settecentesca, fedelmente confezio- ci spostiamo verso Benevento dove dal 28 novembre presso il palazzo Paolo V avrà inizio la II Mostra presepiale intitolata “Era notte e pareva miezijuorno” organizzata dall’Associazione Amici del Presepe. E da Benevento molto piacevole è una visita nel piccolo borgo di Morcone, dove, come ogni anno, sarà ospitato il suggestivo Presepe vivente, denominato “Il presepe nel presepe” che porta numerosi visitatori nelle strade del centro storico: la scena della Natività è in porta San Marco, l’Annunciazione e la cavalcata dei Magi in piazza San Bernardino. Da alcuni anni il Presepe si arricchisce della presenza di figuranti come gli “Ndocciati” di Agnone, con la caratteristica torcia umana. La tradizione del presepe continua da Benevento ad Avellino dove nell’incantevole Santuario di Montevergine trova posto il “Presepe del Mondo”, una mostra permanente di presepi di varie regioni d’Italia e di altre nazioni del mondo che documentano le diverse realtà storiche e geografiche: molti presepi in mostra provengono da nazioni lontane, come Messico e Vietnam. A pochi chilometri dal capoluogo, si può ammirare il suggestivo Presepe Vivente di Forino, rappresentato nella zona conosciuta come il Corpo di Forino, costituita dalla cittadella fortificata sviluppatasi attorno al Palazzo dei Principi Caracciolo, risalente al XV secolo. Si accede al Presepe attraverso la porta principale del Corpo, attigua al palazzo, mentre le scene presepiali trovano posto nelle cantine, nei portoni e nelle stradine del centro, spaziando dalla tradizione biblica e cristiana a quella popolare forinese, di cui documentano anche arti e mestieri. Vale la pena spostarsi in pro- vincia di Salerno, precisamente a Sarno, dove oggi è possibile ammirare tre presepi che si dipanano lungo la fascia pedemontana: uno in frazione Episcopio, un altro nell’antico Borgo de foris civitatis, ed il terzo visibile nel dedalo di viuzze alle spalle del monumentale municipio. Usano come scene vicoli e case, e il terzo presepe presenta anche strutture architettoniche permanenti realizzate ex novo. Chi giunge a Sarno, nel periodo natalizio, ha l’impressione, estremamente suggestiva, di aver fatto un viaggio a ritroso nel tempo. Il presepe vivente nella zona dell’Episcopio, è il più vecchio, si ripete da circa venti anni e si articola nelle strade più antiche della frazione. La Natività è collocata in una stalla tuttora funzionante. All’interno di un vecchio “basso” un gruppo di pastori e contadini intreccia ceste di sarcine, mentre nella bottega del fornaio esce l’intenso odore del pane appena cotto. Per vari giorni, ogni sera, si ripetono antichi gesti, antichi suoni e odori e il tempo si sospende. Il più recente è il presepe del Borgo, ai lati della strada si trovano portoni che introducono in case a corte dalla pianta complessa dove rivivono arti e mestieri tipici del luogo. I vari personaggi che rivivono le scene tipiche del presepe napoletano, si incastonano nel contesto urbanistico ed architettonico in maniera or- MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA hanno ispirato l’attuale allestimento, realizzato nel 1988. I pastori di Caserta presentano spesso abiti di seta con ricami al filo d’argento o d’oro e bottoni d’argento. In alcune figure è riconoscibile qualche personaggio di corte: una satira mordace sempre viva nel popolo. Molte sono le rappresentazioni di presepi viventi, che ogni anno, durante il periodo natalizio, si presepe, particolare ganica. Il terzo presepe vivente, più che decennale, è ambientato a ridosso del colle, in una delle più antiche zone del paese, con vecchie case e vicoletti che si inerpicano su per la collina. Più accurato nei costumi, più accentrato e raccolto, è incentrato sulla Natività. Anche qui le scene profane riproducono la vita quotidiana quale in passato doveva essere nel paese. Particolarmente interessante e sicuramente da vedere è il presepe dipinto di Salerno. Nella trecentesca aula annessa alla Cattedrale di Salerno, due angeli posti nelle ogive ai lati del portale d’ingresso accolgono i devoti: uno regge un cartiglio, l’altro si abbandona al dolce suono della mandola. Al centro nell’arcosolio, una candela accesa spicca su un cielo azzurrino. Sagome simili a carte da gioco tenute in piedi da un invisibile giocoliere costituiscono questo suggestivo presepe. Opera eseguita dal pittore Nicola Carotenuto, rappresenta l’immagine autentica della città, colta nell’attimo della natalizia serenità e confusa nel fantastico racconto di altre epoche e di altri luoghi. 15 Tozzetti di baccalà in pastella con salsa di capperi Spiedino di carne misto in brodo di verdure nostrane Pappardelle di crêpes con funghi porcini e frutti di mare Filetto di spigola mandorlato su letto di scarole Struffoli Cassata Piedirosso dei Campi Flegrei Doc - Pietraspaccata Napoli, nel tempio della tradizione Q uando ti viene voglia di tradizione, è a Santa Brigida che devi andare. Qui da Ciro non si seguono le mode, ma si suona ogni giorno lo spartito dell’ortodossia partenopea: nel luogo in cui – da Marconi alla Bergman, sempre lei – sono passati tutti è così più o meno da una settantina d’anni. Chi cerca il frisson della novità è gentilmente pregato di rivolgersi altrove: da Ciro trovi i sapori codificati di sempre, e il piacere della riconferma non fa rimpiangere quello della scoperta.Anche perché a fare gli onori di casa tra il piano terra e il primo piano veleggia sempre Luciano, cameriere anarchico, scrittore d’avanguardia e formidabile memoria storica della città che ti accoglie come se fosse ieri l’ultima volta che hai varcato la soglia. Siedi al tuo tavolo e anche se dalla precedente visita sono trascorsi venti anni ti senti subito a casa, pur nel brusio e nel chiacchiericcio (e del pezzo di carne: che secondo il canone andrebbe mangiato a parte, ma che lo chef elargisce insieme alla pasta come un gradito eccesso barocco. E poi rigatoni ricotta e polpettine, carbonare, ragù, scarparielli e tanto ancora, fino alle ricette delle nostre nonne, come avviene per la braciola di maiale perfetta per le operazioni-nostalgia ( e sul bancone Giorgio Baiano dei contorni vedi tutto del territorio); l’andirivieni di profumate pizze) in mentre dal carrello dei pesci ricco cui anche gli oggetti sono un tuffo come una natura morta di scuola proustiano nel passato: le preziose posillipina occhieggiano pezzogne, appliques di Capodimonte rappre- cocci, saraghi. Oggi è il turno della sentanti le maschere italiane e ge- spigola (mandorlata e su letto di losamente custodite dal patron An- scarole). Subito dopo avanza il cartonio Pace ci sono ancora, anche se rello dei dolci: un trionfo di cannoli non tutte e ventiquattro.“Una l’ho e babà e fragole, cassate napolerotta proprio io” confessa Luciano, tane e caprese (all’arancia). E di e intanto leggi il menu double face: struffoli, le dorate palline immerse lo capovolgi, lo rigiri e diventa carta nel miele senza le quali le feste dei vini.Tra i primi piatti dominano natalizie sarebbero un po’ meno gli ziti, prima sotto forma di sforma- feste. Così soddisfatti, ci si congeda to alla siciliana, indi alla genovese. non con un addio ma con un arri“Scura, lucida e densa” come Je- vederci prima dell’obbligatoria tapanne Caròla prescrive, e completa pa nella vicina Galleria Umberto. www.ciroasantabrigida.it MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Ciro a Santa Brigida Napoli indirizzo Via Santa Brigida 71/73 80132 Napoli telefono 081 5524072- 5528992 chiusura domenica carte di credito tutte A persona euro 55.00 vini inclusi 16 Con la funicolare di piazza Fuga, scendere a Via Roma e proseguire sulla sinistra. La prima traversa a destra è via S. Brigida. Da piazza Municipio imboccare via Verdi e la prima sulla destra è via S. Brigida. 17 18 L ’itinerario può cominciare dal Teatro San Carlo, il più noto teatro Lirico di Napoli, intitolato a San Carlo in omaggio a Carlo di Borbone e attualmente in restauro. Con l’arrivo di Carlo di Borbone, nel 1734, Napoli era già una delle più popolose città d’Europa, ma anche una metropoli che doveva ritrovare se stessa e la propria identità urbana. Fu proprio con il re Carlo che la città venne investita da un ambizioso programma edilizio.Tra i primi edifici voluti dal sovrano è la costruzione del Teatro Reale, nei giardini vicereali. Questa iniziativa rappresentò l’ultimo atto di una intensa politica di sviluppo del teatro napoletano, che aveva il proprio punto di forza nelle rappresentazioni tenute nella Sala Grande del Palazzo Vicereale, affiancato al Teatro di San Bartolomeo, che assumeva in tal modo un ruolo privilegiato rispetto agli altri teatri napoletani. Difatti, già sul finire del XVII secolo, il San Bartolomeo ospitava scenografi e teatro s. carlo, dettaglio della facciata palazzo reale da piazza plebiscito architetti del calibro degli Schorr o di Galli Bibiena, e proprio per accogliere le scenografie di quest’ultimo nonché il vasto pubblico che questi riusciva ad attirare, nel 1696, per volontà del vicerè duca di Medinaceli, l’edificio era stato ampliato. Nel 1737, anziché proporre un ulteriore ampliamento del teatro, ormai impossibile, il Re decise di edificarne uno nuovo. I lavori furono affidati a Angelo Carasale e all’architetto regio Antonio Medrano, il nuovo teatro fu inaugurato nel 1739. L’imprenditore Carsale ricevette in permuta il sito del vecchio Teatro, tra via Medina e rua Catalana, e qui vi realizzò la Chiesa della Grazianella e due Palazzetti. Il Teatro San Carlo, per la sua posizione, condizionò fortemente anche il progetto di ampliamento del Palazzo Reale, fortemente voluto dal Re già nei primi anni del suo Regno e con molta probabilità, elaborato a partire dalla metà degli anni Quaranta del secolo. La facciata monumentale del Teatro San Carlo è bellissima con un primo livello in bugnato grigio ed un secondo scandito da colonne ioniche, sovrastato da un grandioso timpano e da altorilievi. L’interno è suggestivo, la platea e Napoli i sei ordini di palchi splendidamente decorati con una profusione di ori e stucchi, sono dominati al centro dal Palco Reale, con l’insegna del Regno delle Due Sicilie mentre il soffitto fu affrescato da Cammarota con scene del “Parnaso”. Dotato di una invidiabile acustica, venne immediatamente consacrato a tempio della musica europea, arrivando addirittura a contendersi il primato con Vienna. Fra i suoi direttori il San Carlo ebbe Donizetti e Rossini. Di fronte al Teatro San Carlo è possibile ammirare la bellissima Galleria Umberto I. La sua costruzione avvenne in un contesto di ristrutturazione edilizia e bonifica territoriale resesi necessarie in seguito all’epidemia di colera del 1884. Furono sfollati interi quartieri, e venne nominata una commissione di professionisti cittadini, per valutare i progetti di ricostruzione. Nella ricostruzione, rientrava l’area di Santa Brigida che prevedeva la demolizioni degli edifici preesistenti e l’edificazione di quattro ampi edifici, il piatto tipico galleria umberto MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Il San Carlo e la Galleria Umberto teatro san carlo, interno collegati e impreziositi da una grande galleria in ferro e vetro, progettata dall’ingegner Paolo Boubée. La Galleria è formata da quattro ingressi, il più valorizzato è quello che fronteggia il Teatro San Carlo, con un porticato leggermente arcuato, che forma un piccolo slargo, e una facciata sulla quale sono evidenti statue di marmo e nicchie. Inaugurata ufficialmente nel 1892, la Galleria divenne sede, tra la fine dell’800 e gli inizi del 900, di un centro artistico mondano molta in voga all’epoca, al suo interno era il Salone Margherita che ospitò i maggiori artisti del varietà. Dopo una fase di decadenza nel periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale, attualmente è un ampio ed elegante salotto cittadino, rappresenta uno dei principali gioielli della città, a completamento di una zona già ricca di monumenti, strade e piazze importanti. (M. M.) Struffoli Napoli li struffoli rappresentano la memoria storica delle origini greche dell’antica città di Palepolis, l’attuale Napoli, e vi giunsero venticinque secoli fa con i primi coloni greci, come indica l’etimologia del nome: in greco stroggùlos significa «di forma rotonda». Di solito le palline di pasta fritte e affogate nel miele, vengono modellate ad anello su un largo piatto o in forma conica e guarnite con frutta candita e confettini Una presentazione barocca li vuole traboccanti da una cornucopia di croccante, simbolo di abbondanza, ogni pallina mangiata sarà un soldo guadagnato nell’anno nuovo. Il malizioso e simpatico duca Ippolito Cavalcanti nel suo ricettario Cucina teorico-pratica (VII ed. 1852) racconta: quando ne ho dovuto fare un complimento a delle Signore, queste mi han chiesto che modellassi gli struffoli in forma di palle, che ci sentivano più gusto! G 19 Scarole imbottite, mussillo di baccalà affumicato Minestra maritata Zuppa di lenticchie e castagne Linguine alla puttanesca Ragù misto (braciole, salsicce, polpette) con friarielli Susamielli, Roccocò, Cassatina napoletana e Babà Biancolella d’Ischia Gragnano A persona euro 50.00 vini inclusi 20 Elogio della «mattozzità» A lfonso Iaccarino, Alfonso Caputo della «Taverna del Capitano», Alfonso Gallotti della «Taverna dell’Arte», Alfonso Mattozzi dell’«Europeo», più qualche altro che dimentico: Alfonso è un bel nome oggi in disuso ma che si accorda assai bene alla cucina campana. Quanto a quella di Mattozzi Alfonso nipote di Alfonso e figlio di Eugenio non si tratta certo di una novità: il ristoratore di via Marchese Campodisola amante dei viaggi e del bon mot è una vecchia conoscenza. L’arte dell’accoglienza non la si improvvisa: qui vi fanno sentire come un ospite a lungo atteso, in un’atmosfera mossa e informale ma mai dimentica dei fondamentali della ristorazione. Dunque, valzer dei saluti a parte, nella luminosa rustica allegra sala con alle pareti istantanee d’epoca, quadri d’ambiente e caccavelle di rame riuscirete a ricavarvi un angolo di gastronomica riflessione sott’olio e una squisita pizza con i cicinielli; preludio degnissimo a due zuppe da “buon ricordo”: eccellente quella di lenticchie e castagne regna sovrana nel nostro «menu della memoria». Ai secondi, elogio della semplicità d’una cucina di mare che propone il pescato del giorno: cernia, rombo, scorfano. E – Mergellina permettendo – offre Alfonso Mattozzi e Luigi Zomeo bandiera o altri pesci di relativa persino nelle ore di punta, solita- nobiltà, ma non meno gustosi di mente prese d’assalto da una altri più altolocati. Ma anche, coclientela esigente eppur frettolosa. me nel nostro caso, un ragù misto Siamo nel cuore frenetico della City, come quello di una volta. A seguire, ma se sarà Alfonso il Loquace a babà come non ne mangi spesso, prendersi cura di voi potete star e tutti i dolci napoletani delle fecerti che l’esperienza si dimostre- ste, più piccoli cannoli siciliani e i rà piacevole e, per certi piatti, me- conturbanti gelati-frutto di Lancusi. morabile. Qui le pietanze (a parte A chiudere Calvados e tante botaurei standard come lo stocco quo- tiglie di anice (greca, macedone, tidiano e il baccalà bisettimanale) libanese) ultima “fissa” di Alfonso, seguono stagioni e pesca: dunque, patron dalle molte passioni e un al via, arriva una grassa mozzarella solo amore: la “mattozzità”, uniodi Cancello Arnone, aromatici do- ne riuscita di saggia napoletanità bloni di zucchine a scapece, funghi e di cosmopolitismo sornione. www.europeomattozzi.it MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Europeo Napoli indirizzo Via Marchese Campodisola, 4/10 - Napoli telefono 081 5521323 chiusura domenica e lunedì sera carte di credito tutte Con la funicolare di piazza Fuga, scendere a Via Roma e proseguire in direzione di piazza Borsa dove sulla destra c’è via marchese Campodisola. Con il tram 1 o 4 scendere alla fermata Università e proseguire verso via marchese Campodisola. 21 22 Napoli P asseggiando sul corso Umberto I guardando le scintillanti vetrine, si troverà la Basilica di San Pietro ad Aram. Attirerà l’attenzione del riguardante, il portale dell’ingresso secondario (XVI secolo), da cui si accede alla chiesa. Questo è in pietra scolpita a motivi di girali vegetali e proviene dal Conservatorio dell’Arte della Lana (in vico Miroballo). L’interno della chiesa è a croce latina con quattro cappelle laterali, tutte impreziosite da stucchi. E’ ricchissima di arte e di storia e una menzione meritano i bassorilievi del Nauclerio. In essa si custodiscono opere di eccellente fattura: nel transetto destro il San Raffaele di Giacinto Diano, il Battesimo di Cristo di Massimo Stanzione, la Madonna con San Felice da Cantalice di Andrea Vaccaro. Nel presbiterio si trovano due tele giovanili del maestro napoletano Luca Giordano: San Pietro e San Paolo si abbracciano prima di andare al martirio e La consegna delle chiavi. Nelle rimanenti cappelle, tra gli altri, dipinti di Sarnelli, Pacecco De Rosa, Giacinto Diano, Cesare Fracanzano e Nicola Vaccaro. Lavori di restauro, effettuati nel 1930, hanno portato alla scoperta di una cripta, di una chiesa paleocristiana e di catacombe: dal transetto sinistro si scende nella prima che si rivelò essere poi una chiesa paleocristiana a tre navate, articolate con colonne monolitiche in marmo. La chiesa è famosa perché, secondo la tradizione, custodirebbe l’Ara MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Il culto di Sant’Aspreno cappella di sant’aspreno cappella di sant’aspreno, colonnato del vestibolo La cappella in origine era probabilmente la spelonca dove visse e fu poi sepolto il santo, solo nell’VIII secolo fu creato un modesto luogo di culto. Nel XVII secolo fu restaurata su commissione del mercante Salvatore Perrella per grazie ricevute; nel 1895 subì ulteriori interventi e fu inglobata nel Palazzo della Borsa. Internamente notevoli sono i mate- riali di spolio: il vestibolo con colonne provenienti, come si è già detto, dal chiostro di San Pietro ad Aram (distrutto per l’apertura del Rettifilo); l’acquasantiera in marmo, ricavata da un’urna cineraria romana ed infine le transenne marmoree, ubicate a sinistra dell’altare maggiore. Queste ultime, risalenti ai secoli IX-X, hanno decorazioni che richiamano il piatto tipico Napoli, Chiesa San Pietro ad Aram Petri, ovvero l’altare su cui pregò San Pietro durante la sua venuta a Napoli. Secondo la leggenda la struttura religiosa è sorta sul luogo dove, inoltre, san Pietro aveva battezzato Santa Candida e Sant’Aspreno, i primi napoletani convertiti, come ricorda anche l’affresco nel vestibolo (recentemente attribuito a Girolamo da Salerno). Alla fine del secolo scorso, con i lavori del cosiddetto Risanamento, i capitelli del distrutto chiostro furono trasferiti nel sacello di Sant’Aspreno in piazza Borsa. Intimamente, dunque, legato al tempio di San Pietro quello, nei pressi del porto di Napoli, di Sant’Aspreno al Porto, famoso anche come chiesa di Sant’Aspreno ai Tintori (per gli artigiani che abitavano il quartiere). le preziose stoffe orientali, di tipo bizantino con un’iscrizione in greco dove si leggono i nomi dei coniugi Campulo e Costanza, indicati come costruttori dell’edificio ma molto più probabilmente artefici solo di un restauro. Un’ulteriore testimonianza di epoca paleocristiana è una pietra circolare che aveva funzione di fonte battesimale. (G. I.) Struffoli Babà l Babà appartiene alla tradizione pasticciera napoletana nonostante sia stato inventato dal re di Polonia Stanislao Leszczynski (o più probabilmente dal suo cuoco), suocero di Luigi XV re di Francia, che chiamò così il proprio dolce preferito in omaggio ad Alì Babà, protagonista delle Mille e una notte, di cui era appassionato lettore. Il Babà arrivò a Napoli nella seconda metà del Settecento quando gli scambi tra Napoli e Parigi erano continui, essendo sorelle le regine di Francia, Maria Antonietta, e di Napoli, Maria Carolina. A Napoli il Babà fu perfezionato con la lunga sbattitura della pasta per renderla più leggera e con una triplice lievitazione. Fondamentale la bagna al Rum per conservare la morbidezza al Babà, tipici della zona di Sorrento i piccoli Babà imbevuti di Limoncello e chiusi in barattoli di vetro. I 23 Peperone ripieno Parmigiana di melanzane Sartù di riso Polpi in cassuola Babà Gragnano - Vigna Mimì A persona euro 40.00 vini inclusi 24 Un’ora di felicità gastronomica S iamo, come chiarisce il nome, dalle parti della Ferrovia; eppure il fascino dell’ormai storico locale dei cugini Giugliano è quello di un affollato e allegro porto di mare, frequentato anche da star nazionali e hollywoodiane, anche del tempo che fu (alle pareti occhieggiano i ritratti di Humphrey Bogart e Ingrid Bergman, tanto per intenderci). Altra attrattiva fondamentale del luogo è rappresentata dagli antipasti alla Mimì, vero festival delle preparazioni “all’antica napoletana” con il peperone imbottito, parmigiana di melanzane che quando è “riposata” è ancora più buona, la celeberrima mozzarella aversana, le pizzelle fritte, le melanzane a scarpone e, come optional, le gustose ricottine di pecora e le scarole ’mbuttunate.Tra i primi piatti è d’obbligo testare il pezzo forte del lo- a piacere - pesci azzurri, sogliole, gamberoni e calamari - da scegliere nell’esposizione all’ingresso, ma non mancano certo le carni tradizionali: filetto di manzo, bistecca ai ferri, scaloppine, vitello arrosto e la cotoletta alla milanese ormai Foto storica napoletanizzata da secoli, da cale, le linguine alla Mimì: con degustare con uno dei tanti taratuffoli, gamberi e scampi, rossi anche extraregionali comsono sempre all’altezza della presi nella doviziosa lista dei loro fama, ma quando in car- vini; ma per il suo menu della ta c’è (come accade in questo memoria, Mimì gioca la carta periodo) il sartù di riso, scrigno vincente del mare, prevedendo fastoso di delizie, il consiglio è i polpi in cassuola, piatto che di non lasciarselo sfuggire: Mi- più napoletano non si può.. mì è infatti uno dei pochissi- Quanto ai dolci, soffice babà mi locali campani ancora in (con il “creaturo”, un babà migrado di misurarsi con questa gnon d’accompagnamento). E sontuosa ricetta che rinnova cassata autenticamente sicie rinverdisce l’era mitica dei liana, con il verde pistacchio monzù, i cuochi della nobiltà intorno: va trangugiata però infranciosata finiti poi a servi- in fretta, la gente si sta aszio nelle cucine della borghesia siepando minacciosa ai tavoli napoletana emergente. Pesce e tutti hanno diritto alla loro fresco, crostacei e molluschi ora di gastronomica felicità. www.mimiallaferrovia.it MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Mimì alla Ferrovia Napoli indirizzo Via A. d’Aragona 19-21 Napoli telefono 081 5538525 chiusura domenica tranne a dicembre carte di credito tutte Si puo raggiungere con la metropolitana, fermata Garibaldi; con il tram scendere a piazza Garibaldi. Con le spalle alla stazione imboccare il Corso Garibaldi sulla destra e all’incrocio con via Carriera Grande girare la prima a sinistra è via Alfonso d’Aragona. 25 26 Napoli I l viaggio nel sottosuolo di Napoli sotterranea è una delle esperienze più emozionanti e suggestive per qualunque visitatore. Nessuno conosce le dimensioni effettive della Napoli buia, ma gli speleologi hanno censito un totale di circa 700 cavità di quasi un milione di metri cubi. Si può cominciare da Piazza San Gaetano, nel centro antico di Napoli, un percorso attraverso cunicoli e cisterne. Degno di menzione è il teatro greco-romano visitabile attraverso il pittoresco ingresso da un “basso” in vico Cinquesanti. Ma si consiglia di non perdere nel cuore della città partenopea, la visita alla chiesa e al convento di San Lorenzo Maggiore che contiene tesori e sepolture di uomini illustri. Oltre ad essere un prestigioso esempio di architettura angioina a Napoli, il complesso permette di compiere un viaggio a ritroso nel tempo, entrando a diretto contatto con quelle strutture che costituivano l’area del foro greco-romano: l’anima della città. Sarà possibile osservare i resti dell’antico macellum, l’antico mercato di epoca romana tra il IV e V d. C., costruito su scavi di san lorenzo maggiore, aerarium scavi di san lorenzo maggiore, il criptoportico di uno spazio lungo il lato sud del decumano maggiore. E poi c’è la tholos, un tempietto di forma circolare posto scenograficamente al centro dell’area mercato, che conteneva l’immagine sacra. Percorrendo una scalinata nei pressi del chiostro (qui Giovanni Boccaccio incontrò la sua amata Fiammetta il Sabato Santo del 1336) si scende sotto il manto stradale. L’atmosfera si fa veramente affascinante e si vive l’emozione di percorrere le antiche vie che costeggiavano le botteghe ubicate nei locali del criptoportico (la struttura ad archi voltata che recintava l’area dell’intero macellum). E’ possibile distinguere le antiche lavanderie pubbliche, le fulloniche (riconoscibili dalle scanalature dell’acqua e dalle vasche in cui si coloravano i tessuti) e alcuni forni. Sul lato nord si situano i locali riconducibili all’Erarium, l’ufficio pubblico di riscossione delle tasse. Questa struttura è caratterizzata da un’entrata con due pilastri sormontati da trabeazione, a differenza delle arcate delle botteghe. Sotto il pavimento romano sono state individuate mura in grossi blocchi di tufo riconducibili a IV-V secolo a.C. Scavi archeologici, compiuti nel primo Novecento, hanno portato alla luce questo spaccato della vita pubblica di Naeapolis e hanno consentito il rilevamento quasi completo della basilica paleocristiana su cui era stata costruita la chiesa angioina. Sono state aperte alla pubblica fruizione anche le fabbriche romane e i pavimenti medievali sotto l’antica basilica cristiana di Santa Restituta che agevolmente raggiungerete. Fondata nel IV secolo dall’imperatore Costantino, oggi presenta una scenografica sistemazione barocca post terremoto del 1688. E’ leggibile una stratificazione della città antica dal IV secolo a.C. al VI d.C. Si incontreranno vasti ambienti sotterranei e un grande spazio pavimentato in battuto e circondato da un ambulacro con colonne di mattoni rivestiti di stucco. Un palinsesto dall’età greca a quella costantiniana comprende tutta la prima parte del percorso di visita, ne fa seguito un altro fatto di edifici romani sommersi da altri paleocristiani, a loro volta cancellati in età angioina. Sotto il cortile della curia ci sono colonne e parti di pavimenti mosaicati, datati a età tardo-romana. Si tratta di mosaici eseguiti su fondo bianco e con soli grandi tessere bianche e nere. Il linguaggio è ricco di espressione: un frammento di scena di caccia o un altro con due pantere ai lati di un vaso. Questi attirano l’interesse del visitatore, insieme ad un moncone di colonna in il piatto tipico scavi di san lorenzo maggiore, aerarium scavi in santa restituta. sotto gli splendidi mosaici bellissimo marmo africano. A un’altra basilica paleocristiana dedicata al Salvatore (ma detta Stefania dal nome del vescovo che alla fine del V secolo la fece erigere) appartengono preziosi MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA A spasso nel tempo fra gli scavi mosaici decorati da motivi astratti, croci, serpentine e stelle, composti insieme con grande sapienza. Insomma la città si svela al visitatore sin nelle sue viscere più profonde…(G. I.) Struffoli artù di riso in dal Rinascimento la scenografia della tavola ebbe enorme importanza e grande risalto acquistò il centrotavola, chiamato surtout, pezzo monumentale di oreficeria o porcellana, munito di numerosi bracci per sostenere vassoi, piatti, contenitori, candelabri. Sul braccio centrale, più alto degli altri troneggiava il piatto più importante e scenografico del pranzo, detto appunto surtout, che sta sopra di tutto. Sulle tavole aristocratiche napoletane questo posto d’onore era riservato ai monumentali timballi di pasta o di riso. Ancora oggi il Sartù di riso, particolarmente ricco ed elaborato, è uno dei pilastri della cucina festiva, la sua sontuosa presenza solennizza le ricorrenze importanti e soprattutto il cenone di Capodanno perché il riso porta bene: ogni chicco mangiato corrisponde ad un soldo che si guadagnerà nell’anno che sta per cominciare. S 27 Polipetto verace al pignatiello con cialda di pane cafone Paccheri di Gragnano con ragù napoletano e ricotta di bufala Coroniello di stoccafisso con pomodorini del piennolo e olive di Gaeta Migliaccio con salsa all’arancia Gragnano - Cantine Grotta del Sole Passito Mel - A. Caggiano A persona euro 35.00 vini inclusi 28 Apoteosi partenopea in tavola P iù che ortodossia, apoteosi partenopea: arrivò in tavola un Vesuvio di carta argentata, sciogliemmo il tovagliolo annodato che teneva insieme il cartoccio, e fummo travolti dagli effluvi di mare che promanavano dallo scrigno violato: cozze e vongole e seppioline e gamberetti e polipetti nel loro sugo... Era il cartoccio di pasta (tubettoni, o altro) della mia prima volta da «Napoli Mia». Questo locale tra via Cristoforo Colombo e piazza della Borsa, infatti, lo abbiamo visto nascere, crescere e stagione dopo stagione migliorarsi attraverso l’umile tenacia e la silenziosa passione. Così Antonella (ai fornelli) e Corrado (in sala) sono riusciti a creare un’oasi di buon gusto e di buone pietanze senza mai tradire la linea di convivialità partenopea insita già nel nome. E dunque, a distanza di anni, trascurare gli incontri con la tradizione: in particolare, quello con l’impegnativo ragù «pippiato» a oltranza, perfettamente sposato ai paccheri gragnanesi. Chissà se riuscirebbe a far cambiare idea a Eduardo De Filippo, secondo cui l’unico ragù possibile era quello che gli faceva mamma’ («A che m’aggio Antonella Rossi spusato a te, ne parlammo pe’ ritrovi gli antipasti genuini che parlà», osservava cinicamente ti avevano colpito la prima il drammaturgo di «Sabato, volta, ma anche sorprendenti domenica e lunedì», ma non accostamenti: d’estate, l’insala- certo Corrado che di Antonella ta di polpo, carote e sedano si è anche consorte). E lei è pure fregia dell’aggiunta di piacevo- provetta pasticciera: una volta lissime fettine di esotico cocco, della sua scomposta di millefoe i pomodori calabresi secchi glie con crema di ricotta, miele e sono ripieni di calamarelle, pe- amarene un ammiratore scrisse