RAPPORTO TRA COMUNITÀ TERRITORIALE E ASSEMBLEA LITURGICA Cettina Milìtello Affrontare il tema della celebrazione, dell'assemblea liturgica, nel contesto delle unità/comunità pastorali chiede innanzitutto la loro messa a fuoco. Infatti, pur nell'ovvia ricaduta amministrativo- territoriale, queste realtà - si chiamino «unità pastorali» o «comunità pastorali» - risultano più o meno da una pluralità di parrocchie che convergono in una pastorale unitaria, guidate talora da un solo sacerdote, talora da un sacerdote moderatore o responsabile con il quale collaborano altri presbiteri, che possono essere essi stessi singolarmente responsabili (parroci) delle parrocchie convergenti nella unità/comunità pastorali, o responsabili in solidum delle parrocchie di cui essa risulta. Negli ultimi due casi possono anche fare vita comune e portarsi presso le parrocchie loro affidate per svolgervi l'attività ministeriale. Va da sé che non si tratta di un mero accorpamento, quanto piuttosto di un tentativo di stabilire legami diversi con il territorio meglio rispondendo alle sue esigenze. Ecclesialmente ciò significa anche perseguire o promuovere una nuova immagine di Chiesa nel segno della sinergia e della comunione. 1. RISPOSTA A UN DISAGIO PASTORALE Quali che siano le circostanze «nobili», non c'è dubbio che le unità/comunità pastorali provano a rispondere al venir meno quantitativo del clero, nell'impossibilità ormai, in quasi tutte le diocesi, di assegnare uno o più presbiteri a ciascuna parrocchia. Per altro, credo vada ricordato come la corrispondenza comune/ campanile, indicativa di identità civile e insieme religiosa, sia stata inficiata dal moltiplicarsi delle parrocchie anche in centri che non lo giustificavano. Cosa invece resasi necessaria nel contesto dell'ampliarsi delle aree urbane a partire dal secondo dopoguerra. Sicché, in molti casi, l'eventuale soppressione di più parrocchie o la loro conduzione compartita, riconduce a una situazione amministrativa antecedente, non necessariamente negativa. Quanto alle modalità concretamente attuative delle unità/comunità pastorali, vige una consistente diversificazione. Non solo per la definizione diversa data di esse nelle diocesi che le hanno già attivate, ma anche per l'organigramma diverso con il quale sono state tradotte o nel quale sono state inserite. Il che, tuttavia, riconduce alla soggettualità delle Chiese locali (diocesane) e alla legittimità tutta loro di articolarsi in forme adeguate a luogo e a cultura. Nella maggior parte dei casi, all'interno delle unità/comunità pastorali, le parrocchie restano distinte, anche negli aspetti amministrativi. Proprio la dichiarata volontà di non toccare in profondità l'ordito ecclesiale mi fa temere che le unità/comunità pastorali siano alla fine un puro espediente di sopravvivenza che si guarda bene dal mettere in discussione i vantaggi (economici) che derivano dall'articolazione in parrocchie del territorio diocesano. Altra cosa che mi ha molto colpita nella letteratura afferente - ma forse dipende da mia inadeguata informazione - è l'indifferenza, meglio il silenzio sull'assemblea liturgica. Si scrive molto e con perspicacia della crisi in atto, della crisi delia parrocchia, della necessità di promuovere una nuova immagine di Chiesa. Si iscrive l'operazione unità/comunità pastorali nel quadro di una «pastorale d'insieme» o - il che è lo stesso - di una «pastorale unitaria», ma le attenzioni, pur mirate, sembrano ignorare l'aspetto liturgico. Eppure la punta dell'iceberg della necessità del cambiamento, la denuncia evidente circa un'articolazione, un modello di Chiesa in esaurimento, credo l ce la dia l'impossibilità di assicurare a tutte le comunità di cui risulta I la diocesi la celebrazione dell'Eucaristia domenicale. Se, come avviene anche fuori dal disegno delle unità/comunità pastorali, è un solo presbitero a gestire