PRIMATO PONTIFICIO
ED EPISCOPATO
DAL PRIMO MILLENNIO AL CONCILIO ECUMENICO
VATICANO II
Studi in onore dell’Arcivescovo Agostino Marchetto
a cura di Jean Ehret
PÄPSTLICHER PRIMAT UND EPISKOPAT
VOM ERSTEN JAHRTAUSEND BIS ZUM II. ÖKUMENISCHEN VATIKANISCHEN KONZIL
Festschrift für Erzbischof Agostino Marchetto
Jean Ehret (Hg.)
LIBRERIA EDITRICE VATICANA
STORIA E ATTUALITÀ
XIX
COLLANA STORIA E ATTUALITÀ
1. Karol Wojtyla e il Sinodo dei Vescovi. Redazione di Joseph Sarraf a cura della
Segreteria Generale del Sinodo dei Vescovi, 1980, pp. 432.
2. Sacramentarium sublacense (Roma, Cod. Vallico B 24, cc. 1-99, sec. XI), a cura di Sergio M. Pagano, seconda edizione 1981, pp. 264.
3. ALCIDE DE GASPERI, Scritti di politica internazionale, 1933-1938. Presentazione
di Gabriele De Rosa. Volume I: 1933-1935, 1981, pp. 352; Volume 2: 1936-1938,
1981, pp. 412.
5. BELLARMINO BAGATTI, Alle origini della Chiesa. I: Le comunità giudeo-cristiane, seconda edizione 1985, pp. 288.
6. De imitatione Christi libri quattuor. Edizione critica a Cura di Tiburzio Lupo,
1982, pp. 396.
7. BELLARMINO BAGATTI, Alle origini della Chiesa. II: Le comunità gentilo-cristiane, 1982, pp.288.
8. MARIO OLIVERI, Natura e funzioni dei Legati Pontifici nella storia e nel contesto ecclesiologico del Vaticano II, 1982, pp. 320.
9. ITALO MARZOLA, Le carte ferraresi più importanti anteriori al 1117, 1983, pp.
268.
10. JOSEPH SARRAF, La notion du droit d’après les Anciens Egyptiens, 1984, pp.
132.
11. Il Sinodo dei Vescovi. Natura – metodo – prospettive, a cura di Jozef Tomko,
pp. 184.
12. GIUSEPPE M. CROCE, La Badia greca di Grottaferrata e la rivista «Roma e
l’Oriente». Cattolicesimo e ortodossia fra unionismo ed ecumenismo (1799-1923).
Con appendice di documenti inediti. Vol. I, 1991, pp. 416; Vol. II, 1991, pp. 892.
13. VITTORIO PERI, Lo scambio fraterno fra le Chiese. Componenti storiche della
comunione, 1993, pp. 496.
14. ALESSANDRA BARTOLOMEI ROMAGNOLI, Santa Francesca Romana. Edizione critica dei trattati latini di Giovanni Mattiotti, Prefazione di Giorgio Picasso, 1995, pp.
1040.
15. ANTONIO SCOTTÀ, La conciliazione ufficiosa. Diario del barone Carlo Monti
«incaricato d’affari» del governo italiano presso la Santa Sede (1914-1922). Presentazione del card. Achille Silvestrini, Prefazione del prof. Giorgio Rumi, 1999, Vol. I,
pp. 552, Vol. II, pp. 678.
16. AGOSTINO MARCHETTO, Chiesa e Papato nella storia e nel diritto. 25 anni di studi critici, 2002, pp. 764.
17. AGOSTINO MARCHETTO, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la
sua storia, 2005, pp. 408 (ristampa nel luglio 2005).
18. AGOSTINO MARCHETTO, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per la sua corretta
ermeneutica, 2012, pp. 384.
19. Primato pontificio ed episcopato. Dal primo millennio al Concilio Ecumenico
Vaticano II. Studi in onore dell’arcivescovo Agostino Marchetto, a cura di Jean
Ehret, 2013, pp. 768.
PRIMATO PONTIFICIO
ED EPISCOPATO
DAL PRIMO MILLENNIO
A L C O N C I L I O E C U M E N I C O VAT I C A N O
II
Studi in onore dell’Arcivescovo Agostino Marchetto
a cura di Jean Ehret
PÄPSTLICHER PRIMAT
UNDE EPISKOPAT
J
BIS ZUM
II.
V O M R S T E N A H R TA U S E N D
Ö K U M E N I S C H E N V AT I K A N I S C H E N
Festschrift für Erzbischof Agostino Marchetto
Jean Ehret (Hg.)
LIBRERIA EDITRICE VATICANA
KONZIL
Ringraziamenti
Ringraziamo di cuore S. Em. Rev.ma il Signor Cardinale Raffaele Farina per la Sua Prefazione, gli autori per i loro contributi, la Libreria Editrice Vaticana che pubblica il volume nella collana “Storia e Attualità”
e don Giuseppe Merola per il suo prezioso aiuto e la sua pazienza.
Un ringraziamento particolare lo dobbiamo alla Signora Gilberte Bodson per la formattazione dei documenti e la redazione dell’indice: instancabile collaboratrice volontaria, il volume deve molto alle sue competenze professionali.
© Copyright 2013 – Libreria Editrice Vaticana – 00120 Città del Vaticano
Tel. (06) 698.81032 – Fax (06) 698.84716
ISBN 978-88-209-9174-6
www.libreriaeditricevaticana.com
Prefazione
1
Cardinale Raffaele Farina
Ho incontrato Mons. Marchetto per la prima volta a Monaco di Baviera al
primo e unico Congresso internazionale organizzato dai Monumenta Germaniae
Historica, dal 16 al 19 settembre del 1986. Il Congresso aveva per tema le “Falsificazioni nel Medio Evo” (“Fäschungen im Mittelalter”)2, ed ebbe la prolusione di
Umberto Eco sulla “Tipologia della falsificazione”3; Eco assaporava il successo del
suo romanzo Il nome della rosa, sublimazione della falsificazione, pubblicato nel
1980 e tradotto in tedesco 2 anni dopo. L’arcivescovo Agostino Marchetto arrivò
a Monaco dal Madagascar dove era Nunzio apostolico da un anno, primo incarico
come Capo missione dall’inizio della sua carriera diplomatica nel 1968. Il titolo
del suo contributo al Congresso di Monaco fu: “La ‘fortuna’ di una falsificazione.
Lo spirito dello Pseudo-Isidoro aleggia nel nuovo Codice di Diritto Canonico?”4.
Titolo sottilmente provocatorio, che dice uno stile di scrittura e di discorso,
che non è assente dalla pubblicazione che stasera viene presentata: Il Concilio Ecumenico Vaticano II: per la sua corretta ermeneutica.
Un volume di 366 pagine, diviso chiaramente in due parti, una breve riguardante la recezione del Concilio Vaticano II e l’altra più ampia riguardante l’ermeneutica del medesimo Concilio. L’ermeneutica, dopo essere stata esaminata nei
due Papi del Concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI, e in alcune fonti private, viene
individuata e descritta in tre categorie: 1) ermeneutica della rottura; 2) ermeneutica
della rottura nella tendenza tradizionalistica; 3) ermeneutica della riforma nella
continuità. Questa disamina della ricezione del Concilio, se si eccettuano le 6 esposizioni sistematiche finali, inediti del nostro autore, raccoglie le recensioni da lui
fatte a 28 pubblicazioni degli anni 2004-2011. Nell’anno 2005, Mons. Marchetto
aveva pubblicato un volume analogo che riguardava 49 opere da lui recensite dal
1990 al 2003, e che portava il titolo Il Concilio Ecumenico Vaticano II: Contrappunto per la sua storia. Si tratta di una storia della storiografia, la prima, come dice
giustamente Mons. Marchetto a pagina 300 del nostro volume. E questa opera che
presentiamo ne è la continuazione: 35 anni complessivi di storia della storiografia
del Concilio Vaticano II.
1 È questo il testo di presentazione in Campidoglio, il 7 novembre 2012, del volume di Agostino Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica, L.E.V.,
Città del Vaticano 2012.
2 Fälschungen im Mittelalter (= Monumenta Germaniae Historica, Schriften, vol. 33), vol.
I-V, Hahn, Hannover 1988.
3 U. Eco, Tipologia della falsificazione, in Fälschungen im Mittelalter, op. cit., vol. I, 69-82.
4 A. Marchetto, La fortuna di una falsificazione. Lo spirito dello Pseudo-Isidoro aleggia
nel nuovo Codice di Diritto Canonico?, in Fälschungen im Mittelalter, op. cit., vol. II, 397-411.
5
Il volume che illustriamo stasera contiene 35 contributi, nella maggior parte
recensioni, dei quali 18 inediti. Tralasciando altri dettagli formali, m’introduco alla
sostanza della pubblicazione con una citazione di Benedetto XVI.
Il papa nel Natale del suo primo anno di pontificato, esattamente il 22 dicembre 2005, ha rivolto alla Curia Romana, radunata come ogni anno per gli auguri al
Papa in occasione del Santo Natale, un discorso, che faceva un bilancio dell’anno
trascorso; l’ultimo punto toccato è stato quello del Concilio Vaticano II. Ha detto:
L’ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant’anni fa. Tale memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato
del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione
del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa
resta ancora da fare? Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa,
la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non
volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il
grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa
dopo il Concilio di Nicea: egli la paragona ad una battaglia navale nel
buio della tempesta, dicendo fra l’altro: “Il grido rauco di coloro che per
la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili,
il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la
Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …”
(De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, 524).
Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende
dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla
sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I
problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha
portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare
“ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è
potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della
teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del
rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore
ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo
però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino5.
Questo importante discorso del Papa non solo fa il punto sulla situazione,
ma fissa dei concetti e usa una terminologia ad essi adeguata e in qualche modo
5 Acta Apostolicae Sedis, vol. 98,1 (gennaio 2006) 45-46; Benedetto XVI, Discorso del
Papa alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, in Insegnamenti di Benedetto XVI, vol. I, 10231024.
6
definitiva. La struttura del volume di Mons. Marchetto segue il discorso del Santo
Padre distribuendo il materiale raccolto, come ho già detto, partendo da una distinzione tra recezione ed ermeneutica e dividendo le opinioni correnti, esaminate nelle
recensioni, in tre categorie: ermeneutica della rottura, ermeneutica della rottura
intesa in senso tradizionalistico e ermeneutica della continuità o, più precisamente,
come si esprime il Santo Padre ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella
continuità.
Il Santo Padre non contrappone alla ermeneutica della rottura quella della
continuità, ma quella della riforma, del rinnovamento nella continuità. Credo che
su questa riforma, su questo rinnovamento siamo invitati a riflettere. Sulla “continuità” non ci sono dubbi, non ne ha il Santo Padre e non ne abbiamo neppure noi.
Il termine “riforma” ha una pregnanza molto forte e la distinguerei dal rinnovamento. La riforma fa riferimento alla “purezza e integrità della dottrina, senza
attenuazioni o travisamenti” (sono parole di Giovanni XXIII citate da Benedetto XVI). La distinzione tra riforma e aggiornamento (termine usato da Giovanni
XXIII e poi da Paolo VI) è espressa con chiarezza da Paolo VI, quando parla della
necessità che la Chiesa prima di ogni altra cosa si riformi al suo interno, torni in
qualche maniera alle fonti, alle origini e di conseguenza – una conseguenza non necessariamente temporanea – si presenti al mondo in maniera adeguata alle diverse
situazioni6.
Prendendo come punto di riferimento il Concilio Vaticano II e i suoi due Papi,
si può individuare, anche se non in maniera assolutamente precisa, un uso logico e
coerente dei termini “aggiornamento”, “riforma” e “rinnovamento”7.
L’aggiornamento potrebbe definirsi la volontà della Chiesa cattolica di rendersi credibile a quelli che sono fuori di essa; la riforma invece la volontà della
Chiesa di rendersi credibile a sé stessa, ai suoi membri. L’aggiornamento tocca
elementi più legati allo spazio e al tempo, all’istituzione; si propone un adattamento
ai tempi e ai luoghi diversi; la riforma tocca elementi più sostanziali da una parte e
più individuali dall’altra: si propone una purificazione interiore del singolo e della
collettività cercando di riprendere una forma ideale primitiva (reformatio, restauratio, ecclesiae primitivae forma), liberandola dalle incrostazioni dello spazio e del
tempo. Il rinnovamento della Chiesa consiste in questa duplice dinamica, esterna
(aggiornamento) e interna (riforma), che – pur se talvolta condizionata nel suo
evolversi dalle situazioni del tempo – è sempre coordinata e guidata dall’inscrutabile movimento dello Spirito, che anima la Chiesa, la custodisce e la conduce.
Dopo il Concilio Vaticano II si è partiti da un’“aggiornamento”, cioè da una
volontà della Chiesa cattolica di rendersi credibile a quelli che sono fuori di essa
(Giovanni XXIII), ad una “riforma”, cioè ad una volontà di rendersi credibile prima
di tutto a se stessa, ai suoi membri (sta qui l’azione paziente di Paolo VI: prima di
Lumen Gentium 9.
Rimando su questo argomento alle prime pagine del mio articolo, Raffaele Farina, La
Chiesa antica modello di riforma, in Salesianum 38 (1976) 593-612.
6 7 7
rendere credibile la Chiesa agli “altri”, o meglio per rendere credibile la Chiesa
agli “altri” [= aggiornarla], bisogna renderla credibile a se stessa, ai suoi membri [=
riformarla]). Qui sta il “rinnovamento” (restauratio et renovatio universae ecclesiae8), mai finito, della Chiesa: riforma e aggiornamento.
Sul rinnovamento, l’aggiornamento, Benedetto XVI, nel seguito del suo discorso alla Curia Romana, indica tre modalità da considerare: 1) le esigenze del
nostro tempo in maniera generale; 2) più specificamente, il rapporto tra Chiesa ed
età moderna, definendo in modo nuovo il rapporto tra fede e scienze moderne, il
problema della tolleranza religiosa e il rapporto tra fede cristiana e religioni del
mondo; 3) e infine il rapporto tra la Chiesa e lo Stato. Sul termine e concetto di
“riforma” mi permetto di rimandare anche al forte e ripetuto richiamo di Benedetto
XVI alla “pulizia” nella Chiesa.
Vorrei poi richiamare un’ovvietà, che i testi dei Papi del Concilio e di Benedetto XVI esprimono ripetutamente. Benedetto XVI parla di una giusta ermeneutica del Concilio, cioè di una giusta chiave di lettura dei testi e di applicazione di
essi. Se consideriamo l’applica­zione del Concilio così come è avvenuta e come
tutt’ora avviene, ci troviamo di fronte a un quadro molto più complesso e variegato che non quello della lettura dei testi, e di come gli avvenimenti del Villaggio
globale in cui viviamo condizionano e coinvolgono anche chi non vuole o non
vorrebbe essere coinvolto in responsabilità di effetti imprevisti. Testi operativi del
Concilio che hanno avuto una regolamentazione applicativa inadeguata e fragile o
non l’hanno avuta affatto hanno creato una serie di problemi e di gravamina che
tutt’ora ci opprimono. La casuale coincidenza della conclusione del Concilio nel
1965 e della diffusione dei testi Conciliari e degli inizi della loro applicazione dal
1965 al 1975 si mescola e si scontra con gli inizi della contestazione studentesca e
universitaria del 1968 e di quella delle Università e Facoltà Pontificie e Cattoliche
dal 1972 in avanti. La forte carica emotiva e talvolta esplosiva della contestazione
ha contaminato lo svolgimento applicativo del Concilio Vaticano II. Altri avvenimenti e altre situazioni si potrebbero citare; ovviamente tutto ciò si è verificato non
dappertutto e non alla stesso maniera e con la stessa intensità.
Quel che vorrei sottolineare è l’importanza sempre più rilevante nei nostri
tempi dell’aspetto gestionale, della indispensabile governabilità, della preparazione dei quadri dirigenti. La “forma è importante”, diceva Giovanni Falcone,
“se stai attento alla sostanza ma non alla forma, ti fregano sia nella forma che
nella sostanza […]”. Se è vero, come è vero e l’abbiamo detto, se è vero che nel
presentare la dottrina della Chiesa e la Chiesa stessa dobbiamo farlo in corrispondenza alle esigenze del nostro tempo, dobbiamo curare anche la forma, la governabilità, la preparazione delle persone ai compiti gestionali e amministrativi, in
modo che ciò che viene stabilito e approvato si esegua esattamente e nei tempi e
nelle modalità stabilite.
8 Discorsi, Messaggi, Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, vol. IV, L.E.V., Città del
Vaticano 1963, 163.
8
Le presentazioni dei libri sono, dovrebbero essere un invito alla lettura. Questo vuole essere anche il nostro incontro stasera. Vorrei tuttavia notare come la
lettura continuata e accurata del volume è decisamente faticosa: è una sfida, come
si suol dire. Una prima lettura è necessaria e chi è interessato all’argomento la farà
e conserverà la preziosa pubblicazione come libro di consultazione. Le recensioni
occupano, come ho già detto, la maggior parte delle pagine del libro. Esse sono
tipiche dello stile del nostro autore, non nella nota forma, alla quale siamo abituati,
di trovare all’inizio una descrizione sistematica del contenuto della pubblicazione
e poi gli eventuali apprezzamenti positivi o critici che siano. In genere, Mons. Marchetto entra decisamente nella critica, indicando accuratamente la pagina e il testo.
A chi è addentro all’argomento, egli offre una miniera, direi una fabbrica (la miniera si esaurisce) di materiale storico-critico, soprattutto sulla storia della recezione e
dell’ermeneutica del Vaticano II.
Ci sono poi, alla fine del volume, i contributi nn. 28-35, quasi tutti inediti,
eccetto uno, il n. 32, che si leggono con grandissimo interesse, ricchi di contenuto
e di originalità. Rimane anche in questi testi chiara l’impronta dell’autore, il taglio
cioè della verità, delle scelte precise, della chiarezza del discorso, senza attenuanti
e soprattutto senza ambiguità. C’è un’intervista, al n. 30, e una rassegna al n. 33 che
anticipa in piccolo le pagine del volume che viene presentato questa sera. V’invito
a leggere questi nn. 28-35 all’inizio; ritengo possano aiutare la più piena comprensione del resto del volume.
Di questa ricchezza vorrei dare un piccolo saggio. Lo prendo dalla lunga recensione (pag. 180-192) del volume di John O’Malley, Che cosa è successo nel
Vaticano II, (Vita e Pensiero, Milano 2010, pag. XII+384). Mons. Marchetto esamina il I capitolo soffermandosi anche sulla terminologia usata ed esaminata da
O’Malley. Si parla dello “spirito del Concilio Vaticano II”. L’indeterminatezza di
questa parola, “spirito”, si concreta e diviene verificabile solo qualora si faccia
attenzione allo stile del Concilio stesso, all’unicità della sua forma letteraria e del
suo linguaggio e se ne traggano le conseguenze. “Esaminando la ‘lettera’ (forma e
terminologia) – dice O’Malley a pag. 54 – è possibile giungere allo ‘spirito’”. Certo, dice Mons. Marchetto, se si vuol dire qui che lo “spirito” lo è di questo corpus
di documenti, noi siamo d’accordo con l’Autore. Ma se un tale “spirito” allontana il
Vaticano II dagli altri Concili ecumenici, ne fa un unicum, per cui non si tiene conto
della continuità dottrinale-dogmatica-pastorale-disciplinare del Magistero straordinario conciliare, anzi ne attesta la rottura con quanto lo precede, non possiamo
aderire al pensiero di O’Malley9.
Quale è il mio auspicio? Che Mons. Marchetto ci dia un’opera sistematica,
completa ed esaustiva della Storia del Concilio Vaticano II.
9 Vedi anche la nota sul termine “evento” a pagina 300.
9
I. Storia ed ecclesiologia
A. Ecclesiologia e storiografia
Primat pontifical et épiscopat,
A.D. 2013
En guise d’introduction
Jean Ehret
Le titre de ce livre résume les intérêts de recherche de celui à qui il est dédié :
depuis quarante ans, en effet, Mgr Marchetto n’a cessé de contribuer au discours
théologique sur le rapport entre primat pontifical et épiscopat non sans perspective œcuménique et, ces dernières années, il s’est intéressé toujours davantage à
la réception du concile Vatican II, défendant l’herméneutique de la réforme dans
la continuité de l’unique sujet Église contre celle de la rupture. Les deux sujets
touchent aux fondements et à la structure de l’Église dans l’histoire, à son « envergure » proprement théologique dont témoignent les quatre notes de l’unité, de la
sainteté, de la catholicité et de l’apostolicité. La perspective d’A. Marchetto sur
ces thématiques est celle de l’historien et du canoniste, mais aussi de l’évêque disposant d’une vaste expérience ecclésiale grâce à ses différents ministères de par le
monde au service du Saint Siège.
Que ce livre paraisse en 2013 est par ailleurs une heureuse coïncidence qui
en montre l’actualité. En effet, on y célèbre encore par une année de la foi le 50e
anniversaire de l’ouverture du Concile œcuménique Vatican II : c’est précisément
ce concile qui a articulé très clairement primat et épiscopat en tant que deux termes
inséparables. L’anniversaire de l’ouverture du concile devrait aussi être le moment
important pour en relire les documents, faire l’examen de conscience sur sa réception désiré par le Bienheureux Jean-Paul II1 et réfléchir sur son herméneutique.
Notre livre vient rejoindre les publications évidemment déjà très nombreuses commentant les textes, relisant l’histoire du concile et de sa « fortune » dans les années
de l’après-concile jusqu’à aujourd’hui, dans des perspectives qui restent encore souvent marquées soit par une nostalgie des temps anciens, soit par une impatience de
voir l’Église évoluer vers des formes de vie et d’exercice de l’autorité rompant avec
la Tradition et sensées être plus adaptées en l’occurrence à notre temps, à ce tempsci. Il espère y trouver sa place, misant sur l’importance de la connaissance de la Tradition, de l’histoire de l’Église, de l’observation attentive et critique des évolutions
récentes, d’une spécificité théologique irréductible, de la critique des conditions de
possibilité de tout discours théologique, de la discussion engagée et argumentée, de
la patience enracinée dans la prière, suivant l’exemple de celui à qui il est dédié.
De plus, on a pu vivre des événements marquant l’histoire de la papauté.
Ainsi, le 11 février, le pape Benoît XVI a déclaré renoncer au ministère d’évêque de
Rome. L’élection du cardinal José Maria Bergoglio, S.J., le 13 mars suivant relève
aussi de l’événement historique : il n’est pas seulement le premier fils d’Ignace à
devenir le successeur de Pierre, mais encore un pape qui présente son ministère dès
1 Jean-Paul II, Lettre Tertio millennio adveniente, 10 novembre 1994, no 36, in AAS 87
(1995) 28.
15
le début selon la tradition de l’Église ancienne en rapport étroit avec la primauté de
l’Église de Rome, affirmant que « la tâche du conclave était de donner un évêque à
Rome », le premier qui n’est pas d’origine européenne, que les cardinaux semblent
être « […] allés chercher au bout du monde »2. Signes œcuméniques importants
également la présence du patriarche de Constantinople et de représentants de
l’Église orthodoxe russe à la messe pour le début de son ministère. Acte non moins
symbolique celui de recevoir le patriarche de Constantinople sans que le trône du
successeur de Pierre soit plus élevé que celui que le pape François appelait alors
« [s]on Frère d’André »3. Les premiers mois firent découvrir au monde la continuité avec son prédécesseur dans le ministère tout en adoptant un style liturgique
et personnel différent. Ainsi l’annonce du pape François de se doter d’un groupe de
travail pour le conseiller dans le gouvernement de l’Église a laissé apparaître une
manière personnelle d’exercer le primat4. Voilà autant de signes qui témoignent non
de ce qu’il y aurait une révolution qui se prépare, mais de ce que l’Église vit dans
le temps, en relation avec le monde, ses évolutions, ses drames, ses joies… – et le
pape en elle et avec elle, pour les hommes. L’année 2013 elle-même permet ainsi
de saisir l’actualité des sujets et des préoccupations de Mgr Marchetto.
Dans la suite, nous tracerons d’abord un portrait succinct de cet homme
d’Église et de son œuvre ; nous présenterons ensuite la diversité des langues, la
structure et le contenu du livre ; nous terminerons par un regard sur l’Église qui
reçoit le don de Dieu et y répond.
1. L’homme et l’œuvre
Né en 1940 à Vicenza, ordonné prêtre en 1964, ses talents intellectuels prédisposaient le jeune Marchetto à suivre une carrière académique : licencié en théologie, diplômé en théologie pastorale, l’élève de Mgr Michele Maccarrone et Mgr
Giuseppe D’Ercole qui se liera d’amitié et pour des intérêts communs avec GillesGérard Meersseman, O.P., obtint son doctorat en droit canonique à l’Université
pontificale du Latran en 1971 avec une thèse intitulée Episcopato e Primato pontificio nelle Decretali Pseudo-Isidoriane. Ricerca storica-giuridica. Le titre résume
Pape François, Bénédiction apostolique Urbi et orbi, 13 mars 2013.
Pape François, Discours aux représentants des Églises et communautés ecclésiales et des
différentes religions, http://www.vatican.va/holy_father/francesco/speeches/2013/march/documents/papa-francesco_20130320_delegati-fraterni_fr.html (20 septembre 2013).
4 Cf. Pape François, Interview du pape François aux revues culturelles jésuites, réalisée
par le P. Antonio Spadaro, s.j., in Études, 19 septembre 2013, http://www.revue-etudes.com/
Religions/INEDIT_-_Un_entretien__avec_le_Pape_Francois./7497/15686 (20 septembre 2013),
11 : « La consulte des huit cardinaux, ce groupe consultatif outsider, n’est pas seulement une
décision personnelle, mais le fruit de la volonté des cardinaux, ainsi qu’ils l’ont exprimée dans
les Congrégations Générales avant le Conclave. Et je veux que ce soit une consultation réelle, et
non pas formelle ».
2 3 16
en grande partie la démarche future d’A. Marchetto : il résume l’intérêt pour le primat pontifical, le pseudo-Isidore et le rapport entre histoire et droit. « [C]omment
douter de l’importance du droit pour connaître l’âme d’une époque, spécialement
médiévale ? Il fut, en effet, particulièrement pendant cette période, système d’ordre
européen, universel »5 : pour l’auteur, l’étude du droit canonique doit contribuer à
mieux saisir la vérité d’une époque pour en apprendre des leçons et nous situer par
rapport à son héritage6.
Il décline cependant l’offre de prendre la succession de son maître M. Maccarrone comme professeur d’histoire de l’Église et reste dans le service diplomatique
du Saint-Siège vers lequel l’avait orienté G.-G. Meersseman7 ; ordonné évêque en
1985, nommé archevêque titulaire d’Astigi (en Andalousie), il sera nonce apostolique à Madagascar et Maurice (1985-1990), en Tanzanie (1990-1994) et Biélorussie
(1994-1996) avant de rentrer à la Secrétairerie d’État au Vatican pour des raisons de
santé, expérience dont il témoigne dans son livre Nel tunnel della speranza8, témoignage captivant de sa lutte contre le cancer. Il terminera sa carrière au service du
Saint Siège comme secrétaire du Conseil Pontifical pour la pastorale des migrants
et des personns en déplacement. Cheville ouvrière de l’instruction Erga migrantes
caritas Christi, il en a également publié un commentaire9. La passion pour cette mission au service de gens souvent misérables et chassés, liée à un poste qu’il quitta le
jour de son soixante-dixième anniversaire et qui lui avait valu des réactions à la hauteur des paroles concrètes et enflammées avec lesquelles il avait défendu les plus démunis face à certains pouvoirs politiques, se retrouve dans un livre-interview réalisé
par M. Roncalli10, dans lequel il expose en fait plus que sa conception de la pastorale
des migrants, une vision du monde qui conjugue l’enracinement dans l’évangile
et le magistère avec la conscience de la complexité des situations, l’expérience du
terrain, la connaissance des lois et un engagement personnel pour une Europe plus
juste. Le livre illustre l’engagement d’un homme d’Église dans le monde et pour les
hommes tel que le concile Vatican II l’avait proposé dans la Constitution pastorale
sur l’Église dans le monde contemporain « Gaudium et Spes » et que différents
Conseils pontificaux contribuent à mettre en pratique.
Agostino Marchetto, Chiesa e papato nella storia e nel diritto. 25 anni di studi critici (=
Storia e attualità, 16), LEV, Vatican 2002, 5 : « Come dubitare infatti dell’importanza del diritto
canonico per conoscere lo spirito che anima un’epoca, specialmente se medievale ? Esso fu, in
effetti, particolarmente in detto periodo, ordinamento europeo, universalistico ». Sauf indication
contraire, c’est toujours nous qui traduisons.
6 Cf. ibid.
7 Cf. ibid., 6 sq.
8 Agostino Marchetto, Nel tunnel della speranza. La chemioterapia antitumorale, Edizioni Camilliane, Torino 1997.
9 Agostino Marchetto et al., Strutture di pastorale migratoria : commenti all’Istruzione
Erga migrantes caritas Christi, IV parte, LEV, Vatican 2008.
10 Agostino Marchetto, Chiesa e migranti. La mia battaglia per una sola famiglia umana.
Intervista di Marco Roncalli, Editrice La Scuola, Brescia 2010.
5 17
Loin des bibliothèques et des amphithéâtres universitaires, Agostino Marchetto n’a cependant jamais perdu le goût ni le sens des études. Les circonstances
de ses missions l’ont poussé à choisir le genre de la note de lecture ou du compterendu dont la majeure partie ont paru dans la Rivista di Storia della Chiesa in
Italia, dans Apollinaris et dans l’Annuarium Historiae Conciliorum. Entretemps,
un grand nombre de ses contributions ont été rassemblés dans trois livres publiés
par les Éditions du Vatican dans leur collection Storia e attualità. Ce sont, dans
l’ordre chronologique, Chiesa e papato nella storia e nel diritto. 25 anni di studi
critici [L’Église et la papauté dans l’histoire et le droit. 25 ans d’études critiques],
Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia11 [Le concile
œcuménique Vatican II. Contrepoint pour son histoire] et, enfin, Il Concilio ecumenico Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica12 [Le Concile Vatican II. Pour son
herméneutique correcte]. Avant de nous intéresser plus en détail à ces trois recueils,
il convient de présenter la méthode et le style de Mgr Marchetto.
Selon Marchetto, ces comptes rendus ne doivent pas seulement résumer le
contenu du livre, mais constituer en tant que telles « un apport au progrès de la
science »13. Son apport, Marchetto le voit dans une critique, si nécessaire sévère,
qui affronte un livre donné avec des arguments précis, certes sujets à discussion14.
Il s’engage donc avec passion dans une confrontation – la disputatio au sens médiéval – reconnaissant qu’il devra aussi admettre d’y être attaqué à son tour. Mais il
reste convaincu que c’est moyennant la critique engagée et argumentée que l’on
s’approche plus de la vérité qu’à travers les mutuelles révérences qu’on se fait entre
collègues ou les lectures idéologiquement orientées. Si les recensions de l’auteur
sont plutôt longues, cela fait partie de sa stratégie : il accorde beaucoup de place
aux citations puisqu’il lui plaît de « […]faire parler l’auteur, pour que le jugement
naisse quasi de ses propres paroles (plus que des miennes) et soit donc plus facile
et objectif »15. L’auteur n’hésite donc pas à parler par exemple d’une « herméneu-
11 Agostino Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia
(= Storia e attualità, 17), LEV, Vatican 2005.
12 Agostino Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica (= Storia e attualità, 18), LEV, Vatican 2012.
13 A. Marchetto, Chiesa e papato nella storia e nel diritto, op. cit., 6 : « […] un contributo
al progresso della scienza ».
14 Karl-Heinz Menke adopte dans son ouvrage Sakramentalität. Wesen und Wunde des Katholizismus, 2e éd. revue et augmentée, Pustet, Ratisbonne 2012, une position similaire qui ne
cherche pas d’abord à concilier toutes les positions, mais les radicalise pour en faire voir les
enjeux et les conséquences, non sans en critiquer le fondement. En ce qui concerne p. ex. le
ministère de l’Église, il relit ainsi les travaux d’habilitation de trois théologiens allemands et
montre comment ils appliquent de façon univoque différentes théories empruntées aux sciences
humaines, négligeant précisément la façon dont elles se transformeront au contact d’une réalité
qui n’est pas purement humaine, à moins que l’auteur y réduise l’Église, voire la foi (ibid., 179185).
15 Ibid., 5 : « […] mi piace […] far parlare l’Autore, affinché il giudizio nasca quasi dalle
sue parole (e non dalle mie) e sia perciò più facile ed obiettivo ».
18
tique correcte » de Vatican II qu’il oppose à une « vision idéologique » qui impose
son monopole et contre laquelle il désire élever sa voix. Il n’hésite pas non plus à
exprimer des jugements personnels évidemment fondés sur une argumentation, à
recourir donc à la première personne du singulier, chose qui pourrait étonner dans
certaines cultures universitaires, et qui montre sa volonté de marquer son désaccord
et de s’engager comme intellectuel et pasteur. Un adversaire de taille et de renommée, voire l’adversaire par excellence, est pour Marchetto l’auteur de l’Histoire du
Concile Vatican II en cinq volumes, le professeur Giuseppe Alberigo (1926-2007),
dont il se démarque dans le titre et le sous-titre de son deuxième livre. D’abord
il appelle Vatican II un concile œcuménique quand Alberigo le considère plutôt
comme un synode de l’Église d’Occident et le sous-titre révèle ensuite clairement
son intention de marquer le coup : le nom de « contrepoint » désigne l’« analyse
critique, fondamentale et détaillée […] de la “vulgate” du Prof. Alberigo et de
son “école”, bien que dilatée, de Bologne »16. Nous sommes loin des articles qui
cherchent à ne pas créer de remous. Mais sa position n’est pas motivée par quelque
papolâtrie, centralisme romain, incapacité de juriste de penser dans des catégories
dynamiques ou traditionalisme, mais elle se fonde sur la rigueur d’une méthodologie et argumentation historique dont l’auteur se montre maître, en particulier dans
son premier livre qui regroupe de nombreuses études historiques17.
Publié en 2002, Chiesa e papato nella storia e nel diritto rassemble sur 772
pages 104 contributions publiées entre 1973 et 1999 ainsi que quelques textes inédits18. D’un côté, le livre est organisé selon un plan chronologique : à part quelques
exceptions, il reproduit les publications dans l’ordre de leur première parution ; de
l’autre il est divisé en parties qui reflètent le parcours de l’auteur et permettent en
même temps à son lecteur de s’orienter.
La première partie est dédiée à la place et la spiritualité des laïques au moyen
âge ; elle porte le titre de l’ouvrage fondamental de G.-G. Meersseman, Ordo
fraternitatis, dont elle est profondément marquée. Elle contient un texte consacré
à Meersseman et son œuvre, rédigé en sa mémoire, le dominicain étant décédé
en 1988. La deuxième partie est consacrée aux falsifications pseudo-isidoriennes
et leur influence, la troisième à l’histoire du droit. Ces deux parties sont nourries
de la thèse, dirigée par Mgr D’Ercole, peritus de Vatican II qui contribua à faire
Agostino Marchetto, Le Concile œcuménique Vatican II. Contrepoint pour son histoire,
Éditions du Jubilé, s. l. [Montrouge] 2011, 14.
17 Pour une appréciation de la méthode de Mgr Marchetto, voir dans ce volume la contribution de Claudio Anselmo, Il Concilio Vaticano II : nova et vetera nella continuità della storia della
Chiesa, ainsi que l’étude suivante du même auteur : Agostino Marchetto : per una ermeneutica
del Concilio Vaticano II, in Luis Martínez Ferrer (éd.), Venti secoli di storiografia ecclesiastica.
Bilancio e prospettive, Edusc, Roma 2010, 449-458.
18 A. Marchetto, Chiesa e papato nella storia e nel diritto, op. cit. Pour la présentation du
livre, nous nous référons à la préface et la postface de l’auteur, ibid., 5-8 et 733-735. Nous renvoyons également au compte-rendu détaillé qu’en a fait Ottorino Pasquato et que nous publions
en traduction dans ce même volume.
16 19
entrer dans les textes la notion et la doctrine de la communio hierarchica. La
quatrième partie aborde l’histoire des conciles ; la confrontation avec G. Alberigo
y tient déjà sa place. Le lecteur y trouve déjà une contribution intitulée « Pour
une interprétation correcte du Concile Vatican II »19, compte-rendu de la traduction italienne de l’ouvrage de référence du cardinal L. Scheffczyk, Kirche in der
Krise20, et dont le titre sera repris comme sous-titre du troisième recueil de Mgr
Marchetto. La cinquième partie est dédiée au primat de l’évêque de Rome. Elle
contient plusieurs comptes rendus d’ouvrages abordant le premier millénaire,
époque dont la connaissance historique, dont la « vérité », devient, non seulement
dans une perspective œcuménique, un appel à la conversion et à la réforme21. Elle
contient par ailleurs l’étude intitulée « In partem sollicitudinis […] non in plenitudinem potestatis. Évolution d’une formule “heureuse” du rapport entre primat
et épiscopat »22 que l’auteur considère comme un apport essentiel et que nous
reproduisons dans le présent volume : elle montre, en effet, comment une formule
d’ordre plutôt pratique devient, au fil du temps, à partir de sa réception par le
pseudo-Isidore et de là par Grégoire VII, tout en perdant sa première partie et
entrant dans la systématisation scolastique, un moyen d’exalter le pape comme
évêque universel. Retracer l’histoire d’une telle expression se révèle dès lors
comme une aventure intellectuelle, mais aussi d’une grande importance œcuménique. La sixième partie rassemble des publications consacrées à des thématiques
(la papauté, l’unitas regni, la chrétienté…) et à l’historiographie du moyen âge.
La septième et huitième partie sont réservées à l’ère contemporaine, traitant l’une
de l’Église, l’autre des papes de Pie XII à Paul VI : elles témoignent non seulement d’un élargissement des intérêts de l’auteur, initialement médiéviste, vers les
temps présents, mais aussi de l’attention accordée au rapport entre herméneutique
et histoire, particulièrement en ce qui concerne Vatican II. La neuvième et dernière
partie porte le titre « Perspectives historiques d’ensemble » ; relisant l’œuvre de R.
Morghen sur le rapport entre historiens et écriture de l’histoire, l’auteur en reprend
la demande si l’histoire perd son sens, si elle est murée quand on rejette toute foi
dans la transcendance, répondant par l’affirmative, témoignant non seulement de
sa foi chrétienne, mais d’une dynamique interne de l’histoire à tendre vers son
achèvement, tout en restant toujours inachevée, marquée par la faiblesse, l’inconsistance, les fautes des hommes, voire la mort elle-même. Cette partie montre non
seulement combien Marchetto s’intéresse aussi aux problèmes de méthodologie
de l’historiographie, mais encore qu’il a conscience que l’objectivité de l’histoire
19 A. Marchetto, Per una corretta interpretazione del Concilio Vaticano II, in Id., Chiesa e
papato nella storia e nel diritto, op. cit., 325-331.
20 Leo Scheffczyk, La Chiesa. Aspetti della crisi postconciliare e corretta interpretazione
del Vaticano II, presentazione all’edizione italiana di Joseph Ratzinger, Jaca Book, Como 1998.
21 Cf. A. Marchetto, Chiesa e papato nella storia e nel diritto, op. cit., 734.
22 A. Marchetto, In partem sollicitudinis […] non in plenitudinem potestatis. Evoluzione
di una formula « fortunata » di rapporto Primato-Episcopato, in Id., Chiesa e papato nella storia
e nel diritto, op. cit., 369-395.
20
elle-même n’est jamais abstraite ou absolue, mais s’enracine toujours dans des
fondements philosophico-théologiques.
Le deuxième recueil publié par Mgr Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia23, comporte 408 pages ; plus mince que le
premier, il a cependant suscité une réaction plus forte : ainsi il a été traduit intégralement en anglais24 et en espagnol25 tandis qu’en russe et français des traductions
partielles ont été publiées.
Organisé en sept parties, le recueil s’ouvre sur « la toile de fond de tous les
conciles, y compris donc Vatican II »26 ; la deuxième étape du parcours est consacrée
à la préparation au concile, en Italie, en Europe, en Orient, en Amérique latine. La
troisième partie, le cœur de l’ouvrage, présente une analyse critique de chacun
des cinq volumes de l’Histoire de G. Alberigo, une appréciation d’ensemble et un
appendice intitulé « Visages de fin de concile », compte-rendu d’un ouvrage marqué par une herméneutique de la rupture, mais à la fin duquel J. Doré renoue en
fait les liens entre enseignement, esprit et institution27. Marchetto se reconnaît dans
cette approche : certes, il reproche à G. Alberigo et ses collaborateurs de prétendre
être des historiens et de ne pas exploiter les Actes du concile28 mais de préférer
leur « vision » nécessairement partiale de l’esprit du Concile, de psychologiser
et dramatiser son déroulement, d’exclure de par les catégories qu’ils utilisent des
aspects importants. Il fait encore et en fait plus : critiquer leur refus des textes,
c’est s’attaquer en fait à une forme de spiritualisme où l’Esprit est complètement
détaché du Verbe incarné et de ce qu’il a légué à ses apôtres, dont l’institution qui
a, évidemment, toujours besoin de se renouveler, mais ne peut se dissoudre. La
quatrième partie s’intéresse à d’autres histoires du concile et de leurs papes, e. a.
à celles de Roger Aubert et Claude Soetens ou encore celle de Joseph Thomas.
Cette partie inclut aussi le compte-rendu des actes du colloque consacré en 1995 à
« Vatican II : la vision de la Russie ». Dans la cinquième partie, intitulée « thèmes
et questions particulières », le rapport primat-épiscopat est très présent, mais elle
contient aussi deux recensions d’ouvrages traitant des mouvements d’Église. La
sixième partie est réservée aux « sources officielles et privées », dont les pages
de Siri, Chenu, Edelby, Bea, Ratzinger, Charue, Philips, Prignon, Betti et Congar,
mais aussi les Actes du concile qui constituent la source fondamentale pour son
A. Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia,
23 op. cit.
24 Agostino Marchetto, The Second Vatican Council. A Counterpoint for the History of
the Council, trad. de l’italien par Kenneth D. Whitehead, University of Scranton Press, Scranton
(Pennsylvania) 2010.
25 Agostino Marchetto, El Concilio ecuménico Vaticano II. Contrapunto para su historia,
EDICEP, Valencia 2008.
26 A. Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia,
op. cit., 5.
27 Cf. A. Marchetto, Le Concile œcuménique Vatican II, op. cit., 186.
28 Cf. ibid., 194 sq. ; cf. également ibid., 40 sq.
21
« interprétation correcte », expression qui se retrouve dans le titre de la septième et
dernière partie. Celle-ci reprend le compte-rendu de l’ouvrage du cardinal Scheffczyk sur la crise de l’Église et qui s’insère bien dans ce contexte, avant une contribution de l’auteur intitulée « Tradition et renouveau se sont embrassés : le Concile
Vatican II », « formule heureuse » qui résume la position de Mgr Marchetto. Nous
reproduisons ce texte que l’auteur considère comme essentiel également dans ce
recueil-ci. L’ouvrage se termine sur deux contributions synthétiques, la première
présentant les tendances herméneutiques entre 1990 et 2000, la deuxième incluant
des publications parues jusqu’en 2002. La question de l’herméneutique restera au
centre des préoccupations de l’auteur et donnera lieu à la publication d’un troisième volume, Il Concilio ecumenico Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica.
Ce recueil rassemble trente-cinq contributions sur 380 pages et développe la
même perspective, mettant l’accent sur les ouvrages qui vont dans la « bonne »
direction. Il s’ouvre alors sur un « contrepoint », pour une juste réception avant de
relire sept ouvrages consacrés à Jean XXIII et Paul VI. Il aborde, dans une troisième partie, les « perspectives herméneutiques de quelques sources conciliaires
privées », notamment de Tromp, Philips, Willebrands, de Lubac et Mejía, avant
d’entrer en discussion avec les ouvrages de Pesch, Routhier, O’Malley et Theobald, avec le troisième volume des Conciliorum Oecumenicorum Generaliumque
Decreta, avec un collectif dirigé par A. Melloni e G. Ruggieri au titre parlant Chi
ha paura del Vaticano II? [Qui a peur de Vatican II?] et, enfin, avec une série de
petits volumes présentant les documents du concile au grand public : l’auteur les
regroupe tous sous le titre « herméneutique de la rupture ». La valeur pastorale
de la critique de l’archevêque Marchetto apparaît clairement dans sa note sur les
petits volumes édités par le périodique Jésus29 : de nombreuses personnes liront
ces textes, convaincus de saisir la pensée du concile tandis qu’on leur sert non
pas les faits tels que les Actes les relatent, mais – mis à part plusieurs textes – une
relecture biaisée. Ainsi il relève entre autres la présence constante du vocabulaire
de la nouveauté – plus d’une fois considérée comme « radicale » – et l’absence
de toute explication comment le concile se fait le hérault du et… et… catholique
et non de quelque aut… aut…, privant les lecteurs d’une possibilité de découvrir
et saisir le dynamisme spécifique d’une réforme certes toujours nécessaire, mais
dans la continuité de l’unique sujet-Église, ainsi que de l’enseignement authentique du concile, apport essentiel à tout discernement actuel. Mgr Marchetto relit
et commente ces textes avec précision, comme un professeur relirait une thèse,
comme expression d’un souci pastoral. La cinquième partie du livre ne comporte
que deux contributions : les recensions des ouvrages traditionalistes, tout aussi
idéologiques, c’est-à-dire préjugeant la validité de l’enseignement ou plus précisément des textes à partir de leur conception de ce qui aurait dû être dit. Ainsi R.
De Mattei entre dans la même ligne que l’école de Bologne, mais sous le signe
opposé, faisant souvent référence à la Révolution française, considérant donc le
Ibid., 227-237.
29 22
concile comme moderniste30 et en rupture avec la tradition. Et B. Gherardini est
de même hanté par l’idée « d’un triomphe du modernisme dans les antichambres
du concile », spectre dont il ne peut se défaire dans son travail d’historien, confondant plus d’une fois l’application erronée du Concile avec son enseignement. Critiquant gravement les textes du concile31, il ne saisit pas non plus la dynamique
de l’aggiornamento dans la recherche du consensus qui constitue pour Mgr Marchetto précisément le lieu de la vérité qui s’atteste. Le recueil ne s’arrête pas à
la critique de la critique, mais il contient une sixième et dernière partie, intitulée
« herméneutique de la réforme dans la continuité ». Elle contient trois comptes
rendus : celui de l’ouvrage dirigé par M. L. Lamb et M. Levering, Vatican II. Renewal within Tradition32 [Vatican II. Le renouveau dans la Tradition] dont le titre
rend l’orientation, celui des souvenirs du concile de l’archevêque L. F. Capovilla,
Ricordi dal concilio33, refusant toute rupture entre Jean XXIII et Paul VI, et, enfin,
celui de la traduction italienne de l’ouvrage de Ralph McInerny, Vaticano II. Che
cosa è andato storto ?34 [Vatican II. Qu’est-ce qui est allé de travers ?] s’interrogeant où l’on trouve « le vrai concile » sinon dans les textes tels qu’ils ont été
votés et approuvés par le pape35, allant dans la même direction que Marchetto
lui-même. Suivent ensuite sept textes parmi lesquels se trouvent des conférences
données par l’auteur, une interview ainsi que l’entrée consacrée à Vatican II et la
constitution apostolique Sacrae disciplinae leges du Diccionario General de Derecho Canónico [Dictionnaire général de droit canonique] dont nous publions par
ailleurs la traduction allemande dans ce recueil-ci. Dernier texte du volume, une
conférence donnée sur l’évangélisation selon le concile36 relit le décret Ad gentes
dans l’ensemble des textes du concile. L’auteur souligne comment la dimension
pastorale et la doctrine dogmatique vont main dans la main quand il situe l’Église
et sa mission d’aller vers tous les hommes dans le mystère trinitaire et les missions intradivines37. La notion que l’Église est sacrement permet également de la
rattacher à l’action du Christ même pour évangéliser et d’éviter ainsi de séparer
l’action de l’Esprit du Verbe incarné, de ce qu’il a institué et de sa façon dont il a
sauvé le monde, par l’amour qui se livre : « le chemin vers l’autre (“ouverture au
monde”) est nécessairement un sortie de soi (croix) »38. C’est dans cette rencontre
Cf. ibid., 241.
Cf. ibid., 265 sq.
32 Ibid., 269-288.
33 Ibid., 289-295.
34 Ibid., 295-298.
35 Ibid., 296.
36 Ibid., 351-363 : Una conferma dell’ermeneutica della riforma nella continuità :
l’evangelizzazione secondo il concilio [Une confirmation de l’herméneutique de la réforme dans
la continuité : l’évangélisation selon le concile].
37 Ibid., 351-355.
38 Ibid., 360 : « […] il cammino verso l’altro (“apertura al mondo”) è necessariamente
uscita da se stessi (croce) ».
30 31 23
qu’est sous-entendu, selon Marchetto,39 l’aggiornamento – que l’on peut alors décrire comme l’union entre deux mouvements : d’une part comme fidélité à qui on
est, c’est-à-dire disciple du Christ, envoyé par ce même Christ vers l’autre de qui
il s’agit de respecter la liberté, et d’autre part la nécessaire recherche, découlant
de cette mission, d’une expression (existentielle) que l’autre puisse comprendre,
avec ce que cela implique de critique salutaire de soi-même. En quelques pages,
l’auteur montre ainsi la double cohérence interne des textes du concile, celle entre
dogmatique et pastorale, celle entre fidélité et renouveau, évitant ainsi toute interprétation de rupture grâce à la notion de disciples du Christ et ouvrant le champ à
une grande créativité pastorale et théologique. La vision du concile est alors loin
de relativiser la foi chrétienne, elle engage le chrétien au contraire dans un chemin
qui le conduit vers l’autre, l’obligeant constamment à se convertir – autrement dit
à vivre la loi de l’amour de Dieu et du prochain – pour être habité toujours davantage par celui dont il s’agit d’être une présence. En ce sens les textes du concile
ne sont pas lettre morte, mais leur étude engage un processus de conversion et
discernement. C’est pourquoi la réforme dans la continuité, qui s’exprime dans
les textes, qui s’en nourrit et qui doit aujourd’hui encore transformer la vie de
l’Église, ne se laisse pas implémenter qu’à partir de sa source, la relation au Père
dans le Christ par l’Esprit. Ce texte conclut bien le troisième recueil de Mgr Marchetto ; il est comme un envoi40 dans lequel le travail parfois aride de la critique
historico-théologique entre dans la vie. Comment pourrait-on maintenant résumer
la position herméneutique de l’archevêque Marchetto ?
Le grand synode (« il magno sinodo ») comme il aime appeler le Concile
Vatican II est un concile œcuménique d’une éminente « valeur doctrinale, spirituelle et pastorale : il est icône du catholicisme, constitutionnellement communion,
notamment avec le passé, avec les origines, identité en évolution, fidélité dans le
renouveau »41. Il refuse donc toute rupture fondamentale et se rattache ainsi à l’enseignement continu du magistère42. Il dégage plusieurs indications concrètes pour
interpréter le concile correctement. Il s’agit d’abord d’étudier les Acta du concile :
Ibid., 361.
Signalons encore un dernier ouvrage, dont l’archevêque Marchetto est un des auteurs :
Walter Brandmüller, Agostino Marchetto, Nicola Bux, Le « chiavi » di Benedetto XVI per
interpretare il Concilio, Cantagalli, Siena 2012. Nous renvoyons également aux contributions du
cardinal Brandmüller et de Mgr Bux au présent livre.
41 A. Marchetto, Le Concile œcuménique Vatican II, op. cit., 189.
42 Cf., p. ex., Jean-Paul II, Discours au congrès international sur l’application des orientations du Concile Vatican II, 27 février 2000 : « L’Église connaît depuis toujours les règles pour
une herméneutique correcte des contenus du dogme. Ce sont des règles qui sont données à l’intérieur du tissu de la foi et non en dehors de celui-ci. Lire le Concile en supposant qu’il comporte
une fracture avec le passé, alors qu’en réalité il se situe dans la lignée de la foi de toujours, est
décidément erroné. Ce qui a été cru par “tous, toujours et en tous lieux” est l’authentique nouveauté qui permet à chaque époque de se sentir illuminée par la parole de la révélation de Dieu
en Jésus-Christ ».
39 40 24
« seuls les textes définitifs approuvés par le Concile et promulgués par le Pasteur
suprême “font foi” »43. Certes, il n’entend pas « réfuter l’apport des journaux personnels » – le nombre de notes de lecture qu’il leur a consacrées en témoigne – « ils
donnent notamment du goût et des ingrédients, mais ils doivent être soumis aux
Actes officiels sans glisser vers une histoire des fragments, une chronique ou un
encyclopédisme, entraînant une dispersion, une dissection, une vivisection ou un
décorticage du Concile »44. La réception des textes pendant les dernières décennies
n’est pas le critère de vérité. L’esprit du Concile, c’est « l’esprit de ce corpus »45.
Ce corpus doit être étudié dans une perspective que nous avons nommé, avec Mgr
Marchetto, non seulement historico-critique, mais critique historico-théologique :
celui qui applique cette méthode admet donc (aspect théologique) que l’Esprit est
à l’œuvre dans l’Église et assure la continuité, c’est-à-dire sa fidélité au Christ. Le
chercheur ne pourra donc simplement adhérer à la mouvance de l’historiographie
qui privilégie « “l’événement”, conçu comme discontinuité et mutation traumatique »46. Il ne pourra accepter non plus considérer qu’une science humaine soit
« maîtresse » de la théologie47. Il est évident qu’une nouvelle méthode, une nouvelle perspective permet de découvrir le concile sous un autre éclairage mais on ne
peut admettre l’hégémonie d’une méthode pour expliquer une vie d’Église dont la
dimension spirituelle dépasse ce que celle-là saisit. Comme les Pères adoptaient la
philosophie grecque ou Thomas d’Aquin Aristote en les transformant, ainsi le théologien historien doit s’approprier les méthodes et approches nouvelles. De plus, il
résulte de cette approche théologique que le chercheur ne pourra laisser de côté
le souci de consensus propre au Concile, mais le considérer précisément comme
expression de la vérité qui advient. L’apriori théologique évoqué ne préjuge cependant pas du contenu des textes – comme le fait l’attitude de l’école de Bologne et
non moins celle des traditionalistes : il s’agit de dégager ce que les textes disent.
L’aspect critique de la méthode est donc d’une part une critique qui s’applique aux
textes et à leur genèse ; c’est aussi une façon de critiquer qu’on simplifie les rapports complexes entre le Pères en les identifiant avec certains blocs ; c’est encore
critique le jargon journalistique ainsi que les rêves d’une Église correspondant aux
désirs des hommes. Mais, ce qui plus est, la critique des textes devient aussi rapidement celle des idées reçues, des habitudes établies etc. Une telle interprétation du
Concile ne termine pas le travail théologique, ni en dogmatique, ni en pratique : il
constitue cependant un fondement sûr à intégrer dans le travail qui ne se fait jamais
de façon abstraite, mais engage toujours le théologien lui-même avec sa relation
au Dieu-Trinité.
En résumé, les publications de Mgr Marchetto, érudit, intellectuel et pasteur, rassemblent une documentation importante. Ils contribuent donc aux disA. Marchetto, Le Concile œcuménique Vatican II, op. cit., 198.
Ibid., 190.
45 Ibid., 191.
46 Ibid.
47 Ibid., 199.
43 44 25
cours, à la science théologiques en présentant une histoire critique de l’histoire et
de l’historiographie du Concile, qu’ils abordent une question centrale et actuelle
– comme le montrent nombre de publications – et qu’ils contribuent au débat
méthodologique, réintroduisant un point de vue proprement théologique contraire
à tout spiritualisme. Par ailleurs, allant à contre-courant ou offrant selon sa propre
expression « un contrepoint », ils rompent avec la prétendue évidence d’un certain discours établi, offrant une critique argumentée de nombreux auteurs, faisant
profiter les lecteurs de l’acuité d’un regard nourri de vastes connaissances historiques, leur permettant ainsi de se situer eux-mêmes autrement par rapport à un
ouvrage. On tiendra également compte de la valeur proprement pastorale de cette
démarche. Enfin, ces livres et écrits désirent tout simplement contribuer à faire
davantage la vérité – sur le Concile et en tant qu’Église. Néanmoins, son interprétation du Concile n’aboutit dans un historicisme du Concile : « Le concile n’est
pas un refuge où s’installer confortablement et oublier la route. Il est un nouveau
départ, en avant, vers le Seigneur »48. Au contraire, elle ne termine pas le travail
théologique mais le nourrit et le stimule, en dogmatique comme en pratique : elle
constitue un fondement conciliaire sûr à intégrer dans le travail qui ne se fait
jamais de façon abstraite, mais engage toujours le théologien lui-même avec sa
relation au Dieu-Trinité et au monde.
2. Langues, structure et contenu du recueil
Les articles sont publiés dans la langue de leur auteur ; le recueil contient
néanmoins aussi quelques traductions. Ainsi l’article du cardinal W. Brandmüller
rend accessible à un public italien des pages importantes de son livre sur le concile
de Constance. L’article d’O. Pasquato est un compte-rendu détaillé du premier
recueil de Mgr Marchetto : il a été traduit en allemand pour offrir aux lecteurs
germanophones une première approche de l’œuvre et de la pensée de l’archevêque
Marchetto, à compléter par la traduction de sa contribution au Diccionario General de Derecho Canónico. Le livre comporte encore deux autres contributions en
langue allemande et porte un sous-titre allemand : celui-ci ne témoigne pas seulement de son caractère international mais désire contribuer à sa réception dans
le monde germanophone où un « processus de dialogue » dans les Églises locales
engage évidemment aussi la réception du Concile Vatican II. Remarquons en outre
que les auteurs, originaires de différents pays, enseignent dans les facultés de théologie, les universités catholiques ou les universités d’État.
Le livre est divisé en trois parties. La deuxième et troisième sont consacrées
aux deux sujets auxquels celui à qui ce livre est dédié a consacré beaucoup de ses
travaux, tandis que le titre de la première partie joint deux caractéristiques des
travaux d’A. Marchetto, histoire et ecclésiologie, si l’on ne réduit l’ecclésiologie
Joseph Ratzinger, « Le catholicisme après le Concile », in Id., Mon Concile, op. cit., 287.
48 26
pas au seul traité dogmatique qui porte ce nom mais qu’on la comprend comme
une théologie de l’Église à laquelle appartiennent alors non seulement la relation
entre primat pontifical et épiscopat mais aussi la réflexion sur la réception qui ne
peut se limiter à une discussion à partir de catégories herméneutiques empruntées
à d’autres sciences mais doit tenir compte de la structure fondamentale de l’Églisemême. Cette partie sert de présentation de l’œuvre et de la pensée d’A. Marchetto
auxquelles elle veut en même temps introduire : un premier chapitre regroupe trois
textes : d’abord le nôtre en langue française ; ensuite, en traduction allemande, le
compte-rendu du livre Chiesa e papato nella storia e nel diritto rédigé par feu le
professeur Ottorino Pasquato sous le titre « Un genre historiographique original.
Au sujet d’un ouvrage interdisciplinaire d’Agostino Marchetto » ; enfin, en langue
italienne, l’article de Claudio Anselmo, « Le Concile Vatican II. Nova et vetera
dans la continuité de l’histoire de l’Église » : présentant la pensée de l’archevêque,
il en aborde ensuite la réception et le fondement dans le magistère.
Le deuxième chapitre donne la parole à Mgr Marchetto lui-même et reprend
trois contributions qui lui tiennent particulièrement à cœur. Elles ont déjà été présentées plus haut, dans le contexte des livres où elles ont paru ; aussi nous limitons-nous à en rappeler les titres respectifs : « In partem sollicitudinis […] non
in plenitudinem potestatis. Évolution d’une formule “heureuse” du rapport entre
primat et épiscopat » ; « Tradition et renouveau se sont embrassés : le Concile
Vatican II » ; « Perspective canoniste sur le Concile Vatican II : la Constitution
apostolique Sacrae disciplinae leges ».
Intitulée « primat pontifical et épiscopat », la deuxième partie du livre se
divise également en deux chapitres : le premier rassemble une série d’études historiques et théologiques, le deuxième aborde quelques aspects du volet œcuménique
de la problématique du primat.
Ouvrant la série des études historiques, Brian E. Ferme étudie le rapport entre
« le primat romain et les collections canoniques du premier millénaire » ; celles-ci
n’offrent certes pas de présentation systématique sur la primauté mais constituent
une mine d’idées et une série interminable de questions à travers lesquelles les éléments essentiels de la théologie du primat se précisent au fil des siècles. Elles
viennent donc confirmer le rôle central que jouait le siège de Pierre dans la compréhension de l’Église et montrent comment il exerçait son rôle unique concrètement.
Après une approche canoniste, l’étude d’Andreas Matena, « Unum ex suis ydolum
erexerunt. Le pape comme corps imagé dans le discours de la réforme grégorienne »,
analyse le discours sur la papauté. Au xiie et xiiie siècles, la primauté s’articule
moyennant une théologie de l’image dans laquelle le faux prétendant au siège de
Pierre est considéré comme une idole et ses adeptes comme idolâtres : que le pape
soit une image vraie, tout à fait particulière du Christ – qu’il s’agissait de vénérer
quasi comme le Seigneur lui-même – est une idée qui traversera les siècles. Une telle
théologie ouvre non seulement une autre perspective sur la fin du pontificat de
Pie IX, mais elle se retrouve jusqu’aujourd’hui dans le titre de vicarius Christi. Le
Concile de Constance est une autre étape importante dans l’histoire des rapports
entre primat pontifical et épiscopat : son décret Haec Sancta est réputé inscrire la
27
supériorité du concile sur le pape dans la Tradition. Relisant ce texte clef qui ne
cesse de faire couler de l’encre, le cardinal Walter Brandmüller présente et explique
les principes d’herméneutique qu’il applique dans son exégèse de Haec Sancta, illustrant la corrélation entre l’interprétation historico-critique et le travail proprement
théologique, en continuité avec la tradition de l’Église. Apparaît ainsi la valeur
« contingente » de ce texte. Lors du concile de Bâle, Juan de Torquemada jugeait de
même que le décret n’était pas applicable à Eugène IV, comme le montre Thomas
Izbicki dans sa contribution « “La main puissante pour paître les brebis du Seigneur”. Le pape et l’épiscopat dans la première polémique de Juan de Torquemada ». Il était dans la tradition des dominicains de défendre la papauté qui leur avait
accordé nombre de privilèges ; néanmoins, c’est face aux ressentiments des prélats
et à un concile de plus en plus agressif que Torquemada développe son argumentation en faveur d’une supériorité du pape fondée dans le droit divin. Antonio Benlloch
Poveda présente une étude historique majeure : « Alfonso Álvarez Guerrero (15021576) et le Tratado de modo y orden de celebrar el Concilio. Une proposition de
réforme ». Or celle-ci ne consiste pas seulement à établir des lois, mais à se convertir pour que l’Église resplendisse telle que le Seigneur l’a voulue. Le concile est
depuis l’ère apostolique le lieu par excellence de la réforme et de la résolution des
problèmes, comme ceux que connaissent l’Europe et l’Angleterre au xvie siècle ; la
seule autorité qui puisse faire en sorte que se réforme aussi la tête, le pape, si
nécessaire. La charge de convoquer le concile revient d’abord au pape mais, en cas
de nécessité, ainsi cet auteur espagnol, l’empereur peut aussi le faire en tant que
premier de la communauté des croyants. Dans des éditions ultérieures de son Traité,
Guerrero considérera davantage les cardinaux comme protagonistes dans cette démarche. Ses considérations juridiques s’inscrivent dans une démarche spirituelle et
incluent une réflexion sur l’administration des biens temporels qui ne doit jamais
perdre de vue l’aide aux pauvres. Ami de longue date de Mgr Marchetto, le nonce
apostolique Karl-Josef Rauber présente dans un article synthétique « le rapport
entre primat pontifical et épiscopat dans les discussions du Concile de Trente ». Il
rappelle que ce concile ne développe pas le rapport organique entre les évêques et le
pape ; de fait, les discussions théologiques sur l’origine divine du ministère pastoral
épiscopal, confrontant plus particulièrement les Pères espagnols en faveur de l’enracinement du ministère pastoral dans le ius divinum aux Pères italiens, surgissent
lorsqu’il s’agit de traiter d’un sujet bien concret, le devoir de résidence des évêques
et des prêtres. Ces discussions sont cependant aussi marquées par la situation politique et religieuse issue de la réforme luthérienne et l’appréhension d’une résurgence épiscopalienne, voire conciliariste. C’est une des raisons pourquoi les textes
présentent nombre de concessions. Dans son article « Être infaillibilistes en Italie au
xviiie siècle », Paola Vismara montre comment défendre l’infaillibilité du pape signifiait reconnaître le rôle de la papauté pour prévenir la désagrégation de l’Église.
De fait, l’ecclésiologie romaine de la fin du xviiie siècle correspond davantage à une
théologie de la visibilité qu’à une théologie de l’autorité. Comme il résulte de l’analyse de l’œuvre de G. Bolgeni par P. Vismara, l’exaltation des prérogatives pontificales s’accompagne bien d’une présentation valorisante de la figure et du rôle de
28
l’évêque. Les deux articles suivants du professeur Giuseppe Ferraro, récemment
décédé, mettent l’enseignement du concile Vatican II plus particulièrement en lumière à travers l’étude du rite de l’élection du souverain pontife et de la liturgie de
l’ordination épiscopale. Le premier texte aborde « l’essence sacramentelle du primat
romain », étudiant les « relations entre primat et ordination épiscopale, à propos de
l’élection de l’évêque de Rome » dont le rite prévoit que si l’élu n’est pas évêque, il
faut l’ordonner de suite et que le conclave n’est terminé qu’à la fin de l’ordination.
La relecture des prescriptions canoniques est suivie d’une synthèse sur l’enseignement de Vatican II concernant l’épiscopat et d’observations partant de l’étude de la
liturgie d’ordination, aboutissant à des considérations sur l’unité des trois fonctions
de sanctifier, gouverner et prêcher. Le deuxième texte s’intéresse aux termes « “principal” et “arcisacerdotal” : deux titres de l’Esprit saint peu connus ». Il s’agit d’une
« étude de la prière de l’ordination épiscopale » dans une perspective biblique
débouchant sur une réflexion dogmatique articulant trinité, christologie et ecclésiologie pour décrire l’identité trinitaire de l’évêque s’inscrivant dans le mystère de
salut. Ces considérations théologiques fondent la dimension du ministère de l’évêque
qu’aborde Mgr Rauber dans sa deuxième contribution au présent recueil, « Le ministère de l’évêque en tant que service rendu à l’unité », sujet qu’il situe dans les
contextes de l’Église universelle, de l’Église locale et des rapports œcuméniques. À
partir de Lumen Gentium, l’auteur revient à la doctrine sacramentelle dans laquelle
christologie et pneumatologie restent unies, tout comme institution hiérarchique et
spiritualité. Ceci n’exclut pas, mais requiert toujours à nouveau une réforme de la
forme historique dans laquelle s’articulent les structures constitutives de l’Église.
Dernière contribution à cette partie, « L’Église comme universale concretum. Le
“débat” des cardinaux et ses présupposés en théologie fondamentale » ouvre l’horizon sur le rapport entre Églises locales et Église universelle tel qu’il fut discuté par
le cardinal Walter Kasper et celui qui était à l’époque le cardinal Joseph Ratzinger.
Peter Hofmann y développe la thèse suivante : la priorité ontologique et historique
de l’Église universelle sur les Églises locales – telle que la comprend Ratzinger – ne
témoigne point d’une conception platonisante, mais elle doit se comprendre à partir
de l’action de Dieu dans le monde. Dieu ne peut s’y rendre présent que sous une
forme particulière, tout en restant cependant le maître souverain de l’histoire, si bien
que l’Église locale est à considérer également comme un universale concretum. En
fait, il ne s’agit pas d’une discussion sur un style ecclésiologique, mais d’une question sur Dieu.
Le deuxième chapitre de cette première partie rassemble trois contributions
qui peuvent s’inscrire dans une perspective œcuménique. Nous y avons inclus la
contribution d’Onorato Bucci, « L’évêque de Rome entre la pentarchie et le césaropapisme ». Elle ne se définit pas elle-même comme une contribution œcuménique,
mais aborde un aspect non négligeable du primat, le rôle du siège de Rome face
à toutes les tentatives de l’État de dominer l’Église, de la mettre au service de sa
propre idéologie, non seulement au premier millénaire mais encore à l’époque moderne, comme le dit O. Bucci en conclusion. En effet, si l’évêque de Rome a toujours affirmé son primat sur toute la chrétienté, c’est qu’il était conscient d’être le
29
seul moment de liberté et d’autonomie face au pouvoir de plus en plus illimité d’un
État byzantin. La deuxième contribution est celle de Cesare Alzati ; son titre en
résume bien le contenu : « Patriarcat. Une institution enracinée dans l’histoire des
Églises, au service de leur communion ». C. Alzati aborde le rôle des patriarches
aux conciles du premier millénaire, mais aussi dans le décret d’union du concile de
Ferrare-Florence ; ensuite il étudie l’union avec l’Église ruthène comme exemple
articulant la reconnaissance du primat pontifical et l’appartenance à une discipline
ecclésiastique différente. À partir de ces considérations, il relit aussi le rôle du
pape comme patriarche de l’Occident. Ces dimensions historiques permettent de
sortir de réflexions par trop systématiques qui ne permettraient pas de tenir compte
de la diversité réelle et justifiée des situations historiques. Concluant cette partie,
la contribution de Mgr Nicola Bux, « Sur le primat de l’évêque de Rome et la
nécessité de repenser la méthode œcuménique », remet en question plusieurs lieux
communs du dialogue œcuménique tels que le prétendu parallélisme entre conciliarisme et primat ou encore ce que l’auteur appelle l’idéalisation du premier millénaire : en fait, ils ne correspondent pas à la réalité historique. Sa critique s’adresse
ainsi aux catholiques eux-mêmes et aux intentions qui les ont conduit à adopter un
certain jargon.
Le titre de la troisième partie reprend une expression chère à Mgr Marchetto,
« il magno sinodo », à traduire proprement par « ce synode d’une importance extraordinaire » ; parler de sa dynamique ne signifie évidemment pas introduire la perspective d’une rupture dans la tradition, mais bien plutôt souligner le processus qui
a permis d’arriver à ce consensus par lequel la vérité ne se vote pas mais s’atteste et
de laisser aussi apparaître quelques perspectives de la réception même du concile.
Ainsi les contributions rassemblées dans le premier chapitre sous le titre de « perspectives herméneutiques » offrent quelques points de repères à partir desquels une
« herméneutique correcte » peut se développer.
Dans son article « Le Concile Vatican II dans l’ensemble des conciles œcuméniques », Johannes Grohe critique en tant qu’historien différentes approches
cherchant à relativiser l’importance de Vatican II : si d’aucuns mettent en doute
son caractère œcuménique, d’autres discutent son autorité. Certes, on a cherché à
distinguer entre conciles majeurs et mineurs, mais J. Grohe plaide pour une profession de foi qui inclurait la référence explicite aux conciles de Nicée à Vatican II.
Dans le contexte de la communication typique des médias s’attachant volontiers
aux ruptures, l’article de Matthew L. Lamb, « La tradition apostolique : Vatican
II dans le magistère vivant » explique ensuite la succession apostolique en tant
que participation des évêques à la mission du Christ comme principe de continuité
dans l’enseignement et en donne les raisons théologiques en référence explicite
à Thomas d’Aquin. Ainsi les textes et non seulement l’événement de Vatican II
gardent leur valeur. Alexandra von Teuffenbach vient également insister sur la
continuité quand elle demande « qui a proposé comme premier le subsistit in ?»
dans LG 8. Sa thèse a déjà suscité des réactions critiques ; dans cet article, elle suit
l’évolution du texte et montre que c’est bien le P. Tromp qui a introduit le subsistit,
offrant ainsi une contribution pour la juste compréhension de cette expression qui
30
a fait couler tant d’encre. La connaissance de la théologie du P. Tromp, telle qu’il
l’a développée dans ses livres et ses cours à la Grégorienne donnera de la profondeur à cette identification. Geoffroy de la Tousche résume dans son « Mémoire
d’une recherche d’archives. À propos de LG 22 et 25 sur le magistère ordinaire
universel » la démarche et les résultats de sa thèse dirigée par le cardinal Karl J.
Becker : c’est d’abord la preuve que le travail sur les sources change la réception du concile ! Ainsi, en ce qui concerne par exemple l’aggiornamento, il ne
s’agit évidemment pas d’une adaptation de la doctrine à l’esprit du temps, mais de
l’expression de la fidélité de l’Église à son enracinement dans le mystère trinitaire.
C’est dans la même ligne que l’auteur relit l’enseignement du concile sur le rapport
entre primat pontifical et épiscopat. Les quatre textes rassemblés dans ce premier
chapitre posent le cadre dans lequel une lecture des Actes et des autres sources du
concile doit s’inscrire.
Le deuxième chapitre est consacré aux témoignages du Concile : deux textes
relisent des témoignages « internes » soit d’un évêque, soit celui de quatre periti ;
deux autres font entrer les lecteurs dans la perspective protestante et orthodoxe.
Le chapitre s’ouvre sur le texte de Marco Roncalli traçant un portrait animé de
l’aggiornamento chez « Albino Luciani, un évêque au concile » : d’un côté on voit
comment le futur pape Jean-Paul I remet sa théologie sur l’enclume pour mieux
comprendre les débats et mieux y participer, de l’autre côté avec quelle joie il s’empresse de faire participer son diocèse à son expérience, à la dynamique du concile
lui-même. L’article illustre les changements de mentalité que le concile exigeait et
le fonctionnement de la continuité. Dans sa contribution, Leo Declerck qui vient
d’être nommé docteur honoris causa par l’Université de Mayence pour l’ensemble
de ses travaux sur le concile Vatican II, relit et commente ce que disent les journaux
des quatre periti G. Philips, J. Ratzinger, H. de Lubac et H. Schauf de l’introduction de la Nota explicativa praevia. Il est d’ailleurs intéressant de voir comment
le futur cardinal de Lubac commentera les événements autrement après un certain temps : comment ces théologiens n’auraient-ils pas été sujets aux passions, à
des mouvements d’âme quand ils donnaient le meilleur d’eux-mêmes ? Mais cela
signifie aussi que leurs notes ont une place certes non négligeable pour comprendre
les faits, mais qu’ils n’en constituent pas la vérité. Les deux contributions suivantes
élargissent la perspective au domaine œcuménique. Ainsi Annibale Zambarbieri,
dont Mgr Marchetto avait apprécié de façon critique l’histoire des deux conciles49,
reconstruit l’histoire de la présence d’un protestant japonais, Doi Masatoshi, au
concile et présente les expériences de celui qui est un excellent connaisseur de Paul
Tillich : cette indication est loin d’être secondaire pour comprendre qu’il s’agit
d’une triple mise en perspective de l’expérience conciliaire : asiatique, protestante
et théologique. Adriano Roccucci retrace les enjeux de la présence d’une délégation de l’Église orthodoxe russe au Concile. Ils sont d’un côté certes religieux :
49 Cf. A. Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia,
op. cit., 51-55.
31
Moscou ne désirait pas s’isoler du dialogue œcuménique et Rome les accueillait
d’autant plus volontiers que Constantinople avait refusé de participer. Ce sera un
premier pas pour renouer une relation et commencer à se connaître dans la différence. De l’autre côté, la délégation russe devient aussi le canal d’une certaine
communication indirecte entre Rome et le régime communiste.
Le troisième et dernier chapitre présente deux aspects de la réception du
concile. Maurizio Tagliaferri laisse participer son lecteur aux débats de l’aprèsconcile à partir de nombreux documents d’archives. « Les Églises de l’ÉmilieRomagne dans le magistère épiscopal d’après le concile jusque dans les années 80 »
montre un monde qui cherchait à se comprendre, à se renouveler, à se refaire ; les
évêques doivent d’un côté tenir ensemble leurs diocèses et de l’autre côté innover.
Mais le lecteur peut se demander si cet aggiornamento ne manque pas d’un fondement théologique capable d’articuler le rapport d’une expérience nouvelle avec la
tradition. Dans la dernière contribution du recueil, « Notes sur la liberté religieuse :
la Dignitatis humanae et les relations internationales », Vincenzo Buonomo rappelle que le concile a situé la question de la liberté religieuse dans les relations entre
les pouvoirs publics et la personne humaine. Force est de constater que souvent
une partie de l’enseignement du concile est reçue, notamment la liberté du choix ;
si le refus de l’intolérance et de la discrimination qui s’ensuit est important, il faut
aussi rappeler le lien intrinsèque entre liberté humaine et Dieu et veiller à ce que
les pouvoirs politiques contribuent à un climat social favorisant l’exercice positif
de la liberté religieuse.
La déclaration Dignitatis humanae est certes un des textes où l’Église a développé au concile une lecture différente de faits, un rapport original à l’État, intégrant l’apport d’une expérience socio-politique qui ne se limitait plus à l’Europe
et permettait une perception et interprétation différentes de la problématique. Cet
exemple illustre comment l’Église fait l’expérience du monde dans lequel elle
s’inscrit recevant continuellement le don Dieu, dimension que nous aborderons
dans la suite.
3. L’Église qui reçoit le don de Dieu et y répond
Avec ce titre nous situons cette Festschrift dans la continuité avec deux autres
recueils que nous avons déjà édités, Einheit und Anspruch des Katholischen et The
Challenge of the Catholic Intellectual Tradition. Dans le premier50 nous avions
défini l’Église comme « une communion de réception canonique » qui « recevait »
le don de Dieu et qui « recevait » aussi le monde pour devenir, à partir de cette rencontre, ainsi sacrement, annonce, présence et action de Dieu dans le monde. Dans
Jean Ehret, Katholisch: Christus als Mitte. Zur Frage nach Einheit und Anspruch des
Katholischen, in Id. et E. Möde (éd.), Una sancta catholica et apostolica. Einheit und Anspruch
des Katholischen, Herder, Friburgo in Brisgovia 2009, 15-41.
50 32
le deuxième recueil51 nous avions déterminé la spiritualité comme lieu ecclésial où
s’opérait la rencontre et l’intégration des différents apports ainsi que le discernement théologique.
Ce livre-ci aborde le rapport entre primat pontifical et épiscopat, élément
essentiel de toute vie et spiritualité ecclésiales puisqu’elles sont soutenues, motivées
et corrigées par le ministère des évêques et celui de Pierre qui sont au service de la foi
et de l’unité. Il montre les différentes formes et expressions de cet élément originel
au fil de l’histoire jusqu’au concile Vatican II étudiant des éléments importants pour
la compréhension d’un phénomène complexe : loin de constituer un progrès linéaire
et nécessaire, l’Église avance dans l’histoire d’époque en époque et y exprime chaque
fois à nouveau son mystère, vivant en un temps et un lieu déterminé, riche cependant
aussi de son héritage, enraciné en Celui qui est sa vie, Jésus, le Verbe de Dieu, qui
s’est anéanti dans la chair, est mort et ressuscité, qui est assis à la droite du Père et a
envoyé l’Esprit qui donne la Vie. Il reviendra au dernier jour. En même temps que
l’épiscopat et le primat constituent donc un élément de la vie et spiritualité ecclésiales, ils trouvent leur expression historique aussi en celles-ci, dans cette rencontre
entre ce qui est donné dans la Révélation qui a trouvé son accomplissement en Jésus
Christ et une situation historique sous la mouvance de l’Esprit.
Le point de départ de nos recherches était la question bien pratique comment
faire de la théologie, à partir d’où parler pour dire Dieu aujourd’hui, face à l’apport
des différentes sciences naturelles, humaines, de l’histoire individuelle et communautaire. Certes, on peut se référer aux grands théologiens comme Augustin, Thomas d’Aquin, Bonaventure pour ne citer que ceux-ci ou étudier un sujet à travers
l’histoire : l’approche historique étant incontournable, elle confronte le théologien
cependant aussi à la tâche de répondre aujourd’hui à la question « qui dites-vous que
je suis ? » tant par son discours que par sa vie. Cela suppose précisément une réponse
qui naît de la rencontre originelle dans une situation originale. C’est le défi qu’avaient
également relevé les grands théologiens à leur époque, dans les conditions socioculturelles, politiques et épistémologiques de leur temps et avec la langue, voir les
arts qui étaient les leurs. Aujourd’hui s’ajoute une conscience nette et incontournable
de la condition historique de la Révélation elle-même ainsi que de toute démarche
ecclésiale et, partant, théologique52. La situation peut apparaître plus difficile ; elle
devient néanmoins aussi plus authentique, plus sincère dès lors que les faits même
contradictoires, les aléas de la vie, le péché ne sont pas ignorés ou effacés.
Pendant nos études de lettres, nous avions été formé par M.-M. Münch à son
esthétique53 ; elle nous avait rendu sensible à trois choses. Premièrement à la force de
Jean Ehret, The Catholic Intellectual Tradition and its Dynamics, in Id. et E. Möde (éd.),
The Challenge of the Catholic Intellectual Tradition. Making a Difference in Contemporary Academic Settings, Lit, Münster 2011, 109-134.
52 Voir p. ex. Bruno Forte, La Parola della fede. Introduzione alla simbolica ecclesiale (= Simbolica ecclesiale, 1), San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, 57-63 (« Una teologia come storia ») e
63-71 (« Un sistema aperto »).
53 Marc-Mathieu Münch, L’Effet de vie ou le singulier de l’art (= Bibliothèque de Litté51 33
la puissance fictionnelle, capable d’inventer des mondes cohérents. Cette puissance
fictionnelle fait partie des conditions de possibilité de nos connaissances de Dieu, du
monde et de nous-mêmes ; pour ne pas succomber à ses charmes, la question de la
vérité est un instrument important. Deuxièmement à une réception des œuvres d’art
touchant toutes les facultés de l’âme et pas seulement la raison. Le sujet récepteur
y est à la fois « passif » et « actif ». Cet aspect avait fortement marqué notre lecture
de l’Écriture. Troisièmement à la liberté, à la nouveauté de la création artistique qui
ne se laissait pas réduire à un simple jeu de facteurs exogènes, mais qui devait tenir
compte d’une synthèse unique conduisant à une Gestalt. Münch nous avait laissé
entrevoir que la réception elle-même pouvait déboucher sur une nouvelle créativité
qui était en même temps fidélité et nouveauté. La question devenait alors celle quel
était le « noyau de formation » de toute théologie qui voulait vraiment être proprement catholique, c’est-à-dire embrasser Dieu et le monde, tenant compte tant de
l’intervention de la puissance fictionnelle dans toutes nos connaissances que de la
liberté de l’action de l’Esprit de Dieu.
Deux dangers parallèles doivent être évités : d’une part celui de vouloir lire
l’existence et l’histoire de l’Église comme de chacun des croyants uniquement
avec le regard des sciences humaines ou naturelles, excluant certes a priori toute
« intervention » de Dieu, mais laissant apparaître aussi la force et densité des facteurs naturels et culturels. D’où l’importance de la liturgie dans laquelle Dieu se
communique à l’homme, l’établit dans l’alliance nouvelle qu’il a conclue avec lui.
Et d’autre part celui de ne pas préjuger trop rapidement de l’expérience humaine
à cause d’une pensée systématique incapable de laisser entrer la diversité, la nouveauté, le caractère non-identique de la vie. Comment faire pour que les systèmes
de pensée ne nous privent pas de la vie, celle des hommes et celle de Dieu ? Les années d’avant le concile ressentaient déjà le besoin de dépasser le langage désormais
stérile de la théologie néoscolastique. Les différents mouvements de renouveau
biblique, patristique, liturgique etc. venaient enrichir la pensée théologique et son
expression par un retour aux sources. Cette démarche ne se fit pas sans tensions. On
se souvient p. ex. des résistances que rencontrait une prétendue « nouvelle théologie ». Les questions d’herméneutique biblique continuent par ailleurs d’occuper les
esprits des théologiens54. Au moment même où les sciences naturelles et humaines
gagnaient en importance, le besoin de penser autrement le rapport de leurs apports
avec la théologie devenait de plus en plus pressant. La chose est loin d’être aisée55.
rature générale et comparée, 46), Champion, Paris 2004 ; Id., Le Beau des arts. Projet pour une
esthétique générale, in Jean Ehret (dir.), L’Esthétique de l’Effet de vie. Perspectives interdisciplinaires (= L’univers esthétique, 8), L’Harmattan, Paris 2012, 13-66.
54 Voir non seulement les deux documents de la Commission biblique pontificale,
« L’interprétation de la Bible dans l’Église » et « Le Peuple juif et ses saintes Écritures dans
la Bible chrétienne », mais encore Joseph Ratzinger – Benoît XVI, Jésus de Nazareth. 1. Du
Baptême dans le Jourdain à la Transfiguration (= Champs essais), éd. franç. ss. la direction de
Mgr François Duthel, Flammarion, Paris 2007, 7-20 (« Avant-propos ») et surtout la discussion
autour des questions méthodologiques et les options théologiques qui suivit la publication des
trois livres sur Jésus de J. Ratzinger – Benoît XVI.
55 Cf. p. ex. Jean-Pierre Jossua, La Condition des théologiens depuis Vatican II vue par l’un
34
On sait combien la théologie s’est diversifiée depuis la fin du concile, qu’il y a bien
rupture en ce qui concerne le langage et interrogation sur les méthodes56. Or cela
ne signifie pas qu’il y a rupture dans le fond, dans le mouvement même de la Tradition : au contraire, l’alliance que Dieu a conclue avec son peuple et dans laquelle
il se donne à lui reste la même. Mais si l’homme se découvre autrement, le chrétien
perçoit aussi la relation autrement si bien qu’il doit entrer dans un discernement et
trouver une nouvelle façon de dire la foi de l’Église.
Considérer la spiritualité comme le lieu où les différents éléments de l’expérience et des savoirs peuvent se rencontrer constitue une voie à suivre. Certes la
raison doit toujours effectuer un important travail critique sur les différents éléments entrant en jeu, mais il n’est pas tout, car il existe le moment où le chrétien
fait tout entrer dans sa relation au Dieu qui se communique à lui à l’intérieur de
l’alliance et c’est cette relation qui décide d’une orientation plus ou moins, voire
radicalement différente57 : l’homme se comprend autrement dans une relation que
lorsqu’il n’est renvoyé qu’à lui-même. La notion de relation qui reprend celle de
création et d’alliance est capable d’intégrer tant l’autonomie du créé que les tensions qui résultent de la rencontre de différents éléments cognitifs, existentiels et
communautaires devant déterminer ou ajuster leurs rapports. La relation vécue à
Dieu dans son Église avec ce que cela comporte de facteurs historiques – et de
nécessaire connaissance de la Tradition – est dès lors la catégorie centrale. Elle
se fonde évidemment sur l’accueil du don de Dieu (qu’est le Christ), sur la foi.
Si nous parlons de réception, nous voulons d’un côté charger ce terme qui revient
dans les discussions d’une profondeur théologique ; de l’autre côté nous l’aimons
parce qu’il dépasse les dimensions juridiques58, incluant tout le travail humain –
individuel et communautaire – qui se fait. La spiritualité devient ainsi le lieu où
s’établit une certaine unité du savoir, une vérité, face à laquelle l’homme s’efforce
de prendre l’attitude juste (de justice autant que de justesse) : il entre dans un discernement qui est aussi affecté par la prise de conscience de l’historicité que de
la force du non-identique, incluant et dépassant dès lors la conception classique59
telle qu’elle était par exemple développée par Ignace de Loyola. Ce discernement
peut se faire également au fil des années, dans une recherche continue, interrom-
d’entre eux, in Archives des sciences sociales des religions 62/1 (1986) 119-134, texte engagé,
critique, témoin d’une certain époque.
56 Pour avoir une idée, il suffit de comparer les trois éditions successives du Lexikon für
Theologie und Kirche à l’entrée théologie, la première datant des années trente, la deuxième de
la période conciliaire, la troisième de la fin du xxe siècle.
57 Il faudrait inclure ici le rapport entre foi et raison qui se complètent et se corrigent, tel
qu’il a été exposé à différentes reprises par le pape Benoît XVI.
58 Cf. Yves Congar, La « réception » comme réalité ecclésiologique, in Revue des Sciences
philosophique et théologique 56 (1972) 369-403.
59 Cf. Antonio Barruffo, Discernement, in Dictionnaire de la vie spirituelle, Cerf, Paris
1983, 271-279.
35
pue ou renouvelée de Dieu devant lequel on peut se tenir en tant que pécheur60. La
conclusion à laquelle on arrive peut être prophétique ; elle sera très probablement
encore dépassée par Dieu, comme le montre la parabole du fils prodigue qui laissera encore apparaître ce que la démarche de l’homme peut avoir de faux. Que la
relation rétablie, approfondie ne crée pas uniquement des amis, l’Écriture le sait
également. Le vin nouveau tient mal dans les vieilles outres.
Ces considérations semblent nous avoir emmenées loin du rapport entre primat pontifical et épiscopat. En fait, ils nous ramènent directement au centre de la
vie du concile comme lieu de discernement communautaire. Le travail de la raison,
l’affectivité, la mémoire, la prudence, la communion humaine dans la foi, les résistances et incompréhensions… tant d’éléments interviennent dans un processus où
chaque matin les participants sont incorporés dans la messe à Celui dont ils veulent
rendre témoignage dans l’aujourd’hui. Il est important d’écouter ce que l’Esprit dit
à l’Église et d’étudier les documents que ce concile-ci comme ceux que le magistère a laissés à l’église61. Adoptant le point de vue de la relation, la question de la
continuité ou de la rupture ne se pose plus seulement par rapport à des formulations
spécifiques62. Il s’agit de la continuité de l’unique sujet-Église, de ce peuple fondé
précisément sur une relation spécifique avec le Dieu Trinité qui constitue le lieu du
discernement et donc aussi de la liberté des enfants de Dieu.
Une telle approche ne donne pas de recette pour résoudre du jour au lendemain p. ex. les problèmes du dialogue œcuménique dans le cas du primat ; l’approche spirituelle peut néanmoins avoir une valeur critique pour relire une situation, voire une rencontre ; elle permet un travail théologique innovateur qui ne
soit pas détaché de l’histoire ou du magistère sans qu’aucun des deux ne puisse
cependant remplacer un processus continu que l’on saisit peut-être le mieux en le
racontant ; elle inspire également une démarche ecclésiale dans laquelle unité et
diversité s’articulent63.
***
Comment donc raconter le primat dans son rapport à l’épiscopat en l’an
2013 ? Dans notre introduction, nous avons observé quelques événements de cette
année qui marquent cette narration. La présentation de la pensée de Mgr Marchetto
60 Cf. p. ex. la vie d’Ignace de Loyola ou encore celle de Julien Green – ainsi que les relectures théologiques qui en ont été faites.
61 Nous renvoyons à Bernard Sesboüé, Histoire et théologie de l’infaillibilité de l’Église (=
La part-Dieu, 22), Lessius, Bruxelles 2013, 11 sqq., proposant des réflexions méthodologiques
importantes pour éviter la « rétroactivité des interprétations et [les] anachronismes ».
62 Voir à ce sujet également les réflexions du P. Yves de Montcheuil, Problèmes de vie
spirituelle, DDB, Paris 2006, 236, cité dans Bernard Sesboüé, L’Évangile et la Tradition, Bayard,
Paris 2008, 10 : « On peut désirer être traditionnel, mais on ne l’est pas en choisissant une position une solution parce qu’elle a déjà été utilisée ; on risque alors d’être simplement routinier et
démodé. On est vraiment traditionnel par la fidélité intérieure à son être profond ».
63 Cf. p. ex. B. Sesboüé, L’Évangile et la Tradition, op. cit., 216 sqq. ; Hans Urs von Balthasar, La vérité est symphonique. Aspects du pluralisme chrétien, Parole et Silence, Saint-Maur 2000.
36
nous a sensibilisé pour l’apport de l’histoire et l’engagement dans le débat. Les
contributions du recueil peuvent offrir des points de repères par rapport auxquels
on peut se situer ; il faudrait encore tenir compte de l’expérience de la vie des
évêques et des Églises locales de par le monde, comme de la critique que l’on reçoit
des milieux non-, voire anti-chrétiens. Dans cette multiple ouverture associée à la
patience et enracinée dans la foi vivante de l’Église qui ne peut faillir dans la foi se
trouve probablement une perspective pour des chemins nouveaux, venus prolonger
ceux que le même Esprit avait inspirés à nos ancêtres dans la foi.
37
EIN ORIGINELLES
HISTORIOGRAPHISCHES GENUS
Zu einem interdisziplinären
Werk von Agostino Marchetto
1
Ottorino Pasquato
Agostino Marchetto, Chiesa e Papato nella storia e nel diritto. 25 anni di studi critici
(= Storia e Attualità XVI), L.E.V., Vatikan 2002, 771 S. Vom gleichen Autor nach der gleichen
Methode erstellt, siehe nun auch Il Concilio Ecumenico Vati­cano II. Contrappunto per la sua
storia (= Storia e Attualità XVII), L.E.V, Vatikan 2005, 406 S. [Siehe auch noch Id., Il Concilio
ecumenico Vati­cano II. Per la sua corretta ermeneutica (= Storia e Attualità XVIII), L.E.V., Vatikan 2012, 380 S. – Anm. d. Hg.] Als interessanten Vergleichspunkt, siehe Otto Hermann Pesch,
Das Zweite Vatikanische Konzil. Vor­ge­schichte–Ver­lauf–Er­geb­nisse–Nach­ge­schichte, 2. Aufl.,
Echter, Würzburg 1994; Neuauflage 2011. [Marchetto bespricht die ital. Übersetzung der 2. Aufl.
in Id., Il Concilio ecumenico Vati­cano II. Per la sua corretta ermeneutica, op. cit., S. 148-154.