scespada, pinoli, peperoncino che era una delle cinque cose verde tagliato sottile sottile... per cui valesse la pena vivere Azzardi e scommesse vincenti (e io sono ancora alla ricerca di Antonella che, acquistata or- delle altre quattro); oggi, nel mai consapevolezza dei propri periodo delle festività, propone mezzi, si misura con juicio con un altrettanto delizioso migliacla creatività. Senza però mai cio abbinato a salsa d’arancia. Napoli Mia indirizzo via Matteo Schilizzi, 18-20 Napoli telefono 081 5522266 chiusura domenica. Dal lunedì al sabato aperto solo a pranzo, venerdì e sabato aperto anche a cena. carte di credito tutte Con la funicolare di piazza Fuga, fermata via Roma, direzione piazza Municipio, via De Gasperi, via Schilizzi. Con il tram I o 4 scendere a piazza Municipio-Molo Beverello, via De Gasperi, via Schilizzi. MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Napoli Mia Napoli 29 “ …Ma che muraglie minacciose vedo? Una fortezza, nel cuore della città? Proprio così. L’osservo affascinato” (Herman Melville 1857). E’ Castel Nuovo (denominato così per distinguerlo dalle più antiche residenze reali di Castel dell’Ovo e Castel Capuano), noto anche come Maschio angioino. L’immagine della fortezza è fra quelle che meglio rappresentò Napoli nel mondo, per la sua collocazione sul mare che ne lambiva un lato fu ripreso da molti pittori e incisori con gusto cartolistico. Giganteggia al centro di Piazza castel nuovo, cappella delle anime del purgatorio 30 Municipio nella cui parte alta sorge Palazzo San Giacomo (sede del Comune di Napoli) che incorpora la cinquecentesca chiesa di San Giacomo degli Spagnoli con la tomba monumentale del vicerè Pedro da Toledo. L’imponente struttura fu eretta nel 1279 da Carlo I d’Angiò, su progetto dell’architetto Pierre de Chaule e sin fin dalla sua fondazione fu chiamato Castrum Novum. Durante il regno angioino di re Roberto il saggio che vi ospitò artisti e letterati tra cui Giotto, Petrarca e Bocaccio, il castello raggiunse il suo massimo splendore. Nel 1442, con la conquista del regno da parte di Alfonso d’Aragona, fu gradualmente ricostruito, secondo le esigenze difensive del secolo XV, con l’intervento dell’architetto maiorchino Sagrera. Oggi presenta una pianta trapezoidale ed è circondato da un fossato dove poggiano gli alti basamenti delle cinque torri cilindriche. L’arco di trionfo, eretto per celebrare l’entrata a Napoli di Alfonso d’Aragona nel 1443, segna il suo accesso e ne costituisce il principale ornamento. Infatti, i magnifici rilievi scultorei sono tra le più significative opere di scultura rinascimentale nel Meridione. All’interno del castello è ubicato il Museo civico che conserva affreschi, dipinti (il nucleo più consistente proviene dalla Casa Santa dell’Annunziata) e sculture (di Laurana, Gaggini e Malvito e molti altri) dal XIV al XX secolo: testimonianze storiche di un eccezionale mecenatismo. Nell’itinerario di visita è possibile ammirare, tra l’altro, la trecentesca Cappella Palatina, l’unico edificio a conservare l’aspetto primitivo, con resti di affreschi del ciclo giottesco (realizzati tra 1329 e 1331 con Sto- castel nuovo, sala dei baroni castel nuovo rie del Nuovo e Vecchio Testamento). Gli affreschi, esposti alle pareti della cappella, provengono dal Castello di Casaluce (Aversa) e il loro principale autore è Niccolò di Tommaso da Firenze su commissione della regina Giovanna I e dei suoi più stretti cortigiani. Straordinarie anche le cappelle dedicate rispettivamente alle Anime del Purgatorio e a San Francesco di Paola e ancora la Sala dei baroni, sede di rappresentanza dei sovrani aragonesi. Quest’ultima è uno dei capolavori del Sagrera: uno spazio monumentale dalla complessa copertura, aperta al centro da un oculo (possibile ricordo delle rotonde dell’antichità, ancor oggi visibili a Baia). Dopo la biglietteria, sulla sinistra un ascensore vi condurrà sulle terrazze del castello dove si gode una vista mozzafiato della città! Nell’ambito di interventi di restauro e valorizzazione del Napoli complesso monumentale sono stati restituiti, inoltre, alla pubblica fruizione alcuni ambienti della cortina orientale del castello dove, nel corso di uno scavo, sono state rinvenute importanti testimonianze archeologiche di epoca romana databili tra la fine del I secolo a.C. e la seconda metà del V d.C. Nell’ambiente denominato Sala dell’armeria, un tempo destinata a magazzino di artiglieria, sono state riportate alla luce una necropoli altomedievale e significative tracce del castello angioino. Nel corso dei lavori di scavo per la realizzazione della Stazione della Metropolitana in Piazza del Municipio, sono emersi notevoli e vasti reperti archeologici. L’area è attualmente recintata, ma i reperti sono perfettamente visibili. Si tratta di mura e ambienti ancora da datare, anche se paiono riferiti a un’epoca tra la fine dell’età romana e l’inizio del Medioevo. Sulla scorta di documentazioni d’epoca, le costruzioni vennero ricoperte con la colmata il prodotto tipico MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Piazza Municipio: un simbolo della città castel nuovo, interno della sagrestia nella cappella di santa barbara resasi necessaria per la spianata del Maschio Angioino alla fine del Duecento. Si tratterebbe probabilmente dei resti degli edifici che sorgevano intorno alla chiesa di Santa Maria ad Palatium, se non, addirittura, proprio di questo edificio di culto, la cui demolizione portò alla costruzione del monumentale complesso di Santa Maria La Nova. Nella zona di via Medina, vicino a Piazza Municipio, desta curiosità la stretta Rua catalana, nota per le tante botteghe specializzate nella lavorazione del ferro, del rame e della latta. Questa strada e quelle limitrofe sono divenute un allestimento stabile di ironici lampioni e sculture in ferro, firmate dai maestri lattonieri. Magari può essere divertente farvi un salto! (G.I.) Pasta Struffoli di Gragnano ragnano, fondo coltivato a cereali della gens Grania, sin dall’etimologia del nome rivela l’antica vocazione a essere Capitale della pasta. Qui, dalla metà del XVI secolo, ebbe inizio la produzione dei maccaroni, favorita dalla naturale posizione geografica e dal particolare microclima che assicuravano la giusta umidità e la ventilazione ideale per essiccare la pasta all’aperto nelle strade. Determinante fu anche la presenza, lungo il torrente Vernotico, di oltre 20 mulini per la macinazione del grano e di numerose sorgenti di acqua dalle caratteristiche minerali uniche per realizzare l’impasto con tecniche e segreti tramandati di padre in figlio. Ancora oggi le aziende di Gragnano sono in grado di garantire alla pasta caratteristiche qualitative eccezionali e una vasta gamma di formati da abbinare ai sughi e condimenti più diversi. G 31 Sformatino d’anguilla con ripieno di «rinforzo» Zuppetta di scarola con «struffoli» d’acciuga Timpano di paccheri al ragù ripieni di ricotta Variazione di baccalà: fritto, arrostito con broccoli di Natale, coppetta in cassuola Roccocò morbido con salsa d’arancia Selim De Conciliis Fiano Pietracupa Piedirosso Mustilli A persona euro 45.00 vini inclusi 32 Lo chef che reinventò la pizza V ariazione di baccalà, esplosione di carciofo, stratificazione di pastiera. Se certe espressioni non vi spaventano, «Palazzo Petrucci» è il vostro ristorante. Coraggiosamente moderno in una delle piazze architettonicamente più classiche di Napoli, in cucina vanta la presenza del poco più che trentenne Lino Scarallo, partenopeo in esilio che alla «Maschera» di Avellino aveva dato prova del suo innovativo talento e che, ritornato in patria, si cimenta con la sfida più difficile, risvegliare la sua città dal sonno gastronomico. Il tutto con un servizio puntuale senza essere sussiegoso (Antonio e Maurizio), cura dei dettagli che fanno la differenza (presa in consegna dei soprabiti, visita guidata alla scelta del tavolo, luci giuste e, segno di vero rispetto per l’ospite, piatti caldi a pietanze calde). Detto questo, avrei detto Lino Scarallo ancora poco se non aggiungessi che abbiamo a che fare con un menu di prima qualità sia per ingredienti (il lungo periodo irpino ha lasciato su Scarallo ottime conseguenze) che per esecuzione tecnica: a cominciare dal benvenuto, che è spesso una semplice lasagnetta tutta di crudo (zucca, zucchina, gambero, fiore di sale affumicato, olio cilentano a profumare), un boccone di piacere per prepararne altri, e più intensi. Attenzione: la sovrastante cucina (il locale è su due livelli) non ha nemmeno un www.palazzopetrucci.it fuoco ma è tutta a induzione; il bello è che Scarallo, come nei sogni degli chef, è entrato in cucina ed era già così come l’avrebbe voluta lui, perché il palazzo è storico e la fiamma è vietata. E tanto per far uscire dai gangheri i seguaci della santa fede gastronomica ci sono i paccheri all’impiedi. Per l’occasione li troverete nel sontuoso timpano, e ripieni di ricotta. Le carni sono dell’irpino Carrabs; mentre i formaggi li procura il prof Vespucci ex Marennà, quello che conosce le vacche podoliche per nome), il baccalà lo reinventa in almeno tre modi diversi. Però Scarallo ha cuore di chef e mani di pasticciere: che stratificano la pastiera, cilindrizzano il cioccolato, cubizzano l’annurca o come in questo caso rendono morbido il coriaceo roccocò. Oserà Scarallo riproporre anche nella paese della pizza la metamorfosi di «margherita» con cui stupì Avellino e provincia? MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Palazzo Petrucci Napoli indirizzo piazza S. Domenico Maggiore, 4 NAPOLI telefono 081 5524068 chiusura domenica sera e lunedì a pranzo carte di credito tutte Si trova nel Centro storico di Napoli. Facilmente raggiungibile con la metropolitana (fermata Dante) o con la Funicolare centrale. Nelle adiacenze ci sono parcheggi a pagamento. 33 34 L a Cappella dei Sansevero ubicata nei pressi della piazza San Domenico Maggiore, fu costruita verso il 1590 da Giovanni Francesco Sangro, adibita a cappella sepolcrale della famiglia ed inizialmente unita da un cavalcavia al Palazzo Sangro che consentiva ai membri della famiglia di accedere direttamente al luogo di culto.Varie sono le opere che si possono ammirare all’interno della stessa, tra queste gli affreschi della volta, i marmi colorati, i medaglioni dei cardinali e le statue che celebrano le virtù dei componenti della famiglia (Amor divino, Disinganno, Pudicizia, Zelo religioso, Liberalità). E’ inoltre conservata una scultura del Cristo velato di grande valenza storico artistica: opera di Giuseppe Sanmartino risalente al 1753, realizzato in marmo trattato con arte certosina tanto da dare l’impressione Cappella SanSevero, Francesco Queirolo, il disinganno, particolare Cappella SanSevero, Francesco Queirolo, L’educazione, particolare di essere un velo poggiato sul corpo del Cristo morto. Secondo la testimonianza dello storico Cesare d’Engenio (1624) la fondazione della cappella potrebbe fissarsi intorno al 1590, quando Giovan Francesco di Sangro duca di Torremaggiore, avendo fatto voto durante una grave malattia, fece costruire in una parte del giardino del suo palazzo una «piccola cappella» per venerare un’immagine della Vergine della Pietà. Nel 1608 Alessandro di Sangro, figlio di Giovan Francesco, ampliò l’ambiente primitivo «perché non era capace al concorso di molti, che la frequentavano per gli infiniti miracoli» e destinò la cappella, oltre che ai compiti di culto, a luogo di sepoltura per la sua famiglia. Il luogo sacro divenne presto meta di pellegrinaggio popolare e conseguente oggetto di invocazioni. Sull’ingresso della Cappella è visibile una lapide dedicatoria del 1613, di Alessandro de’ Napoli Sangro di Sansevero, nipote di Giovan Francesco, Patriarca di Alessandria ed Arcivescovo di Benevento, che decise di ampliare la preesistente piccola costruzione per renderla degna di accogliere le spoglie sue e dei suoi discendenti. La “Pietatella” così chiamata, diventa, la cappella gentilizia della famiglia ed i lavori si susseguono, con l’intervento di artisti più o meno noti dell’epoca, fino al 1642 quando, nuovamente, si interrompono per oltre cento anni. I lavori riprenderanno, infatti, solo nel 1744, con il VII Principe di Sansevero, Raimondo di Sangro, e saranno portati avanti per tutto il successivo trentennio. A testimoniare questa attività troviamo la lapide che oggi campeggia all’esterno, sulla destra del portale laterale della Cappella, quella che era però, anticamente, la porta principale: “O passeggero, chiunque tu sia, cittadi- no o straniero, entra e adora l’immagine della Pietà Regina già da anni prodigiosa.Tempio gentilizio già sacro alla Vergine e abilmente ampliato nell’anno 1767 da Raimondo de’ Sangro Principe di Sansevero stimolato dalla gloria dei suoi antenati, per conservare all’immortalità nei sepolcri le ceneri sue e dei suoi. Guarda scrupolosamente con occhi attenti e contempla ahimè piangendo le ossa degli eroi cariche di meriti. Quando avrai dato opportunamente culto alla Madre di Dio, un contributo all’opera, e ai defunti ciò che è giusto, pensa seriamente anche a te.Va’ pure.” La Cappella è costituita da una navata unica, risalente al 1590 di forma rettangolare, alla quale si accede dal fondo. Otto cappelle laterali (quattro per lato) si snodano fino all’altare maggiore mentre al centro dei due lati lunghi, rispettivamente a sinistra e destra entrando, si aprono la porta di cui si è già detto e l’accesso alla “cavea sotterranea”. Cappella SanSevero, Francesco Maria Russo, dettaglio di un affresco della volta Gran parte delle opere presenti all’interno della chiesa furono commissionate da Raimondo di Sangro ed a lui si doveva anche la pavimentazione, costituita da un mosaico bianco e nero simboleggiante un labirinto (un frammento del pavimento originale, sostituito agli inizi del ‘900 si trova oggi addossato al muro della “cavea”) di chiaro influsso massonico. Da un allegato al testamento del principe si evince che originariamente ogni cappella doveva essere dedicata ad un antenato MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA La Cappella dei Sansevero mentre, in corrispondenza dei pilastri, dovevano essere sepolte le rispettive spose con una statua che ne rappresentasse una specifica virtù. A tale scopo vennero riutilizzate le quattro statue preesistenti relative al I, II e IV Principe di Sansevero, nonché ad Alessandro si Sangro, iniziatore nel 1613 dei lavori di sistemazione dell’edificio. Le altre opere furono commissionate ad autori contemporanei come Francesco Celebrano, Antonio Corradini, Francesco Queirolo e Giuseppe Sanmartino. (M. M.) Struffoli Roccocò il piatto tipico I Cappella SanSevero, giuseppe sanmartino, il cristo velato l Roccocò è uno dei dolci tipici del Natale napoletano, caratterizzato dal pisto, sapiente miscuglio di noce moscata, pepe bianco, cannella e chiodi di garofano, ridotto in polvere nel mortaio. Il suo nome è dovuto forse alla forma rotondeggiante e barocca evocata dal termine francese rocaille che ha definito quello stile e che inoltre significa pietraia con allusione all’aspetto grezzo e bitorzoluto e alla notevole consistenza di questi dolcetti pieni di mandorle tostate, sia intere che tritate. Nella tradizione napoletana i Roccocò erano di rito per concludere il pranzo dell’8 dicembre e la loro presenza nelle vetrine delle pasticcerie apriva ufficialmente il periodo dell’avvento. Poiché si conservano a lungo potevano essere preparati in quantità sufficiente per durare fino a Natale. 35 Prosciutto Scagliuozzo con friarielli e insalata di rinforzo Fagioli alla maruzzara Paccheri alle alici di menaica Coroniello di stocco agrodolce Insalata riccia tropeana Sorbetto al basilico Biancomangiare Per’ e palummo Flegreo Marsala A persona euro 35.00 vini inclusi 36 Il meglio delle Due Sicilie U n dedalo di stanzette bene arredate secondo il gusto “borbonico” dichiarato sin dallo stemma araldico con il giglio che occhieggia sulla verde porta. E fuori non c’è solo il segno dell’amour-passion verso i tempi andati, ma anche l’uso civilissimo (e a Napoli ancora modernissimo) della lista delle vivande e dei vini con relativi prezzi. Insomma, nell’attesa possiamo già farci un’idea di quel che assaggeremo, precauzione utile dato che qui, evviva, il menù cambia ogni sera. In quello d’inverno troverete però sempre i fagioli alla maruzzara e, tra i secondi di mare, un impeccabile coroniello di stoccafisso in agrodolce. Sensazioni e sentori del passato che si rafforzano con il sorbetto al basilico (intermezzo rinfrescante di cui s’è persa purtroppo l’abitudine anche fra i grandi quasi imprendibile nelle relazioni pubbliche: al punto che persino procurarsi una di lui fotografia per illustrare queste pagine dedicate alla sua cucina diventa un’impresa quasi impossibile, come convincere Mina a ritornare in palcoscenico. Eppure tutta questa sua ritrosia non gli ha impedito di L’ingresso del locale esere conosciuto e apprezzadella tavola) e i dessert “a uso to in mezzo mondo: prova ne e costume napoletano”: pa- sia la rivista giapponese che stiera, lieve crema d’arance o elogiava la sua ristorazione e commovente biancomangiare, che lui ci mostrò con malceprima di chiudere con passito lata soddisfazione, tra l’altro e grappa d’Aglianico, oppure in anni in cui l’unico Alfonso con un marc de champagne: cuciniere universalmente conounica escursione oltre i confi- sciuto era Alfonso Iaccarino... ni delle Due Sicilie ammessa Per un ostinato seguace delda Alfonso, prima Aragonese e la dinastia dei Borbone come poi Borbone: Alfonso è Alfon- Gallotti, immagino che un ricoso Gallotti, molto più di un noscimento proveniente dalla patron perché della Taverna patria dell’ultimo Imperatore dell’Arte è l’ideatore e l’anima. regnante sulla terra abbia molProtagonista e ferreo consiglie- to più peso e importanza di un re in sala, quanto defilato e nugolo di repubblicane stelle. Taverna dell’Arte indirizzo Rampe San Giovanni Maggiore, 1/A - Napoli telefono 081 5527558 chiusura domenica carte di credito mastercard e visa Con il tram 1 o 4 scendere alla fermata Università, imboccare via Porta di Massa, proseguire per via Mezzocannone, girare alla seconda sulla sinistra e salire sulle Rampe San Giovanni Maggiore. MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Taverna dell’Arte Napoli 37 38 I n Piazzetta Monteoliveto, attaccata alla Caserma Pastrengo dell’Arma dei Carabinieri, dopo i recenti restauri è possibile ammirare la bellezza della chiesa di Sant’Anna dei Lombardi in Monteoliveto: uno degli episodi paradigmatici del gusto del Rinascimento a Napoli. Costruita nel 1400 da un ministro del re Ladislao, fu affidata ai padri Olivetani e sottoposta a radicali lavori di ampliamento da parte di Alfonso I di Aragona. Nel XVII secolo fu trasformata in stile barocco e, nel 1799, concessa all’arciconfraternita dei Lombardi. Nel 1805 parte della chiesa crollò a causa di un violento sisma ed in quest’occasione andarono purtroppo distrutti inesorabilmente tre preziosi dipinti del Caravaggio. Interventi restaurativi hanno permesso la ricostruzione nella navata centrale del cassettonato e delle cappelle rinascimentali di Piccolomini, Mastrogiudice e Tolosa che costituiscono la principale testimonianza dell’influenza toscana nell’architettura cinquecentesca a Napoli.Tra le cappelle, tutte rinascimentali, si possono riconoscere ancora quella Correale (con architettura ispirata alla maniera di Giuliano da Maiano in cui trovano alloggio sculture di Benedetto da Maiano) e la Cappella Tolosa (di Giuliano da Maiano con sculture dei Della Robbia e affreschi di Cristoforo Sacco). Nelle altre, invece, ci sono tombe della nobiltà napoletana del XV secolo e tutte sono decorate da affreschi di ottima fattura tra cui quelli di Francesco Solimena. All’interno, una vera e propria antologia della scultura del XV e XVI secolo: l’altare gione e l’Eternità, quasi a ricordare ai monaci che lì mangiavano, ciò che era richiesto alla loro vista per raggiungere la perfezione. Le pareti, infine, sono attorniate da meravigliosi stalli lignei decorati in tarsia, prodotti da Giovanni da Verona, che riproducono alcuni monumenti rinascimentali di Napoli (compresa la facciata originale della chiesa stessa). Rinascimentale è anche la vicina chiesa di Santa Maria La Nova col chiostro: è tra le più importanti chiese di Napoli. Edificata nel Duecento, venne completamente rifatta a partire dal 1596. Splendido il soffitto a cassettoni in legno dorato nei quali sono inserite ben 46 tavole dipinte: è abbagliante la sua bellezza! Gli affreschi nella volta del cappellone sono di Massimo Stanzione e raffigurano Scene dalla vita di san Giacomo della Marca (16441646); l’altare maggiore custodisce le spoglie del Santo titolare ed è sormontata da una tela documentata a Francesco Glielmo nel 1626. I due chiesa di monteoliveto, cappella piccolomini Ligorio di Giovanni da Nola e l’altare Del Pezzo di Girolamo Santacroce. Nella zona absidale è conservato il complesso scultoreo raffigurante il Compianto sul Cristo morto di Guido Mazzoni, statue in terracotta a grandezza naturale che, secondo la tradizione, rappresenterebbero i membri della famiglia reale aragonese (il Re Alfonso II d’Aragona, Giovanni Pontano, Jacopo Sannazaro e Lucrezia D’Alagno cioè la favorita del Re Alfonso il Magnanimo). Il realismo è impressionante! L’opera si trova Napoli sull’altare della cappella Origlia e ricalca altri due simili gruppi lavorati da Guido Mazzoni nella sua Modena ed a Padova (Busseto). L’altro gioiello che si può ammirare nella chiesa di Sant’Anna dei Lombardi è l’antico Refettorio dei Monaci Olivetani, poi divenuto sacrestia ed oggi sala di riunioni della Confraternita dei Lombardi, affrescato con opere pittoriche di primaria importanza dall’aretino Giorgio Vasari .Il pittore, con la collaborazione di Raffaelino del Colle, raffigurò la Fede, la Reli- MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Capolavori dell’arte rinascimentale chiesa di monteoliveto, compianto sul cristo morto, guido mazzoni monumenti ai piedi dell’arcone sono i sepolcri di Odetto di Foix (visconte di Lautrec) e Pietro Navarro, realizzati da Annibale Caccavello fra il 1550 e il 1555; infine, nella terza cappella a sinistra del cappellone, dei d’Aquino, si ammirano la splendida decorazione marmorea di Cosimo Fanzago, le statue di Ercole Ferrara e gli affreschi con Storie di San Diego di Massimo Stanzione. Il chiostro piccolo presenta volte affrescate e numerosi monumenti funerari quattro-cinquecenteschi disposti lungo le pareti; nell’ex refettorio è l’Andata al Calvario di Andrea da Salerno (1514 ca.). Merita una puntata il Museo di arte religiosa contemporanea con una ricca produzione sacra dal 1949 al 2006. (G. I.) BS iancomangiare truffoli il piatto tipico I l nome di questo dolce, Biancomangiare, deriva dall’essere composto da ingredienti di colore bianco. Di questa delicata vivanda, che poteva essere dolce o salata, esistono tracce in tutte le cucine europee in cui si diffuse intorno al XIV secolo, partendo dalla Francia dove sembra abbia avuto origine. Gli ingredienti più frequenti per realizzarlo erano petti di pollo, altre carni bianche, pesce, farina di riso, zenzero, fiori d’arancio, latte di capra o latte di mandorle per i giorni di magro; il tutto bolliva a lungo con zucchero e lardo fino a raggiungere una certa densità. Oggi il Biancomangiare è esclusivamente un dessert di cui esistono due versioni, la prima utilizza latte di mucca, l’altra diffusa in Sicilia è a base di mandorle, amido, zucchero, buccia di limone e cannella. 39 Farinata Piedino di maiale croccante con zuppa di spolichini Fusilli tirati a mano cacio, pepe e uovo “rotto”, cipolla fondente e alloro Pollo ruspante cotto piano piano allo spiedo con rosmarino, aglio, patate sabbiate e cremoso al Provolone del Monaco Il buon dolce di una volta al profumo di limone Zeppole di patate con zucchero e cannella Degustazione di vini campani A persona euro 60.00 vini inclusi 40 Dove trionfa la gastronomia del cuore Q uesto è un posto che mi sta nel cuore da sempre: partito da una cucina fondata sulla pura genuinità, Peppe Guida è approdato a una culinaria di personalità, che dal radicamento territoriale sa slanciarsi su terreni più arditi senza rinnegare le origini, con quel pizzico di (auto)ironica saggezza che è solo dei più bravi, e svegli. Dunque bando ai salamelecchi, e dopo il brindisi alle fortune d’un locale fattosi ancor più caldo e accogliente, sotto con il piatto di benvenuto, nel quale non mancano mai le melanzane e le olive sott’olio della Nonna (è la mamma di Peppe). E poi uno sguardo al rinnovato menu, dal quale — sotto la regia impalpabile ma ferma di Eduardo Buonocore, uomo-ovunque del locale — si estraggono piatti come il bon cito di triglia, uno di sanpietro, uno di ricciola, uno di gamberoni, uno di nasello... ma per il «menu della memoria» Peppe ha approntato una serie di spettacolari piatti di tradizione intelligentemente rivisitata: tra farinata, croccanti piedini di maGiuseppe Guida iale e fusilli tirati pazientemente a mano non potrà mancare la bon di gamberi (crudi, farciti di gloria locale, ovvero il provoloricotta di pecora) che è sensua- ne del Monaco (lo fornisce la lissima passeggiata in un pas- vicina «Tradizione» di Salvatore sardiano «giardino d’autunno» Di Gennaro), sposato stavolta al dove incontri broccoletti, noci, pollo ruspante, il tutto con gli castagne, fagiolino, tartufo (nero, abbinamenti a cura del sommeBagnoli), sale (nero, Palm Island) lier Luigi Casciello.Tutte le cose che, come nelle favole, parla- buone di una volta, comprese le no. I classici della tradizione zeppole di patate della Nonna nonnesca godono tutti ottima con zucchero e cannella (ansalute (genovese, tracchiulelle, che se io non rinuncio mai al polpette di annecchia) ma si cioccolato fondente in cinque può sperimentare anche il cal- consistenze). Per i fumatori do freddo di paccheri trafilati al incalliti un robusto (e un Coubronzo. Cinque paccheri, cinque vreur) nel salottino di vimini: una sapori diversi, perché uno è far- nuvola di felicità li avvolgerà. www.osterianonnarosa.it MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Antica Osteria Nonna Rosa Vico Equense - Napoli indirizzo via Bonea 4 Vico Equense (NA) telefono 081 8799055 chiusura domenica sera e mercoledì. Aperto dal lunedì al venerdì solo a cena. carte di credito tutte Percorrere l’autostrada A3 Napoli Salerno e uscire al casello di Castellammare di Stabia. Proseguire sulla SS 145 Sorrentina sino a Vico Equense e seguire le indicazioni per Pietrapiano. 41 42 Vico Equense S tazione balneare e di soggiorno, dotata di moderne strutture ricettive e sportive, è distesa in bella posizione su un banco tufaceo sporgente sul mare. La sua lunga costa frastagliata, è ricca di piccole spiagge e nasconde misteriose calette, alcune raggiungibili solo dal mare, con pareti a strapiombo e rocce dalle forme insolite che si aprono su grotte naturali. Molto suggestive le sorgenti di acque minerali, come quella sulfurea dello Scrajo nota fin dall’età imperiale come testimoniato da Plinio. Ma oltre al mare c’è anche la montagna con la catena dei Monti Lattari, coperti di ulivi, con i numerosi casali per i prodotti dell’agricoltura e dell’arte casearia. Da qui si gode un panorama mozzafiato sulla costiera amalfitana! Nei dintorni del monte Faito, una puntata può essere fatta nella frazione di Massaquano, il più VEDUTA CON LE TERME DELLO SCRAJO Museo Mineralogico, Fossile di mesosauro costruita per difendere il borgo. E’ noto come castello Giusso dal nome del proprietario che lo acquistò. E poi le chiese sono numerosissime, Affreschi della trecentesca Cappella di S.anta Lucia a Massaquano antico casale di Vico, per visitare la cappella di S. Lucia, edificata nel 1385 in stile gotico, che conserva la sua antica struttura. Internamente era completamente affrescata nel Trecento ma nel 1877 le opere furono interamente coperte. Grazie a lavori di restauro si sono riportati agli antichi splendori gli affreschi e in particolare quello sul fondo dell’aula con l’Assunzione della Vergine. Gli amanti dello sport potranno praticare pallavolo e nuoto nei periodi estivi nei due borghi che vi incanteranno di Marina di Vico e Marina di Aequa rispettivamente ad est e a ovest del promontorio. Merita una visita l’Antiquarium che conserva reperti archeologici (VIIV sec. a.C) provenienti da una ne- cropoli preromana. Sempre presso marina Aequa è stata rinvenuta una necropoli romana che nei secoli si è trasformata in un borgo di pescatori. In zona desta particolare curiosità il Museo mineralogico che presenta circa 3500 esemplari rarissimi, ma vi stupirà anche la sua sezione dedicata ai fossili e ai meteoriti. Vico non ha solo monumenti antichi ma conserva anche le vestigia di una gloriosa fase angioina: in primis il Castello che si staglia sul panorama con la sua imponente struttura rossa. Fu costruito per volontà di Carlo II D’Angiò sul finire del 1200, ma poi rimaneggiato tra Seicento e Ottocento. Della struttura originaria resta solo una bassa torre merlata e una parte della cinta muraria Chiesa di Santa Maria del Toro ma vi emozionerà il panorama della Chiesa dell’Annunziata a picco sul mare, un incanto superiore ad ogni immaginazione. Unica chiesa gotica nella Penisola sorrentina, un tempo cattedrale, fu costruita nel primo trentennio del 1300 e più volte ristrutturata. Un tempo completamente affrescata, nell’abside sono di ottima fattura le tele settecentesche raffiguranti Le storie della Vergine del Bonito e della stessa mano è anche la tela centrale dell’Annunciazione. Nella sacrestia si rinvengono i ritratti dei vescovi di Vico risalenti al XVIII secolo. Merita di essere visto anche il santuario di Santa Maria del Toro, sulla collina omonima (un altro panorama imperdibile), eretta in seguito al ritrovamento in una grotta dell’immagine di una Vergine, oggi all’interno della chiesa. E’ interessante perché nella prima domenica di settembre vi si svolgeva una singolare processione dedicata alla Madonna del MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Panorami mozzafiato chiesa di san giovanni evangelista Toro: per l’occasione veniva scelto un toro bianco che veniva legato al carro sul quale si era collocata la statua della Madonna. Va segnalata infine la tradizione gastronomica di Vico Equense, che annovera, tra i piatti divenuti ormai noti in tutto il mondo, la “Pizza a metro”, specialità di cui si custodisce ancora il segreto e l’esclusività. (G. I.) Provolone Struffoli del Monaco il prodotto tipico I l provolone di Sorrento è conosciuto anche come Provolone del Monaco, denominazione addebitabile secondo alcuni ad un convento di frati caseificatori, secondo altri al nome di un attrezzo, designato col nome di monaco nell’area meridionale, su cui si regge la caldaia nelle aziende di una certa dimensione. Ma l’ipotesi più accreditata vuole che il titolare di un noto caseificio fosse detto ’u muonaco per il suo aspetto mite e fratesco, consolatore di anime e corpi vedovili. Questo provolone ha forma di pera senza testina e un peso di 2-3 kg, la pasta è morbida, uniforme, di colore bianco, racchiusa in una scorza sottile, di colore giallo paglierino, o bruno se affumicato. Il sapore dolce e delicato diventa più intenso nel prodotto stagionato. 