più parrocchie, dovrà muoversi come un forsennato da una parrocchia all'altra. Spesso si tratta di parrocchie contigue, dentro o fuori dalla cerchia urbana. ln quest'ultimo caso, però, possono essere sparse in un territorio non solo ampio ma persino impervio. Se i presbiteri sono più d'uno, la difficoltà sarà quella del coordinamento della loro attività, con¬siderato il fatto che, malgrado il modello educativo del seminario (o forse anche proprio per quello), mettere insieme i presbiteri è problema tutt'altro che facile sotto il profilo della convivenza come del programma pastorale. A ciò si aggiunga la legittima resistenza delle comunità che, soprattutto in contesti non urbani, colgono nell'assetto e nell'indipendenza della propria realtà parrocchiale un principio, anche identitario, irrinunciabile. 2. IL PROBLEMA DELLE DIOCESI Sono questioni che toccano ima rete complessa anche di approcci. Ma non è possibile entrare asetticamente nel merito. Il problema però, più a monte, è quello delle diocesi, della loro rete, oltre al progetto del loro accorpamento o della loro costituzione in corrispondenza all'organigramma civile, in Italia quello delle province che, per altro, viene ora messo in discussione. Il problema — dialettico sino a un certo punto - è originariamente quello dell'identificarsi di una Chiesa compiutamente tale. E questo non appella genericamente a un «territorio» quanto piuttosto a una. «cultura». Ho scritto e ribadisco che una Chiesa «locale» (diocesana), se veramente tale, è anche un «soggetto culturale»; se incarna cioè l'ethos culturale del popolo di Dio che la costituisce, testimoniandolo con modalità sue proprie nel mettere in atto il rito1 , nell'esprimere la propria tradizione simbolica, nel darsi forme amministrative proprie. E ciò nel circolo di prossimità, anch'esso «culturale», di metropolia, regione, provincia ecclesiastica, patriarcato. Sinceramente trovo eccessivo proiettare nelle unità/comunità pastorali problemi che in senso stretto riguardano la Chiesa locale qua talis, non la singolarità di una parrocchia o la prossimità di più parrocchie, anche quando esse sono sparpagliate nel territorio e amministrativamente, sotto il profilò civile, appartengono a comuni diversi. Ciò malgrado, concedo che la situazione italiana (ma non solo), per ragioni storico-culturali, possa presentare un quadro assai variegato in cui tanto le comunità sparse nel territorio tanto quelle concentrate in un'unica cinta muraria conoscono ataviche contrapposizioni, cui si accompagnano forme espressive della fede sensibilmente diverse. Per quanto si vogliano prendere sul serio le loro diversità, esse non saranno mai comunque comparabili a ciò che costituisce una diocesi, sempre che veramente si tratti di una «Chiesa» e non di un territorio tracciato a matita, sulla pelle dei fedeli, senza tenerne in conto i peculiari tratti culturali. 1 Cf. Concilio Vaticano II, Decreto Orientalium Ecclesiarum (21 novembre 1964), n. 2 Il problema vero, il più importante, riguarda dunque la comprensione della Chiesa diocesana, la sua ragion d'essere. Se la questione non si pone seriamente; se non si ridisegnano le diocesi, rispettandone gli assetti culturali, qualunque discorso sulla loro ripartizione interna, parrocchie o unità/comunità pastorali, resterà in superficie e inefficace. Conosco regioni d'antica e solida condivisa tradizione malamente spartite in più diocesi che accorpano anche territori culturalmente alieni. Conosco diocesi create dopo l'unità d'Italia, ovviamente con territorio sottratto alle antiche Chiese limitrofe: non sono bastati 150 anni a farle «Chiese». Restano estranee a se stesse e alle parti che le compongono, le quali, assai spesso, invece, mantengono e coltivano l'affinità alle diocesi a cui per secoli sono appartenute. In ogni caso, la questione - e la rende urgente la soppressione delle