Anm. d. Hg.]
1 Der Band ist eine Abfolge von Rezensionen und Anmerkungen, die zu verschiedenen Zeiten geschrieben und jetzt mustergültig zusammengestellt worden
sind. Während sie uns zunächst an verstreute, zufällige Mosaiksteinchen denken
lassen würden, werden sie hier nach einem in sich einheitlichen Plan zu einem Mosaik zusammengefügt (Kirche und Papsttum). Marchetto beweist Sicherheit in der
Dokumentation und Klarheit in der Beurteilung. Alles in allem erscheint der Band
als ein von Methode und Stil her originelles Werk. Es stellt eine eigene Gattung
der Geschichtsschreibung dar, die es einerseits durch zahlreiche wörtliche Zitate
aus den Werken erlaubt, an deren wesentliche und wichtigste Inhalte heranzuführen; andererseits geht damit eine einprägsame und stets dokumentierte kritische
Bewertung einher. Es ist nicht übertrieben, wenn ich sage, dass ein solcher Aufbau
des Buches ein gewisses Gefühl von „Verwunderung“ – wir würden sagen: Überraschung – weckt, und gleichzeitig lässt sich nicht leugnen, dass es in diesem Fall
einen echten Fortschritt der Geschichts- und der Rechtswissenschaft darstellt.
Es ist vielleicht hilfreich, wenigstens einige Hinweise auf den wissenschaftlichen Ausbildungsgang von Agostino Marchetto vorauszuschicken; das soll uns
helfen, sein Werk besser zu verstehen. Er krönt sein Studium mit der Dissertation Episcopato e primato pontificio nelle decretali Pseudo-Isidoriane. Ricerca
storica-giuridica (Bischofsamt und päpstlicher Primat in den Pseudo-Isidorischen
Dekretalen. Historisch-juristische Untersuchung), Rom 1971. Was seine historisch-juristische Vorbereitung betrifft, so gilt seine besondere Dankbarkeit Msgr.
Giuseppe D’Ercole, der ihn auf das Thema der Doktorarbeit hingelenkt hatte, aber
auch Kardinal Alfons Stickler und P. Pietro Tocanel OFM Conv. Schon das Thema
der Doktorarbeit lässt seine Absicht erkennen, „dazu beizutragen, die historische
Forschung für das Kirchenrecht und dieses im umfassendsten Sinn, wie es heute
verstanden wird, für die Geschichte zu öffnen“ (Vorwort, S. 5).
Vom Kirchenrecht und von der Geschichte sind denn auch seine zahlreichen
Rezensionen und Anmerkungen geprägt, die in dem Band enthalten sind. Auf das
Studium der Geschichte lenkte ihn auch P. Gilles-Gérard Meersseman OP hin, ein
bekannter Fachmann für die Bruderschaften und die Laienfrömmigkeit im Mittelalter (erinnert sei um der Wahrheit Willen an die scharfe Auseinandersetzung
zwischen ihm und P. Jean Leclercq OSB bezüglich der historischen Rechtmäßigkeit einer „monastischen Theologie“, die der Dominikaner ablehnte; seine Position
wurde jedoch widerlegt), aber besonders einer seiner berühmten Lehrer, Msgr. Michele Maccarrone, der ihn am Ende der Siebzigerjahre gern als seinen Nachfolger
auf dem Lehrstuhl an der Päpstlichen Lateranuniversität gesehen hätte. Marchetto
beabsichtigt jedoch, die diplomatische Laufbahn einzuschlagen, wenngleich er die
wissenschaftliche Forschung keineswegs aufgibt: wenn, wie bei ihm, eine tiefe,
angeborene Neigung zum Wissen vorhanden ist, ist auch das möglich. Die schwie-
41
rige Entscheidung, die ihn in Länder außerhalb Italiens (davon zwanzig Jahre nach
Afrika) führt, wo es keinerlei Möglichkeit für eine umfassende wissenschaftliche
Forschung gibt, lässt ihn auf das literarische Genus der Rezension und der Anmerkung ausweichen, wobei er im übrigen zutiefst davon überzeugt ist, dass diese
Gattung der Geschichtsschreibung einen „Beitrag zum Fortschritt der Wissenschaft
darstellt“. Und so ist es tatsächlich.
Wir können nicht unbeachtet lassen, dass er sich mit ganz speziellen Fachthemen im Bereich des kanonischen Rechts auseinandergesetzt hat, einer Wissenschaft, die sich bemerkenswerter Ergebnisse besonders von Seiten zweier Gelehrter, Stefan Kuttner und Kardinal Alfons Stickler, aber eben auch Marchettos rühmen kann.
So sind also auf Grund der zweifachen, historisch-juristischen Vorbereitung
Beiträge entstanden, von denen sehr viele zu den Rezensionen und Anmerkungen
gehören, die hier – zusammen mit sechst unveröffentlichten Texten sind es deren insgesamt 104 – vereint erscheinen und die fast alle zum ersten Mal bezeichnenderweise
entweder in Apollinaris oder in Rivista di Storia della Chiesa in Italia erschienen
sind. Diese Beiträge geben nicht nur ausführlich den Inhalt der betreffenden Werke
wieder, sie leiten ihre Bedeutung aus den kritischen Beurteilungen ab, die historiographische Vorverständnisse aufdecken und zu Korrekturvorschlägen sowie Überlegungen und Anleitungen für die weitere Forschung führen. Hier zeigt sich, dass Marchetto auch über eine solide Ekklesiologie verfügt, aus der er auch die Beurteilungskriterien bezieht. Das Szenarium, das Marchetto meistens auf institutioneller Ebene,
seltener auf der Ebene des Innenlebens der Kirche vorstellt, reicht von der Kirche
der Antike und des Mittelalters bis zur modernen Kirche der heutigen Zeit mit ihren
unterschiedlichen ekklesiologischen Einstellungen zum II. Vati­kanischen Konzil; es
schließt nicht selten Aspekte der Geschichte des Kirchenrechts und der kirchlichen
Institutionen sowie der Beziehungen zwischen dem Bischof/Patriarch von Rom und
den verschiedenen Kirchen ein. Da es uns hier nicht möglich ist, alle 104 Beiträge
vorzustellen, müssen wir eine Auswahl treffen, die sich vorwiegend an Beiträgen
historischen Charakters ausrichtet, womit aber in keiner Weise beabsichtigt ist, den
Wert der anderen Beiträge herabzusetzen. Wie wir sehen werden, sind viele dieser
Beiträge mehrere Seiten lang, nicht wenige sind richtige Artikel.
Im I. Teil, „Ordo fraternitatis“: Die Laien (Nr. 1-7: 5 Re­zen­sionen und 2 An­
mer­kung­en, S. 23-63) heben wir an erster Stelle zwei Anmerkungen hervor, deren
erste eine ausführliche und beeindruckende Erinnerung an P. Meersseman, seinen
Lehrer und Freund (der häufig Marchettos Geburtsstadt Vicenza besuchte), und
dessen Werk ist (Nr. 1, S. 23-33); die zweite betrifft Bruderschaften und Laienfrömmigkeit im Mittelalter (Nr. 2, S. 33-40), und enthält eine gewissenhafte Darstellung
des bekannten Werkes seines Lehrers, Ordo Fraternitatis, das in 3 Bänden in der
Reihe „Italia Sacra“ erschienen ist. Reich und ausführlich erscheint die Rezension
des Werkes von A. Vauchez über die Spiritualität des mittelalterlichen Abendlandes
(1978) (Nr. 4, S. 41-53).
Gleichfalls im mittelalterlichen Umfeld bewegt sich der II. Teil, der aber
der Geschichte des Kirchenrechts gewidmet ist: Falsficazioni Pseudo-Isidoriane
42
ed altre. Loro influsso [Pseudoisidorische und andere Fälschungen. Ihr Einfluss]
(Nr. 8-13: 5 Re­zen­sionen und eine An­mer­kung, S. 67-104). Auf dem Hintergrund
der oben zitierten Dissertation Marchettos in Kirchenrecht geht es um eine Vertiefung der pseudo-isidorischen Rechtslehre im Hinblick auf den päpstlichen Primat
durch entsprechende Rezensionen, darunter jene (Nr. 9) besonders umfangreiche
des dreibändigen Werkes des berühmten Mediävisten H. Fuhrmann über den Einfluss und die Verbreitung der Pseudo-Isidorischen Dekretalen (S. 69-80). Das ist
eine Rezension von grundlegender Bedeutung, da sie mit intelligenter kritischer
Präsentation ein Werk in Italien bekannt macht, das dem gelehrten italienischen
Publikum nicht leicht zugänglich ist; sie untersucht im übrigen auch die Donatio
Constantini (Nr. 11). Wir erwähnen auch die originelle und äußerst interessante
Anmerkung (Nr. 13) über den Einfluss der Pseudo-Isidorischen Fälschungen auf
den neuen Kirchenrechtskodex (CIC) der lateinischen Kirche, ein Beitrag, der bei
dem 1986 von den Monumenta Germaniae Historica in München ausgerichteten
Kongress vorgetragen wurde (S. 92-104). Das Studium der Pseudo-Isidorischen
und anderer Fälschungen vor Gratian bleibt immer für weitere Arbeiten offen: Man
braucht nur an das Problem ihres Einflusses auf die Entwicklung von Ideen, darunter jene des Primats, zu denken. Marchettos Ansatz und seine Art, an diese Probleme heranzugehen, öffnet den Weg zu neuen Interpretationen und Eindrücken.
Auch der III. Teil, Zur Geschichte des Kirchenrechts (Nr. 14-26: 12 Re­zen­
sionen und 1 An­mer­kung, S. 107-156) geht auf Marchettos Dissertation zurück, da
er in weitreichendem Umfang die Geschichte des Kirchenrechts, der Sammlungen
der Kirchenrechtsquellen, im besonderen die 74-Titel-Sammlung in der Ausgabe
von J. Gilchrist, mit kritischem Anhang, die Collectio vetus Gallica und das Decretum Gratiani betrifft. Von besonderem Interesse ist die kritische Anmerkung
über die Beziehung zwischen Kollegialität und Kurienhörigkeit (Kurialismus) in
der mittelalterlichen Kanonistik auf der Grundlage des gleichnamigen Werkes von
A. Landi (S. 120-133).
Zu äußerstem Dank verpflichtet fühlt sich Marchetto auch gegenüber Msgr.
D’Ercole, der über die Kirchenkonstitution, deren Wurzeln er bis in die alte Kirche
zurückverfolgte, und über die communio, gearbeitet hat. Von ihm sagt Marchetto,
dass er als Berater (peritus) beim II. Vatikanischen Konzil dazu beigetragen habe,
dass gerade die Lehre von der communio hierarchica in die Konzilstexte eingefügt
wurde.
Das alles findet seine Auswirkungen in dem langen IV. Teil, Zur Geschichte
der Konzilien (Nr. 27-51: 19 Re­zensionen und 6 An­mer­kung­en, S. 159-330), in
dem Marchetto einen großen Bogen spannt: er beginnt mit der Rezension von drei
in deutscher Sprache geschriebenen Werken (durch die er sich sehr gut hindurcharbeitet!) des Spezialisten für die Geschichte der Konzilien, H. J. Sieben (S. 159172) und reicht von der Geschichte der alten Kirche (Die Konzilsidee der alten
Kirche, 1979), über die Geschichte der Kirche des lateinischen Mittelalters (Die
Konzilsidee des lateinischen Mittelalters (847-1378), 1984) bis zu Abhandlungen
über das Konzil (Traktate und Theorien zum Konzil, 1983) und geht dann weiter
zur Geschichte der ökumenischen Konzilien mit der eindringlichen Untersuchung
43
der Storia dei Concili ecumenici von G. Al­berigo (1990), wo (nicht zum ersten
und schon gar nicht zum letzten Mal!) der Dissens unseres Rezensenten mit Prof.
Alberigo und seiner sogenannten „Schule von Bologna“ deutlich zutage tritt. Der
Rezensent spart nicht mit Kritik, weder am Vorwort noch am achten und neunten
(letzten) Teil des Bandes, die alle aus der Feder Alberigos stammen; diese beiden
letzten Teile betreffen das I. und das II. Vati­kanische Konzil: eine diesbezügliche
Äußerung Marchettos möge genügen: „Auf jeden Fall kommen auch in diesem Aufsatz wieder die bekannten selektiven Auswahlmechanismen, die einseitigen Wahrnehmungen und die vorgefassten Urteile des Autors zum Vorschein, von denen
viele bereits an anderer Stelle von uns angeführt worden sind“ (S. 189). Marchetto
liebt es nicht, das Leben der Kirche mit Etiketten oder Kategorien zu versehen, da
diese oberflächlich und oft irreführend sind. Unter den Geschichtswerken über die
Konzilien rezensiert er auch die Geschichte der Konzilien (1995) von R. Aubert,
G. Fedalto und D. Quaglioni (S. 191-199).
Es sind aber die Werke über das Zweite Vaticanum, denen er eine besondere
Aufmerksamkeit vorbehält, wobei er sich als gründlicher Kenner des Themas erweist: Das gilt auch für die kritische Vorstellung der Studie von A. Zambarbieri
(1995), die auch das I. Vati­kanische Konzil umfasst und die er dafür als “bedeutend” bezeichnet, dass sie „über die chronologische Berichterstattung und vielleicht
die ‚Ideologie‘ und die betroffenen Parteien hinaus ‚Geschichte macht‘“. Mit Recht
bemerkt er, dass die Behandlung des Zweiten Vaticanums wegen der zeitlichen
Nähe des großen Konzilsereignisses eine heikle historische Unternehmung sei: „Es
handelt sich um eine gute Zusammenfassung mit kursorischen Überblicken und
einer Darstellung der verschiedenen Dokumente“ (S. 199).
Marchettos Rezensionen erscheinen in einem Rhythmus, der es einerseits ermöglicht, dass die rezensierten Werke eine stufenweise Annäherung an das Studium des II. Vati­kanischen Konzils darstellen2, wie der Band Chiese italiane a concilio, hrsg. von G. Alberigo (1988), wo nach dem Urteil Marchettos die aus der
zeitlichen Nähe des Ereignisses herrührende Schwierigkeit wiederkehrt, und Verso
il Concilio Vaticano II (1960-1962). […], hrsg. von G. Alberigo und A. Melloni
(1993); andererseits erweitern diese Rezensionen den kirchlich-geographischen
Horizont mit dem Werk über den Vorabend des Konzils in Europa und im östlichen
Katholizismus von M. Lamberigts und Cl. Soetens (Leuven 1992), den Akten über
die Begegnung von Houston (1991) über das Thema Christentum und Kirchen am
Vorabend des II. Vati­canums (S. 219-228) und dem Band über Christentum und
Kirche in Lateinamerika am Vorabend des II. Vati­ca­nums von J. Oscar Beozzo
(1992).
Gleichfalls unter dem Gesichtspunkt der Vorbereitung auf das II. Vati­ca­num
steht die Untersuchung Il Vati­cano II fra attese e celebrazione, von G. Alberigo
(1995), auf der bereits ausgewiesenen kritischen Linie, mit eindringlichen Zita-
2 Vgl. Agostino Marchetto, Il Concilio Vati­cano II: considerazioni su tendenze ermeneutiche dal 1990 ad oggi, in Archivum Historiae Pontificiae 38 (2000) S. 275-286.
44
ten, die dem abschließenden Beitrag von Alberigo „mit dem effektvollen Titel“
Concilio acefalo? L’evoluzione degli organi direttivi del Vati­cano II (Kopfloses
Konzil? Die Entwicklung der Leitungsorgane des II. Vati­ca­nums, S. 193-238)3,
entnommen sind. Die Veröffentlichung der drei ersten Bände des gewaltigen,
auf fünf Bände geplanten Werkes von Alberigo, Storia del Concilio Vati­cano II,
erlaubt es, die historiographische Debatte über ein Ereignis zu beurteilen, das die
katholische Kirche und die gesamte Christenheit des 20. Jahr­hunderts in herausragender Weise kennzeichnet. Marchetto behält den drei Bänden drei umfassende
Anmerkungen vor. Bezüglich der Anmerkung über den I. Band, L’annuncio e la
preparazione (Ankündigung und Vorbereitung), 1995 (Anmerkung S. 235-245),
bemerken wir, dass der Rezensent im Vorwort des Herausgebers „den Rückstand
der bereits alten Antithese Geist des Konzils gegen Buchstabe, ein für uns untrennbares Wortpaar“ aufgreift (S. 236); was nun das I. Kapitel betrifft, so greift
er dort „die bekannten Empfindsamkeiten der ‚Schule von Bologna‘ auf (jemand
hat […] das vorliegende historische Veröffentlichungsprojekt als ‚das Konzil gemäß Dossetti‘ bezeichnet“, und dem von Alberigo gebrauchten Begriff der „Erneuerung“ setzt Marchetto den Begriff des Aggiornamento entgegen (a. a. O.).
Dem II. (erste Sitzungsperiode und intercessio zwischen erster und zweiter Sitzungsperiode, 1996) und dem III. Band (zweite Sitzungsperiode und intercessio
zwischen zweiter und dritter Sitzungsperiode, 1998) behält der Rezensent zwei
eindringliche, konsequente Anmerkungen vor (S. 245-263 und 263-279)4. Inter3 Vgl. Agostino Marchetto, L’evento e le decisioni. A proposito di una “tesi”. In occasione
di una pubblicazione di un manifesto, in Id., Il Concilio Ecumenico Vati­cano II. Contrappunto
per la sua storia, op. cit., S. 223-232. Es handelt sich um eine Anmerkung über Maria Teresa
Fattori, Alberto Melloni (Hg.), L’evento e le decisioni. Studi sulle dinamiche del Concilio Vati­
cano II (= Testi e ricerche di scienze religiose, Bd. 20), Mulino, Imola 1997.
4 Marchetto hat sich eingehend mit der aktuellen Hermeneutik des II. Vati­canums beschäftigt, wie zahlreiche seiner Rezensionen beweisen. Mit der Rezension des von G. Alberigo herausgegebenen und nunmehr abgeschlossenen fünfbändigen Werkes Storia del Concilio Vati­cano II
(1995-2001), schließt Marchetto die Reihe der etwa achtzig Seiten umfassenden veröffentlichten
Rezensionen in Id., Il Concilio Ecumenico Vati­cano II. Contrappunto per la sua storia, op. cit.,
S. 93-165, ab, wobei er unter Anspielung auf die Conclusion von G. Alberigo geltend macht,
dass das II. Vati­canum „ein großes Ereignis gewesen ist, kein Bruch, keine Revolution, nicht die
Gründung einer neuen Kirche – im konkreten Fall nicht die Abschwörung der großen Tridentinischen Synode und des I. Vati­kanischen Konzils oder jedes anderen früheren ökumenischen Konzils. […] Es ist insgesamt ein „aggiornamento“ (etwa: eine Aktualisierung) gewesen; der Begriff
erklärt treffend das Ereignis, das Nebeneinanderbestehen von Neuem und Altem, nova et vetera,
von treuem Festhalten und Öffnung“ (S. 164). Bei der kritischen Vorstellung des 13. Bandes der
Histoire du Christianisme, der den Titel Crise et Renouveau de 1958 à nos jours trägt und von
J.-M. Mayeur herausgegeben wurde (Desclée, Paris 2000), bemerkt er unter anderem, dass da
„der Mythos des ‚Neuen‘ – so würden wir es, und das keineswegs im positiven Sinn, definieren
– gegenwärtig ist. So, als sei nur das novum […] das bonum, das Gute, das Ideal, während alles,
was an die Zeit vor dem Konzil gebunden ist, Verzögerung, misslungener Abkoppelungsversuch,
Rückschritt, Überbleibsel aus der Vergangenheit sei, die überwunden werden müsse“. Siehe auch
Id., Il Concilio Vati­cano II visto da R. Aubert e Cl. Soetens, in Apollinaris 77 (2004) S. 894. Des
45
essant sind die Sammlungen der Erinnerungen an das II. Vati­canum von Chenu,
Edelby, Bea und Ratzinger selbst5.
Auch eine Anmerkung über das II. Vati­kanische Konzil aus der Sicht Moskaus von A. Melloni (1997) fehlt nicht: Es ist eine Sammlung der mehrsprachigen
Akten des Kolloquiums, das 1995 in Moskau über das Thema Das II. Vati­kanische
Konzil aus der Sicht Russlands stattgefunden hat. Von wesentlicher Bedeutung ist
die Anmerkung über L. Scheffczyk, Aspekte der Kirche in der Krise. Um die Entscheidung für das authentische Konzil, mit einem Vorwort von J. Ratzinger zur
italienischen Ausgabe (1998). Dieser bemerkt in seiner Einführung, dass „die –
gewiss oft einseitige und parteiische – Interpretation der wichtigsten Dokumente
des II. Vati­kanischen Konzils zu manchen Ergebnissen der nachkonziliaren Zeit
geführt hat, die eine tiefe Krise des kirchlichen Bewusstseins in vielen Bereichen
der katholischen Welt hervorgerufen haben. Diese Krise hat ihre letzte (eigentliche)
Wurzel in einem verbreiteten Verlust der ‚katholischen‘ Bedeutung der Wirklichkeit der ‚Kirche‘“ (zit. S. 325). Scheffczyk „geht es vor allem darum – schreibt
Marchetto –, die volle Kontinuität der vollständigen Lehre des II. Vati­kanischen
Konzils mit der vorhergehenden Lehre über die Kirche aufzuzeigen, wobei gleichzeitig deren Entwicklung und Fortschritt im Verständnis des Mysteriums der Kirche selbst hervorgehoben wird“ (S. 326).
Der V. Teil, Der Primat des Bischofs von Rom (Nr. 52-70: 9 Re­zen­sionen
und 10 An­mer­kungen, S. 333-457) hat als wissenschaftliches Thema an erster Stelle den Primat des Bischofs von Rom zum Gegenstand, ausgehend von
dem vom Rezensenten unter historischem Gesichtspunkt untersuchten Werk
L’Évêque de Rome von J.-M. Tillard OP (1982), das einige Änderungsvorschläge (Einschränkungen) in der Ausübung des römischen Primats begründet.
Marchetto fasst schließlich sein Urteil über das Buch wie folgt zusammen: Der
ökumenische Überschwang des Werkes „vereinfacht allerdings in übertriebener
Weise sehr ernste Fragen theologischer und ekklesiologischer Natur, wenn der
Autor die Lösung von Strukturproblemen von Seiten Roms an sich darauf zu
reduzieren scheint, dass es sich die Seele eines Armen schaffen sollte, die es auf
die rechte Linie seiner Berufung zurückbringen würde“ (S. 339). Wir verweisen
unsererseits auf die Vorstellung des von M. Maccarrone veröffentlichten Bandes
Weiteren stellt Marchetto bei der Rezension des dritten Teiles des Bandes I Concili Ecumenici, Queriniana, Brescia 2001, mit dem J. Thomas SJ, Redakteur der französischen Zeitschrift
Études, betraut worden war, fest, dass dieser „keine Sorge zerstreue, als er merkt, in Gegenposition zu Ratzinger zu geraten, der heftig (und zu Recht) verneint, dass das Konzil einen Bruch
mit allem bedeute, was ihm vorausgegangen ist (s. S. 449)“ [Id., Il Concilio Vaticano II visto da
Joseph Thomas, in Apollinaris 77 (2004) S. 906]. Vgl. auch Id., Tradizione e rinnovamento si
sono abbracciati: il Concilio Vaticano II, in Bailamme, dicembre-giugno 2000, S. 51-64.
5 Vgl. nun auch Yves Congar, Mon Journal du Concile, Bd. I: 1960-1963, Bd. II: 1964-1966,
hg. und mit Anmerkungen versehen von Éric Mahieu, mit einem Vorwort von Dominique Congar
und einem Geleitwort von Bernard Dupuy O.P., Cerf, Paris 2002 (1966 fand der Internationale
Kongress zum II. Vati­canum statt.); Umberto Betti, Diario del Concilio, EDB, Bologna 2005.
46
im L’Os­servatore Romano, 14. Nov. 1984, S. 5, der Tillards zahlreiche historische Irrtümer anführt!
Es folgt die Darstellung einer Reihe von Werken zur Geschichte des ersten
Jahrtausends über die Beziehung Bischof von Rom und Patriarchat des Abendlandes, über die Communio-Ekklesiologie und über die Ortskirche (zwei Werke von
Tillard) und über das Verhältnis Katholizität-Orthodoxie (zwei Werke von O. Clément, eines zum Thema Orthodoxie und Ökumenismus heute, 1996; das andere
ist eine orthodoxe Reflexion über das Papsttum, 1997), also mit Öffnung auf den
ökumenischen Horizont.
Besondere Aufmerksamkeit verdient die Anmerkung über Il Primato del Vescovo di Roma nel primo millennio [Der Primat des Bischofs von Rom im ersten
Jahrtausend], Akten des historisch-theologischen Symposiums 1989 in Rom, hrsg.
von M. Maccarro­ne (1991), auf Initiative des damaligen Kardinals J. Ratzinger.
Der Rezensent macht sich alles zu eigen, was sein Lehrer, M. Maccarrone, in der
Einführung darlegt, das heißt, dass in jedem Referat der Leitfaden des Symposions
gegenwärtig ist, das nur aus Historikern bestand und forderte, dass die Geschichtsforschung die theologische Dimension nicht unbeachtet lassen sollte. „Wir haben
eine Gesamtdokumentation – schreibt Maccarrone weiter –, die wegen ihrer Objektivität äußerst wertvoll und eine Grundlage für künftige historische und theologische Studien zu dem Thema ist“ (S. 355). Bemerkenswert auch die strukturierte
Anmerkung, „In partem sollicitudinis… non in plenitudinem potestatis. Evoluzione
di una formula ‚fortunata‘ di rapporto Primato-Episcopato“ [In partem sollicitudinis… non in plenitudinem potestatis. Entwicklung einer glücklichen Formel für die
Beziehung Primat-Episkopat] (Nr. 59, S. 369-395), über eine Formulierung, die aus
der christlichen Antike stammt, im karolingischen, gregorianischen und frühmittelalterlichen Zeitalter bereichert wurde, zum Konzil von Trient, zum I. Vati­canum
und zum II. Vati­canum gelangte, um dann in den aktuellen Codex Iuris Canonici
Eingang zu finden.
Was die Ausübung des päpstlichen Primats betrifft, so prüft Marchetto auch
die Akten des wichtigen theologischen Symposions Il primato del Successore di
Pietro [Der Primat des Nachfolgers Petri] (1998), das 1996 im Vatikan stattgefunden hat – als Antwort der Glaubenskongregation auf die Einladung Johannes
Pauls II. (vgl. die Enzyklika Ut unum sint), zu studieren und zu diskutieren, um
„die wesentlichen Elemente der Lehre des katholischen Glaubens“ über den Primat
präzise darzulegen, „indem man sie mit aller Klarheit von Fragen unterscheidet,
die legitimerweise diskutierbar oder jedenfalls nicht endgültig verbindlich sind“
(zit. S. 436).
Die oben erwähnte Öffnung gegenüber dem Ökumenismus nimmt am Ende
dieses V. Teiles einen breiten Raum ein, mit vier Anmerkungen (S. 429-436; 443457), vor allem zum Werk von S. Bulgakov, Alle mura del Chersoneso e altri scritti
(1998); an diesen Anmerkungen kann man die Entwicklung von Marchettos Denken über den Primat des Bischofs von Rom ersehen; das Gleiche gilt von den Akten
(1998) der Vollversammlung der Kommission Faith and Order (Kommission für
Glaube und Kirchenverfassung des Ökumenischen Rates der Kirchen), die mit Be-
47
teiligung auch offizieller Vertreter der katholischen Kirche über das Thema „Ökumenische Rezeption, Ekklesiologie und Hermeneutik“ 1996 in Moshi abgehalten
wurde. Hinzukommt die kritische Untersuchung der Schlussakten der Vollversammlung der Kommission Faith and Order in Moshi 1998, die von Marchetto für
die Nichtkatholiken als „ein vielleicht bemerkenswerter Schritt in Richtung mehr
gemeinsamer und kirchlicher Positionen in einer sehr wichtigen und wesentlichen
Frage“ bezeichnet wird, auch wenn die Hoffnung der Katholiken größtenteils enttäuscht worden ist (S. 448-449). Eingehend prüft er schließlich eine ökumenische
Untersuchung (in Faith and Order, Nr. 182 [1998], 42 S.), die auf die sichtbare
Einheit der Kirche ausgerichtet ist, für die eben eine ökumenische Hermeneutik
notwendig ist, die nach Marchettos Ansicht in der Anmerkung »eine größere Aufmerksamkeit für das Universale« besitzen sollte (S. 454).
Im VI. Teil, Im Mittelalter (Nr. 71-77: 7 Re­zen­sionen, S. 461-504), setzt sich
Marchetto mit klarer Kompetenz mit Mittelalterhistorikern von unbestrittenem
Ansehen, wie A. Lapôtre SJ, Spezialist für das Papsttum des 9. Jahr­hunderts (des
Jahrhunderts, das für den nachfolgenden endgültigen Bruch zwischen der westlichen Kirche und der Kirche im Osten entscheidend war), und dem diesbezüglichen
zweibändigen Werk auseinander (Nr. 72, 467-477), sowie mit O. Capitani, Storia
dell’Italia medievale: 410-1216 [Geschichte Italiens im Mittelalter] (1988) (Nr. 75,
S. 492-496). G. Tabac­co hat das Werk definiert, als er es als „Il medioevo di O. Capitani“ [Das Mittelalter von O. Capitani] bezeichnete. Es folgt eine Besprechung
des Werkes über die Formen kirchlicher Dialektik des 11. Jahr­hunderts vom selben
Autor (1990) (Nr. 77, S. 496-504).
Der lange VII. Teil, In der Gegenwart, die Kirche (Nr. 78-96: 10 Re­zensionen
und 4 An­mer­kung­en, S. 507-677) führt uns wieder ins 20. Jahr­hundert mit der Rezension von Werken über den Heiligen Stuhl und den Zweiten Weltkrieg, Band 11,
hrsg, von P. Blet u.a. (1981), und über Pius XII. und den Zweiten Weltkrieg von
P. Blet (1997); über die Katholiken in der gegenwärtigen Welt [I Cattolici nel mondo contemporaneo (1922-1958)] von M. Guasco und F. Traniello (1991), ein Werk,
das Marchetto besonders schätzt, da es ihm gelingt, „Kirchengeschichte in dokumentierter Form und gleichzeitig, einem neuen Anspruch entsprechend, in umfassenderer Sicht der kirchlichen Wirklichkeit darzustellen“, ungeachtet dessen, dass
die Untersuchung auf Europa beschränkt bleibt, die Behandlung der Volksfrömmigkeit fehlt und die Analyse der christlichen sozialen und karitativen Tätigkeit
ungenügend ist (Nr. 81, S. 517-531; hier 530-531). Von Bedeutung ist auch die Anmerkung zu V. Peri (dem vor kurzem verstorbenen großen Gelehrte für den christlichen Osten), Lo scambio fraterno tra le Chiese. Componenti storiche della comunione [Der brüderliche Austausch zwischen den Kirchen. Historische Elemente
der Gemeinschaft] (1999), ein von Marchetto geschätztes Werk, das die vom Titel
aufgezeigten chronologischen Grenzen umfährt und in der Tat einen Grundgedanken behandelt.
Von der Storia dell’Italia religiosa. 3. L’età contemporanea, hrsg. von G. De
Rosa (1995), geht Marchetto zu La Chiesa in Europa (1945-1991) von V. Cárcel
Ortí (1992) und zu Le nazioni non muoiono. […] von Morozzo della Rocca (1992)
48
über, das die Beziehungen zwischen Russland, Polen und dem Heiligen Stuhl behandelt. Marchetto hebt die Bedeutung dieses letzten Werkes auch für die Kirche
hervor, „da ja die diplomatischen Beziehungen des Heiligen Stuhls die tatsächliche
Situation der Katholiken in den – von Marchetto in Augenschein genommenen
Gebieten – nicht unberücksichtigt lassen“ (S. 551); die Untersuchung stützt sich
auf unveröffentlichte Dokumente aus den vatikanischen Archiven. Besondere Aufmerksamkeit widmet Marchetto aber A. Riccardi, Il Vaticano e Mosca (1940-1990)
mit einer umfassenden Anmerkung (Nr. 86, S. 559-571), die zu einem Urteil anerkennender Wertschätzung des Werkes kommt, wenngleich mit den Fragezeichen
versehen, die aus der Tatsache herrühren, dass heutige Ereignisse zu „Geschichte“
gemacht werden.
Interesse zeigt er sodann auch für das eindrucksvolle Thema des Übergangs
von den Missionskirchen zu den Orts- oder Teilkirchen im Zeitraum zwischen
1846 und 1965: Es handelt sich um Band XXIV, hrsg. von J. Metzler, 1990, der
von Fliche und Martin begonnenen Kirchengeschichte. Es ist eine erste Anerkennung des Lebens der Teilkirchen, die allerdings wegen der spärlich vorhandenen
Quellen und fehlender historiographischer Überlieferung sehr eingeschränkt ausfällt (Nr. 87, S. 578-588).
Und wieder ist die Kirche in Afrika an der Reihe: mit den Akten des Kolloquiums von Bologna (1988), hrsg. von G. Ruggieri, veröffentlicht 1990, die unser Rezensent mit seiner unmittelbaren diesbezüglichen Sachkenntnis untersucht (Nr. 89,
S. 588-595). Ausführlich und eingehend rezensiert er den nächsten Band (XXV/1)
der von Fliche und Martin begonnenen Kirchengeschichte, La Chiesa del Vati­
cano II (1958-1978), hrsg. von M. Guasco, E. Guerriero und F. Traniello (1994):
eine lobenswerte, große Mühen erforderndes Unternehmen, das allerdings nach
Meinung des Rezensenten den Risiken jeder geschichtlichen Darstellung einer erst
kurz zurückliegenden Vergangenheit unterliegt, als da sind: das Fehlen ausreichender Verarbeitung und Überprüfung der „Berichterstattung“, das Nichtvorhandensein journalistischer Dienste, auf die man sich auch in der heutigen Arbeit bezieht.
Dazu kämen noch die Grenzen, die nicht wenigen historischen Werken anhaften,
wie persönliches Vorverständnis und ein nicht immer ausreichender kritischer Apparat (Nr. 90, S. 595-614)6.
Der VIII. Teil, In der Gegenwart, die Päpste (Nr. 92-96: 3 Re­zen­sionen und
2 An­mer­kungen, S. 621-677), wird mit der umfassenden Untersuchung des Werkes von A. Riccardi, Il potere del Papa da Pio XII a Paolo VI (1988) eröffnet
(S. 621-634), das der Rezensent für objektiv und zuverlässig hält. Es gilt auch zu
berücksichtigen, dass die päpstliche potestas, auch wenn sie nach politologischen
Kategorien untersucht werden kann, für den Gläubigen sacra potestas, heilige po6 Vgl. nun Bruno Forte (Hg.), Fedeltà e rinnovamento, Ed. Paoline, Mailand 2005, ein
Dialog mit L. F. Capovilla, W. Kasper, P. Marini und C. M. Martini um nach vierzig Jahren das
Konzil wieder „ins Gespräch zu bringen“, sowie La primavera della Chiesa. A quarant’anni del
Concilio ecumenico Vati­cano II, Ed. Paoline, Mailand 2005 mit Beiträgen von G. Canobbio, E.
Chiavacci, S. Dianich, J. Llunga, A. Maffeis, S. Baggiani und L. Pacomio.
49
testas (Macht, Gewalt) ist, die nicht nur das Herrschen – regere –, sondern auch
das Hegen und Heiligen – pascere und sanctificare – beinhaltet. Komplizierter wird
die Thematik mit der Untersuchung über Chiesa e Papato nel mondo contemporaneo [Kirche und Papsttum in der heutigen Welt], von G. Alberigo und A. Riccardi (1990), um sich dann auf ein wichtiges, bisher nicht hinreichend untersuchtes
Thema zu beschränken, nämlich das römische Bischofsamt von Johannes XXIII.,
Papa Giovanni Vescovo a Roma. […] (1991), von M. Manzo: der Rezensent teilt
das Urteil von A. Riccardi in der Einführung (S. 7, zit. S. 647), dass nämlich „die
Beziehung des Papstes zu Rom einer der ausdrucksstärksten Züge seines Hirtenamtes und der Art und Weise ist, wie er das Papstsein lebt“. Für Papst Johannes war es
– so gleichfalls nach Riccardi – dringend notwendig, „die Ortskirche in Rom wieder zu errichten, vor allem aber ein bischöfliches Hirtenamt zu verwirklichen. […]
(das heißt also) Rom hatte immer einen Papst, aber nur sehr selten einen Bischof“
(S. 14‑15, zit. ibid.). Für den Rezensenten füllt das vorliegende, mit strengem Ernst
und aufgrund bisher unbekannter Dokumentation erstellte Werk eine historiographische Lücke über Papst Roncalli aus, nämlich die bezüglich seines bischöflichen
Wirkens in Beziehung zur Stadt Rom (ibid.).
Dieser Teil schließt mit einer in zwei Abschnitte gegliederten, sehr interessanten Anmerkung über Paul VI., das heißt, es wird die Frage in den Raum gestellt, ob
D. B. Montini ein Historiker war. Das Problem war von N. Vian in der Einführung
zur Briefsammlung Lettere a casa 1915-1943 – G. B. Montini, Paolo VI (1987)
aufgeworfen worden. In diesen Briefen ist – so Vian – bei Montini in den ersten
Monaten nach seiner Priesterweihe „eine spürbare Berufung für die Geschichte“
festzustellen (S. 9, zit. S. 671). Aufgrund der Analyse von Anmerkungen zur Geschichte der Päpstlichen Diplomatie – Note scolastiche per la storia della Diplomazia Pontificia –, Studienjahr 1933-34, am Apollinare gehaltener Kurs, hrsg. (o.D.)
von Studium, kann der Rezensent den Schluss ziehen, dass der Priester Montini
seiner Historikerberufung wohl nachgegangen ist, sich aber wegen seiner anderen
Verpflichtungen ihr nicht ausschließlich widmen konnte. Diese Schlussfolgerung
findet ihre Bestätigung in einer anschließenden Studie Marchettos zu den Appunti
delle lezioni – den Vorlesungsaufzeichnungen – des Priesters G. B. Montini für
den Kurs des Studienjahres 1936-1937, mit dem Titel Responsio super Nunciaturis
Pio VI (Nr. 95, S. 653-670): Daraus geht das intellektuelle Format des künftigen
Paul VI. hervor. Mit der Vorstellung des schönen Bändchens: A. Acerbi, Paolo VI.
Il papa che baciò la terra [Paul VI. Der Papst, der die Erde küsste] (1997), wo Marchetto die Schwierigkeit hervorhebt, sowohl wegen des erst kurz zurückliegenden
Pontifikats und der Komplexität der Persönlichkeit des Papstes als auch wegen der
weitreichendsten nachkonziliaren Krise zu historisch sicheren Schlussfolgerungen
zu gelangen, schließt dieser Teil.
Schließlich folgt der IX. Teil, Visioni storiche d’insieme – Historische Gesamtbilder – (Nr. 97-104: 4 Re­zen­sionen und 2 An­mer­kungen: S. 681-731). Der
Titel spiegelt getreu das „Format“ der rezensierten Bände wider. Zunächst (Nr. 97,
S. 681-699) finden wir hier die von Laterza herausgegebenen vier Bände der Storia
del Cristianesimo [Geschichte des Christentums] von G. Filoramo und D. Menozzi
50
(1997). Der erste Band, L’Antichità [Das Altertum], findet, was die von Filoramo,
bzw. Pricoco bearbeiteten Teile zwei und drei betrifft, die Zustimmung des Rezensenten, der jedoch Vorbehalte gegenüber dem von E. Lupieri behandelten ersten
Teil nicht verbirgt, auch wenn er anerkennt, dass der Verfasser „beweist, die von
ihm behandelte Materie gut zu kennen und auch in der antiken christlichen Literatur zu Hause zu sein“ (S. 681).
Was den zweiten Band, Il Medioevo [Das Mittelalter], betrifft, der eine Lücke
im italienischen Verlagswesen schließen soll und sich als eine Geschichte der verschiedenen Arten von Christentum anbietet, die sich im Mittelalter herausgebildet
haben, so schätzt der Rezensent den Beitrag von G. Tabacco zur kulturellen und
institutionellen Einordnung, zeigt sich jedoch unzufrieden mit dem Beitrag von
M. Gallina, besonders wegen der für die Kirche von Rom vorbehaltenen unzureichenden Behandlung: sie wird als Sitz des Patriarchats gesehen, das nur mit einem
Ehrenprimat ausgestattet ist (S. 685); ebenso äußert er auch Vorbehalte gegenüber
dem Beitrag von G. G. Merlo.
Am dritten Band, L’età moderna [Die Neuzeit], schätzt der Rezensent die
„großzügige, aufwendige Mühe“ von E. Campi, während er dem Beitrag von
P. Vismara und besonders dem dritten Beitrag („L’Ortodossia“) von C. Alzati eine
sehr positive Beurteilung vorbehält. Vom vierten Band, L’età contemporanea [Die
Gegenwart], wird die „gute Arbeit“ von P. Ricca in dem Beitrag über die protestantischen Kirchen hervorgehoben; ebenso lobt der Rezensent die Arbeit von R. Morozzo della Rocca über die orthodoxen Kirchen und jene von G. Ceretti über den
christlichen Ökumenismus. Sehr enttäuschend ist für ihn dagegen der Beitrag von
D. Menozzi über die katholische Kirche, und das aus vielfältigen Gründen, die sich
hier nicht leicht in Kürze darlegen ließen.
Und noch einmal stößt Marchetto auf G. Alberigo (oder stößt er mit ihm zusammen?): La Chiesa nella storia [Die Kirche in der Geschichte] (1988); über ihn,
den Hauptvertreter der „Schule von Bologna“, fällt er ein insgesamt sehr kritisches Urteil, auch wenn er die Anregungen, die dieser dem Leser bietet, anerkennt
(S. 711-719). Der Rezensent gewinnt den Eindruck, dass „die Texte und Fakten
im Sinne einer These, die es zu beweisen, bzw. eines gleichsam ‚vorgefassten‘
Standpunktes, den es zu veranschaulichen gilt, beansprucht werden. Hier haben
wir es mit einer in hohem Maße persönlich gestalteten Interpretation der Kirchengeschichte zu tun oder, besser gesagt, mit einer übermäßigen Abhängigkeit von
Meinungen oder Sichtweisen, die allenfalls die objektive Betrachtung trüben und
schließlich jene, auch theologische, wissenschaftliche Forschung, die gerade in Alberigos Denken so hohe Ehre genießt, in eine Krise stürzen“ (S. 719).
Der letzte besprochene Band (Nr. 104) ist jener von R. Morghen, Per un senso
della storia. Storici e storiografia [Für einen Sinn der Geschichte. Historiker und
Geschichtsschreibung], hrsg. von G. Braga und P. Vian (1983), zu dem es nicht an
kritischen Fragen bezüglich eines Sinnes der Geschichte ohne Bezugnahme auf die
Offenbarung fehlt.
Marchetto blickt auch in die Zukunft. Im Nachwort, legt er die Möglichkeit
von drei „aktuellen“ Spuren der untersuchten Beiträge dar, die als Hinweis auf
51
Lösungen ebenso vieler heutiger Problemsituationen gelten können: die auctoritas
in der Kirche im Sinne der vom Konzil hervorgehobenen Kollegialität im Verhältnis zu der auch persönlichen Ausübung des päpstlichen Primats; der Einfluss der
mittelalterlichen, besonders jener pseudo-isidorischen Fälschungen, vom 11. Jahr­
hundert, durch das gregorianische Zeitalter bis zum neuen Codex Iuris Canonici;
schließlich die Beziehung Papsttum-Patriarchat (S. 733-735).
Ein langes Autorenverzeichnis sowie ein Verzeichnis der Personen- und Ortsnamen erleichtert die Benützung des wertvollen Bandes, der eingeleitet wird mit
der Liste der vorhergehenden Publikationen in chronologischer Reihenfolge; mit
dem Verzeichnis der vorhergehenden Publikationen; mit der Liste der Autoren der
besprochenen Werke und Studien und den entsprechenden Nummern in der kritischen Besprechung.
Aus dem umfangreichen Szenarium, das uns von diesem Werk des Erzbischofs Msgr. Agostino Marchetto geboten wird, ergeben sich für uns die umfassende fachliche Kompetenz, die vielfältigen Informationen, aber vor allem die ernsthafte historiographische Methode, mit der er an die Werke im ständigem Rhythmus
kritischer Bewertungen herangeht, die seinen Dissens zumeist respektvoll und seine Wertschätzungen auf objektiver Grundlage zum Ausdruck bringen.
Der Historiker ist immer misstrauisch, wenn sich ein Jurist auf das Terrain der
Geschichte begibt, da sich dieser verpflichtet fühlen könnte, Geschichte „zu machen“ bzw. sie nicht durch Analyse der historischen Fakten, sondern zum Beispiel
durch sie betreffende gesetzgeberische Verfügungen zu beurteilen. Diese enthüllen nur teilweise historische Fakten (zu korrigierende Missbräuche, zu befolgende Hinweise…), aber nicht deren tatsächliche Aufeinanderfolge. In unserem Fall
steht der Historiker einem Juristen gegenüber, der sich vornimmt, die Geschichtsforschung für das Kirchenrecht und dieses für die Geschichte zu öffnen. Er unterscheidet also die beiden Disziplinen, und damit ist, zumindest theoretisch, die
oben befürchtete Gefahr abgewendet. Dazu kommt, wie schon oben erwähnt, dass
Agostino Marchetto nicht nur in der Rechtswissenschaft, sondern auch in der Geschichtswissenschaft ausgebildet wurde. Wir müssen wirklich anerkennen, dass er
sich im einen wie im anderen Bereich mit aller Kompetenz zu bewegen weiß, auch
wenn vielleicht der ‚Stempel‘ des Juristen scheinbar mehr ins Auge fällt als der
des Historikers. Die Hintergrundfrage, die sich uns von dem so klaren Untertitel
des Werkes (nella storia e nel diritto, in der Geschichte und im Recht) her stellt,
nämlich ob sich daraus eine korrekte Sicht von Kirche und Recht in ihren wechselseitigen Beziehungen auf der angegebenen doppelten Ebene ergeben hat, müssen
wir, wie uns scheint, insgesamt bejahen, soweit das allein aufgrund von Rezensionen oder Anmerkungen möglich ist. Aber ein angemesseneres Urteil zum Beispiel
bezüglich der Berechtigung eines gewissen Tones von Beharrlichkeit, der das Werk
durchzieht, abzugeben, ist uns aus demselben Grund nicht möglich.
Im übrigen wird Marchettos Aufmerksamkeit für die katholische Rechtgläubigkeit so manchem vielleicht als übertrieben erscheinen, aber diese Aufmerksamkeit wird jedes Mal von einer beständigen, sicheren Bezugnahme auf die objektiven Kriterien der Ekklesiologie im allgemeinen und jener des II. Vati­canums im
52
besonderen gerechtfertigt. Wir müssen ihm zuerkennen, dass ihm seine fachliche
Zuständigkeit im Bereich der Rechtsgeschichte erlaubt, auch Aspekte von äußerster Spezialisierung aufzugreifen und zu beurteilen. Heutzutage, wo „sich die Rezension kaum von der Werbeanzeige unterscheidet, ja beide dazu neigen, den Eindruck zu vermitteln, dass mit derselben Regelmäßigkeit (kulturelle) Meisterwerke
und neue Automodelle hergestellt werden“ (Edmund Wilson), können Marchettos
Inhalte und Stil zweifellos die Empfindsamkeit nicht weniger Menschen irritieren.
Tatsache ist, dass das von uns vorgestellte Werk trotz mancher Herbheit, die es
kennzeichnet, einen starken Ansporn für eine Kultur, die Klarheit und Wahrheit
liebt, darstellen sollte. Da sich diese jedoch nicht immer aneignen lassen, glauben
wir, dass die Nuancierung und das Wissen um die Begrenztheit (typisch für den
echten Historiker: „Die Geschichte ist eine demütige Wissenschaft“, schreibt H. I.
Marrou) auch in der wissenschaftlichen Forschung auf dem Gebiet der Kirchenund auch der Rechtsgeschichte Heimatrecht haben: beide müssen mit dem Vorhanden- oder Nichtvorhandensein von Dokumenten zurechtkommen, wie gerade die
Forschung zu den Pseudo-Isidorischen Fälschungen beweist.
Schließlich stellt das vorliegende Werk zweifellos einen unbestreitbaren Beitrag vor allem zur Kenntnis der hier zusammengetragenen vielfältigen Studien
auf dem Gebiet der Kirchengeschichte und des Kirchenrechts dar; es führt mittels
höchst sorgfältiger, kritischer (und bisweilen scharfer!) Rezensionen in die persönliche kritische Lektüre dieser Studien ein; diese Rezensionen besitzen um so
größere Gültigkeit, als Marchetto mit einer interdisziplinären Vorbereitung an sein
Forschungsobjekt herangeht, die ihn befähigt, es tiefer zu verstehen. Im übrigen ist
„Geschichte nicht vom Historiker zu trennen“7!
Der italienische Originaltext erschien in Salesianum 68 (2006) S. 783-796.
7 53
Il Concilio Vaticano II:
nova et vetera nella continuità
della storia della Chiesa
Claudio Anselmo
Risale al 1984 la prima recensione redatta da Agostino Marchetto, Arcivescovo titolare di Astigi e già Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i
Migranti e gli Itineranti sui temi riguardanti la storiografia conciliare1. Ma anche in
precedenza durante i lunghi anni trascorsi nell’attività diplomatica al servizio della
Santa Sede egli non abbandonò i suoi interessi di storico e canonista dedicandosi
ad esplorare vari aspetti della storiografia ecclesiastica quali il Primato del Vescovo di Roma o la diffusione delle Decretali-Pseudo-Isidoriane. Ma da quella data
l’interesse e la riflessione storico-critica di Agostino Marchetto sulla produzione
storiografica riguardante i concili ma, soprattutto, sul tema cruciale e dirimente
dell’ermeneutica del Concilio Vati­cano II è andato sempre di più crescendo e intensificandosi. Già nella Postfazione al volume Chiesa e Papato nella storia e nel
diritto. 25 anni di studi critici comparso nel 2002 per i tipi della Libreria Editrice
Vaticana lo studioso rilevava “quanto sia oggi nevralgica l’ermeneutica del Concilio Vati­cano II”2 e, ancora recentemente, allorquando ad una domanda dell’intervistatore sulla distanza che separerebbe l’urgente e drammatica questione che pone
alla Chiesa e all’umanità il fenomeno delle migrazioni di interi popoli dal tema
dibattuto dell’ermeneutica conciliare così rispondeva:
Dire che lo studio del Concilio Ecumenico Vati­cano II sia un rifugiarsi
nel passato mi sembra disconoscere che tale Magno Sinodo non è solo
passato (come fatto storico) ma anche presente (incandescente è ancora
la relativa questione ermeneutica e la conseguente corretta ricezione) e
futuro. Dal risolvere tale questione, nei termini presentati da papa Benedetto XVI, nel discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, dipende
– secondo me – il futuro della Chiesa in sé e nella sua relazione con il
mondo3.
Posta in questi termini la questione non stupisce la puntualità con la quale
ogni contributo storiografico sul Vati­cano II abbia trovato in Agostino Marchetto un
osservatore attento e partecipe nonché, in alcune occasioni, pugnace e rigoroso sino
1 Agostino Marchetto, Recensione di: Hermann Josef Sieben, Die Konzilsidee der alten Kirche, Konziliengeschichte, Reihe B: Untersuchungen, Ferdinand Schöningh, PaderbornMünchen-Wien-Zürich 1979, XXV, 540, in Rivista di Storia della Chiesa in Italia 38 (1984)
503-510; ora in Agostino Marchetto, Chiesa e papato nella storia e nel diritto. 25 anni di studi
critici, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002, 159-167.
2 Ibid., 733.
3 Agostino Marchetto, Chiesa e migranti. La mia battaglia per una sola famiglia umana.
Intervista di Marco Roncalli, Editrice La Scuola, Brescia 2010, 150.
57
a sfidare un certo conformismo accademico ed ecclesiastico. Appare quindi naturale
– ma oggi anche sorprendente per il coraggio dell’iniziativa – come sin da subito
sia andato profilandosi un argomentato apporto critico nei confronti di una delle più
ambiziose operazioni culturali poste in atto dalla “Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII” diretta dal professor Giuseppe Alberigo (1926-2007) e cioè
la Storia del Concilio Vati­cano II in cinque volumi pubblicati fra il 1995 e il 2001
in cui si dispiega e trova compimento a livello storiografico il criterio ermeneutico
ispiratore elaborato da quella che viene comunemente conosciuta come la “scuola di
Bologna”4. Nel 2005, sempre per i tipi della Libreria Editrice Vaticana, monsignor
Marchetto ha dato alle stampe il volume Il Concilio Vati­cano II. Contrappunto per
la sua storia in cui vengono organicamente raccolti tutti gli articoli e le note critiche
già apparse su riviste scientifiche riguardanti il Concilio e che rappresenta la prima
storia della storiografia conciliare a partire dagli inizi degli anni 905. Nel 2012 è
stato pubblicato, sempre dalla stessa Libreria Editrice Vaticana, il volume dal titolo
Il Concilio Ecumenico Vati­cano II. Per una sua corretta ermeneutica che raccoglie
i successivi contributi dello studioso su di un tema fattosi nel frattempo sempre
più animato e per certi aspetti infuocato dalle polemiche giornalistiche6. Il 2005 ha
rappresentato, infatti, un anno cruciale nel dibattito sull’ermeneutica conciliare e
che, sotto molti aspetti, ha segnato una svolta. Il 22 dicembre di quell’anno si ebbe,
infatti, quello che ormai si può definire lo storico discorso alla Curia Romana di
Benedetto XVI in cui colui che fu perito conciliare tratta con chiarezza delle due
ermeneutiche, quella della rottura e della discontinuità alla quale il pontefice oppone
invece la “ermeneutica della riforma” nella continuità la sola quest’ultima idonea
a portare frutti ma anche quella storicamente fondata7. Bisogna partire di qui per
comprendere come l’analisi critica di Agostino Marchetto sia stata importante per
determinare un sia pur ancora lento cambiamento di prospettiva contribuendo a mettere in crisi una egemonia culturale a tutt’oggi ancora prevalente e ad aprire il campo
ad una futura ricerca non ideologicamente orientata8. In questo lavoro cercheremo
innanzitutto di dare ragione del lavoro critico di Agostino Marchetto mettendone in
luce i tratti salienti, analizzare le reazioni e le risposte avutesi e indicare temi su cui
possa esercitarsi una corretta ermeneutica conciliare9.
4 Giuseppe Alberigo (a cura di), Storia del Concilio Vati­cano II, 5 vol., Peeters – Il Mulino,
Bologna 1995-2001.
5 Agostino Marchetto, Il Concilio Vati­cano II. Contrappunto per la sua storia, Libreria
Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005.
6 Agostino Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vati­cano II. Per una sua corretta ermeneutica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012.
7 Benedictus XVI, Allocutio “Expergiscere, homo”, 22 dicembre 2005, in Acta Apostolicae
Sedis 98 (2006) 40-53.
8 Una sintesi del pensiero di monsignor Marchetto è contenuta in Agostino Marchetto, Il
Concilio Ecumenico Vati­cano II nell’anno della fede. Rinnovamento e continuità: nova et vetera,
in Walter Brandmüller, Agostino Marchetto, Nicola Bux, Le “chiavi” di Benedetto XVI per
interpretare il Vati­cano II, Edizioni Cantagalli, Siena 2012, 67-90.
9 Per un primo approccio al contributo critico di Agostino Marchetto mi permetto di rinvi-
58
1. Un “rispettoso e ragionevole dissenso”
Come si è detto l’apporto critico di Agostino Marchetto riguardante il Vati­
cano II si è indirizzato principalmente – ma non unicamente – sulla produzione
storiografica dispiegatasi negli anni dalla “officina” bolognese di Giuseppe Alberigo e che ha trovato il suo approdo nei cinque volumi della Storia da lui diretta e
coordinata, storia che viene considerata in molti ambienti come l’unica storia del
Concilio. Sul complesso della monumentale e complessa operazione si è indirizzato il “rispettoso e ragionevole dissenso”10 dello studioso vicentino che ha però un
precedente importante nella critica a quella chiave di lettura rappresentata dal criterio ermeneutico del Concilio come “evento”11. Secondo Marchetto tale categoria
storiografica applicata al Vati­cano II ha consentito di fatto agli studiosi bolognesi di
produrre l’artificiosa antinomia spirito-lettera delle decisioni conciliari per cui “superare l’identificazione del Vati­cano II con le sue decisioni definitive, riconoscere
che il concilio è stato più ricco e articolato dei testi che ha approvato costituisce
un progresso ermeneutico e storiografico”12. In sostanza, i documenti, frutto spesso
di faticosi “compromessi” farebbero velo alla comprensione del “vero” significato
del Concilio ad opera di alcune coraggiose avanguardie per cui la convocazione
conciliare avrebbe costituito un “impulso alla comunità dei credenti ad accettare
il confronto inquietante con la Parola di Dio e con il mistero della storia degli uomini”. In siffatta prospettiva conterebbe soltanto la storia evenemenziale, lo spirito
che soggiace ai documenti, l’attesa militante dei fedeli e il fatto pentecostale per
una Chiesa nuova e diversa da quella passata. Stabilito il criterio dell’“evento”
come regola ermeneutica, si determinano, secondo Marchetto, alcune inevitabili conseguenze di carattere generale: l’assimilazione se non l’equiparazione della
dinamica conciliare alla dialettica politica legislativa e costituente, la pratica svalutazione dei documenti ritenuti, in tale prospettiva, in buona parte “insufficienti”
e “astratti”, la soggezione interpretativa affidata in buona misura ai diari di alcuni
protagonisti (Congar, Chenu, Dossetti), per non parlare della carente utilizzazione
della importante e indispensabile fonte degli Acta Synodalia. Tutti questi elementi conducono ad una impostazione storiografica che monsignor Marchetto ha per
primo qualificata come “ideologica” la quale, radicata sul cosiddetto “spirito del
concilio”, ha contribuito non poco a creare tutta una serie di miti e di tendenze
quali, per esempio, la artificiosa contrapposizione tra un aperto e progressista Giovanni XXIII e un moderato e conservatore Paolo VI, la presunta “acefalia” dell’as-
are a Claudio Anselmo, Agostino Marchetto: per una ermeneutica del Concilio Vati­cano II, in
Luis Martínez Ferrer (a cura di), Venti secoli di storiografia ecclesiastica. Bilancio e prospettive, Edusc, Roma 2010, 449-458.
10 A. Marchetto, Chiesa e Papato nella storia e nel diritto, op. cit., 8.
11 Maria Teresa Fattori, Alberto Melloni (a cura di), L’Evento e le decisioni. Studi sulle
dinamiche del Concilio Vati­cano II, Il Mulino, Bologna 1997.
12 Giuseppe Alberigo, Luci e ombre nel rapporto tra dinamica assembleare e conclusioni
conciliari, in M. T. Fattori, A. Melloni (a cura di), L’Evento e le decisioni, op. cit., 504.
59
semblea conciliare, i richiami giornalistici alla “settimana nera”, alla “rivoluzione
copernicana” del passaggio da un cattolicesimo ad una altro, il “nuovo inizio” ecc.
Risulta chiaro come alla luce di siffatto criterio ideologico il Concilio abbia valore
soltanto rispetto agli aspetti innovativi apparsi nel corso del suo svolgimento, sulla
discontinuità rispetto alla Tradizione. Appare inoltre evidente come la rottura rappresenti l’orizzonte dell’“of­fi­ci­na bolognese” allorquando vengono rifiutati i giusti
e corretti criteri ermeneutici elaborati nel 1987 da Walter Kasper secondo il quale
il Concilio si situa nella continuità della realtà cattolica, continuità che deve essere
preservata nell’interpretazione dei suoi documenti, che l’interpretazione di esso
deve corrispondere alla sua specifica intenzione, alla luce di tutta la Tradizione della Chiesa13. Individuata e sottoposta a critica la categoria chiave di “evento” come
elemento centrale della Storia alberighiana, Agostino Marchetto dispiega nei saggi
che costituiscono il suo Contrappunto una serie di valutazioni che in qualche modo
sono la conseguenza inevitabile dell’approccio bolognese. Partendo innanzitutto
dall’uso delle fonti in cui emerge la preminenza assegnata ai diari privati di personaggi autorevoli quali i richiamati Dossetti, Congar, Chenu ecc. che vengono utilizzati non soltanto come una testimonianza autorevole di alcuni importanti protagonisti ma rappresentano e costituiscono il termine di paragone e di giudizio di tutto il
percorso conciliare. In tal modo ogni passaggio, ogni snodo del dibattito viene letto
alla luce delle valutazioni e delle prese di posizione di padri e periti che, se pure
arricchiscono e completano il quadro, impediscono infine di cogliere la dinamica
complessiva. La quale risulta invece ben più ricca e articolata se soltanto si avesse
la pazienza di attingere a quella decisiva quanto inesplorata fonte costituita dagli
Acta Synodalia che per Marchetto rappresentano la “base sicura su cui tutti dovremmo confrontarci per la corretta interpretazione dei testi conciliari”14. È questo
del corretto uso delle fonti uno degli argomenti di fondo della critica storiografica
conciliare di monsignor Marchetto su cui si gioca gran parte della credibilità di una
corretta ricostruzione storica. Si tratta cioè di individuare come in ogni disciplina
scientifica una gerarchia delle fonti di cui gli Acta – e cioè i fatti – costituiscono
inevitabilmente il culmine. Gli Acta, ovviamente, non esauriscono la ricostruzione ma prescindere da essi e privilegiare le fonti private comporta il rischio della
incomprensione del tutto e la deriva verso una storia di frammenti. Ma non solo.
Prescindere dagli Acta allorché ci si accinge a ripercorrere la storia del Vati­cano II
comporta infine sottrarre importanza al faticoso e spesso accidentato percorso di
elaborazione dei documenti che sempre approdarono ad una sintesi di tradizione
e rinnovamento – di nova et vetera – per dare spazio nel migliore dei casi alla
diaristica oppure a cronache giornalistiche generalmente lacunose e tendenziose. Il
risultato è in ultimo non soltanto una svalutazione dei documenti ufficiali ma anche
e soprattutto del percorso conciliare con una selezione tendenziosa dei passaggi che
13 Walter Kasper, Die bleibende Herausforderung durch das Zweite Vatikanische Konzil.
Zur Hermeneutik der Konzilsaussagen, in Id., Theologie und Kirche, Grünewald, Mainz 1987,
290-299.
14 A. Marchetto, Contrappunto, op. cit., 359.
60
caratterizzarono il dibattito conciliare. Un chiaro esempio di come gli Acta possano
illuminare e far comprendere meglio le dinamiche conciliari si ha rispetto a due
temi spesso elusi o troppo sbrigativamente liquidati. Mi riferisco a quell’insieme
di posizioni che è corretto denominare come “minoranza”, spesso arbitrariamente
e indistintamente assimilate alla Curia Romana e dove non si colgono tutta una
serie di atteggiamenti e sfumature. Oppure alla ricerca instancabile del più ampio
consenso che Paolo VI ricercò senza posa in particolare nei momenti più difficili
del dibattito conciliare quali furono la libertà religiosa, l’ecumenismo e lo schema
de Ecclesia. A questo proposito l’esame degli Acta manifesta e rende giustizia al
successore di Giovanni XXIII che la Storia alberighiana in più punti dipinge come
il “normalizzatore” del Concilio. Dare conto di tutti i puntuali rilievi critici che
Marchetto rivolge alla produzione storiografica della “scuola di Bologna” richiederebbe molto spazio. Ci limiteremo a considerare le osservazioni svolte sull’ultima
pubblicazione di Giuseppe Alberigo e cioè la Breve storia del Concilio Vati­cano II
apparsa nel 2005 in quanto tale ricostruzione storica rappresenta la sintesi e per così
dire la “summa” di quell’ermeneutica della discontinuità e della rottura che ancora
tanta fortuna gode non soltanto presso gli studiosi15. In esso Agostino Marchetto vi
ritrova condensati quei “registri ideologici” già segnalati in precedenza con maggiore ampiezza:
In tutto ciò è già espresso il solito pensiero dell’“officina bolognese”:
il suo parlamentarismo in quanto regolamento (v. p. 34-36, 74 sqq., 90
e 97), il propendere, nello studio, verso le Commissioni (v. p. 76 e 89),
piuttosto che a favore dell’Assemblea di tutti i Vescovi, i cambiamenti (il
nuovo: p. 54, 56, 75, 88, 93, 131, 136 e 170 sq.), introdotti tralasciando la
continuità, l’evento, (v. pure p. 26 e 40), lo spirito, il carisma, trascurando
i documenti, il “corpus”, e l’istituzione, la sopravvalutazione dei diari
privati rispetto alle fonti ufficiali, il giudizio negativo sulla Chiesa nella
relazione tra essa e il mondo, scivolando dall’aspetto dottrinale all’umanitario, al sociale, cammino per noi impraticabile e ingiusto (v. successivamente anche p. 60). Siamo già schierati in punto e contrappunto come
si vede16.
Un esempio del procedere nella prospettiva sopra descritta si ha sugli scopi e la natura del Concilio dove, sulle intenzioni di Giovanni XXIII, Alberigo
così si esprime: “Il papa vuole un concilio di transizione epocale, un concilio
che faccia transitare la Chiesa dall’epoca post-tridentina e, in una certa misura,
dalla plurisecolare stagione costantiniana, a una fase nuova di testimonianza e
di annuncio, con un recupero degli elementi forti e permanenti della tradizione,
Giuseppe Alberigo, Breve storia del Concilio Vati­cano II, Il Mulino, Bologna 2005.
Agostino Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vati­cano II. Una breve, solita storia, in
Apollinaris 78, n° 3-4 (2005) 863-881, ora in Id., Il Concilio Ecumenico Vati­cano II. Per la sua
corretta ermeneutica, op. cit., 139-148.
15 16 61
giudicati idonei ad alimentare e garantire la fedeltà evangelica di una transizione
tanto ardua”. Ma essa, nota Marchetto, è semplicemente “la parola dell’Autore”
poiché da nessun atto o pensiero traspare tale volontà del Pontefice. I sentimenti
anti-Felici nella sua qualità di Segretario Generale del Concilio (qualificato come
“oscuro” uditore di Rota e dipinto come manovriero strumento della Curia) connotano la ricostruzione mentre sopravvalutata molto al di là delle sue effettive
funzioni è la figura di Dossetti:
Il fatto è che quest’ultimo non aveva un ruolo istituzionale in Concilio, e,
quando tre dei quattro Moderatori propendevano per considerarlo quasi
come loro “segretario”, vi fu una parola chiara di Paolo VI che disse:
“quello non è il posto di Dossetti” (v. invece p. 77) e il non vero “abbiamo
vinto” di p. 83). In tale contesto è da considerare anche il silenzio sulle
schede fatte distruggere per intervento papale e che erano state preparate con il concorso di Dossetti (v. p. 76 e 80, 82, 83 e 89). Legato a ciò
altresì è la questione della sottolineatura eccessiva del suo ruolo in concilio (pensiamo al: “Riusciremo a salvare il concilio?”, p. 75) e di quello
dell’“officina bolognese” (v. p. 55, 72 e 75), come per la revisione del
“regolamento” (p. 62), il cui progetto giunse “in ritardo”. Non fu dunque
“la base delle decisioni papali”.
Per Marchetto non è semplicemente vero che negli schemi preparatori fossero
assenti i grandi temi della giustizia e della pace, che una minoranza fosse restia
ad ogni innovazione, o la commissione dottrinale fosse egemonizzata dal cardinale Ottaviani oppure che nella pausa 1962-63 si sviluppasse con la Commissione
di coordinamento una “nuova preparazione” mentre si omette invece che, come
assicurato dal cardinale Suenens, il progetto sulla Chiesa rielaborato da Philips
riprendeva per il 60 % quello precedente. Vasta e non casuale incomprensione si
manifesta poi nelle definizioni di collegio episcopale per gli aspetti gerarchici della
comunione in cui non vi è questione di “monarchia” o di “modello monarchico”
del primato, così pure per il senso della condivisione con il vescovo di Roma della
responsabilità della Chiesa universale per non parlare del Synodus episcoporum
che Alberigo desidererebbe permanente per superare “il problema della dimensione
esclusivamente personale dell’ufficio papale” dove, nota Marchetto, si mette tra
parentesi l’esercizio personale del primato. Vari sono i passaggi del saggio di Alberigo in cui i termini usati (e che sono ormai entrati nel linguaggio comune della
pubblicistica) lo studioso vicentino mette a fuoco manifestando il proprio dissenso.
Come quando parla dell’inizio del secondo periodo conciliare di fine settembre
1963 di un “nuovo inizio” o come quando l’intesa raggiunta sui testi con vasto consenso manifesterebbe, assumendo le posizioni dell’ala estrema della maggioranza,
la mancanza del “vigore di una rigorosa applicazione dei principi rinnovatori che
dovevano ispirarli”. Totale è poi l’adesione di Alberigo all’espressione giornalistica di “settimana nera” che invece Marchetto contesta (e che definisce la “settimana
della verità”) e mette in discussione su più punti, in particolare sul nodo del capitolo III del De Ecclesia con l’inserimento su mandato pontificio della Nota Expli-
62
cativa Praevia che, come indirettamente riconobbe anche Philips, fu l’esercizio
in Concilio del primato papale e non un intervento autoritario che turbava i padri:
[…] citiamo per il nostro paziente lettore la conclusione dell’Alberigo,
assai significativa del suo modo di fare storia. “Anche se il senso di responsabilità della maggioranza dei padri ha consentito di superare la crisi,
tuttavia la “settimana nera” lascerà strascichi considerevoli, avendo messo in evidenza incrinature in seno alla maggioranza [si dice, finalmente,
pur in modo implicito che v’è un’ala estrema, in essa, v. p. 129]. Inoltre
la ricerca dell’unanimità a tutti i costi [è invece del consenso più largo
possibile, e non a costo della verità, ma per una sua più chiara presentazione], in obbedienza ad un pressante invito del Papa, ha nettamente
prevalso sulla stessa esigenza di elaborare decisioni più coraggiose e dottrinalmente più coerenti con l’indirizzo generale del concilio” (p. 112),
naturalmente interpretato dall’Alberigo. E si dimentica, pur citandolo, il
risultato positivo nella finale economia conciliare di quella che fu la “settimana della verità”.
Con l’approvazione della Lumen Gentium si dà conto della sua approvazione
quasi unanime (2151 voti favorevoli e 5 contrari) come coronamento dell’opera
mediatrice di Paolo VI ma sulla dibattuta questione del “subsistit” “sarebbe stata
opportuna la citazione di studi al riguardo oltre i due soli ‘esemplari’ alternativi
presentati dall’Autore”. Pensiamo a tal proposito che monsignor Marchetto si riferisca allo studio di Alexandra von Teuffenbach che, utilizzando il diario conciliare
di padre Sebastian Tromp S.J. e gli Acta Synodalia, ha gettato nuova luce sulla genesi storica e sul significato che i componenti della Commissione teologica vollero
attribuire alla formula17. Per Alberigo il cristianesimo è vissuto nelle contraddizioni
della storia umana e la ricerca di Cristo avviene attraverso gli uomini e gli avvenimenti e non malgrado essi in un cammino dove tutto è chiamato a cambiare salvo il
Vangelo, si tratta di prestare attenzione ai “segni dei tempi”. Per Marchetto i “segni
dei tempi non sono una nuova rivelazione, e il loro discernimento va fatto certo alla
luce della Parola di Dio, ma anche del Magistero, perché non tutto è chiamato a
cambiare salvo il Vangelo”. In merito allo schema XIII si richiamano alcuni giudizi
di Alberigo esemplari secondo Marchetto dell’“ermeneutica soggiacente”:
17 Alexandra von Teuffenbach, Die Bedeutung des subsistit in (LG 8). Zum Selbstverständnis der katholischen Kirche, Herbert Utz Verlag, München 2002; la studiosa ha presentato una sintesi delle sue conclusioni in Id., Subsistit in (LG 8): una formula discussa, in Dario
Vitali (a cura di), Annuncio del Vangelo, forma Ecclesiae, Atti del XVII con­gresso nazionale
dell’Associazione Teologica Italiana, Anagni (Fr), settembre 2002, Edizioni San Paolo, Cinisello
Balsamo 2002, 395-403. La stessa von Teuffenbach ha curato in 2 tomi e pubblicato il diario del
P. Tromp (Sebastian Tromp S.J., Konzilstagebuch mit Erläuterungen und Akten aus der Arbeit
der Theologischen Kommission. II. Vati­kanisches Konzil, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 2006). Cf. la recensione di Agostino Marchetto, Il diario conciliare del P. Sebastian
Tromp S.J., in Apollinaris 81, n° 3-4 (2008) 1043-1045, ora anche in Id., Il Concilio Ecumenico
Vati­cano II. Per la sua corretta interpretazione, op. cit., 99-103.
63
Con questo atto la chiesa romana ritrovava una corretta consapevolezza
della propria subordinazione alla parola di Dio (p. 149).Il testo (di Apostolicam Actuositatem) era ancora prigioniero della distinzione tra laici e
chierici (ibid.). Tra le forme che l’impegno apostolico può assumere viene privilegiata, con un’ottica tutta romana, l’Azione cattolica, infine (si)
rinnova la subordinazione dei laici alla gerarchia (ibid.). Il decreto restava dunque impermeabile alla visione della chiesa formulata nella Lumen
Gentium, incentrata sul popolo di Dio e non sul laicato, né si preoccupava
di valorizzare gli spazi, che una ricuperata coscienza del sacerdozio universale apriva a tutti i membri della Chiesa (p. 150).
Appare chiaro dal passo citato come il dissenso verta su di una ricostruzione
storica che si intreccia con una interpretazione e quindi una ermeneutica per cui
le decisioni conciliari risultavano sempre arretrate rispetto alle istanze di quelle
avanguardie che sole sapevano leggere le attese del popolo di Dio. Per Marchetto
invece tutti i documenti approvati sono conciliari e cioè dotati dell’autorità che gli
è propria in continuità e aggiornamento (nella Tradizione) con i concili precedenti.
Egli conclude poi il suo contributo critico alla Breve storia con una notazione che,
pur non strettamente di natura storica, non risulta fuori luogo e dice la sollecitudine
del pastore:
Dopo la mia analisi con metodo storico critico, senza dimenticare la teologia, mi sia permesso formulare due rilievi pastorali che credo un Vescovo possa fare. Il primo si risolve in una domanda, vale a dire: come
si può chiedere la ricezione del Concilio Vati­cano II dopo tante critiche
e stroncature ai suoi documenti, quali troviamo in questa Breve storia?
Intendo che così procedendo non si contribuisce alla desiderata ricezione
del magno Concilio, ad un post-concilio esemplare. Il secondo rilievo è
una confessione, quella che non mi sentirei di dare questo volumetto in
mano a un fedele perché si faccia un’idea del Concilio di cui non ha ricordi, o a un giovane affinché conosca la Chiesa cattolica e l’ami anche nel
grande suo specchio, il Concilio Vati­cano II.
Ma per non limitarsi a questa sintesi del pensiero dello storico Alberigo non
va sottaciuta la densa analisi critica che Agostino Marchetto ha rivolto al lavoro
dello studioso canadese Gilles Routhier che, in un suo recente studio, non si discosta, sia pure attraverso un procedere più complesso e sfumato, dall’ermeneutica
della “scuola di Bologna”18. Routhier, “nel dilemma fra l’ermeneutica della riforma
e quella della rottura propende per la prima, ma senza aggiungere (lo fa solo in
una nota, una volta) della continuità, come fece Benedetto XVI nel suo famoso discorso alla Curia Romana nel dicembre 2005. Pur con tale scelta a parole, l’Autore
18 Gilles Routhier, Il Concilio Vati­cano II. Recezione ed ermeneutica, Vita e Pensiero,
Milano 2007.
64
aggiunge così tanti ‘ma’ e tanti ‘però’ che, a libro concluso, si può considerare che
egli sia piuttosto rivolto alla ‘rottura”19.
2. Una risposta elusiva
Al loro apparire e per un lungo periodo di tempo, gli articoli di Agostino
Marchetto non produssero una risposta o una replica – se non in forma polemica
e liquidatoria – da parte degli studiosi e tale silenzio è senza dubbio da addebitare
a quella egemonia esercitata sul mondo accademico dalla rinomanza della “scuola
di Bologna”20. Il punto di svolta si ebbe, come si è detto, nel 2005 con il discorso
di Benedetto XVI che colse l’essenza della questione indicando nel concetto di
“riforma nella continuità” il criterio di una corretta ermeneutica conciliare. Nel
2009 è apparso un volume a cura di Alberto Melloni e Giuseppe Ruggieri dal titolo
Chi ha paura del Vati­cano II? che raccoglie precedenti articoli di più autori già
pubblicati in varie riviste21. La pubblicazione ha l’evidente e non sottaciuto scopo
di replicare al discorso papale del 22 dicembre sulla corretta ermeneutica conciliare
operando una sorta di poco convincente “annessione” dell’intervento pontificio.
A questo punto non era più possibile ignorare il contributo di Agostino Marchetto
che viene chiamato in causa da Alberto Melloni in conclusione del volumetto in
cui stende una “Breve guida ai giudizi sul Vati­cano II”. Evitando di entrare nello
specifico e nel merito delle critiche lo storico reggiano qualifica monsignor Marchetto come l’esponente di una incomprensibile ermeneutica “subordinata a una
immagine neo-quietista della tradizione e della storia cristiana” che opererebbe,
“nel lungo tramonto di Giovanni Paolo II a un’insinuazione sul carattere minore
perché pastorale del Vati­cano II”. Ora, in tutta la produzione di Marchetto il presunto carattere minore del Concilio non soltanto non viene sostenuto o affermato
ma emerge invece la considerazione per quello che spesso è definito il “Magno
Sinodo”. Poco dopo lo stesso Melloni tesse le lodi dei criteri ermeneutici delineati
da Kasper dimenticando con disinvoltura le critiche che qualche anni addietro la
scuola bolognese rivolgeva, proprio su questo punto, al teologo tedesco. Segue poi
da parte dello storico reggiano una tipica operazione di squalificazione del procedere critico di Marchetto citando degli autori da lui recensiti giudizi sintetici, parziali
e non esaustivi e guardandosi bene dal dare conto del contesto e del merito in cui
19 Agostino Marchetto, Recezione ed ermeneutica: il Concilio Vati­cano II, in Apollinaris
86, n° 1-2 (2009) 467-486 ora anche in Id., Il Concilio Vati­cano II. Per la sua corretta interpretazione, op. cit., 154-169.
20 In una intervista rilasciata da Giuseppe Alberigo e pubblicata sull’edizione del 2 luglio
2005 de La Repubblica alla domanda dell’intervistatrice se avesse letto il libro di monsignor
Marchetto così rispondeva “Sì, m’è sembrato un’opera priva di spessore culturale, composta
esclusivamente di critiche astiose e aprioristiche a ricerche altrui”.
21 Alberto Melloni, Giuseppe Ruggieri (a cura di), Chi ha paura del Vati­cano II?, Carocci
editore, Urbino 2009.
65
tali giudizi furono espressi. Tutto senza mai calarsi nel concreto delle motivate e
puntuali osservazioni che Marchetto ha svolto circa l’orientamento ideologico impresso dall’“Officina bolognese” alla sua impresa storiografica ma qualificando i
critici come “controversisti post moderni che sognano una chiesa dell’identico che
non è quella cristiana”. L’impressione, al di là di una prosa sempre più bisognosa di
disambiguazione è che il tono liquidatorio celi il timore di veder messa in discussione l’egemonia che la Storia alberighiana sta esercitando come l’unica storia del
Concilio possibile. Lo si avverte allorché Melloni individua in “approcci diversi e
ottiche non omogenee” prodottesi nella circostanza degli anniversari dei documenti
conciliari “l’ambizione di sottrarre il Vati­cano II alla sua storicità e dunque di negare che le sue scelte e il suo stesso essere accaduto possano dare qualcosa al presente
e al futuro della Chiesa”. Certamente il piano di cui trattiamo è quello storico ma di
una storia che è ecclesiale e cioè aperta alla teologia, tale approccio non modifica o
attenua il rigore storiografico ma lo innesta in un orizzonte più ampio, pena l’inevitabile incomprensione dei fatti narrati. In conclusione parrebbe che Melloni – anche
se non lo afferma esplicitamente – situi e includa semplicisticamente Marchetto e il
suo sforzo critico – nonché tutti coloro che hanno avuto l’ardire di avanzare osservazioni verso la Storia di Alberigo – nella schiera dei timorosi alle aperture e fra gli
attardati nella difesa di angusti e superati schemi. Analizzando invece il pensiero
dello studioso vicentino pare proprio che così non sia. Se si volesse andare al nocciolo della sua critica si potrebbe dire che per Marchetto l’ermeneutica bolognese
non coglie tutta la complessità del Vati­cano II, il suo svolgersi con caratteristiche
certamente proprie ma che si collega nella continuità della storia dei concili in uno
sviluppo omogeneo della dottrina che è il tratto peculiare della Chiesa Cattolica22.
3. Due storie di tendenza
Nonostante il silenzio o la stroncatura il contributo critico di Agostino Marchetto non poteva non lasciare il segno in un dibattito – quello dell’ermeneutica
conciliare – che continua e si arricchisce di sempre nuovi contributi. Il già citato
discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana del 22 dicembre 2005 ha poi dato la
misura di quanto il tema non sia argomento per studiosi del passato ma sia vitale
Recentemente è stato pubblicato il lavoro di Massimo Faggioli, Interpretare il Vati­
cano II, Centro editoriale dehoniano, Bologna 2013, che descrive il contributo di monsignor
Marchetto in termini liquidatori come “prodotto indiretto del nuovo ‘ambiente teologico’ tollerato, se non promosso da Benedetto XVI”, sostenendo che dopo la morte di Giovanni Paolo II
si diffuse “una resa dei conti conservatrice con la scuola di Bologna ma la capacità di fornire
un contributo costruttivo alla storiografia del Vati­cano II non andò oltre ad alcune recensioni
dal tono aspro e dall’impostazione ideologica” (98). L’esponente della Fondazione bolognese
dimentica che i contributi critici di Agostino Marchetto sul Vati­cano II datano, come si è visto,
almeno dagli inizi degli anni novanta e non sono assimilabili ad alcuna interpretazione politica o
ideologica dell’avvenimento e meno che mai ad una visione tradizionalistica.
22 66
per il futuro della Chiesa. Se, per usare un termine improprio ma comprensibile, il
versante progressista estremo ha avuto ed ha nella scuola storiografica di Bologna
i suoi più qualificati esponenti anche il fronte opposto, quello tradizionalista, ha
fatto negli ultimi tempi sentire la propria voce. Sia pure incentrato sul piano teologico nel 2009 monsignor Brunero Gherardini ha dato alle stampe un testo che è un
appello agli studiosi ad un “discorso da fare” sul Vati­cano II affinché “rispondano
autorevolmente alla domanda della continuità di esso – non declamata bensì dimostrata – con gli altri Concili e sulla sua fedeltà alla tradizione da sempre in vigore
nella Chiesa”23. L’Autore, pur dichiarando che la sua non è una critica preconcetta al Vati­cano II manifesta ed espone dubbi e riserve sulla natura pastorale del
Concilio e su una volgata interpretativa ormai dominante alla cui base vi sarebbe
l’equivoco di chi, citandolo di frequente, lo equipara al Tridentino e allo stesso Vaticano I accreditandogli una forza vincolante e normativa che non possiede e così
facendo non rispetta il Concilio che volle essere pastorale e non dogmatico. Sotto
questo profilo lunga è la lista dei punti critici e che si addensano sui temi della ecclesiologia, della libertà religiosa, dell’ecumenismo e della liturgia. Per Marchetto,
l’antico docente di teologia dell’Università Lateranense non distingue tra ciò che
è attribuibile ai testi conciliari e a quanto invece si deve ad una ermeneutica tendenziosa e distorta e ad un tumultuoso post-concilio24. Un lavoro storico è invece
quello di Roberto de Mattei pubblicato nel 2010 con l’eloquente titolo Il Concilio
Vati­cano II. Una storia mai scritta, un’opera per molti aspetti speculare rispetto a
quella della “scuola di Bologna” in cui dà un giudizio negativo sullo svolgimento
e sulle conclusioni del Concilio come vittoria postuma del modernismo; non si
salva nemmeno Pio XII che non sarebbe stato abbastanza fermo nei confronti della
nuova teologia25. Proprio per situare nella giusta luce la posizione critica di monsignor Marchetto sembra non inutile dare conto della sua recensione sulla storia di
de Mattei apparsa sulla rivista Annuarium Historiae Conciliorum ma che è stata
sintetizzata e anticipata nelle sue linee essenziali26. Egli afferma che il lavoro dello
storico romano è “opera interessante, frutto di un lungo studio e di uno sforzo notevole di ricerca, ma tendenziosa” e che “siamo di fronte in effetti a una storia simile
a quella di Bologna, anche se di segno contrario” per cui “il risultato non cambia: di
rottura si tratta rispetto alla Tradizione, e lo conferma il frequente ricorso analogico
alla Rivoluzione francese. Anzi, l’autore si serve della critica storica, ma ideologica, della scuola bolognese per appoggiare il suo procedere, di polo contrario”. De
23 Brunero Gherardini, Concilio Ecumenico Vati­cano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento 2009, 255.
24 Agostino Marchetto, Un discorso da fare sul Concilio Ecumenico Vati­cano II, in Id., Il
Concilio Ecumenico Vati­cano II. Per la sua corretta interpretazione, op. cit., 262-266.
25 Roberto de Mattei, Il Concilio Vati­cano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010.
26 Agostino Marchetto, Ma una storia non ideologica si può scrivere. Il ConcilioVati­
cano II nella lettura di Roberto de Mattei, in L’Osservatore Romano, 14 aprile 2011; Id., La
visione di un tradizionalista, in Annuarium Historiae Conciliorum (2010) 203-218, e anche in
Id., Il Concilio Ecumenico Vati­cano II. Per la sua corretta interpretazione, op. cit., 241-262.
67
Mattei sostiene che la sua è una ricostruzione storica, pertanto la capitale questione
ermeneutica posta da Benedetto XVI nel discorso del 22 dicembre 2005 avrebbe un
significato importante esclusivamente sul piano teologico. Ma, osserva Marchetto::
può procedere così uno storico rispettoso del cattolicesimo, ritenendo il
suo approfondimento indipendente da quello ermeneutico? Se mi è permesso tornare al mio “Contrappunto” per una storia della grande assemblea, io stesso mi ponevo sul piano storico e criticavo una ricerca ideologica non tendente all’obbiettività, affascinata dall’evento e dimentica
quasi dei testi conciliari, che soli esprimono quanto i Padri approvarono
e il Papa confermò.
Per de Mattei i vari movimenti – ecumenico, liturgico, biblico ecc. – che prepararono il Concilio e che esprimevano tensioni e fermenti di rinnovamento non
furono che i germi di un modernismo latente successivamente impostosi durante i
lavori dell’assise ecumenica assecondati da Giovanni XXIII e Paolo VI e per questo tacciati di progressismo, sinonimo di modernismo. Naturalmente, come per la
scuola di Bologna il ruolo in Concilio avuto da Lercaro, Dossetti, Camara viene enfatizzato, così per de Mattei l’azione esercitata dal Coetus Internationalis Patrum
e dei Padri brasiliani di varia tendenza assume un rilievo sicuramente superiore a
quello effettivo. Per non parlare di una periodizzazione che parla di una “epoca del
concilio” fino alla morte di Paolo VI e finisce quindi, inevitabilmente, per attribuire
la crisi post-conciliare al Concilio stesso, non post hoc ma propter hoc. Su questo
punto il dissenso è radicale; per de Mattei il termine “postconcilio” è storicamente
insostenibile in quanto presuppone una cesura tra due periodi, quella dei dibattiti
e quella seguente, per Marchetto invece il Concilio riuscì a trovare il più vasto
consenso nel rinnovamento secondo la Tradizione e soltanto successivamente tale
equilibrio fu frainteso e travolto dando origine a varie forme di contestazione e di
dissenso. Ci troviamo così di fronte a “due storie di tendenza estremista, delle quali
quella tradizionalista pesca nell’altra, giungendo allo stesso giudizio di rottura che
contrasta quello del Magistero e di tutti i Pontefici succedutisi dal 1958”.
4. Tradizione e rinnovamento
Venendo alla pars construens non sarà inutile dopo aver cercato di delineare, sia pure per sommi capi, i rilievi critici alla storiografia conciliare delle due
tendenze formulati da Agostino Marchetto mettere in evidenza i punti sui quali,
secondo il suo giudizio, sia possibile scrivere una storia non ideologica di quel
“Magno Sinodo”. Innanzitutto circa le fonti occorre, come si è detto, senza tralasciare le altre, utilizzare finalmente e compiutamente quegli Acta Synodalia che la
preveggenza di Paolo VI e l’acribia di monsignor Vincenzo Carbone hanno messo
a disposizione degli studiosi. Essi permetterebbero quel vaglio critico incrociato
dal quale anche i diari privati o le cronache assumerebbero la giusta luce e vari
passaggi cruciali verrebbero molto meglio compresi nella loro complessiva dina-
68
mica. Ma, parafrasando il titolo di un recente libro di John W. O’Malley, che cosa
sarebbe successo nel Vati­cano II secondo Agostino Marchetto27? In particolare, se
la categoria di “evento” essenzialmente ideologica e intesa come superamento del
corpus dottrinale conciliare accolta dalle due storie di tendenza non è idonea per
una comprensione oggettiva di quanto avvenuto, quale corretta interpretazione può
essere plausibile? Fin dal suo annuncio ai cardinali riuniti nel Cenobio benedettino della basilica Ostiense Giovanni XXIII precisò che il Concilio avrebbe avuto
il compito di promuovere l’incremento della fede, il rinnovamento dei costumi e
l’aggiornamento della disciplina ecclesiastica rivelando al mondo uno spettacolo di
verità e carità, un invito anche per i fratelli separati, all’unità voluta da Cristo. Così
nel discorso di apertura del Concilio, l’11 ottobre 1962, lo stesso Pontefice affermò
che il fine principale della grande assise ecumenica era di custodire e insegnare il
sacro deposito della dottrina in forma più efficace ma che tale deposito non andava
soltanto custodito ma anche integralmente trasmesso a tutti gli uomini, nella continuità del magistero ecclesiastico, tenendo conto delle esigenze dei tempi: “Altra
cosa è, infatti, il deposito della fede, cioè la verità contenute nella nostra veneranda
dottrina, e altra cosa è la forma in cui le medesime vengono enunciate”28. Appare
evidente come il cuore della problematica conciliare e cioè il significato e il valore
del termine “aggiornamento” fosse da intendersi “non come rottura con il passato o
contrapposizione di momenti storici, ma come crescita, perfezionamento del bene
sempre in atto nella Chiesa. Il suo rinnovamento è di fatto continuo”29. Fondamentale appare poi collocare nella sua vera dimensione e prospettiva quella che fu l’intenzione di Paolo VI come fedele interprete del suo predecessore sia nel proseguire
il Concilio sia, tra mille difficoltà, portarlo a compimento. In tal senso rimangono
da indagare gli snodi e i punti cruciali del dibattito conciliare in cui Paolo VI operò
e intervenne instancabilmente affinché rinnovamento e Tradizione non avessero a
separarsi ma a coniugarsi in quello “sviluppo nella continuità” come espressione
della “Catholica”. A tale proposito si potrebbe citare il nodo del rapporto conciliare
Primato-Episcopato o il travagliato dibattito sullo schema della Chiesa che portò alla redazione della Nota explicativa praevia. Paolo VI perseguì quindi il consenso sinodale per giungere a realizzare quello che, secondo Agostino Marchetto,
realmente si verificò durante il Concilio e cioè un “abbraccio fra rinnovamento e
27 John W. O’Malley, Che cosa è successo nel Vati­cano II, Vita e Pensiero, Milano 2010.
Per O’Malley non basta dire che il Vati­cano II fu “pastorale” perché rappresentò anche il ripudio
degli stili dei passati concili con i quali vi sarebbe un netto contrasto; fu un “evento linguistico” in cui sarebbero entrate in gioco due visioni diverse del cattolicesimo. Cf. la recensione di
monsignor Agostino Marchetto, Che cosa è successo, per John W. O’Malley, in Id., Il Concilio
Ecumenico Vati­cano II. Per la sua corretta interpretazione, op. cit., 180-192.
28 Joannes XXIII, Allocutio “Gaudet mater Ecclesia”, in Acta Synodalia Sacrosanti Concilii
Oecumenici Vati­cani II, Series I, vol. I, pars I, 170. Sull’identità del testo italiano con quello latino
del discorso di apertura del Concilio si veda Vincenzo Carbone, Il Concilio Vati­cano II. Preparazione della Chiesa al Terzo Millennio, Liberia Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, 35-39.
29 A. Marchetto, Contrappunto, op. cit., 362.
69
Tradizione”. Il Concilio è per lui il “grande avvenimento” in cui si saldarono, non
senza tensioni e difficoltà, il vecchio e il nuovo, esso sancì uno sviluppo teologico
già avvenuto e lo tradusse in approccio pastorale rispondendo alle esigenze dei
tempi, in continuità con la dottrina. In conclusione è maturo il tempo in cui una
storia finalmente non ideologica del Concilio Vati­cano II possa vedere la luce, una
storia lontana dagli estremismi nella prospettiva di quella maggioranza formatasi
nella ricerca del consenso e – diciamolo pure – del compromesso, quella “via di
mezzo” in cui, per dirla con il cardinale Frings, “tutti possano avanzare”. Di questo
servizio alla Chiesa e alla verità storica ne sentiamo tutti il bisogno. Se ciò avverrà
lo dovremo anche al tenace rigore di Agostino Marchetto: “Tantum aurora est; et
iam primi orientis solis radii quam suaviter animos afficiunt nostros”30!