43 Zuppa della Vigilia (scarole, baccalà, pinoli, uvetta passa, cavolo, vongole) Frittelle ripiene di cavolo, gateau salsicce e friarielli, funghi al forno, verza con castagne Fettuccelle con cime di rapa e tartufi di mare Baccalà fritto con insalata di rinforzo (scarole, minestra cotta, cavolo cotto, olive nere, papaccelle e acciughe) Struffoli Fiano di Avellino - Feudi di San Gregorio A persona euro 42.00 vini inclusi 44 Lo sguardo spalancato sui sapori L a «Fenesta Verde» (verde dal colore degli infissi, suppongo) è spalancata ormai da sessant’anni nel cuore antico di Giugliano, a due passi dall’Annunziata. In cucina fanno ottima guardia le sorelle Luisa e Laura Iodice, ristoratrici di terza generazione (tutto cominciò con un rifugio antiaereo in cui i nonni offrivano riparo e un bicchiere di vino durante i bombardamenti), mentre in sala Guido e Giacomo (mariti rispettivamente di Luisa e Laura) garantiscono quell’affabilità non di facciata che rende ancor più grata la sosta. Qui si fa cucina rigorosamente di stagione, e di territorio, con ricette che ciclicamente si ripropongono senza mai venire a noia perché custodiscono il tesoro della genuinità e della passione: allegramente e implacabilmente, il tavolo si va tutti punti di forza di un locale che dà il meglio di sé quando la fiamma arde nei due ampi camini (uno per sala, in quella più ampia si susseguono le immagini delle mostre d’arte e di fotografia che “Fenesta Verde”, ora anche attivo centro di promozione culturale, propone a ciclo continuo). Insomma, “FeLaura e Luisa Iodice nesta Verde” rimane a tutt’ oggi così riempiendo di leccornie e un rifugio contro i bombardadi emozioni ancestrali, che in menti: un tempo quelli aerei, questo periodo si concretizza- adesso quello della cucina (e no nella trionfale zuppa della dello stile di vita) massificati. Vigilia ricca di scarole, baccalà, Da sessant’anni la stessa fapinoli, uvetta passa, cavolo e miglia, lo stesso luogo, che i vongole; e poi frittelle ripiene titolari chiamano ancora con di cavolo, il gateau salsicce e legittimo orgoglio provinciale friarielli, i funghi al forno e «trattoria»: ma prima o poi un’imperdibile verza con ca- dovranno ammettere anche stagne. I frequentatori abituali loro che da «Fenesta Verde» lo non rinunciano quasi mai alla sguardo ormai spazia lontano. minestra maritata, alla clas- Del resto, l’ho sempre sospetsicissima pasta e fagioli e al tato: non si fa cucina di qualità riso Carnaroli in più versioni: senza essere persone di qualità. www.fenestaverde.it MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Fenesta Verde Giugliano - Napoli indirizzo via Licante - vico Sorbo, 1 Giugliano (NA) telefono 081 8941239 chiusura domenica sera e lunedì carte di credito visa e american express Prendere l’autostrada Napoli- Roma, uscire ad Afragola e imboccare l’asse mediano in direzione Villa Literno uscendo a Sant’Antimo; svoltare poi a sinistra verso la chiesa dell’Annunziata che si trova nel centro storico. 45 46 Giugliano C ittà fondata dai cumani o dagli abitanti di Literno, deve il suo nome forse ad una villa di Giulio Cesare. Appartenuta a nobili famiglie, qui morì il letterato Giovan Battista Basile autore de “Lo cunto dei cunti”. Di particolare interesse è la chiesa dell’Annunziata che sorge sull’omonima piazza, all’incrocio tra il Corso Campano e Via Licante. Caratteristica è l’elegante facciata della chiesa, articolata su due ordini, mossa da doppie lesene che reggono un timpano curvilineo. Essa presenta un bel portale in piperno e porte con bassorilievi lignei di ottima fattura. La chiesa fu costruita sul sito di un piccolo oratorio, ma il primo documento che la riguarda risale ad una bolla del papa Clemente VII nell’anno 1528. Fu costruita nel XVI secolo, in seguito fu ampliata, assumendo l’attuale planimetria a croce latina ad un’unica navata con piccole cappelle, profonda abside e transetto. Molto ricca è la decorazione barocca, il soffitto è a cassettoni dorati con tele seicentesche tra cui la meravigliosa Presentazione al tempio dello Stanzione. Nelle quindici cappelle sulla giugliano, chiesa di santa sofia MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Gioielli architettonici ricchi di storia giugliano, scalone e facciata di palazzo palumbo giugliano, interno della collegiata dell’annunziata navata ci sono altari le cui commissioni si devono alle principali famiglie della città, molte lapidi con stemmi scolpiti lo ricordano. La cappella più grande è la sesta a destra, dedicata alla Madonna della Pace. E’ una sorta di chiesa nella chiesa, a navata unica con cappelle, transetto, abside e cupola. In essa si ammirano diversi dipinti del XVII secolo di Carlo Sellitto, Nicola Cacciapuoti e Giovanni Sarnelli ed una decorazione in stucco. Prezioso è l’organo ligneo dorato della fine del Seicento, seguito da un elegante pulpito in stile rococò. La zona absidale con la balaustrata marmorea si presenta come un’articolata e grandiosa macchina barocca: l’altare si staglia contro la parete di fondo ed è introdotto dai pregevoli stalli lignei del coro. Sull’altare maggiore da vedere è la ricca tavola dell’Annunciazione di Angelillo Arcuccio. In questa chiesa si venera una statua in legno della Madonna della Pietà che, secondo una famosa leggenda, fu gettata in mare dai turchi e salvata dagli angeli che la depositarono sulle spiagge di Cuma. Qui i buoi vedendola inchinarono le zampe al suo cospetto e per tal motivo i contadini la portarono a Giugliano. L’episodio si tramanda anche in un’antica immagine che sfila per il paese durante la festa in onore della Vergine della Pace che inizia dalla vigilia di Pentecoste e dura per una settimana intera. Adiacente alla chiesa dell’Annunziata vedrete il campanile che si eleva su tre piani e presenta la classica bicromia grigio piperno del basamento e arancione del laterizio. La sua costruzione iniziò nel 1794. Nella parte mediana è installato un orologio meccanico e nella parte terminale vi è la cella campanaria. A destra del campanile si vede la facciata ottocentesca dell’ospedale che completa il fronte sulla piazza. La sua architettura richiama alcuni stilemi della vicina facciata settecentesca della chiesa con pinnacoli e lesene. Sempre a Giugliano una puntata può essere fatta alla chiesa di Santa Sofia, costruita a fine Seicento su un edificio preesistente. L’interno colpisce per la sua bellezza barocca con episodi veterotestamentari del Cacciapuoti, il campanile e l’organo in legno rivestito d’oro zecchino. Degno di nota anche il campanile dove sono murati marmi provenienti da Cuma. Tra i palazzi nobili si segnala quello Palumbo (già Stigliano) con un salone riccamente affrescato. (G. I.) Friarielli il piatto tipico F giugliano, parrocchiale san nicola riarièlle è termine dialettale che risale agli inizi del Novecento e nel Napoletano indica i broccoletti di rapa o cime di rapa, benché la loro presenza nella cucina napoletana sia molto più antica. In questa denominazione sono accomunate specie diverse fra loro sia per forma e dimensioni che per aspetto dell’infiorescenza e per il sapore dolce o amaro, diversità dovute alle caratteristiche climatiche delle aree di produzione, alle tecniche e all’epoca di coltivazione. In ogni caso la parte commestibile è rappresentata dalle foglie più giovani e tenere e dalle infiorescenze, i cui fiori non devono ancora essere aperti. La parola prende origine dal tradizionale modo con cui sono cucinati, soffritti in padella, senza precedente lessatura, con aglio, olio, sale e peperoncino forte. 47 Baccalà mantecato con zuppetta di peperoni e pomodori al basilico, veli di pane croccante al sesamo Ravioli di ricotta con salsa di zucca e scampi ed emulsione di nero di seppia Capitone confit in foglia d’alloro e spuma calda di insalata di rinforzo «Pastorelle», scomposta del Cilento con salsa al cioccolato, marmellata d’albicocche e miele d’acacia Coda di volpe - Cantina del Taburno Cilento bianco - Azienda Barone Asprinio d’Aversa - Grotta del Sole A persona euro 40.00 vini inclusi 48 Tutta la cucina davanti a sé S iamo in piena «zona Leopardi»: qui, nel paese dove il poeta di Recanati soggiornò nel periodo napoletano, il torrese Carmine Mazza, diploma alberghiero ed esperienze all’Olivo anacaprese con Glowig e dagli Iaccarino a Sant’Agata sui Due Golfi, ha rotto gli indugi e deciso di rischiare in proprio al pianoterra d’una gialla palazzina moderna: pochi coperti e molte idee, a cominciare dai panini fatti in casa (origano, pomodoro, rosmarino) e dal benvenuto, mentre la giovane addetta di sala Amalia versa in calice non il solito prosecchino, ma un Gewurztraminer di aromatica personalità. E intanto ci consegna la lista, redatta nell’ordinato corsivo stile primo Don Alfonso. Menu degustazione di sei portate e, alla carta, puoi scegliere tra cinque antipasti, cinque primi, quattro secondi Carmine Mazza e due dolci più selezione di formaggi. Oggi a occhio e croce ci sarà da divertirsi tra la sfogliatella salata, la variazione di zucca e gli altri prodotti, tutti provenienti dall'orto del poeta vesuviano: freschi, o accuratamente conservati se non è stagione. Arrivano poi i primi piatti che Amalia, aversana trasferitasi qui causa fidanzato torrese (per chi non l'avesse capito: il fidanzato è Carmine), spiega con flemma tutta atellana: mediterraneità in primo piano, www.ilpoetavesuviano.135.it ma anche un esotico risotto al curry (con peperone rosso e gamberi alla maggiorana) che si imprime nella memoria e nelle papille gustative. Si capisce che Carmine, nelle cucine importanti che ha frequentato, ha fatto ciò che ogni bravo allievo deve fare: rubare il più possibile ai maestri, e poi rifare le cose a modo suo. Reinventando un cibo «sacro» della festa come il capitone in versione confit, o ritornando alle sue origini cilentane con la pastorella, dolce natalizio che lui «scompone» per l'occasione: una sorta di zeppola fritta ripiena di castagne, cacao, nocciole e marmellata di albicocche in cui ogni ingrediente cambia ruolo e funzione. Segno che uno chef di talento, con il tempo e la dedizione, può persino diventare un bravo pasticciere. E in fondo Carmine ha appena 23 anni, e ancora tutta la cucina davanti. MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Il Poeta Vesuviano Torre del Greco - Napoli indirizzo viale Europa, 42 80059 - Torre del Greco (NA) telefono. 081 8832673 chiusura domenica sera e lunedì carte di credito in via di attivazione Percorrere l’Autostrada Napoli-Salerno e uscire a Torre Annunziata Nord, proseguire per via Nazionale fino alla chiesa del Buon Consiglio e poi svoltare a sinistra su viale Europa. 49 50 Torre del Greco È il paese del corallo nelle sue varietà, delizia per gli occhi di tutte le donne! Capolavoro della natura lavorato dall’uomo, è avvolto da un alone di mistero sin dalla sua formazione: il sangue gocciolato dalla testa recisa di Medusa si sarebbe poi pietrificato in corallo. Considerato terapeutico, è un simbolo apotropaico. La lavorazione del corallo a Torre ha inizio nei primi anni dell’Ottocento e ancora oggi è molto viva ed apprezzata. Nel museo Liverino sarà possibile ammirare veri e propri gioielli realizzati in diversi paesi con differenti tipi di corallo di diverse epoche: a partire dallo stile neoclassico (dalle forme austere e eleganti) al periodo “frutti-fiori” (con incisioni di fiori, frutta e foglie) alla fase delle torchon (collane con piccole sfere di coralli intrecciati insieme). Presso l’Istituto statale d’arte è visitabile anche il Museo storico del corallo con esempi unici di gioielli in corallo, lava, conchiglia e madreperla. Ma Torre del Greco non è solo la città del corallo, distesa ai piedi del Vesuvio al centro del golfo di Napoli, la mitezza del clima e lo spettacolare panorama di cui gode hanno affascinato uomini di tutti i tempi che qui hanno edificato ville residenziali in parte visitabili: dalla nobiltà borbonica che trascorreva a Torre la stagione estiva a personalità come Giacomo Leopardi cui è dedicata l’omonima via che sale fino alla villa delle Ginestre dove il poeta, infermo e bisognoso di aria salubre, soggiornò e scrisse «La villa delle ginestre, ingresso ginestra» e «Il tramonto della luna». La dimora leopardiana, tipica della fase finale del Settecento napoletano, posta in un fondo rustico sulla lava vesuviana, ha un pianterreno con un piccolo vestibolo e alcune stanze fra cui quella abitata dal poeta. Bella la terrazza aperta al monumento a giacomo leopardi panorama! Sempre del XVIII secolo è anche la villa del marchese di Vallelonga (Catanzaro), residenza estiva del ricco signore. L’edificio è stato acquistato dalla locale Banca di Credito Popolare che l’ha adibita a prestigiosa sede Centrale. Ancora tra le ville merita una visita quella del Cardinale, costruita nel 1774 da Gennaro de Laurentiis, con la bella facciata sormontata dalla statua di San Gennaro, l’elegante scalone in marmo e il salone centrale con decorazioni settecentesche in stucco. Ma il più importante e ricco monumento storico della città è il Monastero dei Padri Osservanti Minori detti Zoccolanti. Sorto nella seconda metà del Cinquecento, fu eretto su una collina nei pressi della porta di Capotorre. E’ un compiuto esempio di struttura monasteriale con corte centrale e porticato al piano terra. Tutto il primo piano fu adibito al culto e alle celle, mentre nel piano inferiore vi erano le cucine, la chiesetta del Santissimo, il cimitero, il refettorio ed alcune sale di ricovero che ospitavano personaggi illustri della curia napoletana e romana per guarire soprattutto da patologie respiratorie e reumatiche. Oggi purtroppo rimane ben poco di quello che doveva essere l’antica struttura. Sono andati perduti gli scanni di legno che cingevano la sala ed anche la pregevole decorazione ad affresco che ornava il soffitto di cui restano soli pochi frammenti con un Padre Eterno benedicente. La decorazione deve essere datata agli anni successivi al 1578 (data di fondazione) e presenta analogie con quella delle vele del chiostro napoletano di S. Maria La Nova.Torre ha anche un’area di interesse archeologico, risalente al I secolo d.C., nella “contrada Sora”, caratterizzata dai resti dell’omonima valle e da un complesso termale, ora praticamente sulla spiaggia torrese. Le chiese di Torre del Greco furono spesso riedificate su edifici più antichi, distrutti nel corso dei secoli dalle implacabili eruzioni laviche del Vesuvio. Tra queste: la parrocchia di Santa Croce (sec. XVI, ma ricostruita dal 1796) con il suo campanile barocco e l’altare maggiore di marmi pregiati con il quadro dell’Invenzione della S. Croce e altre opere di Paolo De Matteis, di Lorenzo Vaccaro e di Francesco Solimena. Danni subì anche la vicina seicentesca chiesa di San Michele e l’area ipogea della chiesa dell’Assunta con i suoi cunicoli scavati al di sotto dell’eruzione del 1794. Un’area ipogea, invece, ancora intatta con le vestigia dell’antica chiesa, è visibile, accedendovi tramite una scala, nella chiesa di Santa Maria del Principio. Qui è rimasto l’antico pavimento maiolicato e un affresco della Madonna del Principio con S. Lorenzo e S. Stefano. Torre è città d’arte in tutte le sue accezioni e ne è una prova anche la cosiddetta Fe- MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA La natura, l’uomo e le Ginestre antichi gioielli in corallo sta dei quattro altari che si celebra la domenica successiva a quella del Corpus Domini. In tal occasione si espongono tele, con raffigurazioni sacre, di circa 20 metri di altezza per altrettanti di larghezza, poste su imponenti armature di legno. Ma gli artisti locali realizzano anche riproduzioni di quadri famosi fatti con petali di fiori o con segatura colorata. (G. I.) Capitone il piatto tipico U n tempo il fiume Sarno era ricco di anguille e in quelle zone della Campania si è conservata l’antica tradizione di mangiare anguille durante tutto l’anno: fortunatamente alcuni esemplari sono ricomparsi in questo fiume dopo i drastici interventi di bonifica. Il capitone altro non è che l’anguilla femmina che nel periodo della riproduzione accumula grasso e aumenta di peso e di lunghezza. Anguille e capitoni sono a Napoli il pezzo forte del cenone della vigilia di Natale, arrostito, fritto, in umido o marinato, il capitone viene mangiato più che per rito, pe’ devozione, poiché una tortuosa simbologia identifica il capitone con il serpente demoniaco da sconfiggere, schiacciato sotto i piedi della Vergine, mangiato il quale può finalmente essere celebrata la nascita del Redentore. 51 Mangiamo con le mani (sfizi ed altro) Apparentemente un uovo... (tuorlo marinato, insalatina di asparagi e acqua di pomodoro) Crème caramel di baccalà su passata di fagioli cannellini e peperoni «crusc’» Ravioli di farina cotta ripieni di melanzana e mozzarella su salsa di pomodoro e basilico Coniglio al profumo di ginepro cotto a bassa temperatura su finocchi gratinati e cipollotto Parfait di liquirizia, spuma di zucca confit alla vaniglia Vesuvio buono (tortino al cioccolato Guanaya, zenzero e crema gelata al latte Piccole delizie Degustazione vini dell’azienda Vestini Campagnano Cherry Pedro Ximenez A persona euro 75.00 vini inclusi 52 Gran finale con il «Vesuvio buono» N ella cittadina che contende a Nola la paternità della festa dei Gigli (il primo giglio “emigrato” a New York partì da Brusciano nel 1939), un laboratorio enogastronomico che ogni anno fa un balzo in avanti in qualità, creatività, cultura dell’ospitalità. Accanto all’inventore e patron Armando Sposito (e alla moglie Margherita, “angelo custode” della cantina) sono cresciuti bene i figli Francesco (ai fornelli) e Mario (in sala). Risultato? Una “Taverna” sempre meno rustica e sempre più raffinata. Spazio accogliente e luminoso, tavoli ben distanziati e la cucina che, più che a vista, sembra in cinemascope. Nei piatti, i prodotti che rappresentano l’eccellenza campana, ma spesso anche selvaggina e anguille di Comacchio grazie alla virtuosa liaison tra Armando e Igles diario dei ricordi gastronomici, non hanno voluito rinunciare a un tocco di scherzosa ma acuta nostalgia: nostalgia del tempo in cui si mangiava con le mani, come dimostrerà la serie di stuzzichini d’apertura; per continuare a giocare sui sapori primari e apparenteLa famiglia Sposito mente semplici: si fa presto a Corelli della lontana “Tameri- dire uovo, ma quando il tuorlo ce” di Ostellato, nel Ferrarese. è marinato già le cose cominFantasia sbrigliata e un certo ciano a cambiare. E il baccalà, gusto della provocazione intel- pur servito col tradizionale peligente non mancano mai nel perone “croccante”, si presenta menu del locale: nella passata sotto forma di creme caramel. stagione, ad esempio, assaggiai Il coniglio, delizia delle tavole un azzardatissimo e riuscitis- d’una volta che va via via spasimo “tartufo & tartufo”, ge- rendo da quelle contemporamellaggio verbale e di gusto nee, è al profumo di ginepro tra il tartufo nel senso di fungo ma cotto a bassa temperatura. ipogeo e il tartufo nel senso di E per il gran finale della festa “taratuffolo”, il delizioso mol- bruscianese dei sapori arriverà lusco amatissimo sulle tavole l’eruzione (ironica strizzatina marinare. E anche stavolta che d’occhi al centro commerciaper la nostra iniziativa Arman- le nolano firmato da Renzo do e Francesco pescando nel Piano) d’un “Vesuvio buono”... www.tavernaestia.it indirizzo via Guido De Ruggiero, 108 Brusciano (NA) telefono 081 5199633 chiusura domenica sera e lunedì. Aperto da martedì a venerdì solo a cena, sabato anche a pranzo. carte di credito tutte tranne american express Percorrere il raccordo autostradale Napoli-Salerno in direzione Caserta-Roma,imboccare l’uscita Centro direzionale in direzione Pomigliano-Cercola.Uscire a Pomigliano centro-Paesi vesuviani.Prendere la strada provinciale Pomigliano-Somma e arrivare a Castello di Cisterna, proseguire in direzione Brusciano. MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Taverna Estia Brusciano - Napoli 53 54 Brusciano I l paese di Brusciano è citato in epoca angioina e appartenne al potente monastero di Montevergine. Ma il territorio vanta origini antichissime: autori greci e latini narrando avvenimenti che vedevano come protagonista l’antica città di Nola, hanno evidenziato come i territori compresi tra Napoli e la stessa Nola, avessero una notevole importanza strategica. Brusciano visse per secoli della luce riflessa da Nola, seguendone le sorti. Compreso tra le pendici del Monte Somma e la zona dei Regi Lagni, vanta una particolare origine geologica. Grazie a scavi archeologici sono state rinvenute alcune tombe di cui molte di epoca etrusca, spesso in esse vi sono corpi di guerrieri con il cimiero, la corazza, l’armatura militare e un ricco corredo funerario. A Brusciano si individuano due aree di interesse archeologico: una presso via Bellini, l’altra verso via Quattromani (così brusciano, festa dei gigli MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Con i Gigli tra arte e folclore brusciano, scorcio chiamata per la presenza un tempo di quattro nuclei familiari nel luogo). Vicino al corso si trova l’edificio più importante del paese che è la Chiesa di S. Maria delle Grazie risalente al XV secolo, ma che ha subito numerose trasformazioni fino all’inizio del XX secolo. Prezioso è il soffitto a lacunari e la cantoria sopraelevata in corrispondenza della porta d’ingresso centrale. Gli altari risalgono al XIX secolo e gli affreschi del catino absidale sono della seconda metà del XX secolo. Interessante anche l’adiacente Confraternita della Pietà. Ancora una chiesa da visitare è la parrocchiale di San Sebastiano che fu eretta nei primi decenni del XVIII secolo dalla famiglia Cucca. Nel Novecento fu acquistata dalla Curia di Nola e restaurata in seguito ai danni sismici del 1980. L’interno a navata unica con cappella laterale ha una caratteristica cupola a bulbo in asse rispetto all’altare maggiore. Un dipinto del XVIII secolo raffigura La Madonna delle Grazie con S. Sebastiano e S. Rocco, patroni di Brusciano. Di particolare interesse storico, culturale e etnoantropologico è anche il Vico Tre Santi a Cortaucci in cui avvenne il Miracolo di Sant’Antonio. Era l’anno 1875 e la povera Zi Cecca De Falco, avendo un figlio in gravi condizioni di salute, si rivolse a S. Antonio promettendogli una coroncina tutta d’oro per il bambinello qualora avesse ricevuto la grazia della guarigione del figlio. Il ragazzo riacquistò la salute, ma il debito non poté essere onorato così come promesso. Le ristrettezze economiche della povera mamma le permisero nel giorno della processione solo di lanciare dal balcone della misera casa 16 ostie: di esse, 13 andarono a posizionarsi, costituendo una sorta di corona sospesa nell’aria, proprio sul capo del bambinello di S. brusciano, facciata e interno della chiesa parrocchiale di s. maria delle grazie Antonio. Da quell’evento miracoloso che destò la riconoscenza di tutta la comunità nacque la Festa dei Gigli che si tiene annualmente l’ultima domenica di agosto. Il colosso in legno e cartapesta, riccamente decorato, viene portato a spalla dalla paranza in segno di devozione. Sembra un carro allegorico e coinvolgerà grandi e piccini. Si consiglia una visita al paese anche in occasione del Carnevale quando i ragazzi fabbricano un fantoccio di rami, simbolo dell’inverno, e lo incendiano affinché dalle ceneri del legno bruciato possa scaturire una primavera dal clima mite e temperato per la fertilità della terra e il futuro raccolto. (G. I.) Melanzana Violetta Napoletana il prodotto tipico O riginaria di India e Cina, la melanzana fu diffusa dagli Arabi nei paesi del Mediterraneo, anche il nome deriva dall’arabo badingian preceduto dalla parola mela nel senso di pomo, frutto. Esistono numerose cultivar di melanzane, differenti per forma, colore e sapore. La più diffusa in Campania è la Violetta lunga di Napoli con frutti a forma di clava, buccia lucida di colore viola scuro, polpa biancastra, tenera, leggermente piccante, con pochi semi. Un tempo si usava sbucciarle, affettarle e sistemarle a strati con sale grosso in un colapasta per eliminare il liquido amaro, anche se molti considerano la sfumatura amarognola il maggior pregio di questa melanzana. Oggi le coltivazioni moderne offrono un prodotto dal gusto meno forte che non ha più bisogno di preparazioni preliminari. 55 Ricotta fritta di Montella versione 2008/2009 Interpretazione della parmigiana di melanzane Risotto con rosso d’uovo e tartufo nero di Bagnoli Irpino Cecaluccoli con pomodorino, pepe nero e cacioricotta salato di Montella Maialino con le mele annurche e olio alla vaniglia Dessert Degustazione di vini dell’Irpinia A persona euro 75.00 vini inclusi 56 L’Irpinia creativa di Pisaniello A ntonio Pisaniello e la sua «Locanda di Bu» (Bu è il nome del primogenito): un vulcano gastronomico in piena attività. Autodidatta di talento (a 13 anni imparò a fare pizze in Sicilia, a 18 aprì un pub nel parcheggio del locale di famiglia, «Il Gastronomo») è, tra gli chef irpini di nuova generazione, quello più aperto alle innovazioni. Il suo locale, incastonato in uno dei 100 borghi più belli d’Italia, è una minuscola “elle” con una parete rosso-Barletta e una biancoTrani (misteri della bioarchitettura) che custodiscono appena trenta coperti suddivisi in pochi, ben distanziati tavoli dal fine tovagliato color panna. Tagli di luce laterali, legni colorati biologicamente all’olio di mandarino: eleganza minimal per una cucina di creatività maxi. Nel corso dell’ultima mia visita, tanto per intenderci, incontrai cose come Antonio Pisaniello la foglia di basilico fritto con pomodoro e fiordilatte, la cipolla ramata di Montoro stufata con mosto cotto e miele di castagno, la millefoglie di lingua di vitello affumicata con patate e rosmarino, e tra gli antipisti la ricotta fritta di Montella, allora era con patate e colatura di alici: oggi non so. Ma so che nel suo menu della memoria è prevista anche l’interpretazione pisanelliana della parmigiana di melanzane, il risotto con rosso d’uovo e, evviva, il tartufo nero di Bagnoli Irpino. Ai primi piat- www.lalocandadibu.com ti, retour alla tradizione con i cecaluccoli (pasta fresca tirata a mano) con pomodorino, pepe nero e cacioricotta salato di Montella, mentre il maialino, pur essendo servito secondo l’ortodossia campana con la mela (annurca) è impreziosito dall’olio alla vaniglia. Vini: l’ultima carta era tutta campana, ricca di oltre 100 etichette più rosse che bianche affidate a Jenny, sommelière e moglie di Pisaniello; gli irpini ci sono tutti e nelle annate giuste. Sui dolci, Pisaniello nell’occasione non si sbottona, limitandosi a mettere in menu un laconico «dessert»: ma, conoscendolo, so che ci sarà da sorprendersi e da divertirsi; ricordo ancora la pasta al forno salata con crema di annurca e salsa inglese, la cupola di frolla con crema pasticciera, e nocciole esaltata da un calice di iberico Pedro Ximenez «Hidalgo» di bel colore mogano. Suerte! MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA La locanda di Bu Napoli indirizzo vicolo dello Spagnuolo, 1 Nusco (AV) telefono 0827 64619 chiusura domenica sera e lunedì carte di credito tutte tranne diners Percorrere l’Autostrada Napoli-Bari e uscire ad Avellino Est. Proseguire in direzione Nusco per 35 chilometri. In alternativa si può percorrere la SS 7 che dista 3 chilometri dal bivio di Passo Manteca. Distanza da Napoli 81 chilometri. 