province e la nascita di nuove unità territoriali consociative - è quella di un progetto globale che, partendo dalla crisi che oggettivamente viviamo, ne faccia un punto di forza per un futuro diverso e più prossimo alla realtà umana che la Chiesa abita, pur non coincidendo con essa. Aggiungo per ultima, non per sua importanza,-la questione delle «prelature personali», veri surrogati di Chiesa, vere anomalie ecclesiali nella misura in cui viene meno l'intera gamma di pluralità dei battezzati/battezzate, in esse selettivamente accorpati a partire da una suggestione «ideologica» qual è quella di un gruppo specifico a ragione della professione (ad esempio, l'Ordinariato militare) o a ragione di un'appartenenza religioso-associativa (ad esempio, l'«Opus Dei»). Avverto, inoltre, che pur senza un riconoscimento giuridico in tal senso, sviluppano la loro vita, soprattutto liturgica, secondo modelli propri, anche alcuni movimenti, in qualche modo proponendosi essi stessi come «Chiesa». Trovo, dunque, un po' sopra le righe la questione del riordino delle parrocchie, prescindendo dal problema più ampio. tuttavia, provo ad affrontarlo, avvertendo comunque - lo ripeto - il rischio di un'operazione tappabuchi, dettata dalla situazione presente e volta a tamponarla, senza davvero guardare a un progetto globale a~ breve, medio e lungo termine, perciò profeticamente risolutivo. Se, infatti, le unità/comunità pastorali rispondono solo alla carenza del clero, allora davvero dell’ecclesiologia del Vaticano II abbiamo capito ben poco e, alla fine, ciò che vogliamo salvo a ogni costo e un assetto di Chiesa «clericale». Con ciò non intendo tacere il vero problema, quello della progettualità, ossia di un vero «progetto» pastorale, che non può risolversi sul solo piano amministrativo o funzionale di un riassetto interno, ma deve volare alto, deve profetizzare la Chiesa comunione consegnataci dai Vaticano. " 3. IL RAPPORTO TRA LE COMUNITÀ TERRITORIALI E L'ASSEMBLEA LITURGICA Venendo alla questione prettamente liturgica, non intendo ripetere cose che ben sappiamo, solo richiamare come l'azione liturgica è epifania della Chiesa. Ne ripropone il mistero così com'è compreso e metabolizzato dall'assemblea che lo celebra e che per celebrarlo si raccoglie. La Chiesa è assemblea, raduno, convocazione. L'atto liturgico in questa chiave è evento originario, ecclesiogenetico. Perché è a partire da esso che la Chiesa stessa è in atto nell'operatività molteplice del popolo di Dio che si raccoglie per far memoria efficace del suo mistero costitutivo, l'autodonarsi del Padre per il Figlio nello Spirito. La comunità raccolta, nella forza dello Spirito, in Cristo con Cristo e per Cristo, ne ripropone gesti e parole. La comunità: non una somma di individui autoreferenziali, ma una sinergia di perso- ne che mutuamente si riconoscono come membra vive di un unico corpo. L'azione liturgica e azione comunitaria; la liturgia è azione di popolo. Nel mistero della divina condiscendenza, del farsi prossimo di Dio a tutti i linguaggi umani, l'unico evento assume lingue diverse, caratteristiche diverse, non distrattive dall'unicità dell'evento, ma ripropositive della sua stessa sintassi di accadimento. L'ecclesiogenesi nella sua forma storica mostra l'unica Chiesa farsi antiochena, alessandrina, romana, senza che ne venga messo in discussione l'unico accadimento. La Chiesa madre di Gerusalemme non impone le sue tradizioni, le sue forme celebrative, i suoi ministeri. Altri e diversi sono quelli espressi da ciascuna Chiesa, senza che ciò intacchi l'unica tradizione, l'unico simbolo, l'unica celebrazione, l'unica coscienza d'essere «Chiesa». L'omologazione non appartiene alla Chiesa delle origini, ne alla Chiesa dei primi secoli. È, anche se il processo si attiva ben presto in questa direzione, la questione è interna alle Chiese e lascia sopravvivere la loro