Joannes XXIII, Allocutio “Gaudet Mater Ecclesia”, op. cit.
30 70
B. La voce di Agostino Marchetto
“In partem sollicitudinis …
non in plenitudinem potestatis”.
Evoluzione di una formula
“fortunata” di rapporto
Primato‑Episcopato
Agostino Marchetto
Scriveva un ottimo storico e venerato amico, che da poco ha lasciato questo
mondo:
È un fatto innegabile che la specializzazione eccessiva fa perdere a certi
medievalisti il contatto con l’antichità cristiana, quando invece sappiamo
che durante tutto il medioevo continuano ad operare le stesse idee‑forza
e le stesse istituzioni‑base dei primi tempi del cristianesimo, sia pure con
nuove varianti, così come un fiume, nato da un ghiacciaio lontano, rimane sostanzialmente il medesimo pur prendendo una tinta diversa grazie
all’apporto dei suoi affluenti. Alcuni specialisti si rinchiudono anzi in un
periodo ancor più ristretto, il XIII se­co­lo per esempio, come se la riforma
gregoriana non avesse raggiunto proprio allora la sua piena fioritura e
come se non fosse stata essa stessa un riadattamento della riforma carolingia che, a sua volta, aveva cercato di ripristinare molte leggi dell’antichità
cristiana1.
Perché questa citazione? Non è certo per l’ammirabile visione d’insieme e la
prospettiva di particolare valore, ma per il fatto che nell’evoluzione della formula
in partem sollicitudinis … non in plenitudinem potestatis, che qui ci siamo prefissi
di presentare, ritroviamo emblematicamente confermata l’esistenza di quel simbolico fiume di cui parla il Meersseman, “nato da un ghiacciaio lontano”, là nell’antichità cristiana, e che, arricchito di vari affluenti, del tempo carolingio, gregoriano e
basso medievale, giunge anche ai Concili di Trento, Vati­cano I e II, fino a sfociare
nell’oggidì del Codice di Diritto Canonico.
1. Sollicitudo omnium ecclesiarum
Ma dov’è il ghiacciaio d’origine? Esso si trova in un massiccio che si chiama
sollicitudo omnium ecclesiarum del Vescovo di Roma2, il quale la esercita in modo
1 G. G. Meersseman, Ordo Fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel medioevo (in
collaborazione con G. P. Pacini), Roma 1977, 265. Cf. la nostra recensione in Apollinaris LII
(1979) 583‑592, e in A. Marchetto, Chiesa e papato nella storia e nel diritto. 25 anni di studi
critici (= Storia e attualità, 16), Città del Vaticano 2002, 33‑40.
2 Cf. G. D’Ercole, Communio‑Collegialità‑Primato e sollicitudo omnium ecclesiarum dai
Vangeli a Costantino, Roma 1964, 414. Per i dati dello spoglio delle fonti ecclesiastiche dall’età
sub‑apostolica a Costantino, cf. ibid., 157‑205. Cf. anche 373 sq. e Mansi 4, 1282 e 1330; PL 50,
587B; 54, 153C e 630A.
75
speciale su alcune chiese e territori del suo “Patriarcato”, grazie all’istituzione dei
Vicariati, che porteranno uno sviluppo nell’esercizio e nella concezione del primato, agendo i Vicari per delega papale, come appare da due lettere di Ormisda
(514‑523) dirette, rispettivamente, ai Vescovi Sallustio3 e Giovanni4:
Et quia per insinuationem dilectionis tuae huius nobis est via patefacta providentiae remuneramus sollicitudinem tuam et servatis privilegiis
metropolitanorum vices vobis apostolicae sedis eatenus delegamus, ut in
speculis sitis et sive ea quae ad canones pertinent et a nobis sunt nuper
mandata serventur, sive si quid de ecclesiasticis causis dignum relatione
contigerit sub tua nobis in­sinuatione pandatur.
Gli stessi concetti rileviamo in Papa Leone (440‑461), che afferma essere
frutto di delega5 la cura di Anastasio, suo Vicario nell’Illirico, in un contesto di
diversi livelli di sollicitudo nell’organizzazione ecclesiastica6:
quoniam et inter beatissimos apostolos in simulitudine honoris fuit quaedam discretio potestatis, et quum omnium par est electio uni tamen datum
est, ut ceteris praeemineret. De qua forma epi­scoporum quoque est orta
distinctio et magna ordinatione provisum est, ne omnes sibi omnia vin­
dicarent, sed essent in singulis provinciis singuli, quorum inter fratres
haberetur prima sententia: et rursum quidam in maioribus constituti sollicitudinem susciperent ampliorem, per quos ad unam patris sedem universalis ecclesiae cura conflueret et nihil usquam a suo capite dissideret.
In quel massiccio della sollicitudo del Vescovo di Roma troviamo, dunque,
il ghiacciaio che ci interessa, la sorgente leonina a cui ha attinto lo Ps.‑Isidoro7 e,
attraverso tale fonte, tutta la tradizione successiva.
PL 84, 827.
PL 84, 820B.
5 In vista della nostra analisi ps.‑isidoriana, citiamo ora dal testo delle Decretales Pseudo‑Isidorianae et Capitula Angilramni, a cura di P. Hinschius, Aalen 1963. D’ora in avanti: H.;
qui H. 619, c. I.
6 H. 620, c. X, col. II.
7 L’opera dello Ps.‑Isidoro, un insieme di falsificazioni e testi genuini di concili e di decretali, ci si presenta come una raccolta sistematica di vario materiale canonistico. Canonum
sententias colligere et uno in volumine redigere et de multis unum facere (H. 17, c. I) è infatti il
fine che il falsificatore dice di prefiggersi all’inizio del suo lavoro, evidentemente con l’intenzione di ovviare alla disorganizzazione ecclesiastica e preparare la via ad un miglioramento della
situazione della gerarchia e del popolo cristiano, in una parola alla “riforma”. Per quanto riguarda
la descrizione delle falsificazioni e la storia particolareggiata della raccolta ps.‑isidoriana rimandiamo alle opere di Kurtscheid, Zeiger, van Hove, Fournier‑Le Bras e alla voce Pseudo‑Isidor
nella Realencyclopädia für protestantische Theologie und Kirche (E. Seckel), nella Enciclopedia Cattolica (A. M. Stickler) e nella New Catholic Encyclopedia (H. Fuhrm
­ ann, voce False
Decretals).
3 4 76
In questi termini, infatti, si rivolge Leone Magno al suo Vicario nell’Illirico,
chiamato a partecipare della sua sollicitudo ma non della di lui plenitudo potestatis:
Vi­ces enim nostras ita tuae credimus caritati, ut in partem sis vocatus sollicitudinis,
non in plenitudinem potestatis8.
Una simile affermazione, ovvia nel caso del Vicario papale, è ripetuta dallo
Ps.‑Isidoro in un’aggiunta all’epistola di Papa Vigilio al vescovo profuturo9:
Ipsa namque ecclesia quae prima est ita reliquis ecclesiis vices suas credidit largiendas, ut in parte sint vocatae sollicitudinis, non in plenitude
potestatis, unde omnium appellan­tium aposto­licam sedem episcoporum
iudicia et cunctarum maiorum negotia causarum eidem sanctae sedi reservata esse liquet […].
Sulla stessa linea di pensiero si pone una decretale, pure spuria (ps. Gregorio IV), ma non ps.‑isidoriana10:
Divinis praeceptis et apostolicis saluberrime incitamus monitis, ut pro
omnium ecclesiarum statu impigro vigilemus affectu. Et quia cunctarum
divina dispensatione ecclesiarum curam gerimus, omnibus nostra poscentibus suffragia apostolica auctoritate subvenire optamus. Quoniam
divinae virtutis ac infirmitatis humanae sanctio est, ut omnium ecclesiarum negotia ad nostrae repara­tionis tendant affectum. Quapropter has ad
vos litteras destinamus, quibus decreto nostro vestram rogantes caritatem
mandamus, ut si aliquis, quod non optamus, suorum aemulorum Aldricum
Cenomannicae ecclesiae episcopum accusare damnabiliter detractaverit,
ut honoretur beati prin­cipis apostolorum Petri memoria ecclesiaeque Romanae cui praesidit privilegium nostrique nominis auctoritas, liceat illi
post auditionem primatum dioeceseos si necesse fuerit, nos appellare et
nostra auctoritate aut ante nos aut ante legatos nostros e latere missos
iuxta patrum decreta suas exercere atque finire actiones, nullusque illum
ante hoc iudicet aut iudicare praesumat. Sed si quid (quod absit) grave
intolerandumque eum obiectum fuerit, nostra erat expectanda censura,
ut nihil prius de eo qui ad sinum sanctae Romanae confugit ecclesiae
eiusque implorat auxilium decernatur, quam quod ab eiusdem ecclesiae
fuerit praeceptum auctoritate, quae vices suas ita aliis impertivit ecclesiis, ut in partem sint vocatae sollicitudinis, non in plenitudinem potestatis.
Ma ritorniamo al testo dello Ps.‑Isidoro, che sembra esprimere un principio capace di determinare una relazione nuova fra la Chiesa di Roma e le altre Chiese particolari, e quindi fra i rispettivi Vescovi, nel senso che il Papa vi sarebbe considerato
Ep. Leonis ad Anastasium (H. 620, proemio).
Ep. ps.-Vigilii ad Profuturum episcopum (H. 712, c. VII).
10 Cf. H. CLXXXIX‑CLXXXXIV. Cf. W. Goffart, Gregory IV for Aldric of Le Mans
(833): A genuine or spurious Decretal?, in Mediaeval Studies 28 (1966) 22‑38.
8 9 77
come la fonte della sollicitudo episcopale. Infatti il falsificatore, con la sua aggiunta,
pare quasi voler generalizzare ed estendere a tutti i membri dell’Episcopato il rapporto
speciale che Leone Magno ricorda al Vescovo di Tessalonica, e che doveva orientare
lo svolgersi delle relazioni concrete tra lui stesso ed il suo Vicario. Per una tale dilatazione di prospettiva, i Vescovi sarebbero così considerati dallo Ps.‑Isidoro – è affermazione del Döllinger – come rappresentanti del Pontefice Romano nelle varie diocesi11.
2. Auctoritas romana
Per comprendere meglio la questione in parola, il problema‑chiave del nostro
studio, bisogna fare – come si suol dire – un passo indietro. Così dobbiamo anzitutto affermare che la Sede di Pietro gode di un ruolo singolare ed eminente, fin
dall’antichità, nei confronti delle altre Chiese, poiché possiede il privilegio, unico
ed incontestato, di una doppia apostolicità. Difatti, a partire già dalla fine del primo
secolo, si può notare in essa la coscienza di una preminenza sulle altre comunità,
come centro della vera fede12, in grado di ristabilire l’ordine nella cura animarum13,
e con una funzione particolare nella formazione del diritto e nel servizio fraterno14.
La Chiesa Romana presiede dunque nella carità15, è ecclesia principalis16, a cui
appartiene la potentior principalitas17.
Una tale posizione singolare di Roma permise ai Successori di Pietro d’intervenire significativamente, già nei primi secoli, su alcune questioni ecclesiali disputate, come nel caso dei ribattezzati18.
Tuttavia l’influsso di una tale auctoritas romana non si manifestava ovunque allo stesso modo e con la medesima intensità, sicché nel IV se­colo appaiono
distintamente tre zone d’influenza papale: (a) nella prima, composta dalle diocesi
I. von Döllinger, Das Papsttum, München 1892, 36.
Cf. Y. Congar, De la communion des Églises à une Ecclésiologie de l’Église universelle,
in Y. Congar et P. Imbart de la Tour (dir.), L’Épiscopat et l’Église Universelle, Paris 1962, 234;
e P. P. Joannou, Les canons des synodes particuliers (IV‑IX s.) (= Fonti – Pontificia Commissione
per la Redazione del Codice di Diritto Canonico Orientale, fasc. 9, t. 1, 2), Grottaferrata 1962,
520.
13 Cf. G. D’Ercole, Communio‑Collegialità‑Primato, op. cit., 360‑373.
14 Cf. Y. Congar, Sainte Église : études et approches ecclésiologiques (= Unam sanctam,
41), Paris 1963, 573, in cui l’autore afferma, presentando il vol. di Fr. Heiler, Altkirchliche Autonomie und päpstlicher Zentralismus, München 1941: “Dès le iie siècle, elle [la Chiesa Romana] a
son caractère d’Église ayant la charge de l’Église universelle […] Ainsi avait‑elle alors, non pas
un primat de juridiction, mais plus qu’un primat d’honneur; une primauté d’autorité religieuse et
morale, un primat pastoral et de service”.
15 Ignazio, Rom. praef.: Funk, P.A. 1, 252.
16 Cipriano, ep. 59, 14: CSEL 3, II, 683.
17 Ireneo, Adv. haer. 3, 3, 2: PG 7, 848‑849. Cf. D. J. Unger, St. Irenaeus and the Roman
Primacy, in Theological Studies 13 (1952) 359‑418.
18 Cf. G. D’Ercole, Communio‑Collegialità‑Primato, op. cit., 373‑375 e P. P. Joannou, Les
canons, op. cit., 528.
11 12 78
suburbicarie, il rapporto del Papa con i Vescovi è quello di un metropolita con i
suoi suffraganei; (b) nella seconda zona, che comprende le diocesi del “Patriarcato
d’Occidente”, il Vescovo di Roma ha con esse una relazione di guida e di sollicitudo particolare e più estesa che (c) nella terza, cioè in Oriente, dove viene riconosciuta la preminenza della Sede Romana, ma nel contesto della organizzazione
patriarcale19.
A testimoniare l’esistenza di questa situazione nei territori orientali sta il riconoscimento, al Concilio di Nicea, dei diritti patriarcali del Vescovo di Roma,
insieme a quelli degli altri Patriarchi20.
Durante il IV e il V se­co­lo, la Sede Romana, peraltro, in alcune occasioni,
afferma per sé una funzione del tutto speciale21, per cui vi si nota un chiaro sviluppo
e consolidamento dell’esercizio del Primato, che riceve già al Concilio di Sardica
una spinta decisiva22, poiché Roma vi è considerata come istanza giuridica di appello per i vescovi, dopo una condanna da parte di un concilio provinciale. Tale
giurisdizione d’appello è confermata, nel 378, dall’Imperatore Graziano23, mentre
Papa Gelasio (492‑496), sempre in questa linea di sviluppo, dichiara che la Sede
Apostolica non è legata alle decisioni dei concili (superiorità dunque del Papa sui
sinodi e impossibilità di ricorso, dopo una decisione papale)24.
Sempre nel corso del IV e V se­colo, i Pontefici Romani, consapevoli, come
sopra menzionato, della propria cura per tutta la Chiesa, riservano a sé le causae
maiores25 e fondano alcuni Vicariati. Chi ad essi è preposto sarà in seguito insignito
del pallio, testimonianza della sua dipendenza da Roma e della partecipazione alla
potestà papale26.
Cf. P. Batiffol, Cathedra Petri. Études d’histoire ancienne de l’Église (= Unam sanctam,
4), Paris 1938, 41 sq.
20 Cf. H. Marot, Décentralisation structurelle et Primauté dans l’Église ancienne, in Concilium I/7 (1965) 21.
21 Cf. C. Vogel, Unité de l’Église et pluralité des formes, in Y. Congar et B.-D. Dupuy
(dir.), L’Épis­copat et l’Église Universelle, op. cit., 625‑635.
22 Cf. G. Glez, Primauté du Pape, in DTC XII, 344 sqq.
23 Cf. CSEL 35, 1, 58: Omnis eius causae dictio ad metropolitani in eadem prouincia episcopi deducatur examen, uel, si ipse metropolitanus est, Romam necessario uel ad eos, quos Romanus episcopus iudices dederit, sine relatione contendat […] quod si uel metropolitani episcopi
uel cuiuscumque alterius sacerdo­tis iniquitas suspectatur aut gratia, ad Romanum episcopum
uel ad concilium quindecim finitimorum episcoporum arcessito liceat prouocare, modo ne post
examen habitum, quod definitum, fuerit, integretur […].
24 Gelasii ep. XIII, ad episcopos Dardaniae (PL 59, 66 C): […] quoniam quorumlibet sententiis ligata pontificum sedes beati Petri apostoli jus habeat resolvendi, utpote quod de omni
ecclesia fas habet judi­candi neque cuiquam de ejus liceat judicare judicio, siquidem ad illam de
qualibet mundi parte canones appellari voluerint, ab illa autem nemo sit appellare permissus.
Particolarmente da sottolineare è tale funzione di giudice d’appello svolta dal Papa, perché in
essa è consistita, per l’Oriente, nei primi 9 secoli, la preminenza di Roma, cioè il suo Primato: cf.
P. P. Joannou, Les canons, op. cit., 534.
25 Cf. H. Marot, Décentralisation structurelle, op. cit., 21.
26 Cf. P. Imbart de la Tour, Les élections épiscopales dans l’Église de France du ixe au
19 79
Quando, poi, la Sede Apostolica s’impegnerà nell’evangelizzazione
dell’Inghil­terra e della Germania27, grazie ad alcuni vescovi missionari rivestiti del
pallio, come segno del potere loro delegato, si introdurrà, poco a poco, il suo uso
per tutti i metropoliti, tanto che nel se­colo IX il suo possesso diventerà indispensabile per esercitare la giurisdizione metropolitana28.
In tale contesto, considerando l’aggiunta spuria alla lettera di Papa Vigilio, si
può affermare – come ha fatto il Döllinger – che per lo Ps.‑Isidoro i Vescovi sono
rappresentanti del Pontefice Romano nelle varie diocesi?
Non lo crediamo, poiché la falsificazione è del tutto singolare, nelle sue Decretali, ed inoltre in contrasto con la concezione ps.‑isidoriana dell’Episcopato.
Scopo primordiale del falsificatore è, infatti, l’elevazione episcopale29. Nell’opera
spuria si sottolinea così più volte la dignità vescovile, essendo Rappresentante di
Cristo e Successore degli Apostoli chi vi è insignito. Egli, assieme ai confratelli,
deve portare la Chiesa sulle proprie spalle. Ad essi il Signore l’ha infatti affidata30.
3. Pietro initium episcopatus, Roma mater omnium ecclesiarum
Una conferma al nostro giudizio viene pure dall’analisi dell’idea sottostante
alla locuzione di Cesario Petrus initium episcopatus31, ripetuta con frequenza nelle
Decretali ps.‑isidoriane in molte sfumate espressioni e che si presenta quasi come
prodromo all’interessante formula mater (la Chiesa di Roma) omnium ecclesiarum,
pure molto usata dal falsificatore. Ma procediamo con ordine nello studio succinto
di tali affermazioni, poiché appunto esse sembrano investire il fondamentale problema dell’origine del potere episcopale.
Per la locuzione Petrus initium episcopatus, si può rilevare che, pur giungendo a matura espressione solo nel IV se­colo, l’idea ivi sottesa è presente già in precedenza. Ne è testimone Tertulliano (160‑220), per il quale claues eius (sc. caeli)
hic Dominum Petro et per eum ecclesiae reliquisse32, a cui fa eco Cipriano († 258),
ad indicare una preminenza di Roma come cathedra Petri ed ecclesia principalis,
xiie siècle,
Paris 1891, 163‑164; H. Marot, Décentralisation structurelle, op. cit., 24; M. MacLa dottrina del primato papale dal IV all’VIII seco­lo nelle relazioni con le Chiese
Occidentali, Spoleto 1960, 98, 100 e 102‑103.
27 Cf. H. Marot, Décentralisation structurelle, op. cit., 24 e H. Fuhrmann, Studien zur
Geschichte mittelalterlicher Patriarchate, II. Teil, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte. Kanonistische Abteilung 40 (1954) 1‑14: Die Vikariate von Bonifatius bis Rostagnus
von Arles.
28 Cf. H. Marot, Décentralisation structurelle, op. cit., 25.
29 Crediamo d’averlo ampiamente dimostrato nella nostra tesi dottorale Episcopato e Primato Pontificio nelle Decretali Pseudo‑Isidoriane, Roma 1971.
30 Ibid., 137‑144 e 162.
31 Cf. P. Batiffol, Cathedra Petri, op. cit., 95‑103.
32 Scorpiace X, 8: C.C. II, 1088.
carrone,
80
unde unitas sacerdotalis exorta est, nel rispetto, certamente, dell’autonomia del
potere episcopale33.
Vi è cioè, nel passo anzidetto di Cipriano, un particolare significato fontale,
indicativo della esigenza di unità34, poiché episcopatum quoque ipsum unum atque
indivisum35. L’insegnamento del vescovo di Cartagine ha un grande significato per
noi, al porre egli il centro della Catholica e della “collegialità” nel Vescovo di
Roma. Esso trova riflesso nel Concilio di Elvira (306), per il quale (can. 58) la Sede
Romana è il luogo in quo prima cathedra constituta est episcopatus36.
A ciò fa eco Ottato di Milevi (sec. IV): Claues salutares accepisse legimus Pe­
trum, principium scilicet nostrum, cui a Christo dictum est “Tibi dabo claues regni
coe­lorum”37; […] bono unitatis beatus Petrus cui satis erat, si, post quod nequit,
solam ueniam consequeretur et praeferri apostolis omnibus meruit et claues regni
coelorum communicandas caeteris solus accepit38.
Testimonianze in tal senso, ma solo a partire dalla seconda metà del IV se­
co­lo, possiamo incontrare anche nella stessa Roma, per esempio sulle labbra
dell’Ambrosia­ster: nam et ordinem ab Apostolo Petro coeptum et usque ad hoc
tempus per traducem succedentium episcoporum seruatum perturbant ordinem sibi
sine origine uindicantes, hoc est corpus sine capite profitentes39, e di Papa Siricio:
per quem “Petrum” et aposto­latus et episcopatus in Christo coepit exordium40.
L’espressione è ripetuta da Innocenzo I (401‑417), ma in prospettiva diversa41, e da Cesario di Arles (470‑542), che vi fonda il diritto del Vescovo di Roma di
governare la Chiesa42.
Altri passi ispirati a questo indirizzo si incontrano lungo i se­co­li VI43, VII
e VIII, segno di una continuità di concezione, che offre lo spunto per coniare altre
caratteristiche formule, le quali contribuiranno allo sviluppo della dottrina primaziale in Occidente.
Indice della penetrazione di un tale fondamento teologico è il seguente stralcio di una lettera di Isidoro di Siviglia (560‑636):
33 Cipriano, ep. 59, c. 14: CSEL 3, 2, 683. Cf. specialmente H. Koch, Cathedra Petri. Neue
Untersuchungen über die Anfängen der Primatslehre, Giessen 1930, 91 sq.
34 Cf. G. D’Ercole, Communio‑Collegialità‑Primato, op. cit., 376‑392.
35 Cipriano, De Catholicae Ecclesiae Unitate, c. V: CSEL 3, 1213. Cf. H. Koch, Cathedra
Petri, op. cit., 33‑70 e Y. Congar, Sainte Église, op. cit., 537.
36 Cf. P. Batiffol, Cathedra Petri, op. cit., 105 sq.
37 S. Optati Mileuitani, lib. II, c. 4: CSEL 26, 39.
38 S. Optati Mileuitani, lib. VII: CSEL 26, 171.
39 Quaestiones, c. 110, 7: CSEL 50, 274; Cf. P. Batiffol, Cathedra Petri, op. cit., 99.
40 PL 13, 1155C.
41 PL 20, 470A, ep. 30; PL 20, 590A e B. Cf. pure PL 20, 552B.
42 Sicut a persona beati Petri Apostoli episcopatus sumpsit initium, ita necesse est, ut disciplinis compe­tentibus sanctitas vestra singulis ecclesiis quid observare debeant evidenter ostendat (G. Morin, Sancti Caesarii Episcopi Arelatensis Opera Omnia nunc primum in unum
collecta, Bruges 1942, vol. II, 12). Cf. P. Batiffol, Cathedra Petri, op. cit., 96, 102, 126 e 134.
43 Cf., ad es., MGH Greg. I, Reg. VIII, 31, p. 33 e Reg. III, 66, p. 229; cf. E. Caspar, Geschichte des Papsttums, Tübingen 1933, vol. II, 428.
81
Petrus … non ab alio aliquo, sed ab ipso Dei virginis filio honorem pontificatus in Christi ecclesia primus suscepit. Cui etiam post resurrectionem
Filii Dei ab eodem dictum est: “Pasce agnos meos”, agnorum nomine
ecclesiarum prelatos notans. Cujus dignitas potestatis etsi ad omnes catholicarum episcopos est transfusa, specialius tamen Romano antistiti
singulari quodam privile­gio, velut capiti, caeteris membris celsior permanet in aeternum44.
Dette espressioni isidoriane fanno da ponte di collegamento con appellativi
caput o apex episcopatus riferiti a San Pietro, o ai suoi successori, in molti testi
del IV e V se­co­lo. Lo stesso S. Bonifacio, in una lettera a Papa Gregorio II (726),
scrive: Bene satis quia beatus apostolus Petrus et apostolatus et episcopatus principium exstitit45.
Considerato l’uso di tali formule, diverse nell’espressione ma con lo stesso
sottofondo dottrinale, non sorprenderà che Papa Leone II (682) si riferisca a haec
sancta ecclesiarum omnium mater apostolica sedes46, in dialogo con l’Episcopato
visigoto. Quel titolo, cioè, di madre, attribuito alla Chiesa, dai primi scrittori cristiani, con sottolineatura della sua missione di dare la nuova vita ai fedeli, nella comunione con Cristo ed i fratelli47, è ora concesso alla Sede Romana in un contesto
che richiama le antiche formule sopra presentate.
4. Caratteristica ps.‑isidoriana: principium storico-sacramentale
Tutto questo sostrato dottrinale servì pure allo Ps.‑Isidoro per i suoi scopi. Infatti, formule che si riferiscono a Petrus initium episcopatus sono presenti nella sua
raccolta e soggiacenti a molti altri testi, unitamente all’espressione mater omnium
ecclesiarum.
Crediamo però che la locuzione Petrus initium episcopatus, pur presente nelle false decretali anche nel senso primitivo48, inteso da Cipriano e Siricio, a volte
vi appaia con un significato piuttosto concreto‑storico, che si basa sul fatto della
44 (44) PL 83, 908BC. Sulla questione dell’autenticità di questa lettera, cf. M. Maccarrone,
La dottrina del primato papale, op. cit., 71, nota 200.
45 MGH, Ep. Sel., I, 44‑45.
46 Mansi 11, 1051A ed anche PL 96, 413AB; cf. pure PL 89, 1007D (Stefano II) e le osservazioni di Y. Congar, L’Ecclésiologie du Haut Moyen Âge, Paris 1968, 194, nota 41. Per l’uso del
termine in Oriente, per indicare le “chiese‑matrici”, cf. P. P. Joannou, Les canons, op. cit., 536.
47 Cf. J. C. Plumpe, Mater Ecclesia. An inquiry into the concept on the church as mother
in early Christianity, Washington 1943; K. Delahaye, Ecclesia Mater chez les Pères des trois
premiers siècles, Paris 1964; H. Koch, Cathedra Petri, op. cit., 71 sq.
48 Cf. ep. II ps. Anacleti (H. 79, c. XXIV) ed ep. ps. Fel. (H. 485, c. XII): Incipiamus igitur
auxiliante deo et sancto apostolo Petro, per quem et apostolatus et episcopatus in Christo coepit
exordium.
82
presunta consacrazione, ad opera di Pietro, dei primi Vescovi della Chiesa49. Così
risulta evidente nell’epistola attribuita a papa Marcello, dove, con base nel linguaggio antico, si introduce un cambiamento50:
Rogamus ergo vos, fratres, ut non aliud doceatis neque sentiatis quam
quod a beato Petro aposto­lo et a reliquis apostolis et patribus accepistis. Ab illo enim primo instructi estis, ideo non oportet vos proprium
derelinquere patrem et alteros sequi, ipse enim caput est totius ecclesiae … Eius enim sedes primitus apud vos fuit que postea iubente Domino Romam translata est, cui nos admi­niculante gratia divina hodierna
praesidemus die. Nec ab eius dispositione vos deviare oportet, ad quam
cuncta maiora ecclesiastica negotia divina disponente gratia iussa sunt
referenda, ut ab ea regulariter disponantur a qua sumpsere principia.
Si vestra vero Antiochena, quae olim prima erat, Romanae cessit sedi,
nulla est quae eius non subiecta sit dictioni, ad quam omnes quasi ad capud iuxta apostolorum eorumque successorum sanctiones episcopi qui
voluerint vel quibus ne­cesse fuerit suffugere eamque appellare debent,
ut inde accipiant tuitionem et libertatem unde ac­ceperunt informationem
atque consecrationem.
In questo testo il significato primitivo di principium, initium, exordium viene
mutato, ed assume appunto il valore di origine, presumendosi una ordinazione dei
primi vescovi da parte di Pietro. Se ciò può avere una verosimiglianza nella falsa
decretale sopra citata, perché diretta ad Antiochia, che fu la prima sede di Pietro,
l’asserto risulta infondato quando lo si presenta in una lettera attribuita a Papa Giulio
diretta venerabilibus fratribus universis Orientalibus episcopis51. Così leggiamo52:
Sed si quis ab hodierna die et deinceps episcoporum praeter huius sanctae sedis sententiam dampnare aut propria pellere sede praesumpserit,
sciat se inrecuperabiliter esse dampnatum […] Quam culpam nullo modo
potuissetis incidere, si unde consacrationem honoris accipitis, inde le­gis
totius observantiae sumeritis et beati apostoli Petri sedes quae vobis sacerdotalis mater est di­gnitatis, esset ecclesiastice magistra rationis.
Il concetto qui esposto è ripreso pure, in termini meno forzati, ma dando sempre a principium un significato diremmo storico‑concreto, nell’aggiunta spuria, già
sopra ricordata, alla decretale di Papa Vigilio al vescovo Profuturo, secondo la
quale tutte le Chiese ricevettero dalla Chiesa di Roma il proprio principium53:
Cf. ep. I ps. Marcelli (H. 224, c. II) ed ep. ps. Iul. (H. 460, c. VIII). Questo senso è pure
presente in Innocenzo I (PL 20, 552).
50 Ep. ps. Marcelli (H. 224, c. I e II).
51 Ep. ps. Jul. (H. 456, c. II).
52 Ep. ps. Jul. (H. 460, c. VIII).
53 Ep. ps. Vigilii (H. 712, c. VII).
49 83
Quod beati apostoli Petri Romanae scilicet ecclesiae sedes sacerdotalis
mater sit dignitatis atque ecclesiasticae magistrationis. Nulli vel tenuiter
scienti vel pleniter sapienti dubium est, quod ec­clesia Romana fundamentum et fons sit ecclesiarum, a qua omnes ecclesias principium sumpsisse
nemo recte credentium ignorat54.
Per mezzo delle falsificazioni fin qui citate, lo Ps.‑Isidoro sottolinea con forza
il rapporto esistente tra Primato ed Episcopato, tra la Sede di Pietro e quelle episcopali, per facilitare l’opera di difesa dei vescovi da parte di Roma. È quindi proprio
il fatto che i loro predecessori diedero ai vescovi informationem atque consecrationem ad assicurare l’istanza d’appello pontificia: ad quam (Sede Romana) omnes
quasi ad caput […] episcopi […] appellare debent ut inde accipiant tuitionem et
liberationem, unde acce­perunt informationem et consacrationem.
E sempre con base nel principium, inteso nel suo significato storico‑concreto,
anche se a volte non sacramentale, lo Ps‑Isidoro, come già peraltro Innocenzo I e
Cesario55, trae la conseguenza di una necessaria dipendenza da Roma, e dalla sua
disciplina, di tutte le Chiese e dei rispettivi ordinamenti56:
semper maiores causae sicut sunt episco­porum et potiorum cura negotiorum ad unam beati principis apostolorum Petri sedem confluerent ut inde
suscipiant finem iuditiorum, unde acceperunt initium institutionum, ne
quandoque a suo discreparent capite.
A queste considerazioni in capite fa eco “alla base” una lettera spuria del vescovo Atanasio, che si rivolge alla Sede Apostolica per averne aiuto ed assistenza57:
[…] ut inde auxilium capiamus, unde praedecessores nostri ordinationes
et dogmata inde atque sublevationes coeperunt. Ad eam quoque quasi
ad matrem recurrimus, ut eius uberibus nutriamur, quoniam non potest
mater oblivisci infantem suum.
Ed è ancora l’argomento storico‑sacramentale della consacrazione episcopale
ricevuta dal Vescovo di Roma che fornisce, nella decretale attribuita a papa Giulio,
motivo d’osservanza della disciplina romana58:
54 Ep. ps. Marcelli (H. 224, c. II). Cf. anche ep. ps. Iul. (H. 460, c. VIII) che presenta questo
compito di difesa.
55 Cf. nota 4l.
56 Ep. ps. Melch. (H. 143, c. III).
57 Ep. ps. Athanasii, Alexandrinorum episcopi Felici Papae (H. 479, c. I.). Un’asser­zione
simile troviamo in Incmaro di Reims: Nos autem, qui sacros canones, et decreta sedis romanae
pontificum sub ipsius apostolicae petrae judicio exequimur, nihil aliud quam juste judicantium
fautores et justorum judiciorum executores, obedientia sancto Spiritui, qui per eos locutus est, et
sedi apostolicae, a qua rivus religionis, et ecclesiasticae ordinationis, atque canonicae judicationis profluit, dependentes existimus (PL 126, 421A).
58 Ep. ps. Iul. (H. 460, c. VIII).
84
Si unde consecrationem honoris accipitis, inde legem totius observantiae
sumeritis et beati apostoli Petri sedes quae vobis sacerdotalis mater est
dignitatis, esset ecclesiastice magistra rationis.
Ritornando, in questo contesto, al titolo mater omnium ecclesiarum attribuito
alla Chiesa di Pietro e di Paolo scopriamo un suo vasto uso da parte dello Ps.‑Isidoro, tale da poter affermare59 che furono proprio le false decretali a diffonderlo e a
fargli giocare un ruolo importante nello sviluppo della dottrina del Primato.
Comunque anche qui balza evidente l’aggancio con la disciplina ecclesiastica; è,
cioè, per detta maternità che lo Ps.‑Isidoro richiede, con la voce dei Papi, di non deviare dalla legislazione proposta da Roma: Nulli vero dubium est, quod apostolica ecclesia mater est omnium ecclesiarum, a cuius vos regulis nullatenus convenit deviare60.
Egli ha anche cura, per avvalorarne la posizione, di mettere in luce che haec
sanc­ta et apostolica mater omnium ecclesiarum Christi ecclesia quae per dei omnipotentis gratiam a tramite apostolicae traditionis numquam errasse probabitur61.
Dopo una tale galoppata per molti sentieri antichi ci pare dover concludere
che l’idea universalistica alla base del titolo mater omnium ecclesiarum non collima, nemmeno in questo caso, con la linea di pensiero del Döllinger, così come non
può appoggiare il suo giudizio l’altra locuzione episcopus universalis ecclesiae,
che appare in alcune lettere spurie e nella Donatio Constantini, sempre a proposito
del Vescovo di Roma62.
5. Episcopus universalis ecclesiae
La questione dei precedenti di tale qualifica, e di ciò che essa potrebbe implicare, è ampiamente trattata con acume dallo Zaccaria, in una sua buona confutazione del pensiero di Febronio63.
A noi basta ora confermare quanto altrove dimostrato64 circa l’impossibilità, da
parte del falsificatore, tenuta presente l’intera sua opera, di considerare praticamente il
Papa come l’unico vescovo di tutta la Chiesa. Crediamo invece che lo Ps.‑Isidoro usi
quel titolo al fine di sottolineare la cura e la sollecitudine universale del Vescovo di Roma
per tutta la Chiesa65, per rafforzare ulteriormente il suo ruolo in difesa dell’Epi­scopato.
Cf. M. Maccarrone, La dottrina del primato papale, op. cit., 72.
Ep. ps. Calixti (H. 136, c. II). Cf. pure ep. ps. Fabiani: ut eius (Roma) sequentes exempla
eius veri filii inveniamini, quae vestra est mater vocata (H. 156‑157, c. I).
61 Ep. ps. Felicis I (H. 205, c. XVIII).
62 Cf. ep. ps. Sixti (H. 108, c. IV); decr. ps. Victoris (H. 127, c. I); ep. II ps. Steph. (H. 183,
c. IV); ep. ps. Athan. (H. 451); ep. ps. Fel. (H. 484, c. IX); ep. ps. Dam. (H. 502, c. VIII); Exemplar Const. (H. 251, c. IV).
63 Cf. F. A. Zaccaria, Anti‑Febronius: Febronius abbreviatus cum notis, adversus neote­ri­
cos theologos et canonistas, etc., Bruxellis‑Lovanii 1829, t. I, 289‑297.
64 Cf. A. Marchetto, Episcopato e Primato Pontificio, op. cit., 162, 171 sq. e 204.
65 Cf., ad es., ep. III ps. Eus. (H. 238, c. XV): Benedictus dominus deus noster, qui per misericordiam suam ecclesiam beati Petri […] sacerdotio ditavit nobisque viam monstrandam circa
59 60 85
Riteniamo, peraltro, che successivamente questa prospettiva, a poco a poco,
sia mutata66 e anche l’appellativo episcopus universalis, stralciato dalle false decretali, abbia influito nello sviluppo dell’esercizio del Primato in un contesto diverso
da quello iniziale.
Concludendo questa nostra disamina, in vista del giudizio definitivo sul contenuto della formula in partem sollicitudinis […] non in plenitudinem potestatis
usata dal falsificatore, ci sembra poter notare che, nell’utilizzare i titoli sopra presentati per la Sede di Roma e per il suo vescovo, lo Ps.‑Isidoro imprima alla finfine
un indirizzo di maggiore centralizzazione della potestas nella Chiesa. Egli, infatti,
pur movendo da testimonianze dell’antica disciplina ecclesiale, introduce nel rapporto Episcopato‑Primato una tendenza particolare, che in germe porta in sé elementi divenuti poi caratteristici del tardo Medioevo.
La stessa conclusione ci sembra poter trarre per la formula oggetto fondamentale di questa nostra ricerca. Siamo cioè del parere, anche in questo caso, – lo ripetiamo, dopo l’analisi delle espressioni ad essa in qualche modo connesse – che dal
solo esempio dell’aggiunta spuria alla lettera di Papa Vigilio al vescovo Profuturo
non si possa concludere che il falsificatore consideri il Papa, praticamente, come
l’unico vescovo di tutta la Chiesa e gli altri membri dell’Episcopato quali semplici
suoi rappresentanti67. È certo, però, come vedremo, che molti canonisti e teologi
del tempo successivo saranno indirizzati, proprio dal testo ps.‑isidoriano in parola,
verso uno sviluppo nuovo della relazione Primato‑Episcopato, specialmente per ciò
che riguarda l’origine della potestas iurisdictionis.
6. La plenitudo potestatis nella riforma gregoriana
Di fatto, in dipendenza dal falsificatore, è messa in luce, in seguito, la plenitudo potestatis papale68 per coordinare e sostenere la “riforma” della Chiesa. Con
nos – propter uni­versalem curam quae nobis propter privilegium eiusdem ecclesiae – invicem
caritatis indulsit […].
66 Cf. Dictatus Papae II; cf. inoltre K. Hofmann, Der Dictatus Papae Gregorii VII. Eine
rechtsgeschichtliche Erklärung, Paderborn 1933, 34‑39. Afferma S. Pietro Damiani in De brevitate vitae pontificum ro­manorum, PL 145, 474C: Papa vero, quia solus est omnium Ecclesiarum
universalis episcopus […]. Per conoscere lo sviluppo storico dell’uso di questo titolo, cf. F. A.
Zaccaria, Anti‑Febronius, op. cit., t. I, 289 sq. e 473 sq. Per il suo uso nei rapporti con la Chiesa d’Oriente, subito dopo lo Ps.‑Isidoro, cf. W. De Vries, Die Struktur der Kirche gemäß dem
IV. Konzil von Konstantinopel (869‑870), in Archivium Histo­riae Pontificiae 6 (1968) 24.
67 Scrive in proposito G. Hartmann, Der Primat des römischen Bischofs bei Pseudo‑Isidor,
Stuttgart 1930, 81: “Es lag für ihn (Ps.‑Isidoro) kein Anlass vor, eine neue, nicht nur in jener Zeit,
sondern in der ganzen bisherigen Geschichte der Kirche unerhörten Theorie über das Verhältnis
des Papstes zu den Bischöfen auszubilden”.
68 Cf. anzitutto l’articolo‑pioniere di J. Rivière, In partem sollicitudinis … Évolution d’une
formule pontificale, in Revue des Sciences Religieuses 5 (1925) 210‑231. Cf. anche H. Tillmann,
Papst Innozenz III., Bonn 1954, specialmente 15‑61; J. A. Watt, The Theory of Papal Monarchy
86
Leone IX il Papato stesso la intraprende, dunque, ma “sforzandosi di non compromettere i presupposti di una collaborazione con l’Episcopato che era sempre uno
dei protagonisti (appunto) della riforma”69.
Peraltro il troppo tiepido appoggio vescovile a tale iniziativa accentua ancor
più l’esigenza di un potere centrale solido, di un’autorità come fondamento di ogni
soluzione. Ed ecco allora le affermazioni, da parte dei “riformatori”, dell’universale episcopato del Vescovo di Roma70, che è Pastore dei Vescovi71. Ecco cadere, di
fronte all’azione di Gregorio VII, ogni limite di consuetudine che faccia ostacolo
alla sua iniziativa ed al suo impegno di applicazione dei decreti di “riforma”. Con
le sue lettere, ispirandosi a volte da idee ps.‑isidoriane72, Gregorio VII fa valere
ovunque la sua potestas.
Anche i titoli ps.‑isidoriani, sopra analizzati come indicativi del Primato, sono
presenti nella letteratura canonica successiva ed altresì nelle lettere dei Papi del IX
e X se­co­lo73.
in the Thirteenth Century. The Contribution of the Canonists, in Traditio 20 (1964) 179‑317
[pubblicato in volume: New York 1965; dell’articolo è apparsa una recensione di F. Kempf in
Archivium Historiae Pontificiae 5 (1967) 402 e un’altra, di J. W. Baldwin in Speculum (1967)
765]; J. A. Watt, The use of the term plenitudo potestatis by Hostiensis, in S. G. Kuttner, J. J.
Ryan (a cura di), Proceedings of the Second International Congress of Medieval Canon Law
(Monumenta Iuris Canonici, Series C. Subsidia, 1), Città del Vaticano 1965, 161 sq.; B. Jacqueline, Bernard et l’expression “plenitudo potestatis”, in Bernard de Clairvaux, Paris 1953,
345‑348; Y. Congar, L’ecclésiologie de saint Bernard, in Analecta Sacri Ordinis Cisterciensis
9 (1953) 159 sq.; G. Ladner, The Concepts of ecclesia and christianitas and their Relation to
the Idea of Papal plenitudo potestatis from Gregory VII to Boniface VIII, in Sacerdozio e Regno
da Gregorio VII a Bonifacio VIII (= Miscellania Historiae Pontificiae, 18), Roma 1954, 49‑77;
R. Benson, Plenitudo potestatis. Evolution of a formula from Gregory IV to Gratian, in Studia
Gratiana XIV (1967) 195‑217; A. Hof, Plenitudo potestatis und Imitatio Imperii zur Zeit Innozenz III., in Zeitschrift für Kirchengeschichte 66 (1954) 39‑71; W. Ullmann, Leo I and the
Theme of Papal Primacy, in Journal of Theological Studies 11 (1960) 25‑51; J. Cantini, De autonomia judicis saecularis et de Romani pontifïcis plenitudine potestatis in temporalibus secundum
Inno­centium IV, in Salesianum 23 (1961) 464 sq.; cf. pure E. Lewis, Medieval Political Ideas, II,
London 1954, 359‑364.
69 O. Capitani, Immunità vescovili ed ecclesiologia in età pre‑gregoriana e gregoriana.
L’avvio alla restaurazione, Spoleto 1966, 208.
70 Cf. supra nota 66.
71 Cf. O. Rousseau, La doctrine du ministère épiscopal et ses vicissitudes dans l’Église
d’occident, in Y. Congar, B.-D. Dupuy (dir.), L’Épiscopat et l’Église universelle, op. cit., 300.
72 Cf. H.‑X. Arquillière, Saint Gregoire VII, Paris 1934, 282; L. F. J. Meulenberg, Der Primat der Römischen Kirche im Denken und Handeln Gregors VII., ’sGravenhage 1965, 102‑107.
73 Cf. S. Lindemans, La primauté du pape dans la tradition littéraire du xe siècle, Louvain 1965, 11; H. De Lubac, Corpus Mysticum. L’eucaristia e la Chiesa nel Medioevo. Studio
storico, Torino 1968, 123‑124 e n. 74‑83, 143‑144; P. Imbart de la Tour, Les élections épiscopales, op. cit., 160 e Y. Congar, Il posto del Papato nella devozione ecclesiale dei riformatori
del XI se­co­lo, in J. Daniélou, H. Vorgrimler (a cura di), Sentire Ecclesiam. La coscienza della
Chiesa come forza plasmatrice della pietà, Roma 1964, I, 31‑342, in cui la Chiesa Romana viene
87
Pure in questo caso una considerazione particolare merita la qualifica attribuita alla Chiesa Romana di mater omnium ecclesiarum che troviamo in molti canonisti e scrittori ecclesiastici, per influsso dello Ps.‑Isidoro74. Essa infatti porta in sé
l’idea fontale, di origine, essenziale per questo nostro studio.
In tale contesto, con relazione a quanto sopra abbiamo affermato sulla concessione del pallio e sul suo significato, dobbiamo rilevare che, durante e dopo la
“riforma gregoriana”, i metropoliti appaiono come svuotati di autorità propria75 e
chiamata caput, fons, origo, fundamentum, cardo. In L. F. J. Meulenberg, Der Primat der Römischen Kirche, op. cit., 47, leggiamo: “In der 74‑Titel Sammlung dominiert die Idee der von Rom
ausgehenden Einheit: De fonte uno rivi plurimi defluunt […] unitas tamen reservatur in origine
[…], a fonte praecide rivum praecisus arescit (Unter dem Titel I De Primatu Romanae ecclesiae,
DSP 19; Cyprian, De Catholicae Ecclesiae Unitate, c. 5: CSEL III i, 5. 214; Anselm, V, I: Thaner, 231; cf. DSP 18; Cyprian a. a. O. c. 4, S. 212; Anselm I, 10: Thaner, 11; DSP 20; Cyprian
a. a O. c. 6, 7, 214, 215; Anselm, V, 2: Thaner, 232). Wollen die Bischöfe daher nicht von dem
apostolischen Fels losgerissen werden, dann sollen sie die römische Autorität achten (DSP 14:
Greg. IV, Ep. Spuria M.G., Epp. V, 75; Anselm I, 20, Thaner,15)” e in L. F. J. Meulenberg, Der
Primat der Römischen Kirche, op. cit., 20: “Die 74‑Titel‑Sammlung bietet nicht nur Belege für
die Mater omnium ecclesiarum (DSP 4); sie bringt auch Pseudoisidor die Ps. Vigiliusstelle: Nulli
dubium est, quod ecclesia Romana fundamentum et sors sit ecclesiarum, a quo omnes ecclesias
prin­cipium sumpsisse nemo recte credentium ignorat (DSP 12: Ps. Vigilius, c. VII, H. 712; Anselm I, 9: Thaner, 10)”. Cf. anche J. F. Schulte, Die Summa des Paucapales, Giessen 1890, 9:
Apostolica sedes caput est omnium ecclesiarum; e dictum Gratiani post, C. XXV, q. 1, c. 16:
caput et cardo omnium ecclesiarum (Richter-Friedberg, I, 1011).
74 Cf. Coll. Anselmo dedicata I, 18: Quod apostolica ecclesia mater sit omnium ecclesiarum
(ps. Cal.); inoltre, con espressione diversa, I, 2: Quod in novo testamento post Christum a Petro
sacerdotalis coepe­rit ordo (ps. Anacl.); I, 3: a Petro exordium apostolatus et episcopatus. Cf.
pure Raterio di Verona: Postremo est sedes universalis, principalis, capitalis, quia ipsis capitibus ecclesiae insignis, nutrix, ma­ter, iudex et magistra omnium (Prael. lib. IV, 4: PL 136,
151A). P. E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio, Leipzig‑Berlin 1929, II, 129, cita un testo di
Umberto di Silva Candida che presenta Roma come madre dei fedeli: hec cum omnium fidelium
in Christo specialis sit mater. Pietro Damiani propone pure Roma come mater fidei in Actus
Mediolani (PL 145, 91D). H.‑X. Arquillière, Saint Grégoire VII, op. cit., 204, riporta una lettera
di Gregorio VII a Ermanno di Metz, in cui egli denomina la Chiesa Romana madre universale;
il termine è ancora usato nella ep. ad imperatorem Constantinum IX Monoma­chum (Will 86a,
88° sq.), citato da A. Michel, Die folgenschweren Ideen des Kardinals Humbert und ihr Einfluss
auf Gregor VII., in Studi Gregoriani I (1947) 70. Cf. pure Reg. V, 10 (Caspar, 363). Cf. inoltre
Decr. Gratiani, C. II, q. 6, c. 8: Ad Romanam ecclesiam appelletur ab omnibus quasi ad ma­trem;
ibid., D. XII, C. 1: Nulli vero dubium est, quod apostolica ecclesia mater sit omnium ecclesiarum, a cuius uos regulis nullatenus conuenit deviare (Richter-Friedberg, I, 27).
75 Cf. P. G. Caron, I poteri del Metropolita secondo Graziano, in Studia Gratiana II (1955)
273. Per un saggio della situazione metropolitana in precedenza, e cioè nella seconda metà del
secolo IX, cf. Ch. de Clercq, in Revue de Droit Canonique 8 (1958) 137‑139, secondo il quale
“dans la seconde moitié du ixe siècle les pouvoirs des métropolitains, dans leur province ecclésiastique, se sont encore affirmés et précisés grâce à l’influence et aux écrits d’Hincmar de Reims.
Les métropolitains surveillent leurs suffragants, lorsqu’un de ceux‑ci viole la loi ecclésiastique
ils interviennent dans son diocèse sans y être invités […]. Le Pape Jean VIII veut en 876 rétablir
88
considerati, in pratica, come mandatari della Sede Apostolica76. La posizione è già
visibile in Umberto di Silva Candida, per il quale ogni loro attribuzione è data in
quanto essi sono rappresentanti della Sede Romana77.
en la personne d’Anségise, métropolitain de Sens, un vicaire du Saint‑Siège au delà des Alpes,
comme il en avait été désigné un en 844, mais les évêques francs ne l’acceptent que pour autant
que les droits des métropolitains sur leur province soient intégralement respectés, en fait Anségise n’exerce jamais ces nouvelles fonctions, bien plus, en 878, Jean VIII accorde à Rostagne
d’Arles le titre de vicaire du Saint‑Siège pour la Gaule, qui reste également sans conséquence”.
Al tempo di Leone IX e Gregorio VII invece, a giudizio di O. Rousseau, La doctrine du ministère
épiscopal, op. cit., 299, si nota un indebolimento del potere metropolitano perché i pontefici romani esercitano un controllo diretto sui vescovi con lo scopo di sollevare l’episcopato dal misero
stato in cui si trovava. Nota però L. F. J. Meulenberg, Der Primat der Römischen Kirche, op. cit.,
60‑61: “Kein Wort wird verloren über einen bestimmten Gehorsam seitens der Suffraganen. Mit
solchem, dem Streben der pseudo‑isidorianischen Dekretalen entsprechendem Material hätte
Gregor die Autorität des Metropoliten völlig untergraben können, aber er geht hier einen anderen
Weg […]. Man kann also feststellen, dass der Papst die hierarchische Stellung des Metropoliten
deutlich akzentuiert, eine Tendenz, die auf der Fastensynode von 1080 ausdrücklich bestätigt
wird durch das Dekret über Bischofswahlen”. Ma ci pare che alcuni potrebbero obiettare che
proprio perché Gregorio considerava i metropoliti come suoi delegati, anche se mai lo affermò
esplicitamente nelle sue lettere, egli ne vuol consolidare la posizione. Ad ogni modo pure per
Meulenberg esiste un problema, ed egli lo ammette, per quanto riguarda la funzione vicariale, o
meno, dei metropoliti, rispetto all’universale episcopato papale (ibid., 65‑66).
76 Per capire l’affermazione risaliamo al sec. X in cui, con parole di L. F. J. Meulenberg,
Der Primat der Römischen Kirche, op. cit., 65‑66, “wird das Recht auf den Titel Erzbischof mit
der Palliumsverleihung verbunden. Seine Verleihung durch den Papst konnte die metropolitane
Gewalt leicht als delegierte Teilhaber am Universalprimat und der Erzbischof als Stellvertreter
des Papstes erscheinen lassen (in Adv. Simoniacos I, 5, Umberto di Silva Candida parla dell’autorità del metropolita ad quem vice apostolicae sedis cura ipsius provinciae pertinet: MGH Lib.
de Lite, I, 108). Tatsächlich hat diese Idee im römisch‑katholischen Kirchenrecht offiziellen Eingang gefunden, aber erst in einer nach der gregorianischen Reform liegenden Zeit. Bis dahin lag
sie gleichsam in der Luft […]”. Dopo aver riportato alcune regole stabilite dai predecessori di
Gregorio VII, il medesimo autore conclude: “Auf diese Weise wurden die Erzbischöfe nicht bloß
fest an Rom gebunden, sondern auch mehr und mehr als delegierte Stellvertreter des Papstes
behandelt” (ibid.). A questo proposito riportiamo una citazione, fatta da F.. Kempf, (Hand­buch
der Kirchengeschichte III/1, Freiburg‑Basel‑Wien, 1966, 331), di un falso privilegio (a. 974‑977)
in cui si può leggere: Petri Apostoli successores per loca […] constituerunt archiepiscopos qui
eorum vices tenerent in ecclesiis.
77 Cf. A. Michel, Die folgenschweren Ideen, op. cit., 69: “Humbert hält entschieden an der
Metropolitanverfassung als ‘Kanonischem Recht’ fest” e ibid., n. 17: “Privileg Viktors II. für
Winimann von Embrun vom 7.7.1057, in PL 143, 836b das Humbert zugehört: secundum omne
ius, quod metropolitanis suis suffraganei canonice debent (Konsekration, Subjektion, Reverenz,
Konvokation von Synoden), auctoritas. Die ‘Autorität des heiligen, römischen und apostolischen
Stuhles’ wird in allem vorbehalten. Cf. Lib. c. simon., 3, 11 (MGH, Lib. de Lite, I, 211): Haec
canonica auctoritas solida et specialis (electionem confirmandi) re­servata est Romanis Pontificibus in omnibus metropolitanis, metropolitanis quoque omnibus in omnibus eorum suffraganeis.
Aber die Sorge für die betreffende Provinz erstreckt sich auf den Metropoliten nur in Vertretung
des Apostolischen Stuhles (vice apostolicae sedis)”. L’autore ripete ibid., n. 18: “Nach Sent., c. 7,
89
Qualche affermazione dello stesso Papa Gregorio VII potrebbe indurci a ritenere che egli abbia sposato la stessa concezione, sebbene Ildebrando, come gli altri Papi
della “riforma”, mai apertamente definisca gli arcivescovi come suoi mandatari78.
Questo giudizio potrebbe essere avvalorato dalla considerazione che è caratteristica dell’ecclesiologia “gregoriana” porre su uno stesso piano tutti coloro che sottostanno al Primato romano, poiché rispetto ad esso tutto risulta secondario, dignità
vescovili e scale gerarchiche. Tale forma di centralismo, attuata, in certa misura,
con la compressione di alcuni aspetti dell’“episcopalismo” precedente, conoscerà in
seguito attenuazioni e modifiche, come testimonia il Decretum di Graziano, che si
sforzerà di contemperare la concezione “gregoriana” della potestas papale con quella francese e germanica. Perciò si porrà il metropolita piuttosto come intermediario
tra Papa e vescovi suffraganei, con una somma di poteri ben determinati nei loro
confronti, ma subordinato appunto alla potestas del Romano Pontefice79.
A tale riguardo Graziano riporta un passo che risulta importante per approfondire la natura del rapporto di ogni metropolita con Roma, nella prospettiva che
ci interessa. Il testo così recita: placuit, ut quisquis metropolitanus ultra tres menses consecrationis suae ad fidem suam exponendam, palliumque suscipiendum, ad
apostolicam Sedem non miserit, commissa sibi dignitate caret80.
Se colleghiamo questa norma con altri passi del Maestro – che in seguito illustreremo – in cui riporta la formula attestante la plenitudo potestatis del Vescovo di
Roma e la chiamata in partem sollicitudinis degli altri vescovi, forse più evidente ci
appare la stretta dipendenza non solo dei metropoliti, ma anche di tutto l’episcopato
da Roma81.
Possiamo dunque dire, nel linguaggio immaginoso del Meersseman, che quel
ghiacciaio, divenuto sorgente, si è trasformato ormai in vigoroso torrente. Ma, al
fine di delucidarne ancor più l’importanza, ci è necessario un ulteriore elemento di
conoscenza, e cioè lo sviluppo storico della distinzione riflessa tra il potere di or-
16 erstreckt sich die Sorge für die Provinz auf die Metropoliten in Vertretung des Apostolischen
Stuhles (vice apostolicae sedis). Ebenso lib. c. simoniacos, 1, 5 (MGH, Lib. de Lite, I, 108)
auctoritate metropolitani, ad quem vice apostolicae sedis cura ipsius provinciae pertinet (Cf. A.
Michel, Die Sentenzen des Kardinals Humbert. Das erste Rechtsbuch der päpstlichen Reform,
Leipzig 1943, 19). Wenn nach Sent., c. 12, 13 (S. 13 A, 4) (Ps. Vigilius, Ps. Gregor IV.) auch die
übrigen (kleinen) Kirchen auch nur die vices haben sollen, so wird die Forderung (Beamtensystem) von der heutigen Kanonistik abgelehnt”.
78 Cf. L. F. J. Meulenberg, Der Primat der Römischen Kirche, op. cit., 66. H. X. Arquillière,
op. cit., 87, è più esplicito in proposito: “Les métropolitains, qui avaient joui si longtemps d’une
juridiction privilégiée, lui apparaissent comme des mandataires du Siège Apostolique”.
79 Cf. G. Caron, I poteri del Metropolita, op. cit., 254. Funzione principale del metropolita,
secondo il Decreto, è la convocazione e la presidenza del sinodo provinciale. Cf. Decr. Gratiani,
D. XVIII, c. 4 (Richter‑Friedberg I, 54).
80 Decr. Gratiani, D. C, c. 1 (Richter‑Friedberg I, 352).
81 Cf. Decr. Gratiani, C. 2, q. 6, c. 11; C. 2, q. 6, c. 12 (Richter‑Friedberg I, 469‑470) e
Dictum Gratiani ante C. IX, q. 3, c. 1 (Richter‑Friedberg I, 606).
90
dine e di giurisdizione82. Solo con essa, infatti, la famosa formula sarà considerata
come testimonianza‑chiave della derivazione del potere episcopale giurisdizionale
dal Papa.
7. Distinzione riflessa fra potere di ordine e di giurisdizione
Tale distinzione, fondamentale per la comprensione della nostra ricerca, è
certamente matura nel XII se­co­lo83. Infatti essa è presente in Uguccione († 1210)84
Cf. K. Mörsdorf, De conceptu Officii Ecclesiastici, in Apollinaris XXXIII (1960) 75‑87.
L’autore afferma che nel primo millennio le ordinazioni assolute erano proibite e considerate
come irritae e vacuae. Nella consacrazione veniva conferito tutto il potere per una data diocesi
da esercitarsi però in comunione gerarchica con il vescovo di Roma (ibid., 80). Sull’argomento
v. pure D. Ed. Heintschel, The Medieval Concept of an Ecclesiastical Office, Washington 1956;
G. Caron, Appunti sui concetti di auctoritas e di potestas nel decreto di Graziano e nella dottrina
decretistica della seconda metà del se­co­lo XII, in Il diritto ecclesiastico 67 (1958) 393 sq.; N.
Hilling, Über den Gebrauch des Ausdrucks iurisdictio im Kanonischen Recht während der ersten Hälfte des Mittelalters, in Archiv für katholisches Kirchenrecht 118 (1938) 165‑170; Victor
a Jesu Maria (Tirado), De jurisdictionis acceptione in iure ecclesiastico, Roma 1940; E. Corecco, L’origine del potere di giurisdizione episcopale. Aspetti storico-giuridici e metodologicosistematici della questione, in La Scuola Cattolica 96 (1968) 6‑7, 9‑10 e 41.
83 Nota S. M. Ragazzini, La potestà nella Chiesa. Quadro storico-giuridico del diritto costituzionale canonico, Roma 1963, 136: “Solo dopo Gregorio Magno si prende in considerazione
una seconda potestas e solo più tardi si ebbe la netta separazione fra le due potestas”. Altrove
egli fa rilevare che nei documenti ecclesiastici dei primi secoli si trovano i termini: auctoritas,
ius, potestas, sollicitudo, cura, ma non iuri­sdictio (ibid., 172). L’autore mette in evidenza, poi,
l’importanza, per l’evolversi della disciplina canonica, della distinzione, fatta già da Niccolò I,
tra officium e titulus, presente anche in Umberto di Silva Candida e Bruno di Segni. Il Decretum
Gratiani invece – continua il Ragazzini – distingue tra officium e exe­cutio officii (Sed aliud
est potestas offitii, aliud executio. Plerumque offitii potestas uel accipitur, ueluti a monachis
in sacerdotali unctione, uel accepta sine sui executione retinetur, ueluti a suspensis quibus ad­
ministratio interdicitur, potestas non aufertur: Dictum Gratiani post C 24, q. 1, c. 37 (RichterFriedb­ erg I, 981), mentre Rufino differenzia potestas e usus. Venendo a trattare delle ordinazioni
assolute, il Ragazzini fa notare che i più antichi Decretisti sono dell’opinione che l’ordinato in tal
modo possa amministrare i sacramenti anche se il conferimento della consacrazione episcopale
absoluta è ritenuto un’eccezione (escluso il sistema ecclesiastico iro‑scozzese). Cf. V. Fuchs, Der
Ordinationstitel von seiner Entstehung bis auf Innozenz III., Bonn 1930, 234‑271. Il cambiamento di posizione si ha con Innocenzo III il quale permise l’ordinazione absoluta dei sacerdoti: Licet
autem praedecessores nostri ordina­tiones eorum, qui sine certo titolo promoventur, in iniuriam
ordinantium irritas esse voluerint et inanes, nos, tamen, benignius agere cupientes tam diu per
ordinatores vel successores eorum provideri volumus ordinatis, donec per eos ecclesiastica beneficia consequantur: c. 16, X, 3, 5 (Richter-Friedberg I, 469). Scrive il Fuchs, op. cit., 274 sq.:
“Innozenz’ Vorgehen bereitete in Wirklichkeit die Wege für die völlige Trennung von Weihe und
Anstellung, für die rechtliche Anerkennung der absoluten Ordination”.
84 Cf. B. Tierney, Foundations of the Conciliar Theory, Cambridge 1955, 33, ove cita Uguccione: Pares […] illi fuerunt quoad ordinem, quia quascumque ordines habuit Petrus, habuit
82 91
e poi, più chiaramente, nei Decretalisti85, che, influenzati dal diritto romano86, separano il potere di ordine da quello di giurisdizione87.
Lo sviluppo di questa visione è fondato su alcuni fatti che si notano a partire dal IX se­co­lo, primo fra tutti il conferimento del pallio ai metropoliti, a cui
abbiamo sopra accennato. L’altro è la “legittimazione”, al tempo di Innocenzo III
(1198‑1216), delle ordinazioni assolute, che tuttavia già per i Decretisti conferivano validamente una pote­stas, senza che peraltro ne fosse lecito l’esercizio88. Con
ciò si affermava la possibilità di separazione tra consacrazione e conferimento
dell’ufficio, che in precedenza erano uniti.
I fatti ricordati portarono dunque, nel se­co­lo XII, al riconoscimento della divisione del potere di ordine da quello di giurisdizione e, di conseguenza, all’accettazione del pensiero che il potere di ordine è conferito per consacrazione e quello
di giurisdizione mediante la missio canonica89.
Siamo ora in grado di valutare definitivamente, nelle sue conseguenze, il famoso passo dello Ps.‑Vigilio e di confermare che l’uso dell’affermazione vocare in
partem sollicitudinis, non in plenitudinem potestatis, nell’ambiente del IX se­co­lo,
non può certo essere inteso dallo Ps.‑Isidoro come indicativo, nel Successore di
Pietro, della fonte del potere giurisdizionale dei Vescovi90.
quilibet aliorum; sed Petrus prefuit illis in dignitate prelationis, administrationis, in iurisdictione
[…]. Cf. l’osservazione conclusiva di M. van de Kerckhove, La notion de juridiction chez les
décrétistes et les premiers décrétalistes (1140‑1250), in Études Franciscaines 49 (1937) 454.
85 S. M. Ragazzini, op. cit., 137, riporta la ripartizione della potestas ecclesiastica, tracciata da
S. Tommaso (S. Th., II‑II, q. 39, a. 3). Secondo l’autore si è giunti con i Decretalisti a bipartire nettamente la potestas ecclesiastica, mentre già al tempo di Stephanus Tornacensis (1128‑1213) le due potestà,
pur non distinte, sono considerate diverse, anzi si potrebbe dire che la loro distinzione è supposta.
86 Cf. H. de Roulers, La notion de juridiction dans la doctrine des décrétistes et des premiers décrétalistes de Gratien (1140) à Bottone (1250), Assisi 1937, 21 e M. Van de Kerckhove,
De Notione Juris­dictionis in iure Romano, in Jus Pontificium 16 (1936) 49 sq.
87 Cf. H. de Roulers, La notion de juridiction, op. cit., 1‑21; M. Van de Kerckhove, La
notion de juridiction, op. cit., 454; J. W. Perrin, Legatus, the Lawyers and the Terminology of
Power in Roman Law, in Studia Gratia­na XI (1967) 461‑489.
88 Cf. V. Fuchs, op. cit., 234‑274; E. Corecco, L’origine del potere di giurisdizione episcopale, op. cit., 7‑8 e n. 34, 258.
89 Cf. W. Bertrams, De relatione inter episcopatum et primatum, Roma 1963, 54‑55: Hinc
distinctio in­ter potestatem ordinis ordinatione conferendam et potestatem iurisdictionis missione
canonica conferen­dam se imponebat […] Ita se evolvebat doctrina – nunc iam per saecula communis – quae ordinatione valida recepta in subiecto habetur ita, ut valide semper exerceri possit, et potestatem, quae, etsi ordinatio valide recepta fuit, nondum habetur in subiecto, ut valide
exerceri possit. Porro, secundum hanc doctri­nam exercitium validum potestatis sacrae tamen
illegitimum esse potest scilicet illicitum. Ordinatione rite peracta in subiecto habetur potestas
ordinis, quae semper valide, etsi forte illicite, exerceri potest. Pote­stas iurisdictionis autem ordinationi qua tali non iam habetur adnexa.
90 Pure Hartmann, Tierney e Watt danno questo giudizio. Cf. B. Tierney, Foundations,
op. cit., 145; J. A. Watt, The use of the term plenitudo potestatis by Hostiensis, in Proceedings of
the Second International Congress of Medieval Canon Law, 1965, 163; G. Hartm
­ ann, Der Primat
des römischen Bischofs, op. cit., 99.
92
8. Uso e significato della formula in epoca gregoriana
Proseguendo il corso della storia, troviamo tale affermazione negli scritti dei “riformatori gregoriani” e precisamente nelle Sentenze di Umberto di Silva Candida, nella
Collezione di Anselmo di Lucca e in quella in Due Libri, ma solo nella versione dello
Ps.‑Vigilio e nell’altra forma, pure spuria, ma non ps.‑isidoriana, dello Ps.‑Gregorio91.
Se di queste raccolte canoniche è sufficiente la citazione, uno studio più particolareggiato dobbiamo dedicare ai testi di Gregorio VII92, poiché il pensiero gregoriano rappresenta una pietra miliare nella storia del Primato romano. Egli, peraltro,
sebbene attribuisca alla Chiesa Romana il titolo di mater omnium ecclesiarum93,
non si pronuncia con altrettanta chiarezza su alcuni aspetti di tale maternità, già elaborati prima di lui, uno dei quali (derivante proprio dalla affermazione ps.‑vigiliana
che stiamo esaminando) metteva in luce il fatto che le altre Chiese ricevono la loro
autorità da quella fondata da Pietro e da Paolo: Ipsa […] ecclesia […] ita reliquis
ecclesiis vices suas credidit largiendas […].
Una tale idea, secondo il giudizio di Meulenberg, non è espressa in maniera
del tutto chiara da Gregorio94. Di certo Ildebrando concede vices suas ai legati e a
singoli vescovi, però questo sembra avvenire per un incarico particolare. Se così
fosse egli non si allontanerebbe dalla posizione di Leone I con il suo vicario a Tessalonica. In effetti, per una speciale delega dei suoi diritti sulla Corsica, Gregorio si
serve appunto della formula leonina95.
Un altro passo in cui riecheggia l’antitesi fra plenitudo potestatis e la partecipazione alla sollicitudo del Vescovo di Roma – ma che è di più difficile comprensione, perché non si adatta completamente al caso di delega – si trova in una lettera
in cui, prendendo possesso del suo ufficio, Gregorio intima a Guglielmo, vescovo
di Pavia, In sollicitudine matris desudet acrius, quae caritatis et vicariae dispensationis munus sor­titur opimius96.
La vicaria dispensatio, dice Meulenberg, richiamandosi a uno studio di J.
Deér97, deve intendersi come significante una rappresentanza che si può capire ap-
91 Cf. DSP, c. 12, in Anselmo (Thaner, 10): Ipsa namque ecclesia quae prima est, ita reliquis ecclesiis vices suas credidit largiendas, ut in partem sint vocatae sollicitudinis, non in
plenitudine potestatis […]. Inoltre DSP, c. 13 e Anselmo II, 17 (Thaner, 83); Umberto di Silva
Candida, Contra Hereticos et […] Symoniacos, I, 5 (MGH., Lib. de Lite, I, 108; cf. A. Michel,
Die Sentenzen des Kardinals Humbert, op. cit., 12, n. 3 e 134, n. 3). Anche nella Collezione in
2 Libri leggiamo: ita aliis impertivit ecclesiis, ut in partem sint vocatae sollicitudinis, non in
plenitudi­ne potestatis (lib. I, c. 33: Bernhard, 78‑79).
92 Gli studi di Watt e Ladner sopra riferiti non trattano dei testi leonino o ps. vigiliano in
Gregorio VII.
93 Cf. L. F. J. Meulenberg, Der Primat der Römischen Kirche, op. cit., 53.
94 Ibid., 53.
95 Gregorio VII, Reg. V, 2, in Monumenta Greg., Aalen 1964, 289.
96 Gregorio VII, Reg. I, 12, in Monumenta Greg., Aalen 1964, 24.
97 J. Deér, Der Anspruch der Herrscher des 12. Jahr­hunderts auf die Apostolische Legation,
in Archivium Historiae Pontificiae 2 (1964) 140‑143.
93
plicata a Pavia, diocesi in speciali rapporti con Roma. Malgrado ciò, quell’opimius
sembrerebbe sottolineare che anche le altre Chiese condividono la delega di quella
Romana, di cui “gode” Pavia98.
La possibilità rimane dunque abbastanza aperta, ma possiamo notare anche
qui, come già per lo Ps.‑Isidoro, che qualora Gregorio VII avesse sostenuto veramente, come principio, la funzione puramente vicariale dei vescovi, non si comprende
come egli non lo abbia fatto con più insistenza, e si sia limitato a presentarlo solo in
un caso99. D’altra parte ci sembra dover riconoscere che tale visione, suggerita pure
da espressioni già in precedenza coniate, anche se non pienamente intese, influiva
nell’agire del Papa. A nostro umile giudizio, dunque, la famosa formula non è ancora diventata, con Gregorio VII, l’espressione di una dottrina del Primato già risolta e
chiarita, e nemmeno quel principio che sarà così spesso ripetuto in seguito, ma è un
orientamento pratico per l’esercizio del Primato stesso, ben volentieri accolto per la
sua perfetta consonanza con il proposto indirizzo centralizzatore dell’età gregoriana,
richiesto dal troppo tiepido appoggio vescovile alle iniziative di “riforma”.
9. Uso e significato della formula in epoca post‑gregoriana
L’antitesi tra il Papa, e la sua plenitudo potestatis, e i vescovi, ed il loro essere
in par­tem sollicitudinis vocati, è pure presente in Graziano, sia nel testo genuino100
sia in quello dello Ps.‑Gregorio IV101, che modifica sostanzialmente la portata del
passo di Leone102:
Sed si quid (quod absit) graue intolerandumque ei obiectum fuerit, nostra erit
expectanda censura, ut nichil prius de eo, qui ad sinum sanctae Romanae ecclesiae fue­rit auctoritate preceptum, quae uices suas ita aliis impertiuit ecclesiis, ut in partem sint uocatae sollicitudinis, non in plenitudinem potestatis.
98 L. F. J. Meulenberg, Der Primat der Römischen Kirche, op. cit., 54 e 72 n. 9, indirizzato
malamente da una valorizzazione inesatta fatta da Y. Congar, Sainte Église, op. cit., 352, n. 48, di
un passo di Ivo di Chartres (ep. 8: PL 162, 19D‑20), attribuito dall’autore a Gregorio VII, lo esamina come tale e cerca di inquadrarlo nella visione del primato di Ildebrando. Il brano riportato
da Ivo di Chartres, invece, è una parte della lettera spuria di Gregorio IV (cf. Yves de Chartres,
Correspondance, éd. et traduction par J. Leclercq, t. I [1090‑1098], Paris 1949, 35 n. 2). Il testo
dello Ps.‑Gregorio IV si trova in MGH Epp. V, 73 sq. Ivo di Chartres ripresenta pure il testo leonino genuino, nell’ep. 59 (PL 162, 70), per quanto riguarda la plenitudo potestatis.
99 Cf. L. F. J. Meulenberg, Der Primat der Römischen Kirche, op. cit., 54, per il quale però i
casi sono due (v. nota precedente). Nella conclusione del suo lavoro l’autore così si esprime: “Für
das Verhältnis zwischen Papsttum und Episkopat können zwar zwei Texte in dem Sinne verstanden werden, dass der Heilige Stuhl jedem Bischof die Jurisdiktion überträgt, unter Umständen
handelt es sieh jedoch um Sonderfälle, die nicht verallgemeinert werden dürfen” (ibid., 132).
100 Decr. Gratiani, C. 3, q. 6, c. 8.
101 MGH Epp. V, 73.
102 Decr. Gratiani, C. 2, q. 6, c. 11.
94
Presente è anche l’altro brano, simile, dello Ps.‑Isidoro, che è usato per sottolineare il Primato del Vescovo di Roma, espresso nella funzione di supremo grado
di appello, al quale sono riservate anche le causae maiores103:
Ipsa namque ecclesia quae prima est in reliquis ecclesiis vices suas credidit largiendas, ut in partem sint vocatae sollici­tudinis, non in plenitudinem potestatis. Unde omnium appellantium apostolicam sedem episcoporum iudicia, et cuncta maiorum negotia causarum eidem sanctae sedi
reserua­ta esse liquet.
La formula è ripresa ancora da Graziano per indicare il rapporto intercorrente
fra metropolita e suffraganeo104:
Quod autem Archiepiscopus clericos sui Suffraganei illo inconsulto damnare valeat, vel absolvere, sic videtur posse probare. Sicut totius episcopatus Ecclesiae in potestate sunt episcopi, sic et ec­clesiae totius Archiepiscopatus ad diocesim pertinent Archiepiscopi. Vocantur enim Episcopi
a Metropolitano in partem sollicitudinis, non in plenitudinem potestatis.
Sic quippe vices eis imperti­tur, ut potestatem suam sibi non adimat. Unde
et sine eius consilio nihil ei agere licet.
Con il moltiplicarsi delle glosse al Decretum crebbe considerevolmente la
fortuna del termine plenitudo potestatis che, come abbiamo detto, appariva tre volte nei canoni e una volta in un dictum.
Ma è solo al tempo di Uguccione († 1210)105 che la formula raggiunge un
alto livello di sviluppo – diventa un fiume, seguendo il paragone del Meersseman
– dopo una iniziale riserva nell’uso e una difficoltà di comprensione circa il suo
completo valore da parte dei primi Decretisti, in contrasto con l’entusiastico impiego che ne fa Bernardo (1090‑1152)106.
Decr. Gratiani, C. 2, q. 6, c. 12.
Dictum Gratiani ante C. 9, q. 3, c. 1.
105 Ubi ergo illi qui dicunt quod solus papa est vicarius Christi? Quoad plenitudinem potestatis verum est, alias autem sacerdos est vicarius Christi et Petri […]: Huguccio Pisanus,
Summa super Decreto, Cod. Vat. lat. 2280, fol. 317r. e, ancora, Huguccio, Summa (C. 6, c. 2, q. 3)
cit. da S. Mochi Onory, Fonti canonistiche dell’idea moderna dello stato. Imperium spirituale.
Iurisdictio divisa. Sovranità, Milano 1951, 166, n. 1: […] solus episcopus est iudex ordinarius
in diocesi sua […] metropolitanus non est iudex ordinarius nisi in parochia sua, et licet sit iudex
ordinarius suorum episcoporum non tamen illorum qui subsunt episcopis […] in papa tamen
speciale est, qui est iudex ordinarius omnium, scilicet maiorum et minorum praelatorum et subditorum […] ipse enim solus habet plenitudinem potestatis. Cf. pure B. Tierney, Foundations,
op. cit., 146.
106 Cf. S. Bernardo, Ad Eugenium Papam III, ep. 239 (PL 182, 431): Qui locum Petri tenet,
potest uno ictu extinguere Ananiam, uno Simonem magum et, ut planius, quod loquimur, fiat,
peremptoriam dare sententiam ad depositionem episcoporum solius Romani Pontificis noscitur
esse, pro eo nimirum quod etsi alii multi vocati sunt in partem sollicitudinis, solus ipse plenitu103 104 95
La tesi‑antitesi, plenitudo potestatis e chiamata a partecipare della sollicitudo,
che nei primi Canonisti107 non indicava ancora una affermazione dottrinale e l’origine di un potere episcopale, diventa così, anche per l’avvenuta distinzione riflessa
e separazione fra potere di ordine e di giurisdizione108, a cui sopra accennavamo,
la testimonianza‑chiave della genesi del potere episcopale di giurisdizione dal Vescovo di Roma109.
10. La plenitudo potestatis nel XII secolo ed oltre
Accanto all’approfondimento della comprensione della formula possiamo
notare, nel XII se­co­lo, anche un’evoluzione, poiché l’antitesi (vocati in partem sollicitudinis), che appariva nel testo leonino e ps.‑isidoriano, cade in disuso, e la tesi
(plenitudo potestatis papale) è considerata in se stessa110 e valorizzata in due contesti: quello della suprema autorità legislativa e quello della suprema giurisdizione
d’appello, in connessione con il titolo papale di Vicarius Christi.
Nel primo caso la plenitudo potestatis era postulata dal linguaggio del diritto
romano, in cui la lex animata111 era sostituita dal canon vivus, che porta in pectore
suo112 tutto il diritto canonico e rimane legibus solutus113. Nel secondo, invece, cioè
dinem habeat potestatis. Cf. pure De Consideratione, 2, 8, 16 (PL 182, 752); 3, 4, 14 (PL 182,
766); ep. 131, 132 (PL 182, 286, 7) (cf. G. Ladner, The Concepts of ecclesia and christianitas,
op. cit., 77).
107 B. Tierney, Foundations, op. cit., 145: “In their original contexts these words had not
been intended as an assertion that bishops derived their ordinary episcopal authority from the
Pope, and the earlier Canonists showed little disposition to interpret them in that sense”. Cf. anche J. A. Watt, The use of the term plenitudo potestatis by Hostiensis, op. cit., 163.
108 N. Hilling, op. cit., 170, scrive: “Von 1215‑1250 (è per lui il III stadio dell’evoluzione)
hat den Gebrauch des terminus iurisdictio in weiteren Sinne der kirchlichen Regierungsgewalt
wiederhergestellt und den Begriff deutlich von der potestas ordinis unterschieden”.
109 Cf. J. A. Watt, The use of the term plenitudo potestatis by Hostiensis, op. cit., 164; Id.,
The theory of Papal Monarchy, op. cit., 255.
110 Cf. G. Ladner, The Concepts of ecclesia and christianitas, op. cit., 76; J. A. Watt, The
use of the term plenitudo potestatis by Hostiensis, op. cit., 163, n. 11.
111 Cf. le osservazioni di P. Legendre, La pénétration du droit romain dans le droit canonique classique de Gratien à Innocent IV (1140‑1254), Paris 1964, 56.
112 Afferma Uguccione: Tocius iuris canonici noticia sit in pectore domini pape et tocius
iuris legalis no­ticia sit in pectore imperatoris (Huguccio, D. 18, c. 7, s.v. regula, riportato assieme ad altri esempi da J. A. Watt, The use of the term plenitudo potestatis by Hostiensis, op. cit.,
164, n. 17).
113 Ibid., 164; P. Legendre, La pénétration du droit romain, op. cit., 53. Interessante si rivela
la lettura della Tesi di laurea (non ancora pubblicata) di A. M. Vegliò, dal titolo Voto di castità
e dispensa papale nei maggiori teologi e canonisti dei sec. XII e XIII (Pontificia Università
Lateranense, 1968), in cui si mette in evidenza come proprio per la plenitudo potestatis e per la
posizione di Vicario di Cristo si arrivi ad affermare nei sec. XII e XIII che il Papa estende la sua
autorità anche al diritto divino e può quindi dispensare da ogni voto.
96
nel contesto della suprema giurisdizione d’appello, la plenitudo potestatis è associata all’espres­sione papa est iudex ordinarius omnium114 pure in uso fra i Canonisti
del tempo. È in questa prospettiva che alcuni di essi abbozzarono liste di cause
riservate al solo Papa (causae maiores)115.
Anche Innocenzo III adoperò con frequenza il termine plenitudo potestatis116,
e con lui tale concetto (insieme a Vicarius Christi), inteso come plenitudo ecclesiasticae iurisdictionis, emerse completamente, ripreso da Innocenzo IV (1243‑1254) e
soprattutto dall’Ostiense, che lo citò ben 71 volte117, precisamente 19 nella Summa,
51 nell’Apparatus alle Decretali Gregoriane e una volta nell’Apparatus alle Extravagantes di Innocenzo IV118. Notevole è il fatto che proprio la considerazione
della plenitudo po­testatis papale fu il motivo teologico che indusse l’Ostiense ad
accettare la dottrina ierocratica119, ripresa e diffusa, poi, nella seconda metà del se­
co­lo XIII120.
Parallelamente alla sempre più frequente ripetizione di tale formula, nella sua
accezione completa o incompleta, e che ormai è divenuta principio e norma giuridica che regola il rapporto tra i vescovi ed il Papa (rilevandone la suprema autorità,
da cui gli altri Pastori dipendono), è sostenuta anche un’altra visione ecclesiale,
(36) Cf. J. A. Watt, The theory of Papal Monarchy, op. cit., 268‑281.
Cf. J. A. Watt, The use of the term plenitudo potestatis by Hostiensis, op. cit., 165.
116 Watt presenta i testi di Innocenzo III nell’appendice A del suo studio. Cf. J. A. Watt,
The use of the term plenitudo potestatis by Hostiensis, op. cit., 175‑177. Noi ci limitiamo a
riportare un solo passo (Innocenzo III al re degli Armeni [Roskovàny, I, 602]): […] In Petro
enim apostolorum principe […] Eccle­sia Romana sedes eius, et sessores ipsius Romani Pontifices, successores Petri et vicari Jesu Christi, sibi invicem per successivas varietates temporum
singulariter succedentes […] a Domino primatum et magi­sterium acceperunt, vocatis sic ceteris
in partem sollicitudinis, ut apud eos plenitudo resideat potestatis […] Non enim in Petro et cum
Petro singulare illud privilegium expiravit, quod successoribus eius futuris in finem mundi Dominus in ipso concessit; sed praeter vitae sanctitatem et miraculorum virtutes par est in omnibus
iurisdictio successorum, quos etsi diversis temporibus eidem tamen sedi et eadem auctoritate
Dominus voluit praesidere. Prima di lui anche Celestino III (1191‑1198) adoperò la formula
plenitudo potestatis: cf. P. Zerbi, Papato, impero e “respublica christiana” dal 1187 al 1198,
Milano 1955, 170‑173.
117 I testi dell’Ostiense, in cui appare la formula plenitudo potestatis, sono riportati nell’Ap­
pen­dice B al lavoro di Watt; cf. J. A. Watt, The use of the term plenitudo potestatis by Hostiensis,
op. cit., 178‑187.
118 Ibid., 162. Per l’uso “in senso spirituale” del termine plenitudo potestatis al tempo di Innocenzo IV, cf. J. A. Cantini, De autonomia judicis saecularis et de Romani pontifïcis plenitudine
potestatis, op. cit., 473 n. 64.
119 Cf. Commentaria in decretales, c. 13, X, 9, 17, ed. Venetiis 1581, t. III, fol. 401v.,
riga 12. Per conoscere il pensiero dell’Ostiense sul potere papale nelle cose temporali, cf. J. A.
Watt, The theory of Papal Monarchy, op. cit., 281‑292.
120 Cf. A. J. Carlyle, Le développement de la théorie de l’autorité pontificale en matière
temporelle chez les canonistes de la seconde moitié du xiie siècle, in Revue historique de droit
français et étranger 5 (1926) 608‑610. Cf. però anche J. A. Cantini, De autonomia judicis saecularis et de Romani pontifïcis plenitudine potestatis, op. cit., 464‑473 e 479.
114 115 97
secondo la quale – e si prende lo spunto dalla concezione dell’unus pastor et unus
grex121 – la Chiesa appare quasi come una sola grande diocesi, il cui vastissimo territorio viene diviso ed affidato ai vescovi. Essi, secondo Bonaventura (1221‑1274)
ed alcuni teologi e canonisti, hanno funzione di vicari del Sommo Pontefice122:
In Summo Pontifice qui in terris […] est caput unum et summum, et sponsus unicus et hierarcha praecipuus, in quo est totius ecclesiae militantis
status, obtinet locum Christi […] Ecclesia est una hierarchia; ergo debet
habere unum praecipuum et summum hierarcham, cum ab unitate principis descendere debet unitas principatus […] triplex est huius potestatis
plenitudo: scilicet quod ipse Summus Pontifex solus habet totam plenitudinem auctoritatis, quam Christus ecclesiae contulit, et quod ubique in
omnibus ecclesiis habet illam sicut in sua speciali sede Romana, et quod
ab ipso manat in omnes inferiores per universam Ecclesiam omnis auctoritas, prout singulis competit eam partecipare […] Cum ipsi plebani sint
121 Cf. già S. Pietro Damiani: papa […] solus est omnium Ecclesiarum universalis episcopus, Opus XXIII (PL 145, 474C); Dictatus Papae II; Alessandro III (nell’a. 1158): Aeterna
et incommutabilis providentia conditoris sanctam et immaculatam ecclesiam a suae functionis
exordio ea ratione voluit et ordine gu­bernari, ut unus pastor et institutor existeret, cui universi
ecclesiarum praelati absque repugnantia subjacerent, et membra tamquam suo capiti cohaerentia, ei se mirabili quadam unitate conjungerent […] (Mansi 21, 868); cf. pure Clemente VI
(1342‑1352) al patriarca armeno Mekhithar: […] solus Pontifex Romanus habet plenitudinem
potestatis, quam beatus Petrus Apostolus habebat et quod Pontifex Roma­nus solus est universalis
Christi Vicarius (Roskovàny I, 666: 554) e inoltre: […] omnem potestativam iurisdictionem […]
immediate ab ipso Christo super totum et universum corpus militantis ecclesiae acce­pisse (?)
(ibid., I, 666: 555), e infra, note 122, 123 e 127.
122 Citato con altri stralci delle opere di S. Bonaventura da Y. Congar, De la communion
des Églises, op. cit., 247. Già in precedenza Bernoldo di Costanza aveva affermato: Quilibet episcopus nec super gre­gem sibi commissum tantam potestatem habet, quantam praesul apostolicus
qui licet curam suam in sin­gulos episcopos diviserit, nullo modo tamen seipsum sua universali et
principali potestate privavit, sicut nec rex suam regalem potentiam diminuit, licet regnum suum
in diversos duces, comites sive iudices, divi­serit (Apologeticus, c. 23): PL 148, 783CD (per Mansi
20, 403, l’autore dell’affermazione è ignoto). Cf. pure Giacomo da Viterbo, De Regimine christiano, per il quale il successore di Pietro è pastor pasto­rum, pater patrum, caput omnium fidelium
et omnium qui fidelibus presunt. Unde et ecclesia, cui presidet scilicet romana, mater et caput
est omnium ecclesiarum. Hic, licet apropriate dicatur pontifex romanus, verissime tamen dicitur
et est pontifex omnium christianorum et omnium ecclesiarum rector et episcopus Urbis et Orbis.
Qui, licet mediantibus aliis pastoribus, gubernet diversas ecclesias speciales, tamen im­mediatum
regnum exercere potest super ecclesiam quamlibet. Hic est sacerdos summus et unus, cui omnes
fideles obedire debent tanquam Domino Ihesu Christo, in H. X. Arquillière, Le plus ancien
traité de l’Église. Jacques de Viterbe, De regimine christiano (1301‑1302). Études des sources et
édition critique, Paris 1926, 207. Interessante è ugualmente un altro esempio di S. Bonaventura:
Ecclesia est una sponsa, ergo debet habere unum sponsum; sed omnes particulares ecclesiae
reducuntur ad ecclesiam unam: ergo omnes sponsi loco christi constituti, scilicet episcopi, ad
unum debent reduci, qui principali­ter tenet locum Christi […] (Bonaventura, De Perfectione
evangelica, q. IV, art. III, in Opera Omnia, t. V, Ad Claras Aquas 1891, 192). Cf. infra nota 127.
98
vicarii episcoporum in suis parochiis sicuti episcopi Summi Pontificis in
officiis sibi commissis.
Nel XIII se­co­lo, per influenza di un altro punto di vista, si nota ancora
una nuova, forte sottolineatura dell’universale episcopato romano. Si valorizza,
infatti, la dottrina della Chiesa corpo di Cristo, di cui il Papa è il capo visibile
dal quale deriva ogni potere dei vescovi, in analogia con quanto avviene per il
corpo umano123.
Riassumiamo: abbiamo così tracciato alcune grandi linee degli antecedenti e
delle conseguenze di espressioni ps.‑isidoriane che sembrano investire il problema
L’espressione è di Abbas Antiquus, In Lib. Decretalium Aurei Commentarii […] (Venezia 1588), c. 4, X, 1, 6, fol. 13r.‑14v.: Ecclesia universalis unum corpus Christi est […] huiusmodi corporis caput est ecclesia Romana […] Aliae vero ecclesiae ab isto capite descendentes,
membra huius capitis appellantur et sicut in corpore naturali vides a capite membra descendere
et a membris membra derivari, unde sicut a capite brachio derivato ab ipso manus, a manu
digiti […] ita a capite, id est Romana ecclesia maiores descendunt ecclesiae et ab eis aliae, a
quibus aliae quandoque descendunt, in Perillustrium Doctorum […]). B. Tierney, Foundations,
op. cit., 141 nota in proposito: “In assuming that the Church, defined as the corpus Christi, was
an entity capable of the quite prosaic function of property ownership, Innocent was apparently
regarding it as not only a corpus mysticum but as something closely akin to a legal corporation.
And it will be remembered that in his view all the jurisdiction of a corporation was concentrated
in its head, so that he could quite consistently present the whole Church as a corporation while at
the same time upholding an extreme doctrine of papal monarchy in all affairs of Church government”. Ad approfondire questa idea contribuisce l’insegnamento della scolastica e specialmente
di S. Tommaso circa la reductio ad unum. Secondo tale visione, il Papa appare quale supremo
vescovo, capo unico visibile della Chiesa che esercita in essa l’universale e piena giurisdizione
(cf. Y. Congar, De la communion des Églises, op. cit., 245‑246). Questo pensiero lo troviamo in
S. Tommaso il quale, in termini ps.‑isidoriani, afferma: Respondeo dicendum quod Papa habet
plenitudinem pontificalis potestatis quasi rex in regno. Sed episcopi assumuntur in partem sollicitudinis, quasi iudices singulis civitatibus praepositi (IV Sent., d. 20, q. I, a. 4, qla 3 in S. Th.
Suppl.). Il papa inoltre è visto dall’Angelico come primus et maximus om­nium episcoporum,
episcoporum summus, colui, che esercita una potestas regitiva respectu totius eccle­siae (Cf. Y.