57 usco meglio noto come il Balcone dell’Irpinia, è il comune più alto e panoramico dell’avellinese, vera e propria oasi naturalistica dove è possibile fare passeggiate a piedi ed escursioni in tutta la zona circostante. Il centro storico, sorge ai piedi di una collina, intorno ai ruderi del castello, in epoca longobarda, Sant’Amato, il primo vescovo e patrono di Nusco, raggruppò gli abitanti dei villaggi circostanti. Il borgo ha origini medievali ma il suo aspetto attuale è nusco, campanile della cattedrale 58 quello sei-settecentesco in particolar modo del seminario vescovile e dei palazzi nobiliari delle famiglie Ebreo, Natale,Astronomica, Ciciretti e Teta, tutti recuperati dopo il disastroso terremoto del 1980. Il centro abitato è caratterizzato da strade pulitissime, facciate intonacate di fresco, portoncini e finestre ben curati, piazze piazzette e slarghi che colpiscono per le vivaci pavimentazioni lastricate con decorazioni geometriche e di fantasia. Gli esterni dei palazzetti sono intonacati con vivaci pitture colorate che danno risalto ai fregi, stemmi e cornici sopravvissuti alla catastrofe.Tra i monumenti da visitare di particolare rilievo risulta essere il Seminario vescovile e la Cattedrale di Santo Stefano voluta da Sant’Amato quando Nusco venne elevata a sede vescovile nell’XI secolo. Imponente edificio il cui impianto attuale risale al 1600 con una torre campanaria bianca del 1891. La cattedrale è suddivisa nel suo interno in tre navate, contraddistinta da una doppia fila di colonne che sorreggono archi a tutto sesto. Ai lati delle navate minori si aprono le cappelle, all’interno delle quali sono custodite opere preziose. Di notevole importanza sono il coro ligneo settecentesco sopraelevato sormontato da affreschi dello stesso periodo, il presbiterio, uno straordinario pulpito ligneo del Seicento ricco di bassorilievi e i quattro mausolei dedicati ad altrettanti vescovi. Spicca l’armoniosa struttura della cripta ipogea in stile romanico, con volta a crociera sorretta da grosse colonne, che conserva affreschi del Settecento con la raffigurazione di numerosi vescovi che si sono succeduti a Nusco e le ossa di Sant’Amato. Non ultimi infine tra i monumenti da visitare a Nusco sono i ruderi del Castello, che un tempo era un miniero inespugnabile. Dopo aver visitato Nusco una tappa va fatta al Convento di San Francesco a Folloni a Montella. Il Convento, nasce secondo una leggenda per volere di San Francesco d’Assisi, il quale, tornando dalla Puglia, nel cuore dell’inverno, passò per Montella Nusco, Palazzo di Piazza Natale montella, campanile del convento di s. francesco a folloni sistemandosi per la notte nel bosco di Folloni. Il giorno seguente il santo partì ma lasciò lì dei frati, su richiesta de di un certo Ragone Balbano conte di Conza e di Montella, affinchè edificassero un romitorio e con il loro operato convertissero i ladri che infestavano il bosco. La primitiva struttura del romitorio è a tutt’oggi ancora visibile sotto il pavimento della sacrestia: piccola chiesa di semplice struttura con un vano unico e la copertura sostenuta da colonnine di piperno.Agli inizi, com’era consuetudine ai tempi di San Francesco, i frati costruirono nei pressi della piccola Chiesa delle semplici abitazioni in legno, come quelle della gente povera del luogo, ma negli anni a venire costruirono opere in muratura. Un antico muro inglobato nel chiostro quattrocentesco testimonia ancor oggi i continui lavori di amplia- mento e gli interventi atti a rafforzare le strutture squassate dai frequenti terremoti. Il Convento è sempre stato sostenuto dai benefici dei sovrani delle dinastie che si succedettero sul trono di Napoli e dei feudatari del luogo che concessero ai frati munifici privilegi di cui fanno fede molti documenti d’archivio. San Francesco a Folloni, nel XVI secolo, ebbe una nuova fase che determinò la costruzione di due chiostri e di una grande chiesa. Nel XVIII secolo, questa fu demolita e nuovamente ricostruita dal 1746 al 1769. Per la grandiosità dell’insieme, la finezza dei marmi e del pavimento maiolicato, la leggerezza degli stucchi e dei legni del pulpito, la chiesa desta nel visitatore una grande meraviglia. Fu soppresso in epoca napoleonica e di nuovo in epoca postunitaria, poté riavere i suoi frati solo nel 1933. Ospite del convento è stato, negli anni che vanno dal 1934 al 1935, il principe di Piemonte Umberto di Savoia, il quale profuse ingenti somme MENU DELLA MEMORIA N Nusco e Montella montella, chiostro del convento di s. francesco a folloni di denaro per restaurare il convento e per dotare la chiesa di preziosi parati di seta di San Leucio. Proprio in tema di tessuti va ricordato il famoso restauro effettuato da Lucia Portoghesi, delle vesti del conte Diego Cavaniglia, feudatario di Montella e Bagnoli nella seconda metà del XV secolo, ritrovate sul suo corpo nel monumento funerario sito nella sagrestia. (M. M.) MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Gioielli da ammirare affacciati al Balcone Tartufo nero di Bagnoli Irpino il prodotto tipico L nusco, chiesa di san giuseppe a natura incontaminata della verde Irpinia, il terreno umido e le basse temperature formano l’habitat ideale per il tartufo, parola che deriva dal tardo latino territufer, cioè escrescenza della terra. Bagnoli Irpino solo da qualche decennio ha compreso in pieno la ricchezza che si nasconde nei boschi che circondano il paese sito sotto il Monte Laceno, dove ogni anno si raccolgono oltre sessanta quintali di prezioso tartufo nero. Per il suo inconfondibile aroma, complesso e penetrante, il tartufo di Bagnoli Irpino aggiunge ai piatti un tocco di tale prestigio e ricercatezza da trasformare il cibo più semplice in una pietanza d’alta cucina. Dalla buccia rugosa e la polpa scura striata da sottili venature chiare, il tartufo irpino è composto essenzialmente di acqua, fibre e minerali ed è quindi irrilevante nel computo delle calorie di un piatto. 59 Passata di ceci, baccalà e pizza di scarola Candele alla «genovese» di cipolle ramate Guancia di manzo brasata all’aglianico con purea di zucca Profumi e sapori d’autunno Terrina di ricotta, composta di fichi fioroni, noci e ... spezie Degustazione vini dell’Azienda Feudi di San Gregorio A persona euro 60.00 vini inclusi 60 Un siciliano stregato dalla Campania P aolo Barrale: uno chef capace di unire il prodotto terragno locale, il non lontano mare e le suggestioni gustative della sua terra (latte di mandorle, sale di Mozia) in ammirevole sintesi. Il 34enne Barrale è infatti siciliano di Cefalù, e viene dalla nidiata di ragazzi-prodigio diplomati alla scuola di Heinz Beck, fino a poco fa stellato consulente gastronomico di «Marenna’», affascinante bunker del gusto annesso all’azienda vinicola dei Feudi di San Gregorio. Paolo tiene dunque in gran conto il Regno delle Due Sicilie in chiave di tecnica, divertita rivisitazione: si pensi al triplo appetizer degustato nel corso della nostra ultima visita al locale di Sorbo Serpico, composto da a) ricotta di fuscella con dattero candito nel miele e alici di Cetara; b) cubo pressato di per’ e musso accompagnato da micro-coppetiello contenen- celebri «passatine», o a un piatto che più napoletano non si può (malgrado le nordiche origini: non Genova come in tanti credono, bensì Ginevra, Genève), cioè la genovese, che lui prepara con la saporitissima cipolla ramata. La guancia di manzo all’Aglianico «della casa» è cotta per ore a bassa temperatura, e Paolo Barrale le verdure sono sempre di state sale e pepe per condire; c) gione (qui non ci sono solo la «Napoli 2 volte» consistente terrazza sui vigneti o l’immensa in una tazzina da caffè di ve- e scenografica cantina con tavotro colma di spuma di fagioli lissimo per cene sotterranee, ma di Controne e ridotto di cozze anche l’orto didattico), mentre spolverato di caffè e nocciole. il carosello di profumi e sapori Più, nel cucchiaino, un mitile in d’autunno prosegue prima con tempura. Per chi a tavola ama i formaggi irpini («verticale» di lo spiazzamento intelligente podolici, Carmasciano...) e poi (e saporito) a «Marenna’» c’è con i fuochi d’artificio finali da spassarsela: ma lo chef sa che arrivano dalla spettacolail fatto suo anche quando de- re cucina a vista cucina a vista ve vedersela con la tradizione. sotto forma di dessert: noci, Assaggiare, per credere, la sua fichi o ricotta? Barrale vi farà passata di ceci con baccalà che «marennare» («merendare» non ha nulla da invidiare a più in lingua irpina) con tutti e tre. www.feudi.it MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Marenna’ Sorbo Serpico - Avellino indirizzo Località Cerza Grossa Sorbo Serpico (AV) telefono 0825 986666 chiusura domenica sera, lunedì e martedì carte di credito tutte Percorrere l’autostrada Napoli-Bari e uscire al casello di Benevento est, proseguendo poi lungo l’Ofantina fino all’uscita di Sorbo Serpico. Dopo aver attraversato il paese svoltare a destra fino a raggiungere l’azienda Feudi di San Gregorio, di cui il ristorante fa parte. 61 I l Comune di Sorbo Serpico è un piacevole paesino della conca avellinese, situato nella valle del torrente Salzola, ai piedi dei monti Piacentini, centro della Comunità Montana “Terminio - Cervialto”. Per la sua posizione, circondato da bellissime campagne, vi si può godere lo splendido panorama di tutta la valle circostante. Questo comune è ideale per le escursioni a piedi o in bicicletta attraverso le sue campagne. Qui si respirano i profumi di una natura incontaminata che conserva i resti di un passato ricco di storia e di arte, l’aria è salubre e l’ospitalità è accogliente. sorbo serpico, torre del castello 62 Il suo nome deriva da due termini latini, sorbus - antica pianta diffusa nella zona - e serpeus - serpente - dovuto con molta probabilità alla presenza in quest’area, in età romana, di un luogo di culto dedicato a Serapide. Il territorio era conosciuto già all’epoca dei romani i quali ne sfruttarono le risorse idriche. Particolarmente carat- panorama di sorbo serpico teristici erano i ruderi di un acquedotto di età imperiale, che portava l’acqua fino alla colonia Augusta Abellinarum (odierna Atripalda), oggi non più visibili. Il centro storico si sviluppò nel medioevo e già dal 901 se ne attestata l’esistenza, quale casale di Conza. Fu successivamente feudo autonomo dei Gesualdo, dei Galeota e dei Della Marra di Serino. Non può mancare una visita al Castello Medioevale, che si trova sul colle Serpico, immerso nella vegetazione dal quale è possibile ammirare i ruderi dell’antico abitato abbandonato nel XV secolo. Notevole anche il seicentesco Palazzo Brancaccio che presenta un bel portale, con il suo cortile interno lastricato e la facciata con numerosi balconi e ancora la Cappella della Madonna della Neve, situata su una collina all’interno della quale è custodito un affresco settecentesco di ottima fattura. Da Sorbo Serpico ad Atripalda il percorso è breve e vale la pena fare una sosta. Atripalda è posizionata sulle rive del fiume Sabato, a pochi chilometri dal capoluogo avellinese, in un territorio che un tempo fu sede di importanti centri sanniti, fra cui la ricca e famosa Abellinum. Le sue origini risalgono al 570 circa quando Abellinum fu conquistata dai Longobardi e la città fu ridotta in stato di miseria, quasi totalmente abbandonata dai suoi abitanti. Poco distante da Abellinum, nei pressi della Chiesa di Sant’Ippolisto, sorse il primo nucleo Sorbo Serpico e Atripalda di Atripalda. Il toponimo di Atripalda sembra essere legato al longobardo Truppoaldo che ereditò parte della contea di Avellino dalla sua famiglia, gli Adelferii. L’insediamento di Truppoaldo nel castello, che presto fu circondato da numerose abitazioni, dette un nuovo impulso alla vita del borgo appena sorto. Il lungo periodo di prosperità proseguì anche nel XIV secolo, difatti l’unione di due famiglie importanti del luogo, avvenuta nel 1332, con il matrimonio fra Simona Orsini, signora di Atripalda e Tommaso Marzano, si rivelò assai proficua per l’economia. Successivamente, nel 1484, il feudo passò dagli Orsini alla regina Giovanna d’Aragona, nel 1564 divenne proprietà dei Caracciolo che nel 1572 ottennero il titolo ducale. Proprio durante la dinastia dei Caracciolo la città divenne un importante centro commerciale e manifatturiero. Nel luogo dove sorgeva l’antica Abellinum, denominata oggi Civita, sono ancora visibili resti di numerosi edifici atripalda, cortile del conservatorio della purità sia pubblici che privati. Di notevole interessa risulta essere lo “Specus Martyrum”, il cimitero in cui furono sotterrati i martiri della Chiesa di Sant’Ippolisto, elevata a collegiata nel XVI secolo, all’interno della quale si conservano antiche colonne e manufatti dell’epoca romana. Sono da visitare anche la Chiesa dell’Arciconfraternita dell’Annun- ziata, nella quale è possibile vedere una splendida Annunciazione di scuola fiamminga, la Chiesa del Santissimo Rosario, dove si trovano le tombe dei membri della famiglia Caracciolo, e il Conservatorio della Purità, edificio sorto nei primi decenni del Settecento. Non ultima da annoverare è la cosiddetta nuova Dogana, centro della vita commerciale di Atripalda, costruita verso la fine dell’Ottocento, oggi sede di manifestazioni e mostre. Poco distante dal centro abitato si possono ammirare le rovine del Castello medioevale e il Palazzo Caracciolo che oggi purtroppo è in stato di abbandono. Il palazzo, gravemente danneggiato dal terremoto del 1980, è caratterizzato da una pianta a forma di cavallo con cortile centrale, probabilmente disegnato dall’architetto Cosimo Fanzago, fu ristrutturato nel 1787 dal principe Giovanni Caracciolo che ampliò notevolmente anche il parco dotandolo di giochi d’acqua e di preziosi reperti archeologici. (M. M.) MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Una conca di storia e natura incontaminata Baccalà il prodotto tipico U atripalda, chiesa di s. ippolisto n tempo il pesce fresco era reperibile solo nei centri costieri, gli abitanti delle zone interne dovevano accontentarsi del pesce salato per rispettare l’obbligo di astinenza dalla carne imposto dalla Chiesa nei numerosissimi giorni di magro che, sommati a quelli di digiuno, superavano la metà dell’anno. Grande importanza assunse quindi il merluzzo salato o seccato, rispettivamente baccalà e stoccafisso, che giunse nel napoletano verso la fine del Seicento e trovò nei dintorni del grosso centro di Somma Vesuviana il luogo ideale per lo stoccaggio, la preparazione e il commercio, grazie alla presenza del fiume Sebeto che forniva i notevoli quantitativi di acqua necessari alla sua lavorazione. Il termine baccalà, dallo spagnolo bacalao, è metatesi del tedesco kabeliau, mentre stoccafisso viene dall’olandese antico stocvish, cioè pesce bastone. 63 Vellutata di fagioli bianchi della Baronia con polpettina di scarole e olio di Ravece Fiano spumantizzato Zeppola di patate e baccalà su crema di pomodoro e olio al sedano Greco di Tufo Raviolone di ricotta in salsa di noci e aglio bruciato Falanghina vendemmia tardiva Agnello in cottura lenta e lunga su purè di patate e riduzione di Taurasi Taurasi Millefoglie in verticale con crema casalinga, granella di nocciole e visciole Fiano passito Piccola pasticceria A persona euro 65.00 vini inclusi 64 Quando la cucina diventa poesia (oraziana) U n’esperienza che vale il viaggio (anzi almeno due, perché dopo la prima volta avrete già voglia di tornare): leviamo i calici alla famiglia Fischetti per l’umile tenacia con cui prima hanno conquistato la leadership della ristorazione irpina, e poi gestito un successo non sempre facile da amministrare. Lo spazio è luminoso, gli oggetti di arredo sono scelti con cura; s’è da tempo ricavata una sala smoking e una per le degustazioni, ma i tocchi d’eleganza non hanno fatto di quest’angolo d’Irpinia una bomboniera internazionale buona per tutte le latitudini; e uno sguardo al menu, tutto orgogliosamente territoriale, toglie ogni residuo dubbio: qui si fa grande cucina (in una cucina grande, e a vista) restando fedeli a se stessi. Ricordo con commozione, in una delle mie ultime visite, le uovo strapazza- scarole e dall’olio di Ravece, seguita alla zeppola di patate e baccalà su crema (di pomodoro) e olio (al sedano!). Ai primi piatti, il raviolone (fatto in casa: ma per le sorelle Michelina e Maria Luisa Fischetti ai fornelli la casalinghitudine è la norma) vanta la presenza dell’aglio bruciato, uno dei piaceri della vita La famiglia Fischetti che il berlusconismo tenta (in te (decorate da listelle di Car- questo caso invano) di vietarci; masciano) con polvere di pepe- l’agnello irpino è cotto piano roni «cruschi», cioè croccanti, o piano in riduzione di Taurasi, la la minestra di di fave fresche castagna del pre-dessert viene con cipolle, patate e menta, o i servita in millanta modi diver«trilli» con asparagi e pecorino, si e la millefoglie è verticale... o ancora la minestra “oraziana” Con l’impeccabile Puccio in (con essa il Poeta si consolò da sala a condurvi per mano tra una delusione d’amore) a base gli incanti dei “sapori antichi” di farro e cicerchie. Ma - per e il fratello sommelier Carmirestare al «menu della memo- ne a guidarvi tra le meraviglie ria» approntato per l’occasio- dell’enologia Irpina (l’ultima volne - ecco la vellutata di fagioli ta avevo contato in carta novebianchi della Baronia, una vero cento etichette, più il carrello dei «unicum» dell’Irpinia estrema, vini “al bicchiere”) vi sfidiamo a impreziosita dalla polpettina di sbagliare un piatto, o un vino. www.oasis-saporiantichi.it indirizzo via Provinciale, 10 Vallesaccarda (AV) telefono 0827 97021 - 0827 97444 chiusura giovedì e la sera dei giorni festivi carte di credito tutte Percorrere l’Autostrada Napoli-Bari A16 e, una volta usciti al casello di Vallata percorrendo la strada statale 91 bis delle Puglie per circa 5 Km. di splendido paesaggio incontaminato ed immerso nel verde, si arriva a Vallesaccarda. MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Oasis Sapori Antichi Vallesaccarda - Avellino 65 66 Vallesaccarda e Trevico V allesaccarda, paese in provincia di Avellino, è stata fino al 1958 una frazione della vicina Trevico. E’ un paese di antiche origini, le scoperte archeologiche nelle località Mattine e Taverna delle Noci lasciano ritenere che la zona fosse abitata già in età romana. Il primo nucleo del centro abitato, tuttavia fu edificato con molta probabilità in epoca cristiana, lungo la via che i pellegrini di Trevico percorrevano per recarsi in visita alla Madonna di Anzano, oggi situata nella vicina provincia di Foggia. Dotata di un notevole valore paesaggistico, caratterizzato dalla presenza della montagna di Trevico che sovrasta il paese, Vallesaccarda non conserva monumenti di particolare rilievo artistico e culturale. Da Vallesaccarda vale una visita il paese di Trevico, situato all’estremità orientale della provincia di Avellino, sulla montagna omonima, il cui centro abitato, si sviluppa su un lieve rivolto a oriente, ed è il più elevato dell’Avellinese. L’origine del nome e tuttora incerta, alcuni riferiscono il toponimo a un’antica divinità pagana, trevico, piazzale antistante la cattedrale veduta di vallesaccarda la dea “Trivia”, alla quale, in questo luogo, era dedicato un tempio. Altri invece, fanno risalire il nome del paese all’epoca sannitica, allorquando in questa zona sorgevano villaggi sparsi -“vici”- come testimoniano i numerosi ritrovamenti archeologici. Secondo la studiosa Carla Marcato il nome deriva da i “tres vicos” tipici delle fondazioni medioevali. Il primo riferimento sicuro sulla esistenza di un centro chiamato Trivici si rileva da una satira del poeta Orazio, che descrive un viaggio da Roma a Brindisi dove vengono forniti numerosi particolari sul pernottamento in una villa vicina Trivici nella quale il poeta attese invano l’arrivo di una ragazza per trascorrere insieme la notte. Trevico nel Medioevo fu una potente roccaforte posta a guardia di una vasta baronia sulla quale ebbe, per un lungo periodo, il primato politico e amministrativo. Gli ultimi signori di Trevico furono i Loffredo, i quali lo ricevettero da Elvira, figlia del gran capitano spagnolo Consalvo Fernandez de Cordova, nel 1515, e lo tennero fino all’abolizione dei diritti feudali. Nel paese sono conservati, ancora intatti, i segni del suo passato. All’ingresso di via Roma è visibile in tutta la sua imponenza, la Porta Iacovella o Port’Alba, costruita nel 1578 come ingresso a oriente, caratterizzata da un arco a tutto sesto retto da due pilastri in pietra viva. Nella parte più alta del centro storico è possibile ammirare la cinta muraria, una torre cilindrica e altri ruderi di un possente Castello, del quale ancora oggi non è certa l’epoca della costruzione, alcuni studiosi lo fanno risalire all’epoca dei normanni. Poco distante dal Castello è la Chiesa dell’Assunta o della Madonna della Libera, il cui ingresso fu ricavato in una torre campanaria quadrangolare. Al suo interno sono conservati un fonte battesimale in pietra, del 1618, un coro ligneo del Settecento e una nicchia rivestita in marmo, del XV secolo. Di notevole importanza è la Cripta della Cattedrale che in origine dovette essere il primo tempio dove i cristiani della zona pregavano. Ha una pianta centrale, e le pareti sono quasi interamente affrescate: sul lato destro dell’ingresso, dopo aver superato un elegante portale gotico in pietra locale che porta la data 1472, MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Sulla via dei pellegrini Trevico, Ruderi del Castello, sullo sfondo la Stazione metereologica si può ammirare un trittico affrescato raffigurante San Domenico, Santa Caterina e alcuni Membri incappucciati di una Congrega del luogo . Altri edifici da segnalare sono la Chiesa di San Rocco, il Monumento ai Caduti, e il Palazzo Petrilli - con una caratteristica torre angolare - e Palazzo Calabrese. Da Trevico, per la sua posizione di osservatorio privilegiato su numerose vallate e centri abitati, è possibile spaziare con lo sguardo su vastissimi orizzonti, fino a comprendere gran parte della Puglia, del Molise, della Campania e della Lucania. (M.M.) Fagioli bianchi della Baronia il prodotto tipico C trevico, chiesa di san rocco oltivato sin dall’antichità in molte regioni d’Italia, il fagiolo fu a lungo considerato cibo rustico per contadini. Questa specie antica, nota anche a Greci e Romani, è da identificare con i fagioli dall’occhio originari delle regioni tropicali dell’Africa e dell’Asia. Le numerose varietà di fagioli attualmente in commercio sono di provenienza americana e si diffusero nel XVI secolo. Oltre ai borlotti e ai cannellini di importante diffusione, esistono numerose altre varietà di rilevanza solo locale. E’ il caso dei fagioli bianchi della Baronia di cui esistono due varianti, una dal seme reniforme simile al cannellino ma leggermente più schiacciato, l’altra dai semi piccoli e tondi, chiamati anche quarantini, perché vengono fuori dopo 40 giorni dalla messa a dimora. Ambedue sono teneri e saporiti e, se freschi, richiedono tempi brevissimi di cottura. 67 Sfogliata classica napoletana con patate e funghi di bosco in salsa di tartufo Pancotto arianese con cicoriette selvatiche e patate con lardo del territorio Zuppa di fagioli e castagne con tagliolini in grano saraceno Paccheri con patate e broccoli, aglio, olio e peperoncino in colatura di alici Baccalà al vapore in olio di Ravece con pinoli tostati e anelletti di cipolla in crosta di mais Millefoglie scomposta con crema di ricotta di bufala e castagne Degustazione di vini dell’Irpinia A persona euro 46.00 vini inclusi 68 Sinfonia della cultura contadina S edetevi fiduciosi, questo baluardo dei sapori irpini merita una visita più che attenta. E la cucina della benemerita famiglia Ventre vi aiuterà nel compito, costringendovi amorevolmente a non distogliere le pupille e le papille da piatti che rappresentano l’apologia della tipicità e la quintessenza della genuinità. di una delle aree irpine più legate alla propria storia e alle proprie consuetudini. E se per il menu della memoria e delle feste l’entrée tiene conto della lezione barocca napoletana con la sfogliata di patate e funghi (ma questi ultimi con la inebriante salsa di tartufo che li accompagna ed esalta, sono ovviamente e orgogliosamente locali) con gli antipasti siamo già in piena irpinitudine, con una ricetta povera e saporitissima come il pancotto arianese cui le cicoriette selvatiche e il lardo locale regalano un surplus di gusto perduto e ritrovato. La zuppa di fagioli e castagne con tagliolini di mi) si cucina e si onora il baccalà, che oltre a essere un pesce è anche nordico: Guglielmo Ventre in quest’occasione lo propone al vapore ma accompagnato da un’altra delle meraviglie stavolta autenticamente irpine, ovvero il luminoso, sensoso e sensuale olio di Ravece. E sul dessert la pasticceria non rinuncia al colpo d’ala Guglielmo Ventre della rivisitazione, con la millefoglie grano saraceno sono un’altra sin- scomposta alla crema di ricotta e fonia d’uno spartito gastronomico castagne. Irpinia vuole ovviamente contadino che viene da lontano, dire anche vino, e qui i principamentre nel secondo “primo”, i li Taurasi e Aglianico li troverete paccheri con patate e broccoli, la tutti (nel caso dell’Aglianico, pure salernitana colatura di alici è lo quello del vicino e concorrenteVulstruggente sogno esotico di una ture): tutte occasioni per scoprire cultura che, cresciuta lontano dal la carta a sorpresa che Guglielmo mare e dalla costa, ne ha sempre Ventre gioca a fine pasto, e che è subito il misterioso e leggendario una carta dei formaggi di quelle fascino. A proposito, l’Irpinia è an- che non s’incontrano spesso a Sud che l’area dove con più passione e di Roma: dal Bagoss al Canestravarianti (Portogallo a parte, che di to v’è elencata (e descritta) ogni ricette ne conta 365, una per ogni delizia vaccina, ovina e caprina giorno dell’anno, e quando arriva dell’Italia che resiste (alla massil’anno bisestile sì che sono proble- ficazione dei saperi e dei sapori). www.ristorantelapignata.it MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA La Pignata Ariano Irpino - Avellino indirizzo viale dei Tigli, 7 Ariano Irpino (AV) telefono 0825 872571-0825 872355 chiusura martedì carte di credito tutte Percorrere l’autostrada A16 NapoliBari, uscire al casello di Grottaminarda, proseguire in direzione Ariano Irpino. 69 70 Ariano Irpino A riano Irpino ha antiche origini, sorge molto probabilmente nell’Alto medioevo. Rappresenta una delle cittadine più ricche di storia e di monumenti dell’Irpinia. Nella zona i primi insediamenti individuati sono la necropoli preistorica di La Starza, dalla quale si sono rinvenuti notevoli ceramiche del Neolitico, e il centro italico e poi romanico di Aequum Tuticum, che sorgeva a qualche chilometro dall’attuale abitato. L’origine del nome Ariano deriva, secondo alcuni studiosi, dal latino ab Ara Iani, che la lega ad un santuario anticamente situato sulla collina in onore di Giano. Altre ipotesi fanno invece supporre che il suo nome de- Ariano Irpino, particolare della facciata della Cattedrale ariano irpino, il castello e la villa comunale rivi dalla presenza nella zona di un fundus arianus. Si ipotizza che uno dei suoi primi feudatari sia stato uno dei dodici conti normanni tra i quali fu divisa nel 1042 la Puglia. Nel 1139 Ariano fu cinta d’assedio, da Ruggero il Normanno con esito negativo, questi non soddisfatto ci riprovò una seconda volta, nel 1140, riuscendo nella sua impresa, una volta assediata, cominciò a promulgare le sue prime leggi davanti al parlamento. Vari furono i tentativi di assedio nel corso dei secoli: nel 1255 dai saraceni di Manfredi, fu conquistata con l’inganno e venne devastata e saccheggiata, dagli Angioini e dagli Aragonesi. Ariano ha vissuto periodi di grande splendore, in un documento del Consiglio di Castiglia al tempo di Filippo IV di Spagna e di Napoli, si descrive Ariano come “molto popolosa, unica nella Provincia del Principato Ultra e di grande importanza per il Regno di Napoli, con piazza d’armi e con un antico castello non facile da espugnare, munito di torri di avvistamento, fossati a secco, mura e fortini, che non serve soltanto da difesa a quella provincia, ma soprattutto è il baluardo del Regno”. E’ stata più volta devastata dai terremoti, con danni gravissimi alla città e ai suoi monumenti. I restauri successivi ai terremoti sono particolarmente evidenti nella Cattedrale di Ariano, dedicata all’Assunta, sorta in età longobarda sui ruderi del tempio di Apollo, con un campanile molto più recente che si affaccia sulla città. La parte più antica dell’edificio attuale è la facciata cinquecentesca, iniziata nel 1502 per volere del vescovo Hippolitis e ultimata dal suo successore Carafa. Anche i portali e gli altorilievi della Vergine (al centro), di Sant’Ottone patrono di Ariano (a sinistra) e di Sant’Elziario (destra), risalgono allo stesso periodo. Il timpano è stato abbassato dopo il terremoto del 1732. Il suo interno è costituito da tre navate in stile barocco, mentre il fonte battesimale è del 1070. Tra gli altri monumenti degni di nota ad Ariano è la Collegiata di San Michele Arcangelo, nella parte bassa del centro. Ancora particolarmente suggestivo è il Castello situato nel punto più alto del paese, con le sue torri tronco-coniche in stile aragonese costruite nel Cinquecento. Dagli scavi effettuati sono state riportate alla luce mura dei periodi longobardo e normanno. Nel centro storico una visita va fatta MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Dalla Collegiata al Castello ariano irpino, centro storico ai quattro musei presenti nel territorio: Museo archeologico, all’interno del quale sono esposte ceramiche, oggetti in bronzo, monili in ambra e argento, cippi e monete degli insediamenti preistorici di Casalbore e La Starza e di quello romano di Aeequum Tuticum; il Museo diocesano con esposti dipinti, paramenti, oggetti sacri e reliquiari tra cui di particolare rilevanza risulta quello del Vannini, datato al 1452, e il coro ligneo di Fra Tommaso da Vasto del XVI secolo; il Museo Giuseppina Arcucci, nel convento delle suore dello Spirito Santo, all’interno del quale sono conservati documenti, oggetti sacri e opere d’arte legate alla presenza delle religiose cassinesi ad Ariano; il Museo della Ceramica, infine ma non ultimo, dove è possibile ammirare opere di artisti e artigiani locali che vanno dal Cinquecento fino ai giorni nostri, e importanti documenti d’archivio relativi alla storica locale. (M. M.) Olio di Ravece il prodotto tipico I Ariano Irpino, Cattedrale, altorilievo della madonna assunta n Irpinia, sulle colline dell’Ufita, sin dall’epoca angioina (XIII e XIV sec.) si affermò la coltivazione dell’olivo, consolidatasi durante la dominazione spagnola e giunta al massimo sviluppo nel XIX secolo, favorita dall’ambiente pedoclimatico dell’Irpinia con terreni ricchi di sedimenti vulcanici e un clima influenzato dalla dorsale appenninica che attraversa l’intero territorio. Ma la peculiarità dell’olivicoltura irpina è data da una oliva di grande pregio, la Ravece, nota anche come Curatone e Olivona. E’ una varietà rustica, molto apprezzata per la produttività costante e per l’elevata qualità dell’olio, sebbene la resa sia piuttosto bassa. Il colore dell’olio di Ravece è verde, se giovane, oppure giallo paglierino, il profumo è fruttato con sentori di pomodoro, armonico, con intense ma gradevoli punte di amaro e piccante. 