peculiarità. L'assemblea è ferita solo nella misura in cui la sua originaria comunione viene messa in discussione. Sono gli attentati all'unicità del corpo, all’integrità del popolo regale, sacerdotale, profetico che essa è. a snaturare l'assemblea riducendola a eterogeneità distratta e/o astante. Fenomeno questo soprattutto legato alla deriva intimistica e individualistica propria degli ultimissimi secoli. Il Vaticano II, invece, ci riconduce proprio alla coscienza d>essere corpo vivo, soggetto globale della celebrazione. Ed è questa soggettualità globale che l'assemblea esplicita nella sinergia dei ministeri diversi. L'attenzione ritorna, dunque, sui soggetti, non per potenziarne l'autoreferenzialità, ma per esprimere al meglio la loro viva appartenenza al corpo globale. Ovviamente ciò significa attenzione alla pluralità sociale. Ma anche e soprattutto alla pluralità carismaticoministeriale di quanti lo Spirito e la Parola convocano all'azione liturgica, l'Eucaristia innanzitutto. Ho scritto in tempi ormai lontani come i carismi tutti sintattici e asintattici dovrebbero trovare espressione nell'assemblea eucaristica e come tutti dovrebbero tradursi in ministerialità specifiche. Si pensi all'intera gamma del presiedere, ammonire, consolare, compartire; o ancora al profetizzare, annunciare, testimoniare; o al guarire, al farsi docili all'impulso dello Spirito, al discernere; al faticare, operare, traducendo sinergicamente la chiamata al servizio. A ciò si aggiunga l'appartenenza generazionale, familiare, economica, professionale; l'essere nativi, stranieri, ospiti per lavoro o per turismo; l'essere sani o malati. Sono cose tutte che segnano l'assemblea, soprattutto nel prevalere di una di queste cose sulle altre. Segnano l'assemblea anche le appartenenze ecclesiali, la presenza in essa di movimenti, gruppi, associazioni. Segna l'assemblea anche il territorio nel senso della cultura propria o dell' intercultura che è chiamata a promuovere e interpretare. Parlare lo stesso dialetto, avere lo stesso repertorio di canti, avere comuni espressioni di pietà connota l'assemblea. Così come la connota il contesto socio-culturale, il quartiere, centrale o periferico, borghese od operaio. La connota il suo essere prossima al mare, al lago, alla montagna. L'essere luogo di vacanza o meno. La connota la presenza di soli anziani o di famiglie giovani. La connota la presenza di immigrati o stranieri. Da tempo immemorabile, ad esempio, si proclamano le letture o la preghiera dei fedeli in lingue diverse là dove ne emerge il bisogno. Un gesto del genere, assurdo in una comunità omogènea nella lingua, diventa necessità là dove si raddoppia o si quadrupla la presenza di fedeli d'altre lingue, ad esempio, nella stagione estiva. Con altrettanta naturalezza gesti propri alla cultura nativa entrano in gioco quando, ad esempio, in un'assemblea domenicale, caratterizzata dalla presenza di un congruo gruppo d'altra appartenenza culturale, si fa spazio all'offerta di fiori, incenso, lumi, secondo moduli propri a quest'ultimo. Con altrettanta naturalezza gesti propri di questo o di quel movimento possono essere accolti dall'assemblea domenicale, senza che venga umiliata e snaturata al ruolo di spettatrice muta di una performance ai più estranea. Penso alla catena delle mani alla recita del Pater, ad esempio, o ad altri gesti messi in comune. Ovviamente segna l'assemblea la percezione del ruolo che ciascuno assolve: chi accoglie, .chi proclama le letture, chi canta, chi guida il canto, chi raccoglie le offerte, chi serve all'altare, chi presiede, chi, pur senza un compito specifico, partecipa all'azione con l'ascolto, il silenzio, l'alzarsi, l'incedere, lo stare fermo. Servizi normalmente resi, i quali tuttavia sono ben lontani dall'esprimere la molteplicità dei carismi-ministeri di cui sono portatori, a volte ignari, i membri tutti della