Congar, De la communion des Églises, op. cit., 246.). Tali idee vengono già illustrate da Gregorio IX (1227‑1241): Papa est caput, in quo sensuum plenitudo consistit, a quo ad singula
membra occultis meatibus pars aliqua tanquam a capite membris derivatur (cit. da Y. Congar,
De la communion des Églises, op. cit., 246). Congar riporta anche affermazioni di Innocenzo III
e di Uguccione, in proposito (ibid., 239). Dichiara Uguccione: in papa autem speciale est, qui est
iudex ordinarius omnium, scilicet maiorum et minorum prelatorum et subditorum […] ipse solus
habet plenitudinem potestatis. Secondo Uguccione il Papa ha la generalitas auctoritatis: Quilibet
episcopus duo istorum habet in sua diocesi, scil. preceptum et necessitatem observantie. Summus
vero pontifex habet tres scil. preceptum, necessi­tatem et generalitatem (cit. da B. Tierney, Foundations, op. cit., 146). In questo contesto e mentalità possiamo anche considerare l’influsso della
teologia degli ordini mendicanti sulla concezione del potere papale, per cui la missio canonica,
necessaria all’attività pastorale del clero regolare e che al tempo di Tommaso dipendeva ancora
dal vescovo, dopo di lui è vista come proveniente dal papa (cf. E. Corecco, L’origine del potere
di giurisdizione episcopale, op. cit., 1).
123 99
dell’ori­gine del potere episcopale ed esercitarono grande influsso, specialmente
al tempo della “riforma gregoriana”, nelle raccolte canoniche e nella stesura del
Dictatus Papae (manifestazione genuina del pensiero politico‑religioso di Gregorio VII)124 e nel Registrum di Ildebrando, codice della “nuova” Chiesa. Essa tendeva, per mezzo della centralizzazione, a sottrarsi ad ogni superiore ingerenza laica,
affermando i prodromi degli ideali della teocrazia medioevale125.
Ci siamo impegnati a delineare, in modo particolare, lo sviluppo della formula
oggetto della nostra ricerca, che, recepita – senza chiara coscienza della radicalità
del suo contenuto – dallo Ps.‑Isidoro, e accolta da Gregorio VII e dai “gregoriani”
piuttosto come orientamento pratico, diventò sempre più, nel moltiplicarsi delle
citazioni, un mezzo di esaltazione del Pontificato e del Primato romano, mutuando
dal diritto canonico la sua giustificazione e dal pensiero scolastico una compiuta sistemazione teorica e dottrinale. Si considererà così il Papa come vescovo universale, costituito da Cristo supremo pastore, da cui gli altri vescovi ricevono la potestas
iurisdictionis,126 giungendo, alcuni, a ritenerli come suoi vicari127.
Il nostro sia pur breve studio può dimostrare, dunque, come nelle decretali
ps.‑isidoriane si trovassero in germe alcuni indirizzi – è il caso anche della formula antitetica in questione – verso una Chiesa centralizzata romana, caratteristica
di un’epoca successiva, mentre l’“ideo­logia” e la struttura della Chiesa da esse
R. Morghen, Medioevo Cristiano, Bari 1968, 95, 110‑117, 125‑127 e 252.
Cf. ibid., 156 e 269.
126 Cf. Ioannes de Turrecremata (a. 1388‑1468), Summa de Ecclesia (Venezia 1561),
lib. II., c. 54, fol. 169v.: Quod potestas iurisdictionis omnium praelatorum ecclesiae deriuetur
a papa siue apostolica sede […] Romanus Pontifex iure sui principatus sive vicariatus Christi
habeat in toto orbe terrarum ple­nam iurisdictionem […] (ibid., c. 113, fol. 262r.). Secundo sic
ad idem. Romanus Pontifex dicitur Vica­rius beati Petri ut in c. ego Ludouicus distin. 63, ergo
uidetur quod nõ a Christo immediate, sed a beato Petro potestatem acceperit; […] Ad secundum
dicendum quod impropria locutio est cum dicitur quod Romanus Pontifex sit vicarius beati Petri: cum solius Dei, cuius uice gerit in terris Vicarius sit. Petrus autem apostolus cum Vicarius
esset Christi non poterat facere alium Vicarium […] Exponenda est ergo littera sic. Vicarius id
est successor illius, uel Vicarius id est Vicariam potestatem quam ipse Petrus gessit tenens sive
exercens (ibid., c. 40, fol. 152v.-154r.); Th. De Vio (a. 1468‑1533) (Caietanus), De compa­ratione
auctoritatis Papae et Concilii cum Apologia eiusdem tractatus, ed. V. M. J. Pollet, Romae 1936,
c. IV, n. 55, 35: solus Petrus habuit vicariatum Iesu Christi et solus immediate potestatem iurisdictionis ordinarie a Christo accepit […] (cf. E. Corecco, L’origine del potere di giurisdizione
episcopale, op. cit., 11, 15‑16 e n. 82, 21).
127 Cf. E. Corecco, L’origine del potere di giurisdizione episcopale, op. cit., 16. Y. Congar,
De la communion des Églises, op. cit., 247‑248, precisa in proposito: “La théologie du pape
‘évêque universel’ prend ici (agli inizi del XIV sec.) un caractère extrême que ni Robert Bellarmin
ni le concile du Vatican n’ont retenu, même dans le moment où ce dernier sanctionnait de son
autorité cette théologie même, celle de l’unus grex sub uno pastore” e continua: “C’est le danger,
en traitant toute l’Église comme le diocèse d’un seul évêque, de faire tourner l’unité en uniformité, de faire pratiquement du pape le seul hiérarque de droit divin, une sorte de super‑évêque
et de super‑prêtre même dans l’ordre sacramentel, de traiter enfin l’épiscopat comme un reste
d’émiettement féodal du pouvoir […]” (ibid., 249).
124 125 100
manifestate rispecchiano ancora, in molti punti, quelle di tipo “episcopale”. Lo
squilibrio interno, che per la presenza di queste due prospettive si dovrebbe manifestare, è superato dallo Ps.‑Isidoro per la funzione attribuita al Primato romano,
che è eminentemente di difesa e di soccorso ai vescovi. In seguito, invece, nell’“età
gregoriana” e successivamente, gli stessi testi ps.‑isidoriani, staccati da questo loro
contesto, saranno presentati non più con un fine di difesa dell’episcopato, ma come
mezzo e strumento efficace per la centralizzazione e per la “riforma”128.
11. “Fortuna” della formula nei concili e nella codificazione canonica
Non minor uso incontrerà l’oggetto della nostra ricerca nei testi sinodali. Esso
è presente, in vari modi, al II Concilio di Lione129, e ai Concili di Firenze130, Trento131, Vaticano I132 e Vaticano II133.
Oltre le citazioni, che ci interessano, delle formulazioni dogmatiche degli
anzidetti Concili, rileviamo specialmente che a Trento anche un certo numero di
Padri, in vari contesti, utilizza la formula in questione, o una parte di essa134.
Cf. P. Imbart de la Tour, Les élections épiscopales, op. cit., 160-176.
Cf. DS 861: Ipsa quoque sancta Romana Ecclesia summum et plenum primatum et principatum super universam ecclesiam catholicam obtinet; quem se ab ipso Domino in beato Petro
Apostolorum principe sive vertice, cuius Romanus Pontifex est successor, cum potestatis plenitudine recepisse veraciter et hu­militer recognoscit. Et sicut prae ceteris tenetur fidei veritatem
defendere; sic et si quae de fide subortae fuerint quaestiones, suo debent iudicio definiri. Ad
quam potest gravatus quilibet super negotiis ad eccle­siasticum forum pertinentibus appellare
et in omnibus causis ad examen ecclesiasticum spectantibus ad ipsius potest iudicium recurri et
eidem omnes ecclesiae sunt subiectae, ipsarum praelati oboedientiam et reverentiam sibi dant.
Ad hanc autem sic potestatis plenitudo consistit, quod ecclesias ceteras ad sollici­tudinis partem
admittit; quarum multas et patriarcales praecipue diversis privilegiis eadem Romana ecclesia
honoravit, sua tamen observata praerogativa tum in generalibus conciliis, tum in aliquibus aliis
semper salva.
130 DS 1307 (Conc. Florentinum, Decr. pro Graecis).
131 Interessante è la lettura, a questo proposito, della Tesi, non pubblicata, discussa alla
Pontificia Università Gregoriana nel 1966 da Karl‑Josef Rauber, Episkopat und Primat in den
Diskussionen des Konzils von Trient. Eine rechtstheologische Untersuchung.
132 DS 3067.
133 Lumen Gentium 22; Nota Explicativa Praevia 3; Christus Dominus 2.
134 Cf. Concilium Tridentinum, ed. Societas Goerresiana, Friburgi‑Brisgoviae, 1901‑1961,
vol. V, 754 (Vescovo di Motula); vol. IX, 349 (Vescovo di Alife); vol. VIII, 434, 20 e 435, 5
(Vescovo di Istinopolis–Koper); vol. IX, 101, 5 (P. Laynez); vol. IX, 106‑107 (schema presentato
dai Legati papali); vol. IX, 154, 33 (Vescovo di Campagna: plenaria iurisdictio); vol. IX, 192,
21‑29 e 224, 17‑23 (Vescovo di Calvi); vol. IX, 141, 19‑25; 210, 33‑35; 211, 1‑3; 153, 12‑14 e
17‑19 (Vescovo di Segovia); vol. IX, 172, 6 (Vescovo di Almeria); vol. IX, 200, 29‑32 (Vescovo
di Lugo); vol. IX, 107 (Abate di Clairvaux); vol. IX, 157, 14‑23 e 38‑41 (Vescovo di Minori);
vol. IX, 149, 12‑14 (Vescovo di Lucera); vol. IX, 192, 12‑13 (Vescovo di Salamina); vol. IX,
190, 42‑45 e 191, 2‑6 (Vescovo di Città di Castello); vol. IX, 223, 2‑3 (Generale dei Carmelita128 129 101
Si tratta concretamente di interventi in occasione delle discussioni conciliari
sull’obbligo dei vescovi alla residenza nelle loro diocesi e sul sacramento dell’ordine, in particolare per quanto riguarda l’origine del potere episcopale di giurisdizione. A questo proposito ci ripromettiamo di riprendere il discorso in altra sede.
Basti qui l’affermazione, sostenuta da numerose citazioni, di un vasto impiego del
concetto pleni­tudo potestatis e della sua antitesi, in partem sollicitudinis vocati.
Comunque lo sbocco al mare del famoso fiume da noi considerato, e che ha
origine in quel ghiacciaio leonino e ps.‑isidoriano perlustrato all’inizio del nostro
studio, avviene nella codificazione canonica del 1917 e, quindi, nell’attuale Codex
Iuris Canonici per la Chiesa Latina, che ne è una continuazione, pur nell’arricchimento teologico e spirituale e nell’affinamento pastorale apportati dal Concilio
Vati­cano II.
Per quanto concerne la legislazione del 1917, evidente risulta, in genere, l’influsso ps.‑isidoriano, come dimostrò il Fuhrmann, da par suo135. L’illustre professore costatava che nell’antico Codex vi sono oltre 120 canoni d’ispirazione ps.‑isidoriana. Fra le Anno­tationes, infatti, circa 300 citazioni provengono dalle menzionate
falsificazioni, via Graziano, la metà, quindi, dei capitoli ps.‑isidoriani del Decreto.
Tuttavia, notava giustamente il Fuhrmann, un confronto numerico puro e
semplice dà adito ad errori, in quanto l’opera del falsificatore, nel Codex del 1917,
non compare – come in Graziano – sotto forma di compendi, ma ne traspare qua e
là lo spirito, nel complesso delle Fonti.
In particolare la presenza ps.‑isidoriana si nota nel De Personis (tit. VII): De
Su­prema potestate deque iis qui eiusdem sunt ecclesiastico iure participes, in due
canoni (220 e 222), riguardanti, rispettivamente, le causae maiores e la convocazione di un concilio ecumenico, mentre la massa dei riferimenti al falsificatore si
trova nei canoni attinenti la procedura processuale e il diritto penale136.
Orbene, aggiungo che nel can. 218 § 1 vi è anche un’eco137 di quella plenitudo
po­testatis la cui origine si trova nella formula che ormai possiamo definire “nostra”.
ni); vol. IX, 151, 5‑8 (Vescovo di Assisi); vol. IX, 149, 25‑26 (Vescovo di Tivoli); vol. IX, 177,
23‑24 (Vescovo di Feltre); vol. IX, 128, 48‑51 e 129, 1‑8 (Vescovo di Chioggia); vol. IX, 208,
38‑39 (Cardinale di Lorena: plenaria potestas); vol. IX, 35‑38 (Vescovo di Brugnato: ple­nissima
iurisdictio).
135 H. Fuhrmann, Päpstlicher Primat und pseudoisidorische Dekretalen, in Quellen und
Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 49 (1969) 313‑339. Il testo (una conferenza, del 4 dicembre 1967, all’Istituto Archeologico Germanico di Roma) è pubblicato anche
nella I Parte della poderosa opera Id., Einfluss und Verbreitung der pseudoisidorischen Fälschungen. Von ihrem Auftauchen bis in die neuere Zeit, I‑III, Stuttgart (1972‑1974) (= MGH Schriften,
Bd. XXIV) 1‑3.
136 Cf. I. Serédi (ed.), Codicis Juris Canonici Fontes, vol. IX, Tabellae, Typis Poliglottis
Vaticanis, 1939.
137 Romanus Pontifex, Beati Petri in primatu successor, habet non solum primatum honoris,
sed sup­remam et plenam potestatem iurisdictionis in universam Ecclesiam, tum in rebus quae
ad fidem et mores, tum in iis quae ad disciplinam et regimen Ecclesiae per totum orbem diffusae
pertinent.
102
La stessa eco ascoltiamo nel nuovo Codice di Diritto Canonico per la Chiesa
Latina, portato dallo spirito ps.‑isidoriano che pure sembra aleggiarvi138.
L’aspetto che qui a noi più interessa, e si riferisce ancora alla plenitudo potestatis, di stampo ps.‑isidoriano, si manifesta nei can. 331 e 332139 ed ispira anche
le relazioni del Romano Pontefice con i Patriarchi e i Primati, curiosamente accomunati, nel nuovo C.J.C. – ed è caratteristica ps.‑isidoriana140 – nel capitolo De
Metropolitis (can. 435‑438).
Ci sembra potere e dovere quindi ormai concludere – e ci si perdoni il ritornare a quel corso d’acqua simbolico, la cui immagine ci ha accompagnato nello scandaglio dei secoli – che per la “nostra” formula il fiume non si arresta al Medioevo,
ma prosegue il suo corso, in letto plurisecolare, fino all’oggidì. Anche in questo
caso possiamo dunque attestare la “fortuna”, nell’evoluzione, di un’antica formula
di rapporto Primato pontificio‑Episcopato141.
138 Cf. A. Marchetto, La “fortuna” di una falsificazione. Lo spirito dello Pseudo‑Isidoro
aleggia nel nuovo Codice di Diritto Canonico?, in Fälschungen im Mittelalter. Internationaler
Kongress der Monumenta Germaniae Historica, München, 16.‑19. September 1986 (= MGH
Schriften, Bd. 33), II, Hannover 1988, 397‑411; lo studio è pubblicato anche in Apollinaris LXI
(1988) 311‑326 e in A. Marchetto, Chiesa e papato, op. cit., 92‑104.
139 Ibid., 399‑403.
140 Ibid., 402.
141 Questo contributo è stato pubblicato in A. Marchetto, Chiesa e papato nella storia e
nel diritto, op. cit., 369‑395.
103
Tradizione e rinnovamento
si sono abbracciati:
il Concilio Vaticano II
Agostino Marchetto
Non dovrò – credo – convincere nessuno dei miei benevoli lettori dell’importanza e del valore dottrinale, spirituale e pastorale del Concilio Vaticano II, tanto da
potersi dire che esso è “icona” della Chiesa cattolica stessa, cioè di quello che specialmente il Cattolicesimo è, costituzionalmente1, comunione, anche con il passato,
con le origini, identità nell’evoluzione, fedeltà nel rinnovamento, albero frondoso
nato da quell’umile seme messo, piangendo, sotto terra due millenni fa, sepolto
nelle tenebre – la morte redentrice di Cristo – ed esploso, in perenne primavera, con
la sua risurrezione: la vigna del Signore ha esteso infatti le sue radici nel mondo
intero!
Grande fu l’evento conciliare e molti di voi, che mi leggete, ancora di certo
lo ricordate. Vi parteciparono 3.068 Padri, provenienti da quasi tutte le Nazioni.
Nei quattro suoi periodi (11 ottobre 1962 – 8 dicembre 1965) si svolsero 168 congregazioni generali e 10 sessioni pubbliche. Furono promulgati 16 documenti: 4
costituzioni, 9 decreti e 3 dichiarazioni.
Aggiungo, per dire della vastità dell’impegno, che se penso soltanto agli
“Atti” ufficiali di quel magno Sinodo, “vedo” nella mia biblioteca allineati 61 grossi volumi di un bel rosso vivo (non temete, siamo quasi giunti alla fine della titanica
opera, poiché ne manca solo uno, che uscirà alla fine di quest’anno! Speriamo comunque che poi giungano gli indici delle ultime undici fatiche del Prof. Carbone, il
curatore infaticabile del tutto).
Ma sono cominciati già ad apparire anche alcuni diari di “personaggi” conosciuti, o almeno attenti, partecipanti in vario modo al Concilio, da sottoporsi peraltro scrupolosamente al vaglio critico incrociato. La cosa sarà lunga e difficile, ma
essi potranno portare sapore e ingredienti personali utili alla storia, pur sottomessi
al giudizio degli Atti (fatti) ufficiali. Certo qui vi è rischio di uno scivolamento
verso una storia di frammenti, che in realtà non sfuggirebbe facilmente alla crona-
1 Ne è testimone la presentazione della Chiesa cattolica in Johann-Adam-Möhler-Institut,
Le Chiese cristiane del Duemila, Brescia 1998, 13: “La Chiesa cattolica si comprende, al di là
dei cambiamenti avvenuti all’interno della sua variegata storia, in non interrotta continuità con la
Chiesa apostolica”. Mi piace, a questo proposito, l’esclamazione ammirativa di O. Clément, lui
per la “Cappella di pietre dipinte” (Redemptoris Mater, in Vaticano; v. B. Forte in Il Sole-24 Ore
del 14.XI.1999, 36): “Rimango meravigliato davanti a questo straordinario dinamismo radicato
nella Tradizione”. La visione ecumenica di tale Cappella, ci ricorda per associazione di immagini, quanto lo stesso K. Schatz notava del Vescovo di Roma, in relazione con la tradizione, e cioè:
“grazie alla struttura del Primato la Chiesa cattolica ha una particolare opportunità di collegare
strettamente insieme stabilità e tradizione, da un lato, e dinamismo ed innovazione dall’altro”
(P. Hünermann (a cura di), Papato ed Ecumenismo. Il ministero petrino al servizio dell’unità
(= Nuovi saggi teologici, 48), Bologna 1999, 26.).
107
ca. Così chi segue con attenzione, da vicino, l’attuale evolversi dell’ermeneutica
conciliare non può non avere la sensazione di una certa dispersione in mille rigagnoli, quasi di una dissezione, vivisezione e scorticatura dell’evento fondamentale
ecclesiale, e non solo, in questo secolo ad un tempo “breve” e “lungo”.
1. Problematica soggiacente
In effetti, a tutto ciò è sottostante l’impegno di molti a togliere importanza ai
documenti conciliari stessi, sintesi di tradizione e aggiornamento, per far prevalere
un ben noto convincimento, che da sempre ho definito ideologico, il quale “punta”
soltanto sugli aspetti innovativi apparsi in concilio, sulla discontinuità, insomma,
rispetto alla Tradizione.
Lo testimonia anche un recente volume2 che, con tale finalità, in fondo “ricupera” l’attuale tendenza storiografica generale, la quale privilegia l’evento, la
discontinuità, appunto, il cambiamento, ovvero il mutamento traumatico, e ciò in
contrapposizione all’antecedente indirizzo dei famosi Annales che guardava piuttosto al periodo lungo, con sottolineatura della continuità storica (per Braudel la
storia è “una scienza sociale applicata che mette in luce strutture, sistemi, modelli
perenni anche se a prima vista invisibili”). E non ci si avvede, – o non si vuol rendersene conto – che se per avvenimento si intende non tanto un evento “degno di
nota”, ma una rottura, una novità assoluta, il nascere quasi di una nuova Chiesa, in
caso, una “rivoluzione copernicana”, il passaggio da un tipo di Cattolicesimo ad un
altro, – che ne perde però le caratteristiche inconfondibili – detta prospettiva non
potrà e non dovrà essere accettata, almeno per quanto concerne la Chiesa cattolica
e la storia che tenga conto della sua specificità, della continuità della sua realtà pur
misteriosa, da preservarsi anche nell’interpretazione dei suoi documenti.
A questo proposito, leggendo i contributi alla ricerca pubblicati nel citato volume, si rimane veramente sorpresi per le critiche, in fondo radicali, manifestate
a tre personaggi illustri quali sono Jedin, Ratzinger e Kasper (con le sue 4 ottime
regole ermeneutiche, a cui aderiamo pienamente. Ivi esse sono invece considerate astratte, e quindi tralasciate, anche per la sottolineatura della peculiarità, fra
i Concili, del Vaticano II), e allo stesso Poulat, al fine di portare avanti proprio
l’“evento”, inteso in modo particolare, e sempre con la nota finalità “ideologica”
sopra indicata.
Non è difficile rendersi conto, liberi da pregiudizi, che in tal modo quella che
fu una posizione estrema al Concilio Vaticano II, nella cosiddetta sua “maggioranza” – la definirei “oltranzista” (contraria cioè ad una costante e fattiva ricerca del
“consenso”, dell’abbraccio tra Tradizione e aggiornamento), sempre più desiderosa
Maria Teresa Fattori e Alberto Melloni (a cura di), L’evento e le decisioni. Studi sulle dinamiche del concilio Vaticano II, Imola 1997, 534. Vedi in Agostino Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, L.E.V., Città del Vaticano 2005, 223-232.
2 108
di imporre il proprio punto di vista, sorda ai “richiami” e all’opera di “cucitura” di
Paolo VI – è riuscita, dopo il Concilio, a monopolizzarne finora la interpretazione
dell’“evento”, rigettando ogni diverso procedere, che si vitupera magari di anticonciliare.
Il vero sottofondo, in tema di evento, a cui ci si richiama a proposito del Vaticano II, è ben delineato da E. Fouilloux, ancora nel volume al quale mi riferisco,
nello studio “La categoria di evento (“il suo ritorno”, come attesta E. Morin) nella
storiografia francese recente” (dagli anni ’50 circa). Non vi manca, giustamente,
l’analisi pure del legame stretto dell’esistenza storica dell’evento con la sua mediatizzazione (dice P. Nora: “perché ci sia evento, occorre che sia conosciuto”). E
“il Vaticano II risponde(rebbe) molto bene a questa definizione mediatica dell’evento”.
P. Hünermann, sempre nel citato volume, con richiamo al metodo di G. Gadamer, conclude, riassumendo, che: “l’evento del concilio può essere compreso come
la formazione di quella pragmatica che può essere espressa concettualmente come
dialettica topica (detto con il linguaggio delle “Ricerche filosofiche” del Wittgenstein). Questa dialettica topica (che rende possibile un consenso) costituisce, in forma radicalizzata e rinnovata, il movimento di fondo del concilio, quel movimento
unitario che ha collegato strettamente le innumerevoli singole attività, inserendole
in un flusso che ha prodotto, come frutto e risultato, quella nuova visione della
chiesa e della rivelazione la quale ha trovato la sua sedimentazione nei testi del
concilio” (ibid., 92).
2. L’intenzione di Papa Giovanni e il significato di T(t)radizione
Ma ritorniamo al pensiero iniziale (dello stesso Newman), quello che considera la Chiesa, come ogni organismo vivente, in continua crescita, all’interno
e all’esterno, pur rimanendo se stessa. Orbene, un tale sviluppo, di certo, implica
molteplici problemi, che riguardano la dottrina, il culto, la morale, la disciplina e
l’apostolato.
In genere – come si sa – alla loro soluzione provvede il magistero (l’insegnamento) ordinario dei Pastori, coadiuvato dai teologi uniti a tutto il Popolo di Dio, in
comunione con essi. A volte peraltro la complessità della materia o la gravità delle
circostanze storiche suggeriscono interventi straordinari.
Tra questi sono da considerarsi i concili i quali promuovono, nella fedeltà
alla Tradizione, lo sviluppo dottrinale, le riforme liturgiche e disciplinari e le scelte
apostoliche in considerazione altresì delle esigenze dei tempi (i famosi “segni dei
tempi”, che non costituiscono però una nuova Rivelazione). I sinodi risultano essere, in tale prospettiva, le pietre miliari del cammino della Chiesa nella storia.
Devo qui aprire una parentesi per far intravvedere il senso di “Tradizione”
(con la T maiuscola, si vede) e di tradizioni (con minuscola e al plurale), in visione
ecumenica, tenendo in conto i nostri lettori. A questo proposito rimando al recente “strumento” per una riflessione ermeneutica che porta il titolo “Un tesoro in
109
vasi d’argilla”3. Vi apparirà il tentativo di “comune comprensione della Tradizione
‘una’” (la prima parte del documento) e del significato delle molte tradizioni, ed
altresì dei concili ecumenici nella Chiesa antica. Comunque, già a stare solo alla
visione di tale “strumento di lavoro”, senza giungere alla pienezza – per noi, naturalmente – del pensiero cattolico, si capirà l’importanza fondamentale della Tradizione per chi cerca Cristo o crede cristianamente, poiché il tesoro del quale si parla
è proprio Lui. In effetti, essa significa “il Vangelo ‘uno’, la vivente Parola di Dio”4.
Riprendo il discorso, brevemente interrotto per specificare ecumenicamente
la nozione di Tradizione, al fine di sottolineare che la risoluzione di convocare un
concilio nacque nell’animo di Giovanni XXIII dal costatare la grave crisi che il decadimento dei valori spirituali e morali aveva causato alla società contemporanea.
A onor del vero, il ricorrere a una convocazione conciliare era stato pure un
pensiero soppesato e valutato dai suoi più immediati predecessori. Pio XI, infatti,
all’inizio del suo pontificato, nell’enciclica Ubi arcano manifestò il desiderio di
promuovere con tal mezzo la cooperazione di tutto l’episcopato al suo programma
di “fondare” tutte le cose in Cristo e la pacificazione dei Popoli. I tempi però non
erano propizi.
Anche durante il pontificato di Pio XII, nel 1948, riemerse l’idea di celebrare un concilio. Papa Pacelli, pur conscio delle difficoltà, fece avviare la preparazione presso la Congregazione del Sant’Ufficio. Furono istituite a tale scopo
una commissione centrale ed alcune sottocommissioni. Si determinarono altresì gli
argomenti principali. Peraltro nel 1951 Pio XII sospese definitivamente i lavori di
preparazione.
Giovanni XXIII, invece, ruppe gli antichi indugi ed annunciò, il 25 gennaio
1959, ai Cardinali riuniti nel monastero benedettino di San Paolo, la “buona nuo-
3 World Council of Churches (WCC), A Treasure in Earthen Vessels. An Instrument for
an Ecumenical Reflection on Hermeneutics (Faith and Order), Byalystok 1998, 42; testo disponibile su internet: http://archived.oikoumene.org/en/resources/documents/wcc-commissions/faithand-order-commission/iv-interpretation-the-meaning-of-our-words-and-symbols/a-treasurein-earthen-vessels-an-instrument-for-an-ecumenical-reflection-on-hermeneutics/a-treasure-inearthen-vessels-an-instrument-for-an-ecumenical-reflection-on-hermeneutics.html (24.8.2013).
Cf., da parte cattolica, l’ormai “classico”, di Y. Congar, La tradizione e le tradizioni, 2 vol.,
vol. I: Saggio storico, vol. II: Saggio teologico, Roma 1961 e 1965, 409 e 527, rispettivamente.
Di particolare utilità è la lettura del I capitolo del II vol. dal titolo “Analisi e sintesi dell’idea di
tradizione” (15-19), delle pagine (108-112) dedicate a “le tradizioni apostoliche” e dello schema
generale di 140 sq. Per la nostra attenzione ecumenica al problema, v. anche il cap. VII, sempre
del II vol., intitolato: “Il pensiero protestante contemporaneo di fronte al problema della tradizione” (407-468). Per l’“attualità”, dopo l’enciclica Ut unum sint, v. Paolo Ricca, “La papauté
en discussion. Attentes et perspectives pour le iiie millénaire”, Irenikon 70 (1997) 3140. Vi si
richiama, fra l’altro, la distinzione fra tradizioni e la “grande Tradizione” fatta dal Papa nel n. 39
di detta enciclica e si identifica quest’ultima, con un significativo “immagino”, nella “Tradizione
della Chiesa antica alla quale tutte le Chiese desiderano rifarsi”. Per il Giudaismo, cf. N. Rotenstreich, On the Notion of Tradition in Judaism, in Journal of Religion 28 (1948) 28-36.
4 WCC, A treasure in Earthen Vessels, op. cit., n. 15 e due note 8, nonché n. 18, 19, 27 e 32.
110
va” conciliare, precisando che il Sinodo avrebbe inteso principalmente promuovere
l’incremento della fede, il rinnovamento dei costumi e l’aggiornamento della disciplina ecclesiastica. Esso sarebbe stato uno spettacolo di verità, unità e carità, un
invito, anche per i fratelli separati, all’unità voluta da Cristo5. Il Papa pensò certo a
un concilio pastorale di aggiornamento – ecco la parola chiave ed intraducibile in
molte lingue straniere – ma ciò non deve intendersi come qualcosa di pratico, dinamico, quasi separato dalla dottrina. E inconcepibile, in effetti, una pastorale senza
dottrina, senza tradizione ecclesiale.
Giovanni XXIII ne trattò chiaramente nella sua prima enciclica, Ad Petri Cathedram. Egli additava nell’ignoranza, nel disprezzo e nel disconoscimento della
verità la causa e la radice di tutti i mali che avvelenano gli individui, i popoli, le nazioni e spesso turbano l’animo di molti. Tutti sono tenuti ad abbracciare la dottrina
del vangelo; al rigettarla, in effetti, son messi in pericolo i fondamenti stessi della
verità, dell’onestà, della civiltà.
Lo stesso Pontefice, nel discorso di apertura del concilio, l’undici ottobre
19626, affermò che il fine principale del Concilio era di custodire ed insegnare il
sacro deposito della dottrina cristiana in forma più efficace (di tradizione, dunque,
si trattava). Peraltro non si doveva soltanto custodirlo, tale deposito, né unicamente
ripetere quanto trasmesso dai Padri e dai teologi, ma anche integralmente trasmettere a tutti gli uomini, nella continuità del Magistero ecclesiastico, l’intera dottrina,
senza attenuazione o travisamenti, tenendo conto delle deviazioni, delle esigenze
e delle opportunità del nostro tempo. “Altra cosa è, infatti, il deposito stesso della
fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è la forma
in cui le medesime vengono enunciate”7.
Il Papa distingueva la sostanza, l’intera, precisa ed immutabile dottrina, e
la sua presentazione (formulazione). In linea con questo indirizzo pastorale Papa
Giovanni precisava il modo di opporsi agli errori. Alla severità egli preferiva “la
medicina della misericordia”. Conveniva perciò, con un insegnamento positivo,
mostrare agli uomini la verità sacra, sì che essi, illuminati dalla luce di Cristo,
potessero “ben comprendere quello che veramente sono, la loro eccelsa dignità, il
loro fine”. L’aggiornamento, dunque, era inteso, da chi lo volle “conciliare”, non
come rottura con il passato o contrapposizione di momenti storici, ma come crescita, perfezionamento del bene sempre in atto nella Chiesa. Il suo rinnovamento è
di fatto continuo.
AD, Series I, vol. I, 46.
AS, vol. I, pars I, 170 sqq.
7 Sulla questione circa il testo originario di questo importante discorso, vedasi V. Carbone,
Il Concilio Vaticano II, preparazione della Chiesa al Terzo Millennio, Città del Vaticano 1998,
35-39. L’autore così conclude la sua analisi: “l’identità sostanziale del testo italiano con quello
latino è certa, perché le differenze non toccano il senso”. Inoltre Giovanni XXIII citò egli stesso
la forma del “testo italiano a suo tempo pubblicato da L’Osservatore Romano, che veniva così
autorevolmente accreditato” (ibid., 39). L’importanza del discorso è data anche dal riferirsi ad
esso sia da parte di Paolo VI che di Giovanni Paolo II (ibid., 33).
5 6 111
3. L’intenzione di Paolo VI
Fedele interprete del pensiero del suo predecessore8, Papa Montini nella allocuzione ai Padri conciliari del 18 Novembre 1965 affermò: “Giovanni XXIII a
questa parola programmatica (aggiornamento) non voleva attribuire il significato
che qualcuno tenta di darle, quasi essa consenta di relativizzare secondo lo spirito
del mondo ogni cosa nella Chiesa (dogmi, leggi, strutture, tradizioni), mentre fu
così vivo e fermo in lui il senso della stabilità dottrinale e strutturale della Chiesa
da farne cardine del suo pensiero e della sua opera”9.
In effetti, Paolo VI, di formazione e carattere diversi dal suo predecessore,
mantenne la sua stella polare dello “sviluppo nella continuità”: il concilio proseguì
con le stesse finalità (pastorali)10 e speranze. Non sarebbe dunque nel vero – affermò Paolo VI – chi pensasse che il Concilio Vaticano II rappresenti un distacco, una
rottura o una liberazione dall’insegnamento della Chiesa, o autorizzi o promuova
un conformismo alla mentalità del nostro tempo, in ciò che essa ha di effimero e
di negativo11.
A conferma ricordo che, proprio nel giorno della sua incoronazione, (così si
chiamava a quel tempo l’inizio del ministero pastorale del Papa) Paolo VI attestò:
“Riprenderemo […] l’opera dei nostri predecessori: difenderemo la santa Chiesa
dagli errori di dottrina e di costume, che dentro e fuori dei suoi confini ne minacciano l’integrità e ne velano la bellezza; cercheremo di conservare ed accrescere la
virtù pastorale della Chiesa”12. E rimase fedele al suo impegno. Il 29 giugno 1978,
in un bilancio, quasi, del suo pontificato, ormai alla fine, dichiarò: “Ecco l’intento
instancabile, vigile, assillante che ci ha mossi in questi quindici anni di pontificato.
Mons. Capovilla, in una recente intervista al Corriere della sera, 3 agosto 1999, 27,
VIII col., ha affermato che la sintesi del pontificato giovanneo si trova nel binomio “fedeltà e
rinnovamento”. Papa Giovanni “non aveva smanie di innovazione […]. ‘Non si piega neppure
un lembo della bandiera’, disse. Ma sapeva che la sola ‘fedeltà’ avrebbe ridotto la Chiesa a museo, mentre il solo ‘rinnovamento’ l’avrebbe condotta all’anarchia. Cercò d’ispirare il Concilio
all’equilibrio fra questi due principi” (ibid.). Lo stesso fece Paolo VI cosa che, del resto, era “caratteristica della linea scelta dai belgi di conservare gli schemi preparatori (conciliari) come base
di lavoro” (cf. M. T. Fattori e A. Melloni (a cura di), L’evento e le decisioni, op. cit., 187 e 186,
152, 162 e 340). Indicativo a questo riguardo è il seguente pensiero del Philips (criticato, specie
da Dossetti, per il suo sforzo di conciliazione: ibid., 154): “non si tratta di far trionfare le nostre
idee personali, ma di arrivare a un consenso su ciò che la Chiesa intera può oggi accettare come
espressione della sua fede comune” (ibid.), senza “accettare compromessi sui principi di fondo”.
Non dispiaccia se concludo qui ricordando anche la “presenza conciliare” di Oscar Cullmann,
“che incarna un atteggiamento molto più pragmatico, teso a sottolineare un certo rispetto verso la
tradizione teologica e il ‘genio’ del cattolicesimo” (ibid., 257), perché ritengo che il suo pensiero
in fatto di cammino ecumenico può essere oltremodo utile.
9 AS, vol. IV, pars VI, 693 sq.
10 Ibid., vol. II, pars VI, 568 e vol. IV, pars VII, 660 sq.
11 Cf. Insegnamenti di Paolo VI, vol. IV, 1966, 699.
12 Ibid., vol. I, 1963, 26.
8 112
Fidem servavi! Possiamo dire oggi con l’umile e ferma coscienza, di non aver mai
tradito il santo vero”13.
Ebbene quello che il Papa Paolo VI attribuisce a sé, nel senso della fedeltà,
lo si deve certamente anche attribuire al Concilio Vaticano II, il quale proseguì con
spirito pastorale il cammino di promozione della fede cattolica e di rinnovamento
dei costumi e della disciplina ecclesiastica intrapreso dai concili che lo precedettero. A conferma di tale convinzione ricordo che l’otto marzo 1964 Paolo VI, nella
basilica di S. Pietro, ai pellegrini di Trento disse: “Lo spirito del Concilio di Trento
riaccende e rianima quello del presente Concilio Vaticano II, che a quello si collega e da quello prende le mosse per affrontare i vecchi ed i nuovi problemi rimasti
allora insoluti, o insorti nel volgere dei tempi nuovi”14.
Certo, il Vaticano II, per volere di Giovanni XXIII, è stato un grande Sinodo
pastorale ed ha perseguito un aggiornamento che voleva essere non rottura con il
passato o contrapposizione di momenti storici – come dicevo – ma crescita e perfezionamento del bene sempre in atto nella Chiesa. Il suo rinnovamento è dunque
continuo per l’azione creatrice e santificatrice dello Spirito e, in armonia con la
precedente tradizione dottrinale e disciplinare, il Vaticano II ne ha additati vasti
orizzonti nei documenti sulla Chiesa, la rivelazione, la liturgia, le Chiese orientali,
i vescovi, i sacerdoti, i religiosi, le missioni, ecc. Ma non si può ammettere una loro
interpretazione semplicistica, che presenti il magno Sinodo stesso come luogo di
scontro tra “conservatori” e “progressisti”.
A questo riguardo mi sembra degna di considerazione, per usare un linguaggio che sappia meno di parte, la proposta di ormai parlare, in modo più rispettoso
di tutti, di “conservatori” (nei confronti dell’esistente) e di “innovatori”, sempre
rispetto a una data situazione, anche se poi costoro possono far valere il fatto di
un ritorno, in effetti, a una tradizione magari più antica. Si supererebbe così indicazioni imprecise e confusioni fra tradizionalisti, tradizionali, integristi, integrali e
progressisti, fra i quali – va notato, comunque – vi sono anche gli oltranzisti, come
del resto tali furono al Concilio vari “conservatori”.
4. Un esempio di abbraccio: collegialità e primato pontificio
Credo sia opportuno, senza poterlo io qui fare su altri temi nodali, concretare
su un punto la presenza di nova et vetera nel Sinodo in parola e nella sua guida da
parte di Paolo VI, a conferma che “cattolica” è la congiunzione e, come scriveva
von Balthasar.
Ibid., vol. XVI, 1978, 521.
Ibid., vol. II, 1964, 156 sq. Diversamente pensa G. Ruggieri, Tempi dei dibattiti, tempo
del concilio, sempre in M. T. Fattori e A. Melloni (a cura di), L’evento e le decisioni, op. cit., il
quale, dopo una accentuata contrapposizione tra Giovanni XXIII e Paolo VI, critica Jedin per il
suo aver difeso la “continuità” del Vaticano II, rispetto all’epoca tridentina: “nessuna revisione,
ma completamento” (459-462).
13 14 113
In stringate e obiettive pagine, mons. Carbone così riassume l’iter decisivo
del rapporto conciliare primato-episcopato15:
Nei primi giorni del secondo periodo […] Paolo VI, al di sopra delle parti,
intervenne prontamente e sospese la votazione indetta dal moderatore per
il giorno 17 (ottobre 1963) su quattro proposizioni. La votazione suscitava problemi di contenuto del testo e di procedura che andavano chiariti,
per evitare che essa assumesse un valore che in quel tempo non poteva
avere, e condizionasse, quindi, la commissione dottrinale nell’emendare
lo schema e la libertà dei Padri nell’esaminarlo.
Con tenacia e pazienza Paolo VI si adoperò affinché i problemi, mediante
il dibattito sereno ed approfondito, fossero chiariti e si potesse raggiungere la maggioranza più larga possibile. Con prudenza e discrezione, seguì
il lavoro delle singole commissioni e, senza sostituirsi ad esse, concorse
a perfezionare gli schemi. I suoi interventi fermi, ma sempre delicati e
rispettosi, fecero superare i forti contrasti, favorirono l’unità dell’assemblea e il consenso moralmente unanime di essa sui documenti. Lo rico-
15 V. Carbone, Il concilio Vaticano II, op. cit., 69 sqq., 95 e ancora 150 sq. V. altresì L. A.
Tagle, Paolo VI e il concilio nel 1964, in M. T. Fattori e A. Melloni (a cura di), L’evento e le
decisioni, op. cit., 355-369, che affronta tale periodo conciliare particolarmente difficile, negli
ultimi suoi giorni, come dicevo, al cui centro si staglia la figura del Papa, il quale, “scrupoloso” e
“misuratore”, si trova peraltro all’origine di certe decisioni capaci di creare in alcuni inquietudine.
Perché e come Paolo VI agì?, si domanda Tagle. E risponde manifestando l’opinione che il suo
condurre a conclusione quel terzo periodo fu “un’espressione in atto del suo modo di intendere
ed interpretare la teologia della collegialità episcopale contenuta nella Lumen Gentium, specialmente in riferimento alla difficile questione delle salvaguardie delle prerogative papali […]. Senza
eliminare la reale influenza del suo temperamento, della sua formazione e delle sue personali
predisposizioni sugli eventi del 1964, credo si possa dire – attesta il Tagle – che i suoi atti hanno
semplicemente riflesso le tensioni dinamiche e le esitazioni contenute nell’insegnamento del concilio sul collegio episcopale e sul capo di quest’ultimo” (ibid., 357 sq.). Lo prova (v. specialmente
ibid., 360 sq.; dovrebbe essere peraltro precisato il giudizio sul “conferimento sacramentale del
potere di giurisdizione insieme al potere di ordine”, 361) ed egli conclude: “nessuno venne sconfitto, tutti vennero convinti” (ibid., 368); credo che così sia ben riassunto l’impegno del Papa, anche
se non mancarono e mancano gli scontenti. Fra gli ammiratori di Paolo VI ci piace ricordare, V.
Borovoij, Il significato del Concilio Vaticano II per la Chiesa ortodossa russa, in A. Melloni (a
cura di), Vatican II in Moscow (1959-1965), Leuven 1997, 73-89, che come si sa fu il più in vista
degli osservatori russi al Sinodo. Egli, dopo aver presentato “il significato del Concilio Vaticano II
per la Chiesa ortodossa russa”, rivela una grande simpatia e “compassione” nei confronti di Papa
Paolo VI: “abbiamo sempre visto, capito e condiviso pienamente le sollecitudini del papa per il
mantenimento dell’unità e della conciliazione all’interno della Chiesa”, “tra tendenze diverse”,
conservandosi “insieme alla piena libertà di discussione” “la possibilità di poter prendere decisioni concordi” (ibid., 87). “L’esperienza del Concilio Vaticano II è stata per la Chiesa cattolica una
scuola e un laboratorio di conciliarità e di conciliazione nella Chiesa (ibid.). [Cf. anche A. Marchetto, Nella prospettiva della Chiesa ortodossa russa, in Id., Il Concilio Ecumenico Vaticano II.
Per la sua corretta interpretazione, L.E.V., Città del Vaticano 2012, 298-304. Nota del curatore.]
114
nobbero gli stessi Padri delle opposte tendenze, ai quali quegli interventi
– in un primo momento – non erano riusciti graditi. Fu un lavoro lungo e
difficile, che procurò al mite e paziente Pontefice tanta amarezza e sofferenza. Il cardinale König lo ha definito “il martire del concilio”.
Un momento di particolare sofferenza, (in tale visione) fu il ricevere, alla
vigilia del terzo periodo conciliare, la sera del 13 settembre 1964, una
lunga “Nota personalmente riservata al Santo Padre” sullo schema della Chiesa, principalmente sul cap. III: “La costituzione gerarchica della
Chiesa e in particolare l’episcopato”. Gliela inviarono diciotto cardinali,
un arcivescovo e quattro superiori generali. Le dottrine, contenute nel
testo, venivano dette nuove, non certe, non solidamente probabili, vaghe,
l’argomentazione era giudicata debole, fallace e parziale.
Si avanzavano, poi, gravi riserve sul modo in cui si parlava del primato
del Papa, della potestà e della collegialità dei vescovi, della successione
del collegio episcopale al collegio apostolico. Si affermava, infine, che
la Chiesa veniva mutata da monarchica in episcopaliana e il primato del
Papa restava intaccato. Si suggeriva, quindi, di separare il cap. III dallo
schema della Chiesa, di procedere ad una nuova redazione e di rimandarne la discussione ad altro tempo […].
Paolo VI, che aveva seguito con somma attenzione il dibattito sulla collegialità e la redazione dello schema, nel leggere la “Nota”, provò “sorpresa
e turbamento”, per il numero e la dignità dei firmatari, per la gravità delle
contestazioni […] e per le gravi e rovinose ripercussioni, se si fossero
accolti i suggerimenti che venivano dati […]. Il 18 ottobre il Papa, con
una nobile lettera autografa di otto fogli, senza asprezza e risentimento,
rispose alle singole affermazioni della “Nota”.
Respinse, con serenità e garbo, le accuse contro il contenuto dello schema
e leasserite manovre e pressioni nella redazione di esso. Accennò ai suoi
interventi per garantire l’integrità e l’ortodossia della dottrina, ed aggiunse: “Noi siamo sempre sensibili al richiamo rivolto, in così straordinario
momento, alla nostra somma responsabilità già resa vigilante da vive orazioni al Signore e dall’offerta a Lui fatta dell’umile nostra vita, affinché
la nostra testimonianza sia fedele alla purezza dei suoi insegnamenti e al
vero bene della santa Chiesa”. Assicurò che sarebbe continuato il suo impegno nel seguire la redazione dello schema, per apportarvi gli eventuali emendamenti, richiesti dall’ortodossia della dottrina e dalla chiarezza
dell’esposizione. Prova di tale impegno fu la Nota explicativa praevia che
egli volle al cap. III dello schema sulla Chiesa.
Essa liberò il testo dalle implicazioni e potenzialità che avrebbero potuto dare
origine a distorte interpretazioni, e non era in contraddizione – secondo il giudizio
che più tardi ne diede lo stesso Philips, noto teologo e “ricucitore”, in parte, della
Lumen Gentium – con il relativo testo conciliare. Cessate le perplessità, nella votazione della sessione pubblica del 21 novembre si ebbe l’approvazione unanime:
2151 placet, 5 non placet.
115
Poi, terminato il Concilio, Paolo VI ne iniziò subito l’attuazione: riforma liturgica, revisione del Codice di Diritto canonico, riforma della Curia romana, istituzione di nuovi organismi, inizio delle riunioni dei sinodi dei vescovi. Fu quello
un periodo decisivo ed oltremodo delicato. Nel susseguirsi di cambiamenti e di
nuovi orientamenti, si notarono situazioni di reazione e tentativi di ritorno indietro
o di fughe in avanti.
Certo, quel consenso sinodale, quasi unanime, raggiunto in Concilio, fu messo
a dura prova, perché ciascuno aveva propensione a seguire (ed è vero anche oggi)
la tendenza di prendere, di esso, per sé e per la comunità, quanto collimava con la
propria visione, o, peggio, “ideologia”, senza accettazione totale dell’insieme, del
corpus, dei 16 testi conciliari che “rappresentano ciò che il Sinodo, nel bene e nel
male, fu d’accordo nel dire […] essi sono invocati giustamente come l’espressione
determinata delle sue intenzioni e decisioni”16.
16 V. J. A. Komonchak, Riflessioni storiografiche sul Vaticano II come evento, in M. T.
Fattori e A. Melloni (a cura di), L’evento e le decisioni, op. cit., 421. Il suo contributo illumina
la problematica dell’“esegesi” conciliare. Aggiungiamo però che fra i “tipi di interpretazioni
del concilio”, “grosso modo” tre (ibid., 420), secondo l’autore, manca almeno quello che lo
considera un “grande avvenimento”, e in questo senso è “evento”, ma “cattolico”, cioè capace
di mettere insieme evangelicamente, come dicevo, nova et vetera. Posso dire che in questo tipo
mi ritrovo? Porto un esempio, per farmi meglio capire. Nella Costituzione Dei Verbum l’A.
nota che il testo finale “fu certamente immaginato per esprimere qualcos’altro che la semplice
‘riconferma della continuità del cattolicesimo’” (ibid., 424). È evidente che quel “semplice” è
introdotto abusivamente perché manca l’altro termine conciliare, dopo “cattolicesimo”, e cioè
“nell’aggiornamento” (v. del resto il seguente “ricupero” dell’autore: “i due campi […] hanno
forse avuto più tratti in comune di quanto sembrava a prima vista” (ibid., 434); nel contributo alla
ricerca successivo, v. 443 e 450. I due aspetti vanno insieme (lo stesso vale anche per ibid., 426).
Sull’onda di tale pensiero mi pare trovi spazio l’intervento di G. Routhier, Orientamenti per lo
studio del Vaticano II come fatto di ricezione, in M. T. Fattori e A. Melloni (a cura di), L’evento
e le decisioni, op. cit., 465-499, tema su cui si è parlato molto negli ultimi venti anni, cosa che
può aver portato “a trascurare l’analisi dei processi di ricezione in atto al suo (del concilio) stesso
interno” (ibid., 466). Vi si parla della ricezione della Scrittura, del simbolo della fede, dei Concili precedenti, dell’insegnamento del Magistero ordinario, della consuetudine, della vita delle
Chiese, della cultura (con applicazione azzardata alla “cultura democratica”: ibid., 484), e ancora
della “ricezione negativa operata dal Vaticano II” (ciò che il Concilio non ha voluto ricevere,
con erronee applicazioni, peraltro: ibid., 484 sq.) di quella, interna, delle affermazioni contenute
nei documenti conciliari precedenti. Certo la questione della ricezione è profondamente legata
al tema di questo articolo. Nonostante le mie grandi riserve per molte delle affermazioni di vari
autori, debbo accontentarmi di citare il volume H. Legrand, J. Manzanares, A. García y García
(a cura di), Recezione e comunione tra le Chiese. Atti del Colloquio internazionale di Salamanca,
8-14 aprile 1996, Bologna 1998, specialmente 51 sq., 105 sqq., 108, 344 e soprattutto 438: “il
ruolo normativo spetta alla tradizione e non alla ricezione” e, nella stessa linea, 440. La mia presentazione critica del volume è pubblicata in A. Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II.
Per la sua corretta interpretazione, op. cit., 1524. Un’ultima citazione varrà la pena di fare, e la
traggo da L. Scheffczyk, La Chiesa. Aspetti della crisi postconciliare e corretta interpretazione
del Vaticano II, Como 1998, 21: “ogni interprete od ogni gruppo coglie solo ciò che corrispon-
116
5. Dialogo e consenso, in concilio, per giungere all’abbraccio tra rinno‑
vamento e Tradizione
Ho fatto riferimento, sopra, al consenso sinodale, perseguito instancabilmente
da Paolo VI, come espressione della Catholica, dell’unitas in necessariis (unità
nelle cose necessarie), per noi “incarnazione” del combinarsi di Tradizione e rinnovamento nel magno Sinodo Vaticano. Certamente è questa una categoria diversa
dal consensus unanimis proclamato come conditio sine qua non delle decisioni
dogmatiche conciliari (lo pretendeva la minoranza al Sinodo Vaticano I)17. Ma rimane l’anima di verità dell’opportunità e dell’importanza del consenso, come giusto modo di procedere conciliare. La sua assenza o carenza è infatti un qualcosa
che si deve poi “pagare” a caro prezzo, come insegna la storia dei Sinodi. Di fatto
“l’esempio di molti concili importanti – da quello di Calcedonia al Vaticano II,
passando per il concilio di Trento – che si sono preoccupati faticosamente di raggiungere il consenso è una testimonianza della sua grande importanza e del suo
carattere di segno, soprattutto nel senso che la verità non viene ‘decisa’ (mediante
votazione), ma ‘attestata’ (mediante il consenso)”18.
E qual’è il cammino per raggiungerlo se non quello del dialogo? Conoscendo
la ricchezza e le contraddizioni della cultura moderna, le aspirazioni, le speranze,
le gioie e le tristezze, le delusioni e le difficoltà dell’uomo contemporaneo19, Paode ai suoi preconcetti, anche a quelli della ‘maggioranza’”. Il volume è inteso a ripresentare la
“dottrina del Concilio Vaticano II: progresso e continuità”, mostra cioè appunto la piena continuità dell’insegnamento integrale del magno Sinodo con la dottrina ecclesiologica precedente,
evidenziandone altresì lo sviluppo e il progresso, nella comprensione del mistero della Chiesa
stessa. L’altro aspetto fondamentale, nell’analisi del card. Scheffczyk, è la costatazione di una
divergenza tra la proposta di rinnovamento conciliare e quella del post-concilio, conseguenza
(anche, aggiungo io) di una interpretazione unilaterale, selettiva e ultimamente fuorviante del
pensiero conciliare stesso.
17 Cf. K. Schatz, Storia dei Concili. La Chiesa nei suoi punti focali, Bologna 1999, 233.
18 Ibid.
19 L. Scheffczyk, La Chiesa, op. cit., nella prefazione, delinea la problematica situazione
ecclesiale odierna – “la fraternizzazione avventata e non critica del cristianesimo con lo spirito
del tempo […] (in una prospettiva) di irrazionalismo postmoderno, quali una religiosità vaga e
una presunzione gnostica” – che fa da sfondo al suo lavoro teologico, il quale si basa, invece, su
una fedeltà all’identità della Chiesa, creazione della Parola. Essa ha origine situata, in effetti, nella sovratemporalità della Rivelazione, nonostante l’aderenza al proprio tempo. È qui in questione
la continuità stessa della Chiesa cattolica, pur nel contemporaneo aggancio con il “progresso”.
Nella sua conclusione, “lo sguardo rivolto al compimento” (ibid., 180-183), il card. Scheffczyk
attesta che “il credente guarda allo stato della Chiesa in ogni tempo solo tramite la concezione del
tempo cristiano, determinato da due date limite: la venuta di Cristo nella ‘pienezza dei tempi’ e
l’avvenimento escatologico del ritorno del Signore nel giudizio e nella trasfigurazione. Tra questi
due pilastri oscilla il ponte del ‘tempo intermedio’, nella dialettica inestinguibile tra il ‘già’ e il
‘non ancora’ dell’esistenza ecclesiale, portata a sintesi nella speranza. E anche il tempo dei mea
culpa del Popolo di Dio, della critica condotta con il dono del discernimento, che non è però da
paragonare alla presente critica patologica rivolta alla sostanza della Chiesa e avente come sco-
117
lo VI, seguendo l’interiore impulso di carità, cercò di calarsi in esse perché – disse
– “il mondo non si salva dal di fuori”.
Egli fu assiduo banditore e promotore del dialogo con tutti gli uomini di buona volontà: con i cristiani separati, con i non-cristiani, con i non credenti. “La Chiesa – attestò – deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere; la Chiesa
si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio”20. Egli, in seguito,
affermò espressamente: “A noi specialmente, pastori nella Chiesa, incombe la cura
di ricercare con audacia e saggezza, in piena fedeltà al suo contenuto, i modi più
adatti e più efficaci per comunicare il messaggio evangelico agli uomini del nostro
tempo”21. Trattasi del dialogo della salvezza, che incontra la sua origine trascendente nella intenzione stessa di Dio. Ne sono caratteri la chiarezza, la mitezza, la
fiducia e la prudenza. “Nel dialogo, così condotto, si realizza l’unione della verità
con la carità, dell’intelligenza con l’amore”22.
Con forza Paolo VI affermò che il dialogo deve restare immune dal relativismo, che intacchi l’immutabile dottrina della fede e della morale: “La sollecitudine
di accostare i fratelli non deve tradursi in un’attenuazione, in una diminuzione della
verità”; “il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso
la nostra fede”; “non si può transigere con i principi teorici e pratici della nostra
professione cristiana”23.
Percepisce il nostro paziente lettore tutti i legami che qui vi sono con il Vaticano II, con il suo procedere, con la ricerca di un dialogo all’interno anche della
Chiesa cattolica, con la procura costante e fervida del consenso, con il desiderio
po la creazione di un’altra Chiesa futura” (ibid., 182). “L’apertura alla Chiesa del compimento
permette (invece) non solo una visione realistica delle ferite sorte dalla debolezza e dai peccati
degli uomini: essa permette di comprendere anche le prove, i danni e le sofferenze apostoliche”
(ibid.) che prendono forma del martirio. Esso “non si adatta al concetto di una Chiesa che dice
agli uomini solo ciò che essi vogliono sentire (che in fondo già sanno da tutti i ‘media’) e si è
adattata in tutto e per tutto allo spirito del tempo” (ibid., 183). Eppure “è l’intimo legame tra la
creazione naturale e la redenzione soprannaturale a obbligare i cristiani e la Chiesa pellegrina
a rivolgersi al mondo”. Ecco l’ultima pennellata: “Per la Chiesa pellegrina esiste un ‘compito
politico’, ma questo compito ha un carattere proprio, non compatibile con la politica profana.
Questo compito non può essere eseguito solo in vista di un futuro immanente, ma dev’essere motivato dal fine ultimo del compimento. Ciò dà al compito terreno anche un’altra determinazione
di contenuto: accanto alle promozioni delle cose temporali deve comparire il sovrannaturale, che
la Chiesa nel suo essere permanente deve rappresentare e documentare” (ibid., 183). Utile, a tale
proposito, può essere la mia presentazione critica del volume di F. X. Kaufmann, A. Zingerle (a
cura di), Vatikanum II und Modernisierung. Historische, theologische und soziologische Perspektiven, Paderborn 1996, 423, in L’Osservatore Romano, 10 giugno 1998, 10, ristampata in A.
Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrapunto, op. cit., L.E.V., Città del Vaticano
2005, 233-237.
20 Paolo VI, Enciclica Ecclesiam suam, in AAS 56 (1964) 639.
21 Paolo VI, Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, n. 40, in AAS 68 (1976) 31.
22 Paolo VI, Enciclica Ecclesiam suam, op. cit., 645.
23 Ibid., 647.
118
continuamente rinnovato, e attuato, affinché rinnovamento e Tradizione dialoghino
tra di loro e ci sia una saldatura tra l’antico e il nuovo? Il Vaticano II si trovò a sancire l’avvenuto sviluppo teologico e a tradurlo nell’azione pastorale, in risposta alle
esigenze dei tempi, nella continuità della dottrina.
In effetti la Chiesa, – immutabile per la intrinseca vitalità che le viene da
Cristo capo del Corpo Mistico e dal suo Spirito, in fedeltà al Padre – anche mediante l’opera dei Concili, si perfeziona, rimanendo però essenzialmente la stessa.
Essa si arricchisce di nuovi dogmi ed ordinamenti, ma senza alcuna alterazione del
sacro deposito della dottrina affidatole da Cristo stesso. Bossuet scrisse: “Bisogna
tener per certo che noi non ammettiamo alcuna nuova rivelazione, e che è la fede
espressa dal concilio di Trento che ogni verità rivelata da Dio è venuta di mano in
mano fino a noi; ciò che pure ha dato luogo a quell’espressione, che domina tutto il
Concilio, che il dogma ch’esso stabilisce è stato sempre inteso come esso lo espone: sicut Ecclesia catholica semper intellexit. Secondo questa regola si deve tener
per certo che i Concili ecumenici, quando si pronunziano su qualche verità, non
propongono nuovi dogmi, ma non fanno che dichiarare quelli che sono sempre stati
creduti, ed esplicarli soltanto in termini più chiari e più precisi”24.
Non vorrei concludere senza un invito – se mi è concesso – affinché anche
oggi, come in concilio, continui nella Chiesa il dialogo nella ricerca di un consenso, dell’incarnazione cioè dell’eterna verità-bellezza, tanto antica e sempre nuova,
nella fedeltà alla Tradizione e nel rinnovato aggiornamento25.
J.-B. Bossuet, Lettera n. 32, a Leibniz, in Id., Œuvres, vol. II, Paris 1846, 716.
Il contributo è stato pubblicato in A. Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II.
Contrappunto per la sua storia, op. cit., 358-370.
24 25 119
Das Zweite Vatikanische Konzil
aus kirchenrechtlicher Sicht
Die Konstitution Sacrae disciplinae leges
Agostino Marchetto
„Die katholische Kirche pflegte im Laufe der Zeit die Gesetze der kirchlichen
Lebensordnung zu revidieren und zu erneuern, damit diese bei steter Wahrung der
Treue gegenüber ihrem göttlichen Stifter in geeigneter Weise der ihr anvertrauten
Heilssendung entsprechen“. So beginnt die Apostolische Konstitution Sacrae disciplinae leges, mit der die Neukodifizierung des kirchlichen Gesetzbuches promulgiert wurde. Indem Papst Wojtyla auf diese Weise zwei fundamentale Komponenten des Katholizismus, nämlich die Treue zur Tradition und die Erneuerung bzw.
Reform, die die Disziplin angemessen der Zeit anpasst, treffend zusammenfügte
(siehe unten in der Konstitution das Wortpaar „Treue in der Neuheit und Neuheit
in der Treue“), unterstrich er, dass das Zweite Vatikanische Konzil von größter
Bedeutung für den neuen Codex ist, weil es dessen Fundament berührt. Im übrigen
war es das Konzil selber, das dadurch, dass es seine Aufmerksamkeit vorzugsweise
der Kirche (ad intra und ad extra) widmete, die Reform des Codex, aus der S.d.l.
die liturgischen Bestimmungen allerdings ausschließt, angestoßen, ja gefordert zu
haben schien.
Die Konstitution unterstreicht jedenfalls die Assonanzen und Kennzeichen,
die der Codex vom Konzil geerbt hat, angefangen mit dem
„Merkmal der Kollegialität, durch das sich der Entstehungsprozess dieses Codex in hervorragender Weise auszeichnet und das vollkommen der
Lehre und dem Charakter des II. Vati­kanischen Konzils entspricht. Und
deshalb lässt der Codex nicht nur auf Grund seines Inhalts, sondern schon
am Beginn deutlich den Geist dieses Konzils erkennen, in dessen Dokumenten die Kirche, das „allumfassende Heilssakrament“ (vgl. Lumen
gentium, 9, 48), als Volk Gottes dargestellt wird und ihr hierarchisches
Gefüge auf das Kollegium der Bischöfe zusammen mit ihrem Haupt gegründet erscheint.
Aus der besagten Konstitution ergibt sich darüber hinaus, dass dieses „Merkmal“ der Kollegialität in vollem Einklang mit der potestas, der Primatialgewalt des
Papstes, steht, auch hier mit offenkundigem konziliarem Ansatz. Ebenfalls im Einklang mit dem synodalen Weg (vgl. die dogmatische Konstitution Dei Verbum) geht
der Codex auf „jenes ferne Rechtserbe“ zurück, „das in den Büchern des Alten und
des Neuen Testaments enthalten ist und in dem die gesamte juridisch-gesetzgeberische Überlieferung der Kirche gleichsam aus erster Quelle ihren Ursprung hat“.
Nachdem er auf das Vorhandensein der grundlegenden Elemente der hierarchischen und organischen Struktur der Kirche und zudem auf die wichtigsten
Normen zur Ausübung des dreifachen der Kirche übertragenen Dienstamtes hingewiesen hat, macht Johannes Paul II. geltend, dass das Instrument, das der Codex ist,
123
„voll dem Wesen der Kirche entspricht, wie es vom Lehramt des II. Vati­
kanischen Konzils ganz allgemein und besonders in seiner Ekklesiologie
dargestellt wird. Ja, dieser neue Codex kann gewissermaßen als ein großes Bemühen aufgefasst werden, die Ekklesiologie des Konzils in die
Sprache des Kirchenrechts zu übersetzen. Wenn es auch unmöglich ist,
das von der Lehre des Konzils gezeichnete Bild der Kirche vollkommen
in die kanonistische Sprache zu übertragen, so muss der Codex doch immer in diesem Bild, soweit das möglich ist, seinen festen Bezugspunkt
haben. […] Ja, man kann sagen, dass daraus auch jenes Wesensmerkmal herrührt, aufgrund dessen der Codex als Vervollständigung der vom
II. Vatikanischen Konzil vorgestellten Lehre angesehen wird, insbesondere was die dogmatische und die Pastoralkonstitution betrifft.
Etwas später führt Johannes Paul II. genau die Elemente an, „die das wahre
und besondere Bild der Kirche zum Ausdruck bringen“, darunter werden vor allem
folgende erwähnt:
die Lehre, durch die die Kirche als das Volk Gottes (vgl. Lumen gentium, Nr. 2) und die hierarchische Autorität als Dienst dargestellt wird
(vgl. ibid., Nr. 3); außerdem die Lehre, die die Kirche als Gemeinschaft
ausweist und daher die notwendigen Beziehungen festlegt, die zwischen
den Teilkirchen und der Universalkirche und zwischen Kollegialität und
Primat bestehen müssen; ebenso die Lehre, nach der alle Glieder des Gottesvolkes, jedes auf seine Weise, an dem dreifachen – dem priesterlichen,
dem prophetischen und dem königlichen – Amt Christi teilhaben; mit
dieser Lehre verbunden ist jene, die sich auf die Rechte und Pflichten
der Gläubigen und insbesondere der Laien bezieht; und schließlich der
Einsatz, den die Kirche für den Ökumenismus aufbringen muss.
Hiermit haben wir eine solide Grundlage, um uns jetzt aus kanonistischer
(kirchenrechtlicher) Sicht mit dem II. Vati­kanischen Konzil auseinanderzusetzen,
wobei wir die Analyse natürlich auf einige große Linien – mit besonderem hermeneutischen Interesse für diese letzten Jahre – eingrenzen. Die rechte Aufnahme und
Durchführung des Konzils, die auch über den Respekt und den Gehorsam gegenüber
dem neuen Codex verläuft, erfordert eine korrekte hermeneutische Interpretation.
1. Eine korrekte Hermeneutik
In diesem Zusammenhang verweise ich auf die II. Außer­ordent­liche Generalversammlung der Bischofssynode, Synodus Episcoporum (1985)1.
1 Segreteria generale del Sinodo dei vescovi (a cura di), Enchiridion del Sinodo dei
Vescovi, vol. 1, 1965-1988, EDB, Bologna 2005, 2282-2361. Mit Ergänzungen in Synode extra-
124
Außerdem wird man wenigstens zwei von Latourelle herausgegebene Bände2 und den Band von Fisichella3 sowie die Werke von Ghirlanda4, Carbone5 und
Scheffczyk6 konsultieren müssen.
Für die kritische Prüfung der Werke über die Geschichte des Konzils insgesamt verweise ich auf meinen „Kontrapunkt“7, die erste Geschichte der Geschichtsschreibung über das große Konzil, und außerdem auf den Band „Kirche
und Papsttum in der Geschichte und im Recht“8. Für eine Zusammenfassung wird
man hingegen auf zwei meiner Artikel9 zurückgreifen und das Buch berücksichtigen müssen, das ich für die beste kurze Konzilsgeschichte halte10. Nicht unerwähnt
lassen kann man schließlich die für Hermeneutik entscheidende Ansprache von
Papst Benedikt XVI. an die Römische Kurie am 22. Dezember 2005.
Um nun einige Konzilsaspekte, die ich im Zusammenhang mit Sacrae disciplinae leges für grundlegend erachte, zu veranschaulichen, lege ich zunächst diesen
Ausdruck in drei Punkten dar, das heißt, das Ereignis, die Umarmung zwischen
Tradition und Erneuerung, und zwei maßgebende und grundlegende Bereiche, die
es bezeugen, während ich mich danach Lumen gentium und den Zeichen der Zeit
(Gaudium et spes) zuwenden werde.
ordinaire. Célébration de Vati­can II, Cerf, Paris 1986, freilich ein in mehreren Aspekten voreingenommenes Werk.
2 René Latourelle (a cura di), Vaticano II. Bilancio e prospettive venticinque anni dopo
(1962-1987), Cittadella, Assisi 1987.
3 Rino Fisichella (Hg.), Il Concilio Vaticano II. Ricezione e attualità alla luce del Giubileo,
2 Bde., Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2000.
4 Gianfranco Ghirlanda, Hierarchica Communio. Significato della formula nella Lumen
Gentium (= Analecta Gregoriana, Bd. 216, Series Facultatis Iuris Canonici: Sectio A, n. 9), Università Gregoriana Editrice, Roma 1980.
5 Vincenzo Carbone, Il Concilio Vaticano II. Preparazione della chiesa al Terzo Millennio,
L.E.V., Vatikan 1998.
6 Leo Scheffczyk, Aspekte der Kirche in der Krise. Um die Entscheidung für das authentische Konzil (= Quaestiones non disputatae, Bd. 1), Schmitt, Siegburg 1993; ital. Ausgabe: Id., La
Chiesa, Aspetti della crisi postconciliare e corretta interpretazione del Vaticano II, con presentazione di J. Ratzinger, Jaca Book, Como 1998.
7 Agostino Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia
(= Storia e Attualità XVII), L.E.V, Vatikan 2005, 406 S. [Siehe auch Id., Il Concilio ecumenico
Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica (= Storia e Attualità XVIII), L.E.V., Vatikan 2012,
380 S. – Anm. d. Hg.]
8 Agostino Marchetto, Chiesa e Papato nella storia e nel diritto. 25 anni di studi critici
(= Storia e Attualità XVI), L.E.V., Vatikan 2002, 771 S.
9 Agostino Marchetto, Il Concilio Vaticano II: tendenze ermeneutiche dal 1990 al 2000,
Archivum Historiae Pontificiae 38 (2000) 371-386; Id., Il Concilio Vaticano II: considerazioni su
tendenze ermeneutiche di questi ultimi anni, in Jus Ecclesiae 15 (2003) 187-202.
10 Annibale Zambarbieri, I Concili del Vaticano (= Storia della Chiesa. Saggi, Bd. 10),
Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1995.
125
1.1. Das Ereignis
Im allgemeinen gebrauchen wir diesen Begriff, wenn wir ihn auf das Konzil
anwenden, ziemlich leichtfertig, weil wir uns nicht all dessen bewusst sind, was
ihm zugrunde liegt, nämlich nicht nur der Hinweis auf ein großes und bedeutendes
Geschehen. Davon ausgehend und im Zusammenhang mit einer allgemeinen profanen Tendenz in der Geschichtsschreibung, welche – im Gegensatz zur früheren
Form der Geschichtsdarbietung, den berühmten „Annalen“, in denen man sich unter
Wahrung der historischen Kontinuität einen mehr oder weniger langen Zeitabschnitt
anschaute (F. Braudel) – die Unbeständigkeit, die Veränderung, ja den traumatischen Umbruch bevorzugt, hat sich in der geschichtlichen Darstellung des Zweiten
Vati­kanums eine von mir von Anfang an als ideologisch, extrem, ja als extremistisch
bezeichnete, nicht einvernehmliche Sicht geradezu monopolistisch durchgesetzt.
Diese Sichtweise betrachtet das große Konzil als Bruch, als etwas absolut
Neues, gleichsam als die Geburt einer neuen Kirche, als eine kopernikanische Wende, als Übergang von einer Form des Katholizismus zu einer anderen, was ihr Wesensmerkmal der Kontinuität auch in der notwendigen Verkörperung im Heute (also
verbunden mit der Erneuerung, mit dem Aggiornamento) zerbricht. Diese Sicht der
Geschichte wird also, was den Katholizismus und die Geschichte betrifft, die seine
Besonderheit, nämlich die Kontinuität der katholischen Wirklichkeit – wie sie Newman sah – betrachtet und zudem in der Interpretation ihrer Ereignisse und Dokumente bewahrt werden soll, nicht angenommen werden können und dürfen11.
In Bezug auf die Konzilsdokumente haftet der aktuellen monopolistischen
Tendenz der Geschichtsschreibung noch ein zweites Merkmal an, nämlich die Entwertung der Dokumente. Man wird allerdings das Konzilsereignis und die Konzilsbeschlüsse, die das Merkmal des Konsenses und der Einheit tragen, nicht voneinander trennen dürfen (der „konziliare Geist“ gehört zu diesem corpus!). Die Texte
dürfen demnach weder entwertet noch ad usum delphini (der törichten Verwendung durch Unbedarfte) überlassen werden (auch weil dadurch dem Prozess ihrer
Rezeption Schaden zugefügt wird), auch wenn man ihr „literarisches Genus“, die
Kriterien für den Einsatz eines jeden von ihnen und die behandelten Themen berücksichtigt. Wir sind deshalb der Meinung, dass man nicht zum Konzilsgedanken
als solchem – qua talis – gelangen kann, wenn man von der Sorge um jenen Konsens absieht (die Suche nach diesem Konsens war das Martyrium Pauls VI., wie
Kardinal König einmal sagte). Zudem sind nur die definitiven (endgültigen) Texte
„maßgebend“. Ein großes Ereignis war das Konzil auf alle Fälle. 3.068 Konzilsväter aus fast allen Nationen der Erde nahmen daran teil. In den vier Sitzungsperioden
(11. Oktober 1962 bis 8. Dezember 1965) fanden 168 Generalkongregationen und
10 öffent­liche Sitzungen statt. Es wurden 16 Do­ku­men­te verkündet: 4 Kon­sti­tu­
tionen (Sacrosanctum Concilium, Lumen Gentium, Dei Verbum und Gaudium et
Spes); 9 De­krete (Inter Mirifica, Orientalium Ecclesiarum, Unitatis Redintegratio,
Christus Dominus, Perfectae Caritatis, Optatam Totius, Apostolicam Actuositatem,
A. Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto, op. cit., 223-232.
11 126
Ad Gentes, Presbyterorum Ordinis) und drei Erklärungen (Gravissimum Educationis, Nostra Aetate, Dignitatis Humanae).
1.2. Auf dem Konzil haben sich Tradition und Erneuerung umarmt
Mit diesem – wie aus Sacrae disciplinae leges klar hervorgeht – fundamentalen Punkt setze ich mich in meinem zitierten Band12, ausgehend von der Intention
von Johannes XXIII. zur Einberufung eines Konzils und von der Bedeutung der
Tradition, auseinander. Der Papst unterschied zwischen der Substanz, dem Wesen,
der gesamten präzisen und unveränderlichen Lehre und ihrer Darstellung (Formulierung). Das Aggiornamento wurde daher von denen, die es „durch das Konzil
vermitteln“ wollten, nicht als Bruch mit der Vergangenheit oder als Gegensätzlichkeit geschichtlicher Vorgänge, sondern als Wachstum, als in der Kirche stets stattfindende Vervollkommnung des Guten verstanden. Ihre Erneuerung geht in der Tat
kontinuierlich vor sich. Betrachtet man dann die Intention Pauls VI., stellt er sich
als treuer Interpret des Denkens seines Vorgängers – so bezeichnete ihn übrigens
Msgr. Capovilla, der Privatsekretär von Papst Roncalli – und nicht, wie die Bologneser „Werkstatt“ (Alberigo) behauptet, als sein Totengräber heraus.
Tatsächlich hielt Paul VI. an dem Fixstern der „Entwicklung in der Beständigkeit“ und an den pastoralen Zielen fest. Nicht recht hätte also jemand, der meinte
– so bekräftigte er –, das II. Vatikanische Konzil stelle eine Trennung, einen Bruch
mit der Lehre der Kirche oder eine Befreiung von ihr dar oder berechtige zu einer
Anpassung an den Geist unserer Zeit bzw. fördere den Konformismus mit dem
Schwachen und Negativen, das diesem Geist innewohnt.
Auf dieser Linie kann man den Kritiken nicht zustimmen, die von der hermeneutischen Richtung in Bologna gegen die in ihrer Beständigkeit besten Regelungen
von Kasper und auch Ratzinger und Jedin bezüglich des II. Vati­kanums formuliert
wurden13, um dessen besondere Stellung unter den Konzilien zu unterstreichen.
1.3. Zwei Beispiele einer Umarmung zwischen Tradition und Erneuerung
a) Als Beispiel dieser Umarmung erwähne ich vor allem die Kollegialität und
den päpstlichen Primat. Ich halte es nämlich für angebracht (ohne dies hier zu
anderen Kernthemen machen zu können), in diesem Punkt das Vorhandensein von
nova et vetera, von Neuem und Altem, bei der Synode im Wort und in ihrer Leitung
durch Paul VI. zu konkretisieren, als Bestätigung dafür, dass „katholisch“ das Bindewort et (und) ist, wie Hans Urs von Balthasar es bezeugte.
Auf knappen, objektiv geschriebenen Seiten fasst Msgr. Carbone, treuer Hüter
der Archive und Herausgeber der 62 Bände der Acta (et Documenta) Synodalia14,
Ibid., 358-370.
Ibid., 223.
14 Acta (et Documenta) Synodalia, hg. von V. Carbone, Typis Polyglottis Vaticanis, 1960-1999.
12 13 127
mit denen jede private Konzilsquelle (Tagebücher, Anmerkungen usw.: Frage der
Rangordnung oder Hierarchie der Quellen) verglichen werden muss, den entscheidenden Werdegang des Konzilsentwurfs Primat-Episkopat, wie folgt, zusammen:
In den ersten Tagen der zweiten Sitzungsperiode […] intervenierte
Paul VI. überparteilich prompt und suspendierte die vom Moderator
für den 17. [Oktober 1963] anberaumte Abstimmung über vier Änderungsvorschläge. Sie rief Probleme bezüglich des Inhalts des Textes und
der Vorgehensweise hervor, die geklärt werden mussten.
Mit Zähigkeit und Geduld bemühte sich Paul VI. sodann darum, dass
bei der Abstimmung die größtmögliche Mehrheit erreicht werden könnte,
und wirkte mit Klugheit und Diskretion an der Vervollkommnung der
Entwürfe mit. Das anerkannten auch die Väter der entgegengesetzten
Richtung, denen jene Interventionen – im ersten Augenblick – ganz und
gar nicht genehm gewesen waren. Der Beweis dafür ist die Nota Explicativa Praevia [Erläuternde Vorbemerkung], die er dem III. Kapitel des
Entwurfs über die Kirche voranstellte.
Sie befreite den Text von den Implikationen und potentiellen Vorgaben,
die Anlass zu verzerrten Auslegungen hätten geben können, und stand –
nach dem Urteil, das Philips, der bekannte Theologe, der Lumen gentium
zum Teil neu „zusammengeflickt“ hat, wie von anderen (z. B. Congar
und Schillebeeckx) bestätigt wurde, später selbst darüber abgab – nicht
im Widerspruch zum diesbezüglichen Konzilstext. Nachdem sich die
Ratlosigkeit gelegt hatte, kam es bei der Abstimmung in der öffentlichen
Sitzung vom 21. November zur praktisch einstimmigen Annahme des
Dokuments: 2151 Ja-, 5 Nein-Stimmen.
Gewiss, jener Konsens wurde in der Folge auf eine harte Probe gestellt, weil
jeder dazu neigte – und das gilt auch heute noch –, ihm all das zu entnehmen, was
sich mit der eigenen Anschauung oder, schlimmer, mit der eigenen „Ideologie“
deckt, ohne den gesamten corpus der 16 Kon­zils­texte, die das repräsentieren, was
die Synode einvernehmlich gesagt hat, als Ganzen anzunehmen. Das heißt, auf sie
beruft man sich richtigerweise als klaren Ausdruck der Absichten und Beschlüsse
des Konzils.
b) Dialog und Konsens beim Konzil, um zur Umarmung zwischen Erneuerung und Tradition zu gelangen. Ich habe bereits auf den konziliaren Konsens als
Ausdruck der „Catholica“, der unitas in necessariis hingewiesen, der für uns die
Verbindung von Tradition und Erneuerung bei der großen Vatikanischen Synode
verkörpert. Der Konsens ist in der Tat ein bedeutsames Zeichen vor allem in dem
Sinn, dass die Wahrheit nicht (durch Abstimmung) „beschlossen“, sondern eben
durch den Konsens „bezeugt“ wird.
Und welchen anderen Weg außer den des Dialogs gäbe es, um den Konsens
zu erreichen? Paul VI., der den Reichtum und die Widersprüche der modernen Kultur, die Sehnsüchte und Hoffnungen, die Freuden und Leiden, die Enttäuschungen
und Schwierigkeiten des heutigen Menschen kannte, versuchte, indem er dem in-
128
neren Antrieb der pastoralen Liebe folgte, sich in sie hineinzuversetzen, denn – so
sagte er – „die Welt wird nicht von außen gerettet“. Zeuge dafür ist der Text der
Pastoralkonstitution Gaudium et Spes.
Er war also ein eifriger Verkünder und Förderer des Dialogs, wie es das Konzil war. „In dem so geführten Dialog verwirklicht sich die Vereinigung der Wahrheit mit der Liebe, des Verstandes mit der Liebe“.
Mit Nachdruck bekräftigte Paul VI., dass der Dialog vom Relativismus frei
sein müsse, der die unveränderbare Glaubens- und Morallehre angreift. Erneuerung und Tradition müssen also miteinander in einen Dialog treten, mit der Verbindung zwischen Altem und Neuem, ja, wir würden sagen, zwischen dem 1. und
dem 2. Jahr­tausend der Kirche. Allein auf dem Neuen zu bestehen, ist also falsch,
denn das Konzil legt auch das Alte, das Vorhergehende wieder vor und bestätigt es.
Man braucht nur daran zu erinnern, dass zu den in den Konzilstexten am häufigsten
zitierten Quellen die Lehre Pius XII. gehört!
Auf der Linie der Konstitution Sacrae disciplinae leges folgt jetzt zum Abschluss eine kurze Analyse der zwei in Bezug auf die Kirche fundamentalen Konzilstexte, was ich hier allerdings nicht für alle Konzilstexte machen kann.
2. Die Konstitution Lumen Gentium
Im Dezember 1962 hat der Textentwurf de Ecclesia polarisierend die Aufmerksamkeit auf sich gezogen. Er bestand aus 11 Kapiteln. Die Theologische Vorbereitungskommission, die den Entwurf erarbeitete, hatte nicht beabsichtigt, einen
vollständigen Traktat über die Kirche zu erstellen. Es fehlte nicht an Kritik, aber es
war Kardinal Döpfner (gefolgt von Suenens, Jaeger und selbst Wojtyla), der forderte, dass neben dem Bild von der Kirche als Mystischem Leib auch jenem vom
„Volk Gottes“ Raum gegeben werden sollte, mit einer gewichtigen Änderung der
Sichtweise, später sogar in einem abweichenden soziologischen Umfeld.
Dessen ungeachtet ließen nicht wenige ihre Zustimmung zu dem Dokument
erkennen, auch wenn am Hoizont andere Texte auftauchten und einige Stimmen
(ich nenne Kardinal Suenens – ecclesia ad intra, ecclesia ad extra – und Kardinal Montini – „fehlendes oder zumindest nicht angekündigtes Vorhandensein eines
idealen und logischen organischen Planes des Konzils“ – wegen dieser fehlenden
organischen ekklesiologischen Konzilsplanung ihre Sorge äußerten. Dessen ungeachtet hatte Papst Johannes XXIII. den Text von de Ecclesia unter Hinzufügung
nur weniger Änderungen für die Diskussion angenommen. Kardinal Lercaro bekundete auch seine Zustimmung zum Suenens-Montini-Antrag mit dem Zusatz der
Betrachtung des Geheimnisses Christi in den Armen.
So entstand schließlich ein Schema aus zwanzig Themen (die dann auf 17 re­
du­ziert wurden), welche teilweise die ursprünglichen 72 Sche­mata (manchmal Kapitel ein und desselben Schemas) zusammenfassten, während die pastorale Intention unbedingt betont wurde. Unterdessen verdichtete sich das Gerede von „Mehrheit“ und „Minderheit“, von erneuernder und bewahrender Tendenz, um sich zu
verständigen, auch wenn das Risiko bestand und besteht, auf diese Weise ein viel
129
komplexeres Netz von allerdings fluktuierenden Annäherungen und Divergenzen
künstlich zu vereinfachen. In der Tat hat schließlich dieses Klischee zweier Theologien, zweier Ekklesiologien die Konzilsarbeiten und vor allem die Theologen –
und darüber hinaus eine nachfolgende unkorrekte Hermeneutik – in nicht geringem
Maße negativ belastet.
In der Sitzung der Koordinierungskommission vom 23. Januar 1963 riet daher
Kardinal Suenens – nachdem er dazu von Kardinal A. Cicognani „grünes Licht“
erhalten hatte – zu einer Überarbeitung des Schemas de Ecclesia in vier Kapiteln.
Das Anliegen wurde, besonders was die Kollegialität betrifft, eingehend debattiert,
wodurch die zentrale Stellung der ekklesiologischen Frage auf dem Konzil bekräftigt wurde. Man beschloss, auch ein Kapitel über die Ordensleute und dann eines
über Maria in das Dokument aufzunehmen (mit knapper Mehrheit: 1114 Ja- gegen
1074 Neinstimmen; diese letzteren stammten vor allem von den Konzilsvätern, die
über die Gottesmutter ein eigenes Dokument wünschten).
Die Überarbeitung des Schemas wurde der Theologischen Kommission
übertragen, die sich zu dem Zweck in Unterkommissionen unterteilt hatte, und
als Grundlage für die Neubearbeitung der wesentlichsten Kernpunkte des Dokuments wurde von dem bekannten belgischen Konzilstheologen Philips die Methode des „(Zusammen)­Flickens“ gewählt (dazu ist zu bemerken, dass Suenens
erklärte, dass 60 % des endgültigen Textes aus der vorherigen Fassung übernommen worden sind).
Die Neufassung erhielt die erforderliche Zustimmung (2231 Ja-Stimmen von
insgesamt 2301 abgegebenen Stimmen), um die Debatte über die einzelnen Kapitel
fortsetzen zu können, und die Debatte über die Hierarchie machte die bestehenden Meinungsverschiedenheiten am deutlichsten offenkundig. Zeichen dafür war
das erwähnte Problem der beabsichtigten Abstimmung, um die Grundeinstellung
der Konzilsväter zu eruieren. Am 29. Oktober war es dann soweit: Der Text der
Abänderungsvorschläge wurde vorgelegt – in einer umgearbeiteten Fassung des
ursprünglich von Don Dossetti empfohlenen Textes, die von Paul VI. sozusagen
den letzten Schliff erhalten hat. Es sind in der Zwischenzeit (mit dem Ersuchen um
eine Orientierungsabstimmung über den Diakonat) fünf Anträge geworden. Die
Vernichtung der ursprünglichen Zettel für die Abstimmung, die man widerrechtlich
hatte vorbereiten lassen, hatte die Entfernung des oben genannten Vertrauensmannes von Kardinal Lercaro aus der Umgebung der Moderatoren zur Folge, der ihn
als Sekretär der „vier“ Moderatoren hinzugewählt hatte, wodurch er in der Tat eine
ordnungswidrige Alternative zum Generalsekretär des Konzils, Msgr. Felici, einsetzte. Der Papst sagte nur: „Das ist nicht der Platz von Dossetti!“.
Nach der Umstellung und Überarbeitung der Schemata zwischen der II. und
III. Sitzungsperiode (es handelt sich um den sogenannten „Döpfner-Plan“) erließ
die entscheidende Koordinierungskommission neue Empfehlungen, besonders
über die Sakramentalität und Kollegialität des Bischofsamtes, immer in enger Verbindung mit der Konstitution Pastor aeternus des I. Vati­kanischen Konzils.
Außerdem wird in dieser Periode in Bezug auf die Kirche Christi ein früheres
est, „ist“, durch subsistit, „ist verwirklicht“, ersetzt: Ecclesia subsistit in Ecclesia
130
catholica, „Die Kirche Christi ist in der katholischen Kirche verwirklicht“ (Lumen
gentium 8); diese Formel erlangte in der Entwicklung des nachkonziliaren Ökumenismus große Bedeutung und hat die Kommentatoren des Konzils viel Tinte
verschwenden lassen15. Man wird hier außerdem eine „schwerwiegende“ Initiative
erwähnen müssen, die Anfang September 1964 von einem einflussreichen und beachtlichen Teil der Konzilsväter (darunter viele Kardinäle, angeführt von Larraona) ausging, die an der Lehre von der Kollegialität über deren engen Sinn hinaus
Kritik übten, da sie deren Ausweitung fürchteten. Paul VI. ließ unter Wahrung der
Geschäftsordnung den Diskussionsgang über das Schema weiterführen, und so gelangte man schließlich zur Abstimmung.
Bei der Abstimmung über jene ersten zwei Kapitel (Kirche als Mysterium
und Volk Gottes) gab es keine Überraschungen, während zum dritten Kapitel, „die
hierarchische Verfassung“, zwei ziemlich rigorose Abänderungsvorschläge ergingen. Die Schluss­ab­stimmung über Lumen gentium (das am Ende acht Kapitel umfasst: das Mysterium der Kirche; das Volk Gottes; die hierarchische Verfassung der
Kirche; die Laien; die allgemeine Berufung zur Heiligkeit; die Ordensleute; der
endzeitliche Charakter der pilgernden Kirche und die selige Jungfrau Maria) fand
praktisch einstimmige Annahme und stellte angesichts der im Verlauf der Debatte
in der Aula aufgetretenen Widerstände ein außergewöhnliches Ergebnis dar. Das
war der große Verdienst von Papst Paul VI., der sich mit Recht nicht als bloßer
„Notar“ des Konzils sehen wollte, wie er selbst versichert hat.
3. Die Zeichen der Zeit (die Konstitution Gaudium et Spes)
In diesem letzten Teil betrachten wir, in Bezug auf die Kirche ad extra, die
Vorgänger des Ausdrucks „Zeichen der Zeit“, indem wir die Hilfe der von F. Gil
Hellín bereitgestellten Synopsis16 in Anspruch nehmen. So versetzen wir uns, wenigstens einmal, in das konkrete Gefüge des Konzils, in seinen corpus.
Gil Hellín veröffentlicht nämlich in vier Spalten parallel nebeneinander gestellter Texte die den Konzilsvätern zur Beurteilung vorgelegten Fassungen bis hin
zum Text der Endfassung. Die I. Kolumne entspricht der Fassung des sogenannten
Schemas „von Löwen“ und die II. Kolumne enthält das allgemein als „von Ariccia“ oder schema receptum bezeichnete Schema (das die vorhergehenden adnexa,
Zusätze, die aktuelle Themen behandeln, in den Text einführt). Die III. Spalte enthält den textus recognitus, während in der IV. die gültige Endfassung des Dokuments, der textus denuo recognitus, abgedruckt ist, das heißt die entsprechend den
modi (Änderungsvorschlägen) der Konzilsväter revidierte und von der Gemischten
Kommission überprüften vorhergehende Fassung.
Siehe dazu den Beitrag von Kardinal Ratzinger in R. Fisichella (Hg.), Il Concilio Vaticano II, op. cit., 77-80.
16 Francisco Gil Hellín, Concilii Vaticani II Synopsis. Constitutio Pastoralis de Ecclesia in
Mundo huius temporis Gaudium et Spes, L.E.V., Vatikan 2003.
15 131
Nun wird Nr. 4 in den textus recognitus aufgenommen und dann unverändert
im endgültigen Text bleiben, mit der einzigen Ausnahme, dass omni tempore zu per
omne tempus umgeändert wird. Auch Nr. 11 weist dieselbe Entwicklung auf wie
Nr. 4, das heißt im textus recognitus findet sich eine Erweiterung, die aber bereits
die Elemente enthält, die dann im textus denuo recognitus und im endgültigen Text
verbleiben werden, mit der Präzisierung der wahren Zeichen und einer Gegenwart
Gottes, zu der sich der „Heilsplan Gottes“ hinzufügt und die es zu unterscheiden
gilt. Hier erfolgt also eine Vereinfachung und notwendige Klarstellung hinsichtlich
der Zeichen, während aber das Subjekt (das vom Glauben bewegte und vom Geist
des Herrn geleitete Volk Gottes), die notwendige Unterscheidung in den Ereignissen, die Bedürfnisse und Forderungen unserer Zeit und die Teilnahme an solchen
Ereignissen zusammen mit allen Menschen weiterbestehen.
An diesem Punkt ist es angebracht, auf Nr. 4 von Gaudium et spes zurückzukommen, um konkret die „Hauptzüge der Welt von heute“, die „Zeichen der
Zeit“ konkret zu benennen. Das sind die „tiefgehenden und raschen Veränderungen, die Schritt um Schritt auf die ganze Welt übergreifen. Vom Menschen, seiner
Vernunft und schöpferischen Gestaltungskraft gehen sie aus; sie wirken auf ihn
wieder zurück, auf seine persönlichen und kollektiven Urteile, auf seine Art und
Weise, die Dinge und die Menschen zu sehen und mit ihnen umzugehen. So kann
man schon von einer wirklichen sozialen und kulturellen Umgestaltung sprechen,
die sich auch auf das religiöse Leben auswirkt. Wie es bei jeder Wachstumskrise
geschieht, bringt auch diese Umgestaltung nicht geringe Schwierigkeiten mit sich“.
Hier weist das Konzil auf die skandalöse ungleiche Verteilung des Reichtums, der
wirtschaftlichen Möglichkeiten und Macht der Menschheit hin, während ein ungeheurer Teil der Bewohner unserer Erde unter Hunger, Not und Analphabetismus
leidet; und es benennt ebenso den Gegensatz zwischen dem so wachen Sinn für
Freiheit und neuen Formen gesellschaftlicher und psychischer Knechtschaft sowie
zwischen einem lebhaften Gespür für die Einheit und der wechselseitige Abhängigkeit der Einzelnen in einer notwendigen Solidarität inmitten schwerwiegender politischer und sozialer, wirtschaftlicher, rassischer und ideologischer Spannungen.