71 Lenticchie con crema di pecorino e tartufo irpino Minestra di Natale con stracciatella d’uovo al formaggio, pinoli e uva passa La scarola ’mbuttunata con gli spaghettoni Faraona con castagne del prete e misto di funghi Struffoli morbidi di ricotta, miele e salsa di agrumi Fiano A Casa I l suo piatto delle origini, la «maialata» (filetto di maiale panato, cotto in olio, poi disossato e ri-cotto al forno con burro) è finito anche al «San Domenico» di New York, dove Tony May l’ha messo in carta dopo la tournée statunitense di Giovanni Mariconda. Ma intanto la cucina di «Taberna Vulgi» continua a crescere, ragion per cui si rende doverosa una sosta a Santo Stefano del Sole, Campania profonda, Irpinia confinante con il Salernitano, e dalla vocazione fino a poco tempo fa assai contadina e poco turistica: il locale di Mariconda, nato — come indica il nome — per soddisfare gli appetiti della plebe, si è nel giro di poche stagioni evoluto in luogo di elezione per buongustai a caccia di emozioni, e se Santo Stefano è ora un nome che compare nell’agenda dei gourmet non solo campani il merito è appunto di Giovanni, Giovanni Mariconda che oltre a raffinare continuamente le proprie proposte, è appassionato e sincero testimonial delle eccellenze locali, sempre pronto a dare una mano (e a volte tutt’e due) ai colleghi ristoratori vicini. Le sale della “Taberna” sono adesso tre (più il salottino da avana e distillati con fornita gastrobiblioteca) e l’ultima nata è la più suggestiva, con ampi finestroni affacciati sul verde, centritavola fantasiosi (sassi e fil di ferro a citare un viaggio di studio nei Paesi Baschi), carta dei vini ad ampio Aglianico e Piedirosso EME’ I Capitani Taberna Vulgi indirizzo contrada Casino, 6 - Località S. Pietro - Santo Stefano del Sole (AV) telefono 0825 673664 chiusura domenica sera, lunedì e martedì carte di credito tutte A persona euro 42.00 Percorrere l’autostrada A16 Napoli-Bari, uscire al casello Avellino ovest. Seguire la segnaletica del raccordo autostradale AV-SA. All’altezza dello svincolo per Salerno, uscire ad Atripalda. Imboccare la Strada Provinciale 5 “Turci” e seguire le indicazioni per S. Stefano del Sole. vini inclusi 72 Un giramondo irpino di talento spettro nazionale e approfondita attenzione alle etichette irpine di pregio, e formaggi del territorio (podolico, pecorino «di grotta» e Carmasciano i vanti della casa). Ma, ora che s’è scoperto creativo, Mariconda non arretra di fronte alle sperimentazioni, dall’antipasto al dessert: a Helsinki, durante i recenti Mondiali di atletica, propose Maalaisleipää peltomiehen tapaan e Liköörihedelmäkakku, ovvero «scomposta di fresella» e «zuppa inglese in trasparenza». Ma per il menu della memoria Giovanni ha attinto a piene mani ai ricordi di territorio e di famiglia, ai giorni in cui le feste si “santificavano” gastronomicamente con le lenticchie, il pecorino e il tartufo ovviamente irpino, con la “minestra di Natale” arricchita dalla stracciatella d’uovo, con la scarola ‘mbuttunata e con un piatto ricco e raro come la faraona con le castagne del prete. MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Taberna Vulgi Santo Stefano del Sole 73 74 Serino, Canale di Serino e Borgo S. Stefano S erino è uno dei comuni più estesi della provincia di Avellino, secondo lo storico Francesco Scandone, il suo nome ha antichissime origini e deriverebbe dall’osco “sarino” che vuol dire “chiaro”. L’imperatore Claudio tra il 54 e il 41 a.C. fece costruire un acquedotto che da Serino arrivava fino alla “Piscina Mirabile” presso Miseno (Na), dove i romani, per l’approvvigionamento idrico della flotta militare, scavarono nel tufo della collina di Bacoli un grandioso serbatoio. Da allora le acque sorgive di Serino hanno sempre servito Napoli. Nel 1885 fu costruito un nuovo acquedotto ampliato poi nel 1924, che utilizza le sorgenti Urciuoli, Pelosi, Acquara. Di notevole interesse è l’Area Archeologica in località Ogliara dove è possibile visitare la Civita (un fortilizio longobardo) e avanzi per lungo tempo ritenuti i resti dell’antica Sabatia. Serino, dettaglio di un affresco nel Convento di San Francesco Serino,Crocifissione, olio su tela di Angelo Solimena, 1705 Non può mancare una visita a Canale di Serino, frazione di Serino, che ha dato i natali a due personalità di spicco della pittura del 700 a Napoli, Francesco ed Angelo Solimena. Padre del pittore Francesco Solimena, Angelo, detto l’Abate Ciccio (Canale di Serino 1657- Nocera de Pagani 1747), risulta essere una principali figure di artisti che hanno contribuito allo sviluppo del barocco e del roccocò, divenendo uno dei più famosi pittori della sua epoca. Originario della provincia di Avellino, vive per gran parte della sua vita a Nocera de’ Pagani (oggi Nocera Inferiore) dove sposa Marta Grisignano. Si rifugia a Canale di Serino per sottrarsi all’epidemia di peste da cui è invasa Nocera. Fu allievo del solofrano Francesco Guarino, che era già affermato come pittore alla corte di Ferdinando III Orsini, principe di Solofra e duca di Gravina.Tra il 1657 e gli inizi del 1660 Angelo eseguì 21 tele per il soffitto del Santuario di Materdomini di Nocera Superiore, mentre nel 1662 si trasferì definitivamente a Nocera e aprì bottega di pittore “al borgo”. Nel 1667 fu chiamato a completare la decorazione della chiesa del Monte dei Morti, tomba della famiglia Orsini. Le sue prime opere documentate sono la Pentecoste, eseguita nel 1654 per la Collegiata di San Michele a Solofra e i dipinti coevi per il soffitto della Chiesa di Sant’Andrea a Sant’Agata, allora appartenente al Comune di Serino. Angelo Solimena ha lasciato tracce della sua attività anche nella sua Serino. Varie testimonianze sono state raccolte sulla sua attività pittorica negli anni tra il 1655 e il 1657. Dipinge una Madonna delle anime Purganti con S. Antonio e S. Gaetano per la chiesa del Santissimo Corpo di Cristo in S. Sossio di Serino e per la stessa ha completato nel 1655 una Madonna col Bambino, S. Domenico, S.Gaetano e S. Matteo, iniziata da Francesco Guarino, del quale è la figura di S. Matteo, ancora una Sacra Famiglia, firmata e datata 1682, nella chiesa di S. Michele di Serino e il Martirio di San Lorenzo , firmato e datato 1704 nella chiesa parrocchiale di Canale sua città natale. il prodotto tipico MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Gli affreschi di Angelo Solimena borgo s. stefano, chiesa di s.vito Caratteristico da visitare è anche il borgo di Santo Stefano, così chiamato fino al 1863 per la devozione al culto del patrono del luogo. Tra gli edifici meritevoli di visita sono la Chiesa di San Giovanni, dalle linee classicheggianti, caratterizzata da una curiosa bifora inserita all’interno nel timpano, che svolge funzioni di torre campanaria. Di particolare interesse sono anche le due finestre in stile barocco che ornano la Chiesa di San Vito, detta anche di Santo Stefano, ornata da un orologio piccolo collocato nella parte superiore dell’edificio, concluso da due campane sospese a una semplice intelaiatura di ferro. Sulle origini del paese non si conosce molto, i pochi ritrovamenti archeologici testimoniano una scarsa frequentazione del luogo. In epoca romana, il territorio dell’odierno Santo Stefano rientrava nel comprensorio dell’antica Abellinum, l’attuale Atripalda. (M. M.) Castagna di Serino a diffusione di una delle migliori castagne campane sui rilievi picentini e del serinese è da attribuire alle cure dei frati dell’abbazia di Cava dei Tirreni che si dedicarono tra l’XI e il XII secolo al miglioramento dei castagneti presenti sulle loro proprietà, come documentano gli antichi manoscritti tramandati dalla paziente opera dei monaci Benedettini. Nella denominazione «Castagna di Serino» si comprendono due cultivar locali, la Montemarano e la Verdole, la prima è considerata tra le migliori varietà italiane ed è caratterizzata dalle dimensioni medio-grosse dei frutti, il colore bianco-latte del seme e la polpa dolce e croccante. La raccolta avviene intorno alla metà di ottobre, metà del prodotto viene destinato al mercato internazionale, il resto è ripartito tra consumo fresco e industrie di trasformazione. L 75 Pan’ cuott’ cu fasul’ e friariell’ (pancotto di cime di rapa su passatina di fagioli della regina e lardo di Faicchio, olio al rosmarino) Past’ e patan’ (rivisitazione della pasta e patate con colatura di alici) Elogio al “pelatiello” (maiale nero casertano) Piccola pasticceria Salsa di cioccolato calda Gelato al torrone di San Marco dei Cavoti “LA” Kolsch birra artigianale di Faicchio o Asprinio di Aversa I Borboni Aglianico Azienda Cinquelance o Aglianico I Pentri “LA” dark strong ale birra artigianale di Faicchio o Nocillo “‘E Curti” A persona euro 45.00 Fuochi d’artificio nel cuore del Sannio F uochi d’artificio a Puglianello: ogni visita al “Foro dei Baroni” si risolve in pirotecnia di sapori, fantasmagoria di accostamenti, festa per occhi e palato. A cominciare dal benvenuto, con Raffaele D’Addio in cucina e con il suo braccio destro Pasquale Marzano in sala (e non solo) sai già che non ti annoierai: varcato il discreto ingresso nella piazzetta storica del piccolo paese sannita, ti troverai in due salette ad archi con non più di 30 coperti, pronto a partecipare a un esaltante show del gusto, a cominciare dai pani e dai grissini che cambiano impasto e foggia a ogni visita (allo strutto, alle nocciole, baguette, girelle ai semi di papavero...). Raffaele, ex allievo del “magister” Antonello Colonna, è un giovane chef di galoppante fantasia, capace di preparare cose come il piccio- zio stampa) ecco il pancotto di cime di rapa su passatina di fagioli (quelli detti «della regina») e una nuvola di lardo di Faicchio; la pasta con le patate, piatto che più povero e terragno non si può, si avvale delle inedite suggestioni marine offerte dalla colatura di alici, e ai secondi scatta l’elogio del Raffaele D’Addio «pelatiello»: trattasi in realtà ne in doppio gioco di cotture: del maiale nero tipico del Cail petto (sotto vuoto) su insa- sertano, ma che anche il Sanlatina di carciofi all’aceto di nio ha da tempo adottato con mele, e la coscetta croccante straordinari risultati. Ai dolci, il in riduzione di Aglianico. Per posto d’onore spetta al torrone quello che definisce invece «il di San Marco dei Cavoti, altra mio racconto sul nostro terri- gloria sannita qui riproposto torio», invece, si è attenuto a sotto forma di gelato: (ve l’ho piatti di maggior tradizione, detto, con la cucina di D’Addio pur se amorevolmente rivisi- le sorprese non finiscono mai. tati in un’ottica che scarta le E con Pasquale continuano tentazioni modaliole per an- anche quelle in bicchiere: se dare al cuore della qualità per pensate che la birra artigianaesaltarla: è allora (stuzzichino le sia solo un affare di fratacdi benvenuto a parte, su cui chioni nordici, quella di Faicchio domina un impenetrabile silen- forse vi farà cambiare idea. www.ilforodeibaroni.it MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Il Foro dei Baroni Puglianello - Benevento indirizzo piazza Chiesa, 6 Puglianello (BN) telefono 0824 946033 chiusura lunedì. Aperto solo la sera. Sabato, domenica e festività anche a pranzo. carte di credito tutte vini inclusi 76 Percorrere la superstrada CasertaTelese: uscita S. Salvatore, Puglianello, Amorosi. 77 78 Puglianello e Telese P uglianello è un centro agricolo situato presso la sponda sinistra del fiume Volturno nella media valle Telesina. Il nome della valle deriva dall’antica città osco-sannita di Telesia, divenuta poi colonia romana. Il toponimo di Puglianello, secondo alcuni studiosi, deriva dal diminutivo Pugliano, una località oggi appartenente al vicino comune di San Salvatore Telesino, sul cui territorio si trovano i resti di Telesia. Con molta probabilità i puglianesi si sarebbero trasferiti presso il Volturno in seguito ai saccheggi e alle ripetute distruzioni cui l’antica Telesia venne sottoposta nel corso dei secoli dando vita ad una piccola Pugliano. Dal ritrovamento di una lapide nel territorio di San Salvatore Telesino, si evince che Pugliano era una colonia romana con a capo la nobile famiglia Pullia. In epoca longobarda la zona cominciò a svilupparsi vista la presenza di numerosi casali, corti, masserie, dotate anche di luoghi di preghiera come chiese e piccole edicole, attestata in un documento dell’800. Il nucleo del centro abitato è costituito dal Castello medioevale e dalla parrocchiale. Il Castello, oggi raffigurato nello stemma comunale, pur essendo stato rimaneggiato più volte, conserva interessanti elementi dell’impianto originale: la pianta quadrangolare con quattro torri cilindriche e due accessi frontali ad un ampio cortile interno. Inesistenti i barbacani, le strutture di rinforzo con feritoie in uso nel XII secolo, con molta probabilità crollati in seguito a un terremoto. Degne di nota le due cappelle che testimoniano il forte sen- puglianello, il castello timento religioso vivo in questo territorio; la Cappella della Madonna del Carmine, realizzata nel 1871, al suo interno è una raffigurazione della Madonna, esempio pregevole di pittura su maiolica di scuola cerretese e la Cappella di San Rocco citata in un atto del 1596 in cui la si indica edificata vicino al castello. Le edicole votive si rifanno alla scuola artistica della ceramica cerretese. Da Puglianello passiamo per Telese e facciamo una sosta alle sue terme. Le acque di Telese hanno una tradizione antichissima, sono tra le più note della Campania e di tutto il Mezzogiorno. Le sorgenti sulfuree comparvero dopo il terremoto del 1349 che causò la fuoriuscita di acque minerali. Ricche di sali minerali, di anidride carbonica e di idrogeno solforato, le acque si sono rivelate utilissime per la cura delle malattie della pelle, dell’apparato digerente, dell’apparato respiratorio e dei reumatismi. Il loro utilizzo per scopi curativi risale probabilmente già all’epoca romana. Il luogo dove oggi sorge Telese era abitato già al tempo dei sanniti, con il nome di Tulosiom, anche se sono poche le tracce che permettono agli archeologi di ricostruire quel periodo. Numerosi sono invece i resti monumentali della Telese romana, difesa da una poderosa cinta di mura, che sorgeva a metà strada tra la moderna Telese e San Salvatore Telesino. La prima volta che si ha menzione di Telese è con Tito Livio, il quale narra che questa fu occupata da Annibale durante la seconda guerra punica. Fu gastaldato longobardo alle dipendenze del Ducato di Benevento nell’Alto Medioevo, e venne saccheggiata due volte dai Saraceni di Fondi (nell’847 e nel 863). Distrutta e ricostruita con i normanni nell’XI secolo, conobbe una seconda epoca di splendore. Le rovine della città antica sono visibili nella campagna tra San Salvatore Telesino e Telese Terme. L’attività termale di Telese si svolge in gran parte nello stabilimento che si trova in Piazza Minieri, che è il nome della famiglia che alla fine dell’800 si prodigò per MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Il borgo e le terme telese, il lago far conoscere l’attività termale locale. I reparti di cura sono immersi in un parco di alberi secolari tra i più estesi d’Italia ove si trovano i bacini delle sorgenti. Nel “Parco delle Terme” ci sono anche due piscine di acqua termale sorgiva, la piscina “Goccioloni e la piscina “Pera”, una terza piscina termale si trova nei reparti termali del Grand Hotel Telese,. La dotazione del Parco delle Terme si completa quindi con alcune strutture ricreative, tra cui un parco giochi per bambini, con uno stabilimento per l’imbottigliamento dell’acqua e con un centro congressi di circa 500 posti. (M. M.) Torrone di San Marco dei Cavoti il piatto tipico A telese, le terme San Marco dei Cavoti sin dal Settecento era presente la produzione di torroni a base di miele, mandorle e albume d’uovo, consolidatasi all’epoca di Ferdinando I di Borbone che, ghiotto di questo dolce, ordinò che ne fosse realizzato un tipo particolare dedicato a sua moglie Maria Carolina d’Austria, chiamato appunto Torrone della Regina. Quando nell’Ottocento approdò a Napoli il cioccolato, conquistando ogni classe sociale, anche la provincia fu contagiata e in tutta la Campania si diffuse la passione per la nuova delizia. Nel Beneventano, dove già esisteva una lunga tradizione del torrone, fu del tutto naturale abbinare le due specialità, furono così inventati i celebri Croccantini, chiamati anche Baci ed altre specialità che rallegrano le tavole natalizie di tutto il mondo. 79 Frennule alla Falanghina Sformatino di funghi al tartufo nero su fonduta allo zafferano Melanzana ripiena di ricotta e polpa di mela annurca Pizzette di patate con verdure del luogo e mozzarella Farro e verdure - Salumi e caciocavallo del Sannio Montesole Greco Brut Tagliolini con ragù di pomodorini e insalata di frutta secca Ravioli di ricotta e mozzarella con ragù di pomodorini e guanciale Aglianico Delius Cantina del Taburno o Cesco di Nece Aglianico Mustilli Lasagnetta di maiale con caciocavallo e radicchio accarezzata da patate con pesto di olive nere Montesole Taurasi Sformatino di babà con crema amarena, al caffè o al cioccolato fondente Rivisitazione del tiramisù senza caffè Millefoglie di panettone con crema di torrone di Benevento e cioccolata shakerata Montesole Colli Irpini A persona euro 30.00 vini inclusi 80 Il sogno realizzato di Ivana e Michele R istorante, agriturismo, osteria? Meglio definirla un’ospitale casetta di campagna curata sin nei nei minimi particolari, dove all’interno troverai oltre all’ottima cucina di Ivana anche la grande passione musicale di Michele, collezionista dei Beatles e di Lucio Battisti, una delle cui più famose canzoni dà appunto il nome al locale. Due sale dove si pranza o cena, più saletta destinata alla lettura o alla degustazione di sigari cubani e altro (e attenti a entusiasmarvi davanti all’autografo di Paul McCartney che Michele vi mostrerà con orgoglio).Tra un portata e l’altra, dal terrazzino puoi ammirare uno splendido panorama sannita con vista su Sant’Agata de’Goti. Questo il piccolo grande sogno (realizzato in quel di Traugnano) di Ivana e Michele, giovane coppia partenopeosannita innamorata persa della violi, gnocchi, fusilli, cavatelli lunghi e secondi piatti a base di suino locale con citazione speciale per la lasagnetta di maiale. Nella sezione dessert si fanno notare la rivisitazione del tiramisu’ (senza caffè), gli sformatini di baba’ (al gusto di cioccolato fondente, di crema amarena, di caffè) senza dimenticare l’ormai classica torta Ivana Rizzotti alla ricotta e pere. Ma Michele gastronomia, prima come curiosi e Ivana (sempre accompagnati buongustai, poi come agguerriti dalla piccola Giuliana, prometmilitanti di associazioni cultural- tente gourmet in erba) sono culinarie come il Club del Criti- anche due globetrotter del gusto: co Maccheronico e infine come e dai loro viaggi intorno al piacreatori in proprio: la cucina di neta dei sapori lui torna sempre Ivana offre con fantasia (senza con scorte di vini extraregionali stravolgerli) i grandi prodotti della ed extranazionali da affiancare terra sannita, dai caprini ai cacio- alla ricca selezione sannita (eccavalli, dai salumi all’olio al maiale cellente anche il vino di famiglia paesano alla mela annurca.Tra gli proveniente dalle colline di Suviaantipasti si segnalano le frittatine, no): ecco i grandi vini di Borgogli sformatini al tartufo, i salumi gna ma anche il raro Pelaverga di Morcone, il farro e le verdure. piemontese con cui brindare alla Pasta fatta in casa: tagliolini, ra- tenacia dei due «giardinieri». www.santagatadeigoti.net MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA I Giardini di Marzo Contrada Traugnano - Sant’Agata de’ Goti - Benevento indirizzo Contrada Traugnano 82019 Sant’Agata de’ Goti (BN) telefono 333 9191858 - 339 672100 chiusura sempre aperto solo su prenotazione carte di credito no Percorrere l’autostrada A1 e uscire a Caserta sud,seguire le indicazioni per Marcianise.Arrivati a Maddaloni, proseguire in direzione Amorosi, uscire a Sant’Agata de’ Goti, attraversarla e imboccare la SS 33 per Durazzano, fino a raggiungere ContradaTraugnano. 81 82 Sant’Agata de’ Goti S ant’Agata de’ Goti è situata nella zona sudoccidentale della provincia di Benevento, ed occupa un territorio composto in parte da colline e montagne. La data di fondazione del centro, non è nota, ma si sa per certo che durante la seconda guerra sannitica, l’area fortificata venne assediata dai Romani. Il centro storico di Sant’Agata sorge su una rocca di tufo, molto suggestivo il paesaggio caratterizzato dall’abbondanza del verde e da piccoli ruscelli. Il nucleo abitato ha una conformazione della pianta a “spina di pesce” distribuito all’interno di una ellisse, caratterizzato da una serie di stradine trasversali. Il tipo di architettura che è possibile ammirare è prevalentemente in tufo, materiale di cui è ricco il sottosuolo del paese, attraversato da un sistema di grotte e cunicoli che formano una città sotterranea collegata al castello. Ci sono dei tratti in cui le abitazioni si sovrappongono al perimetro delle mura, che in origine dovevano avere tre porte d’accesso tra cui la Porta dei Ferrari e la Porta di via Bocca, della quale oggi resta una gradinata e un varco rudimentale.Vari sono gli slarghi che si aprono nel dedalo delle viuzze, tutti di forma irregolare. La piazza principale è sant’agata de’ goti, cripta della cattedrale sant’agata de’ goti, scorcio della cittadina quella collegata al Castello, situato a sud dell’area urbana. Edificio imponente ma molto stratificato, probabilmente nato in epoca normanna o forse ristrutturato sulla base di una fortezza longobarda. Circondato un tempo da un ampio parco che si estendeva fino a San Giovanni, attualmente risulta essere separato dalla cittadina da un boschetto municipale, un giardino pubblico con pini impiantati nell’Ottocento. All’interno del Castello si possono ammirare, su alcuni soffitti, i dipinti (appena distinguibili) fatti eseguire dopo il 1696 dal pittore Tommaso Giaquinto su commissione del feudatario Marzio Carafa III. Degno di nota l’affresco del Giaquinto eseguito nel 1710 che raffigura Diana e Atteone. Sempre dal Castello dipendeva anche una Cappella comitale, all’interno della quale furono custodite dall’XI secolo le reliquie di San Menna. Tra l’altro alcuni ritengono che questa cappella corrisponda all’odierna Chiesa di San Menna, che sorge nella stessa piazza, di fronte al Castello. Costruita nel 1110, fu consacrata dal Papa Pasquale II, al suo interno sono conservate una lastra tombale di Antonio De Tramonto, del 1361, e alcuni reperti dell’età longobarda e romano-gota. Il suo impianto è a tre navate, con tre absidi , l’area del presbiterio è sopraelevata e il pavimento è in gran parte ricoperto da un mosaico cosmatesco, derivato da quello desideriano e bizantino di Montecassino. Di notevole interesse è il portale, sorretto da due elefantini di gusto orientaleggiante, con una iscrizione sormontata da un fregio composto da un girale d’acanto che esce dalla bocca di due pesci. Interessanti sono anche i Palazzi nobiliari, Palazzo Carbone, Palazzo Picone e Palazzo Viscardi, costruiti in seguito ad una parziale demolizione ottocentesca del tessuto urbano medioevale. La più importante testimonianza architettonica di età longobarda a Sant’Agata è la Chiesa di Sant’Angelo in Munculanis. Il suo impianto è basilicale a tre navate prive di transetto. E’ possibile riscontrare tracce sia del antico pavimento in pietra che del pavimento settecentesco in cotto, visibili anche le antiche decorazioni pittoriche dell’abside, demolita probabilmente per fare spazio alla stradina retrostante. Si possono ammirare nelle murature della navata sei monofore strombate, occluse nel Settecento in seguito alla creazione di una falsa copertura a botte decorata da una pittura di Angelo Mozzillo. Da segnalare anche la ex Chiesa del Carmine, oggi sconsacrata e adibita ad auditorium e spazio espositivo, fondata nell’XI secolo, nel periodo che va dal 1728 al 1755 questa chiesa ha svolto la funzione di Cattedrale mentre nell’Ottocento ospitò la parrocchia di Sant’Antonio poi convertita in Congregazione laica sotto il titolo dei Sette Dolori. Altri edifici degni comunque di nota sono: la Chiesa di Santa Ma- sant’agata de’ goti, chiesa di san menna ria di Costantinopoli, con una sontuosa facciata tipica del tardo Rococò napoletano, il Convento del Santissimo Redentore, tenuto dalle Liguorine, che ricordano il più famoso vescovo di Sant’Agata,Alfonso Maria dei Liguori, che resse la diocesi nel 1775. Non si può non fare una visita alla Cattedrale di Sant’Agata, sede del Vescovato e del Seminario. L’originaria fabbrica risale al X secolo, si sviluppava su un impianto longitudinale, con abside ad est, diviso in tre navate da due serie di otto colonne. Successivamente alcuni ampliamenti distrussero l’area absidale dilatando le cappelle e inglo- bando le colonne all’interno dei pilastri. Sulla facciata erano tre portali, di cui quello principale molto influenzato da quello della chiesa di San Menna. La pavimentazione era a mosaico decorato con motivi geometrici, oggi rimasto solo in una parte del transetto della chiesa. Al di sotto dell’area presbiteriale si trova la cripta romanica, restaurata diverse volte. La Cattedrale fu danneggiata dal terremoto del 1456. Il campanile crollò nel 1614, e fu ricostruito per volere del vescovo Ettore Diotallevi il quale commissionò anche le due statue lignee dei protettori del paese, Sant’Agata e Santo Stefano. Nel 1718 la Cattedrale si arricchì di una scultura di Giovan Battista Antonini, manierista berniniano, autore delle statue del colonnato di San Pietro a Roma. Caratteristico il soffitto, costruito nel 1748, intagliato da Mastianello Bellotto e dipinto da Giovanni Cosenza. Il completamento dell’atrio della Cattedrale, iniziato con Alfonso Maria dei Liguori, fu portato a termine dal vescovo Paolo Pazzuoli tra il 1792 e il 1799. (M.M.) MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA La Perla del Sannio Mela Annurca il prodotto tipico O riginaria dell’agro puteolano, la mela annurca è il fiore all’occhiello della melicoltura campana, definita regina delle mele è riconoscibile in alcuni dipinti pompeiani e ercolanesi. Così la descriveva G. B. Della Porta (1535-1615): «Le mele che si producono a Pozzuoli hanno la corteccia tutta rossa, sì da sembrare macchiate di sangue e sono di dolce sapore...volgarmente sono dette Orcole» Plinio infatti le aveva indicate come Mala Orcula perché prodotte a Pozzuoli intorno all’Orco, cioè l’oltretomba, da cui anorcule. La polpa delle annurche è soda, croccante, succosa, aromatica, prerogative che si conservano immutate anche dopo lunga conservazione a temperatura ambiente.Vengono raccolte ancora acerbe e poste a maturazione su letti di paglia dove manualmente vengono rigirate di continuo fino ad assumere la caratteristica colorazione rossa. 83 La ricottina di fuscella e l’insalata di pere, nocciole e caprino Il baccalà di nonna Elvira con il sedano, le noci e l’uva appesa Il cestino di pane raffermo con i fagioli, le castagne e l’olio di frantoio di Ortice La polpetta cacio e uova nella salsa di pomodoro Zuppa di porro con cialde di caciocavallo podalico e funghi spinaruli Cavatielli con il ragù di tracchiulelle e cacioricotta Stracotto di vitello dell’Appennino nell’Aglianico con il tortino di patate di montagna Crema gialla con le amarene quarantine e la sfoglia croccante Piccola pasticceria tradizionale natalizia Coda di volpe La rivolta Novello Primo Fiore Cantina del Taburno Aglianico Santiquaranta Piedirosso Kerres I Pentri Passito ISS I Pentri A persona euro 45.00 vini inclusi 84 Pontelandolfo, tutto il gusto della storia I l titolare è il torreggiante pentro-sannita Gaudenzio Di Mella; ai fornelli c’è sua moglie, la molisana (nata a Toronto) Irene Muccioli, che ha portato in dote un corredo di buoni sapori della sua terra (Molise, non Canada). Il tutto si riflette in un dovizioso antipasto misto dove spiccano, a seconda delle stagioni, i crostini al tartufo e al lardo del Molise (altro che Colonnata più o meno apocrifo!), il quasi violaceo prosciutto del Fortore (in alternativa quello di Pietraroja), il baccalà dedicato alla memoria di «nonna Elvira» servito con il sedano, le noci e l’uva appesa, ricotta e pecorini selezionati con pazienza tra i piccoli produttori della zona, squisite polpette cacio e uova. Set esaltante concluso in bellezza con una zuppa di porro con caciocavallo podolico e rari funghi spinaruli. Si cena (o si pranza) dei prodotti d’eccellenza del Sannio e di tutto l’Appennino: il vitello che, nella versione «stracotto» all’Aglianico domina fra le carni nel periodo invernale, ma anche le castagne, i fagioli, le patate di montagna e l’apprezzatissimo olio di frantoio (varietà Ortice); in caso di neve troverete quasi certamente Irene Muccilli un piatto ipercalorico come la circondati da scaffali colmi di pignata (trattasi del pentolone bottiglie divise per regione; di che sobolle instancabilmente fronte, invece, sono in espo- nei giorni più freddi) con le sizione libri su un solo tema, cotiche di maiale. Ma il suquello appunto dell’eccidio di ino lo troverete di sicuro nei Pontelandolfo, una delle pagine cavatelli tirati a mano con il più nere e censurate dell’Italia ragù di tracchiulelle e cacioriimmediatamente post-unitaria: cotta. Festa di sapori e sapori popolazione massacrata, don- della festa con la crema gialla ne violentate, case bruciate per con le gustosissime amareordine del generale Cialdini e ne «quarantine» e il camino a lungo ignorate dalla storia acceso che riscalda anche il ufficiale. Gaudenzio e Irene cuore. Qui, nella terra dei brisono gli appassionati custodi ganti, il tempo può provare a di quegli eventi lontani, ma so- fermarsi almeno per il tempo prattutto gli ostinati testimonial d’un pranzo. O di una cena. www.ristorantelapignata.com MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA La Pignata Pontelandolfo - Benevento indirizzo via Ferrara, 1 Pontelandolfo (BN) telefono 0824 851635 e 347 8107725 chiusura lunedì carte di credito tutte Percorrere l’autostrada A16 Napoli-Bari (direzione Bari), uscire a Benevento, proseguire in direzione Telese, dopo circa 12 Km prendere la superstrada che porta a Campobasso e uscire a Pontelandolfo. 