comunità adunata. Ora il nodo del celebrare nelle nuove comunità territoriali innanzitutto è quello dei riconoscersi in esse. Occorre che il popolo 3i Dio, uomini e donne, sia coinvolto nel processo di accorpamento, accostamento, coordinamento di più comunità chiamate a vivere la comunione oltre il tratto identitarie sin lì sperimentato. Ma come accorparle per fare Eucaristia? Se il moltiplicarsi delle comunità, là nascita delle parrocchie è stato dettato proprio dal moltiplicarsi dei cristiani, dal costituirsi di comunità periferiche, come rendere plausibile un processo inverso, se mette in discussione il diritto/ dovere di raccogliersi in assemblea eucaristica in fedeltà alla propria identità e appartenenza? Le unità/comunità pastorali hanno senso immediato sul piano della pastorale di settore, sul piano della formazione, sul piano dell'evangelizzazione e della catechesi, sul piano della preparazione ai sacramenti: la cresima, ad esempio; sul piano della stessa formazione liturgica... ma come tradurre o rispettare il diritto d'ogni comunità a raccogliersi per l’ Eucaristia domenicale? Ovviamente il nodo fondamentalmente è relativo alla presidenza. Se questo non fosse il problema non staremmo a parlarne. Il che ci riporta al fraintendimento della presidenza, alla sua sacralizzazione. Ci riporta anche al ridurre l'azione liturgica, la celebrazione, unicamente all'eucaristia. Ci riporta anche a un'articolazione periferica di Chiesa e perciò di parrocchia nella quale tutto dipende direttamente dal parroco, a partire dal suo essere «ordinato». Non ci si rende conto che il territorio parrocchiale, nella sua forma la più tradizionale, e territorio variegato al cui interno operano necessariamente molte realtà ,e la cui vitalità è strettamente legata a circoli molteplici di aggregazione, i quali non necessariamente implicano la presenza del parroco, forse addirittura neanche il suo coordinamento «amministrativo». Le nostre parrocchie sono morte, ridotte il più delle volte a stazione di servizio, proprio perché il principio dell’accentramento nell'unico ministro deputato a guidarle ha finito con il mortificare ogni slancio di vita, favorendo così quelle aggregazioni ecclesiali^ statutariamente emancipate dalla discrezionalità parrocchiale e il cui successo e fondamentalmente legato al riconoscersi come comunità compartendo idealità, scopi, metodi e - non minimizziamolo - reciproca simpatia, reciproca e avvertita accoglienza. il problema delle unità/comunità pastorali, delle nuove «comunità territoriali» è, dunque, quello di porre rimedio a una routine, a una stasi, a una lontananza che si è fatta sempre più marcata. Cose tutte rese più difficili dall'assommare i problemi anziché decentrarli. 4. RECEPIRE IL VATICANO II Se davvero il Concilio ci ha restituiti alla consapevolezza d'essere tutti, uomini e donne, popolo regale, sacerdotale, profetico2 ; se davvero ha riconosciuto la presenta in tutti, uomini e donne, dei doni dello Spirito; se tutti, uomini e donne, ha riconosciuti soggetto attivo del sensus fidei (cf. LG 12); se tutti, uomini e donne, ha riconosciuto coinvolti nel processo vivo della tradizione3 ; se tutti, uomini e donne, ci ha 2 3 Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione Lumen Gentium (21 novembre 1964) (LG), n.10 Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione Dei Verbum (18 novembre 1965), n.8 riconosciuti nell'autonomia ultima della coscienza4 , la questione non è quella di un'eventuale dialettica tra comunità territoriale e assemblea liturgica, ma quella di restituirà a ogni comunità, comunque venga ridisegnato il territorio, la sua piena soggettualità. Il che vuol dire anche riandare a Sacrosanctum concilium, agli innumerevoli luoghi nei quali i fedeli tutti, uomini e donne, vengono riconosciuti, ciascuno a suo modo, nella loro qualità di «con-celebranti»: questo, poi, è