Wir könnten vielleicht noch einen Abschnitt aus Nr. 5 hinzufügen, wo festgestellt
wird, dass dadurch „der Gang der Geschichte eine so rasche Beschleunigung erfährt,
dass der Einzelne ihm kaum mehr zu folgen vermag. Das Schicksal der menschlichen
Gemeinschaft wird eines und ist schon nicht mehr in verschiedene geschichtliche Abläufe aufgespalten“. Nr. 6 schließt dann, wie folgt, mit einer großen Vision: „Nicht
zu unterschätzen ist die Bedeutung der Tatsache, dass Menschen, aus verschiedenen
Gründen zur Wanderung veranlasst, dadurch ihre Lebensart ändern. […] Diese Entwicklung zeichnet sich klarer ab in den durch wirtschaftlichen und technischen Fortschritt begünstigten Nationen; sie ergreift aber auch die Entwicklungsländer, die auch
für ihre Gegenden die Vorteile der Industrialisierung und städtischen Kultur erringen
möchten. Gleichzeitig erfahren diese Völker, besonders jene mit alten Überlieferungen, eine Bewegung hin zu einem entwickelteren und persönlicheren Vollzug der Freiheit“. Hier gilt es außerdem an Nr. 9 zu erinnern, die zudem grundsätzlich bestätigt,
was bis dahin bezüglich des Wunsches nach einer zunehmend dem Menschen dienen-
132
den politischen, sozialen und wirtschaftlichen Ordnung hier angeführt wurde. „Die
vom Hunger heimgesuchten Völker fordern nämlich Rechenschaft von den reicheren
Völkern. Die Frauen verlangen für sich die rechtliche und faktische Gleichstellung mit
den Männern, wo sie diese noch nicht erlangt haben. Die Arbeiter und Bauern wollen
nicht bloß das zum Lebensunterhalt Notwendige erwerben können, sondern durch ihre
Arbeit auch ihre Persönlichkeitswerte entfalten und überdies an der Gestaltung des
wirtschaftlichen, gesellschaftlichen, politischen und kulturellen Lebens ihren Anteil
haben. Zum ersten Mal in der Geschichte der Menschheit haben alle Völker die Überzeugung, dass die Vorteile der Zivilisation auch wirklich allen zugute kommen können
und müssen. Hinter allen diesen Ansprüchen steht ein tieferes und umfassenderes Verlangen: die Einzelpersonen und die Gruppen begehren ein erfülltes und freies Leben,
das des Menschen würdig ist, indem sie sich selber alles, was die heutige Welt ihnen
so reich darzubieten vermag, dienstbar machen. Die Völker streben darüber hinaus
immer stärker nach einer gewissen alle umfassenden Gemeinschaft“ 17. Ist all das nicht
eine höchst aktuelle „Botschaft“?18
17 Neben den bereits erwähnten Werken verweisen wir auf folgende Bibliographie (nach
Erscheinungsdatum geordnet): Guilherme Baraúna (Hg.), La Chiesa del Vaticano II. Studi e
commenti intorno alla Costituzione dogmatica Lumen Gentium, Vallecchi, Firenze 1965; Id.,
Samuele Olivieri, La Chiesa nel mondo di oggi. Studi e commenti intorno alla Costituzione pastorale Gaudium et spes, Vallecchi, Firenze 1966; Yves Congar (dir.), Vatican II. Textes et commentaires des décrets conciliaires (= Unam Sanctam), Cerf, Paris 1966 sqq.; Gustave Martelet,
Les idées maîtresses de Vatican II, DDB, Paris 1966; Karol Wojtyla, Aux sources du renouveau. Étude sur la mise en œuvre du Concile Vatican II, Le Centurion, Paris 1981; P. Lombardia,
J. I. Arrieta (Hg.), Codigo de Derecho Canonico, Edicíon anotada, Pamplona 1983; Istituto
Paolo VI, Paul VI et les Réformes institutionnelles dans l’Église. Journée d’études, Fribourg
(Suisse), 9 novembre 1985, Istituto Paolo VI – Studium, Brescia – Roma 1987; Id., Paolo VI e i
problemi ecclesiologici al Concilio, Istituto Paolo VI – Studium, Brescia – Roma 1989; Id., Paolo VI e il rapporto Chiesa-mondo al Concilio, Istituto Paolo VI – Studium, Brescia – Roma 1991;
Giuseppe Alberigo (Hg.), Storia del Concilio Vaticano II, Bde. 1-5, Peeters – Mulino, Bologna
1995-2001; M. Lamberigts, Claude Soetens, Jan Grootaers, Les Commissions Conciliaires à
Vati­can II, Bibliotheek van de Faculteit Godgeleerdheid, Leuven 1996; Giovanni Turbanti, Un
Concilio per il mondo moderno. La redazione della costituzione pastorale Gaudium et Spes del
Vati­cano II, Mulino, Bologna 2000; Massimo Faggioli, G. Turbanti (Hg.), Il Concilio inedito.
Fonti del Vati­cano II, Mulino, Bologna 2001; Benedetto XVI, Il Concilio Vati­cano II. Quaranta
anni dopo, L.E.V., Vatikan 2006.
18 Der Beitrag wurde bereits in Spanisch und Italienisch veröffentlicht: Agostino Marchetto, Concilio Vati­cano II, in Diccionario General de Derecho Canónico II, 400-406; Id., Voce
„Vaticano II. La Sacrae disciplinae leges“ del Diccionario General de Derecho Canónico, in Id.,
Il Concilio ecumenico Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica, op. cit., 309-318.
133
II. Primato pontificio
ed episcopato
A. Aspetti storici e teologici
The Roman Primacy
and the canonical collections
of the first millennium
Brian E. Ferme
1. Introduction
One of the central aspects that has characterized the history of the Roman
Primacy is the constant attention given to determining its essential elements. In
an office that finds its origins at the very beginnings of the Church and which has
demonstrated extraordinary development this should come as no surprise. The process has clearly involved energetic theological and doctrinal debate as various official statements and declarations of the Church’s magisterium demonstrate1. Even
a cursory glance at the two Codes of Canon Law of the Catholic Church reveal that
in the sixty five years that separate them a number of significant developments in
an understanding of the Roman Primacy have been made. While both Codes underscored that the Roman Pontiff is successor of Peter and that he enjoys supreme
power over the Church, the 1983 Code also emphasized the fact that the Pontiff is
also head of the College of Bishops, thereby reflecting a particular and significant
insight of Vatican II2.
Mention of the Codes of Canon Law suggests that alongside theological reflection the canon law also played a significant role in the process of better determining the nature of the Roman Primacy. This was particularly evident after
the definition of papal primacy at Vatican I in the dogmatic Constitution Pastor
aeternus3 though it is also equally apparent in the period after the appearance of
1 For a useful overview, see Congregazione per la dottrina della fede, Il Primato del
Successore di Pietro nel Mistero della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano
2002.
2 CIC/1917, can. 218 § 1: “Romanus Pontifex, Beati Petri in primatu Successor, habet
non solum primatum honoris, sed supremam et plenam potestatem iurisdictionis in universam
Ecclesiam tum in rebus quae ad fidem et mores, tum in iis quae ad disciplinam et regimen Ecclesiae
per totum orbem diffusae pertinent”. CIC/1983, can. 331: “Ecclesiae Romanae Episcopus, in quo
permanet munus a Domino singulariter Petro, primo Apostolorum, concessum et successoribus
eius transmittendum, Collegii Episcoporum est caput, Vicarius Christi atque universae Ecclesiae
his in terris Pastor; qui ideo vi muneris sui suprema, plena, immediata et universali in Ecclesia
gaudet ordinaria potestate, quam semper libere exercere valet”. The doctrine as presented in the
later Code stems from the conciliar dogmatic Constitution on the Church, Lumen gentium, 22-27.
3 The importance of the definition on canonistic thought on the Roman Primacy can
be seen in the important commentary on the 1917 Code of Franciscus X. Wernz and Petrus
Vidal, Ius Canonicum, tomus II: De Personis, Pontificia Universitas Gregoriana, Rome 1943
n. 424: “Primatus iurisdictionis in eo situs est, ut Romanus Pontifex habeat non tantummodo
officium inspectionis vel directionis vel potiores partes, sed plenam et supremam, ordinariam
et immediatam vereque episcopalem potestatem iurisdictionis in universam Ecclesiam, sive in
omnes et singulas ecclesias sive in omnes et singulos pastores et fideles, tum in rebus ad fidem et
mores, tum quae ad disciplinam et regimen Ecclesiae per totum orbem diffusae pertinent”.
139
Gratian’s Decretum sometime in the first decades of the twelfth century and the
subsequent development of the science of canon law. The commentaries of the
medieval canonists on the complex contours of the privileges and rights of the
bishop of Rome contributed significantly to further definition and clarification as
to the nature of the Roman Primacy while simultaneously providing new directions
and new emphases that would have seemed somewhat remote in the period prior
to Gratian. Their contribution to the understanding of the Roman Primacy has been
carefully and constantly studied and analysed4.
The situation is somewhat different for the first millennium, prior to Gratian’s
Decretum, during which an extraordinary number of canonical collections were produced to meet an endless array of disciplinary and doctrinal questions. A good deal of
scholarly attention has been dedicated to the general history and textual transmission
of these collections5 but considerably less has been devoted to how they presented
and dealt with the Roman Primacy6. There are many reasons for this though one
stands out. The canonical collections of the first millennium do not provide a rigorously scientific approach to the interconnected questions that relate to the essential
and effective nature of the primacy as is clearly the case for the period after Gratian.
In other words we find no extended treatment in the collections of the first millennium to compare with that of someone like Hostiensis’ analysis of the plenitudo potestatis and how it related to the office of the bishop of Rome7. Inevitably this reflects
the chronological or systematic nature of the pre-Gratian collections. Nevertheless
their contribution is of some importance as many of the texts found in the collections
of the first millennium were taken up precisely from those collections into Gratian
and therefore into the scientific commentaries of the academic canonists.
4 While there is an immense literature on the post-Gratian period, excellent analyses are
found in Kenneth Pennington, Pope and Bishops. The Papal Monarchy in the Twelfth and
Thirteenth Centuries, University of Pennsylvania Press, Pennsylvania 1984; John A. Watt, The
Theory of Papal Monarchy in the Thirteenth Century, Burns & Oates, London 1965.
5 For the pre Gratian collections, see Friedrich Maassen, Geschichte der Quellen und der
Literatur des canonischen Rechts im Abendlande, 1: Die Rechtssammlungen bis zur Mitte des
9. Jahr­hunderts, Verlag von Leuschner & Lubensky, Graz 1870, repr. Graz 1956; Paul Fournier,
Gabriel Le Bras, Histoire des collections canoniques en Occident depuis les Fausses Décrétales
jusqu’au Décret de Gratien 1-2, Recueil Sirey, Paris 1931-1932, repr. Aalen 1972; Lotte Kėry,
Canonical Collections of the Early Middle Ages (ca. 400-1140), The Catholic University of
America Press, Washington D.C. 1999; Linda Fowler-Magerl, Clavis Canonum Selected Canon
Law Collections Before 1140, Hahnsche Buchhandlung, Hannover 2005.
6 See the important article of Hubert Mordek, Der Römische Primat in den Kirchenrechtssammlungen des Westens vom IV. bis VIII. Jahrhundert, in Michele Maccarrone (ed.), Il
Primato del Vescovo di Roma nel primo millennio. Ricerche e testimonianze, Libreria Editrice
Vaticana, Città del Vaticano 1991, 523-566; Alfons Maria Stickler, De primatu romano historia
collectionum iuris canonici illustrato, in Monitor Ecclesiasticus 79 (1954) 409-425.
7 See John A. Watt, The use of the term ‘Plenitudo potestatis’ by Hostiensis, in Stefan
Kuttner, J. Jospeh Ryan (ed.), Proceedings of the Second International Congress of Medieval
Canon Law, Monumenta Iuris Canonici, Series C, 1, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano
1965, 161-187.
140
An example from a collection towards the end of the period under review illustrates the interdependence of collections. The opening title of the collection in
74 Titles (74T) treats of the primacy of the Roman Church (De Primatu Romanae
Ecclesiae) and its second canon is a text purported to come from pope Anacletus
which provides a succinct, if not complete, understanding of the Roman Primacy.
The point is made that the Roman and apostolic see obtained its primacy not from
the apostles but from the Lord our Saviour himself and cites the classic passage from
Matthew 16, 18: Tu es Petrus. Thus the apostolic see has been made the hinge and
head of all churches by the Lord and not by another and as the door is governed by
its hinge so, according to the Lord’s command, are all the churches governed by the
Holy See. Therefore, if any difficult cases arise they are to be brought to the summit
of this Holy See as if to a head, so that they might be settled by apostolic judgement8.
We know that 74T represents a new and vigorous canonical approach together
with a forceful statement of the manifold contours of the nature and significance
of the Roman Primacy in the middle of the eleventh century which witnessed an
energetic movement of reform within the Church9. It also reflects various aspects of
how previous generations also treated and approached the same topic. A significant,
though clearly not unique, vehicle for these ideas were the canonical collections
which by assembling texts of various nature – scriptural passages, conciliar canons,
patristic writings and most especially papal decretals – offered long lasting and effective insights into the meaning and extent of the Roman Primacy. The spurious
text of Anacletus cited by 74T comes from an even more influential collection, the
Pseudo-Isidoran Decretals10, the collection of genuine and false papal decretals and
canons of councils assembled sometime in the mid ninth century and to which,
alongside the question of the Roman Primacy, the honorand of this particular collection of essays has dedicated much of his academic career11.
8 John Gilchrist (ed.), Diversorum patrum sententie sive Collectio in LXXIV titulos
digesta, Momumenta Iuris Canonici, Series B: Corpus Collectionum, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 1973, 20: “Sacrosancta Romana et apostolica ecclesia non ab apostolis sed
ab ipso Domino Salvatore nostro primatum obtinuit, sicut ipse beato Petro apostolo dixit ‘Tu es
Petrus’ et reliqua. Ergo hec apostolica sedes cardo et caput omnium ecclesiarum a Domino et
non ab alio est costituita, et sicut cardine ostium regitur, sic huius sancte sedis auctoritate omnes
ecclesie Domino disponente reguntur. Igitur si que cause difficiliores inter vos orte fuerint, ad
huius sancte sedis apicem eas quasi ad caput referte, ut apostolico terminentur iudicio”.
9 While the 74T reflects the general reform movement recent studies have argued that it
should not be seen univocally as an expression of a papal oriented reform but rather as being
mainly concerned with monastic liberties and in that context especially with papal privileges
granted to monasteries. See, Christof Rolker, The Collection in Seventy-four Titles: A Monastic
Canon Law Collection from Eleventh-century France, in Martin Brett, Kathleen G. Cushing
(ed.), Readers, Texts and Compilers in the Early Middle Ages Studies in Medieval Canon Law in
Honour of Linda Fowler-Magerl, Ashgate Publishers, Surrey 2009, 59-72.
10 Ps.-Anacletus, ep. 3, 30, 34, in P. Hinschius, Decretales Pseudo-Isidorianae et Capitula
Angilramni, Ex Officina Bernhardi Tauchnitz, Leipzig 1863; repr. Aalen 1963, 83, 84.
11 Agostino Marchetto, Episcopato e Primato Pontificio nelle Decretali PseudoIsidoriane. Ricerca storico-giuridico, Pontificia Università Lateranense, Rome 1971; Id., In
141
Pseudo-Anacletus was often cited in the collections of the first millennium in
their treatment of the power and primacy of the apostolic see and the collections of the
eleventh century, including Burchard of Worms and Ivo of Chartres, and later Gratian,
cite it to varying degrees of completeness12. It reflects but one of the variety of strands
that blended to make up what the Church, individual writers and indeed the canonical
collections themselves thought of the Roman Primacy. The citation from Pseudo-Anacletus reflects this reality: the fact that the primacy was based in the person and in the
office entrusted to Peter by Christ; that the authority granted to Peter by the Lord was
handed on in his legitimate successors: that the office of the primacy was intimately
and inescapably connected with Rome; that the primacy involved a particular role visà-vis other particular churches and their pastors, the bishops; that the apostolic see was
the head of all churches and that this role involved a unique jurisdiction so that appeals
especially in causae difficiliores could be made to it. These are but a few of the more
significant and oft repeated issues that constituted the understanding and extent of how
the Roman Primacy was perceived and presented. Others, to varying degrees, were
also found in the canonical collections, such as the powerful image of Peter’s martyrdom at Rome or of the authority of the apostolic see in matters of faith and doctrine.
Clearly, these various understandings of the theme were not equally present
in all the collections nor were they always as clearly set out as in 74T. Generally
the collections of the first millennium were not primarily aimed at presenting a
comprehensive thesis on the Roman Primacy. Many of the more influential did
not include a title on De potestate et primatu apostolicae sedis. On the other hand
the texts included in the collections, most especially the papal decretals, did make
authoritative references to the essential elements of the primacy that would have
significant consequences for its ongoing understanding and expansion. This is especially the case when texts of certain papal decretals that dealt with the power and
authority of the apostolic see were taken up in subsequent collections thereby consolidating and expanding their influence and importance. The canonical collections
of the first millennium provided a mine of important ideas on an endless series of
questions along with what in time would come to be more clearly understood and
more cogently expressed as the essential elements of the primacy13.
Partem Sollicitudinis… Non in Plenitudinem Potestatis. Evoluzione di un formula di rapporto
Primato-Episcopato, in Rosalio I. Castillo Lara (ed.), Studia in Honorem Eminentissimi
Cardinalis Alphonsi M. Stickler, Libreria Ateneo Salesiano, Rome 1992, 269-298; Id., Diritto di
appello a Roma nelle Decretali Pseudo-Isidoriane, in Oliver Munch, Thomas Zotz (ed.), Scientia
Veritatis. Festschrift für Hubert Mordek zum 65. Geburtstag, Thorbecke, Ostfildern 2004, 191206; and a collection of his writings many of which are dedicated to the theme of this paper, Id.,
Chiesa e Papato nella Storia e nel Diritto, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2002.
12 It was cited in the Collectio Anselmo dedicata (I, 2) as well as Anselm of Lucca, Collectio
canonum (I, 1); Collectio 2 librorum (II, 106); Deusdedit, Collectio canonum (I, 60); Bonizo of
Sutri, Liber de vita Christiana (IV, 50); Burchard of Worms, Decretum (I, 1); Ivo of Chartes,
Decretum (V, 1); Gratian, Decretum, D. 21 c. 2.
13 Gabriel Le Bras held that “l’histoire des collections est la plus claire, la plus irrécusable
histoire des idées”: G. Le Bras, Notes pour server à l’histoire des collections canoniques, in
Revue Histoire de Droit Français et Étranger 8 (1929) 775.
142
It is obviously impossible to treat of all the collections that appeared over
the course of the first millennium but an attempt can be made to consider a limited
number of the more influential in order to ascertain certain trends in their presentation of the Roman Primacy. This is evidenced most clearly in the citation of papal
decretals that dealt with the question especially in the context of specific legal or
disciplinary issues and which once found in an earlier collection continued to be
cited by subsequent ones. For the sake of clarity this survey is best divided into
two parts: the period up to the appearance of Pseudo-Isidore and the period up to
the turn of the millennium. The division is not only prompted by reasons of convenience but principally due to the particular influence of Pseudo-Isidore on the
changed perception and renewed direction of the Roman Primacy as evidenced
not only on what can be found in that collection but more significantly due to its
influence on later collections, an influence that continues until the present Code of
Canon Law14.
2. The Roman Primacy and the canonical collections before PseudoIsidore
Collections of texts that reflected the use and discipline of the Church began
at an early stage in its history. This is not to say that they were particularly well
organized or replete with legal clarity but rather that they assembled texts that
handed on the Church’s discipline and its understanding of various vexed doctrinal questions. A number of these texts dealt with the role of the bishop of Rome
and the rights and powers that pertained to his office. We cannot of course speak
of a description of the primacy as would later be developed but the beginnings
of an understanding of its contours can be seen in these early canonical collections. Critical to this development, alongside the conciliar texts, were the papal
decretals15.
The papal decretals, beginning with that of pope Siricius to bishop Himerius
of Tarragona, February 10, 385, both in their language and style reflected and expressed the claim to a particular authority on the part of an emerging and confident
papacy. An important factor in the spread of the ideas contained in these decretals
was the fact that popes frequently requested that the recipient make known the specific decretal to a wider audience, often to fellow bishops in the province. Siricius
towards the conclusion of his decretal to Himerius provides a clear example of this
14 See Agostino Marchetto, Lo Pseudo-Isidoro e il nuovo C.J.C. della Chiesa Latina, in Id.,
Chiesa e Papato, op. cit., 92-104.
15 For an excellent and detailed survey, see Detlev Jasper, Horst Fuhrmann, Papal Letters
in the Early Middle Ages, The Catholic University of America Press, Washington D.C. 2001,
especially Detlev Jasper, The Beginning of the Decretal Tradition: Papal Letters from the Origin
of the Genre through the Pontificate of Stephan V, ibid., 3-133.
143
important and influential reality16. In time these decretals would be found in the
archives of churches and eventually they would find their way into the more significant of the canonical collections17. The collections reflected a fundamental, namely
the conservation of the ancient juridical tradition: to understand it, to maintain its
force and to refer to it in specific situations. In this context the ideas expressed in
these decretals, specifically with respect to the concept of the primacy, were widely
disseminated and thereby influenced the perception of what constituted the particular authority of the bishop of Rome.
The significance of papal decretals is highlighted in the Decretum Gelasianum
de libris recipiendis et non recipiendis. Though usually attributed to Gelasius,
chapters four and five were written at the beginning of the sixth century in southern
Gaul and chapters one to three reflect texts of pope Damasus18. It circulated widely,
even finding a place in Gratian’s Decretum (D. 15 c. 3), and the text included a list
of books recipiendis et non recipiendis amongst which were the Tomus Leonis and
the decretal letters which blessed popes had given for the consideration of various
fathers and which are to be reverently upheld. As the text points out, the works of
all the orthodox fathers have never deviated from the consortium of the Roman
Church but remained in communion with it19. Indeed the remaining writings men-
16 “Nunc fraternitatis tuae animum ad servandos canones et tenenda decretalia constituta
magis ac magis incitamus, ut haec quae ad tua rescripsimus consulta, in omnium coepiscoporum
nostrorum perferri facias notionem, et non solum eorum qui in tua sunt dioecesi constituti, sed
etiam ad universes Carthaginenses ac Baeticos, Lusitanos atque Gallicos, vel eos, qui vicinis tibi
collimitant hinc provinciis, haec quae a nobis sunt salubri ordinatione disposita, sub litterarum
tuarum prosecutione mittantur. Et quamquam statuta sedis apostolicae vel canonum venerabilia
definita nulli sacerdotum Domini ignorare sit liberum, utilius tamen et pro antiquitate sacerdotii
tui dilectioni tuae esse admodum poterit gloriosum, si ea quae ad te speciali nomine generaliter
scripta sunt, per unanimitatis tuae sollicitudinem in universorum fratrum nostrorum notitia
perferantur, quatenus et quae a nobis non inconsulte, sed provide sub nimia cautela et deliberatione
sunt salubriter constituta, intemerata permaneant, et omnibus in posterum excusationibus aditus,
qui iam nulli apud nos patere poterit, obstruatur” (PL 13, 1146-1147). Cited in H. Mordek, Der
Römische Primat, op. cit., 545 n. 89.
17 D. Jasper, The Beginning of the Decretal Tradition, op. cit., 22, points to the fact that eight
decretals that include those from Siricius, Innocent I, Zosimus and Celestine are always found
in the oldest Italian and Gallican collections, namely the Italian collections in the manuscripts
of Freising, Weingarten, the Quesnelliana, the Chieti manuscript, the Sankt Blasien manuscript
(Collectio Italica), the Dionysiana and the Gallic Collectiones Corbeiensis, Coloniensis,
Albigensis, Laureshamensis, Remensis, Pithouensis and Sancti Mauri.
18 For the edition, see Ernst von Dobschütz (ed.), Das Decretum Gelasianum de libris
recipiendis et non recipiendis, J.C. Hinrissch’sche Buchhandlung, Leipzig 1912. For the textual
history and origins, see Hubert Mordek, Decretum Gelasianum, in Lexikon des Mittelalters 3
(1986) 625 and Jean Gaudemet, Les Sources du droit de l’Église en Occident, du iie au viie siècle,
Cerf, Paris 1985, 25, 62 n. 15.
19 Decretum Gelasianum 4.3 (von Dobschütz, op. cit., 9): “item epistolam beati papae
Leonis ad Flavianum Constantinopolitanum episcopum destinatam […]; item opuscula atque
tractatus omnium patrum orthodoxorum, qui in nullo a sanctae Romanae ecclesiae consortio
deviarunt, nec ab eius fide vel praedicatione seiuncti sunt sed ipsius communicatione per gratiam
dei usque in ultimum diem vitae suae fuere participes, legendos decernit; item decretales epistola,
144
tioned, which had been compiled or been recognized by heretics or schismatics, are
in no way received by the catholic and apostolic Roman Church20. What is of note
is the language adopted concerning the place and authority of Rome which has the
first place and which obtained its primacy from the voice of the Lord, citing the
classic Matthean passage. Further reference is made to a theme that is found in post
apostolic writings, namely the martyrdom of both Peter and Paul at Rome which
made the Roman Church special and hence the basis of a particular veneration. The
Roman Church of the apostle Peter is the first sedes having no spot or wrinkle21.
While it is doubtful that the Decretum Gelasianum comes from the hand of
Gelasius, though there may be Roman origins for chapters one to three, his pontificate witnessed what has been termed a ‘Gelasian renaissance’ with respect to
canon law. One of the key figures associated with that renaissance is the extremely
influential and ground-breaking collection, the Dionysiana. It is possible that the
author of this collection, Dionysius, arrived in Rome at Gelasius’ invitation perhaps
to undertake service in Roman ecclesiastical offices. Whatever the case, he arrived
in Rome not before 496 as Dionysius states in the preface to his collection of papal
decretals that he did not personally meet Gelasius, though he probably arrived soon
after the pope’s death (21 November 496)22. The pontificate of Gelasius is often
characterized by its contribution to what came to be known as the ‘Gelasian doctrine’ concerning the relationship between pope and emperor23, though it is equally
of interest in determining how the Dionysiana might be situated within it. While of
late there has been a more nuanced understanding of the idea of a Gelasian renaissance in canon law there remains no doubt as to the significance of Dionysius and
the Dionysiana24.
quas beatissimi papae diversi temporibus ab urbe Roma pro diversorum patrum consultatione
dederunt, venerabiliter suscipiendas esse”.
20 Decretum Gelasianum 5 (von Dobschütz, op. cit., 11): “Cetera quae ab eretici sive
schismaticis conscripta vel predicata sunt, nullatenus recipit catholica et apostolica Romana
ecclesia […]”.
21 Decrtetum Gelasianum 3.1 (von Dobschütz, op. cit., 7): “[q]uamvis universae per orbem
catholicae diffusae ecclesiae unus thalamus Christi sit, sancta tamen Romana ecclesia nullis
sinodici constitutis ceteris ecclesiis praelata est, sed evangelica voce domini et salvatoris nostri
primatum obtinuit […]”. 3.2: “Addita est etiam societas beatissimi Pauli apostoli ‘vas electionis’,
qui non diverso, sicut heresei garriunt, sed uno tempore uno eodemque die gloriosa morte cum
Petro in urbe Roma sub Caesare Nerone agonizans coronatus est; et pariter supradictam sanctam
Romanam ecclesiam Christo conscrarunt aliisque omnibus urbibus in universo mundo sua
praesentia atque venerando triumpho praetulerunt”. 3.3: “Est ergo prima Petri apostoli sedes
Romana ecclesia ‘non habens maculam nec rugam’ nec aliquid eiusmodi”.
22 Fr. Gloire, Dinoysius Exiguii Praefationes, in Scriptores “Illyrici” Minores, Corpus
Christianorum Series Latina, Brepols, Turnhout 1972, 45-47: “Quanti que sit apud deum meriti
beatus papa gelasius, nos qui eum praesentia corporali non vidimus” (line 21).
23 See Walter Ullman, The Growth of Papal Government in the Middle Ages: A Study in
the Ideological Relation of Clerical to Lay Power, Methuen & Co., London 1962; Id., Gelasius I.
(492-496): Das Papsttum an der Wende der Spätantike zum Mittelalter (= Päpste und Papsttum,
18), Anton Hiersemann, Stutt­gart 1981.
24 For the basic view of the Gelasian renaissance and canon law, see Gabriel Le Bras, Notes
145
Dionysius Exiguus, a native of Scythia, was placed by Cassiodorus, from
whose pen we know most about him, among the viros illustres of the Church, a
fact supported by his literary output which included both theological and canonical works25. The Dionysiana is a collection of texts arranged and translated into
latin that includes decrees of ecumenical councils before 500 AD and which are
augmented in a later version with canons from African councils. In some manuscripts we find a selection of papal decretals ranging from pope Siricius I († 399)
to pope Anastasius II († 498). Frequently the collection is presented as a composite
of a Liber canonum and a Liber decretorum though this does not precisely reflect
the manuscript history26. The collection is important not only for the quality of the
translation and the particular care with which Dionysius arranged the texts but also
for its contents and the fact that it was extensively used in subsequent canonical
collections.
Dionysius also lived throughout what was a particularly tumultuous period
that significantly involved the bishop of Rome: the background of the complex
and tortuous Acacian schism between Rome and Constantinople, which was finally resolved under the pontificate of Hormisdas, and a bitterly disputed papal
election that involved pope Symmachus (498-514) and his rival for the Roman
see, Lawrence. It is difficult to determine with clarity Dionysius’s views on
these issues though it appears that one of the aims of his canonical works was
that of uniting Greek and Latin ecclesiastical traditions by means of a reliable
and excellent translation of texts from greek to latin. In this sense his work
prompted not only an understanding between East and West but also reinforced
unity between them27.
pour servir à l’histoire des collections canoniques. II. Un moment décisif dans l’histoire de l’Église
et du Droit Canon : la Renaissance gélasienne, in Revue Historique de Droit 9 (1930) 506-518.
Gaudemet is somewhat more nuanced with respect to this approach: J. Gaudemet, Les Sources,
op. cit., 130-13: “Mais on n’a pas de preuves certaines d’une action de ce pape pour favoriser la
recherche, le collectionnement, la réunion en collection des canons conciliares et des décrétales émis
depuis le début du ive siècle. Aussi se montre-t-on aujourd’hui plus réservé à l’égard de l’expression
de ‘renaissance gélasienne’”. See also Hubert Mordek, Il diritto canonico fra tardo antico e alto
Medioevo, in La Cultura in Italia fra tardo antico e alto Medioevo, 2 vol., Herder, Rome 1981,
I, 149-164: “Gelasio I, certo, fu una figura di impressionante dinamismo, e la sua teoria dei due
poteri sarebbe stata una delle dottrine che condizionò l’immagine medioevale del mondo; ma la sua
cultura poteva degenerare in ripetizioni insistenti, e nella sua attività per la canonistica egli non è
assolutamente confrontabile con un Carlo, un Ottone o un Gregorio, epònimi di altre rinascite” (160).
25 For Dionysius, see J. Ramboud-Buhot, Denys le Petit, in Dictionnaire de Droit Canonique
4 (1949) 1131-1133; Hubert Mordek, Dionysius Exiguus, in Lexikon des Mittelalters 3 (1986)
1088-1092. Cassiodorus, which is the basic source, provides information on the life of Dionysius
in his Institutiones, 1.23.2 sqq., edited by R.A.B. Mynors, Oxford University Press, Oxford
1937, 62-64.
26 For the textual transmission, see L. Fowler-Magerl, Clavis Canonum, op. cit., 26-32.
27 This is the conclusion of the most extensive study of Dionysius’ decretal collection,
in Hubert Wurm, Studien und Texte zur Dekretalensammlung des Dionysius Exiguus
(= Kanonistische Studien und Texte, 16), L. Röhrscheid, Bonn 1939, 20, 92.
146
While Dionysius’s importance is rightly based on his critical systematization
of the sources and for his decisive influence on the general history of canon law, it
is his decretal collection that remains significant for the Roman Primacy. There is
virtually no evidence to suggest that his collections were put together to resolve the
disputed papal election or that Dionysius was specifically motivated or conditioned
by support for one of the papal contenders, even if the papal decretals were most
likely to have been assembled during pope Symmachus’s pontificate28. We do know
that the disputed election did produce what would be known as the Symmachan
forgeries sometime between 498 and 507. They included various texts though one
in particular remains important for the Roman Primacy, namely the view that the
first see can be judged by no one: Prima sedes a nemine iudicatur. It would remain
a central element in the understanding of the nature of the primacy29.
It is useful to remember that Dionysius’s decretal collection did not specifically reflect his translation abilities, as was the case for his collection of conciliar
canons, but rather his abilities in choosing and organizing relevant juridical material. It seems clear that Dionysius was interested in decretals with a notable juridical
content and one of his aims was to represent the disciplinary norms of the Church30.
It is possible that the Dionysiana reflects an appreciation of the importance of universal church law with its inclusion of both ecumenical councils and papal decretals which also affirmed papal authority. The fact that it was widely respected and
cited suggests this possibility though it should also be noted that it was composed
in a period in which there was considerable activity directed at collecting texts that
included a significant legal element31. What principles directed Dionysius in his
selection of specific papal decretals is still difficult to determine. This is especially
due to the difficulty in determining what material limitations of access Dionysius
confronted in terms of the corpus of texts he had before him. In other words, what
decretals Dionysius deliberately omitted as distinct from those he included. Given
this, his specific interest in decretals with a juridical content understandably meant
that decretals on various issues that involved the rights and obligations of the hiIbid., 3.
See Salvatore Vacca, Prima sedes a nemine iudicatur: genesi e sviluppo storico
dell’assioma fino al Decreto di Graziano (= Miscellanea Historiae Pontificiae, 61), Editrice
Pontificia Università Gregoriana, Rome 1993.
30 It has recently been argued that Dionysius’ task was analogous to that of Justinian’s
compilation and codification especially in consideration of stylistic and structural parallels
between both compilations. See Franca De Marini Avonzo, Secular and clerical culture in
Dionysius Exiguus’ Rome, in Stefan Kuttner and Kenneth Pennington (ed.), Proceedings of
the Sixth International Congress of Medieval Canon Law, Berkeley, California, 28 July-2 August
1980, Monumenta Iuris Canonici, Series C: Subsidia, vol. 7, Biblioteca Apostolica Vaticana,
Città del Vaticano 1985, 83-92.
31 See Ralph Mathisen, The ‘Second Council of Arles’ and the Spirit of Compilation
and Codification in Late Roman Gaul, in Journal of Early Christian Studies (1997) 511-554.
The author offers various examples of these collections, which include alongside the Codes
of Theodosius and Justinian, the Lex Romana Visigothorum or the Breviarium Alarici, the Lex
Romana Burgundionum and the Lex Salica.
28 29 147
erarchical order of the Church which also included a number on the powers of
the pope were included. It is possible that what prompted Dionysius’s choice of
specific decretals was the extent to which they reflected the juridical relevance and
particular authority of the papal norms and consequently the primacy of the bishop
of Rome32.
This is suggested not only by the specific choice of decretals but also by other
factors that point to Dionysius’s interest in the question of the power of the bishop
of Rome. It is of some interest that Cassiodorus points to the fact that he was not
only a Scythian monk but significantly that he was also totally Roman in customs
or manners.33 He also reported that Dionysius was strictly orthodox and particularly attached to the old regulations34. An aspect of this romanitas can be seen in
the prefaces written to his canonical collections. His praise of and respect for pope
Gelasius are evident in the preface to his decretal collection, written to the priest
Julian35, as also is his collaboration with pope Hormisdas who had requested a revision of the prior collection in which the Greek and Latin texts would be presented
in parallel columns. Though only the preface to this version remains it is indicative
of Dionysius’s willing collaboration with the bishop of Rome together with his
concern for textual clarity that he states that in this later version he would omit
texts not universally accepted and which included the Canones apostolorum, the
canons of Serdica and the so called ‘African canons’. The language of the preface
not only points to his particular care in omitting texts not accepted by all, as for
example those of Serdica, but also to his recognition of the role of Hormisdas, potestate qua supra ceteros excelli(t) antistites36. We know that early and widespread
transcriptions had numbered the canons of Nicaea and Serdica in a single sequence
which had resulted in serious confusion. Thus in the conflict between Rome and the
African churches over jurisdiction, pope Zosimus in 418 cited the Serdican canons
as Nicene in justifying his restoration of the deposed African presbyter, Apiarius of
Sicca. It says much for Dionysius’s attention that he corrected this error which as
32 See D. Jasper, The Beginning of the Decretal Tradition, op. cit., 18: “It is also possible
that matters of content, e. g. the stress on the validity of papal directives and the primacy of the
Bishop of Rome, played a role in Dionysius’ organizational scheme”.
33 R. A. B. Mynors, Institutiones, op. cit., 62: “[f]uit enim nostris temporibus et Dionysius
monachus, Scytha natione sed moribus omnino Romanus […]”.
34 Ibid., 156.
35 Fr. Gloire, Praefationes, op. cit., 45: “Quanti que sit apud deum meriti beatus papa
gelasius, nos, qui eum praesentia corporali non vidimus, per vos, alumnos eius, facilius
aestimamus”.
36 Ibid., 51: “[i]mperare dignata est potestate qua supra ceteros excellit antistites, ut qua
possum diligentia nitar a graecis latina minime discrepare atque in unaquaque pagina aequo
divisa tramite utraque e regione subnectam, propter eos maxime, qui temeritate quadam nicaneos
canones credunt se posse violare et pro eis alia quaedam constituta supponere […] Canones
autem qui dicuntur apostolorum, et serdicensis concilii, atque africanae provinciae, quos non
admisit universitas, ego quoque in hoc opere praetermisi – quia (ut superius memini) et hos in illa
prima digessi translatione, ut et vestra paternitas auctoritat(m), quia tenentur ecclesiae orientales,
quaesivit agnoscere”.
148
such supported the African view, though we cannot thereby imply he was contrary
to the properly legitimate claims of the Roman See37.
Though a careful study still needs to be made concerning the precise reasons
behind the choice of the papal decretals in terms of their contents, an attentive
consideration suggests that Dionysius must have been aware of the claims of the
bishop of Rome which were clearly expressed in a number of them. This is over
and above the natural importance of a decretal letter from the head of the Roman
See at the beginning of the sixth century. The Dionysian collection includes 38
papal texts taken from eight popes as well as a rescript of the emperor Honorius38.
Amongst these we find texts from twenty one decretals of Innocent I, seven from
Leo I, a decretal of Gelasius, three from Celestine and one from Siricius. It has been
shown that this selection represents an important part of what might be termed the
papal law from the previous centuries39.
The first decretal of Dionysius’s collection is that of Siricius to Himerius of
Tarragona occasionally described as the first decretal of an absolute monarchy and
the second is that of Innocent I to Decentius of Gubbio which concludes with statements regarding the Roman Primacy. Also included is the famous decretal of pope
Leo I to Anastasius of Thessalonica which dealt with church hierarchy and administration of dioceses and within which is found the famous phrase concerning
papal-episcopal relationships, in partem sis vocatus sollicitudinis, non in plenitudinem potestatis40.
Pope Siricius’s decretal, Directa ad decessorum developed a number ideas
already found in a canon of a Roman synod held under pope Damasus. In the edict
of Theodosius, Cunctos populos (380), the significance of the apostle Peter and of
the bishop of Rome, Damasus, concerning the integrity of the orthodox faith, was
established. Shortly after, as a response to the primatial honours accorded to Constantinople at the first Council of Constantinople (381), a Roman synod fashioned a
canon which was to figure in various collections. It was found in the Praefatio longa of Nicaea, written in the first part of the fifth century, and which also is found at
the beginning of the Quesnelliana and included in the Pseudo-Gelasian Decretum
de libris recipiendis et non recipiendis. The Praefatio longa as printed by Turner in
parallel columns states that the Roman Church has a primacy over other Churches
not because it was founded by synodal decrees, but specifically on the scriptures
as evidenced by the famous Matthean text Tu es Petrus (Mt 16:18‑19). In addition
37 See Hamilton Hess, The Early Development of Canon Law and the Council of Serdica,
Oxford University Press, Oxford 2005.
38 Though there is no critical edition of the decretal collection, the texts are here cited from
the edition of Christophe Justel reprinted in the Patrologia Latina, vol. 67.
39 D. Jasper, The Beginning of the Decretal Tradition, op. cit., 35 sqq.
40 See Agostino Marchetto, “In partem sollicitudinis… non in plenitudinem potestatis”.
Evoluzione di una formula “fortunata” di rapporto Primato-Episcopato, in Studia in honorem,
op. cit., 269-298; Robert L. Benson, Plenitudo Potestatis: Evolution of a Formula from Gregory IV
to Gratian, in Studia Gratiana 14 (1967) 193-217; Walter Ullman, Leo I and the Theme of Papal
Primacy, in The Journal of Theological Studies 11 (1960) 25-51.
149
to this, the Roman Church could also claim to be the only apostolic foundation in
the West and further point to the fact that it enjoyed an apostolic foundation by two
apostles through the martyrdom of both Peter and Paul. This was a unique privilege
of the Roman Church. In this context the ranking of the three so called Petrine sees
was clearly established: Rome, Alexandria and Antioch. While historically it could
be argued that the Christian community of Antioch was older than Rome, the scriptural argument and the particular apostolic foundation gave a unique prominence to
Rome that was not enjoyed by other sees41. It was in a certain sense a natural development that the title sedes apostolica would henceforth generally refer specifically
to the Roman See42.
A number of these ideas were further developed and strengthened by Siricius.
There is a complete identification between the bishop of Rome and Peter and as
such the pope bears the burdens of all. Further, Siricius, adopting the words of Paul
that the apostle has to bear the solicitude for all Churches (2 Cor 11:28), now applies them to Rome. The Roman Church is the head while the other congregations
are members of the body43. In the context of his decretal Siricius seems to hold that
the decretals had a binding force akin to that of conciliar canons as he reminded
Himerius that no priest was allowed to ignore the statuta sedis apostolicae vel
canonum venerabilia definita, and by the sixth century when Dionysius composed
his collection papal decretals enjoyed an authority equal to that of the conciliar
canons44. It is noteworthy that Dionysius did not include Siricius’s decretal of 386
41 Praefatio longa in Cuthbert H. Turner, Ecclesiae occidentalis monumenta iuris
antiquissimi, Oxford University Press, Oxford 1899-1939, I, 155 sqq., Interpetatio quae dicitur
Isidori: “Sciendum sane est ab omnibus catholicis quoniam sancta ecclesia Romana nullis
synodis decretis praelata est sed evangelica voce domini et salvatoris nostri primatum obtenuit,
ubi dixit beato apostolo Petro: TU ES PETRUS […] adhibita est etiam societas in eadem Romana
urbe beatissimi apostoli Pauli vas electionis, qui uno die unoque tempore gloriosa morte cum
Petro sub principe Nerone agonizans coronatus est, et ambo pariter sanctam ecclesiam Romanam
Christo domino consecrarunt, aliisque omnibus urbibus in universo mundo sua praesentia atque
venerando triumpho praetulerunt […] Prima ergo sedis est caelesti beneficio Romanae ecclesiae
quam beatissimi apostoli Petrus atque Paulus suo martyrio dedicarunt”.
42 See Michele Maccarrone, “Sedes Apostolica-Vicarius Petri”: La perpetuità del primato
di Pietro nella sede e nel vescovo di Roma (secoli III-VIII), in M. Maccarrone (ed.), Il Primato
del vescovo di Roma, op. cit., 281 sqq.; D. Jasper, The Beginning of the Decretal Tradition,
op. cit., 8-9.
43 PL 67, 231C-238A: “[p]ortamus onera omnium qui gravantur: quin immo haec portat in
nobis beatus apostolus Petrus, qui nos in omnibus, ut confidimus, administrationis suae protegit
et tuetur haeredes […] quanto nos possumus dolore percelli, cum eorum, qui in nostro sunt
corpore, compellimur facinora deplorare, quibus praecipue secundum beatum Paulum, instantia
quotidiana et sollicitudo omnium Ecclesiarum indesinenter incumbit […] scituri posthac
provincia rum omnium summi antistites, quod si ultra ad sacros ordines quemquam de talibus
crediderint assumendum, et de suo, et de eorum statu quos contra canone et interdicta nostra
provexerint, congruam ab apostolica sede promendam esse sententiam”.
44 Ibid., “Et quamquam statute sedis apostolicae vel canonum venerabilia definita, nulli
sacerdotum Domini ignorare sit liberum”. For the authority of papal decretals, see D. Jasper, The
Beginning of the Decretal Tradition, op. cit., 17-18.
150
to the African bishops in which he holds that Peter was the origin of the episcopal
office and founder of the apostolic succession, a concept that would be developed
and emphasized to varying degrees in future collections45.
While the decretal of Innocent I to Decentius of Gubbio (416) emphasized
uni­formity in disciplinary questions and stated that all Churches founded by
bishops in the West had in fact been established by Peter or his successors46,
his decretal to Victricius of Rouen (404) cited Siricius in affirming that the
apostolate and the episcopacy found their origins in Peter47. This had a number of significant and long lasting consequences especially in disciplinary and
procedural questions. The discipline to be followed was that found in Rome,
qualisque servetur in urbis Romae ecclesiis disciplina. It further reiterated the
norm, which also would have a long history, that even following a judgement
by a bishop, the causae maiores, are to be brought to the apostolic see48. It is
not without significance that Innocent at the beginning of his letter, which dealt
with a variety of disciplinary questions, described it as a regularum hunc librum
quasi didascalium atque monitorem sedulo insinuare.
It is true that though Dionysius’s work was judged positively by the Roman
Church it was never recognized as an official book of canon law. We know that
popes recognized its singular importance and it was already cited in the sixth century in a letter of pope John II to bishop Caesarius of Arles49. In the Carolingian
period the Dionysio-Hadriana, a re-elaborated form of the Dionysiana, would
45 PL 13, 1155C: “Cum in unum plurimi fratres convenissemus ad sancti apostoli Petri
reliquias, per quem et apostolatus et episcopatus in Christo coepit exordium, placuitque propter
emergentes plurimus causas, quae in aliquantis non erant causae, sed crimina, de caetero
sollicitudo esset unicuique in Ecclesia curam hujusmodi habere, sicut apostolus praedicant
Paulus, talem Deo Ecclesiam exhibendam, non habentem maculam aut rugam, ne per alicujus
morbidae ovis afflatum, conscientia nostra contaminata videretur”.
46 PL 67, 237C-237D: “Si instituta ecclesiastica, ut sunt a beatis apostolis tradita,
integra vellent servare Domini sacerdotes, nulla diversitas, nulla varietas in ipsis ordinibus et
consecrationibus haberetur. Quis enim nesciat aut non advertat, id quod a principe Apostolorum
Petro Romanae Ecclesiae traditum est, ac nunc usque custoditur, ab omnibus debere servari, nec
superduci aut introduci aliquid quod aut auctoritatem non habeat, aut aliunde accipere videatur
exemplum? Praesertim cum sit manifestum, in omnem Italiam, Gallias, Hispanias, Africam
atque Siciliam, insulasque interjacentes, nullum instituisse ecclesias, nisi eos quos venerabilis
apostolus Petrus aut ejus successores constituerint sacerdotes aut legant, si in provinciis alius
apostolo rum invenitur aut legitur docuisse”.
47 Ibid., 241D: “Incipiamus igitur, adjuvante sancto apostolo Petro, per quem et apostolatus
et episcopatus in Christo cepit exordium”.
48 Ibid., 242C-242D: “Si quae autem causae vel contentiones inter clericos tam superioris
ordinis, quam etiam inferioris fuerint exortae, ut, secundum synodum Nicaenam congregatis
ejusdem provinciae episcopis jurgium terminetur, nec alicui liceat sine praejudicio tamen
Romanae Ecclesiae, relictis his sacerdotibus qui in eadem provincia Dei Ecclesiam nutu divino
gubernant, ad alias convolare provincias. Quod si quis forte praesumpserit, et ab officio clerici
submotus, et injuriarum reus ab omnibus judicetur. Si autem majores causae in medio fuerint
devolutae, ad sedem apostolicam, sicut synodus statuit post judicium episcopale referantur”.
49 F. Maassen, Geschichte, op. cit, 436 sqq.
151
become the principle liber canonum of the West. It reflects a certain confidence
on the part of the papacy in that it was commissioned by pope Hadrian I and intended for Charlemagne with the intention of accurately representing the canon
law recognized by the Roman Church. In fact the Dionysiana, as might be expected with a collection of papal decretals, witnessed a development through the
addition of other decretals evidenced in the collections Dionysiana Bobbiensis
and Dionysiana adaucta50. Further incorporation of Dionysian material including
both conciliar canons and papal decretals is found in the seventh century Collectio Hispana51.
Both before and after Dionysius we find a number of collections which to
varying degrees reflected attempts to assemble relevant legal texts. These include
the Collectio Frisingensis prima, a chronological arrangement of conciliar canons
and papal decretals composed towards the end of the fifth century52, the Versio
Prisca53 and the Collectio Quesnelliana. Of some interest is the Quesnelliana from
the end of the fifth and beginning of the sixth century and which was possibly used
by Dionysius. It was a chronologically arranged collection of both conciliar canons
and papal decretals and proved important as a source especially for the letters of
Leo I54. The Quesnelliana includes the significant rubric at canon six of the council
of Nicaea, De primatu Ecclesiae Romanae, followed by the statement that Ecclesia
Romana semper habuit primatum55.
The actual transmission of the Nicaean canons, especially at Rome, is connected with the question of the Roman Primacy. We know that Dionysius in his first
edition of the councils aimed to clarify the Nicaean texts, a point averted to in his
preface56. His concern with texts and the confusion over those of Serdica is reflected in the edition he wanted to prepare for pope Hormisdas57. We know of a Latin
collection of these canons together with those of Serdica which was used at Rome
See L. Fowler-Magerl, Clavis Canonum, op. cit., 42-43, 44-45.
Ibid., 39-42.
52 L. Kėry, Canonical Collections, op. cit., 2-3.
53 This collection of the fifth century was referred to by Dionysius in the preface to his
first collection, imperitia credo priscae translationis offensus, and was subsequently named as
such by its first editor Justel. See Cuthbert H. Turner, The Versio called “Prisca”, in Journal of
Theological Studies 33 (1929) 337-346; J. Gaudemet, Les Sources, op. cit., 78-79.
54 L. Kėry, Canonical Collections, op. cit., 27-28.
55 PL 56, 392B-393A: “De Primatu Ecclesiae Romanae. Ecclesia Romana semper habuit
primatum. Teneat autem et Aegyptus Libyae et Pentapolis: ita ut episcopus Alexandriae harum
omnium habeat potestatem; quoniam et Romano episcopo haec est consuetudo. Similiter autem et
qui in Antiochia constitutus est. Itaque et in caeteris provinciis privilegia salva sint Ecclesiarum”.
56 PL 67, 142A-142B: “Ne quid praeterea notitiae vestrae credar velle subtrahere, statuta
quoque Sardicensis concilii atque Africani, quae latine sunt edita, suis a nobis numeris cernuntur
esse distincta”.
57 Fr. Gloire, Preafationes, op. cit., 51: “Canones autem qui dicuntur Apostolorum, et
Serdicensis concilii, atque Africanae provinciae, quos non universitas, ego quoque in hoc opere
praetermisi – quia (ut superius memini) et hos in illa prima digessi translatione, ut et vestra
paternitas auctoritate(m), qua tenentur ecclesiae orientales, quaesivit agnoscere”.
50 51 152
probably during the pontificate of pope Julius I (337-352) or at the latest during the
pontificate of pope Innocent I (401-417)58. Apart from the confusion generated by
placing together canons from two councils, the textual transmission in the canonical collections of canon six of Nicaea also offers an insight into perceptions of the
Roman See and its primacy. Part of the complexity lies in the transmission from
one collection to another and the concomitant and possibly inevitable modification
of texts due either to understandable material mistakes or to changes prompted by
ideological or historical questions. The Latin text is found in a number of variants
conveniently printed by Turner who includes the version read at the Council of
Carthage in 419, which in its turn arose from a copy of the canons that Caecilian
had in 325, and the text forwarded to Carthage by Atticus of Constantinople. The
Collectio Teatina (Ingilramni), which combines the Nicene and Serdican canons
under a single heading, provides the oldest Latin translation of the Nicene canons in a form that was current at Rome in the early fifth century59. The Collectio
Teatina (Ingilramni) also begins with the phrase, Ecclesia Romana semper habuit
primatum60. While the canon as such had little to do with Roman Primacy as such
and rather turned on the determination of the hierarchical order of the principal
Sees, Rome, Alexander and Antioch, it does reflect a consciousness of the place of
the Roman See with respect to other equally ancient sees. Dionysius’s text of this
canon omitted reference to the Roman primacy.
The period that stretches from the sixth century to the appearance of PseudoIsidore is generally characterized as a saeculum obscurum with respect to the actions and effectiveness of the papacy61. Interestingly Gratian’s Decretum includes
only 19 fragments of decretals issued during the period 741-844. On the other
hand we do witness a consolidation of certain themes on the primacy already
found in various papal decretals of the earlier period together with a growing con-
58 See H. Leclercq, Diverses rédactions des canons de Nicée dans les collections de l’Orient
et de l’Ocident, in Karl J. von Hefele, Histoire des Conciles d’après les documents originaux,
trans. by H. Leclercq, Letouzey, Paris 1907, 1, 2, 1139-1176.
59 Found in the only known manuscript, Vat. Reg. lat. 1997. For the background, see Henry
Chadwick, Faith and Order at the Council of Nicaea: A Note on the background of the Sixth
Canon, in Harvard Theological Review 53 (1960) 171-195, especially at 180 sqq.; as Chadwick
points out: “The first sentence of the sixth canon as given in the Chieti manuscript is quoted in
exactly this form by Paschasinus of Lilybaeum, the Roman legate at the Council of Chalcedon”
(181).
60 C. H. Turner, Monumenta, op. cit., 1, 2, 120-121. The Prisca reads: “De primatu ecclesae
Romanae vel aliarum civitatum episcopis. Antiqui moris est ut urbis Romae episcopus habeat
principatum ut suburbicaria loca et omnem provinciam sua sollecitudine gubernet […]”. The
Ingilrami reads: “Ecclesia Romana abuit primatus. Teneat autem et Aegyptus ut episcopus
Alexandriae omnium habeat potestatem, quotiamo et Romano episcopo haec est consuetudo,
similiter autem et qui in Anthiocia constitutus est: et in ceteris provinciis primatus habeant
ecclesiae civitatum amplio rum […]”.
61 See Harald Zimmermann, Der Bischof von Rom im saeculum obscurum, in Il Primato,
op. cit., 643-660.
153
fidence and clarity on the part of some popes as witnessed in their letters62. The
profession of faith issued by pope Hormisdas against certain Christological errors
clearly affirms the papal primacy and was included in the Collectio Avellana63.
Pope Nicholas I bases Roman authority on the divine will and affirms that the papacy enjoys a fullness of power, totius iura potestatis and in a letter to the emperor
Michael he affirms his independence before the secular power, a text also found
in Gratian’s Decretum64. The papal decretal and the language and ideas found in
it continues to be a critical foundation for affirmations concerning the Roman
Primacy. Neverheless, for a papal decretal to be effective, notwithstanding its own
proper and particular merit, it was necessary that it not simply circulate on its own.
Rather, as the experience of the early Church had demonstrated, it was clear that
the traditions, norms and doctrines found in various specific decretals could only
have a wider and more incisive impact if found in the canonical collections. In this
fashion the ancient canonical tradition was preserved and handed on. This is evident in the canonical collections of this first period and would become even more
pronounced and take on a specific form with the appearance of Pseudo-Isidore in
the later part of the first millennium.
62 In general see, M. Maccarrone, “Sedes Apostolica – Vicarius Christi”, in Il Primato,
op. cit., 275-362.
63 “Prima salus est rectae fidei regulam custodire et a constitutis patrum mullatenus deviare.
Et quia non potest Domini nostri Jesu Christi praetermitti sententia dicentis: ‘Tu es Petrus et super
hanc petram aedificabo ecclesiam meam’, haec, quae dicta sunt, rerum probantur effectibus, quia
in sede apostolica immacolata est semper catholica servata religio”, in Otto Gunther, Epistula
Imperatorum, Pontificum, aliorum inde ab anno 367 ad annum 553 datae Avellana quae dicitur
collectio, Tempsky, Vienna 1895-1898, CSEL 35, 520. For the Collectio Avellana, see L. Kėry,
Canonical Collections, op. cit., 37-38.
64 D 96, c. 7. The essential elements of the letter, Proposueramus quidem of Nicholas I
to the emperor Michael, 28 September 865 can be found in Heinrich Denzinger, Enchiridion
Symbolorum definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, ed. Peter Hünermann,
Edizioni Dehoniane, Bologna 1996, 362-367: “Neque ab Augusto neque ab omni clero neque
a regibus neque a populo iudex iudicabitur […] Prima Sedes non iudicabitur a quoquam […]
Porro si Nos non audieritis, restat, ut sitis apud Nos necessario, quales Dominus noster Iesus
Christus hos haberi praecipit, qui Ecclesiam Dei audire contempserint, praesertim cum Ecclesiae
Romanae privilegia, Christi ore in beato Petro fermata, in Ecclesia ipsa disposita, antiquitus
observata et a sanctis universalibus synodis celebrate atque a cuncta Ecclesia iugiter venerata,
nullatenus possint minui, nullatenus infringi, nullatenus commutari, quoniam fundamentum
quod Deus posuit, humanus non valet amovere conatus, et quod Deus statuit, firmum validumque
consistit […] Ista igitur privilegia huic sanctae Ecclesiae a Christo donata, a synodis non donata,
sed iam solummodo celebrata et venerata […] Nos cogunt Nosque compellunt ‘omnium habere
sollicitudinem ecclesiarum’ Dei”.
154
3. From Pseudo-Isidore to the turn of the millennium
The importance of Pseudo-Isidore for the history of the Roman Primacy has
been exhaustively analysed, not least by the honorand of this festschrift. The Pseudo-Isidorian forgeries in a period of crisis provided a vast array of texts that offered
a renewed, forceful and long lasting perception and understanding of the Roman
Primacy. This is clear not only from what can be found in the collection but also by
it fundamental influence on later collections, an influence that continues to be felt
in the present canon law of the Catholic Church65.
While the general aim and scope of the forgeries is stated at the beginning of
the work, Canonum sententias colligere et uno in volumine redigere et de multis
unum facere66, a reading of the corpus points to a more precise intention linked to
the situation in which it was written after Charlemagne and the negative consequences for the life of the Church due to a lack of central authority. Secular authorities regularly intervened in a variety of significant ecclesiastical questions: bishops
were deposed and clerics were tried in criminal trials by secular judges. These
problems were reflected in Pseudo-Isidore by the considerable amount of material
dedicated to the general issues of accusations and trials. Despite attempts at reform
practically little was reached, due especially and understandably to the breakup of
the Empire in 84367.
The forgeries concerned themselves with various questions touching upon
Church life and included material on the sacraments, marriage law, the liturgy and
the concept of the vita primitiva of the Church. A central and important aim of the
work was also the protection of suffragan bishops specifically from the intervention
of metropolitans, provincial synods and secular powers. Various efforts were made
to meet these threats: the chorepiscopi were to be considered as priests; metropolitans were obliged to reach decisions together with their fellow provincial bishops;
a greater authority was granted to primates or patriarchs. It is within this context
that papal power was both underscored and presented as an efficacious means of
protecting the position and rights of bishops. Thus accusations against bishops were
no longer to be entertained by provincial or national synods. Causae that touched on
their prerogatives were perceived as causae maiores and reserved to the pope who
had the sole right to confirm the decisions of councils. In other words the rights of
65 For their influence see Horst Fuhrmann, Einfluss und Verbreitung der pseudoisidorischen
Fälschungen: Von ihrem Auftauchen bis in die neure Zeit, 3 vol., Schriften der MGH 24. 1-3,
Stuttgart 1972-1974. For their relevance to the present Code of Canon Law, see A. Marchetto,
Lo Pseudo-Isidoro e il nuovo C.J.C. della Chiesa Latina, in Id., Chiesa e Papato, op. cit., 92-104.
Fuhrmann had already discussed the influence of Pseudo-Isidor on the first Code of Canon Law
promulgated in 1917: Horst Fuhrmann, Päpstlicher Primat und Pseudoisidorische Dekretalen,
in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 49 (1969) 318-339.
66 P. Hinschius, Decretales Pseudo-Isidorianae, op. cit., 17.
67 For the background and an excellent survey of related questions on Pseudo-Isidore,
see H. Fuhrmann, The Pseudo-Isidorian Forgeries, in D. Jasper, The Beginning of the Decretal
Tradition, op. cit., 135-169.
155
the pope were specifically underlined as a means of defending the rights of suffragan
bishops. This led to a particular emphasis on the primacy of the bishop of Rome68.
The canvas upon which the powers of the bishop of Rome was established
remained the reform of the Church. Many texts reflected various periods of the
Church’s history though the Church of the first centuries is emphasized. The potestas episcopalis was emphasized but this was rendered practically realizable by emphasizing papal primacy. Specifically, the bishops were protected and defended
by means of underscoring the potestas and auctoritas of the bishop of Rome, who
was, perecli­tantibus subvenire, oppressos roborare, tribulantibus manum porrigere, consolando, expellendo lupos rapaces, comprimendo infestos, corrigendo et
emendando69. The idea of defending the bishops and hence the local churches was
not new: it had already been perceived as a particular responsibility of the sedes
apostolica in the primitive Church70. This idea took on a new and singular emphasis during the centuries due especially to the antithesis taken up in Pseudo-Isidore
between the plenitudo potestatis that pertained to the Roman Pontiff and in partem
sollicitudinis vocati of the bishops. This would lead to the idea that the bishop of
Rome was the source of the episcopal potestas iurisdictionis.
The antithesis is well known and finds its origin in the equally well known letter
of Leo I to Anastasius of Thessalonica71. It was modified in what was a spurious addition in the epistle of pope Vigilius to bishop Profuturus, in which the power of the
pope was considerably extended and which significantly changed the original meaning of Leo I’s letter72. According to ps.‑Vigilius all the Churches receive their proper
principium from the Church of Rome73. This is not to say that the role of the bishop
68 See A. Marchetto, in Id., Chiesa e Papato, op. cit., 67: “Peraltro dall’esame del corpus
ps.-is. risulta evidente che l’intenzione principale è in realtà quella di venire in aiuto alla Chiesa
franca, lacerata dalle invadenza del potere secolare e dalle lotte dinastiche e nella quale si notava
un esorbitante esercizio dell’autorità metropolitana e abusi derivanti dall’istituto del corepiscopo.
Le falsificazioni ps.-is. appaiono, quindi, indirizzate a tutelare la libertà ed i diritti dei vescovi e a
prottegerne la dignità ed autorità. In questa prospettiva lo ps.-is. ricerca nel successore di Pietro
il difensore ed il garante della sicurezza dell’episcopato, base indispensabile e necessaria alla
‘riforma’ della Chiesa franca, derivandone, peraltro, una notevole accentuazione del Primato del
Vescovo di Roma”.
69 A. Marchetto, Episcopato e Primato Pontificio, op. cit., 219. For Pseudo-Isidore I
follow this important study of Marchetto.
70 See in general Yves Congar, Sainte Église. Études et approaches ecclésiologiques, Cerf,
Paris 1963; Pierre Batiffol, Cathedra Petri: Études d’Histoire Ancienne de l’Église, Cerf, Paris
1938.
71 Leonis ad Anastasium in P. Hinschius, Decretales Pseudo-Isidorianae, op. cit., 712:
“Vices enim nostra ita tuae credimus caritati ut in partem sis vocatus sollicitudinis non in
plenitudinem potestatis”.
72 Ps. Vigilii ad Profuturum episcopum, in P. Hinschius, Decretales Pseudo-Isidorianae,
op. cit., 620: “Ipsa namque ecclesia quae prima est ita reliquis ecclesiis vices suas crediti
largiendas, ut in parte sint vocatae sollicitudinis, non in plenitudine potestatis, unde omnium
appellatium apostolicam sedem episcoporum iudicia et cunctarum maiorum negotia causarum
eidem sanctae sedi reservata esse liquet […]”.
73 Ibid., “Quod beati apostoli Petri Romanae scilicet ecclesiae sedes sacerdotalis mater
156
in Pseudo-Isidore was eliminated but what we perceive is a number of characteristic
elements which would accentuate what was in effect Roman centralization and which
would assume various forms in subsequent centuries. In Pseudo-Isidore we find a
more precise understanding of the primacy in which the bishops not only appear
as subordinates of the pope but also as instruments of the exercise of his primatial
power. The pope would be seen as the source of the bishops’ potestas and iurisdictio.
In other words the text of ps.‑Vigilius expresses a concept that would establish a new
relationship between the Roman Church and the local Churches and thus between the
bishop of Rome and other bishops. In fact the Roman Pontiff would be seen as the
source of what was episcopal sollicitudo. Subsequently canonists and theologians, on
the basis of the texts in Pseudo-Isidore, would develop a new understanding of the relationship between the episcopate and what was understood as the Roman Primacy74.
Clearly in the first centuries of the Church’s history, the preeminence of the Roman
See was perceived in terms of communio. Rome was the centre of the communio fidei
thereby establishing a certain order for the cura animarum. In this context the Roman Church was described as presiding in charity and was presented as the ecclesia
principalis75, and the potentior principalitas76. With Pseudo-Isidore these ideas were
extended and in many respects surpassed though never completely lost.
A further important and long lasting development in Pseudo-Isidore can be
seen in the treatment of appeals to Rome. Clearly both before Serdica and even
more clearly afterwards, the bishop of Rome exercised a relatively unique role in
questions of ecclesiastical discipline but with the false decretals there is a change
of perspective and a particular approach to the primacy that is new. In PseudoIsidore we find extensive and detailed texts on procedure and the judicial privileges
of the sedes apostolica77. Thus, at Serdica the pope, after an appeal, could require
that the case be tried anew but in the province in which the question arose. In this
sense the provincial council maintained its judicial role and prerogative. In PseudoIsidore the council looses a degree of its authority: it is now subject to papal authority and directed by his legates and popes can directly restore deposed bishops to
sit dignitatis atque ecclesiasticae magistrationis. Nulli vel tenuiter scienti vel pleniter sapienti
dubium est, quod ecclesia Romana fundamentum et fons sit ecclesiarum, a qua omnes ecclesias
principium sumpsisse nemo recte credentium ignorat”.
74 See A. Marchetto, Episcopato e Primato, op. cit., 262 sqq.
75 See Cyprian, ep. 59, 14, in Guilelmus Hartel (ed.), Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum
Latinorum, 3.2, Vienna 1871, 683: “[p]ost ista adhuc insuper pseudoepiscopo sibi ab haereticis
constituto navigare audent et ad Petri cathedram atque ad ecclesiam principalem unde unitas
sacerdotalis exorta est a schismaticis et profanis litteras ferre nec cogitare eos esse Romanus
quorum fides apostolo praedicante laudata est, ad quos perfidia habere non possit accessum”.
CSEL 3, 11, 683 and Irenaeus, Adversus haereses, 3, 3, 2, PG 7, 848 sqq.
76 Irenaeus, in PG 7, 849: “Ad hanc enim Ecclesiam propter potentiorem principalitatem
necesse est omnem convenire Ecclesiam, hoc est, eos qui sunt undique fideles, in qua semper ab
his, qui sunt undique, conservata est ea quae est ab apostolis Traditio”.
77 See A. Marchetto, Diritto di appello, in Chiesa e Stato, op. cit., 191-206.
157
their sees78. This reflected a fundamental idea in the false decretals, namely that no
decision which concerned bishops could be taken without the intervention of the
successor of Peter. This particular judicial power of the primacy, especially with
respect to bishops, was traditionally understood and expressed as causae maiores
et difficiliores but with Pseudo-Isidore we find a significant extension of the Roman
See’s claims and effective power. This extension and emphasis of papal primacy
can also been observed in the reservation of the right of convoking councils together with their confirmation or approval by the bishop of Rome79. Rather extraordinarily, it appears that the right of the bishop of Rome to convoke general councils
is also extended to the convocation of provincial councils80.
An important source for Pseudo-Isidore is the Collectio Angilramni which
seems to have been authored by Angilram, bishop of Metz (768-791), and intended for pope Hadrian I81. The Collectio Angilramni is specifically concerned with
criminal accusations against bishops and other clergy though in its second chapter
reference is made to the role of the Apostolic See and specifically to the primacy.
Alongside its authority with respect to the legitimate convocation of synods for the
judging of bishops, the Roman see caput est omnium ecclesiarum, a qua omnes
sumpsere originem. In fact its primacy is not derived from synods but from the
Lord as the text tu es Petrus establishes82. The collection naturally recognizes the
right of appeal to Rome and confirms the preeminence of the canons and decrees
of the Roman bishops83.
Ibid., 196, n. 31-32.
Pelagii II Papae ad Universos Episcopos, in P. Hinschius, Decretales Pseudo-Isidorianae,
op. cit., 721: “Cum generalium synodorum convocandi auctoritas apostolicae beati Petri sedi
singulari privilegio sit tradita et nulla umquam synodus rata legatur que apostolica auctoritate
non fuerit fulta”.
80 Damasi ad Stephanum, in P. Hinschius, Decretales Pseudo-Isidorianae, op. cit., 503:
“Nam, ut nostis, synodum sine eius auctoritate [huius sanctae sedis] fieri non est catholicum, nec
episcopus in legitima synodo et suo tempore apostolica vocatione congregata definite damnari
potest, neque ulla umquam concilia rata leguntur, que non sunt fulta apostolica auctoritate”. See
also letter of Julius in P. Hinschius, 472.
81 See L. Fowler-Magerl, Clavis Canonum, op. cit., 50-55.
82 Karl-Georg Schon, Die Capitula Angilramni. Eine prozessrechtliche Fälschung
Pseudoisidors, Hahn­sche Buchhandlung, Hannover 2006, 96-97: “II. (a) Nullus episcopus
nisi canonice vocatus et in legitima synodo suo tempore apostolica auctoritate convocata, cui
iussione domini et meritis beati Petri apostoli singularis congregandorum conciliorum auctoritas
et sanctorum canonum ac venerandorum patum decretis multipliciter privata tradita est potestats,
super quibuslibet criminibus pulsatus audiatur vel impetatur. (b) Sin aliter praesumptum a
quibuslibet fuerit, in vanum deducatur, quod egerint, nec inter ecclesiastica ullo modo reputabuntur
nec ullas habebit vires, quicquid ei obviaverit, (c) quoniam eadem sedes testante veritatis voce
primum primatum obtinuit, nec prima diceretur, si aliam super se haberet, quae etiam caput
est omnium ecclesiarum, a qua omnes sumpsere originem. Primatum enim non synodalibus aut
aliquibus commentis meruit institutis, sed domino largiente, qui ait: Tu es Petrus et super hanc
petram aedificabo ecclesiam meam, et reliquia talia et his similia, (d) quibus si aliquis superbo
spiritu obviaverit praeceptionibus, non exeat impunitus, sed gradus sui periculo subiacebit”.
83 Ibid., c. XX, 127: “Placuit, ut, si episcopus accusatus appellaverit Romanum pontificem,
78 79 158
Just over a century later, the Collectio canonum Anselmo dedicata, a collection with over 2000 canons opens with the title: Prima itaque pars huius quod Deo
iuvante aggredior, operis continent de primate et dignitate romanae sedis aliorumque primatuum, patriarcharum, archiepiscoporum atque metropolitanorum84.
It has been shown that this collection made more use of Gregory the Great’s register than any other canonist, including approximately 300 letters and excerpts and
in this fashion it passed on this pontiff’s views on the primacy. The collection was
also used by Burchard of Worms and along with Regino of Prüm’s Libri duo de
synodalibus causis, provided the basis for the Gregorian letters he would include
in his Decretum85.
Burchard of Worms’ Liber decretorum completed between 1012 and 1022
continued to be popular and consulted through the eleventh and even the twelfth
century and it has been stated that it was the most influential legal work of the
eleventh century86. It offered a coherent and systematic body of law which was
particularly useful for bishops, priests and students and as recently established
it was also significant for the development of a theory of law and legal reasoning87. Possibly given its practical usefulness, evidenced by the fact that it was
extensively copied – the only other pre-Gratian systematic collection copied
more often was the Panormia – explains the very cursory attention paid to the
question of the Roman Primacy. In his preface Burchard offered a description
of the books and the first deals with, among other things the primacy of the
Apostolic See: Primus liber continet de potestate et primate apostolicae sedis.
He devotes three brief texts to the question and they deal with the traditional
issues connected with the primacy: reference to the classic Tu es Petrus scriptural citation; the preeminence of Peter who enjoys the power to bind and to
loose; and the jurisdictional primacy of the See of Peter especially concerning
the majores causae88. Burchard begins with the decretal of Pseudo-Anacletus
id statuendum, quod ipse censuerit”; c. XXXVII, 138-139: “Constitutiones contra canones et
decreta praesulum Romanorum vel bonos mores nullius sunt momenti”.
84 See L. Fowler-Magerl, Clavis Canonum, op. cit., 70-74. The text has been partially
edited in J.-C. Besse, Collectionis ‘Anselmo dedicata’ liber primus, in Revue de droit canonique
9 (1959) 207-296.
85 D. Jasper, The Beginning of the Decretal Tradition, op. cit., 77.
86 Ibid., 118.
87 For the Liber decretorum, see L. Fowler-Magerl, Clavis Canonum, 85-90. For a renewed
understanding of the significance of Burchard’s work especially with respect to his importance
for the development of legal reasoning alongside what might be termed the practical aims of
his collection, see Greta Austin, Shaping Church Law Around the Year 1000 The Decretum
of Burchard of Worms, Ashgate Publishing Limited, Farnham and Burlington 2009. Austin
concludes, p. 239: “Burchard should perhaps be seen, alongside of Ivo, as one of the fathers of
systematic legal reasoning – as one who contributed to an effort to find a broader rationale and
system underpinning the ‘tangled’ and ‘discordant’ body of canons […] The origins of systematic
legal reasoning in medieval Europe may have begun earlier, with Burchard of Worms and his
Decretum”.
88 PL 140, 539C-550C, Cap. I: Quod in Novo Testamento post Christum Dominum nostrum
159
which provided the beginning of many systematic canon law collections in the
eleventh century89.
While the tenth century remained a difficult period for the exercise of
papal power, no one ever doubted the primacy of Rome. Nevertheless, from the
mid-eleventh century we notice a strong and ample emphasis on the canonical
traditions as handed down from the past, especially with respect to the Roman
Primacy. In the context of the reform movement the canonical collections enriched and strengthened the various ideas and concepts on the Roman See and
the Primacy found in the canonical collections of the previous millennium. In
this process earlier collections had adopted not only relevant conciliar canons
and papal decretals but had also looked to other sources which included the
Church fathers and Roman law90. In the collections of the eleventh century
other sources were found in the collections including citations from the Bible,
Christian history and gesta. But one of the principal concerns of the canonists
connected with the eleventh century reform was the explanation and definition
of what was meant by the privilegium Romanae ecclesiae. It was in this particular form that the primacy of the Roman Church was especially presented
and developed.
Canonists placed great emphasis on the privilegium and thereby how it related
to the primacy. Thus in the Collectio canonum of Anselm of Lucca the first two
books, comprising some 171 capitula, are devoted to the primacy of Rome and
it reflected Gregory VII’s understanding of the primacy in basing the unity of the
Church on the principle of obedience to Rome and the Roman Pontiff. It emphasized Christ’s particular foundation of the Church on Peter who was the head of the
hierarchy91. The consequences of such an understanding were already evident in
Pseudo-Isidore and were further underscored by Anselm. The jurisdsiction of bishops was limited by his emphasis on the fact that the difficiliores causae et maiora
a Petro sacerdotalis coeperit ordo, (Ex epistola Anacleti papae ad episcopos Italiae directa);
Cap. II. De privilegio beato Petro Domini vice solummodo commisso, et discretion potestatis,
quae inter apostolos fuit, (Ex epistola Melchiadis papae, Hispanis episcopis directa); Cap. III. Ut
summus sacerdos non vocetur Romanus pontifex, sed primae sedis episcopus (Can. Afric. Can. 6).
89 C. Rolker, Canon Law and the Letters of Ivo of Chartres, Cambridge University Press,
Cambridge 2010, 193-194, makes the point that Ivo of Chartres, who also opened his overall
treatment of papal primacy, appeals to Rome, papal legates, and primates (Decretum V, cc. 1-56)
with Pseudo-Anacletus, actually, unlike Burchard, cites the whole text which holds that all the
apostles were given the same powers which subsequently descended to the bishops. In this sense
Ivo stressed episcopal rights more than Burchard. For other systematic collections and their use of
Pseudo-Anacletus, see ibid., 193, n. 134, which includes amongst others Deusdedit and Bonizo.
90 Thus the writings of the Fathers were apparently cited for the first time in the eighth
century Hibernensis: see Charles Munier, Le sources patristiques du droit de l’Église du viiie au
xiiie siècle, Dissertation University of Strasbourg, Mulhouse 1957, 25 sqq. In the late ninth
century Collectio Anselmo dedicata we find the use of Roman law.
91 See Kathleen G. Cushing, Papacy and Law in the Gregorian Revolution. The Canonistic
Work of Anselm of Lucca, Clarendon Press, Oxford 1998, 112, n. 34 and 113, n. 36 for citations
to Anselm.
160
negocia were to end in Rome which of course not only reflected extensive papal
authority but also a consequent limitation on the episcopate92.
Cardinal Deusdedit in the preface to his collection, which was addressed to
pope Victor III, described his aim as wanting to reveal to the ignorant the privilege
of authority by which the Roman church is pre-eminent in the Christian world. In
citing the authority of the Fathers he would define the nature of the privilege93. In
his capitulatio of the first book Deusdedit opens with a long series of affirmations
on the Roman Primacy which then refer to the canons in the text. These affirmations are a comprehensive summary of the privileges of the Roman See94. Deusdedit provides two forms of the celebrated canon 6 of Nicaea. The first, the Versio
prisca is similar to the letter of ps.‑Anacletus, while the second, from the Hispana
is taken from Pseudo-Isidore95. In a very real sense papal authority absorbs though
does not eliminate other authority in the Church. It was based on the idea that papal
authority and centralising tendencies could ensue the unity of the Church and its
necessary reform.
The collections of the eleventh century provide a considerable array of texts
taken from the canonical tradition which accentuate the prerogatives of the apostolic see and the Roman Primacy. These texts frequently appear in the opening title,
De primatu Romanae ecclesiae which in many respects leaves little doubt as to
one of their principal concerns. One rather unique ‘collection’ remains the famous
Dictatus papae of Gregory VII found in his Register between documents dated 3
and 5 March 107596. The 27 theses offer a succinct summary of the understanding
of the nature of the privileges of the Roman Church at least as perceived by the
pontiff while also reflecting the general approach to the question found in other collections. A further analogous ‘collection’ that also may have come from the circle
of Gregory VII is the Proprie auctoritates apostolice sedis. This collection also
provides a clear and forceful list of the privileges of the Apostolic See. Other collections dealt with the Roman Primacy within a wider ecclesiological context while
these two texts were unique in their precise delineation of the theme97.
Ibid., 119, n. 59.
Wolf von Glanvill, Die Kanonessammlung des Kardinal Deusdedit, Druck und Verlag
Ferdinand Schöningh, Paderborn 1905, 2-3: “Itaque ego auctoritatis ipsius privilegium, quo omni
Christiano orbi preminent, ignorantibus patefacere cupiens […] ex variis sanctorum patrum et
Christianorum principum auctoritatibus potioribus quibusque in unum congestis […]”.
94 Ibid., 6-10.
95 Ibid., 30: “Antiqua consuetudo optinuit, (de qua scribit Anacletus in tertia epistula sua)
ut urbis Rome episcopus habeat principatum ut suburbicaria loca (idest regna, que tunc erant sub
urbe), et omnem provinciam suam sollecitudine gubernet […] Alia translatio sic habet: Antiqua
consuetudo permaneat in Egypto […]”.
96 Edited by Erich Caspar, Registrum Gregorii VII, MGH, Ep. Sel., I-II, Weidmannsche
Buchhandlung, Berlin 1920, Reg. 55a, 201-208
97 See Hubert Mordek, Dictatus Papae e Proprie Auctoritates Apostolice Sedis. Intorno
all’idea del Primato Pontificio di Gregorio VII, in Rivista di Storia della Chiesa in Italia 27
(1974) 1-22.
92 93 161
We know that already in 1059 the future pope Gregory VII, Hildebrand, had
asked Peter Damian to compile a small collection of decrees pertaining to the authority of the Apostolic See, a request that Damian neglected to meet though he
seems to have realized its potential importance during his legation to Milan where
he had gone to deal with the Patarene crisis98. Peter Damian had been sent to Milan
by pope Nicholas II in 1059, together with Anselm, bishop of Lucca, to deal with
the question of clerical concubinage and simony that had convulsed the church of
Milan through the violent reaction of the Patarenes. In his letter reporting the resolution of the situation he found, Peter Damian not only offered an important insight
into Hildebrand’s interest in papal privileges, an interest he probably realized in the
Dictatus papae, but also outlined the unique standing of the Roman Church. The
text, known as the De privilegio romanae ecclesiae, offers a powerful presentation
of the Roman primacy along with its rights to implement norms for the proper conduct of clerical life. Though in a formal sense Peter Damian was not a jurist, there is
no doubt that he utilized various canonical collections in his various works, and the
present text provides a succinct understanding of the ideas found in the so called
‘gregorian collections’ concerning the Roman primacy99.
The Roman Church, founded on the cathedra of the blessed Peter is head of
the Christian religion enjoying a pre-eminence over all other Churches. While the
pre-eminence and dignity of other Churches was instituted by a king, an emperor
or other lesser person, only the Roman Church was founded and built upon the rock
of faith by He who bestows rights on the earthly realm. In other words, no earthly
decision established the Roman Church but rather the Word himself. The conclusion for Peter Damian is clear: while anyone who deprives any Church of its rights
commits an injustice, he who attempts to deprive the Roman Church of a privilege
conferred on t by the supreme head of all Churches, without doubt falls into heresy100. It is also of some interest that Peter Damian emphasizes the link between the
98 K. Reindel (ed.), Die Briefe des Petrus Damiani, 4 vol., MGH, BdK, 5/1-4, Munich
1983-1993, II, letter 65: “Hoc tu suptiliter, ut et alia multa perpendens, frequenter a me karitate,
quae superat omnia, postulasti, ut romanorum pontificum decreta vel gesta percurrens quicquid
apostolicae sedis auctoritati spetialiter competere videretur, hinc inde curiosus excerperem,
atque in parvi voluminis unionem nova compilationis arte conflarem. Hanc itaque tuae petitionis
instantiam cum ego neglegens floctipenderem, magisque superstitione quam necessitate
obnoxium iudicarem, divinitus, ut reor, actum est, ut Mediolanensem urbem beatissimi papae
legatione fuctus adirem”.
99 For Peter Damian’s use of on canonical sources and his dependence on them, see J. J.
Ryan, Saint Peter Damiani and His Canonical Sources. A Preliminary Study in the Antecedents
of the Gregorian Reform, Pontifical Institute of Medieval Studies (= Studies and Texts, 2),
Toronto 1956. The author presents some 296 texts that contain canonical sources. For a succinct
presentation of Peter Damian’s ideas on the papacy and the Church, see Orazio Condorelli,
San Pier Damiani e il Diritto della Chiesa nella Societas Christiana, in Bernard d’Alteroche,
Florence Demoulin-Auzary, Oliver Descamps, Franck Roumy (ed.), Mélanges en l’honneur
d’Anne Lefebvre-Teillard, Éditions Panthéon-Assas, Paris 2009, 233-265.
100 K. Reindel, Die Briefe, op. cit., letter 65: “[…] quia, dum haec una per cathedram beati
Petri totius christianae religionis caput effecta cunctis in orbe terrarum principetur aecclesiis
162
prerogatives of the Roman Church and its particular role in ensuring the equity of
the canon law and ecclesiastical order101. The consciousness of the importance of
canon law for the reform of the Church and the central role of the Roman See was
a constant theme of reform popes and naturally the canonical collections.
4. Conclusion
In his De consideratione written in the middle of the twelfth century, Bernard
of Clairvaux offers a significant and influential description of papal authority expressed not only in judicial terms but also founded on scriptural language while also
establishing its spiritual and charismatic elements102. In a certain sense it summarizes
a process of identification and clarification of what was the nature of the Roman primacy and reflects the extraordinary energy devoted to the question by the canonists
and theologians who wrote after Gratian. It is arguable that a number of canonists of
the first millennium would have been surprised at the extent to which the nature and
understanding of the role of the bishop of Rome had developed but that the bishop
of Rome enjoyed a particular and unique role within the corpus Christi would not
have come as a surprise to them. Central to the canonists’ approach to the Roman primacy during the first millennium were the papal decretals which provided a wealth of
concepts that placed together in single collections and then passed on in subsequent
collections would provide the juridical and intellectual basis for its development. The
fact that at an early stage we find texts, also from councils, that touched on de primatu
Romanae ecclesiae and that collections in time devoted chapters to the same topic
reflects the historically central role that the sedes apostolica played in the understanding of the Church in general and how its essential role played out in practice.
[…] Omnes autem sive patriarchi […] sive metrepoleon primatus, aut episcopatuum cathedras
[…] sive rex, sive imperator, sive cuiuslibet conditionis homo purus instituit […] Romanum
autem aecclesiam solus ille fondavi et super petram fidei mox nascentis erexit […] Non ergo
quaelibet terrena sententia, sed illum verbum, per quod constructum est coelum et terra […]
Romanam fundavit aecclesiam […] Unde non dubium, quia quisquis cuilibet aecclesiae ius suum
detrahit, iniustitiam facit, qui autem Romanae aecclesiae privilegium ab ipso summo omnium
aecclesiarum capite traditum aufferre conatur, hic procul dubio in heresim labitur, et cum ille
notetur iniustus, hice dicendus hereticus”.
101 Ibid., “Privilegium Romanae aecclesiae quantas habeat vires ad servandam canonicae
aequitatis et iustitiae regulam quantunque vigorem ad disponendam aecclesiastici status contineat
disciplinam […]”.
102 PL 182, 787C-788C: “De caetero oportere te esse considera formam justitiae,
sanctimoniae speculum, pietatis exemplar, assertorem veritatis, fidei defensorem, doctorum
gentium, Christianorum ducem, amicum Sponsi, Sponsae paranymphum, cleri ordinatorem,
pastorem plebium, magistrum insipientum, refugium oppressorum, pauperum advocatum,
miserorum spem, tutorem pupillorum, judicem viduarum, oculum caecorum, linguam mutorum,
baculum senum, ultorem scelerum, malorum metum, bonorum gloriam, vigam potentium,
malleum tyrannorum, regum patrem, legum moderatorem, canonum dispensatorem, sal terrae,
orbis lumen, sacerdotem Altissimi, vicarium Christi, christum Domini […]”.
163
The process of understanding the nature of the Roman primacy continues. In
his Encyclical Ut unum sint, pope John Paul II made the point that it was necessary
“to find a form of the exercise of the Primacy, which, although not renouncing in
any way that which is essential to its mission, would be open to a new situation”103.
Central to providing a new form of the exercise of the primacy is an understanding
of its historical development. Central to this task remains the contours of the Roman primacy as found in the canonical collections of the first millennium.
103 Ioannes Paulus II, Litt. Enc. Ut unum sint de Oecumenico officio, 25 mai 1995, in
Acta Apostolicae Sedis 87 (1995) 921-982, n. 95: “[…] ut aliquam inveniamus formam primatus
exercitii, quae nihil essentiae suae deponens, in novam tamen condicionem pateat […]”.
164
Unum ex suis ydolum erexerunt.
Der Papst als Bildkörper
im Diskurs
der Gregorianischen Reform
Andreas Matena
In der Zeit der Gregorianischen Reform präzisierten und bündelten sich zahlreiche Primats­argumente. Die Päpste definierten in den Auseinandersetzungen mit den
römisch-deutschen Kaisern ebenso sich selbst wie ihr Amt und die Reichweite ihrer
auctoritas innerhalb der ecclesia universalis derart, dass sich diese Definitionen auch
noch gegenüber den Bischöfen als tragfähig erwiesen; vor allem im 13. Jahrhundert
verdichteten sie sich nicht zuletzt in der päpstlichen Titulatur (vicarius Christi).1
Im Folgenden soll eine bisher in der entsprechenden Literatur nicht beachtete Komponente untersucht werden, inwieweit nämlich jene Auseinandersetzung
sich auch als ein Diskurs über die Verkörperung von auctoritas darstellen lässt.
So ist sowohl von kaiserlichen als auch von päpstlichen Parteigängern regelmäßig
behauptet worden, der aus ihrer Sicht falsche Papst beziehungsweise König sei
als idolum zu betrachten. Dieser Idolatriediskurs des 11. und 12. Jahr­hunderts,
so die zentrale These, stellte innerhalb der Papstgeschichte eine experimentelle
Phase2 dar, die über Innozenz III. bis in die Neuzeit hineinführen sollte: Der Papst
setzte sich zu Christus selbst in Beziehung, ohne jene Bezogenheit in einer simplen Identifikation aufgehen zu lassen. Den geeigneten Ansatz schien eine „Bildtheologie“ zu bieten, die den falschen Prätendenten als idolum, seine Anhänger
dementsprechend als Idolatoren herabzustufen erlaubte. Von hier aus führt eine
direkte Linie zu Spitzenäußerungen wie etwa die des Petrus Johannes Olivi von
1295, der von der Behauptung Einiger berichtete, der Papst als imago Christi sei
geradezu ebenso ungeschaffen, sündenfrei, unfehlbar und allwissend wie Christus
selbst3; Olivi benannte den Papst entsprechend als regula inerrabilis fidei.4 Nach
Cf. Michele Maccarrone, Vicarius Christi. Storia del titolo papale, in Lateranum NS
XVIII (1952) 21‑58.
2 Jochen Johrendt, Harald Müller, Zentrum und Peripherie. Prozesse des Austauschs, der
Durchdringung und der Zentralisierung der lateinischen Kirche im Hochmittelalter, in Id. (Hg.),
Römisches Zentrum und kirchliche Peripherie. Das universale Papsttum als Bezugspunkt der
Kirchen von den Reformpäpsten bis zu Innozenz III., Studien zu Papstgeschichte und Papsturkunden 2, de Gruyter, Berlin und New York 2008, 1-16; Franz-Reiner Erkens, Herrschersakralität
im Mittelalter von den Anfängen bis zum Investiturstreit, Kohlhammer, Stuttgart 2006, 217.
3 Agostino Paravicini Bagliani, Der Leib des Papstes. Eine Theologie der Hinfälligkeit,
C. H. Beck Verlag, München 1997, 78; P. L. Oliger, Epistula ad Conradum de Offida, in Archivium Franciscanum Historicum 11 (1918) 366-373: unde autem sequitur quod quia papa
vel episcopus est quoad aliquid Christi ymago, ergo quoad omnia est Christi ymago […] Quod
vero dicunt, quod ergo quod est increatus et immensus et impeccabilis et omnium praescius sicut
Christus, quod nullus dicet vel sapiet nisi demens.
4 Michele Maccarrone, Una questione inedita dell’Olivi sull’infallibilità del papa, in Rivista di Storia della Chiesa in Italia 3 (1949) 309-343.
1 167
ihm konnte auch Alvarus Pelagius 1322 über den Papst sagen, dass dieser in ganz
besonderer Weise nach Gottes Bild und Gleichnis geschaffen sei.5 Die Aktualität eines solchen Bilddiskurses für die Neuzeit illustriert die Aussage des Genfer
Weihbischofs Gaspar Mermillod im Vorfeld des 1. Vatikanischen Konzils, der von
einer dreifachen Inkarnation Christi sprach, und zwar im Leib seiner Mutter, in
der Eucharistie und – im Papst.6 Der Bilddiskurs des 11. und 12. Jahrhunderts
fand seine Fortsetzung ebenso im vicarius Christi-Titel wie in den papalistischen
Diskussionen der Neuzeit.
Nach einem kurz gehaltenen Überblick über die Epoche (1.) und den
Forschungs­stand (2.) sowie einigen Hinweisen auf die Virulenz des Idolatriediskurses im 11. und 12. Jahr­hundert (3.-5.) werden die entsprechenden Diskurse
selbst in pro‑ (6.) und antipäpstlicher Per­spek­tive (7.) nachgezeichnet. Den Abschluss der Untersuchung bilden die beiden großen päpstlichen Schismen des 12.
Jahr­hunderts (8.); in einem kurzen Fa­zit (9.) werden die Ergebnisse dann noch
einmal gebündelt.
1. Die Gregorianische Reform als geschichtlicher Hintergrund
Der Veränderungsprozess, den man unter dem Begriff der Gregorianischen
Reform subsumiert, bewirkte über eine Verschiebung in der Sicht der herrscherlichen Sakralität ebenfalls ein verändertes Kirchenbild. Die theoretischen Grundlagen einer Erwählung des Herrschers durch Gott und seines Christusvikariates
erwiesen sich unter Hein­rich IV. („Canossa“) im gleichen Maße als brüchig, in dem
sich das Verständnis der reformpäpstlichen Partei vom traditionellen Verhältnis von
regnum und sacerdotium wandelte. Wenn der König auch weiterhin das Haupt aller
Laien bildete, so war er doch selbst ebenfalls Laie ohne eigene Sacerdotalität. In
der Perspektive einer longue durée liest sich dieser durch „Canossa“ angestoßene
Prozess als „Entsakralisierung“; denn auch wenn die sacerdotale Idee unter den
Stauferkaisern eine erneute Blüte erlebte, existierte der breite Konsens einer herrscherlichen Sakralität nicht mehr. So benannte der Kaiserordo des Cencius vom
Ende des 12. Jahr­hunderts einzelne Gewandstücke des Kaisers zwar noch immer
mit für Klerikern üblichen Bezeichnungen; zugleich empfängt der Papst den Kaiser
nur sicut (!) unum ex diaconibus zum Kuss, dieser bietet dem Papst nur more (!)
subdiaconi Kelch und Ampulle.7
Nach A. Paravicini Bagliani, Der Leib des Papstes, op. cit., 75.