85 86 Sepino e Pietraroja S epino è un paese in provincia di Campobasso, particolarmente suggestivo per le sue rovine. A circa tre chilometri dalla nuova Sepino, sorgono le rovine di Saepinum romana, edificata dopo la sconfitta della città sannita, situata sulla vicina collina di Terravecchia ed espugnata durante la seconda guerra sannitica dal console L. Papirio Cursore, come ricorda Tito Livio. I superstiti si stanziarono nella pianura, nei pressi di un antichissimo bivacco di transumanti. Nacque così, sul tratturo PescasseroliCandela, la piccola città romana, costruita interamente in pietra locale. Degna di nota è la zona archeologica di Saepinum, caratteristica per le sue costruzioni di case rustiche che incorporano con effetto spesso pittorico pietre lavorate di età romana. Molto famosa è una iscrizione ancora oggi visibile, posta su una delle porte che dice “De grege oviarico”, con molta probabilità fatta affiggere dalla suprema autorità giudiziaria dell’impero a garanzia dell’immunità del transito degli armenti. Di particolare rilievo, oltre alle mura, alle porte, al cardo massimo e al decumano, al teatro, al foro, alle terme e quant’altro, sono le tracce della vita vissuta della città: il mercato, la tintoria, il frantoi, il mulino, le locande, le osterie, gli scarichi idraulici delle case e i canali di scolo delle strade. Saepinum, in epoca imperiale, divenne meta turistica per molti nobili romani dell’epoca. Non può mancare una visita al centro abitato della nuova Sepino, che conserva le tipiche caratteristiche medievali. Da un ampia ed elegante piazza sia accede a tipici violetti, da cui si raggiunge il Centro Storico e la Chiesa di Santa sepino, santuario di s. cristina, reliquiario sepino, la porta sul decumano Cristina, forse costruita quando la popolazione, alla fine dell’Alto Medioevo, abbandonò Altilia per fondare, l’attuale Sepino: il Castellum Saepini, legittima erede della città romana. Singolare risulta essere il campanile dell’Insigne Collegiata con una guglia a forma di “bottiglione”, interamente costruita dagli artigiani dell’epoca. Nel Santuario di Santa Cristina, risalente al XII secolo, ma quasi interamente trasformato, notevole è la Cappella del Tesoro, istituita nel Seicento dal principe Carafa. Al suo interno si conservano otto busti seicenteschi di Santi in rame e bronzo argentato ospitati in tabernacoli con sportelli lignei finemente intagliati, ancora è possibile ammirare il busto settecentesco di Santa Cristina in oro e argento, ricoperto dagli innumerevoli doni dei fedeli. Una reliquia della Santa, custodita in una preziosa teca a forma di braccio. Pregevoli ostensori del Tesoro di Santa Cristina. Caratteristica è la fontana nel centro della piazza principale, i cui rubinetti indicano i punti cardinali. In origine l’abitato era circondato da una cintura muraria a forma quasi ellittica, con quattro porte, munita di torri sulle quali spiccava il castello. Sono visibili, attualmente, alcune torri e tre porte: la porta Meridionale, la porta Orientale, la porta di Corte o porta Borrelli. Il castello fortemente danneggiato dal terremoto del 1805 è stato abbattuto. Meritevoli di attenzione sono il campanile romanico della Chiesa di San Lorenzo, la Chiesa di Santa Maria e del Purgatorio, l’ex Chiesa di Santo Stefano, adibita oggi a teatro ed a sala conferenze, numerose fontane come quella della Canala e del Mascherone, i particolari stemmi in pietra, le scritte latine, i sobri palazzi, il Ponte San Rocco. Dopo aver visitato Sepino non può mancare una visita a Pietraroja borgo situato ai piedi dei boschi e delle rocce del Monte Mutria. Proprio da Pietraroja proviene il più importante dinosauro fossile noto con il nome di Ciro, mai scoperto in Italia. Il fossile appartiene ad un esemplare di dinosauro, Scipionyx samniticus, che all’epoca della morte aveva poche settimane di vita. il prodotto tipico La sua fama si deve anche allo stato di conservazione, realmente eccezionale. Di questo rettile gli studiosi hanno potuto analizzare perfino gli organi molli interni e le fibre muscolari; in particolare hanno notato che le zampe anteriori sono munite di tre artigli affilati e che davanti alla spalla si trova un osso a forma di V detto furcula che è normalmente presente nello scheletro degli uccelli per collegare il muscolo alle ali; questo elemento è presente anche in altri dinosauri terrestri ed è considerato come una delle testimonianze dell’evoluzione fra i dinosauri e gli uccelli.Ad accogliere una lastra che ospita i resti fossili di Ciro (trattasi di un calco, in quanto l’originale viaggia continuamente tra i vari musei), è il Paleolab, un museo che sorge a pochi metri da un giacimento in cui abbondano fossili di pesci, resti vegetali e tracce di invertebrati. Trattasi di un moderno museo multimediale dove il visitatore esce dalle sale piacevolmente arricchito di un bagaglio di conoscenze e informazioni sulla storia geologica della cittadina e dei suoi antichissimi “abi- tanti”, oggi fossili. Sulle orme del cucciolo di dinosauro, e seguendo il percorso del Paleolab, con una serie di esperienze interattive da vivere in prima persona, il visitatore compie un vero e proprio viaggio fino ai tempi più remoti ed impara a conoscere i segreti principali di MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA «Ciro» e le meraviglie dell’entroterra pietraroja, scipionyx samniticus quel mondo scomparso. Dopo la visita al Paleolab, non può mancare una passeggiata sul lastrone calcareo, formato sul fondo di una laguna circondata da isole simili alle odierne Bahamas, dove sono stati ritrovati i fossili. Sono pochi i siti paleontologici in Italia, così emozionanti da visitare come risulta essere Pietraroja. (M. M.) Olio di Ortice uveat olea magnum vestire Taburnum”,“conviene rivestire di oliveti il grande Taburno”, scriveva Virgilio nelle Georgiche, e l’olivo già presente nel Sannio sin dal VI sec. a. C., si diffuse nella zona caratterizzando fortemente il territorio insieme alla vite. Tra le varietà di olive più apprezzate spicca la Ortice che, sparsa un po’ in tutta la Campania con nomi diversi, ha il suo areale di elezione sulla media e alta collina beneventana. L’Olio di Ortice al consumo si presenta di colore giallo oro, con intense sfumature verdi da giovane, all’olfatto rivela piacevoli note erbacee e sentori di pomodoro, è armonico al gusto con intense e gradevoli sensazioni di amaro e piccante. Ricco di polifenoli, garantisce una protezione contro agenti ossidanti conservando inalterate nel tempo le caratteristiche organolettiche. E’ ideale su pesce, insalate e legumi. “I 87 Aperitivo Casertano in mp3 (racconto guidato dei principali prodotti del territorio) Ortaggi, frutta, erbe aromatiche e cremoso di bufala Palla di mozzarella (Mozzarella sciolta farcita con taglierini al basilico, rimozzata, impanata e fritta) Filetto di bufalo, ricotta e stracotto tradizionale Pere ed erbette alla confettura di San Marzano I dolci di sempre Falerno Villa Matilde Passito Eleusi A persona euro 65.00 vini inclusi 88 Rosanna ha inventato i «piatti parlanti» C he non vi venga in mente di addentare la prima portata: si tratta infatti di un coriaceo lettore Mp3, dalla cui cuffia una voce registrata vi guiderà alla scoperta delle tipicità naturali del Casertano. Nel piatto, al centro null’altro che un bicchiere d’acqua del Taburno, e tutt’intorno una nera e liscia pietra vulcanica (anche questa non inghiottitela, ma limitatevi a manipolarla), una foglia di cicoria selvatica, una fettina di mela annurca, un’alice (il Tirreno non è poi lontano) impanata con pane di lievito madre centenario e origano, un cuore di filetto di Nero casertano, un sorso di rosso Falerno. Un rapido e suggestivo audiogiro dei sapori del territorio che dimostra come la titolare e chef Rosanna Marziale stia mettendo a frutto la sua curiosità di cuoca giramondo, gli stage da Berasategui e le e qualche straniero scelto con cura, però dominano i casertani di rango come i vini di Villa Matilde dei fratelli Avallone o di Telaro. Come secondo piatto, per il menu della memoria (rivisitata) la Marziale ci propone un filetto di bufala ripieno di ricotta (ovviamente di bufala) e di stracotto tradizionale. Ma Rosanna Marziale «Le Colonne» restano un capresenze a kermesse interna- posaldo storico anche in pazionali dove ha affinato lo stile sticceria: tra la sfogliatella allo coniugando le eccellenze del zabaione e gocce di cioccolato, territorio alle sperimentazioni. il croccante di nocciola e crema In menu le passioni-ossessioni pasticciera con scorza di limomarzialiane, vaddassé piatti a ne e il bocconcino di casatiello base di mozzarella di bufala dolce (specialità casertana) e di carne bufalina: solare la in infuso di cioccolato, e fino «palla di mozzarella», sciolta, alla piccola pasticceria Sicilia farcita con taglierini al basili- style la fantasia di Rosanna si co, rimozzata, impanata, fritta sbizzarrisce allo voce «i dolci di e servita su crema di piselli in sempre»: carrellata di dessert un piatto dalla foggia inedita in cui non sfigurerebbe, dopo (una sorta di fondina inclinata) tante elaborazioni e sapienti ma assai funzionale. Da bere sperimentazioni, una bianca, un sacco di cose, anche Triple A tonda, nuda e cruda mozzarella. www.lecolonnemarziale.it MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Le Colonne Caserta indirizzo viale Giulio Douhet, 7-9 Caserta telefono 0823 467494 chiusura martedì. Aperti solo a pranzo. carte di credito tutte Percorrere l’autostrada A1 in direzione Roma, uscire al casello di Caserta nord, imboccare il viale Giulio Douhet che è l’ex via Nazionale Appia. 89 90 Caserta, la Reggia vanvitelliana M olti uomini e donne del Settecento e Ottocento avrebbero voluto avere il privilegio- che oggi chiunque ha - di visitare quella splendida e nobile dimora del re a Caserta che supera in magnificenza ogni altra d’Europa. La città è nota a livello internazionale per la presenza della magnifica Reggia vanvitelliana, annoverata nella lista Unesco come patrimonio dell’Umanità, costruita da Luigi Vanvitelli su commissione di Carlo III di Borbone nel 1752. Il palazzo dalla pianta rettangolare, con quattro grandi cortili interni, si estende su una superficie di ben 45000 metri quadrati. Tre vestiboli ottagonali si allineano lungo l’asse centrale dell’edificio costituendo il cosiddetto cannocchiale ottico, ideale collegamento con il parco e la cascata, posta scenograficamente al culmine della fuga prospettica così creata. Salendo lo scalone d’onore del palazzo, un tripudio di architetture, decori e statue incanta il visitatore conducendolo al vestibolo superiore tra leoni marmorei, le statue della Maestà Regia, della Verità e del Merito. Lo scalone ha una doppia volta ellittica, di effetto originalissimo, affrescata dal solimenesco Girolamo Starace. Qui si collocavano i musici per salutare l’arrivo del re e degli invitati in occasione dei grandi ricevimenti. Al termine dei 118 gradini della scala reale, sulla sinistra si accede agli appartamenti di rappresentanza col Salone di Alessandro Magno. A destra di quest’ultima si estendono gli appartamenti ottocenteschi i cui lavori iniziarono in epoca murattina (1806-1815). Splendida è la sala del Trono - destinata alle pubbliche udienze - dove vi sono gli MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Visitare la casa di un re CASERTA, FONTANA DI EOLO stemmi delle Dodici Province del Regno e i medaglioni celebranti i re di Napoli da Ruggero il Normanno a Ferdinando II. Nelle retrostanze ottocentesche è possibile ammirare la cosiddetta sedia volante, un moderno ascensore che serviva per salire senza fatica dal piano interrato. Da non perdere la camera da letto di Gioacchino Murat di puro stile impero. Se si retrocede poi al salone d’Alessandro, sulla sinistra si susseguono le sale dell’appartamento settecentesco, adorno di parati e stoffe leuciane. Da notare nel percorso i bellissimi quadri di Philipp Hackert - vedutista settecentesco caro a Ferdinando IV - per ammi- PALAZZO REALE, particolare del pRESEPE PALAZZO REALE, LA FACCIATA rare quei paesaggi incontaminati da lui ritratti. Interessante è anche il Bagno di Maria Carolina d’Austria col complicato e divertente gioco di specchi che consentiva alla sovrana di spiare la gente che passeggiava nei corridoi. Segue la Biblioteca Palatina, voluta da Maria Carolina d’Austria con volumi tra i più rari e prestigiosi al mondo.Alle pareti gli affreschi neoclassici di Füger e i disegni preparatori vanvitelliani dell’Opera del Palazzo. Il presepe - segno di grande devozione della famiglia borbonica - incanta grandi e piccini per i suoi pastori in terracotta abbigliati con costumi in seta prodotti nel vicino borgo leuciano. A seguire nell’ iter la Pinacoteca che ospita i quadri di re e regine borboniche, nature morte di pittori italiani e non solo e scene di guerra. Rientrando negli appartamenti dal Salone di Alessandro si accede a Terrae Motus, una collezione permanente di arte contemporanea nata dalla volontà del noto gallerista napoletano Lucio Amelio di costituire una raccolta di opere legate dal leitmotiv del terremoto del 1980. Rappresenta un unicum come collezione tematica contemporanea italiana! Sempre nel vestibolo superiore una puntata merita la Cappella Palatina, in parte distrutta dai bombardamenti della guerra. Al pianterreno, nel secondo cortile vi stupirà il Teatrino di corte, un capolavoro dell’architetil prodotto tipico tura teatrale settecentesca Percorso l’atrio del palazzo, si esce nel Parco, annesso al palazzo, con una serie di scenografiche fontane e cascate che gli conferiscono una grandiosità senza pari e contribuiscono a farne una delle più belle regge del mondo. Di grande fascino anche il Giardino inglese realizzato nel 1786 sotto la guida del giardiniere Graefer per volontà di Ma- ria Carolina che aveva voluto adeguarsi alle nuove mode. Presenta reconditi boschetti e su uno scoglio sporgente da un laghetto c’è la statua di Venere accosciata, nell’atto di uscire dalle acque. Interessante è una grotta semicircolare detta criptoportico con volta a botte con lacunari, colonne, pilastri, statue e il pavimento a mosaico che simulano un’antica rovina. (G. I. ) Mozzarella di Bufala l di là delle varie ipotesi circa la presenza del bufalo in Italia, sicure testimonianze del suo allevamento si hanno a partire dal XII-XIII secolo. Sin dal XII secolo i monaci del Monastero S. Lorenzo in Capua usavano offrire una mozza o provatura con un pezzo di pane ai componenti del Capitolo che si recavano lì ogni anno in processione. All’inizio sembra che venissero prodotte solo ricotte e provole affumicate che si conservavano più a lungo e potevano essere trasportate anche lontano. La mozzarella invece, per la sua deperibilità, veniva prodotta in quantità limitata e consumata localmente. Dalla seconda metà del Settecento, con l’impianto della Tenuta Reale di Carditello in provincia di Caserta, la mozzarella diventa una presenza costante sui mercati di Napoli. La parola mozzarella è diminutivo di mozza, da mozzare. A 91 Stuzzichino di benvenuto Spumante metodo classico Baccalà mantecato all’olio extravergine con salsa di cipolla rossa di Alife Pallagrello bianco Paccheri con ragù bianco di maiale nero marinato al Casavecchia Casavecchia Agnello laticauda in diverse interpretazioni Taurasi Millefoglie al mascarpone di bufala Falanghina passita A persona euro 55.00 vini inclusi 92 Con Renato alla scoperta delle eccellenze casertane A mbiente caldo e avvolgente (bei disegni alle pareti dedicati al vicino Borgo Normanno); illuminazione moderna ma non «sparata»; vasellame dalle fogge insolite ma che rispondono alle esigenze visive dello chef... Piccoli significativi mutamenti di un locale di gran pregio e qualità in cui di immutate nel tempo restano solo due cose, la timidezza dello chef-patron Renato Martino e, collegata a questa, la porta della cucina tuttora priva di oblò, così nessuno lo vede se non si va di persona a sradicarlo dai fornelli. In sala, però, c’è Luigi: quasi un sosia di Renato (in molti pensano sia il fratello) che vi spiega nei dettagli una carta frutto di grande sforzo creativo. Nel corso dell’ultima nostra visita ci siamo deliziati di fronte alla doviziosa scelta di pani (alla ricotta su foglie di alloro, ai carciofi, a cassetta col Renato Martino maiale, grissini al sesamo), al memorabile lardo di Nero casertano al vapore con balsamico, quenelle di borragine, crema di ceci, alla strepitosa crema di cavolfiore con lingua di vitellone brasata e salsa agrodolce al cioccolato, ai succulenti paccheri (Gerardo Di Nola) con ragù di salsiccia, succo di carota e pistacchi, trionfo di Sud e territorialità. Nel suo «menu della memoria» Renato propone oggi il baccalà mantecato con salsa a base di cipolla rossa di Alife (un piatto che anche in Veneto se lo www.vairodelvolturno.com sognano) e due suoi ingredienticavalli di battaglia: sto parlando del già citato Nero casertano (qui proposto con i paccheri, sotto forma di ragù bianco, e marinato al Casavecchia, gloria enologica riscoperta da Peppe Mancini e Manuela Piancastelli) e l’agnello Laticauda in diverse «interpretazioni»: io ne ricordo cinque (e al pansiero ancora mi commuovo); trattasi della spalla maturata in olio e poi cotta, delle rosee costolette, dello spiedino di coscia impanata in farina di mais e delle ormai quasi introvabili animelle (ghiandole endocrine dell’animale giovane, lì decorate con asparagi selvatici) e del cervello gratinato di morbida e peccaminosa sensualità. Ai dessert, troverete un nome semplice - millefoglie al mascarpone di bufala -; ma, conoscendo Renato, aspettatevi una creazione molto più complessa (e affascinante) del nome che porta. MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Vairo del Volturno Vairano Patenora - Caserta indirizzo via IV novembre, 60 - Vairano Patenora (CE) telefono 0823 643018 chiusura domenica sera e martedì carte di credito tutte Percorrere l’autostrada A1 Napoli-Roma e uscire a Caianello, proseguire per 5 chilometri in direzione Isernia, superare Vairano Scalo e poco dopo sarete arrivati a Vairano Patenora. 93 MENU DELLA MEMORIA 94 V airano Patenora è una roccaforte a guardia del territorio che la circonda, posta in una posizione strategica tra la valle del Medio Volturno e quella pianura compresa tra il massiccio del Montemaggiore e il gruppo vulcanico di Roccamonfina, è un centro di traffici tra l’alto casertano e il Molise. Ha origini antiche e i vairanesi sono fieri del loro primato: qui fu registrato il primo documento in lingua italiana nel 960 d.C. Ha un impianto urbanistico tipicamente medievale e a quest’epoca risalgono la primitiva cinta muraria e l’originario castello, ormai ridotto a rudere ma comunque dotato di un immenso fascino. Alla struttura fortificata si giunge per una strada panoramica che parte dall’abitato in pianura e conduce fino alla cosiddetta Porta Castello. Non riuscirà difficile al turista attento ricostruire quella maestosa fortezza, articolata intorno ad una corte maggiore, dove chiaramente sono presenti le tracce degli antichi ambienti: la cavallerizza, l’antica sala dell’adunanza, le cucine con i forni e le carceri. Luogo inespugnabile a difesa del territorio, piace a grandi e piccini che vi immaginano i tentativi di soldati nemici di scalata e intrusione. La fortezza nel 1193 seppe, infatti, resistere strenuamente all’assedio di Roffredo dell’Isola e dell’imperatore Enrico VI di Svevia. La sicurezza strategica e la confortevole abitabilità del borgo sono testimoniate anche dalla visita e permanenza di re Carlo I d’Angiò e del papa Gregorio X. E’ considerato a buon ragione uno interno del castello maestosi ruderi sono la testimonianza più eloquente del passato splendore della struttura specie sotto Federico II che vi dimorò. Un tempo qui era custodita la statua della Madonna del Cardellino oggi nella chiesa di S. Bartolomeo, patrono del paese a cui si attribuiscono miracolose capacità di protezione dagli attacchi nemici. Per chi ama l’arte si consiglia anche una visita alla chiesa di San Giovanni nell’omonimo casale che conserva affreschi probabilmente della scuola del Solimena. (G. I.) MENU DELLA MEMORIA Vairo del Volturno Visita alla fortezza incantata chiesa di san tommaso Interessante per comprendere il sistema difensivo tipico delle strutture architettoniche del XIV e XV secolo è anche il casale “La Terra”. L’originalità del luogo è data proprio dalla miscela tra le caratteristiche strade gradonate, popolate da edifici di carattere principalmente rurale, ed i più insigni esempi, perfettamente integrati, della cultura feudale. Il medioevo rivive anche nell’abbazia della Ferrara, centro cistercense immerso nel verde. I il prodotto tipico Vairano patenora, il borgo degli esempi maggiori di architettura militare di epoca medievale con le tipiche “scarpe” troncoconiche delle torri di età angioina. Ma intorno al 1495 i d’Avalos restaurarono e potenziarono il castello conferendogli l’aspetto che in massima parte conserva ancora oggi. Seguendo i modelli difensivi aragonesi, furono resecate le torri, livellate le cortine e accentuate le rastremazioni murarie per costituire un possente blocco fortificato. Nuovi lavori furono effettuati dalla famiglia Mormile che adibì il castello a uso abitativo, murando gli spazi intermerlari e allargando le feritoie. Agnello Laticauda n provincia di Benevento, nell’alto Sannio, pascolano le pecore di razza Laticauda, che trassero origine all’epoca dei Borbone forse da un incrocio tra la pecora Nord-Africana con l’Appenninica locale. La razza prende il nome dalla caratteristica coda corta e larga: latis = larga e cauda = coda. La carne di queste pecore presenta caratteristiche di elevata qualità: è particolarmente tenera, magra, con scarso contenuto di grassi insaturi, digeribilissima e fornisce proteine ad alto valore biologico e un discreto contenuto in ferro. In particolare differisce dalle altre carni ovine per i ridottissimi tassi di acido capronico (in pratica non puzza) e per il basso contenuto di colesterolo, associando al gusto delicato un valore nutrizionale e dietetico sicché ha tutti i titoli per entrare di diritto nella dieta mediterranea. I 95 MENU DELLA MEMORIA Quenelles di ricotta con gelatina di pomodoro Carciofo in pasta sottile Gnocco di patate e broccoli con «sfriarielli» di maiale Tortello con ragù giovane di bufalo Maialino nero casertano (tianiello) in foglia d’uva Verdure di stagione Formaggi Dessert Falanghina Porto di Mola Aglianico Telaro A persona euro 45.00 vini inclusi 96 I l Vecchio Mulino è davvero un vecchio mulino (ancora nel dopoguerra vi si macinava il grano di contrabbando con pietra francese, oggi smontata ma in bella vista), e di conseguenza è l’unico ristorante al mondo dove se apri una porta vedi dinanzi a te precipitare scrosciando un fiume (per gli amanti della geografia: si chiama Savone). Pietro Balletta ai fornelli, Dino Casale in sala (e alla cantina): soci, coetanei, cugini, costituiscono un affiatato e ormai rodato duo che in pochi anni è stato bravo a passare da una cucina di assoluta semplicità a una coinvolgente sintesi di genuinità e riscoperta di sapori antichi. Qui dominano la Regina Castagna e Sua Maestà il Fungo, che in stagione trovi abbinati in dense e gustosissime zuppe; ma il Casertano è pur sempre la patria di delizie carnali e vegetali come il maialino nero e to i formaggi locali-globali che sono uno dei vanti del «Vecchio Mulino»: si va da certi rari pecorini e caprini prodotti in minime quantità nella vicina Fontanelle al tête de moine del Giura svizzero, all’inglese Stilton in versione cremosa da gustare, magari, con marmellate di fichi o di pomodori, oppure ancora Pietro Balletta con il miele della vicinissima Tela mela annurca, dunque sarà ano, delicato come l’olio che ivi difficile non cedere alle loro lu- si produce. E in chiusura, largo singhe. Il suino casertano qui ai dolci: Barletta seguirà nella detto «tianiello», in particolare, loro preparazione l’estro (e la Pietro Balletta lo propone per materia prima) del momento, l’occasione avvolto in foglia ma io scommetto sulla presend’uva, ma rappresenta solo la za dell’annurca e della castaterz’ultima tappa di un viag- gna, che qui ho assaggiato con gio nel gusto che si apre con diletto nella pasta sfoglia con il quenelle di ricotta e gelatina di cioccolato (la prima) e sotto forpomodoro, prosegue col carcio- ma di tronchetto (la seconda). fo in pasta sottile, continua a In ogni caso, il caffè arriverà in esaltarsi con lo gnocco di patate tazzine con il coperchio, tocco e broccoli e col tortello di ragù d’eleganza che conserverà indi bufalo. Doppia gratificazione tatto il calore, l’aroma e il rianche alla fine: ecco innanzitut- cordo d’un pasto ben riuscito. www www.ciroasantabrigida .alvecchiomulino.it .it MENU DELLA MEMORIA Il «tianiello» e altre meraviglie locali Al Vecchio Mulino Furnolo diNTapoli eano - Caserta chiusura lunedì sera e martedì carte di credito tutte indirizzo via S. Caterina Boccaladroni, 1 Furnolo di Teano (CE) telefono 0823 886291 - 328 7255900 Percorrere la Napoli-Roma e uscire al casello di Caianello. Imboccare la SS 372 Telesina fino all’uscita di Casale, proseguire fino a Furnolo che è una frazione di Teano. 97 98 Teano S e ami l’archeologia una città campana che devi assolutamente visitare è Teano, ricordata soprattutto per l’incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II, ma in primo luogo scrigno di tesori antichi. Capitale dell’antico popolo italico dei Sidicini (da qui il nome Teanum Sidicinum) che furono gli ultimi a cedere alla potenza di Roma, dopo la conquista dell’Urbe divenne municipio e conobbe un periodo di grande sviluppo, tanto da essere definita da Strabone la principale delle città poste lungo la via Latina. Al tempo della Repubblica e dell’Impero fu luogo di villeggiatura della nobiltà romana e si arricchì di molti edifici tra cui il foro, le terme, la basilica, l’anfiteatro e il teatro. Quest’ultimo è quello meglio conservato e, secondo uno schema adottato anche per altri santuari italici, occupa la parte bassa dell’area sacra, sulla cui sommità è situato il tempio. L’edificio fu ampliato alla metà del II secolo d.C. fino a raggiungere un diametro di 85 metri; vi si costruì una scena, riccamente decorata, dell’eccezionale altezza di oltre 24 metri. A breve distanza dal teatro, la nostra attenzione si attesta, però, sui resti dell’anfiteatro che si situa a cavallo del tracciato delle mura. A giudicare dalle strutture in vista, dovrebbe essere stato costruito in età sillana con rifacimenti successivi. Dell’originario impianto urbano del IV secolo a.C., a schema ortogonale, sono sopravvissuti i resti della cinta muraria dell’arce, in opera quadrata, nonché le strutture lungo la via Latina relative a quartieri abitativi. I bambini potranno immagi- MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Una vita antica che rivive nel presente teano, il teatro romano potrete incontrare diverse chiese ricchissime, quella del Monastero di S. Caterina o quella di Santa Maria de Foris. Ma l’edificio simbolo della città è il Duomo, eretto nel 1116, rifatto su disegno di Andrea Vaccaro nel 1630 e ricostruito dopo l’ultima guerra mondiale da Roberto Pane. L’interno è il prodotto tipico teano, facciata della cattedrale nare le antiche lotte combattute in questo luogo! Restando in zona da vedere sono i ricchissimi corredi funerari, databili tra l’epoca arcaica e quella ellenistico-romana, delle necropoli scavate nelle località Torricelle e Orto Ceraso, questi ultimi permanentemente esposti nelle splendide sale dell’edificio tardogotico noto come Loggione, sede del Museo Archeologico. Di eccezionale interesse poi la statuaria proveniente dagli scavi condotti negli ultimi anni nel teatro romano. Nel museo teanese, infine, si può anche rivivere un po’ della città romana. Sotto una passerella trasparente che unisce trasversalmente le due navate tardogotiche sono conservati e fruibili al pubblico interessanti testimonianze di un prestigioso edificio con ambienti riscaldati e loggiati decorati con motivi a mosaico. Nei pressi del Loggione basilicale con colonne e capitelli in parte provenienti da monumenti romani. Oltre alla cappella di San Paride – una vera chiesa a sé stante con quadri di Francesco de Mura – si nota l’altare maggiore con un Crocifisso dipinto su tavola, attribuito o al Maestro di Giovanni Barrile o a Roberto d’Oderisio. Non mancano percorsi naturalistici: le sorgenti Santuccia, Sonola e San Paride sgorgano nel tufo grigio campano ma è probabile provengano da colate laviche sepolte. Fuori dalla cittadina si trova lo stabilimento termale delle Caldarelle in cui furono rinvenute numerose monete. (G. I.) Maiale Nero Casertano itato da Columella nel suo De re rustica, il maiale nero casertano è tra le razze più antiche e pregiate d’Italia. Durante il regno di Francesco I di Borbone, il ministro britannico Lord Malmesbury, gran buongustaio, si recò in visita alla Reggia di Caseta dove rimase letteralmente conquistato dallo spettacolo maestoso dei prosciutti, ventresche, salami, lardi, strutti che pendevano dal soffitto delle immense cucine. La meraviglia si tramutò in entusiastico apprezzamento al momento dell’assaggio, seguì un rapido confronto tra la razza Casertana, detta anche pelatella, magra ma saporitissima, e quella inglese, grassa, robusta ma del tutto insapore. Fu così che due scrofe e due verri furono imbarcati sulla ‘Sea Nymph’ per fondare nuove razze di suini che avessero il sapore dell’una e la mole dell’altra, e ai primati del Regno di Napoli si aggiunse anche quello di aver esportato i primi porci. C 99 Variazione di zucca, fagioli e formaggi campani: parmigiana di zucca e provola con crema di fagioli crème brulée di zucca e fagioli con crema di monacone sfogliatella ripiena di ricotta su composta di zucca e fagioli Perrella 2005 - De Conciliis Fusilli della tradizione cilentana con pesto di noci e nocciole picentine e colatura di alici Pietramara Fiano di Avellino 2007 - I Favatii Filetto di dentice con zuppa di maruzzielli e broccolone della tradizione natalizia Fontanavigna 2006 - Terre del Principe Nobiltà della cucina salernitana L ’insegna raffigura uno stemma nobiliare attraversato da una forchetta. Araldica tutta gastronomica, visto che Conte è solo il cognome del titolare, Andrea (Mario), che in pochi mesi ha fatto di questa ex paninoteca il luogo che non c’era della ristorazione salernitana: pulito, solare, elegante senza affettazione, attento al mare, agli aromi e al territorio circostanti ma non pigramente seduto sulla tradizione. Merito del «Conte» è quello di aver messo insieme una giovane squadra all’altezza del compito, a partire dal 31enne ed entusiasta chef, Raffaele Pappalardo (e dal suo secondo, Giulio Cascino, 20 anni ma già 100 idee, soprattutto in fatto di dessert). Si apra dunque la vitrea sliding door che immette nel locale,dove il maître Roberto Adduono in ben tre preparazioni: sotto forma di parmigiana, in sembianza di crème brulée e in consistenza di composta, ad accompagnare la sfogliatella ripiena di ricotta. Elogio delle radici anche per le paste: sui fusilli della tradizione cilentana in cui si sposano almeno due prelibatezze della sua Raffaele Pappalardo terra, le nocciole dei Picentini e lo chef de rang Valentino e la colatura di alici che preVicinanza si prenderanno para lui stesso, visto che la sua professionalmente cura di voi città natale è anche la patria illustrandovi il menu escogita- di questa prezioso intingolo dito da questo giovane talento retto discendente del romano che resta ben ancorato alle «garum». E che dire del totano sue origini di Costiera (è nato e patate? Chiunque si sia fera Cetara, esordì ai fornelli d’un mato a mangiare da Massa ristorante amalfitano): lo capi- Lubrense in giù sa che questo sci subito dagli antipasti, che piatto in cui si uniscono miraprevedono un’invitante «varia- bilmente terra e mare è forse, zione» sul tema della amata più che una ricetta, un imbozucca lunga tipica della festa lo culturale: attendo con ansia della Maddalena ad Atrani, golosa di conoscere la «verche lì si chiama «sarchiapo- sione di Raffaele» realizzata ne» e che Papplardo proporrà per i menu della memoria. www Il.ciroasantabrigida Conte Andrea .it Panzarotto ripieno di castagne su zuppetta di sorbe Antheres passito di Aglianico - Mastroberardino MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Il Conte Andrea SN alerno apoli indirizzo via Roma, 268 - Salerno telefono 089 9951832 chiusura lunedì. Domenica e festivi aperto solo a pranzo carte di credito tutte A persona euro 45.00 vini inclusi 100 Percorrere la Napoli-Salerno, uscire al casello di Salerno e seguire le indicazioni per il centro. 