il nodo profondo della «partecipazione attiva»5 . Sappiamo bene come essa si traduca in molteplici forme, come abbia un'espressività verbale e non verbale, come i gesti s'intreccino alle parole e allo stesso silenzio. Comunque la si eserciti, tuttavia, la partecipazione «attiva» dice l'identità propria e sinfonica dell'assemblea, la sua soggettualità. Soggettualità nell'essere radicata precipuamente e specialmente; soggettualità nell'espressività con cui traduce la sua identità, il suo ethos; soggettualità con cui non subisce, ma «concorda» le mutazioni che la riguardano, le molteplici ministerialità che esprime o che sono a suo servizio. E tutto ciò nella distinzione netta del feriale e del festivo, del quotidiano e del giorno del Signore. Ossia nel ritmo che dell'Eucaristia infrasettimanale fa esperienza di ekklesia kat'oikon, di «Chiesa nelle case», e dell'Eucaristia domenicale fa esperienza compartita nella comune «casa della Chiesa» o — il che è lo stesso - nella «casa del popolo di Dio». Ma ciò vuol dire anche moltiplicare, rendere il più possibile «periferica» l'accolta del popolo di Dio, accettare la sfida di una conduzione laicale di tutto ciò che non necessita la presideffZ3rfel presbitero. Ciò vuol dire restituire di nuovo al popolo di Dio la responsabilità del raduno, dell'annuncio, della carità, casa per casa, di casa in casa. E, ovviamente, in questa de/centralizzazione feriale che incrementa la dinamica del raduno domenicale, sono soggetto attivo non. solo le parrocchie, ma anche tutte le realtà ecclesiali, presenti e operanti, quale che sia la loro tipologia e la loro forma: comunità religiose, rettorie, comunità ecclesiali di base, micro-comunità più o meno spontanee, più o meno ispirate a movimenti di spiritualità, ovvero facenti capo alla rete concreta dei movimenti ecclesiali, vari nella loro nomenclatura e nella loro stessa referenzialità intra , extra, inter -parrocchiale. E poiché, alla fine, come già detto, il nodo vero è quello dell'assemblea domenicale, nell'impossibilità del presbitero a presiederla, che a guidarla debbano essere chiamati un diacono, un lettore o semplicemente un laico o una laica, l'importante è che vi si manifesti il con-vergere, oltre il reticolo periferico che non può né deve essere autoreferenziale. Non vedo altre dinamiche costitutive di comunità se non questo del dilazionarsi e del raccogliersi, del far proprie le «periferie», quali che siano, per poi convergere verso il centro ideale che raduna la comunità al suo livello ecclesialmente identitario. Ma, ci piaccia o no, questo passa attraverso un processo de-sacralizzante; passa dall'abbandono di un sistema disgiuntivo e oppositivo. Passa dalla considerazione della Chiesa locale e delle comunità eucaristiche che la costituiscono come realtà sinergica. responsabilmente esperita, sinodalmente vissuta, appunto nelle forme concentriche della comunione. " ' 5. LA PIETÀ POPOLARE COME RISORSA Quanto detto vale soprattutto per il reticolo urbano, piccolo o grande che sia. Nella situazione italiana però, nella prospettiva delle unità/comunità pastorali, un criterio non trascurabile di identità del territorio e dunque anche del riconoscersi in una rete interparrocchiale o intercomunale, oltrepassandone la 4 5 Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n.43 Cf. Concilio Vaticano II, Costituzione Sacrosanctum concilium (4 dicembre 1963), nn. 11,14,21,30,41,48 frammentarietà legittima ma limitante, credo possa essere quello della pietà popolare. Le sue pratiche e i suoi percorsi declinano immediatamente l'appartenenza e l’ ethos culturale. Ira scolmature demologiche e furori iconoclastici, credo" che vi si debba discernere il punto di forza nella lettura del territorio, tale nelle sue tradizioni, pietà popolare inclusa. Paradossalmente la fede dei semplici, la pietà collettiva- è qualità disattesa a cui