Nach Jürgen Werbick, Den Glauben verantworten. Eine Fundamentaltheologie, Herder,
Freiburg i. Br. 2000, 750-751.
7 Franz-Reiner Erkens, Das sakrale Königtum in der Krise. Eine Skizze, in Christoph
Stiegemann, Matthias Wemhoff (Hg.), Canossa 1077 – Erschütterung der Welt. Geschichte, Kunst
und Kultur am Aufgang der Romanik, 2 Bde., Hirmer, München 2006, Bd. 1, 93-98; F.‑R. Erkens,
Herrschersakralität im Mittelalter, op. cit.; Percy Ernst Schramm, Sacerdotium und Regnum im
Austausch ihrer Vorrechte. Eine Skizze der Entwicklung zur Beleuchtung des „Dictatus Papae“
5 6 168
Mit diesem mehr als knapp skizzierten Diskurs ging jedoch nicht nur eine
Veränderung in der Sicht der beiden Gewalten von regnum und sacerdotium zueinander einher, sondern auch eine neue, genuin „petrinische Ekklesiologie“: Die
Kirche fand „ihr wichtigstes Gestaltungszentrum im Papsttum“.8
2. Das Idolatriemotiv in den Forschungen zur mittelalterlichen Papst‑
geschichte
Für den Idolatriediskurs innerhalb des Papsttums fehlt, abgesehen von Papst
Bonifaz VIII., jede eingehende Untersuchung. Bonifaz VIII. war vorgeworfen
worden, Menschen zur Verehrung von Götzenbildern (ad ydolatrandum) verführt
zu haben, indem er silberne Statuen von sich in Kirchen hatte aufrichten lassen
(fecit ymagines suas in ecclesiis erigi), für die er reverentia verlangt habe.9 Später wurde die Anklage dahingehend erweitert, dass ihm auch die Errichtung von
Statuen außerhalb von Kirchen vorgeworfen wurde.10 Gegen ihn stand somit nicht
der Vorwurf der Idolatrie, sondern der Idol-Stiftung im Raum.11 Dass dem Papst als
Stellvertreter Christi und Nachfolger Petri Verehrung (adoratio) zukommt, war das
Mittelalter hindurch ganz unzweifelhaft; im Fall Bonifaz´ VIII. wurde jedoch unter
anderem angemahnt wurde, er habe seinen eigenen Platz mehr schmücken lassen
als den Altar, auf dem doch die Hostie als wahrer Leib Christi ihren Ort hatte.12
Wenn auch die wissenschaftliche Literatur zur Gregorianischen Reform nahezu unüberschaubar ist, der Idolatriediskurs als eines der wesentlichen Motive in
den zeitgenössischen Quellen, wurde bisher unbeachtet gelassen. Selbst in der fundamentalen Studie von Harald Zimmermann über die Papstabsetzungen13 führt dieser unter den Begründungen für eine Verurteilung des falschen Kandidaten für das
Papstamt vor allem die Argumente der Häresie, der Simonie und der invasio auf,
nicht dagegen die idolatria.14 Doch sowohl die päpstlichen als auch die kaiserlichen Parteigänger belegten nahezu durchgängig gegnerische „Päpste“ beziehungs-
Gregors VII., in Studi Gregoriani 2 (1947) 403-457; Agostino Paravicini Bagliani, Le Chiavi e la
Tiara. Immagini e simboli del papato medievale, La corte dei papi 3, Viella, Rom 1998.
8 Johannes Laudage, Gregorianische Reform und Investiturstreit, Erträge der Forschung
282, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1993, 131.
9 Nach Tilmann Schmidt, Papst Bonifaz VIII. und der Vorwurf der Idolatrie, in Quellen und
Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 66 (1986) 75-107, hier 75.
10 Ibid., 79; cf. Clemens Sommer, Die Anklage der Idolatrie gegen Bonifaz VIII. und seine
Porträtstatuen, Kuenzer, Freiburg i. Br. 1920.
11 T. Schmidt, Papst Bonifaz VIII., op. cit., 77-78.
12 Robert Holtzmann, Papst Bonifaz VIII. ein Ketzer?, in Mitteilungen des Instituts für
österreichische Geschichtsforschung 26 (1905) 488-498, hier 495.
13 Harald Zimmermann, Papstabsetzungen des Mittelalters, Böhlau, Graz, Wien, Köln
1968, 160-163.
14 Ibid., 168-178.
169
weise „Könige“ mit dem Stigma, ein idolum zu sein bzw. dass sich die gegnerische
Partei in ihnen ein solches errichtet habe (idolum erexerunt). Da für die Idolatrie
nach wie vor keine Begriffsgeschichte existiert und per se fraglich ist, ob es eine
solche objektive Sichtweise dieses abgrenzenden Begriffes überhaupt geben kann,
soll im Folgenden vielmehr untersucht werden, auf welche Weise die idolatria als
Argument verwendet wurde.15
Dabei wird sich zeigen, dass dieser Idolatriediskurs nicht zuerst ein Amts-,
sondern ein Körperdiskurs ist. Er begann bereits vor Gregor VII. und endete unter
Alexander III., nicht ohne auch in den schismatischen Streitigkeiten des 12. Jahr­
hunderts innerkirchlich seine Spuren zu hinterlassen. Verhandelt wurde von den
Zeitgenossen nicht das Amt als solches, sondern die Eignung und Rechtmäßigkeit
des jeweiligen electus, wahrhaftiges Bild Christi zu sein.16
3. Bild- und Idolatriediskurse im westlichen Christentum
Der Diskurs um Bilder und idolatrisches Verhalten war innerhalb der westlichen Christenheit durchweg präsent und dabei nicht nur von semantischer oder
metaphorischer Art: Er hatte ebenfalls konkrete Bildwerke vor Augen. Am Beginn
der Gregorianischen Reform entstanden Vollplastiken wie die Goldene Madonna in
Essen oder die Statue der Fides in Conques17; der Traktat des Bernhard von Angers
spiegelt den zeitgenössischen Diskurs wieder18, den bereits Isidor von Sevilla in
seinen reflektiert hatte.19 Neben Bernhard von Angers finden sich die idola zeitund ortsnah zur Reform auch in den Mirabilia Urbis Romae, wo beispielsweise
römische Paläste als ehemalige heidnische Tempel markiert und in Zusammenhang
mit den simulacra der jeweiligen paganen Gottheiten gebracht werden. Noch der
päpstliche Liber Censuum geht an vielen Stellen auf solche simulacra ein20, und
auch die Descriptio der vatikanischen Basilika durch Petrus Mallius bringt die Basilika mit einem templum Appolinis in Vaticano in Verbindung.21
15 Cf. Thomas Lentes, Idolatrie im Mittelalter. Aspekte des Traktates De idolatria zwischen
dem 12. und 15. Jahrhundert, in Gudrun Litz et al. (Hg.), Frömmigkeit – Theologie – Frömmigkeitstheologie. Contributions to European Church History – Festschrift für Berndt Hamm
zum 60. Geburtstag, Studies in the History of Christian Traditions 124, Brill, Leiden 2005, 31-45.
16 Dass dieser Diskurs auch über materielle Bilder geführt wurde, die seine Wurzeln bereits
bis ins 8. Jahr­hundert zurückdatieren lassen, erarbeitet der Autor aktuell in einer Dissertation.
17 Harald Keller, Zur Entstehung der sakralen Vollskulptur in der ottonischen Zeit, in Id.,
Blick vom Monte Cavo. Kleine Schriften, Insel Verlag, Frankfurt a. M. 1984, 19-47.
18 Beate Fricke, Ecce Fides. Die Statue von Conques, Götzendienst und Bildkultur im Westen, Wilhelm Fink, München 2007, 70-71.
19 Ibid., 71-72.
20 Louis Duchesne, Paul Fabre (Hg.), Le Liber Censuum de l’Église Romaine, 3 Bde., Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome 2e série, no 6, fasc. 1‑7, Fontemoing, Paris
1910, Bd. 1, 268-272.
21 Maria A. Lanzillotta, La memoria di Costantino nelle descrizioni di Roma medievali
170
Auch der Lateran als römische Bischofskirche hält die Erinnerung an die alten Götterbilder wach. In der zweiten Hälfte des 12. Jahr­hunderts spricht der sogenannte Magister Gregorius in seiner Edition der Mirabilia von den Resten der
imago Colosei auf dem campus Lateranensis als simulacrum, das Gregor der Große habe zerstören lassen.22 Die gleiche Bezeichnung verwendet der Autor für die
eherne Statue des Dornausziehers, die er als Statue des Priapus deutet (de ridiculoso simulacro Priapi). Das darauf folgende Kapitel widmet er dann den Statuen auf
dem Kapitolshügel (multitudine statuarum), die ihm als opera monstruosa gelten.23
Der päpstliche Parteigänger Bonizo von Sutri erwähnte ebenfalls die heidnischen
simulacra im Rahmen seiner Beschreibung der „Konstantinischen Wende“24, so
wie auch das aus dem 8. Jahrhundert stammende Constitutum Constantini (CC)
schon auf die paganen Bilder (idola, simulacris) als diabolicis compositionibus
und Satanae pompis einging25, die dem Kult der geschaffenen Dinge und nicht ihre
Schöpfers (creaturae et non creatori) dienten.26 Ihnen stellt das CC zum einen den
Menschen als imago et similitudo (Gen 1, 26) entgegen27, vor allem aber – folgend
auf die Verneinung der Verehrung der Kreatur – den dominus deus et salvator nostri Iesus Christus, der als verbum caro factum est et habitavit in nobis28 und deum
perfectum et hominem perfectum sei.29 Die Bilder der daemonia werden zudem als
opera hominum manufacta bezeichnet.30 Die Abkehr vom alten und die Hinwendung zum christlichen Glauben definierte das aus päpstlicher Quelle stammende
CC also auch über die Abwendung von den idola.31
e umanistiche, in Giorgio Bonamente, Franca Fusco (Hg.), Costantino il Grande dall’antichità
all’umanesimo, Macerata, Rom 1993, Bd. 1, 7-16. Cf. Hildebert von Lavardin († 1133), in Percy
Ernst Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio. Studien zur Geschichte des römischen Erneuerungsgedankens vom Ende des Karolingischen Reiches bis zum Investiturstreit, Wissenschaftliche
Buchgesellschaft, Darmstadt 19623, 296-305. Die lateinischen Zitate im laufenden Text werden
als Zitate in ihrer Grammatik nicht an den jeweiligen Satz angeglichen.
22 Magistri Gregorii de mirabilibus Urbis Romae, in Roberto Valentini, Giuseppe Zucchetti (Hg.), Codice topografico della città di Roma, 4 Bde., Fonti per la storia d’Italia 86; 88;
90; 91, Bottega d’Erasmo, Turin 1960-1982, Bd. 3, 149-150.
23 Ibid., 150-151.
24 Bonithonis Episcopi Sutrini Liber ad Amicum, in Philipp Jaffé (Hg.), Monumenta Gregoriana, Weidmann, Berlin 1865, 30: Igitur Constantino a Silvestro sanctae Romanae aecclesiae
episcopo baptizato et ab eodem imperiali diademata sublimato, clausa sunt templa, reseratae
sunt aecclesiae, cepit in parietibus depingi imago Salvatoris et e publico deici imago Iovis, ceperunt altaria erigi et simulacra deici, reddita est pax in toto orbe aecclesiis.
25 Horst Fuhrmann (Hg.), Das Constitutum Constantini (Konstantinische Schenkung), Fontes Iuris Germanici antiqui in usum scholarum 10, Hahn, Hannover 1968, 59 (CC 3); cf. ibid.,
75 (CC 9).
26 Ibid., 63 (CC 4); cf. ibid., 71 (CC 7).
27 Ibid., 62.
28 Ibid., 63-64 (Grammatik angeglichen).
29 Ibid., 64.
30 Ibid., 78 (CC 10).
31 Libellus de imperatoria potestate in urbe, in Johann Matthias Watterich (Hg.), Pon-
171
Es ließe sich an zahlreichen weiteren Quellen wohl die Aktualität des Idolatriediskurses im lateinischen Westen aufzeigen, wie er für die Stadt Rom geführt
wurde. Auch eine grundlegende Untersuchung über das Vorkommen der idola beziehungsweise der cultura idolatorum in den liturgischen Büchern, wie sie sich
etwa im Gregorianum in den Orationes quae dicendae sunt VI feria maiore in Hierusalem und noch über das Missale Pius’ V. bis in die letzte Auflage des Missale
Romanum vor der Liturgiereform Eingang gefunden haben, wäre hilfreich, wenn
es um die Kultur der Idolatrie im lateinischen Westen geht.32 Entscheidend wird
es für diese Untersuchung sein, die Verankerung des Diskurses im Streit zwischen
den kaiserlichen und päpstlichen Parteigängern aufzuzeigen, beziehungsweise die
Art zu entschlüsseln, wie er geführt wurde und welches Verständnis von „Amt“
und Körper zum einen vorausgesetzt, zum anderen welches Bild entworfen wurde.
4. Ein Bild- als Körperdiskurs – Die adoratio des Papstes im Liber Pon‑
tificalis
Mit diesem Überblick wird jedoch bereits deutlich, dass das westliche Christentum neben dem sogenannten Byzantinischen Bilderstreit und den Libri Carolini eine lange Tradition des Bild- und Idolatriediskurses gekannt hatte, die bis
in die Zeit der Reform hineinragte. Die Bedeutung, welche diese Idolatrie- und
Bilddebatte in dieser Zeit erlangen sollte, verband sich mit der durch Heinrich III.
forcierten Entwicklung der Universalisierung des stadt-römischen Bischofsamtes
für die ecclesia universalis.33
Für die Zeit der Reform ist die Entwicklung des päpstlichen Selbstverständnisses in nur wenigen Dokumenten derart kontinuierlich abzulesen wie im Liber
Pontificalis (LP), der im päpstlichen Lateran geführt wurde. Dass dem Papst Verehrung (adoratio) zustehe, ist für die offiziöse päpstliche Geschichtsschreibung
des LP unzweifelhaft. So berichten die Schreiber bereits für die byzantinische Zeit
des Papsttums davon, dass Kaiser Justinus dem Papst Johannes I. († 526) seine
„Verehrung“ entgegenbrachte34; gleiches weiß der LP von Kaiser Justinian gegen-
tificium Romanorum qui fuerunt inde ab exeunte saeculo IX usque ad finem saeculi XIII vitae,
2 Bde., Scientia Verlag, Aalen 1966, Bd. 1, 626.
32 Hans Lietzmann (Hg.), Das Sacramentarium Gregorianum nach dem Aachener Urexemplar, Liturgiegeschichtliche Quellen 3, Aschendorff, Münster 1921, 49, Nr. 79: Oremus et pro
paganis, ut deus omnipotens auferat inquitatem a cordibus eorum, et relictis idolis suis convertantur ad deum vivum et verum et unicum filium eius Iesum Christum deum et dominum nostrum,
cum quo vivit et regnat cum spiritu sancto. – Oremus. Omnipotens sempiterne deus, qui non
mortem peccatorum sed vitam semper inquiris, suscipe propitius orationem nostram et libera
eos ab idolorum cultura et aggrega ecclesiae tuae sanctae ad laudem et gloriam nominis tui: per.
33 Werner Goez, Papa qui et episcopus. Zum Selbstverständnis des Reformpapsttums im
11. Jahrhundert, in Archivum Historiae Pontificiae 8 (1970) 27-59.
34 Louis Duchesne, Cyrille Vogel (Hg.), Le Liber Pontificalis. Texte, introduction et com-
172
über Agapitus († 536), der nach einem gewonnenen theologischen Disput von allen
Christen gerühmt wurde (glorificatus ab omnis christianis). Darauf erfolgte die
kaiserliche Proskynese mit der Betonung der niedergebeugten Haltung des Imperators, die deutlich auf den Fußkuss als besondere Form der Proskynese abzielt.35
Ähnlich verlief auch die Begrüßung Papst Konstantins I. durch Justinian II. im Jahr
711 laut dem Papstbuch: „Der Kaiser warf sich auf den Boden, küsste dem Papst
die Füße und wurde vom ihm aufgehoben.“36 Der honor einer solchen ad­oratio galt
dabei der Person des Papstes, insofern sie die sedes Petri et Pauli verkörperte.37 So
weist Achim Thomas Hack darauf hin, dass der LP den Terminus adorare nur in
zwei Fällen verwendet: für das kaiserlich-päpstliche Begrüßungsritual der byzantinischen Epoche sowie für die adoratio Christi.38
Laut dem LP übernahmen die fränkischen Herrscher die Adorationsformen
von Proskynese und Fußkuss bereits im Begrüßungszeremoniell Pippins und seines
Sohnes Karl gegenüber Stephan II. († 757).39 Die Normalität dieser Form verdeutlicht eine Nachricht unter Papst Zacharias, dass der langobardische Fürst Liutprand
sie verweigert habe.40 Weitere Belege für eine zeremonielle Form der Verehrung
sind zahlreich, nur eine weitere Variante sei erwähnt: Für das Jahr 855 findet sich
die erstmalige Erwähnung, dass der Papst den Kaiser in Rom sitzend erwartet und
dadurch seine Souveränität demonstriert.41 Die Relevanz solcher Festschreibungen
im schriftlichen, päpstlichen Gedächtnis wird dadurch verdeutlicht, dass noch im
12. Jahrhundert maßgebliche Kanonisten wie Deusdedit († 1098) und sogar Anselm von Lucca, der spätere Alexander II. († 1073), solche und ähnliche Stellen als
Beispiele dafür verwendeten, welche Formen von oboedientia, reverentia, humilitas und honor dem Papst als geistlichem Oberhaupt geschuldet würden.42
mentaire, Bibliothèque des Écoles Françaises d’Athènes et de Rome, 3 Bde., De Boccard, Paris
1981, Bd. 1, 275: Iustinus Augustus […] humiliavit se pronus et adoravit beatissimum Iohannem
papam.
35 Ibid., 1, 287-288; cf. Günter Weiss, Proskynese, in Lexikon des Mittelalters VII, Sp. 265266.
36 L. Duchesne, C. Vogel (Hg.), Le Liber Pontificalis, op. cit., 1, 391. Eine vergleichbare
prostratio vollzog der Kaisers ebenso in der Hagia Sophia vor dem Christusmosaik, was sich
wiederum als Darstellungen finden lässt: Achim Th. Hack, Das Empfangszeremoniell bei mittelalterlichen Papst-Kaiser-Treffen, Forschungen zur Kaiser- und Papstgeschichte des Mittelalters
18, Böhlau, Köln 1999, 397, Anmerkung 59; ibid., 400.
37 Cf. L. Duchesne, C. Vogel (Hg.), Le Liber Pontificalis, op. cit., 1, 275 und 288;
A. Th. Hack, Das Empfangszeremoniell, op. cit., 400-404.
38 A. Th. Hack, Das Empfangszeremoniell, op. cit., 393-396.
39 L. Duchesne, C. Vogel (Hg.), Le Liber Pontificalis, op. cit., 1, 447.
40 Ibid., 1, 427.
41 Ibid., 2, 134 und 340.
42 Victor Wolf von Glanvell, Die Kanonessammlung des Kardinals Deusdedit, Schöningh,
Paderborn 1905, 494-496; Friedrich Thaner (Hg.), Anselmi episcopi Lucensis collectio canonum, Wagner, Innsbruck 1915, 49-51.
173
5. Papsttum und Idolatrie im LP und propäpstlichen Dokumenten
Neben der Reflektion der adoratio für den Papst kennt der LP auch andere
Formen jenes Verehrungs- und Bilddiskurses vor der Entstehung des CC. Eine
erste relevante Erwähnung findet sich schon im 5. Jahrhundert: Papst Symmachus
habe alle „Kultbilder“ und Schriften (omnia simulacra vel codices) der römischen
Manichäer vor dem Lateran verbrennen lassen.43 Symmachus selbst setzte sich
in der Nachfolge Anastasius’ († 496) gegen den byzanzfreundlichen Laurentius
durch.44 Mit dem Titel „Manichäer“ hatte er schon gegenüber Kaiser Anastasios
alle vom römischen Stuhl Abweichenden betitelt45; es kann daher davon ausgegangen werden kann, dass die Bezeichnung „römische Manichäer“, verbunden mit
dem Vorwurf der Häresie und der Idolatrie, wohl auf die Anhänger des Laurentius
bezogen war.46
Dass sich der Diskurs um den Herrscher als imago Dei auch explizit für den
Papst findet, demonstrieren etwa die Schriften des Neapolitaners Eugenius Vulgarius, eines Grammatikers des 9. Jahrhunderts, der dank seiner Herkunft noch
stark am byzantinischen Gedankengut partizipierte. Er hatte Gedichte über den
byzantinischen Basileus ebenso wie über Papst Sergius III. († 911) geschrieben;
letzteren nannte er nicht nur decus orbis, sondern factus conformis imagine divum.
Er deutete damit eine Beziehung zwischen Gott und Papst an, die er andernorts als
mystice charakterisiert. Von hier aus lässt sich die Kontinuität des Idolatrievorwurfs
bis in die Zeit der Reform hinein aufzeigen, auch wenn der Begriff des ydolum im
LP nicht in jedem umstrittenen Pontifikat eine Rolle spielte. In der Vita Gelasii II.
dagegen berichtete der Verfasser, dass König Heinrich Rom verließ, seinen Papst,
sein ydolum Gregor VIII., aber zurückließ.47 In dieser Zeit, in der das Phänomen eines durch kaiserliche Autorität gestützten Gegenpapstes fast zur Regel wird, taucht
jener Idolatriediskurs wiederum verstärkt und regelmäßig auf, gewendet auf konkrete, benennbare Personen. In anti- wie propäpstlichen Dokumenten lautet die
Gleichung schlicht: Der falsche Papst sei idolum, das sich die Idolatoren aufgerichtet haben. Sehr häufig wird über die Wortverbindung idolum und erigere der
43 L. Duchesne, C. Vogel (Hg.), Le Liber Pontificalis, op. cit., 1, 261; cf. B. Fricke, Ecce
Fides, op. cit., 65.
44 Peter Llewellyn, Rome in the Dark Ages, Faber and Faber, London 1970, 40.
45 Eckhard Wirbelauer, Zwei Päpste in Rom. Der Konflikt zwischen Laurentius und Symmachus (498-514) – Studien und Texte, Utz, München 1993, 40-43.
46 Zudem spielt die Idolatrie als Vergehen auch in den sogenannten „Symmachianischen
Documenta“ eine Rolle im Bezug auf die Nichjudizierbarkeit des Papstes Marcellinus. Dessen
durch Kaiser Diokletian erzwungene Anbetung heidnischer Idole, die zu seiner „Selbstabsetzung“ führten, war noch in der ersten Hälfte des 12. Jahrhunderts Thema in Rom, etwa in der
Cronica pontificium et imperatorum s. Bartholomaei in insula Romani (Dokument SM, Edition
bei E. Wirbelauer, Zwei Päpste in Rom, op. cit., 284-301: Hic a Diocletiano compulsus incensum posuit idolis […]).
47 L. Duchesne, C. Vogel (Hg.), Le Liber Pontificalis, op. cit., 2, 315; P. E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio, op. cit., 50-54.
174
Gedanke an ein Standbild assoziiert. Der erste Fall, in dem der regierende römische
Bischof als idolum bezeichnet wird, findet sich in den Akten der Synode von Verzy.
Von Papst Silvester II. († 1003), der sich gleich dem Antichristen im Tempel Gottes
zur Schau gestellt habe, als sei er Gott (Antichristus est in templo Dei sedens et se
ostendens tamquam sit Deus), der aber doch vielmehr ein Götzenbild sei (tamquam
idolum est), sei ebenso wenig Rat zu erwarten wie von Marmorstatuen (a quo responsa petere marmora consulere est).48 Bei Arnulf von Orleans findet sich um die
Mitte des 12. Jahrhunderts die Wiederaufnahme dieses Arguments.49
Vor allem in den Schriften Gregors VII. († 1085) findet sich der Vorwurf der
Idolatrie in einer ungewöhnlichen Anhäufung. Er griff dazu auf den biblischen Satz
1 Sam 15, 23 zurück: et quasi scelus idolatrie nolle acquiescere.50 Die Gleichsetzung der dem Papst geschuldeten oboedientia mit der idolatria stellt eines der häufigsten biblischen Zitate Gregors VII. dar.51 Gregor, so Christian Schneider, habe
48 Georg Heinrich Pertz (Hg.), Acta Concilii Remensis ad Sanctum Basolum auctore Gerberto Archiepiscopo, in MGH SS 3, Anton Hiersemann, Stuttgart (ND Hannover 1839), 672-673.
Cf. hierzu auch den mittelalterlichen Sagenstoff um die „schwarzmagischen Aktivitäten“ Gerberts, zusammengefasst bei Fritz Eichengrün, Gerbert (Silvester II.) als Persönlichkeit, Beiträge
zur Kulturgeschichte des Mittelalters und der Renaissance 35, ND Gerstenberg, Hildesheim 1972;
Sebastian Scholz, Politik – Selbstverständnis – Selbstdarstellung. Die Päpste in karolingischer
und ottonischer Zeit, Historische Forschungen 26, Franz Steiner, Stuttgart 2006, 316-326.
49 G. H. Pertz (Hg.), in MGH SS 3, op. cit., 675: Quid hunc, in sublimi solio residentem, veste purpurea et aurea radiantem, quid hunc, inquam, esse censetis? Nimirum si caritate
destituitur solaque scientia inflator et extollitur, Antichristus est, in templo Dei sedens et se ostendans tamquam sit Deus. Si autem nec caritate fundatur nec scientia erigitur, in templo Dei
tamquam statua, tamquam idolum est, a quo response petere marmorea consulere est.Ähnlich
hatte sich Petrus Damiani gegenüber Victor II. derart geäußert, dass er den rechtmäßigen Papst
als mihi [Christi] vicarium bezeichnen konnte, den Gegenpapst Cadalus hingegen als vice des
Antichristen. Im Papstwahldekret Nikolaus II. wird derjenige, der nicht nach den Be­stimmungen
gewählt, ordiniert und inthronisiert werde (electus, aut etiam ordinatus, seu inthronizatus fuerit)
nicht als Papst, sondern als Satan bezeichnet (non papa sed sathanas), nicht als apostolisch,
sondern apostatisch (non apostolicus sed apostaticus). Ein derart „offizielles“ und seiner Intention nach bindendes Dekret zieht also einen offiziellen Trennstrich zwischen dem legitimen papa
und dem illegitimen Papst (sathanas). Wird hier auch das Bild des legitimen electus im Wesentlichen als Gegenbild zu seinem Widerpart entwickelt, so doch in einer deutlichen Terminologie.
(J. M. Watterich, Pontificium Romanorum, op. cit., 1, 229-233: Nicolai II statutum de electione
Papae); Detlev Jasper, Das Papstwahldekret von 1059. Überlieferung und Textgestalt, Beiträge
zur Geschichte und Quellenkunde des Mittelalters 12, Thorbecke, Sigmaringen 1986, 59-68;
Ingo Herklotz, Bildpropaganda und monumentale Selbstdarstellung des Papsttums, in ErnstDieter Hehl et al., Das Papsttum in der Welt des 12. Jahrhunderts, Mittelalter-Forschungen 6,
Thorbecke, Stuttgart 2002, 273-291, hier 280.
50 Cf. Jörgen Vogel, Gregor VII. und Heinrich IV. nach Canossa. Zeugnisse ihres Selbstverständnisses, Arbeiten zur Frühmittelalterforschung 9, de Gruyter, Berlin, New York 1983, 51.
51 Jürgen Ziese, Wibert von Ravenna. Der Gegenpapst Clemens III. (1084-1100), Päpste
und Papsttum 20, Hiersemann, Stuttgart 1982, 51; cf. Ian Stuart Robinson, Authority and Resistance in the Investiture Contest. The Polemical Literature of the Late Eleventh Century, Man-
175
sich durch die Verwendung dieses Wortes selbst als „gehorsamen Gottesknecht“,
als Propheten Gottes in der Nachfolge Samuels und Josuas stilisiert.52 Noch mehr:
Durch seine Verwendung von Christus präfigurierenden Psalmversen legte sich
Gregor eine „priesterliche Christusmimesis“ zurecht, die er gegen die traditionelle
imitatio sacerdotii des römisch-deutschen rex et imperator auszuspielen wusste.53
Auf der Fastensynode von 1080, die auch die zweite Bannsentenz gegen
Heinrich IV. aussprach, verbot er die Annahme eines Bistums oder einer Abtei aus
der Hand eines Laien (de manu alicuius laice persone), drohte für ein solches Vergehen den Verlust der Gnade des heiligen Petrus an (gratiam sancti Petri) und
verweigerte dessen Amtsantritt aufgrund seines Ungehorsams, was das Verbrechen
des Götzendienstes bedeute (inoboedientie quod est scelus idolatrie).54 Die abstrakt
klingende gratiam sancti Petri war nichts anderes als die Gnade des rechtmäßigen
Papstes: eius [Petri] vicarius […] qui nunc in carne vivit55, also Gregors VII. selbst.
In der zweiten Exkommunikationssentenz sollte sich diese Darstellung noch weiter
steigern: Erneut zitierte Gregor VII. 1 Sam 15, 2356, dieses Mal jedoch bezeichnete
er sich selbst als Christus Domini.57
Die personale Heiligkeit des Papstes kraft seines Amtes, die Gregor VII. mit
DP 2358 niederschreiben ließ, ist innerhalb dieses Diskurses zu verorten und stellt
zugleich einen seiner Höhepunkte dar. Zwar wird der Romanus Pontifex indubitanter sanctus, aber nur durch seine kanonische Ordination – auch der Gedanke einer
persönlichen Heiligkeit der Person scheint sich bei Gregor VII. abzuzeichnen.59
Daneben hatte bereits einige Jahre zuvor der Verfasser von De ordinando pontifice,
vermutlich ein burgundischer Bischof (um 1047/48)60, in seinem Traktat auch die
chester University Press, Manchester 1978, 17-59; Christian Schneider, Prophetisches Sacerdotium und heilsgeschichtliches Regnum im Dialog 1073-1077. Zur Geschichte Gregors VII. und
Heinrichs IV., Münstersche Mittelalter-Schriften 9, Fink, München 1972, 118-123. Belege bei
Erich Caspar (Hg.), Das Register Gregors VII., MGH Ep. 2, 1, Weidmann, Berlin 21955: 184
(Reg II, 45), 222 (II, 66), 238 (II, 75), 292 (IV, 1), 296 (IV, 2), 311 (IV, 11) und 338 (IV, 24).
52 Ch. Schneider, Prophetisches Sacerdotium, op. cit., 121.
53 Ibid., 214-220.
54 Gregor VII., Ep. 107, in Franz-Josef Schmale (Hg.), Quellen zum Investiturstreit, 2 Bde.,
Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1978, Bd. 1, 328, 336, 342 (Ep. 108 an Abt Wilhelm von Hirsau), 386-388 (Ep. 127 an Klerus und Volk des Bistums Konstanz), 406 (Ep. 139).
Cf. Othmar Hageneder, Die Häresie des Ungehorsams und das Entstehen des hierokratischen
Papsttums, in Römisch-historische Mitteilungen 20 (1978) 29-47.
55 Reg. IX, 3, in E. Caspar, Das Register Gregors VII., op. cit., 2, 576.
56 Reg. VII, 14a, in E. Caspar, Das Register Gregors VII., op. cit., 2, 480-487.
57 J. Vogel, Gregor VII. und Heinrich IV. nach Canossa, op. cit., 191.
58 Reg 2, 55a, in E. Caspar, Das Register Gregors VII., op. cit., 201-208, hier 207: Quod
Romanus Pontifex, si canonice fuerit ordinatus, meritis beati Petri indubitanter efficitur sanctus.
59 Horst Fuhrmann, Über die Heiligkeit des Papstes, in Jahrbuch der Akademie der Wissenschaften in Göttingen (1980) 28-43.
60 Erwin Frauenknecht (Hg.), Der Traktat. De ordinando pontifice, MGH Studien und
Texte 5, Hahn, Hannover 1992, 53 und 63.
176
bischöfliche gegenüber der kaiserlichen Autorität herausgestrichen. Er erinnerte
an die Lehre des nizänischen Konzils, welches die Bischöfe „Götter“ nenne, die
nicht dem menschlichen Gericht unterworfen seien.61 Den Bischöfen komme daher
nicht nur, mehr noch als den Priestern, der honor obœdientiae zu62, vielmehr dürfe
der Kaiser keinesfalls die Stelle Christi einnehmen, sei er durch seinen Blutdienst
eher ein Diener des Teufels.63 Der Traktat De ordinando pontifice stellt einen Beleg dafür dar, wie weit verbreitet der Diskurs um die Stelle verbreitet war, die der
„rechtmäßige Herrscher“ zu vertreten hatte.
Unter den propäpstlichen Reflexionen des Idolatriebegriffs sticht Bonizo von
Sutri mit seiner Schrift De persecutione Ecclesiae ad Amicum hervor. Im neunten Buch beschrieb er die Verbrechen des Gegenpapstes Clemens III. (Wibert von
Ravenna) in einer sich steigernden Entwicklung: Aus der radix superbia wird bei
Wibert zuerst die inoboedientia, daraus entsteht dann nach der Exkommunikation
die höchste Stufe, die idolatria.64 Was genau Bonizo damit meint, bleibt unklar; anscheinend setzt er – anders als Gregor VII. mit 1 Sam 15, 23 – jedoch inoboœdientia und idolatria nicht gleich, sondern sieht letztere als Steigerung der vorherigen.65
Auch die Vita Victors III., die Wibert von Ravenna als kakopapa bezeichnet, reflektiert dessen „Pontifikat“ auch im Zusammenhang mit der Idolatrie. Ihr Verfasser
jedoch wandelt das Zitat 1 Sam 15, 23 auf Wibert hin ab und benennt seine Habgier
als Götzendienst: […] avaritiam, quae est idolorum servitus.66 Der Vorwurf des
Ungehorsams als scelus idolatriae findet sich aber noch einmal in einem Brief Urbans II. an den Erzbischof Godinus von Brindisi.67 Ihm, Urban, schreibt Donizo in
seiner Vita Mathildis wiederum das Verdienst zu: Duas fregit statuas Urbanus, womit er auf die Überwindung des Gegenpapstes Wibert und Heinrichs IV. anspielt.68
Ebenso erklärt Paschalis II. rückblickend, dass Heinrich IV. seine Herrschaft über
die Kirche aufrichten und an heiligem Ort das Götzenbild (idolum) des Simon habe
aufrichten wollen.69
Ibid., 89.
Ibid., 92.
63 Ibid., 96: Ubi enim inveniuntur imperatores locum Christi obtinere? Si verius liceat nobis
dicere, potius offitio diaboli funguntur in gladio et sanguine […].
64 J. M. Watterich, Pontificium Romanorum, op. cit., 1, 336-337.
65 Ernst Perels (Hg.), Bonitho Sutrensis. Liber de vita christiana, ND Hildesheim 21998,
122 (IV, 29). Zugleich berichtet Bonizo in seinem Liber de Vita christiana von der Selbstanklage
des Papstes Marcellinus wegen des Vergehens der ydolatrie, ohne dass allerdings ein Bezug auf
die zeitgenössischen Idolatriediskurse genommen wurde, sondern höchstens auf die Nichtjudizierbarkeit des römischen Papstes durch einen Anderen.
66 Chron. Cass. III, 1-74, in J. M. Watterich, Pontificium Romanorum, op. cit., 1, 566-567.
67 Julius von Pflugk-Harttung (Hg.), Acta Pontificium romanorum inedita. Urkunden der
Päpste 97-1197, Akademische Druck- und Verlagsanstalt, Graz 1958, Nr. 202.
68 Donizo, Vita Mathildis: Vita der Mathilde von Canossa. Codex Vaticanus Latinus 4922,
Belser Faksimile Editionen aus der Biblioteca Apostolica Vaticana, Stuttgart 1990, vol. 1, fol.
58v (ed. 158); cf. fol. 68v (ed. 178).
69 Philipp Jaffé, Samuel Löwenfeld (Hg.), Regesta pontificum Romanorum, Veit, Leipzig
1885/1888, 2 Bde., Nr. 5889.
61 62 177
Der Fall Wibert von Ravenna stellt einen Höhe- und Wendepunkt in der Geschichte der kaiserlich eingesetzten Gegenpäpste dar.70 So ist von Wibert überliefert, dass er mit Hilfe Heinrichs IV. nicht nur für nahezu die gesamte Zeit seines
(Gegen‑)Pontifikates eine Machtbasis in Rom besaß, sondern mindestens zeitweilig selbst den lateranischen Palast unter seiner Kontrolle hatte. Für die Zeit nach der
Kaiserkrönung Heinrichs IV. 1084 ist sogar eine gemeinsame Residenznahme von
Kaiser und (Gegen‑)Papst im lateranischen Palast bezeugt, angesichts der eigentlichen Kaiserresidenz bei St. Peter oder am Palatin ein ungewöhnlicher Vorgang.71
Angesichts dieser Bewährungsprobe der rechtmäßigen Päpste und des Idolatriearguments ist auch das „überschwängliche[s] Triumphgefühl“ Urbans II. zu erklären,
nachdem es ihm und seinen Verbündeten gelungen war, 1088-1089 die Anhänger
Wiberts kurzzeitig aus den von diesen gehaltenen stadtrömischen Gebieten zu vertreiben.72
Das Gegenbild eines rechtmäßigen Papstes war also das eines wahren Bildes. Ein solches entwickelte schon die zeitgenössische Vita Leonis IX. († 1054).73
Bereits als Kind sei Leos Leib über und über mit Kreuzen verziert gewesen.74 Die
Vision Leos, dass ihm der heilige Petrus in Assistenz des heiligen Stephanus fünf
Kelche überreicht, die seine Pontifikatsjahre anzeigen sollten, verändert sich beim
Anonymus von Benevent dahingehend, dass Petrus Leo diese Kelche zu trinken
gibt; als er den sechsten nicht mehr auszutrinken im Stande ist, verheißt ihm Petrus
ein (unblutiges) Martyrium.75 Die christomimetischen Anleihen an die Ölbergpassion erscheinen hier nur zu deutlich. Der Papst entspricht in einem Bildverhältnis
Christus selbst.
6. Der Idolatriediskurs in antipäpstlicher Perspektive
Der Idolatridiskurs wurde jedoch nicht nur von der päpstlichen Seite her geführt, auch wenn der LP zeitlich weit zurück Anleihen bot, auf deren Basis dieser
Diskurs weitergeführt werden konnte. Deusdedit und Anselm von Lucca sind zwei
J. Ziese, Wibert von Ravenna, op. cit., 275.
Ibid., 107.
72 Ibid., 181; cf. Alfons Becker, Papst Urban II. (1088-1099), Teil 1: Herkunft und kirchliche Laufbahn. Der Papst und die lateinische Christenheit, Schriften der MGH 19, Hiersemann,
Stuttgart 1964, 98-113.
73 Heinrich Tritz, Die hagiographischen Quellen zur Geschichte Papst Leos IX., in Studi
Gregoriani 4 (1952) 191-364; hier 194-286; Albert Garreau, Saint Léon IX. Pape alsacien, réformateur de l’Église (1002-1054), Tolra, Paris 1965; Heinrich C. Brakel, Die vom Reformpapsttum geförderten Heiligenkulte, in Studi Gregoriani 9 (1972) 242-311, hier 243.
74 Wibert, Vita Leonis IX 1, 2, in J. M. Watterich, Pontificium Romanorum, op. cit., 1, 129;
H. C. Brakel, Die vom Reformpapsttum geförderten Heiligenkulte, op. cit., 243.
75 Nach H. C. Brakel, Die vom Reformpapsttum geförderten Heiligenkulte, op. cit., 248.
70 71 178
Beispiele für die konkrete Aktualisierung einer in Grundsätzen bereits vorhandenen Denkweise und Terminologie.
Auch die pro-kaiserliche Partei hatte sich dieser Bildterminologie bedient.
Vergleichbar harmlos nimmt sich Wido von Ferrara in seiner Schrift De scismate
Hildebrandi aus, in der er Gregor VII. lediglich als alter Pilatus bezeichnete. Dies
hob die Analogie Heinrichs IV. als alter Christus deutlicher hervor, die bereits Bestandteil der salischen „Königstheologie“ war.76 In der Schrift Benonis aliorumque
cardinalium schismaticorum contra Gregorium VII. et Urbanum II. scripta wurde
Gregor VII. dagegen zu einem Werkzeug des Teufels: Da der diabolus die Christen nicht durch die Heiden habe verwirren können, habe er zu einem falschen
Mönch (falsum monachum) gegriffen. Die Schrift erinnert zugleich an die Taten
Heinrichs III., die Absetzung der drei „Päpste“, die als Idolatoren und Simonisten
bezeichnet werden (ydolatras symoniacos) und die Einsetzung Silvesters II.; Hildebrand und seine Anhänger dagegen seien als neue Idolatoren (novos idolatras) nur
die
Nachfolger der antiken Heiden (genus idolatrie).77
Die Aufforderung Gregors VII., dem (Gegen‑)König zu folgen sowie die
Feststellung der Ungültigkeit des Eides für Heinrich IV., charakterisiert die Epistola des Wenrici scholastici als einen Verstoß gegen das Gebot Non adorabis deos
alienos.78 Schärfer noch die Schrift De unitate ecclesiae conservanda: Dieser Liber
stellt eine Instruktion Wiberts von Ravenna an seine Legaten im Imperium dar.79
Ihr Schreiber verglich Gregor VII. mit dem Fürsten von Tyrus (Ez 28, 2), der von
sich sage: Deus ego sum et in cathedra Dei sedi.80 Hildebrand und seine Bischöfe,
so der Verfasser, hassten die imago und die similitudo Gottes in Kaiser Heinrich,
der selbst seinen Feinden Gutes wolle.81 Daher gelte für sie: Wer keine Klugheit
besitze, dem „nimmt der Vater der Lüge, der Teufel, die Wahrheit Gottes aus dem
Herzen der Menschen, er tilgt das Ebenbild Gottes und prägt das Bild seines Abfalls und seiner Lüge auf“.82
Am ausführlichsten geht Benzo von Alba, der mit dem LP vertraute Fürsprecher Heinrichs IV.83, im Liber ad Heinricum auf die Idolatrie als Argument ein.
J. Vogel, Gregor VII. und Heinrich IV. nach Canossa, op. cit., 70-72.
Kuno Francke (Hg.), Gesta Romanae aecclesiae contra Hildebrandum, in MGH Libelli de
lite imperatorum et pontificium 2, Hahn, Hannover 1892, 366-422 377 (2, 2); ibid., 378-406 (2, 8).
78 F.-J. Schmale (Hg.), Quellen zum Investiturstreit, op. cit., 2, 100-102.
79 J. Ziese, Wibert von Ravenna, op. cit., 107-108.
80 F.-J. Schmale (Hg.), Quellen zum Investiturstreit, op. cit., 2, 386.
81 Ibid., 2, 396: Unde Augustinus in tractatu pslami LXX: Qui ergo, inquit, bene vult inimico
suo, Deus similis est, nec ista superbia, sed obedientia est, quoniam ad imaginem Dei facti sunt.
Faciamus, inquit, hominem ad imaginem et similitudinem nostram. Hanc utique imaginem Hildebrant et episcopi eius in rege Henricho oderunt et persecuti sunt […].
82 Ibid., 2, 572: alioqui pater mendacii diabolus aufert a cordibus hominum Dei veritatem,
aufert Dei imaginem et imprimit apostasiae suae et mendatii imaginem.
83 Hans Seyffert (Hg.), Benzo von Alba, Ad Heinricum IV. imperatorem libri VII, Scriptores rerum Germanicarum in usum scholarum separatim editi 65, Hahn, Hannover 1996, 92
(cap. 1); cf. ibid., 582-604 (cap. VII,1-1).
76 77 179
Bei ihm taucht der Gedanke des Königs als imago Dei als eine sich wiederholende
Vorstellung auf.84 So stellt er für Gregor VII. fest, dieser habe die Römer auf einer
Synode bestochen und seinen Papst Stephan IX. mit einer königlichen Krone gekrönt; da dieser aber nicht der rechtmäßige Herrscher sei, könne er somit nur ein
idolum darstellen.85 Die gleiche Kennzeichnung als hydolum falsum atque frivolum
verwendet er auch für den von Gregor VII. erhobenen Gegenkönig Rudolf von
Schwaben.86
Vergleichbar sind die Aussagen Benzos über Alexander II., den nocturnum
papam des Hildebrand und der Normannen87, den er mit den Ausdrücken hydolum
moloch, rehedificastis sculptile und hydolum in horchestra apostoli betitelte. Die
Anhänger Alexanders II. konnten ihm dementsprechend nur servis hydolatrie sein,
die gemeinsam adorant Constantini equm.88 Der König hingegen stellte für Benzo
das wahre Gegenbild zum päpstlichen Idol dar: So legt er im Liber ad Heinricum I, 17 Karl dem Großen eine Rede in den Mund, in der dieser Heinrich IV. als
sein Bild (hymago mea) bezeichnet. Weiter heißt es bei Benzo, dass Heinrich similitudo des Schöpfers sei. Im Kontext der Idolatrievorwürfe gegen Alexander II.,
dass hydolum […] statuerunt in sede apostolica, erinnerte Benzo dabei aber auch
an die ikonoklastischen Taten des Petrus und die Taten der Päpste Silvester, Leo
und Gregor sowie an die Blendung des papam Sergium (gemeint Johannes XVI.),
den Gegenpapst zu Gregor V. durch Otto III.89
7. Richtige und falsche Bilder – imago und idolum
Die zahlreichen, fast beliebig aus der Literatur der Epoche ausgewählten Belegstellen verdeutlichen, wie massiv der Diskurs um das „Bild“ im 11. und 12. Jahrhundert geführt wurde. Zentrum der Diskussion war dabei der Idolatriebegriff als
P. E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio, op. cit., 271-272.
H. Seyffert, Ad Heinricum IV. imperatorem libri VII, op. cit., 596: Corrumpens igitur
Prandellus [Hildebrand, A.M.] Romanos multis peccuniis multisque periuriis indixit synodum,
ubi regali corona suum coronavit hydolum [Stephan IX., A.M.]. Quod cernentes episcopi facti
sunt velut mortui. Legebatur autem in inferiori circulo eiusdem serti ita: Corona regni de manu
Dei, in altero vero sic: Diadema imperii de manu Petri.
86 Ibid., 406; cf. Tilman Struve, Das Bild des Gegenkönigs Rudolf von Schwaben in der
zeitgenössischen Historiographie, in Klaus Herbers et al. (Hg.), Ex ipsis rerum documentis.
Beiträge zur Mediävistik (Festschrift für Harald Zimmernann), Thorbecke, Sigmaringen 1991,
459-475.
87 H. Seyffert, Ad Heinricum IV. imperatorem libri VII, op. cit., 598); cf. Annales Romani,
c. 472, in J. M. Watterich, Pontificium Romanorum, op. cit., 1, 256.
88 H. Seyffert, Ad Heinricum IV. imperatorem libri VII, op. cit., 270, 208 (elevato simulacro), 240: Mit dem Constantini equm [sic], also der Reiterstatue Marc Aurels auf dem lateranischen campus, ist wohl pars pro toto der Besitz des Lateranpalastes gemeint. Ibid., 272
(fantasticum apostolicum; statuam), 324 (Normannorum simulacrum), 594 (recensque idolum).
89 Ibid., 148, 172, 274, 136-138.
84 85 180
Gegendefinition zum „Bild“. Nicht nur, dass sich in den Mirabiliae ein erneutes Interesse an den paganen Statuen äußert, das bereits im Liber miraculorum anklang.
Vor allem die Zusammenhänge von Bild beziehungsweise idolum sowie der aus
dem richtigen Bildverhältnis entspringenden Autorität, der gegenüber oboedientia
zu leisten war und der Person dessen, der diese Autorität ausübte, stand im Interesse aller Beteiligten an der Gregorianischen Reform. Sowohl die päpstliche als auch
die kaiserliche Fraktion konnte dabei für den jeweiligen Gegenpart das Argument
anbringen, sich ein Idol errichtet zu haben beziehungsweise Idolatoren zu sein. Die
Spannweite reichte dabei von der Verbindung mit dem Vorwurf der Simonie und
der avaritia bis hin zur superbia und inoboedientia. Dabei konnte die päpstliche
Partei wahrscheinlich auf ältere Vorlagen aus dem LP zurückgreifen, der sowohl
von der Adoration der byzantinischen Kaiser berichtete wie den Idolatrievorwurf
gegen die illegitimen Päpste kolportierte.
Mit dem eigentlichen Ende der Auseinandersetzungen zwischen Päpsten
und Kaisern endete weder die Zeit der Gregorianischen Reform noch ließ die Verwendung des Idolatrieargumentes nach. Zwei Beispiele sollen dies verdeutlichen:
Zum einen die Auseinandersetzung der beiden aus der Reform stammenden Päpste
Anaklet II. und Innozenz II., zum anderen diejenigen Alexanders III. mit Friedrich
Barbarossa und den von ihm aufgestellten Gegenpäpsten.
8. Die großen Papstschismen des 12. Jahrhunderts – Innozenz II. und
Alexander III.
8.1. Innozenz II.
Nach dem Tod Paschalis’ II. kam es zu einer Doppelwahl, als Burdinus unter
dem Namen Gregor VIII. zwischen 1118 und 1121 gegen die Päpste Gelasius II.
(† 1119) und Calixtus II. († 1124) stand. Erneut war Burdinus von beiden Päpsten
als idolum beziehungsweise Teutonicorum regis idolum gebrandmarkt worden.90 Der
LP berichtete nur knapp von den Ereignissen, doch fand die Auseinandersetzung im
Gegensatz zu den vorher beschriebenen nun auch innerhalb der Reformkurie statt.91
1130 kam es nach dem Tod Honorius’ II. zu einer weiteren Doppelwahl. Die
Mehrheit der Kardinäle wählte im Beisein von Teilen des römischen Adels Petrus,
90 Ulysse Robert (Hg.), Bullaire du Pape Calixte II. 1119-1124, Imprimerie Nationale, Paris
1891, Bd. 1, Nr. 228, 337-338; Klaus Schreiner, Gregor VIII. nackt auf einem Esel. Entehrende
Entblößung und schandbares Reiten im Spiegel einer Miniatur der „Sächsischen Weltchronik“,
in Dieter Berg, Hans-Werner Goetz (Hg.), Ecclesia et Regnum. Beiträge zur Geschichte von
Kirche, Recht und Staat im Mittelalter. Festschrift für Franz-Josef Schmale, Winkler, Bochum
1989, 155-202.
91 L. Duchesne, C. Vogel (Hg.), Le Liber Pontificalis, op. cit., 2, 376-379; cf. Franz-Josef
Schmale, Studien zum Schisma des Jahres 1130, Forschungen zur kirchlichen Rechtsgeschichte
und zum Kirchenrecht 3, Böhlau, Köln 1961, 24.
181
den Sohn des Petrus Leonis (Sohn des konvertierten Juden Baruch) zum Papst, der
sich in Anlehnung an den ersten Papst dieses Namens, der laut dem LP die confessio et memoria Sancti Petri hatte errichten lassen, Anaklet nannte.92 Die Mehrzahl
seiner Wähler im Kardinalskollegium waren wie er selbst unter Paschalis II. kreiert
worden93, während die Mehrzahl der von Calixtus II. kreierten, jüngeren Kardinäle
sich Innozenz II. (Gregor von Sant’Angelo) zum Papst erkor.94 Die unmittelbare
Kontinuität zwischen den Pontifikaten Calixtus’ II. und Innozenz’ II. stellte der
Kanzler und Kardinaldiakon von S. Maria Nova, Haimerich, her.95 Dennoch konnte
etwa der Verfasser der Historia Compostellana auch Innozenz II. als simulacrum
und idolum des cancellarii Aymericus beschreiben, der sofort nach dem Begräbnis
Honorius’ II. im Palast als Götzenbild errichtet worden sei (fabricatum idolum ad
palatia).96 Auch der Schreiber eines an den spanischen Erzbischof Diego von Compostella gerichteten Briefes vom 10. April 1130, ein Augenzeugen der Ereignisse,
benannte Innozenz II. ebenfalls als idolum.97
Innozenz floh nach Frankreich und forderte von dort aus in einem Brief den Prior Godefridus zur Unterwerfung der filii Petri Leonis auf, dazu aller Kleriker, die im
Schisma verharrten und sich mit dem Gegenpapst ein idolum errichtet hatten (Clerici
quoque qui in schismate erant, simul cum idolo quod erexerant). Sie sollten sich ihm
demütig zu Füßen werfen (humiliantes se ad pedes domini Pape) und somit durch
richtiges Verhalten gegenüber dem „richtigen Bild“ ihre Abkehr dokumentieren.98 In
92 Mary Stroll, The Jewish Pope. Ideology and Politics in the Papal Schism of 1130, Brill’s
Studies in Intellectual History 8, Brill, Leiden 1987, XV Anmerkung 1. Der Codex Udalrici reflektierte dies in Bezug auf die Immantierung des Gewählten: Diesem seien gerade zur hora sexta,
quae Iudaea Christum crucifixit et tenebrarum caligo mundum involvit die pontifikalen Insignien
gegeben worden. Codex Udalrici, no 352, in J. M. Watterich, Pontificium Romanorum, op. cit.,
2, 182.
93 Herbert Bloch, The Schism of Anacletus II and the Glanfeuil Forgeries of Peter the Deacon of Monte Cassino, in Traditio 8 (1952), 159-264, hier 164.
94 Boso, Vita Innocentii II, in J. M. Watterich, Pontificium Romanorum, op. cit., 2, 174;
F.‑J. Schmale, Studien zum Schisma, op. cit., 24, 39, 43-45, 195; H. Bloch, The Schism, op. cit.,
165, 206; M. Stroll, The Jewish Pope, op. cit., 55-64; Jürgen Strothmann, Kaiser und Senat.
Der Herrschaftsanspruch der Stadt Rom zur Zeit der Staufer, Beihefte zum Archiv für Kulturgeschichte 47, Böhlau, Köln 1998, 42; Bernhard Schimmelpfennig, Jesus, Maria und Augustus. Ein
Text zur Weihe von S. Maria in Trastevere (1215) und zur Geschichte Trasteveres in Antike und
Mittelalter, in Lotte Kéry et al. (Hg.), Licet preter solitum. Ludwig Falkenstein zum 65. Ge­burts­
tag, Shaker, Aachen 1998, 119-141, hier 136.
95 F.-J. Schmale, Studien zum Schisma, op. cit., 24-31, 45 93-191. Einen Überblick über
die klassischen Forschungspositionen im deutschsprachigen Raum bietet Alexander Keller,
Machtpolitik im Mittelalter – Das Schisma von 1130 und Lothar III. Fakten und Forschungsaspekte, Studien zur Geschichtsforschung des Mittelalters 19, Kova, Hamburg 2003, 14-39.
96 Historia Compostellana III, 23, in J. M. Watterich, Pontificium Romanorum, op. cit.,
187-190.
97 M. Stroll, The Jewish Pope, op. cit., 83-84, 86.
98 Bernhard B. Winkler (Hg.), Sämtliche Werke lateinisch/deutsch, Tyrolia, Innsbruck
1990, Bd. 3, 526. Ähnlich hatte er sich zu schismatischen Vorgängen in Winchester geäußert:
182
einem Vorgriff auf seine Schrift De consideratione konnte auch Bernhard von Clairvaux 1130 wider den Gegenpapst schreiben, dass Innozenz als der wahre Papst Knochen vom Knochen Christi und Fleisch vom Fleisch Christi sei – damit überbot er
sogar noch die Bildbegrifflichkeiten des „Investiturstreites“.99 Suger von Saint-Denis
hingegen kritisierte zugunsten Anaklets in seiner Vie de Louis VI le Gros seinen König,
der Innozenz II. in der Zeit des Schismas mit Anaklet II. zu Füßen gefallen war (pedibus eius procumbit), obwohl er sich doch bereits vor dem Petrusgrab verneigt habe
(inclinans).100 Arnulf von Lisieux wiederum hatte in seinem Tractatus De scismate
eine Reihe von Qualitäten aufgestellt, die Anaklet nicht besitze und eben darum auch
ein unwürdiger Bewerber um den Papstthron zu nennen sei. Hier findet sich neben
der als successor Petri, als caput und als sponsus auch die Qualifizierung als vicarius
Christi.101 Just in diesem Zeitraum des Reformpapsttums, so hatte Michele Maccarrone bereits festgestellt, wurde der Titel des vicarius Petri immer mehr durch den Christustitel verdrängt. Nomen und res, auf dieser mittelalterlich verbreiteten Denkweise
schien Arnulf ebenfalls zu rekurrieren, müssten übereinstimmen: Eine Argumentationslinie der Gregorianischen Reform fand ihre konsequente Fortgestaltung.102
Mit dem Tod und der geheimen Bestattung (occulte sepultus) Anaklets endete
dieses Schisma unter den verschiedenen Kräften der Reform.103 Seinem Nachfolger
(quem Romani Carnecorium […] appellarunt), erging es schlecht: Der LP berichtet
zwar von einem erneuten kurzen Aufflackern des Widerstandes der anakletischen
Partei, die sich wiederum Einen aus ihren Reihen als Götzenbild aufgerichtet habe
(Gegenpapst Victor IV.: unum ex suis in ydolum erexerunt), dann aber letztendlich
gemeinsam mit ihrem ydolum Innozenz II. zu Füßen fielen.104
erexit simulacrum (ibid., 481: ep. 520 ad Lucium Papam). Auch von Gregorio Conti de Coccano,
als Victor IV. zweiter Gegenpapst zu Innozenz II. wird berichtet, dass diverse Sektierer einen der
ihren sich als Götzenbild errichtet hätten (L. Duchesne, C. Vogel (Hg.), Le Liber Pontificalis,
op. cit., 2, 383: unum ex suis ydolum erexerunt).
99 Agostino Paravicini Bagliani, Il trono di Pietro. L’universalità del papato da Alessandro III a Bonifacio VIII, NIS, Roma 1996, 27.
100 Suger von Saint-Denis, Vie de Louis VI le Gros, hg. und übers. von Henri Waquet
(= Les classiques de l’Histoire de France au Moyen Âge, Bd. 11), Champion, Paris 1929, 260;
cf. Sebastian Scholz, Symbolik und Zeremoniell bei den Päpsten in der zweiten Hälfte des
12. Jahr­hunderts, in Stefan Weinfurter (Hg.), Stauferreich im Wandel. Ordnungsvorstellungen
und Politik in der Zeit Friedrich Barbarossas, Mittelalterforschungen 9, Thorbecke, Stuttgart
2002, 131-148.
101 Georg Miczka, Das Bild der Kirche bei Johannes von Salisbury, Bonner Historische
Forschungen 34, Röhrscheid, Bonn 1970, 116-117.
102 M. Maccarrone, Vicarius Christi, op. cit., 85-107; cf. G. Miczka, Das Bild der Kirche
bei Johannes von Salisbury, op. cit., 121.
103 L. Duchesne, C. Vogel (Hg.), Le Liber Pontificalis, op. cit., 2, 383.
104 Boso, Vita Innocentii II, in J. M. Watterich, Pontificium Romanorum, op. cit., 2, 178.
183
8.2. Alexander III.
Nur kurze Zeit nach den Auseinandersetzungen zwischen Anaklet II. und Innozenz II. spaltete ein erneutes Papstschisma die Kirche. 1159 starb Hadrian IV.
und wurde in der Kirche des heiligen Petrus in Anagni in Gegenwart von Klerus,
Senat und Volk von Rom zu Grabe getragen. Im Anschluss daran kam es zu einer Doppelwahl: Victor IV. (Octaviano de Montecello) und Alexander III. wurden
jeweils von ihren Wählern geweiht. Die Bestätigung ihrer Wahl suchten sie u. a.
durch das Versenden von Briefe in alle Teile der christlichen Welt.105
Interessant ist hierbei besonders ein von Rahewin überlieferter Brief Alexanders III.: In diesem argumentierte der Papst mit dem Versprechen Christi „Siehe ich bin bei euch alle Tage bis an der Welt Ende“106, und charakterisiert den
Gegenpapst als jemanden, der danach trachte, den ungenähten Rock Christi, das
heißt die Einheit der Kirche, zu zerreißen. Allerdings hätten selbst die handfesten
Versuche Victors, Alexander das Papsttum in Gestalt der Insignie des päpstlichen
Mantels zu entreißen, mit dem dieser bereits bekleidet war, nichts genutzt: Zwar
habe er sich selbst damit bekleiden lassen, ihn allerdings falsch herum angezogen,
und somit ein Bild des Spottes geboten.107 Während nun also er selbst, Roland, als
Alexander III. rechtmäßig in Nimpha nahe Rom geweiht und zum priesterlichen
Königtum gekrönt worden sei108, hingen lediglich noch die Bischöfe Johannes von
St. Martin und Swido von Crema dem falschen Papst Victor an. Sie, so der von
Rahewin zitierte Brief weiter, verehrten den, den sie sich selbst zum Bilde (in statuam erexerunt) errichtet hatten und wagten es, ihn, nachdem sie die Einheit der
Kirche aufgegeben, auch jetzt noch wie ein Götzen- oder Trugbild (ydolum aut
simulachrum) anzubeten.
Dabei, hält Rahewin Alexander III. entgegen, stelle dieser selbst den Menschen die Zeiten des Antichristen vor Augen; denn so hoch erhebe sich Alexander
über sich selbst, dass er sich auch in den Tempel Gottes setze und vorgebe, Gott
zu sein. Viele hätten mit ihren leiblichen Augen, nicht ohne viele Tränen zu vergießen, diesen Gräuel der Verwüstung an heiliger Stätte stehen gesehen.109 Der von
Rahewin zitierte Brief Alexanders III. wird durch einen weiteren dieses Papstes
an den Pariser Klerus ergänzt. In ihm heißt es, die Gegenpartei verehre (adorare)
105 Georg Waitz, Bernhard von Simson (Hg.), Ottonis et Rahewini Gesta Friderici I. Imperatoris, MGH, Scriptores Rerum Germanicarum in usum scholarum 46, Hahn, Hannover und
Leipzig 1912, 291.
106 Ibid., 299.
107 Ibid., 300-301.
108 Ibid., 301-302.
109 Ibid., 302: […] sed eundem Octavianum, quem sibi in statuam erexerunt, obstinata perfidia venerantur et eum, relicta unitate aecclesiae, presumunt usque adhuc tamquam ydolum
aut simulachrum adorare. Ipse autem Antichristi tempora prefigurans usque adeo erectus est
supra se, ut etio in templo Dei sederit, ostendens se tamquam sit Deus, et multi abhominationem
desolationis stantem in loco sancto non sine multa lacrimarum effusione corporeis oculis inspexerunt. Cf. Mt 24, 15; 2 Thess 2, 4.
184
Octaviano, den sie sich als Bild errichtet hätten (quem sibi in statuam erexerunt),
wie ein idolum aut simulacrum. Die Absender jenes Briefes bezeichnete wiederum
Octaviano als Präfiguration des Antichristen. Das bereits bekannte Schema wurde
erneut angewandt.110
Rahewin kannte also den Idolatrievorwurf Alexanders III. gegen Octaviano,
zugleich gab er diesen zurück. In seiner Chronik zitierte er weitere Zeugen für
diesen Diskurs. Selbst Kaiser Friedrich I. beteiligte sich daran: Sein Brief an Erzbischof Eberhard von Salzburg sprach von den conspiratores, die ydolum sibi Rolandum cancellarium erexerunt.111 Doch nicht nur die kaiserliche Seite erhob jenen
Vorwurf, auch die Verfasser des LP argumentierten wiederum auf jene Weise. Götzenbild (ydolum) und Statue (statua) sind erneut die Begrifflichkeiten, mit denen
der Gegenpapst bedacht wird. Zudem taucht die Bezeichnung als umbra papalis
auf, der sich zeige, als sei er der Papst selbst; inwieweit hier ein klassischer Väterterminus (z.B. Diadochus von Photike, Andreas von Kreta, Cyrill von Alexandrien)
reflektiert wurde, kann hier nicht geklärt werden.112 Zugleich wird dieser Vorwurf
in eine apokalyptische Dimension eingetragen: Die Figuration des Antichristen
steht für den LP im Hintergrund, wenn sein Verfasser bemerkte, dass sich Victor in
den Tempel Gottes setze, als sei er zwar nicht Gott selbst, wie es bei Rahewin für
Alexander III. steht, aber doch der wahre Papst.113 Die Ernsthaftigkeit der Situation
wird durch die Zeugen noch einmal verstärkt, die nicht etwa im metaphorischen
Sinne, sondern mit ihren leiblichen Augen (corporeis oculis) die gesamte Szenerie
verfolgen können.
Neben Victor wird nur ein weiterer der vier Gegenpäpste zu Alexander III. als
idolum tituliert, nämlich Guido von Crema (Paschalis III.). In seinem Fall wird die
Art des Götzenbildes, die er darstelle, sogar als ydolum contra Deum präzisiert.114
In einer Art Fazit des LP wird dementsprechend wie bei Urban II. festgestellt, dass
Friedrich I. zwei Statuen errichten ließ (erexerat statuas), für die er Anbetung ver-
J. v. Pflugk-Harttung (Hg.), Acta Pontificium romanorum inedita, op. cit., Nr. 415.
G. Waitz, B. v. Simson (Hg.), Ottonis et Rahewini Gesta, op. cit., 329-331, hier 329.
112 L. Duchesne, C. Vogel (Hg.), Le Liber Pontificalis, op. cit., 2, 398-399. Cf. Herbert L.
Kessler, Configuring the invisible by copying the holy Face, in Id. (Hg.), Spiritual Seeing. Picturing God´s Invisibility in Medieval Art, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 2000,
64-87; Eliane Escoubas, Das Sichtbare und das Unsichtbare: die Malerei zwischen Schatten und
Farben, in Gerd Held et al. (Hg.), Unter Argusaugen. Zu einer Ästhetik des Unsichtbaren, Königshausen & Neumann, Würzburg 1997, 261-272; Ernst von Dobschütz, Christusbilder. Untersuchungen zur christlichen Legende, Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen
Literatur NF 3, Hinrichs, Leipzig 1899, 126.
113 L. Duchesne, C. Vogel (Hg.), Le Liber Pontificalis, op. cit., 2, 399: […] set illum eundem quem in statuam sibi erexerant tanquam obstinata perfidia venerantur, et Ecclesia unitate
relicta, heu! Pro dolor! Ad eius vestigia incurvantur. Ipse vero, Antichristi tempora prefigurans,
usque ad eo erectus est super se ut in templo Dei sederet sicut umbra papalis, ostendens se in
tanquam verus sit papa. Sane multi abhominationem huiusmodi stantem in loco sancto non sine
lacrimatione corporeis oculis inspexereunt […].
114 Ibid., 2, 410, 414.
110 111 185
langt habe. Alexander III. hingegen zerbrach auf göttliche Weisung hin beide Statuen (statuas ex divino iudicio corruisse).115 In einem solchen Kontext von imago
und idolum, von richtiger und falscher adoratio bekommt auch die rituelle Ausgestaltung des Friedens von Venedig eine andere Konnotation. Romualdus Archiepiscopus (geboren um 1110) berichtete in seiner Schrift Salernitani chronico von den
Vorverhandlungen zwischen dem kaiserlichen Kanzler Christian, dem venezianischen Dogen und Alexander III. In diesen lässt der Chronist den Kanzler gegenüber
seinem Kaiser feststellen, dass er das idolum (Gegenpapst Calixtus III.), welches er
sich in Tuscien errichtet habe, nicht mehr verehre (erexistis in Tusci nullam adoramus). In Venedig schwor er dann, seinen Namen in ein Wortspiel einbeziehend, er
wolle in Name und Werk (wahrer) Christ sein (esse nomine et opere christianum)
und verband dieses mit dem ikonoklastischen Akt einer Abschwörung von Calixtus.
Als ebensolcher Vorgang wäre dementsprechend auch die nur wenige Zeilen später
berichtete Begegnung Friedrichs I. und Alexanders III. in Venedig zu interpretieren.
Dort sank der Kaiser, angerührt vom Heiligen Geist, Gott in Alexander verehrend,
unter Hintenansetzung der kaiserlichen Würde und nachdem er den Mantel abgelegt
hatte, vollständig mit ausgestrecktem Körper zu Füßen des Papstes nieder.116
Das Deum in Alexandro venerans stellt im Anschluss an den seit dem 11. Jahr­
hundert geführten Idolatriediskurs unzweifelhaft einen Höhepunkt dar. Für den
Verfasser des Salernitani chronico war Alexander III. derjenige, in dem Gott selbst
zu verehren war. Vergleichbares berichtete Alexanders Biograph Boso, als dieser
am Ende der Vita den Einzug des Pontifex in Rom 1178 beschrieb, dessen Gesicht
(vultum) aller Augen ansahen wie das Antlitz Christi (tamquam vultum Iesu Christi), dessen Stellvertreter auf Erden er war.117 Mit den Worten Agostino Paravicini
Baglianis bezeichnete Boso als Biograph Alexanders III. seinen Herrn als immagine vivente.118 In jedem Fall gelingt es Boso aber, die Komplexität des Diskurses auf
den Punkt zu bringen: Alexander ist vicarius Christi in terris, die Vergleichbarkeit
seines Antlitzes mit dem seines himmlischen Herrn ist für die Betrachtenden offen
ersichtlich; dies unterstreicht die Verwendung des Verbs videre. Eine Identifikation
beider Personen findet jedoch nicht ausdrücklich statt.
Die christologischen Anleihen in der Vita des Boso sind weitaus zahlreicher.
So wird etwa der falschen adoratio Friedrichs die richtige, weil auf die richtige
Person gerichtete Verehrung anderer Fürsten gegenübergestellt. Der rex Anglorum
etwa küsst Alexander nicht nur die Füße, er bringt ihm im Anschluss auch aureis
Ibid., 420; cf. ibid., 402.
Franz-Josef Schmale (Hg.), Italische Quellen über die Taten Kaiser Friedrichs I. in Italien und der Brief über den Kreuzzug Kaiser Friedrichs I., Ausgewählte Quellen zur Geschichte
des deutschen Mittelalters 17a, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1986, 344-346:
[…] ad papam appropiasset tactus divino spiritu Deum in Alexandro venerans, imperiali dignitate postposita, reiecto pallio ad pedes pape totum se extenso corpore inclinavit.
117 L. Duchesne, C. Vogel (Hg.), Le Liber Pontificalis, op. cit., 2, 446: Tunc videns oculos
omnium vultum eius intuentes tamquam vultum Iesu Christi cuius vices in terris gerit.
118 A. Paravicini Bagliani, Il trono di Pietro, op. cit., 28.
115 116 186
oblatis muneribus dar. Sowohl das aurum als auch die munera entstammen der Epiphanieperikope des Evangelisten Matthäus.119 Ebenso deutlich ist der Hinweis auf
einen Saracenorum princeps cum sociis, der Alexander die Füße küsst, sein Knie
vor ihm beugt und sich vor Alexander so verneigt, als sei er der Gott der Christen
selbst; dies wird mit einem Hinweis auf Psalm 72, 11 christologisch ausgedeutet.120
9. Der Papst als Bild
A pictura cepit, ad scripturam pictura processit, scriptura in auctoritatem
prodire conatur […], formulierte Rahewin in seiner Fortsetzung der Chronik Ottos
von Freising. Für ihn stand fest, dass Bilder wie Schriften dauerhafte, interpretative
Memorialzeichen waren, die in auctoritas übersetzt werden konnten.121 Im hier dokumentierten Bilddiskurs handelte es sich aber um Bilder, die einen „ikonischen“
Status besaßen: Der legitime Papst war Bild Christi, der illegitime ein simulacrum
beziehungsweise idolum. Die christomimetischen Strömungen in der Zeit der Gregorianischen Reform verdichteten sich in der Frage nach dem richtigen Körper,
dem als Bildträger adoratio entgegengebracht werden mußte – tamquam Iesu Christi, ist man versucht, es mit Boso zu formulieren. Das idolum hingegen musste in
einem göttlich legitimierten Ikonoklasmus zerbrochen werden.122
Doch auch, wenn dieser Bild- keinen vorrangigen Memorialdiskurs darstellte,
sondern den Bezug von römischem Papst und Christus in den Termini von Bild und
Körper führte, war ihm eine bereits angedeutete Folgewirkung bis in die Gegenwart
beschieden: Nicht nur ließe sich gerade die Spätzeit des Pontifikates Pius’ IX. auf
diese Weise beschreiben123, sondern auch in der pontifikalen Titulatur findet sich das
vicarius Christi bis heute.
L. Duchesne, C. Vogel (Hg.), Le Liber Pontificalis, op. cit., 2, 407-408.
Ibid., 404: […] deosculatis pedibus eius, fixit genua coram eo, et inclinato capite tanquam sanctum et pium christianorum deum ipsum pontificem adoravit. […] Videntem autem hec
universi qui aderant in conspectu eisudem pontificis, valed mirabantur et dicebant ad in vicem
illud propheticum verbum: Et adorabant eum omnes reges terre, omnes gentes servient ei (terre
als Zusatz zum Psalmtext, A.M.).
121 G. Waitz, B. v. Simson (Hg.), Ottonis et Rahewini Gesta, op. cit., 187-189, hier 188.
122 Auch außerhalb Roms müsste man die Rezeption dieses Konzeptes weiter untersuchen.
Nur ein Beispiel, das allerdings ohne Nachfolge blieb, war das Kopfreliquiar für Papst Alexander I.,
das Wibald von Stablo für die dortige Abteikirche anfertigen ließ, das die christoformitas dieses
Papst in einer Identifikation desselben mit dem Haupt der Kirche Christus ausdrückte; zudem wurde
das Reliquiar nur an Kreuzfesten (Karfreitag und Inventio) ausgestellt (Susanne Wittekind, Altar –
Reliquiar – Retabel. Kunst und Liturgie bei Wibald von Stablo, (Pictura et poesis. Interdisziplinäre
Studien zum Verhältnis von Literatur und Kunst, Bd. 17, Böhlau, Köln, Weimar, Wien 2004).
123 Jörg Seiler, Die Inszenierung der Körperlichkeit Pius IX. in der Rottenburger Bistumszeitung, in Schweizerische Zeitschrift für Religions- und Kulturgeschichte 101 (2007) 77-106.
119 120 187
IL DECRETO HAEC SANCTA
DEL CONCILIO DI COSTANZA
Cardinale Walter Brandmüller
La dottrina conciliare della superiorità del Concilio sul Papa, sancita dal Concilio di Costanza con il decreto Haec sancta del 30 marzo e del 6 aprile 14151, è
ancor oggi oggetto di una diatriba che vede contrapporsi a numerosi sostenitori altrettanti detrattori. È pertanto nostro intendimento dare un’interpretazione di
questo testo controverso inquadrandolo nel contesto storico che ne ha determinato
la stesura. Giovanni XXIII, come aveva scelto di chiamarsi il successore di Alessandro V, eletto dal Concilio di Pisa nel 1409, era fuggito di nascosto da Costanza
nella notte tra il 20 e il 21 marzo 1415 per sottrarsi a talune pressioni di cui aveva
giustificato timore.
1. Contesto del voto del decreto Haec sancta
Per l’imperatore Sigismondo e le nazioni a lui alleate si poneva quindi il problema di come il Concilio poteva proseguire a Costanza in assenza del Papa, e
pertanto contro il Papa, che aveva voluto trasferirlo ad Avignone. La fuga di Giovanni XXIII tornava ovviamente a vantaggio della teoria del concetto unitario di
Sigismondo – abdicazione di tutti e tre i “Papi” – in quanto offriva un valido pretesto per un Concilio ormai senza Papa. Di qui anche il motivo non dichiarato per
cui Sigismondo e i suoi alleati si opposero a ogni proposta di Giovanni, per quanto
ragionevole, di addivenire a un accordo con il Concilio su una procedura di abdicazione o su un modus operandi. In questo modo il Concilio poteva sbarazzarsi più
rapidamente del “Papa” scomodo. Inoltre, nessuno doveva temere di agire contro la
Fede e la costituzione della Chiesa, dal momento che si nutrivano seri dubbi quanto
alla legittimità di Giovanni XXIII così come dei suoi contendenti. La tesi secondo
cui, verso la fine dello scisma, si dubitava “in generale” dell’esistenza di un Papa
legittimo è avvalorata dallo stesso San Vincenzo Ferreri2! Ciò trova conferma nel
fatto che Sigismondo assunse effettivamente la direzione del Concilio: i suoi interlocutori conciliari erano i rappresentanti delle nazioni, mentre i cardinali venivano
tenuti prudentemente ai margini. In questo scenario dovrebbero collocarsi le sessioni3 oggetto del presente contributo: la prima si svolse il lunedì successivo alla
1 Cf. W. Brandmüller, Das Konzil von Konstanz 1414-1418, vol. I, 2ª edizione, Paderborn,
1999; vol. II 1997. Il testo italiano corrisponde a I, 237‑257 e II, 416‑422. La traduzione e dovuta
a Lucia e Enzo Magris.
2 Cf. R. Arnau-García, S. Vicente Ferrer y las eclesiologías del Cisma, Valencia 1987,
134 sqq.
3 È essenziale rilevare che talune contraddizioni nelle fonti (in particolare Fillastre e
Cerretani) non consentono più di ricostruire esattamente gli sviluppi storici, in particolare la
191
domenica delle Palme, il 25 marzo, e vide riuniti Sigismondo e i cardinali rimasti a
Costanza nonché i rappresentanti delle nazioni4. Da più parti era giunta la richiesta
di tenere ora una sessione pubblica, e proprio nel momento in cui era in discussione
l’ordine del giorno entrò l’arcivescovo di Reims, che consegnò la bolla di Giovanni
Intellectis quae5, con la quale il Papa offriva la sua abdicazione per procuratores. A
voce, l’arci­vescovo aggiunse che il Papa aveva deciso di nominare suoi procuratori
i seguenti vescovi delle nazioni: Nikolaus Bubwith di Bath, Johann von Borsnitz
di Lebus e, per la natio gallicana, François Conzié di Narbonne o lui stesso, latore
della bolla. Il Papa lasciava alla natio italica la facoltà di nominare uno dei suoi
membri. Qualora non avesse gradito tale nomina, il Concilio avrebbe potuto presentare un elenco di trenta o quaranta nomi tra cui il Papa avrebbe poi fatto la sua
scelta. Ma alcuni dei presenti bollarono la proposta di Giovanni come uno stratagemma del Papa fuggiasco, il che diede origine a una violenta disputa. Nella tarda
serata di lunedì si era comunque giunti a un accordo di massima, secondo cui la
richiesta sessione pubblica si sarebbe tenuta il mattino successivo. Una volta presa
visione dell’ordine del giorno, i cardinali d’Ailly e Zabarella affermarono di voler
parteciparvi solo con riserva, mentre i cardinali Lando e Panciera comunicarono
che non vi avrebbero preso parte. Gli altri cardinali giustificarono la loro assenza
dandosi malati6; Colonna, Stefaneschi e Conti erano già partiti verso mezzogiorno per Sciaffusa7. La reazione dei cardinali è comprensibile, considerato che essi
erano a conoscenza non soltanto dell’ordine del giorno, ma anche del testo del
decreto che doveva essere emanato: nella sessio publica, infatti, non si sarebbe
più discusso, ma si sarebbe soltanto votato – per nationes – e sarebbe stato reso
pubblico il testo. Le discussioni vere e proprie sulla forma e sul contenuto del decreto si erano già svolte. L’assenza ovvero la riserva espressa dai cardinali palesa
pertanto proprio la loro posizione sul decreto che sarebbe stato annunciato nella
sessio publica. Dal momento che nella sessione del 26 marzo8 il Concilio intendeva
soprattutto annunciare al mondo intero che il Concilio poteva esistere e operare anche in assenza del Papa, i cardinali si rifiutarono di prendervi parte. Anche d’Ailly e
Zabarella si mostrarono riluttanti, ma fecero bene a presenziare, in quanto nell’aula
conciliare poterono illustrare in maniera articolata la propria posizione. Al termine
della rituale Messa solenne, celebrata da d’Ailly, Zabarella, dopo aver pronunciato
l’esortazione Ecce, sanctissimi sacerdotes prevista dal pontificale, diede lettura a
collocazione temporale delle riunioni menzionate, ecc. Le date, se indicate, sono comprovate o
ricostruite.
4 Acta Concilii Constanciensis, a cura di Heinrich Finke, Johannes Hollnsteiner e Hermann
Heimpel, 4 vol., Regensbergsche Buchhandlung, Münster 1896-1928 (ristampa Münster 19761982), II, 226. D’ora in poi ACC.
5 Cf. J. D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, vol. XXVII, Venezia
1784 (ristampa Parigi 1903 e Graz 1963), 576 sqq. D’ora in poi Mansi, seguito dal numero del
volume e della pagina.
6 ACC II, 225 sqq.
7 ACC II, 224 sqq.
8 ACC II, 26, 226; Mansi XXVII, 579-582.
192
nome suo e di d’Ailly di una dichiarazione del seguente tenore: dato che il Papa
aveva fermamente promesso di abdicare, sarebbe stato corretto continuare a dovergli obbedienza. Soltanto qualora non avesse mantenuto la promessa, i cardinali
Zabarella e d’Ailly si sarebbero messi a disposizione del Concilio. In un primo momento, tuttavia, anche il Concilio sarebbe stato tenuto a obbedire a Papa Giovanni
e a sostenerlo nel suo buon proposito. Prima di tenere la sessio publica, Zabarella
e d’Ailly avrebbero inoltre preferito attendere che i cardinali inviati a Sciaffusa
riferissero le risposte del Papa. Per tale ragione, anche altri cardinali non avevano
presenziato alla sessione, e loro stessi vi avevano partecipato nella speranza che
questa si svolgesse nel rispetto delle norme e il Papa fosse messo in condizione di
confermarne le decisioni9.
A prescindere dal testo delle decisioni di cui Zabarella doveva dare lettura,
ben poco fu tuttavia fatto per ottenere il consenso di Giovanni. In primo luogo il
Concilio stabilì che si era regolarmente riunito nello Spirito Santo. Esso dichiarò di
essere stato regolarmente convocato, iniziato e celebrato a Costanza. La partenza
del Papa e di altri prelati non ne aveva comportato affatto lo scioglimento: esso
continuava ad esistere in piena autorità e integrità, anche se fossero state emanate
disposizioni di diverso tenore. Con tale clausola si intendeva evidentemente contrastare l’eventualità che il Papa procedesse al suo scioglimento. Il Concilio non poteva tuttavia essere sciolto se non avesse prima assolto ai compiti dell’unione e della
riforma. Il Concilio non poteva nemmeno essere trasferito ad altra sede senza una
fondata ragione riconosciuta dal Concilio stesso. Infine, nessuno poteva lasciare
Costanza senza un giusto motivo approvato dal Concilio. Secondo un manoscritto
viennese, l’intero Concilio avrebbe proclamato placet al termine di ogni paragrafo
– quindi, ancora una volta, non si votò per nationes10.
Con questo decreto, alla cui stesura contribuì in maniera determinante Gerson11, il Concilio imboccava la strada che avrebbe portato alcuni giorni dopo a
Haec santa, noto in seguito semplicemente come il “Decreto di Costanza”. Dal
confronto dei due testi si evince quale andamento abbia avuto l’immagine che il
Concilio offriva di se stesso in quei giorni, ovvero quale corrente ecclesiologica
abbia prevalso all’interno del Concilio12.
All’ora del Vespero, i cardinali Fillastre, Adimari, Challant e Saluzzo, rientrati nel frattempo da Sciaffusa, – il cardinal Orsini, piuttosto provato dal viaggio,
non era invece presente – si incontrarono con l’Imperatore Sigismondo, gli altri
cardinali e i deputati delle nazioni in una lunga seduta, molto tesa, che andò avan-
9 Mansi XXVII, 581 sqq.; Hermann von der Hardt, Magnum Oecumenicum Constantiense
Concilium, 4 vol., Francoforte e Lipsia 1696-1702, IV, 71. D’ora in poi Hardt, seguito dal
numero del volume e della pagina.
10 Hardt IV, 72.
11 Cf. Thomas E. Morrissey, The Decree Haec sancta and Cardinal Zabbarella: His Role
in its Formulation and its Interpretation, in Annuarium Historiae Conciliorum 10 (1978) 150.
12 Analisi approfondita in Th. E. Morrissey, The Decree Haec sancta, op cit.
193
ti fino a notte inoltrata13. All’annuncio dei cardinali, che avrebbero comunicato il
giorno successivo liete notizie circa i buoni propositi del Papa, si diffuse un certo
scetticismo: se così fosse veramente stato, il Papa non avrebbe ordinato alla curia di
andare a Sciaffusa! Ma proprio questo, sostenevano i cardinali, era motivo di ottimismo! Eppure anche questa affermazione non contribuì a distendere la situazione.
I cardinali non riuscirono, infatti, a trattenere Sigismondo dall’attaccare di sorpresa
Federico d’Austria.
Con tali premesse si arrivò alla Congregazione generale del 28 marzo14. A tutti i convenuti, riuniti nel palazzo del Vescovo, Adimari presentò una nuova offerta
del Papa in merito alla procedura per la sua abdicazione. Giovanni era disposto a
estendere i pieni poteri dei procuratori anche al caso di una sua assenza o di un
eventuale rifiuto ad abdicare. Solo nel caso in cui il Papa fosse stato trattenuto contro la sua volontà, detta procura non sarebbe stata considerata valida. La cessione
poteva considerarsi efficacemente eseguita se tre cardinali o tre altri procuratori
fossero stati d’accordo. Inoltre il Papa nominava procuratori tutti i cardinali nonché
otto prelati, da lui stesso scelti tra i trentadue dell’elenco proposto dal Concilio.
Sarebbe stato sufficiente che tre di loro fossero concordi per conferire efficacia
esecutiva all’abdicazione – con o senza i cardinali.
Il Papa dava inoltre mandato al Collegio cardinalizio di rappresentarlo al
Concilio, la cui presidenza sarebbe stata affidata a uno dei cardinali. Nei rapporti
tra i cardinali e il Papa non doveva essere frapposto alcun ostacolo, ma a Costanza
avrebbe dovuto essere sempre presente un congruo numero di cardinali. Infine, era
necessario provvedere al mantenimento di Giovanni successivamente alla sua abdicazione, anche se egli non l’aveva espressamente richiesto. Egli intendeva emanare
altresì una bolla per assicurare la continuazione del Concilio fino alla realizzazione
definitiva dell’unione e della riforma. La sicurezza della persona del Papa andava
garantita ovunque egli fosse, anche dopo la sua abdicazione. In questo caso, su
richiesta della legazione reale francese, per quattro-cinque settimane il Papa non
avrebbe dovuto allontanarsi da Costanza a una distanza superiore a uno-due giorni
di viaggio – e nulla – almeno per il momento – avrebbe dovuto essere intrapreso
contro il duca Federico. Questi i desiderata di Giovanni.
A un giudizio non aprioristico, le condizioni del Papa non potevano che essere
considerate ragionevoli, eque e facili da soddisfare. Se il Concilio le avesse accolte,
ciò non sarebbe stato di ostacolo né alla sua continuazione né all’abdicazione di
Giovanni, anzi questa sarebbe stata addirittura ampiamente facilitata: in tali circostanze non sarebbe stato difficile convincere almeno tre cardinali su venti o tre
vescovi su trentadue ad acconsentire all’abdicazione del Papa.
Il Concilio non sembrava più in grado di seguire simili riflessioni: si limitava a
gridare: Fiat sessio, fiat sessio! Le dispute continuarono ancora fino al Venerdì Santo15.
ACC II, 226 sqq.
Mansi XXVII, 582 sqq.
15 ACC II, 227 sqq.
13 14 194
Soltanto con molta fatica i cardinali riuscirono a spostare la sessione almeno
alla mattinata del Sabato Santo, adducendo a pretesto che non potevano affatto
sapere che cosa si sarebbe deciso.
Nel frattempo Sigismondo discuteva con le tre nazioni che lo sostenevano
una nuova offerta che i cardinali gli avevano presentato a nome del Papa, senza
giungere tuttavia ad alcun risultato. Questa volta si proponeva al Rex Romanorum
di essere lui stesso procuratore del Papa anziché uno dei tre cardinali all’uopo previsti. Il Papa intendeva altresì impegnarsi a non trasferire la curia contro la volontà
del Concilio di Costanza16. Nel contempo i cardinali accettavano di partecipare alla
sessio publica convocata per il Sabato Santo soltanto se le decisioni da prendere
avessero avuto come oggetto null’altro che i Capitula a loro noti. Cerretani non ci
dice, tuttavia, a quale versione si riferissero – si trattava di Haec sancta; Fillastre
afferma inoltre che poco prima dell’inizio della sessione i cardinali non erano ancora stati informati in maniera esaustiva sui decreti da emanare e non era andata meglio ai legati del re di Francia. Non da ultimo, tale situazione poteva essere riconducibile al fatto che le nazioni non erano ancora d’accordo tra loro, come comunicò
Sigismondo ai cardinali nella tarda serata del Venerdì Santo. C’era in particolare un
aperto dissenso circa la superiorità del Concilio sul Papa, segnatamente per quanto riguardava la riforma. Zabarella sosteneva che quell’ar­ti­co­lo specifico non era
conforme alla legge, per cui il pertinente passaggio andava soppresso. I cardinali
non erano nemmeno disposti a comminare sanzioni contro Giovanni XXIII né a
condannare la sua fuga. E non concordavano nemmeno con la pretesa asserzione
delle nazioni che il Concilio si stava svolgendo in piena libertà e sicurezza17.
Per non dover annullare la sessione, il suo inizio fu rinviato alle ore 10, in
modo da poter tenere prima una congregazione generale, indetta per le ore 7. La
delegazione della Sorbona colse l’occasione per tentare un’ultima volta di trattenere Sigismondo dal muovere guerra a Federico d’Austria – ma invano. Non era stato
raggiunto un accordo nemmeno sulla materia vera e propria della sessione. Intanto
si iniziò celebrando la Messa18.
Secondo Fillastre, vista la situazione e nonostante i tentativi di Sigismondo
per convincerli, i cardinali e i legati del re di Francia decisero di non partecipare
alla sessione19. Mentre già tutti avevano preso posto nel coro, Sigismondo continuava a trattare con loro. Infine, Zabarella e Fillastre lo presero in disparte in
una cappella, dove vennero chiamati anche i rappresentanti delle nazioni, e dopo
laboriose trattative si addivenne a un accordo sui testi da emanare. Fillastre, in
genere poco ben disposto nei confronti di Sigismondo, attribuisce l’esito positivo
delle trattative al suo influsso sui rappresentanti. Infine anche i cardinali poterono
prendere posto nella sala – ma d’Ailly e Brogny non erano comunque presenti20.
ACC II, 228, 29 marzo.
Hardt IV, 83; ACC II, 27 sqq. : “Quod ille articulus non erat verus de jure”.
18 ACC II, 228.
19 ACC II, 27.
20 ACC II, 27 : “[…] et per eius (sc. Sigismundi) medium adhibito quodam moderamine
16 17 195
Mauroux terminò la celebrazione della Messa, quindi il cardinal Orsini assunse la presidenza e il cardinale Zabarella diede lettura del risultato di tante discussioni accese e complesse: il decreto Haec sancta. Visto il modo in cui era stato ottenuto il compromesso, non fu possibile informarne i padri conciliari che sedevano
nel coro. Il Concilio venne dunque colto alla sprovvista. Quando Zabarella, che con
Fillastre aveva collaborato in prima persona alla stesura finale del decreto, diede
lettura di questo testo di compromesso, per i suoi ascoltatori – fatta eccezione per
la natio italica e la legazione reale francese – fu un’amara sorpresa: la posizione dei
cardinali era stata pienamente accolta.
Il decreto aveva questo tenore: (1) Il Concilio, riunito legittimamente per realizzare l’unione e la riforma della Chiesa, è un generale concilium, che rappresenta l’ecclesia militans e trae il suo potere direttamente da Cristo. Chiunque, di
qualunque rango e ceto, etiam si papalis existat, è tenuto ad obbedirgli in ciò che
riguarda l’unione e la Fede. (2) Il Papa non può trasferire la curia senza il consenso
del Concilio e non può nemmeno ordinare alla curia di seguirlo. Eventuali censure
con cui dovesse perseguire tale scopo sarebbero nulle. (3) In forza della sua autorità
il Concilio dichiara nulli eventuali trasferimenti di prelati e altre privazioni di benefici irrogate dal Papa nei confronti dei membri del Concilio. (4) Una commissione
composta da tre membri per ogni nazione dovrà vagliare le richieste di autorizzazione a viaggiare e decidere se concedere tali autorizzazioni, nonché punire ogni
trasgressione. (5) Per il bene dell’unione non dovranno essere creati nuovi cardinali. Se del caso, non potrà essere riconosciuto come cardinale colui che non fosse
già stato nominato cardinale al momento della fuga del Papa21.
Non desta meraviglia il fatto che i padri conciliari, messi in questo modo dinanzi al fatto compiuto, non intendessero rassegnarsi al nuovo testo del decreto e
che si formassero estreme tensioni in seno al Concilio. In particolare, un anonimo
proveniente dalla natio germanica rivolse la sua rabbia contro Zabarella, colpevole
di aver mutilato il ben più ampio progetto di decreto delle nazioni e, pertanto, di
aver dileggiato e disprezzato questa sacra assemblea, motivo per cui egli stesso e
il suo seguito dovevano essere esclusi dal Concilio22. Il Concilio insisté infine per
emanare il testo originario in una nuova sessione23.