101 G uardando dall’alto, nell’abbagliante e suggestiva cornice del mare e del cielo, Salerno è come aggrappata ai fianchi della montagna, in una posizione spettacolare sul golfo. Con la conquista dei longobardi nell’VIII secolo, e in particolare con Arechi II, fu un centro di vitale importanza nel Mezzogiorno diventando, inoltre, centro di studi con la celebre scuola medica salernitana (la più antica istituzione medica dell’occidente). Salendo per il vicolo dei Barbu- salerno, atrio e campanile del duomo 102 ti – il cui nome deriva dai longobardi “dalle lunghe barbe” – si giunge in uno spazio oggi tradizionale teatro all’aperto. Affrontando i gradoni del suggestivo vicolo Gisolfo II si arriva a largo Conforti dove è il complesso di Santa Sofia che deriva la sua intitolazione principalmente da Costantinopoli dove il culto per la santa, protettrice della Sapienza, era particolarmente sentito. Esso nacque nell’area detta “Nova Civita” poiché lì il regnante Guaiferio andava realizzando un ampliamento della città con il nuovo palazzo principesco e la cappella di San Massimo. Tra X e XI secolo (il primo riferimento cronologico è il 1026) fu fondato questo convento che risulta essere il primo dell’ordine benedettino a Salerno. Rimase sotto la giurisdizione dell’Abbazia di Cava fino al 1575, quando passò successivamente all’Arcivescovo di Salerno. Nel 1592 fu affidato ai padri gesuiti perché si dedicassero all’educazione giovanile. Nel 1778 Papa Clemente XIV ordinò la soppressione dell’ordine ed affidò la struttura religiosa ai carmelitani. Con la requisizione napoleonica del 1807, fu destinato a tribunale civile fino a quando, nel 1938, con la costruzione dell’odierno palazzo di giustizia, la struttura diventò sede di una scuola statale. Per diversi anni è rimasto in stato di abbandono, in condizioni conservative non ottimali, ma poi è stato restaurato e sovente ospita importanti mostre. Oggi (inaugurato nel 2002), infatti, l’ex convento è il palazzo delle esposizioni, soprattutto di arte contemporanea, della città: negli anni passati qui sono state realizzate importanti rassegne su Mirò,Wahrol e Pablo Picasso. Attualmente i resti del monastero del XI secolo sono in via Trotula de’Ruggiero al civico 7: due volumi sono messi in comunicazione tra loro da un giardino gentilizio delimitato da un tratto di mura longobarde. L’ingresso è costituito da un interessante portale a sesto ribassato in piperno grigio. Ai piani superiori desta meraviglia un ambiente dalla vol- salerno, cripta del duomo ta con padiglione finemente decorata con stucchi e dipinti a mezzo fresco raffiguranti Scene allegoriche, databili tra la fine del XV e gli inizi del XVII secolo. Recenti interventi restaurativi hanno portato alla luce una bella quadrifora traforata con archi intrecciati (risalente al XIII secolo) che riecheggiano quelli del vicino chiostro di San Francesco. A ridosso del convento si situa la chiesa (oggi) dell’Addolorata che sorge sui resti di un edificio religioso più antico. Con l’arrivo dei gesuiti si intrapresero dei lavori ma, trascorsi tre secoli, una radicale opera di restauro fu voluta dall’arcivescovo Marino Paglia (come testimonia l’iscrizione sul prospetto Salerno principale). L’Addolorata è caratterizzata da due ordini di lesene corinzie raccordati da volute. Nella parte superiore, un grande finestrone rettangolare illumina l’interno, mentre il timpano, forato da un ovale, chiude la facciata. Alla chiesa si accede percorrendo una scala a doppia rampa curvilinea, di gusto tardo-barocco. Cuore della città è il quartiere medievale la cui arteria principale è via dei Mercanti. Le strade, strette, oggi ricche di negozi, seguono le tracce dell’impianto urbanistico medievale conservando splendidi palazzi d’epoca e gran parte dell’architettura religiosa. Sulla sinistra di S. Sofia, già in via Tasso, si incontrerà il Palazzo appartenuto alla famiglia Lauro, ramo dell’illustre Casa Sanseverino. Sulla destra, invece, piazza Alfano I, custodisce il monumento più illustre della città, quel prezioso scrigno antico che è il Duomo. Eretto tra 1076 e il 1085, fu rifatto nella prima metà del XVIII secolo ma resta un importante esempio di architettura normanna. Bellissimo è il vasto il prodotto tipico salerno, museo diocesano, croce di roberto il guiscardo atrio porticato: al di sopra delle colonne antiche si snoda un’elegante loggia con decorazioni a intarsio. L’interno, rifatto a causa del terremoto del 1688, conserva nella navata mediana due splendidi amboni decorati riccamente a mosaico (XII-XIII secolo) e un cero pasquale appartenente alla stessa epoca. Numerosi i monumenti sepolcrali tra cui quello famoso di Margherita di Durazzo. Le scale vi condurranno alla barocca cripta con decorazioni favolose. Sulla destra della chiesa il romanico campanile di 56 metri della prima metà del XII secolo è osservabile anche da via Roberto il Guiscardo. Attiguo alla cattedrale vi è il Museo diocesano (ingresso in Largo Plebiscito) che offre una panoramica dell’arte salernitana attraverso i secoli. Si segnala la croce detta di Roberto il Guiscardo (XI sec.), il ciclo degli avori (XII), l’Exultet (XIII) e opere addirittura del Caravaggio, Stanzione, Ribera e Giordano. All’uscita, per via della Porta, si arriva a Largo d’Aquino dove è la chiesa di San Domenico (1272-1275) e il monastero (oggi caserma Pisacane). Quest’ultimo è noto per aver ospitato San Tommaso d’Aquino del quale si conserva un manoscritto al Museo Diocesano. Avendo del tempo a disposizione da non perdere il vicino Museo archeologico provinciale nel complesso monumentale di San Benedetto, uno dei musei topografici più interessanti della Campania. (G. I.) Colatura di Alici llustre antenato della Colatura di alici è il garum degli antichi Romani che lo mettevano su tutte le pietanze per insaporirle.A Cetara la presenza di questo condimento sapido e profumato, prodotto secondario alla conservazione delle alici, si perde nella notte dei tempi. Qui infatti sin da tempi antichissimi, le alici venivano conservate cosparse di sale in botti di legno che, dopo alcuni mesi, dalle doghe un po’ scollate facevano colare il liquido risultante dalla maturazione delle alici. L’economia ristretta della zona che impone il “nulla si butta”, suggerì di utilizzare questa salatissima salsa in vari modi. Sarà vera questa leggenda che raccontano i cetaresi? Sta di fatto che la colatura ha riscosso sempre un grande successo ed è sempre più apprezzata dai buongustai per dare un tocco speciale a molti cibi. MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA La magia della storia: Santa Sofia e il Duomo I 103 Zeppola di pasta cresciuta con alici cetaresi Fiano Donnaluna - De Conciliis Uovo in purgatorio su zuppetta di pomodori cuore di bue Aglianico rosato Denazzano Maffini Minestra di cicoriette selvatiche con polpettine di porco al profumo di limone Aglianico Donne di Corte Villa Raiano Zite spezzate ripiene di mozzarella al ragù all’antica di pomodoro San Marzano con medaglione di cotica Falerno del Massico rosso Villa Matilde Agnello interpretato alla nostra maniera con genovese di mela annurca Falerno del Massico rosso Villa Matilde Antica pasticceria napoletana Moscato Lambiccato Giuseppe Longo A persona euro 50.00 vini inclusi 104 Raffaele e il miracolo di San Marzano A ttraverso un camminamento che dà modo di passare davanti alla splendida cucina a vista, si arriva a una breve scala da cui godi un suggestivo colpo d’occhio sullo spazio sottostante: soffitto a volta, pietra viva, legno, calici scintillanti sui tavoloni, e in fondo fiammeggia promettente un forno. Scenario da taverna medievale, se non fosse per l’elettricità, i tocchi di design e per il fatto che a venirti incontro non è l’unto oste della malora dei romanzi picareschi ma Raffaele Vitale, gran volpone della ristorazione territoriale di qualità. «Casa del nonno 13» (il nonno è quello del nuovo socio, il 13 è il numero civico della via su cui s’affaccia il locale) Raffaele ha realizzato un sogno coltivato a lungo, cucina sopraffina in ambiente accogliente e «multiplo», elegante al pianoterra e Giuseppe Stanzione «di tradizione» nella cantinataverna. Ai fornelli Giuseppe Stanzione che per i menu della memoria ha costruito una sinfonia di tradizione (qua e là reinterpretata con acume) in sei movimenti. A voi il piacere di «leggere» lo spartito nota per nota, anche se ci piace qui segnalare (oltre all’altrove introvabile minestra di cicoriette selvatiche con polpettine di porco al profumo di limone e altre rarità) la presenza, nel ragù «all’antica» con medaglione di cotica di maiale, del po- Casa del nonno 13 indirizzo via Caracciolo 13 Mercato San Severino - fraz. Sant’Eustachio (SA) telefono 089 894399 chiusura martedì carte di credito tutte Percorrere il raccordo autostradale NapoliSalerno, proseguire per l’autostrada A1, poi imboccare la A16, superato il cartello di Salerno, proseguire lungo la A30 e uscire a Mercato San Severino. Proseguire in direzione Roccapiemonte e sarete giunti a Sant’Eustachio. modoro San Marzano: vecchia gloria dell’agro nocerino-sarnese estesasi alla grande cucina campana storica, e che proprio grazie all’impegno di cultori come Raffaele sta lentamente tornando agli antichi splendori. Sull’agnello, però, la sopresa: è accompagnato dalla genovese, fatta però stavolta con le mele annurche, assaggiare per credere. Su queste e sulle altre meraviglie in programma Domenico Sarno, il sommelier che amministra con competenza e passione 350 etichette, propone un ragionato viaggio che dal Cilento si allarga ad abbracciare le altre fondamentali realtà vitivinicole della regione, dall’Irpinia alla Terra di Lavoro. Ma se anche voi come Oscar Wilde sapete resistete a tutto tranne che alle tentazioni, lasciatevi uno spazio per il finale con i capolavori dell’antica pasticceria napoletana. MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Casa del nonno 13 Mercato San Severino - Salerno 105 106 Mercato San Severino S ulla ripida collina che domina dall’alto Mercato San Severino sono visibili i ruderi del complesso monumentale del castello medievale che costituisce uno dei più notevoli episodi di architettura militare dell’Italia meridionale, è composto da un primo nucleo di fondazione longobarda, un secondo normanno ed un terzo svevo - angioino - aragonese. L’interesse storico ambientale è reso evidente dalle rovine superstiti dei suoi ambienti e delle sue tre cinte fortificate. Il Castello faceva parte insieme ad altri quattordici fortilizi della “cortina di ferro” edificata intorno all’anno Mille tra Castellammare di Stabia e Serino. Assediato due volte, nel 1486 e nel 1496, da Ferrante I e Ferrante II di Aragona, fu sede della famiglia Sanseverino fino al 1552, anno in cui Ferrante Sanseverino, resti della chiesa del castello MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Tra Longobardi e Aragonesi mercato san severino, palazzo comunale promotore della “congiura dei Borbone” contro Carlo VIII, fu punito con la confisca del feudo ed esiliato in Francia. Mercato San Severino è caratterizzato dalla presenza di splendidi palazzi rinascimentali e da chiese che rievocano l’antica storia del luogo. Nella Piazza centrale degno di visita è l’imponente Palazzo Vanvitelliano, così chiamato per lo scenografico scalone e le prospettive dell’edificio che richiamano le opere del Vanvitelli, ex convento dei Domenicani che ospita oggi il Municipio. Per accedere al Castello, dalla Piazza, si imbocca a piedi la strada asfaltata che comincia a sinistra del Palazzo Vanvitelliano, ad un certo punto è visibile un cartello accanto alla strada che indica il confine del parco archeologico che protegge la collina del castello e l’inizio del viottolo che sale verso i ruderi. Un sentiero sassoso, porta alla prima cerchia di mura in corrispondenza di un torrione circolare. Procedendo si superano degli scavi archeologici, effettuati dai ricercatori dell’Università di Salerno, che hanno portato alla luce resti di officine, sistemi per l’uso di macchine da difesa, ceramiche e monete di vario genere. Salendo per una gradinata si giunge alle due torri gemelle, che formano l’angolo più scenografico del complesso. Altri scavi sono visibili oltre le due torri, scendendo a sinistra si arriva ai resti di una chiesa gotica, ricca di affreschi, voluta dai Sanseverino, mercato san severino, palazzo comunale, cortile riportata alla luce sotto al torrione inferiore. Una leggenda narra che proprio qui San Tommaso d’Aquino, il prodotto tipico recatosi a trovare la sorella Teodora, sposata Sanseverino, ebbe l’ultima visione prima della morte che lo col- se sulla strada per la Francia, dove si recava in qualità di ambasciatore del Papa. (M. M.) Pomodoro San Marzano a tradizione vuole che il primo seme di questa varietà sia arrivato in Italia intorno al 1770 come dono del Perù al Regno di Napoli e fu piantato a San Marzano sul Sarno dove trovò il suo habitat ideale, infatti ancora oggi l’area di produzione è l’agro nocerino-sarnese e alcune zone dell’agro acerrano-nolano. La raccolta avviene nel mese di agosto protraendosi talvolta fino a Settembre inoltrato. Il San Marzano è un pomodoro di forma allungata, parallelepipeda, di colore rosso vivo, con due depressioni longitudinali sui lati opposti. La polpa è consistente, di sapore agrodolce, e la pelle si stacca facilmente rendendolo particolarmente adatto alla pelatura, caratteristica che ha fatto del San Marzano il pomodoro più adatto all’industria conserviera dei pelati. I primi stabilimenti di trasformazione furono impiantati in Campania da Francesco Cirio nel 1882. L 107 Cannolo di sfoglia ripieno di ricotta e soppressata di Tramonti Cestino di pesce azzurro con provola affumicata di Tramonti su crema di patate Raviolo ripieno di filetto di scorfano con pomodorini e cime di rapa Filetto di baccalà gratinato al forno con erbe aromatiche e patate su crema di farro Semifreddo agli agrumi Dolce delle Clarisse (melanzane al cioccolato e Concerto) Tramonti bianco DOC Costa D’Amalfi az. San Francesco Tramonti rosso DOC Costa D’Amalfi biologico Az. Monte di Grazia A persona euro 40.00 vini inclusi 108 «Concerto» in onore di Peppe & Antonietta S ùbito dopo il valico di Chiunzi, ecco una frazioncina di Tramonti, uno slargo, sulla sinistra un edificio basso e un’insegna discreta. Entrammo, guardammo, ci piacque, e da allora ogni volta che possiamo ci sediamo a uno dei tavoli di «Cucina Antichi Sapori», il locale che Giuseppe Francese, chef tramontino con esperienze in loco e poi in Padania, s’è inventato meno tre anni fa, complice la moglie Antonietta a raccordare la cucina con la luminosa sala. L’atmosfera, piacevole e riposante, conferma l’ottima impressione ricevuta al primo impatto; pani fatti in casa (ai pomodori secchi, alle olive nere e tanto altro ancora) prima di dare il via al menu della memoria, in cui Peppe e Antonietta hanno voluto sintetizzare il meglio delle specialità della loro terra sospesa tra cielo, mare e vitigni (e infatti tutti i piat- Giuseppe Francese ti saranno abbinati al Tramonti Costa d’Amalfi sia in versione bianca che rossa, provenienti dall’annessa cantina a pianta circolare). Qui, ad esempio, trovi una straordinaria soppressata ma anche favolosi pesci azzurri e scorfani; pomodorini, erbe aromatiche e prodotti dell’orto sono scelti con maniacale cura ogni giorno secondo il principio del «chilometro zero», e caciocavalli e pecorini provengono tutti dai caseifici circostanti. Questa è anche la patria di un agnello www.cucinaantichisapori.it indirizzo via Chiunzi, 72 - Tramonti - frazione Campinola (SA) telefono 089 876491 e 3475943389 chiusura martedì carte di credito tutte tranne american express Percorrere l’Autostrada Napoli-Salerno e uscire ad Angri seguendo poi le indicazioni per il Valico di Chiunzi in direzione Tramonti. Arrivati in località Campinola troverete uno slargo e sulla sinistra l’edificio che ospita il ristorante. strepitoso, e se non lo trovi in carta è solo perché procurarselo è un’impresa, e Peppe ha scelto dunque di proporlo a voce solo quando c’è (comunque, chiedetelo: tentar non nuoce). Il filetto di baccalà gratinato si concede la licenza di farsi accompagnare dall’esotica crema di farro; ma al momento del dessert sappiate che Tramonti è il luogo natale delle melanzane al cioccolato: Antonietta le serve «cu’ ’o Cunciert’», una sinfonietta di orzo, cannella, chiodi di garofano, calamo, china, bucce di agrumi eccetera inventata dalle Clarisse del convento di Tramonti, così gradevole da diventare in breve il rosolio più imitato di tutta la Costiera (e dell’interno). Non c’è casa, qui, che non faccia il suo Concerto, quello di «Cucina Antichi Sapori» è prodotto artigianalmente, e pare nato apposta per accompagnare il cioccolato. MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Cucina Antichi Sapori Tramonti 109 110 I l nostro itinerario parte da Tramonti in provincia di Salerno. Si trova tra i monti Lattari in una valle che conduce al mare. Le abitazioni sono sparse in numerose frazioni, dotate ognuna di una chiesa parrocchiale. Alcuni storici datano la fondazione di Tramonti al I secolo a.C., e la attribuiscono ai Piacentini, che dovettero cercare riparo nella vallata perché messi in fuga dai Romani. Altri storici fanno invece coincidere la fondazione del paese al IV secolo o addirittura al VI d.C., anche se in virtù di alcuni ritrovamenti, tra cui urne cinerarie romane, vasi fittili, avanzi di sepolcri e monete dell’alto e basso impero, tale datazione non è pensabile. Tramonti, per la sua posizione sovrastante il Valico di Chiunzi, è stata sempre un luogo di difesa. A Cesarano, prezioso baluardo per la difesa di Tramonti, è possibile visitare la Chiesa dell’Assunta, al cui interno è conservata, sul pavimento, una lapide sepolcrale del 1581. Di notevole interesse risulta essere anche Pucara dove troviamo la Tramonti, particolare del pavimento della Chiesa di San Pietro a Figlino Chiesa di Sant’Erasmo, riedificata nel 1412 e poi nel 1533 sui ruderi dell’antica Chiesa di San Sebastiano. Da segnalare è il portale, ornato da due colonne finemente lavorate.Al suo interno sono visibili alcune tele della scuola di Luca Giordano e un’urna cineraria Gete di tramonti, cappella rupestre di san michele conservata in sagrestia. Curioso ma molto interessante è il locale al quale si accede dalla sagrestia che serviva da particolare luogo di sepoltura: i morti venivano posti su un sedile in pietra dotato di un foro al centro e, dopo il periodo della cosiddetta “colatura”, venivano tumulati. Sempre a Pucara degno di nota è il Conservatorio dei Santi Giuseppe e Teresa, edificato nel Settecento e che in origine serviva come luogo per l’educazione delle nobili fanciulle napoletane. Tra gli insediamenti rupestri presenti nella zona, a Gete di Tramonti, è possibile ammirare in una grotta una chiesetta dal fascino particolare dedicata a San Michele Arcangelo. Si tratta di una antica chiesa del casale di Gete, purtroppo distrutta da una alluvione nel 1735. Di quell’antica chiesa è visibile, oggi, una Cappella Rupestre che, per Tramonti, Pucara e Gete la sua architettura, per il suo impianto, per il sistema costruttivo e per la decorazione dei sottarchi, si può datare alla seconda metà del XIII secolo. La Cappella si inserisce negli insediamenti rupestri della Costiera Amalfitana. La sua presenza è l’espressione del Cristianesimo dei primi secoli ed è testimonianza della presenza di monaci provenienti dalla regione balcanica (V-VI sec.) per sfuggire alle lotte iconoclaste. Si presenta all’ingresso con due fornici ed è formata da due navate, una più ampia a sinistra ed una più piccola a destra, le cui volte seguono l’andamento naturale della roccia. Le volte a crociera su archi ogivali presentano due colonne, una delle quali è di rara fattura, con capitello corinzio (l’altra è un rifacimento). Lo stile è gotico con tratti romanici. L’interno è decorato sulle sue superfici - dalle caratteristiche forme di ciottoli di fiume levigati e rotondi ricoperti di intonaco - da semplicissime decorazioni floreali oramai quasi illeggibili. L’arco di ingresso a questo vano è diviso il piatto tipico MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA La Cappella rupestre di San Michele chiesa dell’assunta a cesarano in due parti, quello inferiore a tutto sesto, in origine collocato a livello inferiore rispetto al piano di calpestio dell’aula, in quanto in essa fu realizzata una sepoltura collettiva, mentre al di sopra dell’altra apertura si intravede l’estradosso della cupola con alcune decorazioni a stelle dipinte con terra color ocra. La copertura presenta le caratteristiche ti- piche delle architetture amalfitane con le volte estradossate finite con il battuto di lapillo. All’interno gli archi realizzati dovevano probabilmente delimitare uno spazio cimiteriale, visti i numerosi resti umani riportati alla luce durante i lavori di restauro, sistemati da Monsignor Alfonso Ferraioli in urne coperte da cristalli di protezione. (M. M.) Dolci delle Clarisse a Melanzana dolce fu inventata nel 1600 a Tramonti nel Conservatorio di S. Giuseppe e Teresa. Le suore di questo educandato preparavano un infuso liquoroso mettendo a macerare per 30 giorni nell’alcol bucce di limoni verdelli, chiodi di garofano, anice stellato, cannella, liquirizia, noce moscata, erbe profumate come timo, maggiorana, citronella e molte altre fino a raggiungere il numero di circa cinquanta componenti. L’alcol così aromatizzato veniva filtrato e diluito con uno sciroppo d’orzo, il liquore ottenuto, battezzato Concerto d’erbe, era usato dalle suore per profumare i dolci, in esso intingevano anche le melanzane fritte per la Melanzana dolce. A Tramonti si è conservata la tradizione di preparare il Concerto sia nelle case private che nei liquorifici artigianali. A Napoli ’a mulignana c’’o ddoce chiudeva di rito il pranzo per la festa della ’nzegna. L 111 «Mallone» con salsiccia all’Aglianico e crema all’aglio Tortino di caciocavallo dei monti Picentini con verdure grigliate Denazzano di Maffini Risotto di porcini e timo su fonduta di caciocavallo Tagliatelle alla nocciola di Giffoni con ragù di faraona, frutta secca e salsiccia Aglianico Donnaluna di De Conciliis Cappone ripieno su fondente di scalogno Combination di Luna rossa Semifreddo al torroncino con salsa al miele e frutta candita Lambiccato di Longo A persona euro 40.00 vini inclusi 112 Volete mangiar bene? Andate all’Inferno U na volta andai a cena all’Inferno (girone dei Golosi, suppongo), ovvero in una delle sale in cui è suddiviso questo atipico ristorante giffonese: tre sale, una per ciascuna delle Cantiche dantesche, oggi ulteriormente migliorate da nuovi, radicali interventi. Ma non si creda che qui i fratelli Renato e Marco Contesimo indulgano a suggestioni gastronomiche di dubbio effetto, tipo la testina alla Conte Ugolino o la costata alla Ciacco: no, qui il pasto è tutt’altro che «fero», e ce ne accorgiamo subito, a partire da un benvenuto sempre cangiante: il mio - per dire - fu un semplice fiore di zucca ripieno di mousse di ricotta e impreziosito da una riduzione di balsamico e basilico. Non so Dante, ma io in quest’Inferno ci sto da dio: e fra l’antico «mallone» (una minestra) con salsiccia all’aglianico e crema all’aglio Gaetano Morese e il tortino di caciocavallo dei circostanti monti Picentini con verdure grgliate, sono certo che anche voi gradirete. Il risotto è a base di porcini e timo su fonduta di caciocavallo, ma le tagliatelle sono alla nocciola, la vera regina di Giffoni, condite con ragù di farona, frutta secca e salsiccia; mentre il piatto forte è un vero classico della festa d’un tempo, il ricco cappone ripieno d’ogni edibile ben di dio su fondente di scalogno. In Purgatorio, cioè nella sala adiacente, troneggiavano, almeno al www.ristoranteladivinacommedia.com tempo della mia prima visita, salumi e affettati (cavallo, anatra, e l’«esotico» Colonnata), pecorini, erborinati: e i formaggi freschi della benemerita Taverna Penta nella vicina Pontecagnano. Di stagione in stagione, i fratelli Contesimo e il bravo chef Gaetano hanno imparato a puntare con determinazione sempre maggiore sul territorio e sulle sue eccellenze, e i risultati sono ormai sotto gli occhi (e le papille) di una clientela sempre più affezionata, che trova anche nella porposta dei vini quel legame con le radici che la massificazione del gusto rischia continuamente di recidere. Non qui, dove tra i vini di Maffini, De Conciliis e Longo riscopri i piaceri d’un’area appartata della Campania. Se tutti gli Inferni fossero simili a questo, vorremmo peccare molto per essere condannati ad abitarvi per l’eternità. MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Divina Commedia Giffoni Valle Piana - Salerno indirizzo traversa Fortunato, 5 - Giffoni Valle Piana (SA) telefono 089 866124 chiusura lunedì. Dal martedì al sabato aperti solo a cena, la domenica solo a pranzo. carte di credito tutte Percorrere la tangenziale di Salerno, fino all’uscita Zona Industriale, imboccare la strada provinciale da Fuorni a Giffoni Valle Piana. 