occorre prestare attenzione. Penso al ruolo, ad esempio, che può svolgere un santuario, sia urbano o extraurbano. Istintivamente, direi per peso del DNA culturale, continuano a convergervi anche credenti tiepidi. L'assumerlo come meta rientra nei percorsi abituali, della gita come della devozione. Si pensi, al riguardo, a quale immenso patrimonio abbiamo demandato allegro loco, quante feste patronali abbiamo ridotte a puro folklore, senza più riconoscervi attiva la fede del popolo di Dio. Le scelte intellettualistiche, a volte marcatamente «ideologiche», nascono certo dalla sincera volontà di promuovere una fede adulta. Ma, purtroppo, come ci mostra il successo di gruppi e movimenti, la fede appartiene anche al sentimento, al cuore, alla globalità del soggetto umano che non è sola ragione, ma è carne, sentire, dolore, gioia, meraviglia. Credo-davvero che luoghi precisi, così come pratiche tradizionali, possano diventare nuovi areopaghi, luoghi dove di nuovo può essere offerta risposta alle tante domande, ai tanti problemi che assillano il popolo di Dio. E ciò vale anche sotto il profilo liturgico. La pietà popolare può essere occasione di conversione, di rinnovata presa di contatto con la comunità ecclesiale. Può essere il contesto largo nel quale riscoprire il gusto dell'assemblea, del radunarsi cristiano attorno alla Parola e all'Eucaristia. Può esserlo solo che le si riconosca la dignità di «mistica popolare», di «spiritualità popolare»6 ; solo che vi si riconosca attivo e presente il soffio dello Spirito. Nella prospettiva dell'assemblea liturgica quella della pietà popolare è davvero una sfida grande che può diventare polo aggregante e altrimenti ecclesialmente identitarie, È sfida che vale la pena di correre nella variegata bailamme di quanti vivono l'esperienza del pellegrinaggio, l'ascesa al santuario, la nomenclatura del proprio rione, della propria contrada, la memoria di una guarigione collettiva, di un pericolo scampato, di un irrompere della benevolenza divina, sino alla full immersion nella persona del/la santo/santa titolare della propria città o paese, divenuto/a particolare «oggetto» della propria devozione e che, alla fine, gli è fratello e compagno nel circolo della comunione. 6. PER UNA CONTIGUITÀ TRA ASSEMBLEA LITURGICA E TERRITORIO Nei fatti però le difficoltà restano, lo sappiamo. Per grandi che siano, alla fine appariranno stimolo e sfida se realmente ci si affida gli uni gli altri, nella consapevolezza del servizio reciprocamente reso, per altro promuovendo e non umiliando quelle che un tempo abbiamo individuate come «strutture di mediazione ecclesiale» (consigli e commissioni pastorali ai diversi livelli: parrocchiale, zonale/vicariale, diocesano)..Le difficoltà diventano risorsa se davvero si accetta di spingersi al largo, prestando docile attenzione al soffio dello Spinto. Dinanzi al venir meno dell'ordinario presidente dell'Eucaristia, forse la presenza di un presbitero «itinerante», come avviene del resto in tante Chiese nel mondo, sarà accolta con gioia, senza però che la sua assenza possa giustificare un venir meno di quella comunità ecclesiale. Piuttosto, sarà pienamente Chiesa quella che realmente vede attivi e partecipi tutti quelli che costituiscono le singole comunità, comunque accorpate o comunque decentrate. 