I cardinali, che miravano alla riconciliazione tra Giovanni e le nazioni, avevano
invece presentato al termine della sessione una serie di provisiones ad hoc24. Allo
stesso tempo essi si incaricavano anche di operare per ottenere l’accordo del Papa.
in expediendis in illa sessione cardinales consenserunt interesse […]”. Sull’assenza di d’Ailly e
Brogny, cf. Mansi 27, 584.
21 Mansi XXVII, 585 sqq.; Th. E. Morrissey, The Decree Haec sancta, op cit., 149-151.
Per quanto concerne la parte di frase relativa alla superiorità del Concilio in materia di riforma,
Fillastre afferma che nella lettura Zabarella ha tralasciato le parole et reformationem generalem
ecclesiae dei in capite et in membris; quod ille articulus non erat verus de iure (ACC II, 28).
22 ACC III, 150; Hardt II, 279-284.
23 ACC II, 27 sqq.
24 ACC II, 229-232.
196
Innanzitutto, il Papa doveva emettere una bolla in cui si impegnava a non
trasferire o sciogliere il Concilio senza l’accordo dello stesso. Il Concilio avrebbe
quindi precisato i termini della procura che il Papa doveva emettere. Le nazioni
accolsero con favore le due proposte, ma non riuscirono ad accordarsi sulla nomina
dei procuratori. A tale riguardo, le nazioni germanica e anglica sostenevano che il
Papa doveva accettare le scelte del Concilio, e su questo concordava anche la natio
gallicana. Per contro, l’accordo fu trovato sulle proposte già presentate da cinque
cardinali. Le nazioni ritennero superflui eventuali provvedimenti in caso di decesso
di Giovanni – se indire nuove elezioni o meno – mentre venne comunque accolta
l’offerta di consigliare il Papa di accettare tutto ciò che al Concilio pareva proficuo
ai fini dell’unione e, se del caso, di darne conferma attraverso bolle; analogamente,
veniva stabilito che tutte le difficili materie conciliari dovevano passare in secondo
piano rispetto all’unione, che si provvedeva alla sicurezza personale e al mantenimento di Giovanni prima e dopo la sua abdicazione e che veniva posto fine a ogni
conflitto.
A ciò si aggiunse ancora un interessante articolo: la sicurezza e il mantenimento del Papa dopo la sua abdicazione non sarebbero stati garantiti se, dopo
aver abdicato, Giovanni si fosse recato in Italia o altrove senza autorizzazione del
Concilio o – secondo la formulazione di Haec sancta – non intendesse obbedire al
Concilio in materia di fede, di unione e di riforma25. Non va dimenticato, tuttavia,
che tale obbedienza veniva chiesta al Papa solo dopo che questi avesse rinunciato
al suo ufficio.
E venne Pasqua, ma anche in quella solennità la frenetica attività delle nazioni
non conobbe soste. Infatti, i cardinali e i legati del re di Francia e della Sorbona insieme ad altri si appellarono alla solennità della festa per fare pressioni ancora una volta
su Sigismondo affinché cessasse le ostilità contro il Duca d’Austria – ma invano26.
Già il martedì dopo la domenica di Pasqua, il 2 aprile, i rappresentanti delle
nazioni si riunirono ancora una volta nell’intento di privare pressoché integralmente il Papa della facoltà di scegliere i suoi procuratori e di precisare le modalità di
cessione. Se tale proposta si fosse concretizzata, a decidere del destino di Giovanni
sarebbero rimasti soltanto due fiduciari del Concilio, casualmente o deliberatamente di parere concorde. La procura, in quattro copie, andava trasmessa al Concilio
che l’avrebbe custodita, permettendo ai procuratori di farne uso soltanto a sua discrezione. Si richiedeva a questi ultimi un giuramento in sessione pubblica: ma prima di tutto doveva essere finalmente emanato Haec sancta nella sua forma integrale
originaria27. A tale riguardo e sulla formulazione della procura ci furono ancora
estenuanti discussioni per lunghi giorni, finché i cardinali ricevettero il progetto
Pridem ad laudem e lo approvarono28.
25 ACC II, 232: “Vel nollet obtemperare concilio et determinationi dicti concilii in
pertinentibus ad fidem et extirpationem dicti schismatis ac unionem seu reformationem […]”.
26 ACC II, 232.
27 ACC II, 232 sqq.
28 ACC II, 233.
197
Nel frattempo, anche al di fuori del Concilio si erano tuttavia verificati avvenimenti che avrebbero influito pesantemente sull’evoluzione degli eventi. Il Giovedì Santo, Giovanni XXIII stava recandosi alla santa Messa quando fu informato
della dichiarazione di guerra di Sigismondo al Duca Federico; il giorno seguente
lasciò improvvisamente Sciaffusa, accompagnato dal Duca, per recarsi a Friburgo. Ma egli stesso fu abbandonato da tutti i cardinali presenti a Sciaffusa, tra cui
persino suo nipote, Tommaso Brancaccio, e dalla maggior parte della curia, che si
trovava sempre a Sciaffusa. Essi temevano, infatti, di venir utilizzati come pedine
di scambio dal Duca Federico per le sue perdite di guerra29. Il 30 marzo, infine,
Sigismondo metteva al bando il Duca d’Austria.
In questo modo l’imperatore colpiva non soltanto il Duca Federico, con il quale
intendeva regolare vecchi conti in sospeso, ma anche Giovanni XXIII, che si ritrovava
così privato della protezione militare e politica30. In questo quadro di profonda crisi
il Concilio si riunì il 6 aprile per la sua 5ª sessione, destinata a passare alla storia. Già
alla vigilia era chiaro che anche lo stesso Concilio risentiva della crisi31. Cerretani
menziona una forte opposizione dei cardinali al decreto Haec sancta, già redatto prima
della sessione. Giusto poco prima della sessione i cardinali si erano riuniti con la legazione del re di Francia nella camera paramentorum del palazzo vescovile per rendere
manifesta la loro tacita protesta contro le decisioni del Concilio, la cui pubblicazione
era imminente, nonché per ribadire che la loro partecipazione alla sessio publica non
poteva essere assolutamente intesa come espressione di un assenso alle sue decisioni:
essi vi partecipavano solamente per evitare uno scandalo. In particolare intendevano
protestare anche contro l’asserzione, voluta da Sigismondo, che il Papa e il Concilio
avevano goduto fino ad allora di assoluta libertà e sicurezza32.
Nonostante le rassicurazioni ricevute, che evidentemente non erano loro sufficienti, alcune figure di spicco tra i cardinali, quali Brogny, d’Ailly, Lando e Fieschi,
non presero parte alle sessione, mentre Zabarella, pur essendo presente, si rifiutò di
dare lettura di Haec sancta, per cui dovette farlo, al suo posto, l’eletto di Poznan,
Andreas Lascari33. È significativo il fatto che, nel frattempo, anche la natio italica
si era unita al gruppo dominante delle tre nazioni, germanica, anglica e gallicana.
Di particolare rilevanza è tuttavia il no di Zabarella al decreto di imminente
pubblicazione34. Dal momento che si votava non più per persona ma per nazione
e che spettava a lui, in quanto il più giovane tra i cardinali diaconi, dare lettura in
aula dei decreti conciliari, egli si rifiutò di adempiere al proprio ufficio con un gesto
dimostrativo che rese ancora più spettacolare il suo rifiuto.
ACC II, 26 sqq.
Tiroler LA Innsbruck, Doc. n. 6939 – copia coeva – datata 4 aprile. La data del 30 marzo
figura nei Reg. Imp. IX n. 1542.
31 La delegazione della Sorbona colse così l’occasione per appellarsi il 2 aprile 1415 al
Concilio e a Sigismondo affinché continuassero i lavori conciliari. L’appello venne letto nella
sessione del 17 aprile (Mansi XXVII, 615 sqq.).
32 ACC II, 235.
33 ACC II, 235.
34 Si veda in extenso Th. E. Morrissey, The Decree Haec sancta, op cit.
29 30 198
Il decreto – e questo spiega il suo comportamento – conteneva infatti ancora
gli stessi passaggi che Zabarella già il 30 marzo aveva volutamente escluso dalla
sua lettura. Se si considera che Zabarella, senza dubbio il canonista più importante
tra tutti i padri conciliari, aveva collaborato in maniera determinante a formulare il
decreto, fatta eccezione per i passaggi da lui espunti, e aveva assunto non una posizione ultra­favo­re­vole al Papa, bensì una posizione conciliare piuttosto moderata,
si comprende quindi il significato del suo clamoroso gesto.
Una volta che l’arcivescovo di Reims aveva terminato la celebrazione della
Messa, il cardinal Orsini aveva celebrato la liturgia della sessione e Laskary era
salito sul pulpito per dare lettura dei decreti, la protesta di Zabarella divenne manifesta. Laskary diede lettura del decreto Haec sancta, che da allora ha coinvolto
canonisti, teologi e storici in una discussione ancora aperta e talvolta dai toni piuttosto aspri35.
Rispetto alla versione del 30 marzo, il nuovo testo conteneva in più due passaggi palesemente respinti da Zabarella, di cui il primo sanciva la superiorità del
Concilio sul Papa anche nelle questioni della riforma, l’altro una generale richiesta
di obbedienza del Concilio rivolta anche al Papa. In questa nuova forma il decreto
aveva il seguente tenore:
Essendo espressione della ecclesia militans, il Concilio riceve il proprio potere direttamente da Cristo. Chiunque, di qualunque rango e ceto, etiam si papalis
existat, è tenuto ad obbedirgli in ciò che riguarda la Fede, l’estirpazione dello scisma e la riforma.
Chiunque rifiutasse di obbedire agli ordini del Concilio et cuiuscumque alterius concilii generalis legitime congregati, dovrà sottostare a pene canoniche.
Seguono poi le disposizioni che dichiarano nulle le eventuali censure inflitte
da Giovanni ai membri del Concilio. Infine il Concilio dichiara esplicitamente che
Giovanni XXIII e tutti coloro che hanno preso parte al Concilio hanno sempre goduto piena libertà e sicurezza e che non si ha notizia del contrario. Il Concilio ne dà
testimonianza dinanzi a Dio e agli uomini. Il decreto si conclude con la condanna
della fuga di Giovanni e l’invito espressamente rivoltogli di ritornare a Costanza36.
Su questa discussione si veda il mio contributo, W. Brandmüller, Besitzt das Konstanzer
Dekret Haec sancta dogmatische Verbindlichkeit?, in Annuarium Historiae Conciliorum 1 (1969)
96-113; da ultimo in Id., Papst und Konzil im großen Schisma (1378-1431). Studien und Quellen,
Schöningh, Paderborn 1990, 225-242, e la bibliografia pubblicata fino al 1969 ivi indicata, nonché
Remigius Bäumer, Die Entwicklung des Konziliarismus. Werden und Nachwirken der konziliaren
Idee (= Wege der Forschung, 279), WBG, Darmstadt 1976, 44-56 e 393-402 (bibliografia). Th. E.
Morrissey, The Decree Haec sancta, op cit., riferisce sullo stato della discussione fino al 1978.
Infine cf. Johannes Helmrath, Das Basler Konzil 1431-1449. Forschungsstand und Probleme
(= Kölner historische Abhandlungen, 32), Böhlau, Colonia 1987, 460-477. Di fondamentale
importanza per la storia del decreto è lo studio approfondito di Hans Schneider, Der Konziliarismus
als Problem der neueren katholischen Theologie. Die Geschichte der Auslegung der Konstanzer
Dekrete von Febronius bis zur Gegenwart, de Gruyter, Berlino 1976, 256-299, 308-339. Cf.
Hermann-Josef Sieben, Die katholische Konzilsidee von der Reformation bis zur Aufklärung
(= Konziliengeschichte, Reihe B), Schöningh, Paderborn 1988, 306-349.
36 Questi ultimi passaggi sono tramandati solamente in un manoscritto utilizzato da Mansi
XXVII, 591-593, nonché nel Religieux de St-Denis (Chronique du Religieux de Saint-Denys,
35 199
2. Per un’interpretazione storico-critica del testo
Se si volesse ora tentare di dare un’interpretazione di questo importante
testo all’altezza della discussione condotta finora, va tuttavia fatta una premessa:
nessuno dei partecipanti al Concilio, per quanto poco informato, non poteva non
sapere che nessuno dei tre “Papi” contendenti era indubbiamente e indubitabilmente il Papa legittimo. Pertanto esisteva de iure una vacanza della sede. Dal
momento che la legittimità dei collegi cardinalizi era subordinata alla legittimità
dei “Papi”, che li avevano creati, valeva per loro quanto valeva per questi ultimi:
la loro legittimità era controversa. L’unica istanza suprema in questa situazione, legittimata dal diritto divino, era quindi l’episcopato riunito in un concilio.
Ma date le circostanze contingenti non era possibile motivarlo sotto il profilo
teologico-canonistico in maniera tale da convincere tutte e tre le obbedienze.
E non restò altro che procedere pragmaticamente. Fino al 29 maggio 1415 anche a Costanza si continuò pertanto a fingere che Giovanni XXIII fosse il Papa
legittimo: i partecipanti erano in un primo tempo ancora lontani dall’idea di un
processo e di un’abdicazione. La consapevolezza che la carica papale era sancita
per volontà divina era troppo radicata nella coscienza di tutti perché si osasse tentare di procedere a un’abdicazione anche qualora fosse dubbia la legittimità del
detentore di tale ufficio. Per tale motivo si auspicava un’abdicazione di tutti e tre
i contendentes per non dover negare a nessuno dei tre la pretesa legittimità. In tal
modo veniva salvaguardato l’onore di ciascuno e l’abdicazione poteva assumere
per ognuno di loro il carattere di eroico sacrificio: il buon pastore dà la vita per le
sue pecore. Così era salva la dignità di ogni singolo “Papa”37, e il loro sacrificio
tornava utile anche all’unione.
Ciò era particolarmente importante nel caso di Giovanni XXIII, la cui posizione tra i tre era la più forte. Come egli stesso aveva giustamente ribadito, era lui
ad avere la più vasta obbedienza e possedeva inoltre – salvo qualche eccezione –
tutti i domini del mondo della Chiesa romana38.
Quanto fosse forte la sua posizione lo comprova il fatto che la sua fuga aveva
potuto mettere in discussione la continuazione del Concilio senza che lui stesso avesse mai detto una parola per sciogliere il Concilio o anche solo per trasferirlo. Egli vocontenant le règne de Charles VI de 1380 à 1422, a cura di M. L. Bellagnet, vol. V, Paris 1844,
602): “Item statuit, diffinit et decernit dicta sancta synodus, quod recessus dicti domìni nostri
papae a civitate Constantiensi clandestine factus, fuit illicitus, bonoque unionis ecclesiae Dei
praeiudicialis et nocivus. Quodque dictus dominus noster papa requirendus est ex parte dicti
sacri concilii, quod ad illud revertatur, facturus et adimpleturus quod promisit, vovit et iuravit
pro unione danda ecclesiae Dei: et cum intimatione, quod si infra terminum sibi ex parte dicti
sacri concilii praefigendum, ad ipsum concilium redire contempserit, aut plus debito distulerit,
contra eum tamquam fautorem schismatis et suspectum de haeresi procedetur, ut requirunt sacrae
et canonicae sanctiones” (Mansi 27, 591 sqq.).
37 Proprio questa era la motivazione della procedura nella “lotta dei blasoni”; vedi W.
Brandmüller, Das Konzil von Konstanz 1414-1418, op. cit., vol. I, 165 sqq.
38 Mansi XXVII, 569, in Pacis bonum, “Nos […] licet certissima iura, et universalem quasi
obedientiam et omnia temporalia dominia Romanae ecclesiae, paucis exceptis, habeamus […]”.
200
leva solo avere la curia con sé, il che era tanto legittimo quanto opportuno. Anche nel
1415 si poteva svolgere un Concilio senza che il Papa fosse presente personalmente39.
Non si può nascondere che l’ambiguità della situazione – non c’era un Papa,
ma si agiva come se ce ne fosse uno – dovette ripercuotersi anche sulla genesi
e quindi sulla comprensione di Haec sancta. Il testo doveva essere concepito in
modo tale che ogni partecipante al Concilio potesse approvarlo in maniera assolutamente incondizionata. Doveva anche tener conto della situazione e, a prescindere
dalle circostanze concrete, avere una sua logica.
Resta da vedere se ciò sia effettivamente riuscito – l’esito definitivo ha dato
ragione ai padri di Haec sancta. Dall’interpretazione di questo testo nasce la seguente
questione fondamentale, forse anche anacronistica perché sollevata a posteriori dai
ricercatori: Haec sancta ha proclamato la superiorità del concilio sul Papa, e di conseguenza un sovvertimento della costituzione della Chiesa, o ha proclamato il dogma
della superiorità del concilio sul Papa? Nel corso degli ultimi cinquecento anni ci sono
state risposte controverse, in funzione della posizione teologica dei diversi autori40.
I contrari al Papato intravvedevano in Haec sancta l’alba della libertà dal
giogo di Roma; i sostenitori e fautori del primato papale consideravano il decreto
inaccettabilmente fuorviante e ne reclamavano, per motivi formali e di contenuto,
la nullità e invalidità. Per quanto inammissibili, le due posizioni trovano spesso,
tuttavia, dei sostenitori.
Innanzitutto si impone un’interpretazione storico-critica, il cui risultato potrà
poi essere valutato sotto il profilo teologico. In questo esercizio si assiste al tentativo di quanti considerano Haec sancta incompatibile con il primato romano di
circoscrivere l’importanza del decreto qualificandolo come “misura d’emergenza”
e pertanto – necessità non conosce legge – indebolendolo e nel contempo giustificandolo41.
Ciò non è assolutamente possibile sotto il profilo logico-teologico, perché
anche un’emergenza ecclesiologica può essere risolta efficacemente soltanto con
mezzi teologicamente legittimi. Non si poteva risolvere un’emergenza creandone
una nuova. Anche un provvedimento di emergenza teologico-canonistico doveva
avere una sua logica, nel rispetto della Scrittura e della tradizione, fosse solo per far
tacere i potenziali avversari. Lo stesso vale se in Haec sancta si ravvisa una norma
39 La teoria che Giovanni abbia dato origine con la sua fuga a un fatto dogmatico, un
atto cioè di eccezionale densità dottrinale (Giuseppe Alberigo, Chiesa conciliare. Identità e
significato del conciliarismo (= Testi e ricerche di scienze religiose, 19), Paideia, Brescia 1981,
151.) sembra tuttavia conferire un valore eccessivo a tale fuga. Date le circostanze, non c’è alcun
dubbio che si trattasse semplicemente della libertà e della sicurezza personale di Giovanni.
40 Va riconosciuto a H. Schneider – in Id., Der Konziliarismus als Problem der neueren
katholischen Theologie, op. cit. – il merito di aver presentato la storia dell’interpretazione di
Haec sancta in maniera pressoché esaustiva; cf. anche H.-J. Sieben, Die katholische Konzilsidee,
op. cit., 306-349; Id., Katholische Konzilsidee im 19. und 20. Jahrhundert (= Konziliengeschichte,
Reihe B), Schöningh, Paderborn 1993, 36-71.
41 Cf. H. Schneider, Der Konziliarismus als Problem der neueren katholischen Theologie,
op. cit., 226-235.
201
canonica e non una definizione dogmatica. Anche le norme canoniche devono avere un fondamento teologico.
Diversa sarà la valutazione se al decreto si riconosce una validità contingente.
Ovviamente è da escludere che il fine della “estirpazione dello scisma” avrebbe potuto giustificare in quei critici giorni di marzo e aprile 1415 mezzi altrimenti inammissibili in altre circostanze. Tuttavia si può ragionevolmente definire Haec sancta
un decreto “contingente”, partendo dal presupposto che il contenuto del decreto
fosse valido non solo a Costanza in quei mesi del 1415, ma che una norma come
quella sancita da Haec sancta fosse sempre sostanzialmente valida ogniqualvolta
si fosse riprodotta una situazione analoga.
In particolare – e questa sarà l’ultima regola interpretativa qui applicabile
– è necessario innanzitutto tentare l’esegesi del testo in questione in linea con la
tradizione ecclesiastica preesistente. Proprio nell’ambito della Chiesa – la Chiesa
vive trasmettendo e trasmette vivendo42 – la continuità ha una presunzione di sé.
Andrebbe per contro motivata la presunzione di rottura e rivoluzione. A queste osservazioni introduttive segue ora un tentativo di interpretazione43.
Già l’incipit è di per sé molto esplicito. Non che Haec sancta synodus Constantiensis sia già un riferimento alla congiunturalità del decreto! Piuttosto ciò è
esplicitato chiaramente nella seguente frase: “questo concilio di Costanza si è riunito per l’estir­pa­zione del presente (!) scisma, la realizzazione dell’unione e la
riforma della Chiesa nel capo e nelle membra”44. Si sottolinea che esso è stato
convocato legitime nello Spirito santo, riconoscendo indirettamente la legittimità
della convocazione del Concilio su iniziativa di Giovanni XXIII, il che evidenzia
per la prima volta l’ambiguità del testo. In nome dell’obiettivo della realizzazione
dell’unione e della riforma, chiaramente definito, si decide quanto segue. L’abbondanza di verbi quali ordinat, diffinit, statuit, decernit et declarat richiede un
eccessivo sforzo interpretativo soltanto per chi non ha familiarità con le formule
ridondanti dei giuristi del Quattrocento. Si tratta semplicemente del linguaggio di
una decisione conciliare45.
42 W. Brandmüller, Geschichtliche Kirche – kirchliche Geschichte. Reflexionen über das
wissenschaftliche Selbstverständnis der Kirchengeschichte, in Theologie und Glaube 75 (1985)
402-420, qui 407.
43 Seguito sostanziale ma non in dettaglio e con motivazione parzialmente ampliata del
contributo su Haec sancta (W. Brandmüller, Besitzt das Konstanzer Dekret Haec sancta
dogmatische Verbindlichkeit?, op. cit.) nella sua ultima versione, ristampa in Id., Papst und Konzil
im großen Schisma (1378-1431), op. cit., 235-242, per cui la versione in Römische Quartalschrift
für christliche Altertumskunde 62 (1967) 1-17 è da considerarsi superata.
44 Cf. anche G. Alberigo, Chiesa conciliare, op. cit., 174: “Questa formulazione ricalca in
larga misura quella del decreto della terza sessione, limitandosi a rafforzare il riferimento alle
circostanze storiche”. La spiegazione dei comparativi facilius, securius, uberius et liberius…
come “una eco dell’annosa discussione sulla maggiore efficacia della via concilii rispetto alle
altre viae” (ibid., 174) sembra plausibile. Inoltre Alberigo, ibid., 176 sostiene giustamente: “[…]
la proporzione centrale di “Haec sancta“ non si riferisce a qualsiasi Concilio in qualsiasi tempo e
circostanza, ma al Concilio in atto a Costanza”.
45 Andrebbe menzionato rispetto a H. Schneider, Der Konziliarismus als Problem der
202
La prima affermazione del decreto riguarda l’immagine che il concilio intende veicolare: esso è stato convocato legittimamente nello Spirito santo. È evidente
il richiamo agli Atti degli Apostoli: nel contesto del concilio degli Apostoli si esprime il rapporto tra Spirito santo e Concilio che introduce la sua decisione con le
parole: Visum est Spiritui Sancto et nobis (Atti 15, 28)46. Subito dopo si afferma che
il sinodo di Costanza è un generale concilium47 con cui si rivendica e si giustifica
la validità delle sue decisioni per la Chiesa universale. Questo generale concilium
rappresenta l’ecclesia catholica militans. Tale espressione va ricondotta alla sua
giusta dimensione. In questo modo si distingue la Chiesa sulla Terra dall’ecclesia
triumphans dei cieli e dall’ecclesia patiens del Purgatorio48. Certamente vi si può
vedere anche un richiamo alla Chiesa terrena visibile in opposizione al concetto di
Chiesa spiritualistica di Wyclif e Hus49. La pertinente affermazione che il Concilio
“rappresenta” la Chiesa militante è da ricondurre a Ockham e ai primi teorici del
Concilio, Geln­hausen e Langenstein50, ed è un luogo comune dell’epoca scismatica. Giustamente si osserva che tale nozione di repraesentatio non può essere intesa
in senso tecnico-giuridico, bensì va assunta in un’accezione ben più ampia. Ad
esempio, in altro contesto si parla di una repraesentatio del Corpus attraverso il suo
Caput51. Molto più importante è senza dubbio l’affermazione seguente, che questo
Concilio così descritto trae il suo potere direttamente da Cristo52. Con tale formulazione si traggono le conseguenze dall’effettiva vacanza di sede. Anche i papalisti
più intransigenti non avrebbero avuto nulla da obiettare sul fatto che un Concilio
riunito sede vacante non poteva trarre il suo potere da un Papa53.
neueren katholischen Theologie, op. cit., 321 sqq., cui va dato atto di un’acribia un po’ eccessiva.
Il gran numero di testi giuridici degli inizi del Quattrocento, che ho consultato in tutti questi anni,
sono troppo simili al riguardo per poter dare un senso specifico ad ognuno di questi numerosi
verbi. Cf. anche G. Alberigo, Chiesa conciliare, op. cit., 175.
46 Cf. H.-J. Sieben, Die Konzilsidee der Alten Kirche (= Konziliengeschichte, Reihe B),
Schöningh, Paderborn 1979, 314-316.
47 F. J. Schmale, Synodus – synodale concilium – concilium, in Archivium Historiae
Conciliorum 8 (1976) 80-102.
48 Riguardo a tale distinzione si veda Wilhelm Imkamp, Das Kirchenbild Inno­cenz’ III
(1198-1216) (= Päpste und Papsttum, 22), Hiersemann, Stoccarda 1983, 154-175.
49 Cf. H. Schneider, Der Konziliarismus als Problem der neueren katholischen Theologie,
op. cit., 322.
50 Si veda il mio contributo, W. Brandmüller, Sacrosancta synodus universalem
repraesentans Ecclesiam. Das Konzil als Repräsentation der Kirche, da ultimo in Id., Papst und
Konzil im großen Schisma (1378-1431), op. cit., 157-170, che elenca e rielabora la bibliografia
pertinente. Cf. anche H. Schneid
­ er, Der Konziliarismus als Problem der neueren katholischen
Theologie, op. cit., 322.
51 G. Alberigo, Chiesa conciliare, op. cit., 176 sqq.; ivi anche la bibliografia più significativa
inerente a reprae­sen­ta­tio.
52 Cf. H. Schneider, Der Konziliarismus als Problem der neueren katholischen Theologie,
op. cit., 323. Nel caso ivi indicato, in cui il Papa è un eretico, è necessario ovviamente che un
Concilio senza Papa sia legittimato, dal momento che l’eresia papale determina ipso facto la
perdita dell’ufficio.
53 L’affermazione degli “avversari papalisti di d’Ailly”, nel dicembre 1414, concilium
203
Segue ora la parte più controversa del decreto. Tale decreto sancisce che proprio perché il Concilio trae il suo potere direttamente da Cristo, chiunque di qualunque condizione e dignità – etiam si papalis existat – è tenuto a obbedirgli. E
questa è una definizione dottrinale della superiorità del Concilio sul Papa. Per converso, va tuttavia rilevato che la terminologia del decreto ne esclude la comprensione dogmatica. Qui sono assenti proprio quelle nozioni che i Concili precedenti
(Lateranense IV, di Lione II, di Vienne) avevano utilizzato nelle dichiarazioni dogmatiche. Anche dal confronto con le condanne della dottrina di Wyclif, Hus, Jean
Petits e Girolamo da Praga, sancite a Costanza, emerge in Haec sancta l’assenza
dell’usuale lessico infarcito di termini teologici (haereticus, temerarius, seditiosus,
reprobare, condemnare, haereses dogmatizare, prae­dicare, fides catholica) così
come di un anatema54.
Haec sancta non è quindi una dichiarazione dogmatica, dottrinale sul rapporto tra Papa e Concilio, quanto piuttosto una norma canonica, emanata espressamente “ad consequendum facilius, securius […] unionem ac reformationem ecclesiae
[…]”.
3. L’ecclesiologia del decreto
È necessario tuttavia considerare che naturalmente anche una norma canonica deve coincidere con il dogma, ovvero deve conferire al dogma espressione
concreta. Si impone pertanto la seguente questione: quale ecclesiologia si riflette in
questo decreto? Ovvero, nello specifico, Haec sancta si fonda su una presunzione
di superiorità conciliaristica o meno?
Un’indicazione che è vero il contrario è il fatto che la richiesta al Papa di obbedienza viene menzionata solamente dopo la sua abdicazione55. Ma si tratta solo
di un indizio, non di una prova.
Questa si ritrova piuttosto nella proposizione condizionale etiam si papalis
existat, che verrà ora analizzata in profondità. A riprova della mancata comprensione di questa frase si vedano le traduzioni che sono state date. Morrissey: “everyone of whatever status or dignity is bound to obey it […], even if it be the papal
dignity”56. Analogamente Alberigo: “[…] chiunque, di qualunque condizione e di-
nullam per se auctoritatem habere, nisi ex capite non discende dal fatto che essi erano papalisti,
bensì che erano contrari alla legittimità di Giovanni. Cf. anche G. Alberigo, Chiesa conciliare,
op. cit., 179 sqq.
54 Così riporta correttamente le mie argomentazioni H. Schneider, Der Konziliarismus als
Problem der neueren katholischen Theologie, op. cit., 291.
55 ACC II, 232.
56 Th. E. Morrissey, The Decree Haec sancta, op cit., 154. Richiamandosi al testo di
Mansi XXVII, 590, che figura negli Acta scitu degnissima, ma non a Conciliorum Oecumenicorum
Decreta, a cura di G. Alberigo et al., 3a edizione, Istituto per le scienze religiose, Bologna 1979,
409, che si rifanno al testo di gran lunga migliore di Hardt, Morrissey solleva un problema che
in realtà non esiste: “The problem is compounded by the use of two similar texts that can be or
204
gnità, compresa quella papale”57. Queste traduzioni, in particolare l’ultima, sono
palesemente inesatte in quanto non rendono affatto il senso di etiam si […] existat,
o lo rendono solamente in maniera imprecisa. La frase andrebbe invece tradotta così: “anche se dovesse esistere colui che detiene la dignità papale!” Soltanto
in questo modo può essere resa la proposizione condizionale! Ma proprio qui si
evince il chiaro riferimento del decreto alla situazione contingente del Concilio di
Costanza, in cui tre Papi rivendicavano il diritto di ricoprire tale carica, ma nessuno
era in grado di motivare indubitabilmente la propria pretesa. In altre parole: non
c’era effettivamente un unico Papa, e in questo modo si intendeva dare attuazione
alle misure del Concilio contro ogni diritto soggettivo dei tre contendentes. A ciò
si aggiunge il carattere formale58 di questa frase, che impedisce di caricarla di un
rather perhaps should be translated differently. Article I of April 6 had said ‘everyone of any
status or dignity whatever even if the papal one exists’, was held to obey the council (Mansi
XXVII, 590). The key phrase here is etiam si papalis existat, which was the same in the text from
Article I on March 30 (Mansi XXVII, 585). But in Article II on April 6 the text read: ‘anyone of
any condition whatsoever of any status or dignity even if it be the papal’ (Mansi XXVII, 590)
[…] It has been common to treat these phrases as identical expressions and so to translate them
the same way. It is my opinion that they were not the same and that the council was making two
different claims and so was causing confusion in the minds […]” (Th. E. Morrissey, The Decree
Haec sancta, op cit., 157.). In questo modo egli apporta tuttavia un’ulteriore argomentazione a
sostegno della necessità della “(cura nella) ricerca del testo autentico”!
57 Giuseppe Alberigo, Decisioni dei concili ecumenici (= Classici Utet, Classici delle
religioni, Sez. 4a: La religione cattolica), Utet, Torino 1978, 364. Nella sua opera, G. Alberigo,
Chiesa conciliare, op. cit., 163 traduce liberamente: “anche il papa”!
58 H. Schneider, Der Konziliarismus als Problem der neueren katholischen Theologie,
op. cit., 232 sqq. ha contestato tale tesi con motivazioni interessanti. A prescindere dal fatto che
la mia interpretazione si fonda assolutamente non sugli aspetti formali e, pertanto, sullo scarno
potere espressivo dei termini, bensì sulla concreta vacanza del trono di Pietro, le argomentazioni
di Schneider meritano tuttavia una scrupolosa analisi. Egli sostiene principalmente che gli
esempi da me riportati per la formula etiam si… risalgono al periodo post Costanza. Schneider
stesso fa invece riferimento a Somnium vidarii della fine del XIV se­colo e a Agostino Trionfo
dell’inizio del XIV se­co­lo. Nei due testi si afferma che in caso di eresia chiunque deve essere
deposto, etiam papa ecc. Va osservato al riguardo che ciò rappresenta un’ovvietà teologicocanonica: l’eresia comporta ipso facto la perdita dell’ufficio – anche per un autore “radicalpapalista” come Agostino Trionfo. Pertanto, l’esempio citato non costituisce una prova del
carattere formale di etiam si papalis existat. Per quale motivo, del resto, esempi che risalgono
al periodo post-Costanza non dovrebbero essere probanti? Proprio se in Haec sancta con la
formula etiam si papalis existat si fosse voluto enunciare la sostanziale superiorità del Concilio,
nel periodo successivo lo schieramento papalista avrebbe dovuto evitare come la peste una
formulazione siffatta! Ma è vero il contrario, come detto, se si utilizza tale formula con
una disinvoltura che rasenta l’incoscienza, come da me dimostrato sulla base di esempi che
Schneider non ha tuttavia approfondito. In effetti, esiste un parallelismo lessicale con questa
formula dai tempi del Concilio. Nella bolla del 15 giugno 1415, che disciplina lo status di
Gregorio XII dopo la sua abdicazione, si stabilisce altresì che egli non può essere chiamato
a rendere conto del suo precedente ufficio, indipendentemente dalla posizione, da nessuno
cuiusvis dignitatis, praeminentiae, status, gradus, ordinis vel conditionis aut sexus, etiam si
papalis, pontificalis, imperialis vel regalis existat (Mansi XXVII, 779 sqq.). Il fatto di inserire
la dignitas papalis ecc. nell’etiam si existat evidenzia l’aspetto formale dell’enunciato: per il
205
siffatto valore dogmatico, come fanno coloro che vogliono vedere in Haec sancta
un documento rivoluzionario che sconvolge la costituzione della Chiesa.
Invece il decreto si iscrive addirittura nella tradizione ecclesiologica, quando si consideri che è stato concepito specificamente in funzione di un’effettiva
vacanza di sede59. L’obbligo di obbedienza nei confronti del Concilio è richiesto
a questo tipo di Papi in quelle questioni che attengono alla Fede, all’unione e alla
riforma della Chiesa nel capo e nelle membra. Non si dimentichi che Zabarella
aveva contribuito in maniera determinante alla formulazione del testo. Egli stabilì una superiorità del Concilio sul Papa in quei casi che riguardavano la Fede
e il generalis status della Chiesa60. Generalis status potrebbe essere tradotto con
“fondamento”. In questo modo il grande canonista si riferisce soltanto alla tradizione secondo la quale la plenitudo potestatis era sempre stata data al Papa ad
aedificationem ma non ad destructionem ecclesiae61. Mentre ora Fede e Unità
della Chiesa ne toccano direttamente lo status generalis – appartengono dunque
all’esse della Chiesa – non si poteva dire la stessa cosa della riforma nel capo e
nelle membra, riforma che riguardava spesso solo il bene esse. Forse questo è
il motivo del rifiuto di Zabarella di stabilire una superiorità del Concilio anche
nelle questioni della riforma62. Precisando che la riforma è reformatio in capite
et in membris, il decreto riprende una formulazione coniata per la prima volta
prima del Concilio di Vienne nell’opera di Durand, vescovo di Mende, De modo
celebrandi concilium generale63.
La suddetta clausola etiam si papalis existat viene nuovamente ripresa nel
seguente item. Nella sessione del 30 marzo Zabarella si era rifiutato di dare lettura
anche di questo passo, che già figurava nel progetto delle nazioni del 29 marzo.
Concilio non c’era stato più alcun Papa dopo l’abdicazione di Gregorio. L’argomentazione
determinante da me addotta a sostegno della mia interpretazione di Haec sancta, ovvero il modo
in cui lo si considerava a Costanza e pertanto come lo si trattava – con molta disinvoltura, date
le circostanze – non viene presa in considerazione né da Schneider né da P. De Vooght, Der
Konziliarismus auf dem Konzil von Konstanz, in Bernard Botte, Das Konzil und die Konzile.
Ein Beitrag zur Geschichte des Konzilslebens der Kirche, Schwabenverlag, Stuttgart 1962,
165‑210, e tanto meno da Alberigo, che si allinea alle posizioni dei primi due. Di recente, J.
Helmrath, Das Basler Konzil 1431-1449, op. cit., 462 sqq., ha confermato il carattere formale
di questo enunciato. Certamente è corretta la riflessione generale di Schneider, secondo cui
anche una formula può in una determinata situazione assumere una valenza particolare. Resta
da dimostrare che questo sia avvenuto a Costanza con l’espressione etiam si papalis existat.
59 Ho fornito le prove di questa interpretazione da parte dei membri del Concilio di Costanza
stesso in W. Brandmüller, Papst und Konzil im großen Schisma (1378-1431), op. cit., 230 sqq.
60 Th. E. Morrissey, The Decree Haec sancta, op cit., 152 sqq.
61 Ludwig Buisson, Potestas und caritas (= Forschungen zur kirchlichen Rechtsgeschichte
und zum Kirchenrecht, 2), Böhlau, 2a ed., Colonia 1982, 211 sqq.
62 A integrazione di Th. E. Morrissey, The Decree Haec sancta, op cit., 155 sqq.
63 C. Fasolt, Die Erforschung von Wilhelm Durants d. J. Tractatus de modo generalis
concilii celebrandi, in Annuarium Historiae Concililiorum 12 (1980) 205-228; Id., A new view
of Wilhelm Durant the Younger’s Tractatus de modo generalis concilii celebrandi, in Traditio
37 (1981) 291-324; Id., At the crossroads of law and politics: William Durant the Younger’s
‘Treatise’ on councils, in Bulletin of Medieval Canon Law NS 18 (1988) 43-53.
206
C’è da chiedersi, per quale motivo. Innanzitutto il contenuto: chiunque – etiam
si papalis [dignitatis] existat – continui tenacemente a rifiutarsi di obbedire alle
indicazioni di questo Concilio et cuiuscumque alterius concilii generalis legitime
congregati in materia di Fede, unione e riforma deve essere punito, a meno che
non vi sia stato eventualmente costretto da alia iuris subsidia. L’opposizione di
Zabarella a questo paragrafo potrebbe essere motivata ancora una volta dal riferimento alla riforma (vedi sopra). Nella discussione si tende oggi tuttavia a mettere
maggiormente in risalto l’altra parte della frase et cuiuscumque alterius concilii
generalis […]64. Da qui si fa discendere non raramente la sostanziale superiorità
del Concilio sul Papa, tralasciando sia l’intero contesto grammaticale sia ogni
riferimento alla situazione contingente.
Per la comprensione della frase va innanzitutto considerata l’importanza delle
parole praeceptis huius sacrae synodi che la precedono. Si tratta dunque di questo
sacro Concilio e di ogni altro Concilio legittimamente riunito. Se si fosse realmente
inteso esprimere un generale obbligo di obbedienza di ogni Papa nei confronti di
ogni Concilio, sarebbe stato sufficiente dire – e con maggiore precisione – praeceptis cuiuscumque concilii…
Ma non era proprio questo ciò che si intendeva. Ancora una volta è opportuno
ricordare che l’obiettivo e la finalità dell’intero decreto sono stati espressamente menzionati all’inizio: pervenire all’unità e alla riforma dopo aver finalmente
estirpato l’attuale (!) scisma. Per tale motivo si è infatti riunito questo Concilio
– haec sancta synodus Constantiensis. Per tale motivo – e date queste particolari
circostanze – è necessario obbedirgli, e gli devono obbedienza anche coloro che si
definiscono Papi ma non lo sono.
Se si aggiungono poi le parole et cuiuscumque alterius concilii, anche qui è
implicito il riferimento all’obbiettivo dell’unità e della riforma. Pertanto non è possibile tradurre come di consueto: “e di ogni altro Concilio”. Sarebbe meglio tradurre: “e di ogni ulteriore Concilio che si rivelasse necessario se dovesse fallire
questo Concilio di Costanza”. È sufficiente innanzitutto osservare che con “ogni
altro” Concilio si potrebbe intendere anche quelli del passato. Ma sarebbe poco
plausibile. Anche d’Ailly e il suo seguito avevano già evocato nel dicembre 1414
l’eventuale necessità di sciogliere il Concilio di Costanza e di continuare l’opera di
unificazione con un ulteriore Concilio65. È opportuno nuovamente tener conto della
situazione contingente in cui era stato emanato il decreto, il che significa nient’altro
64 H. Schneider, Der Konziliarismus als Problem der neueren katholischen Theologie,
op. cit., 291, afferma che la sfumatura alterius anziché alii è per me estremamente importante. Io
avevo scritto: “Non va qui trascurata la sottile ma caratteristica sfumatura che risiede nella scelta
di alterius anziché di alii. Per tale motivo, la validità di questo passo si potrà estendere non a
ogni altro Concilio, ma a ogni ulteriore Concilio che si dovesse occupare dell’estirpazione dello
scisma”. Niente di più! (Cf. W. Brandmüller, Papst und Konzil im großen Schisma (1378-1431),
op. cit., 243; su Schneider, cf. ibid., 246, nota 14). Conformemente ai principi interpretativi
formulati all’inizio del capitolo, tali singoli elementi si iscrivono, a mio avviso, in maniera
assolutamente organica in un quadro generale che conferma la mia interpretazione.
65 Mansi XXVII, 542.
207
che chiunque doveva obbedire al Concilio di Costanza e ai Concili successivi eventualmente necessari finché lo scisma fosse in atto e la riforma non ancora conclusa.
Si tratterebbe soltanto della logica conseguenza del fatto che, in mancanza della vetta primaziale, solo il Concilio costituisce la suprema autorità dottrinale e pastorale.
Morissey osserva altresì che, vista la situazione, è comprensibile anche l’aggiunta delle parole legitime congregati a cuiuscumque alterius concilii generalis.
In questo modo Costanza intendeva distaccarsi fin da subito da un possibile sinodo
acefalo di Giovanni XXIII, sull’esempio di Cividale (Gregorio XII) e di Perpignano (Benedetto XIII). Questi, infatti, non si erano riuniti in maniera legittima66.
Lo stesso autore rinvia infine a un’altra situazione di fatto degna di attenzione: nelle sue enunciazioni il Concilio non risolve la questione relativa a quale
“tipo” di Concilio sia dovuta obbedienza, se a un Concilio con il Papa o a un Concilio senza Papa67. In effetti, non vi è alcun preciso riferimento diretto. Alla luce
della specificità contingente di Haec sancta, confermata inequivocabilmente dal
preambolo del decreto, l’autorevolezza di questa enunciazione non viene tuttavia
presa in considerazione sede plena.
Lo stesso atteggiamento controverso che accompagna la nascita del decreto
ora varato lo si ritrova ancora negli anni, nei decenni e nei secoli che seguono il
Concilio di Costanza. Evidentemente, proprio la sua già citata ambivalenza ha
tuttavia consentito di proseguire e portare felicemente a termine il Concilio. Il
decreto poteva essere approvato tanto da coloro i quali, sulla scia della tradizione
ecclesiologica, lo consideravano espressione del fatto che, in caso di vacanza di
sede a cagione dello scisma, l’autorità suprema della Chiesa spettasse all’episcopato riunito, quanto dai conciliarismi, che lo consideravano valido anche nel caso
della Sedes plena. In questo modo, il decreto successivamente così controverso
riuscì innanzitutto a raggiungere il suo scopo. Probabilmente proprio per questo
non si discusse più di Haec sancta durante le fasi successive del Concilio di Costanza, il che rappresenta una vittoria del pragmatismo così abilmente praticato
in tale sede.
La questione diventa sempre più delicata: alcuni autori continuano pur sempre a considerare Haec sancta la magna carta del conciliarismo.
Ciò divenne particolarmente evidente nelle discussioni sul Concilio di Basilea e, più tardi, nell’ambito del Gallicanesimo e dell’episcopalismo tedesco68. Una
discussione sullo stesso tema si sviluppò anche contestualmente al Concilio Vati­
cano II69. In tutti questi casi si sono trovati di fronte due opposti schieramenti: i “Pa-
Th. E. Morrissey, The Decree Haec sancta, op cit., 163 sqq.
Ibid., 175.
68 Si consideri che il conciliarismo del XV se­colo, in particolare quello d’impronta pisana e
di Costanza, ha in comune con il più tardo gallicanesimo, episcopalismo e febronianismo soltanto
la volontà di limitare la plenitudo potestatis del Papa. Ma le premesse sono sostanzialmente
diverse. Il conciliarismo si fonda sul trasferimento alla Chiesa del pensiero corporativo e dell’idea
della rappresentazione, le correnti più tarde si fondano sull’autonomia dei vescovi.
69 Si vedano gli studi di P. De Vooght, Der Konziliarismus auf dem Konzil von Konstanz,
66 67 208
palisti” e i “Conciliaristi”. Negli ultimi decenni si è accesa una vivace discussione
sull’argomento, in cui, da un lato, il vincolo dogmatico di Haec sancta si fondava
anche sul fatto che Martino V aveva confermato i “Decreti di Costanza”70, mentre,
dall’altro, se ne sanciva la nullità a motivo della mancata ecumenicità del Concilio71.
Secondo un’altra interpretazione, il Concilio non necessitava di alcuna conferma, in
quanto pure sede vacante costituiva l’autorità suprema della Chiesa72. Desta stupore
soltanto il fatto che in questa discussione non siano state presentate altre argomentazioni che non fossero già state trattate in qualche forma dal XVI secolo73.
Se oggi vogliamo fare un bilancio, è necessario prima di tutto depurare l’argo­
menta­zione di ogni influenza degli interessi teologici attuali. A tale riguardo è importante in particolare il giudizio dei coevi, e ancor più quello di Martino V, che trova
la sua autentica espressione nelle due bolle Inter cunctas del 22 febbraio 141874 e In
eminentis dello stesso giorno75. Oggetto di discussione, più che queste due bolle – che
verranno illustrate in appresso –, è la famosa affermazione del Papa fatta nel corso della turbolenta sessione conclusiva del Concilio, secondo cui egli confermava tutto ciò
che era stato deciso conciliariter a Costanza in materiis fidei. Da tale affermazione si è
ritenuto di poter far discendere anche una conferma di Haec sancta. È una discussione
che merita di essere approfondita76. Ancora una volta, proprio coloro i quali erano i
op. cit., Hans Küng, Strukturen der Kirche (= Quaestiones disputatae, 17), Herder, Friburgo
1962, Karl August Fink, Das abendländische Schisma und die Konzilien, in Handbuch der
Kirchengeschichte, a cura di Hubert Jedin, vol. III/2, Herder, Friburgo 1968 (ristampa 1985)
490-516 e 539-588, in cui domina l’idea della collegialità episcopale, discussa nel Concilio
Vati­cano II, che per alcuni dovrebbe avere il primato sull’autorità del Papa. In questo contesto
rientra lo studio di H. Riedlinger, Hermeneutische Überlegungen zu den Konstanzer Dekreten,
in August Franzen e Wolfgang Müller, Das Konzil von Konstanz. Beiträge zu seiner Geschichte
und Theologie, Herder, Friburgo 1964, 214-238. L’autore tenta qui di armonizzare Haec sancta
(senza tener conto della situazione in cui ebbe origine) con le definizioni del Vaticano I. Tali
sottili riflessioni sono tuttavia superflue alla luce del contesto storico. Una critica circostanziata,
per contro, non è qui possibile.
70 Così P. De Vooght, Der Konziliarismus auf dem Konzil von Konstanz, op. cit.; riprodotto
in parte in R. Bäumer, Die Entwicklung des Konziliarismus, op. cit., 177-197. In toto, Isfried
Hermann Pichler, Die Verbindlichkeit der Konstanzer Dekrete. Untersuchungen zur Frage
der Interpretation und Verbindlichkeit der Superioritätsdekrete “Haec Sancta” und Frequens
(= Wiener Beiträge zur Theologie, 16), Herder, Wien 1967, 76-79, con cui si concorda.
71 Cf. Joseph Gill, Die fünfte Sitzung Sitzung des Konzils zu Konstanz, in Remigius
Bäumer, Das Konstanzer Konzil (= Wege der Forschung, 477), WBG, Darmstadt 1977, 229-246.
72 Cf. H. Küng, Strukturen der Kirche, op. cit., 244-289.
73 Lo dimostra efficacemente H.-J. Sieben, Die katholische Konzilsidee, op. cit., 306-349,
in cui espone in extenso la disputa su Haec sancta a seguito della Declaratio Cleri Gallicani del
1682.
74 Mansi XXVII, 1204-1215.
75 Mansi XXVII, 1215-1220. In Denzinger-Hünermann, nota a n. 1247-1279, sulla base
dell’erronea datazione di Raynaldus ad 1425, la bolla è datata 1° settembre 1425. Sulla bolla, cf.
I. H. Pichler, Die Verbindlichkeit der Konstanzer Dekrete, op. cit., 85-90.
76 Cf., in particolare, J. Gill, Die fünfte Sitzung, op. cit., 232-235; per contro P. De Vooght,
Der Konziliarismus auf dem Konzil von Konstanz, op. cit., 177-179.
209
più interessati a indebolire la posizione del Papa nella Chiesa tendevano a interpretare
le parole di Martino V nel senso di una esaustiva conferma papale di quelli che subito
dopo sarebbero diventati noti come i “Decreti di Costanza”, Haec sancta e Frequens,
mentre i teologi, che intendevano mettere in rilievo le deleghe papali, vi vedevano
soltanto una dichiarazione spontanea priva di qualunque portata giuridica. In effetti,
le parole così spesso citate furono pronunciate in uno scenario turbolento: mai furono
messe per iscritto in forma ufficiale. Va anche rilevato che esse andavano chiaramente
contro la richiesta dei polacchi di condannare l’opera “satira” di Falkenberg. Se questo
poteva anche essere avvenuto, come affermavano, nationaliter, cioè nelle nazioni, mai
era comunque accaduto conciliariter, vale a dire solennemente in plenaria. Considerate le circostanze concrete in cui erano state pronunciate le parole di Martino V, su
cui tanto si è dibattuto, non è possibile ritenerle di importanza sostanziale77. In che
forma avrebbe dovuto avvenire la reale conferma papale di un Concilio, Martino V lo
dimostrò confermando il successivo Concilio di Pavia-Siena con la bolla Ad sacram
Petri sedem78. Per quanto riguarda i cosiddetti “decreti sulla superiorità” va altresì
tenuto presente il limite introdotto da Martino V quando aveva espresso il suo consenso per tutto ciò che era stato deciso in materiis fidei conciliariter. Se si può dunque
essere d’accordo con De Vooght quando definisce un errore i tentativi dei canonisti
“papalisti” di attaccare la validità di Haec sancta con una interpretazione contorta di
conciliariter79, non è possibile tuttavia seguirlo quando scrive a proposito di questa
“conferma papale”: “Nulla giustifica un’eccezione per la quinta sessione del 6 aprile
1415”80. Dalla nostra analisi del testo di Haec sancta, che ne comprova il carattere
canonistico ma assolutamente non il carattere dogmatico, si evince quindi che soltanto
un’inammissibile interpretazione della nozione materia fidei consentirebbe di subordinarle Haec sancta o addirittura Frequens81.
A riprova di una conferma papale dei decreti di Costanza vengono riportate
non solo le citate parole di Martino V, ma anche la summenzionata bolla Inter cunctas, del 22 febbraio 141882. Che per quanto riguarda la bolla ciò non sia ammissibile, lo si deduce dal contenuto della stessa, che verte non sul vincolo dogmatico
dei decreti di Costanza, bensì sulla lotta contro le eresie di Hus e Wyclif. Di conseguenza, la bolla non è diretta nemmeno a tutti i credenti in Cristo, come avrebbe
dovuto essere se si fosse trattato di una bolla di conferma: essa si indirizza piuttosto
ai capi spirituali di quelle giurisdizioni particolarmente colpite da queste eresie83.
Cf. anche Hartmut Boockmann, Johannes Falkenberg, der Deutsche Orden und
die polnische Politik. Untersuchungen zur politischen Theorie des späteren Mittelalters
(= Veröffentlichungen des Max Planck Institutes für Geschichte, 45), Vandenhoeck & Rupprecht,
Gottinga 1975, 284-286; I. H. Pichler, Die Verbindlichkeit der Konstanzer Dekrete, op. cit., 73.
78 W. Brandmüller, Das Konzil von Pavia-Siena, vol. II: Quellen, Aschendorff, Münster
1974, 81-83.
79 P. De Vooght, Der Konziliarismus auf dem Konzil von Konstanz, op. cit., 179, 185 sqq.
80 Ibid., 186.
81 W. Brandmüller, Papst und Konzil im großen Schisma (1378-1431), op. cit., 228-230.
82 I. H. Pichler, Die Verbindlichkeit der Konstanzer Dekrete, op. cit., 79-85.
83 Vale a dire agli Arcivescovi di Salisburgo, Gniezno e Praga, ai Vescovi di Litomyšl,
77 210
Dopo Arenga84 che ribadiva la preoccupazione del Papa per la Fede della Chiesa
– nell’edizione di Hardt in 12 pagine – vengono illustrate tutte le misure contro il
diffondersi dell’eresia. Qui figurano gli elenchi con 45 articoli erronei di Wyclif e
30 tesi erronee tratte dagli scritti di Hus, nonché un modello di interrogatorio a cui
dovevano attenersi gli inquisitori nei processi contro i sospettati di eresia.
Nel primo punto figura la domanda se l’inquisito ha conosciuto personalmente Wyclif, Hus o Girolamo da Praga e se ha intrattenuto rapporti con gli stessi. Nel
secondo punto si chiede se nonostante la scomunica intrattiene ancora relazioni con
loro, e, terzo, se dopo la loro morte si sia pregato per loro o a loro siano state rivolte
preghiere o siano stati venerati come beati o come santi. Soltanto il quarto punto
riguarda l’autorità del Concilio di Costanza.
Allo stesso modo se crede, tiene per fermo e afferma che qualsiasi Concilio
generale, e anche quello di Costanza, rappresenta la Chiesa universale.
E così pure se crede che ciò che il sacro Concilio di Costanza, che rappresenta la
Chiesa universale, ha approvato e approva a favore della Fede e per la salvezza delle
anime, questo deve essere approvato e tenuto per fermo da tutti i fedeli di Cristo; e che
ciò che ha condannato e condanna come contrario alla Fede e ai buoni costumi, questo
deve essere dagli stessi tenuto per fermo, creduto e affermato come condannato.
Allo stesso modo se crede che le condanne di John Wyclif, Jan Hus e Girolamo
da Praga, inflitte dal sacro Concilio generale di Costanza, delle loro persone, dei libri
e dei documenti, sono state irrogate nel modo dovuto e giustamente, e che come tali
debbono essere tenute per ferme e saldamente affermate da ogni cattolico85.
Il senso di questo passo si palesa nella necessità di assicurare la base per
l’interrogatorio sulle eresie condannate nel Concilio di Costanza mediante il riconoscimento – semplicemente presunto – del Concilio stesso. Per se si tratta di Hus
e Wyclif, solamente per accidens si tratta del Concilio.
La conclusione che ne trae De Vooght, che “il senso più ovvio di questi tre
paragrafi è una professione di Fede nei confronti del Concilio di Costanza qua-
Bamberga, Meissen, Passavia, Breslavia, Ratisbona, Cracovia, Poznań e Nitra in Ungheria
nonché ai Vescovi inglesi e agli inquisitori delle predette diocesi (Hardt IV, 1518).
84 “Inter cunctas pastoralis curae sollicitudines, quibus premimur incessanter, illa potissima
fortius nos angit, ut haereticis de finibus christicolarum expulsis suisque falsis doctrinis et
erroribus perversis penitus, quantum nobis ex alto conceditur, extirpatis, orthodoxa et catholica
fides integra ac illibata permaneat ac populus christianus in eiusdem fidei sinceritate, quolibet
obscurationis semoto velamine, immobilis et inviolatus persistat” (Hardt IV, 1518).
85 “Item, utrum credat, teneat et asserat, quod quodlibet Concilium generale, et etiam
Constantiense, universalem Ecclesiam repraesentet. Item, utrum credat, quod illud, quod sacrum
Concilium Constantiense, universalem Ecclesiam repraesentans, approbavit et approbat in
favorem fidei, et ad salutem animarum, quod hoc est ab universis Christi fidelibus approbandum
et tenendum: et quod condemnavit et condemnat, esse fidei vel bonis moribus contrarium, hoc
ab eisdem esse tenendum pro condemnato, credendum et asserendum. Item, utrum credat, quod
condemnationes Iohannis Wicleff, Iohannis Hus et Hieronymi de Praga, factae de personis eorum,
libris et documentis per sacrum generale Constantiense Concilium, fuerint rite et iuste factae, et
a quolibet catholico pro talibus tenendae et firmiter asserendae” (Hardt IV, 1527; traduzione
secondo Denzinger–Hünermann, n. 1247-1249).
211
le Concilio generale e nei confronti del valore delle sue decisioni dottrinali”86
è senz’altro condivisibile. Ma la questione se Martino V ha confermato Haec
sancta o meno resta aperta. Da un lato, Haec sancta non contiene alcuna decisione dottrinale; dall’altro, se Martino V con la sua bolla avesse confermato
Haec sancta e ne avesse proclamato l’assoluta validità, il testo della bolla stessa rappresenterebbe una palese contraddizione con Haec sancta inteso sotto il
profilo conciliaristico, in quanto nello stesso interrogatorio si chiede al sospetto
eretico se crede che il Papa canonicamente eletto – e qui va citato espressamente
il nome del Papa in carica – è il successore di san Pietro e possiede la suprema
autorità nella Chiesa di Dio87.
In questo contesto si ritiene opportuno citare anche la bolla In eminentis, che
Martino V ha emanato lo stesso giorno di Inter cunctas88. Anch’essa, come Inter
cunctas, è diretta contro l’eresia hussita. In eminentis è particolarmente importante sotto diversi aspetti. In primo luogo va rilevato che in questa bolla Martino V
dichiara legittimi e validi senza alcuna limitazione tutti i provvedimenti adottati
da Giovanni XXIII contro Wyclif e Hus – anche il Concilio di Giovanni del 1413,
riprendendo letteralmente il testo delle bolle di Giovanni XXIII in materia. Infine
– dopo la data e la firma – seguono i testi dei decreti specifici del Concilio di Costanza. Si tratta di Fidem catholicam89 del 4 maggio 1415, Cum (quia) in nonnullis90 del 15 giugno 1415, Quia teste veritate91 del 6 luglio 1415 nonché Praesens
sancta synodus92 del 23 settembre 1415 e In nomine domini93 del 30 maggio 1416.
Nei decreti figurano la condanna di Wyclif, Hus e Girolamo da Praga nonché la
condanna dell’uso del calice per i laici e il decreto sul salvacondotto delle autorità
civili per gli eretici.
A questi testi fa seguito un passo che esprime la posizione di Martino V
sul Concilio di Costanza e i relativi decreti in maniera chiara e articolata. Egli
afferma di ratificare i predetti decreti del cui testo ha preso atto, di riconoscere
la forza dell’autorità apostolica e al tempo stesso di correggere tutte le eventuali anomalie procedurali, di modo che tali decreti abbiano validità illimitata94. Il che tuttavia significa che essi fino ad allora non avevano tale validità.
P. De Vooght, Der Konziliarismus auf dem Konzil von Konstanz, op. cit., 185.
“Item, utrum credat, quod papa canonice electus - qui pro tempore fuerit, eius nomine
proprio expresso - sit successor beati Petri habens supremam auctoritatem in ecclesia dei” (Hardt
IV, 1528).
88 Mansi XXVII, 1215-1220; I. H. Pichler, Die Verbindlichkeit der Konstanzer Dekrete,
op. cit., 85-90.
89 Vi figura la condanna degli articoli di Wyclif (Conciliorum Oecumenicorum Decreta,
op. cit., 411-416). Stranamente manca l’altra condanna dei 260 articoli di Wyclif del 6 luglio
1415 (ibid., 421-426).
90 Decreto contro la necessità della Comunione sotto le due specie (ibid., 418 sqq.).
91 Sentenza contro Hus (ibid., 426-429).
92 Concerne il salvacondotto per gli eretici (ibid., 433 sqq.).
93 Sentenza contro Girolamo da Praga (ibid.).
94 “Nos igitur declarationes, decreta, diffinitiones, reprobationes, mandata, inhibitiones,
86 87 212
Con questo dovrebbe anche essere chiaro che cosa intendeva Martino V quando, nella sessione conclusiva del Concilio, aveva comunicato di voler confermare
tutto ciò che il Concilio aveva deciso in materiis fidei (!) conciliariter. Da notare
che tra i decreti confermati non figurano Quilibet tyrannus e, ovviamente, nemmeno Haec sancta e Frequens.
È tuttavia interessante osservare quanto sia marginale il carattere di questa
conferma, ben diverso da quello della conferma del Concilio di Pavia-Siena con la
già citata bolla Ad sacram Petri sedem95. D’altro canto, nella bolla In eminentis il
Concilio di Costanza viene definito generale concilium anche nella fase con Giovanni XXIII, ma non va comunque dimenticato che l’oggetto della bolla papale era
l’eresia boema. È dunque da escludere una conferma papale dei ben noti decreti
sulla superiorità del Concilio.
Resta ora da vedere se c’era effettivamente la necessità di una siffatta conferma, dal momento che proprio il Concilio sede vacante veniva considerato la
massima autorità nella Chiesa96.
Si impone un distinguo. Quanto detto vale effettivamente per Frequens, che
era stato deciso nel momento in cui, dopo l’ingresso degli spagnoli, l’assemblea di
Costanza divenne realmente un generale concilium ecclesiam universalem repraesentans. In merito a Haec sancta è invece opportuno ricordare che tale decreto era
stato emanato unicamente dall’obbedienza di Giovanni XXIII, la sola presente allora a Costanza. Indubbiamente ne erano consapevoli i partecipanti così come i coevi.
Probabilmente questo è anche il motivo della debole opposizione dei non conciliaristi all’emanazione di Haec sancta: in futuro sarebbe sempre stato possibile evocare
le circostanze che lo avevano originato e negarne il vincolo dogmatico. Ciò che
tuttavia è accaduto in realtà è una conferma più o meno esplicita del concilio acefalo
di Giovanni XXIII da parte di Martino V, il quale inoltre procedette al riguardo in
modo selettivo97. Egli poteva così definire il concilio acefalo addirittura generale
concilium – e pertanto legittimarlo come tale a posteriori – senza confermarne anche
tutti i decreti – come Haec sancta98.
statuta nec non condemnationes et sententias suprascripta rata habentes et grata, illaque
auctoritate apostolica, ex certa scientia, tenore praesentium confirmantes, et praesentis scripti
patrocinio communientes, supplentes quoque omnes defectus, si qui forsan propter solemnitates
iuris in procedendo non servatas intervenerint in eisdem. Volumus etiam et eadem auctoritate
decernimus, quod declarationes, diffinitiones, repro­ba­tiones, mandata, inhibitiones, statuta, nec
non condemnationes et sententiae praeinsertae, plenam vim, plenumque robur, et vigorem per
omnia habeant, et ad ea ut ubilibet probanda haec nostrae litterae plene sufficiant, quandocumque
et ubicumque eas sive in iudicio vel alibi exhiberi contigerit vel ostendi. Nulli ergo […] Datum
Constantiae VIII Kal. Martii anno I” (Mansi XXVII, 1220).
95 W. Brandmüller, Das Konzil von Pavia-Siena, op. cit., II, 81-83.
96 Facendo seguito a K. A. FINK, Konstanzer Konzil, in LThK2 VI, 503, avevo ancora
scritto così in W. Brandmüller, Papst und Konzil im großen Schisma (1378-1431), op. cit., 242,
tralasciando tuttavia questa differenziazione.
97 Cf. I. H. Pichler, Die Verbindlichkeit der Konstanzer Dekrete, op. cit., 90-94.
98 Per maggiori dettagli si rinvia a Walter Brandmüller, Zum Problem der Ökumenizität
von Konzilien, in Archivium Historiae Conciliorum 42 (2010) 275-312, in particolare 299-301.
213
“The Hand of Power for
the Feeding of Christ’s Sheep”.
The Pope and the Episcopate
in Juan de Torquemada’s
Early Polemics
Thomas M. Izbicki
1. The Council of Basel: reforming the Church in capite et in membris?
When Juan de Torquemada (1388-1468) arrived at the Council of Basel
(1431-1449), he could not have foreseen becoming the foremost papal apologist of
his generation and a cardinal. Already a Paris trained Thomist theologian and the
prior of a Dominican convent in Toledo, Torquemada arrived in Basel with the dual
assignment of representing his order and also providing initial representation for
King Juan II of Castile. The friar was incorporated into the council and eventually
joined its reform deputation1. When he delivered a sermon for the Second Sunday of Advent before the assembled fathers on December 12, 1432, Torquemada
preached about Saint Ambrose, the great bishop of Milan. His sermon treated the
Church as a hierarchy created to parallel the supernal order of the celestial hierarchy. The sermon, however, did not treat the council or its assembled fathers as
necessarily opposed to the pope2. The friar turned cooler toward the council as it
proceeded, not just because it began to challenge Pope Eugenius IV (1431-1447)
but because it celebrated the feast of the Virgin Mary’s Conception. This was a first
step toward its eventual declaration by the council, after breaking with the pope
in 1438-1439, that it was a dogma of the Church that the Virgin was conceived
without the stain of original sin. Torquemada became linked in opposing feast and
doctrine with Giovanni da Montenero, provincial of the Dominican observants of
the Lombard Congregation, as he would be in defense of papal power3.
Torquemada eventually had to confront issues of episcopal power while he
participated in the council, especially as a member of the reform deputation. This
was true partly because the issue of reform, throughout the years of the Basel assembly’s existence, included attacks on papal plenitude of power. Reform in capite
Thomas M. Izbicki, Protector of the Faith. Cardinal Johannes de Turrecremata and the
Defense of the Institutional Church, Catholic University of America Press, Washington 1981,
2-3.
2 Juan de Torquemada, Sermo de Sancto Ambrosio, Vat. Palat. lat. 976 fols. 24v-30r. Thomas Kaeppeli, Scriptores Ordinis Praedicatorum medii aevi, 4 vols., Ad S. Sabinae, Roma 19701993, vol. 3, 26 no. 2702, vol. 4, 173.
3 Thomas M. Izbicki, The Immaculate Conception and Ecclesiastical Politics from the
Council of Basel to the Council of Trent. The Dominicans and Their Foes, in Archiv für Reformationsgeschichte 96 (2005) 145-170. On Montenero, see G. G. Meersseman, Giovanni di Montenero O.P., difensore dei mendicanti. Studi e documenti sui concili di Basilea e di Firenze, Ad S.
Sabinae, Roma 1938. He and Torquemada also participated in the Council of Ferrara-Florence;
see Georg Hoffman, Papato, conciliarismo, patriarcato (1438-1439). Teologi e deliberazioni del
concilio di Firenze, Typis Pontificiae Universitatis Gregorianae, Roma 1940, 38-58.
1 217
et in membris tended at Basel to turn into reform mostly in capite, as it did in the
attack on annates, with little agreement on some wider issues because individual
fathers had to balance self interest against their expressed ideals4. The council’s decrees consistently supported local interests, especially the patronage rights of ecclesiastical and lay patrons, against the papacy’s power to grant sees, monasteries and
benefices as it saw fit. The Council of Basel reflected in this legislation resentment
of papal patronage as it affected bishops and other local patrons, depriving them of
the right to fill vacant benefices5. One of the early reform proposals, offered by an
Italian abbot, argued that there could not be “complete harmony between the pope
and prelates” unless Rome respected episcopal jurisdiction, especially by giving
up control of election to sees and collation to benefices6. This was an aspect of the
council’s declared interest in promoting orthodoxy, peace and reform as it played
out in practice7. The council also was faced with competing theories of the power of
bishops in Western thought, one emphasizing their receipt jurisdiction as successors
of the apostles and one, most common among friars, emphasizing the distribution of
the power of jurisdiction via Peter and his successors in the apostolic see8.
The first of the conciliar decrees restricting papal provision was issued by
the council in its twelfth session in 1433. The decree aimed at preventing gen-
Joannes Helmrath, Reform als Thema der Konzilien des Spätmittelalters, in Giuseppe
Alberigo (ed.), Christian Unity. The Council of Ferrara-Florence 1438/39-1989, Bibliotheca
Ephemeridum Theologicarum Lovaniensium, 97, Leuven University Press, Leuven 1991, 75152; Joannes Helmrath, Das Basler Konzil 1431-1449. Forschungsstand und Probleme, Böhlau,
Köln 1987, 327-352; Stefan Sudmann, Das Basler Konzil. Synodale Praxis zwischen Routine und
Revolution, Peter Lang, Frankfurt a. M. 2005, 248-324. On annates, see Gerald Christianson,
Annates and Reform at the Council of Basel, in Thomas M. Izbicki and Christopher M. Bellitto
(ed.), Reform and Renewal in the Middle Ages and the Renaissance. Studies in Honor of Louis
Pascoe, S.J., Studies in the History of Christian Thought 96, Brill, Leiden 2000, 193-207.
5 On papal patronage rights, see Geoffrey Barraclough, Papal Provision. Aspects of
Church History, Constitutional, Legal and Administrative, in the Later Middle Ages, Blackwell,
Oxford 1934. On local resentments of such patronage, see Pardon E. Tillinghast, An Aborted
Reformation. Germans and the Papacy in the Mid-Fifteenth Century, in Journal of Medieval History 2 (1976) 57-79.
6 The abbot connected this proposal to the decrees of the Council of Constance; see
C. M. D. Crowder (ed.), Unity, Heresy and Reform, 1378-1460. The Conciliar Response to the
Great Schism, St. Martin’s Press, New York 1977, 155, no. 12.
7 See the decree on the purposes of the council issued in the first session in Norman P.
Tanner (ed.), Decrees of the Ecumenical Councils, 2 vols., Georgetown University Press, Washington 1990, vol. 1, 456. For literature on this issue, see Joachim W. Stieber, Pope Eugenius IV,
the Council of Basel and the Secular and Ecclesiastical Authorities in the Empire. The Conflict
over Supreme Authority and Power in the Church, Studies in the History of Christian Thought
13, Brill, Leiden 1978, 370-374.
8 Thomas Prügl, Successores Apostolorum. Zur Theologie des Bischofsamtes im Basler
Konziliarismus, in Manfred Weitlauff and Peter Neuner (ed.), Für euch Bischof, mit euch
Christ. Festschrift für Friedrich Kardinal Wetter zum siebzigsten Geburtstag, EOS-Verlag, St.
Ottilien 1998, 195-217.
4 218
eral reservation of benefices by the pope, while restoring free election to churches
and monasteries. This, the council said, meant following the common law of the
Church in these matters. The papacy was offered a stick and a carrot. The stick was
denunciation to a council if the Roman pontiff resisted. The carrot was “suitable
provision” in place of lost revenues9. As a further step toward free exercise of episcopal powers, the fifteenth session ordered resumption of the regular convocation
of diocesan and provincial synods10. The twentieth session entrusted enforcement
of rules against clerical concubinage to the episcopate11. The 1435 decree of session
twenty one abolishing annates fits here because it removed a burden on bishops
without compensating the pope for lost income12. In 1436, the Council of Basel
returned to the issue of elections. It repeated its enactments about general reservations, elections and confirmations according to the common law. It went farther, annulling the decrees Ad regimen [Extrav. Commun. 3.2.13] and Execrabilis [Extrav.
Joh. XXII 3.1] of Pope John XXII, which reserved benefices vacated when a cleric
died going to, residing at or returning from the Roman curia13.
The same theme reappeared once the council and Pope Eugenius IV (14311447) were at odds. Session thirty-one in 1438 claimed the power to reform in
capite & in membris, including limitation of papal power over episcopal elections
and most choices of abbots in monasteries. (The practice of naming prelates abbots in commendam was not discussed.) The council excepted from this decree
only monasteries immediately subject to Rome14. The same session said depriving
ordinaries of their right to collate caused confusion in “the clerical and sacerdotal
estate.” No more expectative graces and nominations were to be allowed under
Eugenius, although a few might be conceded to a future pope15. The council did
expect the ordinaries to execute reform by following a set of qualifications when
filling vacant benefices16. In late 1439, when about to fill the Apostolic See, described as sede vacante since the act deposing Eugenius IV had been issued, the
Council of Basel, in its thirty eighth session, renewed its acts on elections and
their confirmation, annulling contrary constitutions17. The issue of ecclesiastical
elections and appointments remained sufficiently important for Nicholas V, when
N. P. Tanner (ed.), Decrees of the Ecumenical Councils, op. cit., vol. 1, 469-472. On the
issues of reservations and annates, see J. W. Stieber, Pope Eugenius IV, the Council of Basel and
the Secular and Ecclesiastical Authorities in the Empire, 370-374.
10 N. P. Tanner (ed.), Decrees of the Ecumenical Councils, op. cit., vol. 1, 473-476.
11 Ibid., 485-487.
12 Ibid., 488-489.
13 Ibid., 504-505.
14 Joannes Dominicus Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio,
53 vols., Akademische Druck- und Verlagsanstalt, Graz 1961, vol. 29, 159. The decree called
Eugenius IV’ council at Ferrara a “conventicle”; see ibid., 160.
15 Ibid., 162.
16 Ibid., 163-165.
17 Ibid., 195-196.
9 219
settling the Basel schism in 1449, to safeguard those who had acquired offices
during that period of strife18.
Torquemada had an additional concern when confronting these enactments.
Conciliar restrictions on papal power over ecclesiastical offices, like those enacted
at Basel, or claiming plenitudo potestatis for a general council, as its apologists
did, might open the way for an attack on the privileges granted by the Roman
pontiff. These privileges permitted friars to do their pastoral work in towns and
cities, often in the teeth of local opposition by bishops and curates. This issue did
surface eventually at Basel, although it did not result in any formal enactments by
the council. When Phillip Norreys, an Irish cleric trained at Oxford with an antifraternal ecclesiology derived from Richard Fitz Ralph, appealed to the Council of
Basel in 1443 his condemnation by local authorities for attacking the mendicants,
the council would reverse his condemnation. By then Torquemada and Montenero
had left. However, they may have realized how well such an appeal might play out
at Basel and felt they had to be ready at any time to defend their confreres against
conciliar attacks19. The episcopalist steak in any attack on fraternal privileges, like
that by Norreys, would have appealed to Basel fathers trained in the Parisian ecclesiology of Jean Gerson and his contemporaries. Those Parisian theologians had
floated anti-mendicant proposals at the Council of Constance, intending to reverse
privileges granted the friars by Pope Alexander V (1409-1410), who had been a
Franciscan himself. Torquemada had attended that council as a young friar and
would have known about these proposals20. Nonetheless, Torquemada first wrote
about the power of pope and council in the context of that council Basel’s attempted reforms and their support of the episcopate. It would be easy to miss this issue
of episcopacy and its preeminence in the Basel context because the major conciliar
apologists, including Panormitanus and Nicholas of Cusa, emphasized the council’s representation of the Church as a whole. Torquemada may have seen in Basel’s
reforms a threat to pope and friars, as well as connecting them in his own mind to
the Hussite revolt in Bohemia21.
Ibid., 228-234.
Thomas M. Izbicki, The Council of Ferrara-Florence and Dominican Papalism, in G. Alberigo (ed.), Christian Unity. The Council of Ferrara-Florence, op. cit., 429-443; G. G. Meersseman, Giovanni di Montenero, op. cit., 13, 43-61.
20 Phillip H. Stump, The Reforms of the Council of Constance, 1414-1418, Studies in the
History of Christian Thought 53, Brill, Leiden 1993, 245-249. T. M. Izbicki, Protector of the
Faith, op. cit., 2.
21 Arnulf Vagedes, Das Konzil über dem Papst? Die Stellungnahmen des Nikolaus von
Kues und des Panormitanus zum Streit zwischen dem Konzil von Basel und Eugen IV, 2 vols.,
Schöningh, Paderborn 1981, vol. 1, 25-31, 79-84. Cusanus later rewrote his ideas about representation to undermine the Council of Basel; see Thomas M. Izbicki, Representation in Nicholas of
Cusa, in Massimo Faggioli and Alberto Melloni (ed.), Repraesentatio. Mapping a Keyword for
Churches and Governance, LIT-Verlag, Münster 2006, 61-78.
18 19 220
2. Torquemada’s Quaestio de decreto irritante
The immediate context of this first papalist tract by Torquemada was Basel’s
initial effort to restore elections to episcopal and monastic offices. The initial proposal for this reform included an annulling clause (irritans), cancelling any contrary decrees of the popes. The reform deputation of the council, realizing that this
proposal was controversial, authorized a debate. It pitted a Paris master, Dionysius
de Sabrevoys22, against Torquemada. Torquemada has left us an extensive Quaestio
de decreto irritante, in which he defended papal power in matters of benefices and
elections as essential to the right order of the Church23. Torquemada’s arguments
may have helped the deputation adopt a less stringent version of the decree, allowing the Roman pontiff the right to reserve benefices in the papal states24. Cardinal
Giuliano Cesarini, the president of the council, certainly would have had a hand
in preparing the less stringent version of the decree the council enacted. This approach had a place fit in his efforts, eventually unsuccessful, to bring Rome and
Basel into harmony25.
Torquemada framed his critique of the proposed decree with an extended discussion of law. Any human enactment, even in canon law, had to conform to both
divine and natural law. A decree had to emanate from a competent authority with
the power of enforcement. It also had to be both possible and fitting both to the local patria and to the times26. Torquemada also required that a law be enacted for the
common good. A king acted for the republic, striving to drive out evil. A tyrant only
acted in his own private interest27. Torquemada proceeded to apply these criteria to
the decretum irritans to its detriment. He said that, even allowing for the abuses of
the Roman curia, it was not licit for a general council to impose such a decree on
the supreme pontiff, especially without allowing exceptions or making distinctions
based on circumstances28.
Heribert Müller, Die Franzosen, Frankreich und das Basler Konzil (1431-1449), 2 vol.,
Schöningh, Paderborn 1990, vol. 1, 425 n. 12.
23 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
550-590. Th. Kaeppeli, Scriptores Ordinis Praedicatorum medii aevi, op. cit., vol. 3, 27, no. 2706.
Ulrich Horst, Die Lehrautorität des Papstes und die Dominikanertheologen der Schule von Salamanca, Akademie-Verlag, Berlin 2003, 65. The Quaestio may also have been intended to answer
Nicholas of Cusa, who supported the decree; see Gerald Christianson, Cesarini, the Conciliar
Cardinal. The Basel years, 1431-1438, EOS-Verlag, St. Ottilien 1979, 133 n. 99.
24 G. Christianson, Cesarini, the Conciliar Cardinal, op. cit., 132-133.
25 Ibid., 132-133.
26 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
552-553. Torquemada cited Cicero and Aristotle in support of these points about law. His theory
of law is rooted in that of Thomas Aquinas; see Alfred J. Freddoso (ed.), Treatise on Law: The
Complete Text, St. Augustine’s Press, South Bend 2009.
27 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
553.
28 Ibid.: “Non in omni lege licita ad obviandum abusibus Romanae curiae multiplicibus
22 221
The refutation of the decree in the Quaestio was partly based on an Aristotelian idea of equity (epicedia), arguing that even a law against abuses might
not be licit on every occasion. Equity might require variation from the letter of
the law for legitimate reasons29. Writing with living memory of the Great Western
Schism (1378-1418), Torquemada also described the Basel proposal as a threat to
ecclesiastical unity. He argued that the decree would divide members from head,
daughters from mother Church, the Roman Church. Seeing inferior Churches not
obeying in the matter of provisions would encourage by bad example disobedience
and disorder30. This disorder would lead to division, cutting off lesser Churches
from the influx of jurisdiction derived from their head, the pope, and their mother,
the Roman Church31. Torquemada repeated here an argument that went back to the
quarrel of the mendicants and seculars at the University of Paris in the thirteenth
century. All jurisdiction came from Christ via Peter and his successors, the popes.
No bishop had an independent source of ecclesiastical governing power32.
Torquemada also saw the decree as an effort to set “the power of the supreme
prince on earth” (potestatem principis summi in terris) under the judgment of inferior powers33. This too would encourage disobedience and undermine the status ecclesiae, the right order of the Church34. All this Torquemada described as contrary
to divine law, which required obeying the Apostolic See35. It also was described
possunt generalia concilia simpliciter, & indistincte inponere decretum irritans summis pontificibus”. Torquemada also argued that a council was not “plenary” without the pope presiding; see
ibid., 580.
29 Ibid., 553-554. See also ibid., 587-588. Ideas of equity permeated medieval law and theology; see Pier Giovanni Caron, “Aequitas” romana, “misericordia” patristica ed “epicheia”
aristotelica nella dottrina dell’“aequitas” canonica (dalle origini al rinascimento), Giuffrè, Milano 1971.
30 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
555: “quoniam dividit membra a capite, & filias a matre, dum decernit in provisionibus ecclesiarum ecclesias inferiores non obedire matri, hoc est ecclesiae Romanae […]”.
31 Ibid.: “cum ab influxu capitis & matris, scilicet ecclesiae Romanae subtrahat, & elongare
studeat ecclesias inferiors […]”.
32 Ibid., 560: “Minor probatur manifeste, pro quo supponitur, quod tota potestas jurisdictionis aliorum praelatorum in toto corpore ecclesiae derivatur & emanet a summo pontifice, quae,
ut suppono, patet cum ex determinatione ecclesiae Romanae, cum ex doctrina sanctorum doctorum”. Torquemada’s biblical proof text in this passage was the Tu es Petrus [Matthew 16:18-19].
On the mendicant-secular controversy, see Decima Douie, The Conflict Between the Seculars
and the Mendicants at the University of Paris in the Thirteenth Century, Blackfriars, London
1954; Yves Congar, Aspects ecclésiologiques de la querelle entre mendiants et séculiers dans la
seconde moitié du xiie siècle et au début du xive,” in Archives d’histoire doctrinale et littéraire du
Moyen Âge 28 (1961) 35-151.
33 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30, 556.
34 Ibid., 559; Yves Congar, Status ecclesiae, in Studia gratiana 15 (1972) 1-31.
35 J. D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30, 556.
Torquemada cited in this context Thomas Aquinas’s tract Contra errores Graecorum and Boniface VIII’s decree Unam sanctam [Extrav. Commun. 1.8.1].
222
as “contrary to the common order of natural reason” (contra communem ordinem
naturalis rationis)36. Replying to his opponent’s arguments, the friar argued that the
dictum “Tell the Church” (Dic ecclesiae) [Matthew 18:17], did not confer power on
a council. Church and council would lack power (vacua viribus) without the pope,
“like a body without a head” (sicut corpus sine capite). The faithful were to tell the
prelate, the Roman pontiff, as head of the Church37. Torquemada argued that Christ
made the pope the Church’s pastor, with care of the flock, with the words, “Feed my
sheep” (Pasce oves meas) [John 21:151-17]38. This eventually would be his favorite
proof text in support of papal primacy39. In the light of this text, bishops were not
masters of their own Churches. They and lesser prelates were the pope’s assistants,
helping in his work of feeding the Lord’s flock. This was according to the order
established by divine providence40.
This argument led to a more theoretical discussion of papal power. This power was granted by divine law. The Apostolic See’s privileges were conferred by
Christ. The Christian republic “depended on the plenitude of power of the Apostolic See” (dependet ex potestatis plenitudine sedis apostolicae)41. He argued that
this was one aspect of the requirement of natural justice that every republic depend
on a single power in its fullness42. A decretum irritans could not be imposed, since
the papal power to collate consequently did not depend on the council or the entire
Church43. Torquemada went farther, addressing the use Basel made of the decree
Haec sancta of the Council of Constance. The Council of Basel had made that
decree, with its claim that a general council representing the Church was superior
to the pope in defense of the faith, settling schisms and reforming the institution in
capite et membris, the cornerstone of its efforts to bring Eugenius IV and his curia
Ibid., 560; Torquemada continued by comparing the papacy to the sun lighting the stars
and the head providing input to the senses.
37 Ibid., 575-578 at 577, 583. See also ibid., 583 on decrees lacking vis coactiua without
papal support. Torquemada also said the papacy would not consent to the decree; see ibid., 587.
38 Ibid., 578.
39 Th. M. Izbicki, Protector of the Faith, op. cit., 82-87.
40 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
579: “Ita facit papa, qui mediantibus episcopis per eum creatis, & aliis inferioribus praelatis pascere dicitur universum gregem dominicum, & ita ordo divinae providentiae servatur”. See also
ibid., 584-585, 588 on the right of metropolitans to confirm episcopal elections and the ability of
ordinaries to appoint to churches being concessions made by the papacy. On ideas of papal and
episcopal powers, see Kenneth Pennington, Pope and Bishops. Study of the Papal Monarchy in
the Twelfth and Thirteenth Centuries, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1984.
41 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
557, 558. Torquemada would expand this teaching in is later writings, especially the Summa de
ecclesia; see Th. Izbicki, Protector of the Faith, op. cit., 53-60, 82-87.
42 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
557: “Omnis respublica sive communitas naturali justitia tenetur ad conservationem illius potestatis, a qua dependet bonum reipublicae in sua plenitudine & integritate”.
43 Ibid., 561.
36 223
to heel44. Torquemada simply denied that papal power over benefices contradicted
Haec sancta: “But that the pope might give benefices and confirm dignities is not
[contrary] to the first, second or third [point]”45.
Torquemada conceded that the acts of Constance against John XXIII and
Benedict XIII were necessary, but he denied that the decree was applicable to Eugenius IV. The reigning pontiff offered no threat to the Church similar to that presented by the three claimants during the Schism. Unlimited impositions on the
Apostolic See by general councils were not in that category46. Furthermore, he
argued that early councils and the holy fathers had supported the papacy, part of the
original order of the Church, instead of undermining the republic, as Basel was doing47. The papacy had always existed “to build up the Church” (ad aedificationem
ecclesiae) and always would48.
This proposed decree, Torquemada said, could not take away the “best principate in the Church” (optimum principatum in ecclesia)49. Instead, lesser prelates
would have the power to establish the order of the Christian republic, harming
hierarchy and taking the acts of jurisdiction out of the pope’s hands. The result
would be not one principate but many. These powers would not be “reducible” to
one supreme monarch able to exercise full power of jurisdiction50. Furthermore, to
limit the pope’s plenitude of power was a contradiction. Otherwise it would not be
“full and perfect” (plena & perfecta)51. Torquemada did not deny that the pope was
44 Basel appealed to the decree Frequens at first, but by Session III it was citing Haec
sancta; see N. P. Tanner (ed.), Decrees of the Ecumenical Councils, op. cit., vol. 1, 458. Basel
reaffirmed Haec sancta in its eighteenth session on June 26, 1434; see ibid., vol. 1, 477. Michiel
Decaluwe, A Successful Defeat: Eugene IV’s Struggle with the Council of Basel for Ultimate Authority in the Church, 1431/1449, Belgisch Historisch Insituut te Rome, Brussels 2009, 119-120.
45 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
563: “sed quod papa det beneficia, confirmet dignitates, non est [contra] primo, secundo, aut
tertio”.
46 Ibid., 587: “non sequitur quod generaliter concilia contra sedem apostolicam indeterminate, non convenientibus huiusmodi casibus […]”.
47 Ibid., 564-566, 589.
48 Ibid., 582.
49 Ibid., 558. Both Torquemada and Cajetan, following him, would cite Aristotle as saying
a “plurality of principates” was bad; see James Henderson Burns and Thomas M. Izbicki (ed.),
Conciliarism and Papalism, Cambridge Texts in the History of Political Thought, Cambridge
University Press, Cambridge 1997, 211. The reference is to Metaphysics 11:10, which discussed
plurality of principles. A similar use was made by Marsilius of Padua, The Defender of the
Peace, trans. Annabel S. Brett, Cambridge Texts in the History of Political Thought, Cambridge
University Press, Cambridge 2005, 117-118.
50 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
558: “est veraciter tunc ponere in ecclesiastica politia plures principatus non reducibiles ad unum
superiorem tales actus exercere valentem”.
51 Ibid., 562. Torquemada cited Aristotle to the effect that “plena potestas ordinatur ad plenam liberam, & perfectam operationem”. Otherwise, he continued in a theological vein, God’s
grant of power to the pope would be in vain, “which is absurd” (quod est absurdum).
224
equal to other priests in the power of orders. What mattered was the power of jurisdiction. This power existed in the papal principate not just to provide patronage
but to create an orderly institution and correct erring persons52. Torquemada said
the decree would make the pope impotent. It would have harmful effects on pastoral care: “Since through [this decree] the hand of power for the feeding of Christ’s
sheep would be closed to him in providing flocks with good shepherds, providing
benefices to deserving poor clerics, while taking away the Church’s alms from the
poor. This is evident to anyone not blind”53.The pope needed free and intact power
to correct abuses54.
The Quaestio de decreto irritante was not limited to intellectual arguments.
The author argued forcefully that the results of the proposed decree would be bad.
He said experience showed that many prelates made bad appointments to ecclesiastical and temporal benefices available to them55. He thought the pope more likely
to name good men to benefices56. Ordinaries, the local bishops, were more likely
to provide patronage for friends and members of their households (familiares).
The decree would not seem good for the Church, the common good, but dictated
by “private advantage” and prejudicial to the Apostolic See57. This bad patronage
would go along with disobedience and disorder. Here Torquemada pointed to the
Hussites, whose wrong thinking about the papacy was tied to their demand for
communion under both species58. They embraced the “great and pernicious error”
(magnus error & perniciosus), “an error about the power of the pope, the head
52 Ibid., 558: “[…] videtur tenere principalitatum; quod (cum in potestate ordinis sit aequalitas inter summum pontificem & alios quoscumque sacerdotes) in potestate jurisdictionis
quae respicit institutiones & dispositiones, ad ordinationes omnium ecclesiarum & correptiones
personarum deliquentium, in eis videtur stare principatus, & auctoritas dignitas sibi collate, qua
caput mater & cardo omnium ecclesiarum dicitur”. Torquemada also described the hierarchic
distribution of orders as like that of heaven but not fixed beyond necessary change; see ibid.,
586. The distinction between episcopal and priestly powers was unclear in the Middle Ages; see
Joseph Brodie Brosnan, The Bishop and the Presbyter: Major Orders according to St. Thomas
of Aquin, O. Amey, Preston 1952.
53 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
559: “per istud Decretum irritans redditur impotens; cum per id claudatur sibi manus potestatis
pascendi oues Christi, providendo plebibus de bonis pastoribus, providendi idoneis personis pauperibus de beneficiis, & subvenire indigentibus de ecclesiae eleemosinis; patet hec nisi caecis”.
54 Ibid., 581: “Corrigantur ergo abusus per eum, ad quem spectat, & maneat intacta liberaque ipsa potestas ad bene agendum”.
55 Ibid., 566: “cumque experientia nostra videamus multum quamplurimos praelatos pessime providere ecclesiis, beneficiis in temporalibus sibi competentibus”.
56 Ibid., 566.
57 Ibid., 568: “non videtur institutum pro utilitate communi, sed pro privatis commodis
quorumdam cum praejudicio sedis apostolicae”.
58 Ibid., 566-567. Torquemada also said the Hussites strove under the appearance of piety
(sub specie pietatis) to destroy the primacy of the Apostolic See; see ibid., 580-581.
225
of the Church” (error circa potestatem papae capitis ecclesiae)59. Torquemada’s
view of the Christian polity ended up emphasizing harmony between the lay and
clerical authorities60, but not in this early work. The friar argued that princes would
benefit “in these times”. They would dominate local prelates, and the disposition
of churches and benefices by provision would fall to secular powers, which he regarded as “most absurd”61. The friar also argued that the decretum irritans would
cause discord in the council, as well as great harm to the ecclesiastical polity62.
Torquemada remained an active member of the Council of Basel until 1437,
participating in many discussions of theological and disciplinary issues. He did not
return to issues of episcopacy, provisions and reform until 1436. A proposal was
made that a newly elected pope be required to swear he would obey conciliar decrees63. Torquemada decided to object, submitting an opinion (votum) opposing the
proposal64. This brief opinion was partly based on the earlier and longer Quaestio,
taking up some of its themes when dealing with the oath.
3. Torquemada’s votum in defense of the pope’s plenitudo potestatis
The message of the Votum was very legalistic, defending papal sovereignty
in the Church. Early on the author cited the Roman law maxim princeps legibus
solutus, saying no such decree could bind the pope. The Roman pontiff was the
Church’s prince65. This princely prerogative was tied to his role as Vicar of Christ,
his viceroy, whom the Christian people should uphold66. Less damage (damnum)
could be done by one man than with by those who shared supreme power in a re-
Ibid., 567.
Th. M. Izbicki, Protector of the Faith, op. cit., 107-119.
61 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
565: “Antecedens probatur, quoniam istis temporibus principes, jam videtur sic dominari praelatis intra regnorum, provinciarum, siue terarum suarum qualitercumque dignitates, habentibus, ut
decreto illo posito, uniuersum quasi regnum ecclesiae in ecclesiarum provisione, & collatione
beneficiorum ad dispositionem devoleretur principum saecularium, quod esset absurdissimum”.
62 Ibid., 589.
63 The Italian abbot recommended that the pope adhere to conciliar decrees with both a
signed document and an oath; see C. M. D. Crowder (ed.), Unity, Heresy and Reform, op. cit.,
153, no. 6.