113 114 U na piacevole giornata a contatto con una natura ancora splendidamente intatta tra castagneti ben tenuti e terrazzati si può trascorrere a Giffoni Valle Piana. Si possono fare lunghe passeggiate, respirando aria buona e godendo del panorama con una bella vista sulle aguzze montagne calcaree. Il sentiero più attrezzato è quello delle “miniere di ittiolo” così denominato perché dedicato a una vecchia miniera oggi abbandonata. Qui veniva estratto un particolare tipo di ittiolite (roccia contenente pesci fossili) formatasi a partire da 250 milioni di anni fa ed oggi usato sia come combustibile che come antisettico in medicina. Il caratteristico odore dell’ittiolite vi accompagnerà per tutto il viaggio e se amate l’avventura potrete esplorare con prudenza le cavità con l’ausilio di una torcia, magari vedendo qualche pesce fossile. Il percorso giffoni valle piana, noccioleto giffoni valle piana, fossili di circa un’ora è abbastanza agevole sia per bambini che per adulti, quasi tutto in discesa e per lo più dotato di parapetti in legno. E’ consigliabile anche nelle giornate assolate perché quasi tutto all’ombra.Nelle mattinate autunnali o primaverili il terreno può diventare un po’ fangoso (specie dopo le piogge) ed è perciò consigliabile indossare degli scarponcini da montagna per godersi senza problemi la visita. Pannelli esplicativi vi guideranno sull’iter da seguire. In fondo alla valle si potranno ammirare i noccioleti e di fronte suggestive guglie calcaree. Merita una visita anche il solitario convento di San Giovanni a Carbonara, fondato nel 1490. Gli amanti delle traversate apprezzeranno senza dubbio i paesaggi mutevoli dalle maestose quinte del Terminio alle valli e ai noccioleti di Giffoni, nota soprattutto per il Film Festival. Quest’ultimo è un evento internazionale dove sono pre- senti i più importati personaggi del mondo dello spettacolo. La nocciola è una produzione secolare della zona, una specialità da non perdere è quella tonda. Incantevole è la frazione più piccola di Giffoni, quella di Terravec- Giffoni Valle Piana chia, completamente ristrutturata nel pieno rispetto della sua originaria conformazione architettonica. Adagiata sul cucuzzolo di una collina immersa in un uliveto secolare, potrete raggiungere a piedi i ruderi di una roccia seguendo un bel sentiero dal quale si gode una vista mozzafiato sulla valle del torrente Picentino fino al mare. Avendo del tempo a disposizione si consigliano anche le frazioni di Santa Maria con la chiesa di S. Maria dei Vichi (identificata a lungo con il tempio costruito da Giasone mentre errava per la conquista del Vello d’oro) e il Castel Rovere (una favolosa e pittoresca costruzione, oggetto di strane leggende di mala sorte). Un fiore all’occhiello della vicina frazione di Mercato è il trecentesco gotico convento di San Francesco con dipinti di stile marcatamente giottesco. Durante le vacanze natalizie con la durata di circa un mese si svolge la Mostra internazionale di arte presepiale con l’esposizione dei bei presepi della tradizione napoletana e il piatto tipico SENTIERO PER LA MINIERA DI ITTIOLo MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Fra la vecchia miniera e il torrente GIFFONI VALLE PIANA, CHIESA DI SAN GIOVANNI A CARBONARA ogni anno vi è una nazione o regione ospite. Accanto al lato nord del chiostro fu edificata una chiesa dedicata alla Sacra Spina (una delle reliquie più importanti della cristianità, donata a Giffoni dal cardinal de Rossi che a sua volta l’aveva ricevuta da Carlo IV), oggi conservata nella chiesa della SS. Annunziata. Viene esposta ai fedeli i venerdì di marzo e il venerdì santo e, secondo la tradizione, espo- sta al bacio dei fedeli si tinge di rosso sangue. Da non perdere la piazza Mercato, una delle più belle della provincia, con il palazzo baronale e la fontana che è stata realizzata su disegno del Vanvitelli. Nel rione Campo a trecento metri dalla piazza si trova il tempio di Ercole, sorto su una necropoli romana, in cui si potranno osservare un frammento di colonna e pochi resti di mosaici. (G. I.) Nocciola Struffoli di Giffoni ffettuosamente chiamata Tonda di Giffoni, questa pregiata nocciola è stata coltivata in Campania da tempi antichissimi, menzionata negli scritti di Catone, Columella, Plinio e Virgilio e raffigurata in dipinti murali a Pompei e Ercolano. Oltre al sapore pieno e all’aroma gradevole, la nocciola di Giffoni ha altre caratteristiche morfologiche, quali la forma sub-sferica che consente di recuperare frutti interi dopo la rottura del guscio e la facile pelabilità dopo la tostatura, che ne fanno un prodotto adatto alla trasformazione industriale. L’interesse dell’industria dolciaria verso la nocciola di Giffoni è enorme per l’infinità di prodotti che ne derivano: frutti interi per confezionare torroni d’alta qualità, o snack raffinati, granella per guarnizioni dolciarie o pasta da utilizzare in pasticceria e gelateria. A 115 VINI IN CAMPANIA di Pino Savoia 116 Aglianico Il Rosso per antonomasia Due interpretazioni della potenzialità dell’Aglianico L’Aglianico è il vitigno a bacca nera più coltivato ed importante della Campania. Originario della Magna Grecia, deve il suo nome alla volgarizzazione del termine greco “Ellenikon” in Hellenico, Hellanico, fino ad arrivare ad Aglianico. Conosciuto fin dall’antichità e legato a filo doppio con il Falerno, prima doc del mondo, l’Aglianico è oggi diffuso in diversi ambienti pedoclimatici. Nelle province di Benevento e Caserta con il nome di Aglianico Amaro ( di qui l’origine secondo alcuni del termine dal greco “a-glucos” senza zucchero), nella provincia di Salerno col nome Aglianicone, nella provincia di Napoli col nome di Aglianichello, ed infine nella provincia di Avellino col famoso Aglianico di Taurasi. Un vitigno, dunque, in grado di offrire vini di elevatissimo livello qualitativo in tutta la Campania, dall’estremo Cilento, dove dà origine a vini morbidi, corposi con complessi aromi di spezie , fino ai confini con il Lazio. L’Aglianico diffuso nel Sannio rappresenta il vitigno base per alcune produzioni enologiche di pregevole qualità: l’Aglianico del Taburno, il Sant’Agata de’ Goti, il Solopaca ed il Guardiolo. A differenza dell’Aglianico di Taurasi il vino prodotto presenta un corredo aromatico meno speziato e più fruttato con nuances di more e ribes nero. In bocca il vino è meno asciutto e tannico, con una gradevole morbidezza e facilità di beva fin dai primi anni. Indovinato è l’abbinamento con primi piatti con sughi di carne, con spezzatini di maiale o con i caprini stagionati. Nella versione rosato la sua freschezza ricca di frutta rossa si abbina ai salumi , alle zuppe di pesce e di verdure. Nella provincia di Caserta l’Aglianico si configura, oltre che nella DOC Galluccio , nel leggendario Falerno del Massico. Si narra infatti che Bacco, sotto mentite spoglie, chiese ospitalità al vecchio Falerno; commosso dalla sua generosità fece nascere sulle pendici del Monte Massico viti lussureggianti. I più grandi poeti dell’antichità hanno tessuto le lodi di questo vino così pregiato e longevo. Petronio addirittura racconta che durante la famosa cena di Trimalcione fu servito un Falerno vecchio di 100 anni. Oggi il Falerno prodotto con uve Aglianico e Piedirosso (oltre alla versione prodotta con uve Primitivo) si caratterizza per i suoi odori di frutti di bosco, amarene selvatiche, ma anche humus e note minerali. Fresco, sapido ed equilibrato, è un degno compagno della minestra maritata, del maiale con le mitiche “papaccelle” e dei primi piatti tradizionali napoletani come gli ziti spezzati con la genovese. Aglianico del Taburno Aglianico del Taburno rosso rosso Vitigni: Aglianico (min. 85%), altri (max 15%) Gradazione alcolica min.: 11,50% Invecchiamento: 2 anni Produzione max: 100 qli/Ha Irpinia Aglianico Irpinia Aglianico Vitigni: Aglianico (min. 90%), altri (max 10%) Gradazione alcolica min.: 11,00% Produzione max:120 qli/Ha Asprinio Il vitigno più alto d’Italia Biancolella Il vitigno innamorato del mare L’Asprinio è da sempre tra i vini più amati dai napoletani, forse per la sua capacità di dissetare, riconosciutagli fin dal 1500 addirittura dal bottigliere del Papa Paolo III. Quale che sia la sua origine ( alcuni lo vogliono introdotto durante la dominazione francese e proveniente dalla famiglia dei Pinots), l’Asprinio presenta una unicità legata al territorio con un’area di coltivazione ridotta (solo 22 comuni nelle province di Caserta e Napoli) ed al tradizionale sistema di allevamento adottato fin dal tempo degli Etruschi: l’alberata. Le viti si arrampicano, maritate al pioppo, fino a 15 metri, cariche di grappoli che devono essere raccolti su altissime scale. Dal vitigno Asprinio, si ottiene oltre al tipo bianco fermo caratterizzato da un grande nerbo acido, agrumato, virilmente secco, anche un vino spumante di grande eleganza e personalità. L’abbinamento gastronomico è con la mozzarella di bufala campana o la pizza, anche se non disdegna affatto l’incontro d’amore con il fritto di verdure in tempura, la classica frittura di pesce, o ancora sodale compagno di un pranzo dove sono i prodotti del mare a fare da padroni. Il Biancolella è un vitigno che ama il mare. Si trova solo a Ischia sua terra d’elezione, Procida, dove è denominato Teneddu, e a Capri dove è chiamato San Nicola. Come vitigno complementare lo ritroviamo anche nelle DOC Campi Flegrei, Penisola Sorrentina e Costa D’Amalfi. Il suo legame col mare è viscerale, fin dalla sua nascita. Portato dai Greci nel 770 a.C. a Ischia ( Pithaecussai) ribattezzata poi dai Romani Aenaria (terra del vino), il Biancolella rappresenta per qualità e produzione una vera chicca enologica. Vinificato in purezza dà vita al vino doc Ischia Biancolella ricco di sentori floreali e macchia mediterranea, e unitamente alla Forastera alle tipologie Ischia bianco e Ischia spumante. Freschi e fruttati, serbevoli e ricchi di sapori minerali sono vini che adorano la cucina marinara campana, come le zuppe di pesce e crostacei profumate di erbe aromatiche, le paste artigianali con frutti di mare e pomodorino, oppure l’abbinamento per antonomasia col coniglio di fossa all’ischitana. VINI IN CAMPANIA I vini, gioielli della Campania felix Biancolella Biancolella Vitigni: Biancolella (min. 85 %), altri (max 15%) Gradazione alcolica min.: 10,50% Produzione max: 100 qli/Ha. Asprinio Vitigni: Asprinio (min. 85%), altri (max 15%) Gradazione alcolica min.: 10,5% Produzione max: 120 qli/Ha, nel caso di controspalliera; 4 kg/mq di parete verde nel caso di alberata Spumante Vitigni: Asprinio in purezza Gradazione alcolica min.: 11,50% Produzione max: 120 qli/Ha, nel caso di controspalliera; 4 kg/mq di parete verde nel caso di alberata. 117 Coda di volpe L’uva “volpina” Falanghina Il vitigno figlio del “fuoco” Il Casavecchia è prodotto nel quadrilatero Pontelatone, Formicola, Castel di Sasso e Liberi, tutti comuni in provincia di Caserta. Di quest’area ne parlava già Plinio nel “Naturalis Historia” quando decantava l’alta qualità del vino di Trebula Balinensis, l’attuale Treglia di Pontelaone. Per quanto riguarda però l’origine del Casavecchia bisogna ricollegarsi all’epidemia di oidio che distrusse la gran parte delle varietà di viti campane nel 1800. Un ceppo centenario (risalente a ben 3 secoli prima), fu però ritrovato praticamente illeso ai primi del ‘900. E da quel ceppo, che si trovava all’interno di un vecchio rudere (forse proprio perciò scampato all’epidemia), i contadini della zona ricavarono le marze con cui reimpiantare i propri vigneti. L’uva di quell’antica costruzione romana, fu così ribattezzata “ l’uva ‘e chella casa vecchia”. Oggi il Casavecchia si presenta come un vino dai profumi erbacei, di foglie secche, di frutti di bosco, di carruba, di liquirizia, morbido al gusto ed apprezzato negli abbinamenti con carni rosse importanti, primi piatti con sugo di castrato, formaggi a pasta dura sapidi di stagionatura. Il vitigno Coda di Volpe bianca è conosciuto da tempi remoti. Le prime tracce scritte di esso risalgono al I secolo d.C. nella Naturalis Historia di Plinio. Le origini dell’affascinante nome Coda di Volpe sono ascrivibili all’identificazione con le antiche uve Alopecis, il cui nome deriva dalla peculiare forma del grappolo che ricorda appunto la coda di una volpe. È un vitigno tipicamente campano, diffuso solo sul territorio regionale. Anche se è coltivato in tutte le province della Campania, lo ritroviamo soprattutto in provincia di Avellino, Benevento e Napoli. È presente come vitigno prevalente nella composizione del vino DOC Lacryma Christi del Vesuvio bianco.Vinificato in purezza dà vita all’omonima tipologia monovitigno nell’ambito dei vini DOC Taburno e Sannio. In questi ultimi casi, il Coda di Volpe si presenta come un vino intrigante per il corredo aromatico ricco di nuances floreali (fiori gialli), fruttate ( pesca, albicocche) e contrassegnato al gusto da una piacevolezza di beva davvero invidiabile. Queste note caratteriali ne fanno un vino versatile negli abbinamenti tanto con i piatti di pesce cucinati in maniera semplice, come il baccalà in umido, tanto con le zuppe di legumi di cui è ricca la tradizione gastronomica delle zone interne della Campania. Coda di Volpe Il nome Falanghina deriva dal termine “falanga”, e cioè il palo utilizzato per appoggiare i ceppi di vite, che rappresenta il passaggio storico-viticolo dalla viticoltura greca a quella latina. La nobile origine della falanghina è suffragata dalla presenza tra le varietà del Real Orto Botanico di Napoli. Autorevoli testi segnalano la radicalizzazione della falanghina nel 1800 nelle zone del Vesuvio, del monte Somma e dell’Isola d’Ischia. Quindi storicamente la falanghina è una varietà che nasce dal “fuoco vulcanico” e vive su terreni ricchi di tufi, pomici e ceneri. Oggi la falanghina è prevalentemente coltivata il provincia di Napoli, Caserta e Benevento.Tuttavia, notevole è la differenza genetica tra i due vitigni: quello diffuso nei Campi Flegrei e quello beneventano. La falanghina rappresenta in Campania, per estensione, il secondo vitigno autoctono, essendo il primo l’Aglianico. Essa è presente nelle DOC Campi Flegrei, Falerno del Massico, Capri, Sorrento, Costa d’Amalfi, Lacryma Christi del Vesuvio. Il tipo beneventano invece caratterizza le DOC Guardiolo, Sant’Agata dei Goti, Sannio, Solopaca, Taburno e Galluccio. Vitigni: Coda di volpe bianca (min. 85%), altri (max 15%); Gradazione alcolica min.: 11%; Produzione max 120 qli/ Ha. Falanghina Falanghina Vitigni: Falanghina (min. 85%), altri (max 15%); Gradazione alcolica min.: 11%; Produzione max: 120 qli/Ha. Casavecchia Vitigni: Casavecchia (max 85%) altri vitigni (15%) Gradazione alcolica: rosso (max 11,5%) ris. (max 12%) Produzione: rosso e ris. produzione max 9uva /Ha ton 118 Un unico vitigno per due vini molto diversi Per molto tempo si è creduto che in Campania ci fosse un solo tipo di Falanghina detta Flegrea. Recenti studi hanno invece appurato l’esistenza da un punto di vista genetico di un’altra varietà detta Beneventana da cui si ottiene un vino con profumi e sapori molto diversi da quella flegrea. Una delle caratteristiche che rende unica la DOC dei Campi Flegrei è la pianta da cui deriva, detta a piede franco, e cioè senza portainnesto. Si tratta di una vigna originaria, la “Vitis Vinifera”, non innestata su ceppi di vite americana, che è rimasta inalterata all’attacco della fillossera che devastò i vigneti europei nella seconda metà del Diciannovesimo secolo.Tale unicità produce un vino dal bouquet fine, elegante, con note floreali (fiori di agrumi), e fruttate (mela, albicocca, pesca) particolarmente intense. Il sapore secco, fresco ed equilibrato chiude piacevolmente con un finale amarognolo di melograno. Ciò ne fa un compagno ideale dei risotti con crostacei e frutti di mare, di pesci locali quali la pezzogna alla brace, un flan di verdure, e dei formaggi freschi quali caprini e mozzarella di bufala. A differenza della prima, invece, la Falanghina del Sannio ha un corpo ed una gradazione alcolica maggiore, oltre ad un intrigante e caratteristico aroma affumicato. I profumi del vino sono meno floreali e minerali e più fruttati e rotondi (banana, albicocca secca, mandorla, miele), con un gusto più morbido e pieno. Si abbina quindi a minestre di legumi, zuppe con i funghi, carni bianche, senza disdegnare affatto piatti di pesce con salse delicate ed aromatiche. Della Falanghina esiste anche una versione spumante molto fine ed elegante, ed una versione passita ricca e complessa di note di frutta secca, miele, anice che la accompagnano naturalmente all’abbinamento con la pastiera napoletana e con tutti i ricchi dolci della tradizione partenopea. VINI IN CAMPANIA VINI IN CAMPANIA Casavecchia L’uva ‘e chella casa vecchia Falanghina Campi Flegrei Falanghina Campi Flegrei Vitigni: Falanghina (min. 90%), altri (max 10%) Gradazione alcolica min.: 11% Produzione max: 120 qli/Ha FalanghinaFalanghina spumante Spumante Vitigni: Falanghina (min. 90%), altri (max 10%) Gradazione alcolica min.: 11,50% Produzione max: 120 qli/Ha Falanghina Beneventana Falanghina Beneventana Vitigni: Falanghina (min. 90 %), altri (max 10 %) Gradazione alcolica min.: 11% Produzione max : 110 qli/Ha 119 Due territori a confronto, una sola grande anima: il Fiano Greco L’élite dell’antichità Lacryma Christi Questo sacro, antico vino Il vitigno Fiano sembra essere legato ad Apianum ( vecchio nome del comune di Lapio, nelle colline di Avellino) ed indica quell’uva che già Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historia citava come dolce e di cui andavano ghiotte appunto le api. Un’altra ipotesi riguardo l’origine del nome è quella legata alla discesa in quel di Lapio di una popolazione ligure gli Apuani, sfuggiti al governo di Roma e trasferitisi nell’Ager Taurasinus. In ogni modo, il Fiano era molto apprezzato già nel Medioevo. Nel registro di Federico II di Svevia è annotato un ordine per tre “salme” di Fiano. Anche Carlo d’Angiò doveva amare questo vino, al punto da impiantare nella propria vigna ben 16.000 viti di Fiano. Il vitigno trova la sua massima espressione in Irpinia, dove vinificato in purezza dà origine alla DOCG Fiano di Avellino (un’area di 26 comuni tutti in provincia di Avellino). Il Fiano rientra come vitigno principale nelle DOC Cilento bianco e Sannio Fiano. La differenza sostanziale tra i due tipi di Fiano più conosciuti ed apprezzati, quello di Avellino e quello del Cilento dipende soprattutto dai diversi terroir. Il clima poco meridionale dell’Irpinia spiega il carattere del Fiano: gli inverni sono molto rigidi, in estate c’è sempre una buona escursione termica, il caldo non è mai asfissiante. I terreni, poi, di origine vulcanica, sono sciolti e freschi.Tutto ciò porta ad avere un vino strutturato, minerale, dotato di una forte personalità ed eleganza. Per cui il Fiano di Avellino si presenta con un corredo aromatico floreale (rosa e fiori di tiglio) e fruttato (pera e nocciola sopra tutti), fine (con note fumè e mentolate), con un gusto fresco e morbido al tempo stesso. Come ogni grande vino trova molteplici abbinamenti legati al territorio ma anche alla grande cucina d’autore. Bevuto da giovane o nella versione spumante accompagna degnamente primi piatti importanti di pesce e crostacei, pesce in pasta di sale e fior di capperi, zuppe di funghi e cereali, etc. Con qualche anno sulle spalle invece stupisce con primi piatti col tartufo bianco, ravioli con ricotta, noci ed aglio bruciato, carni bianche elaborate, formaggi a pasta dura e semidura come il Caciocavallo Podolico semistagionato, etc. Il Fiano del Cilento è molto diverso dal cugino irpinio: protetto dalla estensione della piana del Sele, il Cilento è quasi l’unica zona della Campania a non aver subito l’influenza del Vesuvio e ciò naturalmente si riflette sulle caratteristiche della terra. Il Fiano cresce così con minori componenti minerali e minore acidità, che in vinificazione portano ad un vino meno fresco ed elegante. Di contro abbiamo un grado alcolico piuttosto sostenuto, una buona struttura di base ed una maggiore grassezza nel vino. Caratteristico al naso con fiori e frutti maturi (mandorla, mallo di noce, kiwi), note mielate, burrose ed accenni muschiati. Un gusto morbido e ricco che trova un matrimonio d’amore con le pappardelle con i funghi porcini, le ricche minestre della tradizione cilentana, i risotti col vino bianco e carpaccio di pesce azzurro, il tonno leggermente scottato con colatura di alici. Le origini del vitigno Greco si perdono nella notte dei tempi. Originario della Tessaglia , fu importato in Campania dai Pelasgi, che ne diffusero la coltivazione prima sulle pendici del Vesuvio e poi in alcune aree della provincia di Avellino, in particolare Tufo, il cui terreno ricco di zolfo ed altri minerali risultò ideale . Secondo Columella ed altri scrittori latini deriverebbe dall’Aminea gemina o gemella, in quanto presentava un grappolo doppio. Dalle viti “Aminee” si ottenevano i migliori vini bianchi dell’antichità. Il Greco oggi è presente ovunque nel Mezzogiorno, ma è a Tufo ed in provincia di Avellino (solo 8 i comuni onorati della DOCG Greco di Tufo) che ha trovato la sua massima espressione. Grande struttura, elevata freschezza e complessità aromatica sono i tratti distintivi di questo nobile vino. Nella tipologia spumante o nella versione ferma, quando giovane, grazie ai suoi aromi fragranti e fruttati (mela cotogna, noce, sambuco), oltre che di erbe e spezie si abbina piacevolmente con frutti di mare crudi, pesce al forno profumato al timo, risotti di mare, formaggi freschi. Grazie alla sua longevità possiamo apprezzarlo, da “maturo”, con primi piatti di pesce, pomodoro ed erbe aromatiche, con calamari e crostacei alla griglia, coccio all’acqua pazza o carni bianche poco elaborate. Il Greco come vitigno inoltre compare nella composizione della DOC Capri bianco, nelle tipologie di bianco delle doc Vesuvio, Cilento, Sorrento oltre che come monovitigno dei vini DOC Taburno, Sant’Agata dei Goti, Sannio. La leggenda racconta che Lucifero, scacciato dal Paradiso, ne rubò un lembo e lo portò sulla terra a formare il Golfo di Napoli. Gesù Cristo, addolorato per questa perdita, pianse, e lì dove caddero le lacrime divine sorse la vite del Lacryma Christi. Questo vino noto fin dall’antichità, contornato da un alone di fulgide storie è stato per molti anni il biglietto da visita enologico di Napoli all’estero. Era soprattutto conosciuto nella versione dolce, ancor oggi presente come spumante, briosa di frutta candita e perfetta per accompagnare la sfogliatella napoletana. Ma il Lacryma Christi in versione secca è oggi un vino molto piacevole ed interessante. Prodotto con Coda di Volpe in purezza o assieme a Falanghina,Verdeca e Greco si presenta con un corpo energico ma non pesante, fresco e sapido con nette note di nespola ed albicocca. L’affascinante beva e la mineralità ne fanno il protagonista indiscusso dell’abbinamento con la cucina da strada napoletana e con le intriganti preparazioni culinarie che hanno ad oggetto il pesce azzurro. Fiano di Avellino Fiano del Cilento Vitigni: Fiano (min. 85%), Greco, Coda di volpe bianca e/o Trebbiano T. (max 15%) Gradazione alcolica min.: 11,5% Produzione max: 100 qli/Ha Vitigni: Fiano (loc. detto Santa Sofia) (60-65%), Trebbiano T. (20-30%), Greco e/o Malvasia b. (10-15%), altri (max 10%) Gradazione alcolica min.: 11% Produzione max: 100 qli/Ha GrecoGreco di tufodi Tufo Vitigni: Greco (min. 85%), Coda di volpe bianca (max 15%) Gradazione alcolica min.: 11,50% Produzione max: 100 qli/Ha Bianco*Bianco Vitigni: Coda di volpe bianca (loc. detta Caprettone) e/o Verdeca (min. 80%), Falanghina e/o Greco (max 20%) Gradazione alcolica min.: 11% Produzione max: 100 qli/ Ha Rosso Rosso Vitigni: Piedirosso (loc. detto Palummina) e/o Sciascinoso (loc. detto Olivella) (min. 80 %), Aglianico (max 20 %) Gradazione alcolica min.: 12% Produzione max : 100 qli/ Ha VINI IN CAMPANIA VINI IN CAMPANIA 120 Fiano L’uva amata dalle api Rosato Rosato Vitigni: Piedirosso (loc. detto Palummina) e/o Sciascinoso (loc. detto Olivella) (min. 80%), Aglianico (max 20%) Gradazione alcolica min.: 12% Produzione max: 100 qli/ Ha Qualora i vini raggiungano gradazioni alcooliche inferiori (11% per il bianco, e 10,50% per il rosso e il rosato), essi dovranno essere denominati Vesuvio e non potranno riportare in etichetta la dicitura Lacryma Christi. 121 Piedirosso Il più napoletano dei vitigni Taurasi Il rosso aristocratico Birra? Sì, campana Il Pallagrello bianco è un vitigno molto antico, la cui origine risale all’antica Grecia. Fu un vino molto apprezzato da Ferdinando IV di Borbone che gli riservò un posto d’onore nella sua Vigna del Ventaglio di San Leucio a Caserta. Si dice che questo vino gli piacesse al punto di vietare il passaggio in località Ponticello nella cittadina di Piedimonte Matese dove appunto aveva fatto impiantare il Pallagrello. L’attuale zona di produzione coincide con i territori di Caiazzo, Castel Campagnano e Castel di Sasso, tutti in provincia di Caserta. Il Pallagrello è un vino strutturato, con una buona gradazione alcolica, caldo, solare, con sentori di frutta esotica, pesca, albicocca, che si presta molto bene agli abbinamenti con le paste e legumi, le zuppe autunnali, ma anche con i primi piatti della saporosa cucina marinara. Nella versione vendemmia tardiva è particolarmente indicato con i nobili crostacei, i paccheri vongole e bottarga, il pollame e gli animali da cortile se cucinati ad arte. Il Piedirosso è il vitigno a bacca nera più diffuso in Campania dopo l’Aglianico. Presente in modo particolare nelle aree vulcaniche della provincia di Napoli, è un’uva che già i Latini conoscevano col nome di “Colombina”. È l’origine del nome che colora con un timbro partenopeo la storia di questo vitigno: “ Per’ e palummo” , che deriva da una caratteristica morfologica dell’uva, e cioè il colore rosso dei pedicelli degli acini che ricorda la tinta della zampa dei colombi. Il Piedirosso dà vita a vini di grande tipicità come le DOC Campi Flegrei ed Ischia (tipologie rosso e Per ‘e palummo), Capri, Lacryma Christi del Vesuvio, Penisola Sorrentina (sottozone Gragnano, Lettere, Sorrento), Costa d’Amalfi (sottozone Furore, Ravello,Tramonti), Sant’Agata de’ Goti. Il vino si presenta poco tannico, con un gusto morbido ed equilibrato, ricco di delicati odori di frutti rossi ed erbe aromatiche quali timo, salvia, lavanda. Si abbina magistralmente con il sartù di riso e polpettine, con i timballi di paste, le frittatine di maccheroni, ma anche con gustose zuppe di pesce. Piedirosso e Olivella (altra uva tipica) danno poi origine ad un altro famoso vino: il Gragnano della Penisola Sorrentina.Vino rosso frizzante, con una spuma delicata e fine, esplode in un tripudio di piccoli frutti rossi ed amarene che chiudono il quadro aromatico con un inconfondibile aroma di affumicato. È d’uopo berlo accompagnandolo con la pizza o con il “panuozzo di Gragnano”, ma grosse soddisfazioni le offre con piatti giustamente grassi e succulenti come le tipiche salsicce e friarielli. Unico vino rosso a DOCG della Campania, il Taurasi per la sua austerità, eleganza, vigoria e longevità è definito il Barolo del Sud. Prodotto in 17 comuni irpini (situati su colline medio alte tra i 400 e i 600 m), trova il suo habitat naturale in terreni vulcanici e argillosi-calcarei ricchi di potassio e minerali. È un vino aristocratico ricco di profumi di sottobosco, marasca, spezie ( pepe nero, chiodi di garofano), tabacco, petali di rose secche, con un gusto pieno, astringente e persistente che vira col lento procedere del tempo verso una più saggia morbidezza. Queste note caratteriali ne fanno un campione negli abbinamenti gastronomici con la selvaggina da piuma, la cacciagione, i piatti di carne rossa strutturati e succulenti della tradizione irpinia e non solo. Entusiasmante dopo 10 anni di vita con la faraona cotta a bassa temperatura e salsa alla liquirizia, o con i grandi formaggi stagionati come il Pecorino Laticauda. La birra artigianale rappresenta la nuova frontiera della grande qualità made in Campania. Non una scommessa, ma una salda realtà, la birra dei microbirrifici è sempre più apprezzata sia dai singoli consumatori che dai ristoranti gourmet. Nello specifico la Kolsch di Faicchio è una bionda dal colore velato, fragrante, leggera dai profumi agrumati ed ottenuta con il metodo dell’alta fermentazione. È una birra a tutto pasto, anche se il meglio di sé lo offre in abbinamento alle fritture di pesce o di verdure. Interessante è anche l’abbinamento con le carni bianche non eccessivamente salsate, o con i formaggi a pasta dura filata come il Provolone del Monaco. La Dark Strong Ale di Faicchio è invece una birra doppio malto dal colore bruno con intense note tostate e speziate, ottenuta con il metodo dell’alta fermentazione. Gli abbinamenti più audaci sono con ostriche e tartufi di mare crudi, crostacei e carpacci di pesce. Ma sposa magnificamente anche primi piatti dal sapore deciso, formaggi di lunga stagionatura e secondi piatti di cacciagione. Infine un abbinamento insolito ma di gran classe è con i dessert a base di cioccolato fondente. Pallagrello Pallagrello Vitigni: Pallagrello Gradazione alcolica: 13,5% Produzione: 6,77 Kg. per Ceppo 122 Vitigni: Aglianico (min.Taurasi 85%), altri (max 15%) Gradazione alcolica min.: 12,00% Produzione max: 100 qli/Ha Invecchiamento: 3 anni, di cui uno in botte Il Taurasi , se invecchiato per almeno 4 anni, di cui 18 mesi in botte, e in possesso di una gradazione alcolica non inferiore a 12,50%, può riportare in etichetta la dicitura “riserva”. Deve essere commercializzato solo in bottiglie di forma bordolese di vetro scuro, con tappo di sughero. VINI IN CAMPANIA VINI IN CAMPANIA Pallagrello Il vino del Re Kolsch Kolsch Gradazione alcolica: 5% Temperatura di servizio: 5/7°C Dark Strong Ale Dark Strong Ale Gradazione alcolica: 7,5% Temperatura di servizio: 8/10°C 123 Nocillo L’elisir delle streghe Il Moscato è un grande vitigno , ancora però in via di affermazione in Campania. Diffuso ovunque era il vino della domenica, della festa, che rallegrava e mitigava il duro lavoro dei campi. Oggi, dopo un periodo di oblio enologico, si è ripresi a produrlo oltre che nel Cilento (DOC Castel San Lorenzo) anche nel beneventano (Moscato di Baselice). Nascono così vini dolci, aromatici e complessi (confettura di albicocche, fichi secchi, mandorle tostate, cannella) che possono essere bevuti da soli o accompagnati alla pasticceria secca ed ai dolci pasquali. Il Lambiccato della Valcalore ( DOC Castel San Lorenzo)) è legato, invece, ad una vecchia tradizione risalente a quando il vino si otteneva goccia dopo goccia da una sorta di filtro molto rudimentale che richiamava l’alambicco. Ed era il vino della festa del Santo patrono. Oggi il vino prodotto si presenta in una seducente veste briosa, con netti riconoscimenti di mele cotte, frutta candita, arance amare ed un gusto fresco, dolce ma non stucchevole. Oltre che sulla piccola pasticceria napoletana e sui dolci natalizi, se ne può provare l’abbinamento con i piatti agrodolci orientaleggianti. A Napoli, nei quartieri più antichi, c’è ancora chi continua a chiamarlo “‘a merecina”, la medicina. Stiamo parlando del Nocillo (prodotto a Benevento, in Penisola Sorrentina e nei Paesi Vesuviani), un elisir-liquore al quale in effetti vengono riconosciute popolarmente proprietà febbrifughe e sedative, oltre che ben più certe funzioni digestive. È un liquore avvolto da un alone di magia e superstizioni popolari che lo vogliono prodotto attraverso il rispetto di una ricetta ed un cerimoniale antico. È ricavato dal mallo verde delle noci messe in infusione nell’alcol assieme a spezie ed erbe aromatiche nella notte del solstizio d’estate, la notte di San Giovanni, il 24 giugno. Secondo la leggenda in tale notte si raccoglierebbero da tutto il mondo le sacerdotesse di Diana, le “janare”, le streghe maliarde che affascinano l’uomo e lo rendono schiavo del diavolo. Nella notte del Sabba quindi si combatte la negatività delle janare raccolte sotto gli alberi di noce, raccogliendo le noci ed aspettando il trionfo della luce sulle tenebre. L’aroma del Nocillo è inconfondibile, fine, lievemente muschiato, impreziosito da nuances di chiodi di garofano, china, cannella: un fine pasto che sa davvero stregare i palati. Moscato Moscato Vitigni: Moscato B. (min. 85%), altri (max 15 %) Gradazione alcolica min.: 12%, di cui svolti 8,50% Produzione max: 100 qli/Ha Il Castel San Lorenzo, Moscato, se immesso al consumo con una gradazione alcolica non inferiore a 13,50%, di cui l’8,50% svolti, può riportare in etichetta la dicitura lambiccato. Dicembre 2008 6 8 10 12 14 16 124 sabato 7 lunedì 9 S. Nicola di Bari Immacolata Concezione mercoledì 11 venerdì 13 domenica 15 martedì 17 Beata Vergine Maria di Loreto S. Valerico abate S. Giovanni della Croce dottore S. Albina martire domenica S. Ambrogio vescovo martedì S. Siro di Pavia vescovo MENU DELLA MEMORIA VINI IN CAMPANIA Moscato e Lambiccato I vini delle feste giovedì S. Damaso papa sabato S. Lucia Vergine lunedì S. Maria Crocifissa di Rosa vergine mercoledì S. Lazzaro di Betania 125 18 20 22 24 26 28 126 giovedì 19 sabato 21 lunedì 23 mercoledì 25 venerdì 27 domenica 29 S. Graziano di Tours vescovo Liberato martire S. Francesca Cabrini vergine S. Irma e S. Adele S. Stefano primo martire SS. Innocenti martiri venerdì S. Elia martire Gennaio 2009 30 domenica 1 martedì 3 giovedì 5 sabato 7 lunedì 9 S. Pietro Canisio dottore S. Vittoria Natale del Signore S. Giovanni apostolo ed evangelista S. Tommaso Becket vescovo martedì S. Eugenio di Milano 31 giovedì 2 sabato 4 lunedì 6 mercoledì 8 Maria Madre di Dio S. Genoveffa vergine S. Amelia vergine S. Raimondo di Penafort sacerdote venerdì SS. Giuliano e Basilissa 10 mercoledì S. Silvestro papa venerdì SS. Basilio e Gregorio vescovi MENU DELLA MEMORIA MENU DELLA MEMORIA Dicembre 2008 domenica B. Angela da Foligno religiosa martedì Epifania di Nostro Signore giovedì S. Severino abate sabato S. Aldo eremita 127