6 Così il Documento di Aparecida (V Conferenza generale dell’Episcopato latino-americano, 13-31 maggio 2007), nn. 262-263, in “Il Regno-Documenti” 12 (2007) 540 ss. Si tramanda nell'immaginario ecclesiale la vicenda della Chiesa in Corea (altri dice in Giappone). Venuti meno i missionari, i membri della comunità seguitarono a ripeterne le gestualità operative: battezzare e raccogliersi per l’Eucaristia; ovviamente trasmettendo da una generazione all'altra immutata la fede. Non entro nella valenza canonica di questo «sostituirsi», certamente dovuto a oggettiva e gravissima necessità. Osservo semplicemente che non è venuta meno la comunità, malgrado l'assenna dei ministri. Ed è questo che conta. Spero che la presa di coscienza della crisi, della sua ampiezza e profondità anche extraecclesiale, ci induca a operare quelle scelte che davvero disegnino diversamente il territorio delle Chiese e in esse delle parrocchie, comunque le si voglia chiamare o accostare. Sono scelte impegnative che dovrebbero addirittura orientare la crisi e provare a risolverla. Non possiamo seguitare a chiuderci in un'operatività di miope supplenza. Dobbiamo avere il coraggio di pensare altrimenti il modello di Chiesa. Ce lo rende urgente la presenza già conclamata delle-Chiese autoreferenziali e tuttavia in crescita in tante parti del mondo; mi riferisco al fenomeno dei «nuovi movimenti religiosi»7 . Il che torna a pungolarci sulla crisi di leadership delle nostre comunità, sull'inadeguatezza dei pastori, sulla sordità circa le domande dei fedeli i quali chiedono accoglienza, ascolto e misericordia. La crisi è quella dell'«ottavo sacramento», come l'ha chiamato papa Francesco, quello della «dogana pastorale»8 , ovvero del mito dell'efficienza pastorale che, non diversamente da quanto avviene fuori della Chiesa, rottama le persone, le ignora, nega loro la dignità regale, profetica e sacerdotale, radice e condizione, essa stessa, d'ogni forma di ministero nella Chiesa. Occorre attrezzarsi perché all'interno del territorio delle unità/ comunità pastorali si incentivino le «piccole comunità», comunque le si chiami. È ad esse che vanno delegate l'evangelizzazione, la carità, la stessa celebrazione liturgica che non è solo Eucaristia, ma è anche Liturgia della parola, Liturgia delle ore, preghiera comunque comunitaria e pubblica se per essa convergono prossimità diverse. Occorre inventarsi come sconfiggere l'insidia del presente, come proiettarsi nel futuro; occorre attrezzarsi perché il modulo di un cristianesimo efficiente, troppo spesso solo di facciata, esaurito il suo ruolo di benemerenza pubblica, esca di scena. Tessere la rete della comunione è possibile solo decentrando, spostandosi sulla soglia, ponendo al margine le nostre «tende», ovvero restituendo alle «case», alle più periferiche, la valenza ecclesiogenetica delle origini. L'utopia, dunque, è di comunità «con-celebranti», esito delle micro-comunità sparse capillarmente nel territorio, nelle quali finalmente ci si accolga con calore, con affetto, senza porre paletti, senza chiedere credenziali e soprattutto si comprenda come il raduno festivo, l'assemblea del giorno del Signore, chiunque la presieda, è momento centripeto di un'alacrità quotidiana necessariamente centrifuga (missionaria). Non c'è assemblea senza fedeltà al territorio, alla trama delle sue case, alla complessità di quelli che le abitano, ivi compresa la capacità d'accogliere quanti vi sostano a tempo, o quanti transfughi da realtà poco accoglienti bussano ad altre porte per essere riconosciuti nella loro dignità cristiana. Non saprei come concretamente descrivere questa utopia di comunità nuove, davvero nel segno della comunione. Sono però sicura che è inutile metterci mano se non cambia il modello presbiterale ed episcopale. Certo, ha da cambiare anche il modello laicale, non lo metto in dubbio. E la Chiesa, la Chiesa che tutti siamo, a dover intraprendere coraggiosamente vie nuove, senza volgersi indietro, senza nostalgie 7 Cf. J. CASANOVA, Nuovi movimenti religiosi: Fenomeno globale. Secolarizzazione, risveglio religioso, fondamentalismo, in “Il Regno attualità” 10 (2013) 317.329. 8 Cf. PAPA FRANCESCO, Omelia a Casa Santa Marta (25 maggio 2013) di un passato che non può ritornare, che non deve ritornare. La sfida è cu comunità davvero fedeli al vangelo, consapevoli e attive protagoniste dell'annuncio come del rendimento di lode. (da “Rivista Liturgica”, n.3 lug/sett 2013)