64 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
599-606; Th. Kaeppeli, Scriptores Ordinis Praedicatorum medii aevi, op. cit., vol. 3, 28-29,
no. 2709.
65 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
600.
66 Ibid., 602: “qui in terris Christi vicarius est, & uices cujus gerens, cujus gloriae, & honoris splendor ita manutendus est in populo christiano”. This theme, first sounded by Bernard
of Clairvaux, was adopted by the papacy under Innocent III; see Michele Maccarrone, Vicarius
Christi. Storia del Titolo Papale, Lateranum, Roma 1952.
59 60 226
public67. Councils received their strength from the pope from the very beginning
and this remained true to their conclusion68. The pope did not depend on councils
for his primacy. The consent of the electors and the pope elect caused the latter to
receive from Christ the plenitude of power that had been conferred on Peter and
his successors69. Thereafter he had the power of government (gubernatio), and its
exercise included granting dispensations and even changing rules of law applicable
to ecclesiastical affairs70. The pope could dispense from the letter of the law for a
reasonable cause (causa occurente rationabili)71.
Torquemada attacked the oath itself on multiple grounds. Since the pope’s
power should remain “absolute”, it was not fitting that he be bound by an oath to
observe anyone’s statutes without qualification72. He also argued that any oath that
derogated from the papal dignity (derogatur dignitati papali) should be used only
where the person was suspect in faith (suspectus in fide). No such urgency existed
in that moment in the reign of Pope Eugenius73. The ways in which the oath might
derogate from papal primacy included interfering with the papal right to dispose
freely of ecclesiastical benefices because of his plenitude of power, the very topic
of the Quaestio de decreto irritante. The Roman pontiff could not be bound to obey
a decree dealing with this matter, especially if he took an oath as pope elect. Such
an oath would impede free exercise of his office, since disposition of benefices
was included in the plenitude of power74. Nor could the pope sin by using this legitimate power75. The oath also might impede the pope’s role as “judge of canons
or decrees (ut judex sit canonum, siue decretorum)76. Moreover, Torquemada said
the oath would be difficult, even impossible to fulfill. Also, it would be impossible
to enforce, and attempted enforcement by accusing the pope of perjury might lead
to disobedience and rebellion. As Torquemada saw it, this was likely to encourage
schism: “Behold [what] often [is] the material of schism” (ecce materia schismatic
saepe)77. Nor could a pope be deposed for exercising his power, employing his right
J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30, 605.
Ibid., 602.
69 Ibid., 605-606.
70 Ibid., 603: “immo ad contrarium posset faciliter argui ex necessitate regiminis ecclesiae,
quod in gubernationem libertatem exugit dispensando, & etiam quandoque immutando regulas
datas juxta occurentia negotia”.
71 Ibid., 603.
72 Ibid., 602: “potestas semper maneret absoluta & excepta; ergo non decet papam ad observationem statutorum quorumcumque sinplicitate juramento alligari”.
73 Ibid., 601.
74 Ibid., 601: “Ad potestatem Romani pontificis pertinet ecclesiarum beneficiorum plena &
libera dispositione ex suae potestatis plenitudine, ergo non potest ligari juramento ad decretum
electionis. Patet consequentia, quia tale juramentum tollit liberam dispositionem, quam includit
plenitude potestatis”.
75 Ibid., 605.
76 Ibid., 602.
77 Ibid., 603.
67 68 227
(cum utitur jure suo)78. The imposition of an oath would lead to deformation, not
reformation, of the Church, and to confusion79.
Torquemada also took aim more directly at the decree Haec sancta, which he
quoted verbatim in the votum, than he had in the Quaestio de decreto irritante. The
Constance decree was being used as the basis of conciliar acts like trying to impose
an oath on the pope80. Torquemada argued that Constance issued no such decree
when all three obediences of the Schism were assembled. Only then was it truly a
universal council81. This was a first step toward Torquemada’s eventual argument
that Haec sancta was the decree of only one obedience in the Schism. This line of
attack on the Constance decree was adopted later by Pope Eugenius in the 1439 bull
Moyses vir Dei, which the friar may have helped write, and by Torquemada in the
debate with Cardinal Giuliano Cesarini that preceded the promulgation of the bull.
This attack on the validity of Haec sancta remained a staple of papalist replies to
conciliarists down to the nineteenth century82. Despite these arguments, the twenty
third session (March 26, 1436) would enact a version of the proposed decree83.
Torquemada’s last important polemic before breaking with the Council of
Basel was a votum rejecting a proposal that appeals from council to pope be forbidden84. By the time of its composition, the issue of the episcopate had fallen into
the background. With the papacy under attack on issues from elections to annates,
the friar focused on the theory of papal power. He was moving toward his more
systematic exposition of that issue in later writings like the Summa de ecclesia. One
avenue of attack was a distinction between decrees about faith and morals, which
were irreformable by their very nature, and those concerned with positive law (de
jure positivo). If the latter could not be changed by the pope or adapted to circum-
Ibid., 605.
Ibid., 604: “magis ad deformationem & confusionem facerent ecclesiae quam ad reformationem”.
80 Ibid., 600. For Basel’s use of Haec sancta, see above n. 42.
81 Ibid., 604: “primo modo quod concilio Constantiensi, quando fuit ex omnibus tribus
obedientiis congregatum, in quo solo tempore tamquam uniuersale concilium fuit generaliter, per
totam ecclesiam habitum, non emanavit tale Decretum”.
82 For Moyses vir Dei, see N. P. Tanner (ed.), Decrees of the Ecumenical Councils, op. cit.,
vol. 1, 529-533; C. M. D. Crowder (ed.), Unity, Heresy and Reform, op. cit., 172-177. For
Torquemada’s reply to Cesarini’s defense of conciliar supremacy, see Emmanuel Candal (ed.),
Oratio synodalis de primatu, ed. Concilium Florentinum Documenta et Scriptores IV 2, Pontificium Institutum Orientalium Studiorum, Roma 1954; Thomas M. Izbicki (ed.), A Disputation on
the Authority of Pope and Council, Blackfriars, Oxford 1988; Th. Kaeppeli, Scriptores Ordinis
Praedicatorum medii aevi, op. cit., vol. 3, 33-34, no. 2721. For the later influence of Torquemada’s argument, see Thomas M. Izbicki, Papalist Reaction to the Council of Constance, in Church
History 55 (1986) 7-20.
83 N. P. Tanner (ed.), Decrees of the Ecumenical Councils, op. cit., vol. 1, 494-501.
84 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
1072-1094; Th. Kaeppeli, Scriptores Ordinis Praedicatorum medii aevi, op. cit., vol. 3, 29, no. 2710.
Piero da Monte, representing Eugenius IV in England, addressed the related issue of appeals from
pope to council; see C. M. D. Crowder (ed.), Unity, Heresy and Reform, op. cit., 163-165.
78 79 228
stances by him, absurd results (absurda) would occur. (Torquemada did warn that
no decree was to be held in contempt85.) The friar also argued similarly for the
pope’s power to dispense from the letter of the law as needed86.
Another theme, developed at greater length, was the power of the pope to
authorize and fortify conciliar acts. According to Roman law, law had its coercive
force from the prince87. To change things so that to pope was subjected to positive
laws issued by councils, the result would be deformation and disorder rather than
reform. Torquemada said the Council of Constance would not have understood
what it had done in that way88. The friar tried to claim Constance for his cause, connecting it to his argument about the need for flexibility. He said it would not have
attempted binding the pope, the princeps, to observance of such a canon89.
Looking at the conduct of a council, Torquemada said that a council had to
begin well in union with the pope. The Roman pontiff had to convoke a true general council90. Likewise, the pope had to consent to conciliar decrees about matters
of positive law whether he was present in person or via his appointed presidents.
Without consent, they did not have the force to bind anyone or oblige them to
obey91. Once the pope confirmed conciliar decrees, which he did when absent from
a council, no one could appeal from them. Appeal was possible down to that moment92. Denial of this teaching was dangerous, especially since the Council of Constance had condemned the errors of John Wyclif and Jan Hus, both of whom had
denied the pope’s “supreme coercive power” (suprema potestas coactiva)93.
Torquemada opened the argument out into a refutation of the idea that the pope
was superior to individuals and local Churches but not to the whole Church94. Building on the idea that the pope was Vicar of Christ, the friar claimed that denying the
J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
1072-1073. Torquemada said positive laws cannot be immutable; see ibid., 1075. He did say
definitions “pertaining to the faith” (ad fidem pertinentia) are different; see ibid., 1082.
86 Ibid., 1076.
87 Ibid., 1074: “lex autem non habet vim coactiuam, nisi ex principis potestate […]”.
88 Ibid., 1075: “Praetera cum papa subici, sicut caeteri subjciuntur legibus positivis conciliorum non videtur pertinere ad reformationem; immo hoc deformationem & deordinationem
faciat in Respublica, non est credendum patres illius concilii Constantiensis talem habuisse intelligentiam ab omni ordine & ratione alienam”.
89 Ibid., 1074.
90 Ibid., 1090, 1092.
91 Ibid., 1076: “tales canones pertinentes ad jus positivum nullum robur habent obligando
quemquam ad eorum observantia antequam per papam robarentur, & confirmentur […]”.
92 Ibid., 1078-1079. Torquemada argued that Martin V confirmed what Constance had done
before his election; see ibid., vol. 30, 1077, 1091.
93 Ibid., 1080, 1083-1084. These errors were conveyed to inquisitors via Martin V’s bull
Inter cunctas, ibid., vol. 27, 1204-1215 at 1208 (Wyclif), 1209 (Hus).
94 The best known argument for such a distinction was that of Nicholas of Cusa; see Paul E.
Sigmund (ed.), The Catholic Concordance, Cambridge Texts in the History of Political Thought,
Cambridge University Press, Cambridge 1991.
85 229
pope’s superiority over the whole Church was like denying that Christ was not its
head, placing the council over the Lord Himself95. The pope was head of the Church
as Christ’s vicar, and the only appeal from his judgment was to Jesus Himself96. It
was “impossible for there to be another tribunal on earth greater than, or even equal
to” the pope’s. The unity of the Church depended on unity with the head97. This
meant the pope was superior to the Church as it was “assembled and united”98.
Replying to texts cited for the conciliar cause, Torquemada answered an argument drawn from the writings of Augustine that Peter had received the keys on behalf of the Church (in figura ecclesiae). Torquemada replied with an argument that
this meant Peter was the Church’s agent. Rather the only governing power was that
given to Peter and his successors99. The friar denied outright that c. Quodcumque in
Gratian’s Decretum, which was excerpted from one of Augustine’s writings, made
the pope the Church’s minister100. Instead, Peter received the keys “not just for
himself but for his successors in the Church”101. The friar compared this succession
with the succession of kings to a throne102. Power was better given “to the head, not
the body, to the leader rather than the army, to the shepherd than to the sheep, to
the governor than to the household”103. Among the powers Torquemada claimed for
the pope was the ability to depose and restore bishops, a power councils lacked104.
Torquemada also claimed, as he had before, that the biblical injunction Dic
ecclesiae usually meant to tell the pope as the head of the Church. He made an exception for a case of papal heresy, citing the canon Si papa [D. 40 c. 6] in Gratian’s
Decretum. Here he embraced the teachings of the medieval canonists about the
possibility of papal error and the consequences of such a lapse in faith105. Even so,
95 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
1080: “immo concilium dicens se non habere papam supra se, est dicere se ad filium Dei non
pertinere, aut filio Dei non esse subiectum”. No council was superior to the pope; see ibid., 1082.
96 Ibid., 1081, 1083: “ergo impossible est quod aliud tribunal sit majus in terra, aut aequale”.
97 Ibid., 1083: “ad unitatem capitis oportet assignare unitatem corporis”.
98 Ibid., 1083: “ut est collecta, aut unita”.
99 Ibid., 1081-1082: “ergo ecclesia non habet simpliciter simplicem potestatem, quam Petrus
figurans ecclesiam suscepit”. On Torquemada’s further development of this argument, see Thomas
M. Izbicki, A Papalist Reading of Gratian: Juan de Torquemada on c. Quodcunque [C. 24 q.1 c.6],
in Kenneth Pennington, Stanley Chodorow and Keith H. Kendall (ed.), Proceedings of the Tenth
International Congress of Medieval Canon Law, Syracuse, 13-18 August 1996 (= Monumenta
Iuris Canonici, C 11), Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 2001, 603-634.
100 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
1085: “quia ille textus non habet quod Petrus suscepit claves nomine ecclesiae, ut minister ejus”.
101 Ibid., 1087: “Petrus quando suscepit claves ecclesiam significavit, quia non solum pro
persona sua suscepit claves, sed pro suis successoribus in ecclesia”.
102 Ibid., 1087.
103 Ibid., 1087: “apertissimum est, quod excellentius datur capiti quam corpori, duci quam
exercitui, & pastori quam ovibus, & rectori quam familiae”.
104 Ibid., 1092.
105 Ibid., 1085; Brian Tierney, Foundations of the Conciliar Theory: The Contribution of
230
when a Christian was injured by him, there should be an effort at charitable correction of an erring pope, not an immediate effort to discipline him formally106. Also,
the friar said both pope and council could err, but a council was more fallible. The
pope was more likely to be divinely guided107. A council simply lacked on its own
authority the privilege of not erring in faith108. This was all the more necessary because a pope had to defend the faith when no council was in session. God would not
have left the Church so helpless109. A council only enjoyed divine guidance together
with the pope. He quoted Bernard of Clairvaux to defend the idea that this guidance
made appeals from council to pope more desirable110.
Torquemada’s conclusion about the powers of councils was that the recent
councils, not just Basel but Constance itself, had pretended in their canons to judge
the ancient canons (canones veteres), which supported the papacy against any other
authority in the Church111. The friar denied outright that a pope who received an
appeal from a council could be punished with a penalty imposed ipso facto. Such a
pope could not be deprived of his see or “bound with perpetual infamy”112. If Basel
issued decrees honestly, making them just and possible, however, they would be
received reverently by everyone. They would remain in force accordingly113.
In the course of his years at Basel, Torquemada progressed from addressing
issues of episcopacy and ecclesiastical patronage to such a thoroughly anti-conciliar stance. He would not remain at Basel much longer. Before he left in 1437 to
join Eugenius IV’s “council of union” at Ferrara114, however, the friar made one last
contribution to the debates about power in the Church. Torquemada assembled for
Cardinal Cesarini, who was becoming alienated from the assembly’s majority, an
the Medieval Canonists from Gratian to the Great Schism (= Studies in the History of Christian
Thought, 81), rev. ed., Brill, Leiden 1998.
106 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
1085. He also said the pope was not the Church’s syndic or its servant.
107 Ibid., 1087.
108 Ibid., 1090: “Secundum est, quod non est privilegium generale concilium universalium
non errare in fide”. Torquemada cited the example of the Second Council of Ephesus (449), corrected by the Council of Chalcedon (451), in union with Pope Leo I, after an appeal to him by
Flavian of Constantinople; see ibid., 1090-1091.
109 Ibid., 1087.
110 Ibid., 1088. Torquemada later developed his argument about infallibility and papal error
at length; see Thomas M. Izbicki, Infallibility and the Erring Pope: Guido Terreni and Johannes
de Turrecremata, in Kenneth Pennington, Robert Somerville (ed.), Law, Church and Society. Essays in Honor of Stephan Kuttner, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1977, 97-111.
111 J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 30,
1092: “Item, non valet quos dicatur ab illis, quod canones veteres debent judicari per canones
concilii Constantiensis, & Basiliensis […]”.
112 Ibid., 1093: “quia enim dedit potestatem concilio, ut si papa quamcumque appellationem
a concilio susceperit, sit ipso facto privatus & infamia perpetua innodatus”.
113 Ibid., 1093.
114 Th. M. Izbicki, Protector of the Faith, op. cit. 10.
231
anthology of excerpts from the works of Thomas Aquinas about ecclesiological issues. The collection eliminated any references to traditional limits on papal power.
Cesarini’s willingness to accept such a collection, the Flores sententiarum, surely
is a sign of how far he was willing to compromise with the pope to achieve unity
not just with the Greeks but in the West115.
4. Conclusion
Torquemada inherited a Dominican tradition of supporting the pope, and he
revived it in a form fitted to his age. Although Thomas Aquinas had written works
excerpted in the Flores that defended the papacy, a significant turn toward emphasizing plenitude of power more strongly can be found in the friars’ reactions against
the episcopalism of the Paris master Jean de Pouilli in the early fourteenth century.
Pierre de la Palu was a significant figure in this development, helping secure condemnation of Pouilli by Pope John XXII. Also active in this polemical exchange
were two of his contemporaries in the Order of Preachers, Herveus Natalis and
Guillaume de Godin116. The Schism, however, had placed the papacy, represented
by two and three obediences, on the defensive. By the time of the Council of Constance, the Dominican master general Leonardo Dati was hard put to defend the
apostolic see’s traditional prerogatives in opposition to conciliar initiatives117.
Dominican papalism was not entirely dead, however, at the time of the inception of the Council of Basel. Writing from the safety of Italy, Juan de Casanova and
Raphael de Pornaxio could exalt the Apostolic See and deny the need for remedies
against papal heresy118. Torquemada, like Montenero and Heinrich Kalteissen119,
115 Th. Kaeppeli, Scriptores Ordinis Praedicatorum medii aevi, op. cit., vol. 3, 31, no. 2714,
vol. 4, 174. On whether Cesarini actually converted to papalism, see G. Christianson, Cesarini, the
Conciliar Cardinal, op. cit., 181-185. For an argument that Torquemada helped convert Cesarini, see
Vicente Proaño Gil, Doctrina de Juan de Torquemada sobre el concilio, in Burgense 1 (1960) 73-96.
116 J. G. Sikes, John de Pouilli and Pierre de la Palu, in English Historical Review 49 (1934)
219-240; Ludwig Hödl (ed.), De Iurisdictione. Ein unveröffentlichter Traktat des Herveus Natalis OP über die Kirchengewalt, Max Hueber, München 1959); William D. McCready (ed.),
Tractatus de causa immediata ecclesiasticae potestatis. The Theory of Papal Monarchy in the
Fourteenth Century by Guillaume de Pierre Godin, Brepols, Turnhout 1982.
117 Brian Tierney, “Divided Sovereignty” at Constance: A Problem of Medieval and Early Modern Political Theory, in Annuarium Historiae Conciliorum 7 (1975) 338-356. Dati, like
Torquemada, was seriously interested in reform; see Thomas M. Izbicki, Reform and Obedience
in Four Conciliar Sermons by Leonardo Dati, O.P., in Th. M. Izbicki, Ch. M. Bellitto (ed.), Reform and Renewal in the Middle Ages and Renaissance, op. cit., 174-192.
118 Jeffrey A. Mirus, On the Deposition of the Pope for Heresy, in Archivum Historiae
Pontificiae 13 (1975) 231-248.
119 Thomas Prügl, Die Ekklesiologie Heinrich Kalteisens OP in der Auseinandersetzung
mit dem Basler Konziliarismus. Mit einem Textanhang (= Veröffentlichungen des GrabmannInstitutes, 40), Schöningh, Paderborn 1995.
232
however, had to work in the context of a council dedicated to negotiating with the
Hussites, promoting peace and imposing reform on the ecclesiastical institution.
Their work on behalf of the papacy originated in the context on efforts to impose
reforms in capite, reforms that reflected the resentments of bishops and other local
ecclesiastics of Rome’s powers of patronage and curial exactions, especially annates. Torquemada’s papalism had roots in his order’s tradition and literary heritage,
but it was inspired by Basel’s efforts to take away from pope and curia the power
to name bishops and fill benefices. Thus the Quaestio de decreto irritante was very
much concerned with the relationship of the apostolic see to the episcopate. The
Quaestio acknowledged resentment of the curia, but Torquemada thought the results
of the proposed reforms would be deformation. Moreover, he sagely perceived how
princes and lay patrons, not bishops, would be the principal beneficiaries of the
Basel reforms. (Ironically, the princes would benefit instead in this conflict from
concessions made by the papacy itself in an effort to win support. Some of these
concessions were made over Torquemada’s objections. These bargains with rulers,
in turn, made the papacy more an Italian principate because of powers and revenues
lost elsewhere in Europe120.) Once Basel asserted its supremacy more aggressively,
especially through imposed reforms, the friar moved more and more to looking at
the council itself, its claim to represent the whole Church and its efforts to impose
obedience upon Eugenius IV. He created arguments for papal superiority over all
other ecclesiastical institutions, including general councils and the episcopate, and
over the Church itself. The Roman pontiff was the head of the Church as Vicar of
Christ, empowering and directing the members. This argument displaced the issue of
the proper relationship between pope and bishops from centrality in Torquemada’s
polemic; but this approach still left bishops inferior to the Roman pontiff with his
plenitude of power, as the friar claimed at length in his later writings121. Moreover,
despite an awareness of the demand for reform, Torquemada wrote thereafter with
a strong emphasis on the papacy, with its “hand of power for the feeding of Christ’s
sheep”, preserving order, distributing the power of jurisdiction to bishops, filling
benefices and promoting the salvation of clergy and laity alike.
120 M. Decaluwe, A Successful Defeat, op. cit., 342-344; J. A. F. Thomson, Popes and
Princes, Allen & Unwin, London 1908, 145-166. Torquemada opposed the concessions Pope
Eugenius made to Frederick III, but the papal commission appointed to review the agreement
was assigned additional cardinals favorable to its acceptance. Pope Eugenius wanted to die head
of a united Christendom; see Th. M. Izbicki, Protector of the Faith, op. cit., 16.
121 Basel’s faults still included meddling in elections, confirmations of elections and annates according to Torquemada in Responsio in blasphemam et sacrilegam invectivam ad sanctissimum canonem iustissimae condemnationis damnatissimae congregationis Basiliensium, in
J. D. Mansi (ed.), Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, op. cit., vol. 31A, 63-126
at 92, 114-115. This was a refutation of Basel’s reply to Pope Eugenius’s bull Moyses vir Dei
(1439), the synodal letter Hieronymus: Th. Kaeppeli (ed.), Scriptores Ordinis Praedicatorum
medii aevi, op. cit., vol. 3, 33, no. 2719.
233
Alfonso Álvarez Guerrero
(1502-1576)
y el Tractado de modo y orden
de celebrar el Concilio.
Una propuesta de reforma
Antonio Benlloch Poveda
El Tractado que ahora estudiamos es una propuesta de reforma en la Iglesia
a principios del siglo XVI, la reforma protestante alcanzaba toda su virulencia. La
Iglesia buscaba un medio de atajar la rebelión que partiendo de Alemania se iba
extendiendo por todo el centro de Europa y estaba llegando no solamente a las
costas del Norte sino también a las mediterráneas. Las respuestas eran diversas,
pero sobre todo en la mente del Emperador unas ideas fundamentales prevalecían:
la unidad de sus tierras y la paz cristiana; éstas fueron, muchas veces, bloqueadas
por los intereses tanto de una parte de la reforma como de la otra; los estudios de
Jedin1, especialmente sobre el Concilio de Trento, nos han dado una gran luz sobre
la problemática de la época.
La pretensión de que el Concilio fuera la solución al problema planteado por la
reforma en la Iglesia tenía en el conciliarismo, entre otros elementos, una referencia
obligatoria no exenta de dificultades. Estaba todavía latente y con toda su fuerza las no
tan lejanas discusiones entorno a los Concilios de Basilea, Pisa y Costanza. En torno a
cada uno de estos Concilios habían surgido grandes dificultades, tanto a los defensores
del conciliarismo como a los más curialistas, el equilibrio entre la autoridad del Papa
y el Concilio no se había clarificado con la fuerza suficiente. Entre las preguntas, que
quedaban por responder, era quién tenía la supremacía el Papa o el Concilio; o si el
Papa podía dispensar los decretos conciliares. Si a esto se añade la necesaria reforma,
que la cristiandad sentía como necesaria, in capite et in membris, es decir, no solamente «en los miembros» (la Iglesia en general: todos lo fieles cristianos) sino también en
la «cabeza» (el papa, los obispos, sus curias); siempre había algunos que acentuaban
un aspecto u otro para querer, o no querer, aceptar la necesidad de convocar un nuevo
Concilio. La propuesta conciliar de Lutero complicó más, si cabe, el problema.
Este libro, que ahora estudiamos, parece un informe propio de un miembro del
séquito de estudiosos que pertenecían a la curia de Carlos V, ya que tiene un gran
interés de resaltan no solo la necesidad sino también la conveniencia del Concilio2,
1 Hubert Jedin, Geschichte des Konzils von Trient, Herder, Freiburg i. Br., 1957 (trad.
española: Historia del Concilio de Trento, 5 vol., Pamplona 1972-1981); la obra más importante
sobre Trento desde las de Sarpi y Pallavicino. La abundancia de las fuentes y bibliografía citada
lo hace obra obligada para este tipo de estudios.
2 Como dice Congar: “Lutero, al principio, creyó deber revindicar contra la Iglesia cosas
fundamentales católicas” (Mysterium Salutis, Cristiandad, Madrid 1973, p. 464). En un principio
no se quería romper la unidad, se quería reformar lo extraño a la verdadera Iglesia (cf. ibid.,
p. 499 sqq.). El Concilio era camino apto para ello; cf. H. Jedin, Historia del Concilio de Trento,
op. cit., t. I, p. 390: “La opinión de Lutero entonces expresaba [LW L, p. 516] de que toda
reforma eficaz sería imposible, si el papa no se sometía al concilio y a las ordenaciones de los
padres”, añade algo, que este estudio puede matizar, esta opinión “tenía en el campo católico más
partidarios secretos que públicos”.
237
tesis que el mismo emperador defendía3. El hecho de que existan dos ediciones una
en Valencia y una segunda, también en castellano, impresa en Génova, nos hacen
entender el gran interés que suscitó. Pudiera parecer que era mas de propaganda (algo
transitorio) que un trabajo de erudito, sin embargo, la riqueza de autoridades que
aporta desmiente esta posibilidad. La dificultad de encontrar estas obras, escritas en
castellano no en latín, que era la norma general, más que a la persecución de la Inquisición, que defiende algún francés sin fundamento4, se debe explicar, su rareza, por
lo muy concreto y atinente a un problema de entonces y por otras circunstancias que
estudiaremos.
Otra suerte tuvo su versión latina, ya que fue no sólo la base para otro tipo de
estudios5, sino que el mismo Próspero Lambertini, eminente jurista (papa Benedicto XIV 1740-1758), en su libro de Synodus diocesana, la cita para hacer la distinción
entre Concilio general, concilio particular y sínodo, que ha servido como fijación
posterior para la división y nomenclatura de este tipo de reuniones eclesiales. Creemos que este estudio es de gran importancia para conocer el estado de opinión en
Como veremos más adelante, sustenta la opinión, que podemos comprobar, que coincide
con lo que el emperador defendía. No podemos afirmar, con toda seguridad, que es informe:
primero por la erudición del libro, excesiva para ser un mero informe (ya el emperador rechazó
los dictámenes de otros, en la polémica protestante, por ser excesivamente prolijos), y, sobre
todo, por no haber encontrado el original, ni en los Archivos de Viena, Salamanca etc. ni en las
Bibliotecas más importantes (Vaticana, Vallecilliana, Angelica, Nacional etc. de Roma, ni en las
nacionales de Madrid, Múnich, París etc.).
4 Teoría que defienden sin fundamento J. G. T. Graesse, Trésor de Livres rares et précieux ou
Nouveau Dictionnaire Bibliographique, J. Altmann, Berlin 1922, t. 3, p. 174: “Tractato de la forma
que se ha de tener en la celebración del general concilio… (por el doctor Guerrero) … Ce projet de
réforme de l’Église d’Espagne est très rare, les exempl. ayant été supprimés per l’Inquisition (v. Bibli.
Grewil. p. 289)”; Jacques Charles Brunet, Manuel du libraire et de l’amateur de livres, FirminDidot Frères, fils et Cie, Paris [s.d.]: “parce que l’exemplaire avait été rigoureusement supprimé par
l’Inquisition”. Posiblemente se confunde al pensar que su probable conciliarismo, que aparece en la
obra, está condenado y perseguido. “En aquel tiempo en que la eclesiología no estaba claramente
elaborada, el conciliarismo es aceptado por teólogos, principalmente franceses y alemanes, cuyo
sincero amor a la Iglesia era evidente. Basta pensar en Conrado de Gelnhausen († 1397), Enrique
Langestein († 1397), F. Zabarella († 1417), P. d’Ailly († 1420) y J. Gerson († 1429)”. L. Cristiani,
Trento, in V. Fliche, A. Martin (ed.), Historia de la Iglesia, Edicep, Valencia 1975-2002, 36 vol.
y 3 apéndices, aquí especialmente t. XIX, 1976, p. 27, nota 2a; véase también, T. Urdanoz en su
introducción a la reedición de F. de Victoria, De la potestad del papa y del concilio, in Francisco
de Vitoria, Obras, BAC, Madrid 1960, p. 411: “Es en apariencia el mismo planteo de la cuestión
que en los teólogos conciliaristas. Pero el espíritu que alienta las respuestas de Vitoria es muy
otro”. Tal vez veamos en nuestro autor otro tanto.
5 Notemos que el ejemplar que conserva la Biblioteca Vallecilliana de Roma (Sala,
Borromini C.II.46), tan importante para la historia de la relación Iglesia Estado en España, està
estudiado, tiene notas marginales y subrayados. Igualmente las distintas ediciones que hemos
consultado, aparecen con subrayados y, algunas incluso, con notas marginales. Aunque realmente
el Concilio empezó en diciembre del mismo año, fue considerada obra de interés, y el mismo
autor, como veremos la recoge en sus obras posteriores.
3 238
este período, sobre los males y los remedios en la Iglesia. En esta obra Alfonso
Álvarez Guerrero estudia y dictamina, cuáles son las causas de la situación de la
Iglesia en aquellos momentos, los motivos de reforma y el método para conseguirla: el Concilio. El título de esta obra resume su objetivo: del modo de convocar el
Concilio y de la reforma de la Iglesia.
1. El Autor: Alfonso Álvarez Guerrero (1502-1576)
Este jurista del siglo XVI, a pesar de haber tenido una de sus obras más de diez
ediciones, sin embargo, ha sido poco considerado en los últimos tiempos, quizá por
la dificultad de conocer bien el personaje y cuál fue exactamente su producción; en
efecto, es conocido, como iremos viendo, con más de media docena de nombres diversos y sus obras o son desconocidas o mal atribuidas. Antes de ver su aportación,
especialmente canonística, veamos cómo es conocido en la bio-bibliografía actual.
Antes de poder dar una mayor identificación del personaje debemos verlo
(por las dificultades de fijación del autor y de sus obras) como ha sido tratado en los
diccionarios y catálogos6. La variedad es manifiesta y algunas veces difícilmente
inteligible, sin embargo, adelantando algo del estudio, diremos que viene fundamentalmente por esta doble forma: si partimos de que sea o no portugués (se citará,
catalogará o estudiará según el nombre del autor en latín – normalmente – o a la
forma portuguesa o a la española) y, por parte de sus obras, si consideramos suya
una de año 1530 en la que es considerado doctor.
1.1. Diccionario y catálogos
1.1.1. Vida
Aceptan que es portugués, B.E.C.7, Domingo García8, Antonio García9,
Para ver la citación completa, véase al final del trabajo. Se cita la Biblioteca Nacional Española
de Madrid (BNE) y la Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emmanuele II de Roma (BNI).
7 Biografía Eclesiástica Completa, Imprenta y Librería D. E. Aguado y D. J. Grau y
compañía, Madrid-Barcelona 1848 (=BEC), p. 490.
8 Domingo García Péres, Catálogo razonado biográfico y bibliográfico de los autores
portugueses que escribieron en castellano, Imprenta del colegio nacional de sordo-mudos y ciegos,
Madrid 1870, p. 28.
9 Antonio García, Alvarez Guerrero, Alfonso, in Q. Aldea Vaquero, T. Marín Martínez,
J. Vives Garell (ed.), Diccionario de Historia Eclesiástica de España, CSIC, Madrid 1972
(=DHEE), t. I, p. 55.
6 239
J. Fraikin10, L. Moréri11, y nacido en Almodóvar, E. Toda y Güel12, D. García13. Sin
embargo, de Silva14 en su diccionario bibliográfico solamente trae un Affonso Alvares15, que no identifica con nuestro autor y un Affonso Guerreiro16 natural de Almodóvar que, aunque escribe un libro parecido al “Palacio de la Fama”, no puede
ser nuestro autor, ya que murió violentamente en 1581 en las cercanías de Lisboa.
Después daremos más razones.
Esa atribución de nacimiento (Portugal) explica la diversidad en el nombre Affonso o Alfonso17. Creemos que es imprecisión o errata ocasionada por
esta confusión de origen, el Alonso del DHGE18. También el apellido Guerrero
aparece como Guerreiro19, grafía que no se encuentra en ninguna de sus obras,
a no ser que se tengan por suyas obras de otros autores. Lo estudiaremos más
adelante.
A. Baudrillart, A. De Meyer, R. Aubert et al. (ed.), Dictionnaire d’histoire et de
géographie ecclésiastiques, Letouzey & Ané, Paris 1912 sqq. (=DHGE), t. II, col. 881.
11 Louis Moréri, Guerreiro (Alfonso Alvarez) in Le Grand Dictionnaire historique ou le
mélange curieux de l’histoire sacré et profane, P. Brunel etc., Amsterdam etc. 1740, t. IV, p. 237.
12 Dice “ALVAREZ GUERRERO, ALFONS († 1577). Nasqué a darrers del segle XV a
Almodovar, Bisbat de Beja, Portugal. Molt jove entra a Espagnya, cursant los estudis de lleys fins
a graduarse de Doctor en dos drets. Adquerí cert nom com advocat, y en 1540 fon destinat a la
judicatura espanyola a Italia, arribant a exercir lo cá rrech de President de la Regia Cámara Sumaria
de Nàpols. Vell y cansat del mon, s’ordena sacerdot, renuntiant sos cárrechs civils. Felipe II lo
proposá en 1572 per a Bisbe de Monopoli, en qual diócesi và morir” [Cita a continuación los
siguientes libros y ediciones;] “Thesarurus… 1563…; Juris Pontificii… 1571… ; Thesaurus…
1581, [A continuación de citar el libro hace este comentario:] Sens dupte no vendría’l llibreter
alemany aquesta edició, cinc anys mes tart, le va refer cambiant lo plech preliminar, o sian los
vuyt fulls primers del llibre, mudant lo títol, ques convertì en los seguent: De iure ac Potestate
Romanorum Pontificum, Imperatorum…1586”. E. Toda y Güel, Bibliografia Espanyola d’Italia
dels origens de la imprenta fin a l’any 1900, Castell de Sant Miquel D’Escornalbou, 1927, vol. I,
p. 73-75. Es idea de aprovechar la edición anterior por falta de ventas se puede poner en duda al
ver la presencia de las otras ediciones en las bibliotecas más importantes o tal vez, aprovechar las
planchas antiguas que podría conservar.
13 D. García Pérez, Catálogo, op cit., p. 28.
14 Inocencio Francisco Da Silva, Diccionario bibliographico portuguez, Lisboa, na imprenta
nacional, 1858.
15 Ibid., t. I, p. 8-9.
16 Cf. ibid., t. I, p. 10 y t. 8, p. 11, cf. t. 22, p. 16.
17 Catálogo libros del XVI de la BN Española, Machado Santos, p. 313.
18 Op. cit. aunque podría haber copiado el error de Schulte (J. F. von Schulte, Die Geschichte
der Quellen und Literatur des Kanonischen Rechts von Gratian bis auf die Gegenwart, 4 tomos,
Akademische Druck- und Verlagsanstalt Graz, Bonn 1875-1880, nueva edición 1956) que también
cae en el mismo error.
19 D. García Pérez, Catálogo, op cit., p. 28; L. Moréri, Guerreiro (Alfonso Alvarez),
op. cit., p. 237; Mariana Aurelia Machado Santos, Ensaio de síntese panorámica da filosofía des
portugueses no século XVI, in Repertorio de Historia de las Ciencias eclesiásticas en España siglos
I-XVI, t. 4, Instituto de Historia de la Teología Española, Salamanca 1972.
10 240
Son corrupciones las dos formas de nombre que aparecen en DHGE como
Guertero, citado por Ughelli-Coleti20, y de Equarta de Nardelli21 al igual que la de
Cappelletti22 que le llama Guertero; sin embargo, claramente identifican a nuestro
autor, al afirmar que fue Obispo de Monópoli.
Otros autores y catálogos (v. g. Biblioteca Angélica, Roma) dan sólo el apellido Guerrero, olvidándose del Álvarez. Tiene esto su explicación por no tener en
cuenta las ediciones posteriores y fichar solamente por lo que aparece en el libro
o manuscrito23. Éste olvido del primer apellido podría reforzar, en cierto modo, la
teoría de que sea portugués24.
Otros datos en que los autores coinciden, esta vez sí, son: fue Consejero real y
Presidente de la Cámara de Cuentas de Nápoles; la portada de casi todas sus obras y
ediciones nos recuerdan estos títulos. Sin embargo, es curioso destacar que ninguna
de ellas nos indique su elevación al episcopado, siendo así que él trata del mismo en
su Tractatus vel Thesaurus; parecería pues lógico, que en las ediciones posteriores
apareciese ese título25. A pesar de ello, los autores citados confirman este hecho y lo
aceptan todos los diccionarios, excepto el DHGE, que lo pone en duda26.
Es nombrado por Felipe II y preconizado, el 2 de junio de 1572, Obispo de
Monópoli, después de cuatro años de estar la sede vacante27. Muere en 1576, cuatro
años después de ser nombrado obispo28.
F. Ughello, N. Coleti, Italia Sacra, Apud Sebastianus Coleti, Venise 1727, t. I, col. 899.
A Nardelli, La Minopoli o sia Monopoli manifestata, Napoli, Vicenzo Orsino, 1773,
20 21 p. 187.
G. Cappelletti, Le Chiese d’Italia dalla loro origine sino ai nostri giorni, G. Antonelli,
Venecia 1871, fascicolo 362.
23 Así aparece en su libro de 1536, 1537 y 1545 y el Manuscrito Lat. Vaticano 5200 De
Bello Iusto et Iniusto.
24 En algún fichero y en el catálogo (provisional) de la Biblioteca Nacional Española
en Madrid se encuentra como Alvares Guerreiro, Alfonso. El error es manifiesto, ya que han
cambiado la grafía, que aparece en sus obras, por considerarlo portugués. Sin embargo, los
catálogos de British Museum, Catalogue in Cambridge Libraries, Biblioteca Apostólica Vaticana,
The National Union Catalogue etc. lo citan como Alvarez Guerrero, Alfonso.
25 En las ediciones de Colonia de 1581, 1586, 1607 y 1608.
26 J. Fraikin, Alvarez Guerrero, Alonso (sic) in DHGE, II, col. 881 dice: “nous ne savons si
cet auteur est le même que l’évêque de Monopoli”. No convence el argumento de la edad para
negar esta posibilidad; cf. nota supra, da una explicación plausible: E. Toda y Güel, Bibliografia
Espanyola, op. cit., vol. I, p. 73-75.
27 C. Eubel, G. Van Gulik, Hierarchia Catholica medii et recentioris aevi…, Monasterii
sumptibus et typis Librariae Regensbergianae, 1923, t. III; G. Cappelletti, Le Chiese d’Italia,
op. cit. y P. B. Gams, Series episcoporum Ecclesiae catholicae: quotquot innotuerunt a beato Petro
apostolo, Ratisbonae typis et sumptibus G. J. Manz, 1873 tienen este dato equivocado, ponen el 31
de julio, quizá el error está entre el nombramiento y la toma de posesión. BEC se equivoca de
diez años tanto en la elevación al episcopado, que pone en 1582, como la fecha de preconización
que la da el 1577.
28 En esta fecha están todos de acuerdo que sea 1577, quizá partiendo del nuevo
nombramiento del Obispo de Monopolis, veremos posteriormente este error. El BEC y L. Moréri,
22 241
1.1.2. Obras
Además de estas obras se le atribuyen tres más que no ofrecen garantías de
estar bien fundadas29. Son (1) [Relasao] das festas que se fizeram na cidade de
Lisboa na entrada de Filippe I Lisboa, em casa de Francisco Correa, 1581, in 4° y
dos manuscritas; (2) Chronica del Re D. Sebastiam; (3) Chronica da religao da SS.
Trinidade en Portugal. La primera es la de Affonso Guerreiro, citada por da Silva30.
De las otras dos no tenemos datos, por ahora, para poder identificar su autor. Lo
veremos más adelante.
A fin de facilitar al lector una más clara visión de las obras impresas de este
autor colocaremos el esquema de las mismas (véase el esquema siguiente) con sus
títulos y ediciones. Las flechas indican la interdependencia de las distintas obras,
posteriormente iremos explicándolo (véase bibliografía, infra).
1520. Las CC. del Castillo de la Fama. Valencia Las cincuenta del
Laberinto contra fortuna. Valencia.
1530. Palacio de la Fama. Bolonia. Doctor Alfonso Guerrero.
1536. Tractado… celebración del general concilio. Valencia.
Doctor Alfonso Guerrero.
1536. De administratione. Valentiae.
1537. Idem. Génova.
1543. De bello iusto et iniusto, Neapoli. Alphonsus Guerrerius.
1545. Tractatus… generalis concili celebranti, Neapoli.
Alphonsus Guerrerius.
1559. Thesaurus christianne religioni et speculum…Venetiis.
1563. Idem. Florentiae.
1570. Juris pontifici caesarique, Neapoli.
1571. Idem. Florentiae.
1581. Idem. Colonia.
1586. De jure ac potestate romanorum pontificum imperatorum… Coloniae Agrippinae.
1607. Utriusque dignitatis tam ecclesiastique quam politicae…
Coloniae.
1608. Idem. Colonia.
1698. Rocaberti.
1969. Rocaberti.
(reproducción)
KRAZ, Akad. Druck, 1969.
ponen la fecha de su muerte en 1587 (cf. supra), al igual J. C. F. Hoefer, Nouvelle Biographie
Générale, Firmin-Didot frères, fils et Cie, Paris 1858, p. 54.
29 Cf. J. C. F. Hoefer, ibid.
30 I. F. Da Silva, Diccionario bibliographico portuguez, op. cit., t. 1, p. 10. No puede coincidir
con nuestro autor porque describe hechos (entrada de Felipe II en Lisboa) en los que él no podía
estar presente. Había muerto cuatro años antes.
242
El diccionario de L. Moréri31 y el de Biografía Eclesiastica Completa, que
es su traducción prácticamente, ponen las siguientes obras: (1) Thesaurus, 1559,
1571, 1586 y 1563; (2) De modo, et ordine generalis conciliis celebrandi, 1545;
(3) De administratione justitiae; (4) De bello iusto et iniusto, 1543; el Moréri no
pone el (5) Palacio de la Fama, en la Biografía dice: “Hay quien opina que la obra
es de otro autor”. A. García en el DHEE32 acepta el nacimiento de Almodóvar (Portugal). En lo demás sigue a Nicolás Antonio aceptando las cinco obras (cf. supra)
y añade, siguiendo a N. Antonio, De administratione y no da por cierta De visitatione, 1545. J. Fraikin en DHGE33 sigue a B. Gallardo (cf. infra) y cita sólo tres
obras: (1) Las doscientas del Castillo de la Fama, 1520; (2) De administratione,
1526 (es un error: es de 1536) y (3) Tractado de la forma que se ha de tener en la
celebración del general concilio, 1536. Las demás ediciones y libros los desconoce. Hoefer34 cita además de las expuestas anteriormente las siguientes (1) De Bello,
1543; (2) De Modo et ordine generalis Concilii Celebrandi de 1543 (sic) y (3) Thesaurus de 1559. Sigue a Nicolás Antonio, aunque añade su ascendencia portuguesa
de “Almodovas” (sic) (cf. supra).
La visión de los diccionarios, que tratan sobre nuestro autor, nos muestra la
confusión y la imprecisión de los mismos. Tal vez se haya excluido a este autor de
algunos diccionarios modernos, por falta de un estudio sobre el mismo que ayude a
fijar su posición en la historia de la canonística del siglo XVI.
1.2. En Busca de una biobibliografía: autores y tratadistas en la biografía
de Alfonso Álvarez Guerrero
Hemos querido estudiar aparte este grupo de autores, para distinguirlos de los
que llegan al gran público a través de las enciclopedias o diccionarios al modo francés (enciclopedia especial). Lo hemos creído de interés, ya que las enciclopedias se
nutren de los estudios que ahora vamos a tratar; según que se inspiren en una fuente
o en otra, salen datos tan equivocados, como se puede comprobar en la mayoría de
las enciclopedias o diccionarios que hemos citado.
Podemos afirmar que, dentro de todos los autores consultados, la única biografía válida es la de Nicolás Antonio en su Biblioteca Hispana35. Todos los datos
31 L. Moréri, Le Grand Dictionnaire Historique, op. cit., t. IV, p. 237; J. C. Brunet, Manuel
du Libraire, op. cit. solo cita a “Alfonso Guerrero, Palacio de la Fama y de historia…, 1530”.
32 A. García, Alvarez Guerrero, Alfonso, op. cit., p. 54.
33 J. Fraikin, Alvarez Guerrero, Alonso, op. cit., col. 881, sólo conoce dos autores para la
Bibliografía, Gallardo y el valenciano Serrano Morales; los otros cuatro autores que cita son para
fijar su biografía, aunque llama la atención que no considera la opinión de Ughello-Coleti que
afirma ser nuestro autor “Hispanus”, sobre todo porque pone en duda otros aspectos de su vida.
34 J. C. F. Hoefer, Nouvelle Biographie Générale, op. cit., t. 28, p. 454-455.
35 Nicolás Antonio, Bibliotheca Hispanica nova, 2ª ed. aum., J. De Ibarra, Madrid 1783;
reimpresión Bottega d’Erasmo, Torino 1963. Bibliotheca Hispana… Romae, ex officina Nicolai
Angeli Tinassi, 1672, p. 7. Anteriormente Andreas Schott, Hispaniae Bibliotheca, Cl. Marnius,
243
son válidos; el resumen de la vida es la que anteriormente hemos indicado en los
diccionarios. No cita lo que no ha comprobado personalmente. Conoce el Thesaurus de 1559, 1581, 1586 y 1563; De Modo et Ordine Generalis Concilio de 1545;
De Administratione Iustitia lo conoce por la cita del cap. 36, pero no lo vio; De
Bello Iusto et Iniusto de 1543 cita el manuscrito Vaticano (latino) 5200 que hemos
consultado también para este estudio. La única obra que no conoce con certeza Nicolás Antonio es la obra De Visitatione de 1545 en 4°, que nosotros no hemos visto
tampoco. ¿Será el cap. XI del Thesaurus de Visitatione Episcoporum?
Rocaberti36 sigue a Nicolás Antonio y hace su edición de la de 1559, aunque
por error dice de 1659. Diego Barbosa Machado37, apoyándose en autores anteriores, hace portugués de “Almodovar no Campo de Ourique” al autor que hasta
entonces se había llamado “Hispanicus” (cf. Tractatus de modo et ordine, 1545,
fol. 3, en su presentación al Virrey Pedro de Toledo se dice “Alphonsus Guerrero Hispanus”, y F. Ughello, N. Coleti, que él cita, pone “Hispanus”, y el mismo
N. Antonio no encontró su procedencia y no lo puso). Alaba la autoridad y valía
de este gran talento “Hombre de summa equidade e prudencia”, “Pastor vigilante”
y recordado por: “Agost. Barboza de jure Eccles., cap. 11, n. 79. Nico. Anto. in
Bib. Hisp., tom. I, p. 7. Manoel de Faria e Saura no Cat. dos Esc. port. impresso
Epit. das Hist. portug., part. 5, cap. 15 posseuin in Apparat. Soci., tom. I, p. 43, e
F. Ughello in ltal. Sac., tom. I de Episcop. Monopolitensibus, p. 974…”. Las obras
que le atribuye son las mismas que cita N. Antonio, pero sin poner el De Visititatione. Benedicto XIV38 lo cita como Alfonso Guerrero (Alphonsus Guerrerius) “in
suo non omnibus obvio Tractatu de Conciliis, quem anno 1545 adidit et Carolo V
Imperatori dicavit, qui reperitur inter Miscelanea Bibliotheca Cardinalis Passionei
tomo DLVI”39. El valenciano Serrano Morales40 sólo cita las cuatro obras, que dice
Gallardo41 que han sido editadas en Valencia; éstas son: (1) Las C.C. de la Fama,
1520; (2) Las cincuenta del Laberinto, que está en el mismo volumen, obra que
quizá no vio Serrano Morales como distinta de la anterior, aunque sí da su referencia de Gallardo (nums. 153 y 4520); (3) De Administratione, 1536; (4) Tractado…
Fráncfort 1608, p. 351, sólo dice lo que aparece en el frontispicio de las obras y la dedicatoria a
Felipe II, y sólo cita el Thesaurum, sin más datos.
36 J. T. Rocaberti, Bibliotheca maxima pontificia… Romae, ex typ. J. F. Buagui, 1698, t. II,
p. 1.
37 D. Barbosa Machado, Bibliotheca Lusitana… Lisboa occidente. Na. Aff. Antonio Isidoro
da Fonseca, 1741, t. 1, p. 28-29.
38 Benedicto XIV, De Synodo diocesana, Roma, exc. J. Generosus Salomoni, 1755, p. 3.
39 Ahora en la Bibliotheca Angelica de Roma: 7.8. se encuentra en el fichero como
“Guerrerius, Alphonsus”, no identificándolo con el otro “Alvarez G.”.
40 J. E. Serrano Morales, Reseña histórica en forma de diccionario de las imprentas que
han existido en Valencia desde la introducción del arte tipográfico en España hasta el año 1868,
Valencia, 1898-1899, p. 110-111.
41 B. J. Gallardo, Ensayo de una biblioteca española de libros raros y curiosos,
Rivadeneyra, Madrid 1863, t. 1, 164-167 y t. IV, fol. 1464-1466.
244
del General Concilio, 1536. J. F. von Schulte42 equivoca el nombre, o es errata y
dice Alonso. Cita los mismos datos, obras y ediciones que N. Antonio: (1) De modo
et ordine generalis Concili celebrandi, 1545; (2) De Administratione; (3) De Bello
Iusto et Iniusto, 1543; (4) Thesaurus, 1559, 1563 y 1586, no aporta nada nuevo.
D. García Péres43 sólo dice que es de Almodóvar (Beja), doctor en jurisprudencia
y obispo de Monópoli. Murió en 1577, y cita solamente el Palacio de la Fama
e Historia, 1530. H. Hurter44 afirma que es doctor in utroque iure, sus cargos en
Nápoles y lo hace por error o lo considera del Reino, sin concretar la sede, dice:
“episcopus neapolitanus”, cita la edición de 1586; la recepción de parte de la obra
por Rocaberti; De modo et ordine de 1545, y De Bello Iusto et Iniusto de 1543.
Menéndez y Pelayo45 cita sólo De modo et ordine de 1545. E. Llamas-Martínez46
cita a N. Antonio pero no tiene en cuenta lo que dice, v. g.: “En beneficio de la Iglesia Española” más bien debió pensar en la Napolitana donde pasó parte de su vida.
Cita el Tractado de la forma de 1536 identificándolo, al parecer, con la edición de
1545, que no ha visto. Habla de “varios manuscritos en la Biblioteca Vaticana” pero
no precisa, de citar a N. Antonio señalaría el Vat. Lat. 5200, único que existe identificado. M. A. Machado Santos47 le llama Alfonso Guerreiro dice que es portugués
(Almodóvar), sin citar documentación alguna donde lo podamos constatar. Doctor
in utroque, obispo de Monopoli, presidente de la Cancelería de Nápoles. Cita tres
obras: (1) De Bello Iusto et Iniusto de 1543 (cita el mss. Vaticano Latino 5200);
(2) Thesaurus de 1559 (solo); (3) De modo et ordine de 1545. M. Andrés48 sólo cita
una obra suya Tractado de la Forma de 1536 y la atribuye a Pedro Guerrero. Tal
vez repita el error de H. Jedin49.
Como podemos comprobar, el estado de la bio-bibliografía actual ha ido degenerando por falta de un estudio que fijase, dentro de todos los datos conocidos
con certeza, la vida y la obra del autor.
J. F. von Schulte, Die Geschichte der Quellen und Literatur des Kanonischen Rechts von
Gratian bis auf die Gegenwart, op. cit., p. 722-723.
43 D. García Pérez, Catálogo, op cit., p. 28.
44 H. Hurter, Nomenclator literarius theologiae catholicae, Oeniponte, Libr. Acad.
Wagneriana, 1907, 3ª ed., fol. 124.
45 M. Menéndez y Pelayo, La Ciencia Española, V. Suárez, Madrid 1933, t. II, p. 245.
46 E. Llamas-Martínez, Orientaciones sobre la historia de la Teología española en la
primera mitad del siglo XVI (1500-1550), in Repertorio de Historia de la Teología española, I,
UPS – [Instituto de Historia de la Teología Española], Salamanca 1967, p. 166, especialmente
nota 174.
47 M. A. Machado Santos, Ensaio de síntese, op. cit., p. 28.
48 Melquíades Andrés, La Teología española en el siglo XVI, BAC, Madrid 1976-77, 2 vol.,
t. II, p. 407.
49 H. Jedin, Historia del Concilio de Trento, op. cit., t. I, Eunsa, Pamplona 1972, p. 659
(Índice de nombres) habla de Pedro Guerrero, y en la p. 390 cita un trozo de su obra de 1545 que
aparece en el Concilium Tridentinum, Herder, Friburgi Brisgoviae 1930, t. XII, I, p. LX, pero allí
se habla de Alphonsus Alvarez Guerrerius: el error es evidente.
42 245
1.3. Biografía y obras
1.3.1. Biografía
La fecha de nacimiento no viene indicada en las “Actas” donde es presentado
y nombrado obispo. En la propuesta del Cardenal Ursino, la fecha la podemos fijar
en mayo 1572, dice que tenía setenta años, luego nació en 150250. Del lugar de nacimiento podemos decir que Alfonso Álvarez Guerrero era de la diócesis de Toledo
cuando fue nombrado obispo. Al no especificar nada más, nos hace afirmar que fue
toledano51. Nace de legítimo matrimonio52, es doctor en los dos derechos (utriusque
iuris)53. En el año 1520 ya es considerado como licenciado en su libro Las C.C. del
Castillo54 y doctor en el libro Palacio de la Fama55 en 1530.
Debemos destacar que cuatro de sus primeras obras fueron impresas en Valencia56. No podemos de este hecho concluir cosa alguna, ya que Valencia, que
tuvo la primera imprenta española (1476), tenía una gran importancia editora en
aquella época. Es a partir de 1545 cuando su obra traducida al latín del castellano,
y ampliada en algunos puntos, aparece en Nápoles. ¿Estudió en Valencia y desde
allí se pasó al otro reino de Nápoles? No podemos confirmar, por ahora, ninguna
de estas hipótesis.
Por sus obras podemos deducir algunos datos sobre su vida, aunque la forma
estilística (en verso) de su obra de 1530 pueda hacer pensar que el género literario poético no es la mejor forma de hacer historia, sin embargo, su reiteración e
incluso la precisión en algunos de sus términos nos ayuda en nuestra pretensión.
Ciertos datos, nos induce a creer que su forma de relatar no es sólo interés de hacer
más verídica su exposición, sino de declararse testigo presencial de los hechos que
narra.
En la obra Palacio de la Fama habla de su nacionalidad española y castellana: “nos hizo vasallos a los castellanos” (fol. 80), afirma su vinculación a “nuestra
nación” y al hablar de los españoles dice “eran los nuestros” (97v.)57. En el mismo
50 Archivo Secreto Vaticano, Acta Miscellania 96, p. 112 (antes 94), “est etatis annos
septvaginta”.
51 Archivo Secreto Vaticano, Acta Vicecancellari 11, fol. 10 “de persona Alfonsi Alvarez
Guerrero, Toletanae diocesis”.
52 Archivo Secreto Vaticano, Acta Miscellania 96, “ex legitimo matrimonio”.
53 Ibid., “iuris utriusque doctor” y Acta camerarii 11, fol. 127 (antes 107).
54 La CC. del Castillo de la Fama compuesta por el licenciado Alfonso Albares Guerrero.
55 Palacio de la Fama… compuesta por el doctor Alfonso Guerrero, en su obra Tractado de
modo…, 1536, se dice doctor y en el “liber aureus… De Administratione…”, también de 1536
dice en el colofón “a clarissimo iuris utriusque doctore Alphonso Alvares Guerrero”.
56 Cf. J. E. Serrano Morales, op. cit.
57 Respecto a “español / portugues” véase dos eruditas notas al respecto de C. Gutierrez,
Españoles en Trento, CSIC, Valladolid 1951, p. XLIII, notas 10 y 11. Recuerda que hasta el
siglo XVII se usaba indistíntamente ambas denominaciones. Así Camoens, Os luisiadas, Lisboa
1572, llama a los portugueses humana gente fortissima de Hespanha (canto I, 31 y en otros
246
libro vemos su vinculación a las tropas del emperador en Italia, lo que le hizo ser
gran conocedor de los problemas italianos, ello le llevó posiblemente, junto a la
excelente preparación jurídica que manifiesta en sus escritos, a los altos cargos que
ostentó. Se dice testigo presencial de lo que narra; a lo largo de todo su libro de
1530 encontramos las siguientes expresiones: “soy yo buen testigo” (fol. 100); es
“testigo de vista” (fol. 97) o “como el autor lo sabe de vista” (fol. 79v.), “yo doy fe”
etc. (cf. fol. 43, 45v., 48v., 61v., 63, 65v., 67, 80v., 93, 97v.).
En la obra de 1559 se dice residente en Nápoles, en el cap. 60, parágrafo “de
ventura” dice que el vicio del juego está muy arraigado en Nápoles: “hic Neapoli”
(1559, p. 329, línea 24; 1571, p. 295, línea 30; 1581 y 1586, p. 796, línea 6) y más
adelante “maxime hic Neapoli” (1559, p. 329, línea 46; 1571, p. 295, línea 50; 1581
y 1586, p. 797, línea 4). También el conocimiento de los problemas y noticias de
Italia, especialmente Roma y Nápoles, se ve en todas sus obras (cf. sobre Roma
1536 y 1537, cap. 12 y 13 en especial; 1545, cap. 11 y 13; sobre Nápoles v. 1536,
fol. 47, 1537, cap. 12 y 1545, fol. 42v.‑ 43).
Sabemos que era Consejero Real y presidente de la Cámara de Cuentas de
Nápoles58 en 1572, claramente por lo que dice el documento citado del Archivo
Secreto Vaticano, y como deducimos de las portadas de sus libros.
Es presentado por el rey Felipe II como obispo de Monópolis, haciéndose el
proceso ante el Arzobispo de Nápoles, y propuesto por el Cardenal Flavio Ursino,
probablemente, en el consistorio de mayo de 157259. En la presentación al consistorio, ya citado, como obispo, encontramos noticias que además de su edad, setenta
años, que es hijo legítimo, es sacerdote y de vida y costumbres íntegras, habla también el documento del “librumque edidit insignem Speculum Pontificii cesareique
iuris inscriptum”60. En el Consistorio del 2 de junio de 1572 es nombrado Obispo
de Monópolis61, la sede estaba vacante cuatro años por muerte del anterior Obispo,
Fabio Pignatello62.
De su vida poco hemos encontrado en el Archivo Vaticano; el proceso no aparece entre la documentación buscada63; recordemos que se hizo en Nápoles.
pasajes: III, 17-18; VII, 25; VIII, 93 etc.). Nicolás Antonio en su Bibliotheca Hispana Nova usa
también ese criterio.
58 Archivo Secreto Vaticano, Acta Miscellania 96, fol. 112 dice “estque nunc Consiliarius
Regius ac presidens Regie camare sumarie Neapolitanae”. Puede verse en sus obras a partir de
la de 1559.
59 Ibid., fol. 112.
60 Ibid.; el libro que cita es la edición de 1570 ó 1571.
61 Archivo Secreto Vaticano, Acta Vicecancellari 11, fol. 1v. y Acta carnerarii 11 fol. 127
(antes 107). C. Eubel, G. Van Gulik, Hierarchia Catholica, op. cit., tiene equivocado el volumen,
pone 15 y es el 11.
62 C. Eubel, G. Van Gulik, Hierarchia Catholica, op. cit., t. III, p. 249.
63 Hay dos documentos en Registra Lateranensis, 1874 y 1875; en Brevia Lateranensia
sólo aparece uno en 1572; y en Minute dei Brevi (Lateranensis), p. 313, n° 18.819 (expedit fama,
1578) y p. 316, n° 19.028 (expedit Abril, 1577). No hemos encontrado nada en Reg. Vat. 2020 y
en Sec. Brev. 1572 (n. 19 y n. 21).Sí hay una carta firmada por él, por lo menos de mano distinta
247
Por la correspondencia del Nuncio de Nápoles64 sabemos que en junio de
1576 estaba gravemente enfermo: “laborat in extremis”. El Nuncio se preocupa
de que el “spoglio”, que era muy bueno, pase a la Cámara65; como el testamento
es a favor de su Majestad el Rey, teme que le será difícil66. El 8 de junio de 1576,
el Nuncio no tenía información nueva que comunicar67. El 15 de junio de 1576
comunica la muerte del Obispo el cual, antes de morir la víspera, hizo donación de
casi todas sus cosas «inter vivos irrevocabile»68; por tanto su muerte se debe fijar
en estas fechas: Junio de 157669. Nada más aparece entre la documentación de la
Nunciatura de Nápoles sobre nuestro autor. El 31 de julio de 1577 es nombrado el
nuevo Obispo de Monópolis “per obitum Alfonsi”70. Tal vez esta fecha es la que
ha hecho que la mayoría de los autores, que hemos estudiado, hayan establecido
este año como el de la muerte del autor. La correspondencia de la Nunciatura de
Nápoles, antes citada, nos obliga fijar su muerte en junio de 1576.
del texto, que dice: “Vestre sanctitatis seruus humilissimus / Doctor Guerrero consiliarius Regius
/ et episcopus Monopolitanus”. Se encuentra en: Segreteria di Stato, Lettere di Vescovi e prelati,
vol. 10, fol. 23 (antes 15). Trata sobre un canónigo Francisco Indessus y Fabio Maraffa.
64 Pasquale Villani, Nunziature di Napoli (= Fonti per la Storia d’Italia), vol. I: 26 luglio
1570 – 24 maggio 1577, Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma 1962,
p. 380-381.
65 Ibid.
66 Dificultad que manifiesta la instrucción a Mons. Campeggi Nuncio de Nápoles,
posiblemente del secretario de estado Tolomeo Gallí, del 24 de mayo de 1577. Dice: “Due sono
le cure principali del nuntio de Napoli l’una e la manutentione et defensione della giurisditione
esclesiastica in quel regno, l’altra esser diligente in la essattione di tutti li spogli et frutti de le
sedi vacanti” y dice más adelante “Hora s’intende che in questa nuntiatione di nuntio il viceré
ha animo de fare il medesimo tentativo di que fece Granvela, cioè di voler restrinque le facultà
circa li spogli”, editado por: Pasquale Villani, Nunziature de Napoli (= Fonti per la Storia
d’Italia), vol. II: 24 maggio 1577 – 26 giugno 1587, Istituto Storico Italiano per l’età moderna e
contemporanea, Roma 1969, p. 45 sqq.
67 Ibid., p. 383-384.
68 Ibid., p. 384-385 dice: “Morse il vescovo de Monopoli, el quale un giorno prima di
morisse fece donatione inter vivos irrevocabile de quasi tutta la robba sua, pero é donatione della
quale no si deve tenere conto alcuno essendo fatta in fraude Camerae”. Esta documentación hace
que se deba fijar la muerte (mientras no haya nuevas investigaciones) entre el 8 y el 15 de junio
de 1576 (y no de 1577 como erróneamente se viene diciendo). Hacemos notar, por curiosidad, la
opinión del Obispo en sus obras al respecto (“spoglio”), como veremos posteriormente.
69 Esto debe hacer corregir la mayoría de los catálogos y, por supuestos, enciclopedias,
diccionarios etc., que establecen su muerte en 1577.
70 Archivo Secreto Vaticano, Acta Vicecancellari 11, fol. 87; Acta camerari 11, fol. 277v.:
“per obitus… Alphonsi Guerrero”; Acta Miscellanea 96, p. 169: “per obitum… Alfonsi Guerrero”.
Quizá este dato es el que ha hecho equivocar a los historiadores, ya que lo mantienen como fecha
de la muerte de nuestro autor.
248
1.3.2. Obras
En el esquema anterior hemos visto (cf. supra) las obras que podemos afirmar
que son de nuestro autor. Veamos las razones de atribución, que ponía en duda el
DHGE71 y las razones internas o externas, que confirman lo expuesto. Hemos señalado, también, que los autores nos dan una bibliografía incompleta y algunas veces
equivocada. Dividiremos las obras en canonísticas (1.3.2.1.), poéticas (1.3.2.2.),
atribuidas (1.3.2.3.) y falsas atribuciones (1.3.2.4.).
1.3.2.1. Obras canónicas
• Tractado de la forma que se ha de tener en la celebración del General Concilio y
acerca de la reformación de la Iglesia, F. I. Díaz Romano, Valencia, 1536, in 4°,
31 fol.72.
• Tractado de modo y forma que se ha de tener en la celebración del general concilio, y acerca de la reformación de la Iglesia [Génova, Antonio Bellono, 1537]
in 8° (21 cm), 32 fol.73.
• Tractatus de modo et ordine generalis concilii celebrandi et de reformatione Ecclesiae Dei [Neapoli, apud Ambrosium de Mancaneda, 1545] in num. IV, 68 fol.74.
• Liber aurem… de administratione et executione iusticie, industria F. Romani,
1536, in 4°, dos tom. en un vol. (178 fol. una lámina)75.
• Aureus et singularis tractatus de bello iusto y iniusto, Castronovo Neap., Ambrosius de Mancaneda, nonis october, 154376.
• Theasaurus Christianae religionis et speculum sacrorum summorum pontificum,
imperatorum ac regum, et sanctissimorum episcoporum per, nunc noviter in lucem
editum… Venetis anno 1559, in fol., XXVIII-422 pp.
• Iuris Pontifici caesarique speculum, ubi praeter luculemtam in locorum explicationem, ea etiam quibus sacri sum. Rom. pontifices, imperatores, reges et santiss
… episcopi pie ac religiose munia obire possint … Cui nuperrine … octo capita
cum indice locupletissimo hac quint et postrema editione accesere. Auctore … Alphonso Álvarez Guerrero … Neapoli, apud Hocatium Salvianum, 1570, in fol.,
DHGE, col. 881: “Nous ne savons pas si cet auteur est le même que l’évêque de
Monopoli.”.
72 British Library (Museum): G. 11737; BNE: R. 31180, R. 12319 y R. 1338; Salamanca
(BN) .
73 Library of Congress (USA): Jefferson LJ239; University of Iowa, Iowa City, USA.
74 Biblioteca Angélica, Roma: 7.8. interno 4º; Hispanic Society of America, Nueva York;
BNE, R 18637; Madrid B. Lázaro; Santiago de Compostela (BN); Biblioteca Universitaria,
Madrid num. 685 (cat. de 1946).
75 Biblioteca Nacional Italiana, Roma BNI: 13.8.E 20; Biblioteca Nazionale Centrale
Vittorio Emmanuele II, Roma: RN0267); B. Nápoles; BNE R/15503 (2 ejemplares) y R/17850.
76 Hay de esta obra un manuscrito de 1542 en M. Vaticano Latinos: 5200. Impresa está en:
BNE, 1323 y 26160, 2º; Biblioteca Universitaria, Madrid, num. 685 (catálogo de 1946); Hispanic
Society of America, New York, USA.
71 249
VI+596+(44) pp. (en el colofón pone 1571).
• Idem 1571.
• Theasaurus christianae … sumariis numeris et repertorio copiosissimo quaque
notatum digna ostendibus. Coloniae, apud haered. Jacobi Soteris et Ludovici Alectorij, 1581, in 16° (16,5 cm) VIII+1017+(40) pp.
• De jure ac potestate, romanorum pontificum, imperatorum regum Episcoporum,
aliisque ad impertinentibus…, Coloniae Agrippinae, apud Petrum Horst, 1586,
in 16°, XVI‑ 10, 17‑ 40 pp.
• Utriusque dignitatis tam Ecclesiasticae quam politicae speculum in quo ius et potestas Romanarum Pontificum, Imperatorum, Regum Episcoporum etc. … proponuntur et explicatur … Coloniae, apud Conradum Butgenium, 1607, in 16° (16,5
cm) 16+1017 pp. e. índices.
• Utriusque dignitatis (cf. supra) … episcoporum etc. proponuntur et explicatur:
tum grauissima quaedam de principum tam ecclesiasticorum quam secularium iurisdictione controversiae discutiuntur atque enucleantur auctore, Coloniae Agrippinae, Apud Petrum Cholinum, 1608, in 16°, XVI+1017 40 pp.
• De ecclesiastica divina potestate et de unitate Sanctae Matris Romanae Ecclesiae,
et de Unitate, et plenissima potestate sacri Summi Romani Pontificis, en J. T. Rocaberti, Biblioteca máxima pontificia, Romae, typ. J. F. Buagni, 1698 (interno 9),
p. 1‑ 7.
• Idem, reimpreso por GRAZ, Akad. Druck, 1969.
• Idem, microfilm de la Biblioteca Vaticana.
1.3.2.2. Obras poéticas-históricas
• Las CC. del Castillo de la Fama, co<m>puesta por el licenciado Alfonso Guerrero, jurista…
• Los cincuenta del laberinto contra la fortuna. Compuesta por el mismo autor:
dirigidas asi mismo a su alta y cesarea majestad sempre augusta…
• Linea imperatorum… (estas tres obritas tienen el mismo colofón) fue imprimida la
presente obra en la noble ciudad de Vale<n>cia. A cuatro días de Enero, bísperas
de Reyes. A casa de Joan Joffre: al moli de na Rovella. Año de M.D. y XX, en 8°,
sin foliar77.
• Palacio de la Fama e Historia de las guerras de Italia: co<n> la coronació<n>
de su majestad [Carlos V], compuesto por el doctor Alfonso Guerrero… estampado en Bolonia por Juan Baptista de Phaeli boloñés, a XIII de Março MDXXX,
in 8°, fol. 10878.
BNE R/10378.
Barcelona (Biblioteca de Cataluña); BNE: V/823. Para el estudio desde el punto de vista
liberario de estas obras cf. Xavier Tubau, La poesía de Alfonso Álvarez Guerrero: arte mayor
al servicio del Imperio, e‑ Spania [en ligne], 13 juin 2012, mis en ligne le 24 juin 2012. URL:
http://e-spania.revues.org/21405; DOI: 10.4000/e-spania.21405 (26.02.2013).
77 78 250
1.3.2.3. Obra atribuida al autor
• De Visitatione, 1545, in 4°.
1.3.2.4. Otras atribuciones claramente falsas (cf. supra)
1.3.2.4.1. De Affonso Guerreiro
• Festas que se fizerom na entrada de Filippe I em Lisboa, 1581, in 4°.
• Chronica del Rey D. Sebastiam (manuscrito).
1.3.2.4.2. No de Pedro Guerrero, sino de nuestro autor
• Las citadas por H. Jedin, y la de M. Andrés79.
1.4. Identificación de las obras
Podemos decir que el autor es el mismo Obispo de Monópolis, algo de cuya
biografía hemos podido rehacer, por la citada acta de presentación por parte del
Cardenal Ursino80 cuando dice de él que es autor del Speculum Pontificii Cesarique
iuris que lo encontramos en el título editado por el mismo autor en Nápoles en
1570/71; que estas obras son del mismo obispo, se puede ver: a) por un estudio interno de las mismas, b) por las citas de las obras anteriores como propias del autor,
que refuerzan esta teoría.
Esquema de la interdependencia de las obras:
Esquema de la interdependencia de las obras:
1536
1537
Tractatus
1545
1543
1536
De administratione
De bello iusto e iniusto
Algunos capítulos
1559
Los 6. cap. primeros
Casi toda la I parte
1563
cap. 7
Caps. de la II parte
1570
1571
H. Jedin, Historia del Concilio de Trento, op cit., t. I, p. 390 y 659; M. Andrés, La
Teología española en el siglo XVI, op. cit., t. II, p. 407.
80 Archivo Secreto Vaticano, Acta Miscellanea 96, fol. 112 (Presentación y nombramiento).
79 251
Lo cual nos hace concluir que siendo el mismo nombre, no es distinto el autor
del Obispo de Monópolis81.
1.4.1. Las obras de 1536, 1537 y 1545, sobre el Tractado de la Reforma y
De Administratione de 1536
La obra en castellano Tractado sobre la reforma, 1536, cita en el c. 9 (p. 33)
“porque en el proemio intitulado De Administratione de Justicia dedicado a V. M.
tengo escrito muchas cosas acerca de este punto”. Siendo así que en la obra De
administratione se dice autor Alfonso, Álvarez Guerrero, no hay duda de la dependencia de las mismas. La obra de 1537, editada en Génova, es una edición retocada
y ampliada en algunos puntos. Que es el mismo autor, no ofrece ninguna duda. La
de 1545 se puede decir una traducción con adaptación sobre la de 1537. Aunque
podemos afirmar, el manuscrito no encontrado estaba ya antes que el de Bello Iusto
et Iniusto de 1542 (Vat. 5200), que dice en el cap. 1 (fol. 4 de la impresa) “Ut dixi
in tractatu de concilio. XIII”, no pone “in libro meo” porque todavía no estaba
editado. Así lo pone al final del mismo folio del De Administratione. La de 1536
hacía hincapié sobre el Concilio dedicando los nueve primeros capítulos (p. 1‑ 34),
y los seis últimos “a la reformación del estado eclesiástico” (p. 35‑ 61). La de 1545
dedica, con traducción prácticamente literal, los nueve primeros capítulos al tratado
sobre el Concilio (fol. 1‑ 33) y los doce restantes es una ampliación de los seis de
1537 donde acentúa los puntos de reforma (fol. 33‑ 68), que se remonta el manuscrito al 1542, por lo menos, lo hace de mayor interés histórico.
Podríamos poner muchos ejemplos, tal vez éste sea significativo, dice el Tractatus de modo, 1545, fol. 32v., “et quia in libro De Administratione iustitie in eius
prohemio iam impresso et Maiestati tue dedicato multa sunt scripta circa istum
punctum”. Es traducción de la de 1537 y la confirmación de la misma obra nos
hace concluir la interdependencia de estas tres obras, recordando que la 1537 es
una segunda edición de la de 1536.
1.4.2. La edición de 1559, 1563 y 1570-1571
Las dos primeras y la última, aunque tienen títulos diversos y extensión diferente, son del mismo autor junto con las demás obras indicadas. Esto lo afirmamos
no sólo porque aparece el nombre del autor en las tres obras, Alfonso Álvarez
Guerrero, sino por el contenido que es fundamentalmente el mismo. La edición
de 1559 tiene 71 capítulos que son recogidos por las dos obras posteriores82. En la
Cf. supra.
Esta edición recoge, como tiene costumbre, parte de su obra anterior. Así vemos que el
De Administratione, cap. 1 y 2 de la I parte, es recogida en el cap. 54 y 56 de esta edición y el
cap. 22 de la II parte por el cap. 36. De Bello Iusto se recoge de la siguiente forma cap. I (de
bello) = 41; cap. II = 43; cap. III = 44; cap. III parte II (fol. 35 del mas.) = 47, nº 7 (de tregua);
cap. IV (de deffidatione) = 45; cap. V = 42 y el cap. VI = 47. El Tractatus de 1545 es incorporado
81 82 252
edición de 1563 han sido añadidos doce capítulos más (83 cap.) que son casi toda
la primera parte De Administratione y el cap. 7 (que en esta edición es el cap. 72)
De Bello Iusto et Iniusto83. La obra de 1570/71 tiene ocho capítulos más que la
anterior (total 91 cap.) e incorpora algunos capítulos de la segunda parte del De
Administratione84. La obra de 1570 que aparece como la de 1571, deben corresponder a las mismas galeradas, ya que aparecen los mismos “sucios” en los volúmenes
consultados (BNE y BNI).
Como hemos visto, cf. las notas, estas obras podemos decir que son del mismo autor, por análisis de ellas mismas, pero además, cita, en estos libros, obras
suyas anteriores: “Et de isto enormi delicto dixi multa in libro meo de administratione iustitiae in 2 parte, in regula 22” (ed. 1559, cap. 36, p. 125; ed. 1571,
cap. 36, fol. 108; ed. 1581, cap. 36, p. 297). “Et quia bellum inter Christianos est
puditio animae et corporis … in princ. scripsi Tractatum de Bello Iusto et Iniusto
tuae maiestati dedicatum” (ed. 1559, cap. 41, p. 146; ed. 1571, cap. 41, fol. 125;
ed. 1581, cap. 41, p. 147 y p. 351). “Ut dixi in tractatu de Concilio” (ed. 1559,
cap. 41, p. XXX; ed. 1571, cap. 41, fol. 126; ed. 1581, cap. 41, p. 353‑ 354).
Siendo el mismo autor para estas obras y las citadas anteriormente y teniendo
en cuenta que la última de 1570‑ 1571 es considerada como del futuro obispo de Monópolis, podemos concluir, sin temor a errar, que todo este grupo de obras estudiadas
pertenecen a Alfonso Álvarez Guerrero que fue Obispo de Monópolis.
prácticamente en toda su extensión, suprime algunas cosas de la reforma de la Curia de los XII
y XIII, (cf. cap. 9, 51, 63), cap. 1 = 51 (p. 233-237), lo amplió en el c. 1., c. 16 et c. de voto;
cap. 2 = 51, I (p. 237); cap. 3 (fol. 7‑ 14) = 51, II, suprime de la ed. del 1545 desde el fol. 6 (al
final) hasta el 14r.; cap. V (fol. 17‑ 20v.) = 51 (p. 239-241), VI (fol. 20v.‑ 22v.) = 51, VI (p. 241242, línea 47); cap. VII (fol. 22v.) = 51, VII (p. 242-243) a partir del fol. 23 comienza a suprimir
diversos puntos; cap. VIII (28v.‑ 29 línea 7) = cap. 51, V (p. 243); cap. VIII (29 línea 8‑ 30v.)
= cap. 51, VIII (p. 243-244); cap. IX (31 sqq.) = cap. 51, VIII (p. 244) el resto de los capítulos
van incorporándose en la edición de 1559 acomodando, suprimiendo o ampliando algunos temas
(no olvidemos que el Concilio era ya una realidad). Lo que nos hace concluir es la identificación
de las obras no solo por coincidir en el nombre del autor, sino por su mismo contenido.
83 Esta edición recoge prácticamente toda la primera parte De Administratione en el cap. 80
y De Bello al asumir el cap. 7 (= 72) sólo queda el último (8º) que no es ya incluido en ninguna
otra edición.
84 Esta edición de 1570/71, se enriquece incorporando, entre otras cosas, el cap. 2 = 86;
cap. 3 = 87; cap. 9 = 89 de la segunda parte del De Administratione. En la BNE (Madrid,
R.26065) y en la BNI (Roma: 13.5.K10 y 13.16.E.3) aparece una edición de 1570, que tiene
idénticas características tipográficas (cf. fol. 180-181, cambian ambos de caja en los números
romanos de paginación: 8 mm por 4 mm etc.) incluso el papel tiene la misma filigrana. Otros
muchos detalles nos hacen afirmar que es la misma edición que la de 1571. En el colofón de la
de 1570 pone: Neapoli MDLXXI. Ello nos hace pensar que se empezó la edición en 1570 y se
terminó en 1571, y que se editaron pocos libros con el encabezamiento original. Lo que no ofrece
duda es la identidad completa de contenidos.
253
1.4.3. Las otras ediciones del Thesaurus: 1581, 1586, 1607, 1608 y la de
Rocaberti
Son publicadas en Colonia por diversos editores y con títulos distintos. son
prácticamente una reedición de la obra base de 1559. Nuestro autor había muerto
en 1576. La incorporación de citas del Concilio de Trento y otros datos, en algunas
partes de la edición de 1571, no son tenidas en cuenta en las de 1581 y 1586 (de las
que dependen las dos últimas), v. g.: cf. final cap. 36 (1571, fol. 108; 1581 y 1586,
p. 299)85. Tienen al igual que la de 1559 setenta y un capítulos y terminan en el siguiente colofón: “et sit sic finis huius tractatui, cum laude omnipotentis Dei, eisque
matris semper Virginis Mariae”. La edición del 1581 añade: “Finis”.
Podemos concluir que las ediciones de 1581 y 1586 no tuvieron en cuenta la
edición de 1571 y que siguen la de 1559, sin añadir los capítulos de la de 1563 y
hay datos suficientes para afirmar que las galeradas de la edición de 1581, son las
mismas que las de 1586, tienen los mismos “sucios” y además la paginación es
idéntica (cf. p. 797, línea 4, tienen el mismo “sucio”)86.
Las otras ediciones de 1607 y 1608 son muestra del interés por esta obra, que
cambió solamente de título. Sería provechoso destacar este detalle, como algunos
otros más de contextura interna; creemos que será fructífero tratarlo más ampliamente en otro momento.
La edición de Rocaberti en su Biblioteca maxima pontificia de 1698 (reimpresa en 196987) no incorpora estas ediciones, más recientes, sino la de 1559, no
las de Florencia o Nápoles, de 1563 y 1571. Se debe considerar error la cita suya
diciendo que es la obra de 1659. Publica los cuatro primeros capítulos y su quinto
es el XVI de Guerrero. Para la finalidad de esta obra de Rocaberti estos puntos
eran suficientes ya que tratan de potestate summi pontificis, que es el objetivo de su
obra. El tituló el Tratado: De Ecclesiastica divina potestate et de unitate Sanctae
Matris Romane Ecclesiae, et de unitate, et plenissima potestate sacri Summi Romani Pontificis.
85 Las ediciones de 1559 y 1586 son iguales hasta en el Índice y repiten algunos errores,
v. g.: cap. IV nª 11 “Rex, Francia, utrum Imperatorem reconoscat”. Este número no aparece en
ninguna de las dos ediciones. Así se encuentran varias.
86 Esta coincidencia entre las dos ediciones ha sido interpretado, por Antonio Palau y
Dulcet, Manual del Librero Hispano-americano, 2ª ed. corr. y aumentada, Librería anticuaria de
A. Palau, Barcelona 1948, p. 270-271, diciendo: “sin duda, este libro (edición 1581) tuvo poca
venta porque cinco años después se cambiarían 8 hojas preliminares y apareció nuevamente bajo
la siguiente portada (cita la de 1586)”. El no conoce las otras dos ediciones posteriores y por eso
da esta, a nuestro parecer, falsa interpretación. Cf. supra E. Toda y Güel, Bibliografia Espanyola,
op. cit.
87 Esta obra se puede encontrar microfilmada en la Biblioteca Vaticana.
254
1.4.4. Las obras poético-históricas: 1520 y 1530
En un mismo volumen aparecen estas dos obritas poéticas de juventud, ya que
Alfonso Álvarez Guerrero tendría unos dieciocho años, Las CC. del Castillo de la
Fama y Las cincuenta del laberinto contra fortuna editadas en la misma ciudad
de Valencia, donde él editó seis años después el otro libro De Administratione y el
Tractado … del General Concilio.
La numeración seguida (con la sig. cij. comienza la segunda obra) y la identificación de ambas, nos demuestran sin duda que “Alfonso Albares (sic) Guerrero,
jurista”, es su autor. La dedicada, como el Tractado y otras de sus obras, “al muy
alto y serenissimo y catholico Emperador don Carlos”. La segunda obrita él mismo
la identifica, dice: “Las cincuenta del laberinto contra fortuna. Compuesta por el
mismo autor”. Esto es lo que Gallardo, ya citado, describe; sin embargo debemos
añadir que en la (sig. giij. vuelto) aparece, lo que podríamos considerar, una tercera
obrita (26 pag.) que titula Linea imperatorum. En la sig. hiij. vuelto, dice “y porque
en la glosa que tengo hecha a la obra de la Fama: Intitulada a vuestra Alteza. Habló algo más largo de toda la genealogía de Vuestra Imperial Excelencia. Aquí no
he auido tan en suma: pero mucho encomiendo las cosas que la justifica a vuestra
cesarea majestad”.
Eso nos hace concluir dos cosas: (1) la considera obra distinta; (2) el autor de
esta obrita es el mismo que las dos anteriores. El contenido de esta obra lo especifica claramente al principio: “síguese la línea de los emperadores de Alemania,
después que el Imperio passo en los germanos. In principia del primero que se
llamó Otto” (sig. giij vuelto).
¿Es el mismo autor de estas obras anteriores y el «Palacio de la Fama» de
1530? Está compuesta, como dice en portada, por el doctor Alfonso Guerrero, pero
¿es suficiente para atribuirla o identificar a este autor con Alfonso Álvarez Guerrero? Hemos visto que tiene algunas obras firmadas con el solo apellido Guerrero (cf.
supra) y que él mismo firmaba Guerrero.
Aunque no tienen un contenido idéntico aprovecha trozos del anterior libro
para completar este nuevo, v. g.: el de 1520 dice (en aiiij. vuelto) lo mismo que el
de 1530 (en 10v. aii. vuelto) glosando las letras “de las armas del Emperador que
dize Plus Ultra”. Y hay suficientes pasajes, que nos hacen deducir, que es del mismo autor. E incluso los recursos literarios son idénticos: “no miras que soy la fama
pregonera deste vuestro nuevo emperador” (1530 fol. 3 = iii y 1520 aiij).
La diferencia. entre la de 1520 (tendría unos dieciocho años) que decía: “por
el licenciado Alfonso Albares (sic) Guerrero” y en la de 1530 que dice: “por el
doctor Alfonso Guerrero”, es explicable por los diez años de diferencia que hay
entre las dos obras. Teniendo el mismo nombre, no olvidemos lo dicho sobre la
pérdida del apellido Álvarez, y habiendo coincidencias intrínsecas tales que vemos
una auténtica similitud, podemos concluir que son del mismo autor las dos obras,
escritas con idéntica finalidad, ensalzar la vida y las gestas del emperador Carlos.
Debemos destacar que al no citar estas obras en su libro De Bello Iusto e Iniusto,
nos hace poner en cautela y no afirmar rotundamente la identidad de este autor con
el nuestro. Sin embargo, no habiendo argumentos en contra, podemos afirmar que
255
es el mismo autor del Tractado, que también se editó en Valencia, coinciden apellidos (excepto la grafía del primer apellido Alvares, Albares, Álvarez) coincide en
estudios: jurista en 1520, doctor en 1530, Doctor Guerrero (Tractado) en 1536 y
Doctor Alphonso Alvares Guerrero (De Administratione) en el 1536 y Alphonsus
Guerreius Hispanus in utroque iure doctor en 1543. No creemos, pues, que haya
dificultad alguna en aceptar que es la misma persona.
Al final de la obra Palacio de la Fama habla de los males de la cristiandad,
destacando la avaricia, la necesidad de Concilio y de Reforma; temas de todos
ellos que, siendo los de la época, los destaca como lo veremos más ampliamente
en sus escritos posteriores, donde reitera esta afirmación. Sobre la corrupción dice
“También la costumbre nefanda viciosa / feneza gran cesar do quier quella nasce /
y aquellos que siguen el acto canasce / y los de la vida total criminosa / y vuestra
potencia Real Valerosa / reforme monarcha ya la crerezia / pues si tomase a la tierra
el Mexia / le venderian por mas poca cosa / (fol. 106v.). E insiste en la raiz de los
males: porque la falsa dañosa avaricia / raiz evidente de todos los males / esta tan
raigada en las gentes mortales / que causa en la Iglesia muy gran simonia / y los
beneficios con esta agonía / se muestran venales en todo mercado” (fol. 107).
Estas mismas ideas las vemos en el Tractado de 1536; así en el fol. 52 dice:
“el avaricia rayz de todos los males … a cuya causa la religión y estado ecclesiástico es venido en vilipendio”, y en vez de avaricia dice codicia en el fol. 53 “la cobdicia es la rayz de todos los males” y podemos verlo en todo el trabajo (cf. fol. 38,
48, 60) lo mismo que su consecuencia, la venta de lo sagrado (cf. fol. 52 y 53). Al
igual dice en el Palacio (fol. 106v.) “mandeis que goviernen iustos y sabios», en el
Tractado (fol. 60) «proveyessen a persona digna y letrada”.
Ahora, lo que creemos importantísimo para identificar al autor, son estos versos que son el resumen de su tratado sobre el Concilio y Reforma de la Iglesia: “Y
es imposible que cese el gran mal / del intrincado Sophista Lutherio / sino congregada por santo misterio / la sinoda santa ques don divinal / y es remedio que doy
general / en la clerezia reformación / y esta primera y final conclusión / sin duda se
tenga por muy principal”.
Un estudio más detallado, que supera la pretensión de esta introducción, podría ratificar más rotundamente nuestra afirmación. Sin embargo, creemos suficientes los datos aquí reseñados, dejando para más adelante el análisis del contenido
de la obra.
1.4.5. De Visitatione
Esta obra es citada por Nicolás Antonio, como de nuestro autor. Poniéndola
interrogativamente, en relación con el De Administratione, dice: “De Administratione Iustitia opus aliud suum laudat ipse in Thesauro, cap. 36, n. 7. An idem est,
qui De Visitatione nescio quid conscripsit anno 1545, in 4°”88. En realidad existe,
N. Antonio, Bibliotheca Hispanica nova, op. cit., p. 7.
88 256
como ya citamos, un libro in 4° (hoy folio), pero editado en 1536, que es el De
Administratione. Otra obra no hemos encontrado.
1.4.6. Falsas atribuciones
Las obras que cita Hoefer89 no pueden ser de nuestro autor. “Festas que se fizeram na entrada de Filipos I em Lisboa, 1581” pertenece a Affonso Guerreiro, éste
sí nació en Almodóvar y fue prior de S. Cristóbal en Lisboa, que murió en 1581 y
que pudo vivir la entrada que fue en 1581, fecha en la que ya había muerto nuestro
autor90. Da Silva91 lo atribuye a este autor. Las otras dos obras que cita Hoefer no
las hemos podido consultar. De todas formas, debemos decir que cuando Hoefer
cita Summario da Bibliotheca Luzitana equivoca el autor, ya que el nuestro está en
la p. 11 no en la 15, del primer tomo.
2. El Tractado de modo y orden de celebrar el Concilio
Conocer las circunstancias que han hecho surgir este documento puede darnos luz sobre las razones de esta obra, que ahora estudiamos.
2.1. Marco histórico
2.1.1. Avatares de una convocatoria
Con las dificultades, que nos habla la historia, el Concilio Lateranense V con
sus dos etapas la del papa Julio II (1512-117) y la de León X (1513-1517) había
terminado con intentos de reforma. Pero no fue suficiente lo propuesto para encontrar el entendimiento y la solución para una reforma que realmente consiguiese sus
fines. Las tensiones continuaron con toda su virulencia en toda la Iglesia, se había
comenzado algunas reformas pero no eran suficientes, y así lo percibían no solamente los grandes personajes del tiempo, sino que el mismo pueblo lo consideraba
necesario. En Alemania surge un movimiento a los pocos años de terminarse el
Concilio que sería decisivo para la Iglesia occidental92. Como la reforma debía ser,
J. C. F. Hoefer, Nouvelle Biographie Générale, op. cit., t. 28, p. 454-455.
Cf. supra: 1.3.1.
91 Da Silva, Diccionario bibliographico portuguez, op. cit., t. I, p. 8-9.
92 León X, sin embargo, no se dio cuenta de la importancia y trascendencia que tenían las
95 tesis fijadas a las puertas del castillo de Wittenberg, por un religioso Agustino: Martín Lutero,
tal vez pensó que podría ser una de tantas discusiones universitarias, que fácilmente se podría
solucionar. El 15 de junio de 1520 publicó una bula, Exurge Domine, en la que condenaba 41
proposiciones de las 95 publicadas. El 31 de enero de 1521 condenó a Lutero por no aceptar las
retractaciones pedidas (en vez de retractarse Lutero quemó públicamente la bula, el libro de derecho
de la Iglesia y otros libros de sus adversarios). Había comenzado la ruptura de la Iglesia occidental.
89 90 257
no solamente en la “cabeza” (papa y curia) sino también en “sus miembros” (todos
los fieles en general), el Concilio era considerado como la forma más idónea para
realizarla. Se señalaba como la más alta instancia (junto con el papa), el más alto
tribunal, que podía dirimir estas cuestiones e imponer un criterio de vida acorde
con la voluntad del Fundador. Si el Late­rano V hubiere realizado las expectativas
de reforma, tal vez, se hubieran seguido otros derroteros por la envejecida Europa.
Ya el 25 de noviembre de 1518 Lutero hace una llamada al futuro Concilio93.
Volvía de esta forma a la antigua apelación al Concilio como medio de reforma94.
Esta pretensión, de que con un Concilio se podría encontrar solución a los problemas de la Iglesia, debía tener una trabajosa y compleja evolución a través de los
años sucesivos.
Lutero en la Disputa de Leipzig (julio 1519) afirma que el “concilio es falible”. En el año siguiente (1520) en el Manifiesto a la nobleza cristiana de Alemania
habla de “concilio libre”. Es decir, no sólo el papa puede convocar concilio, son
todos los cristianos los que lo pueden hacer, porque todos son libres. La dificultad
estribaba en quién era la autoridad que debía convocarlo (como así lo expresaba
el derecho de la época, para decir quién tenía poder de hacerlo). Si se hubiera afirmado, frente al papa el emperador – el primero de la comunidad – los problemas
hubieran sido de otro género; pero la apelación al concilio estaba unida a un deseo
de una concepción nueva de Estado, donde el emperador iba perdiendo protagonismo, y en consecuencia era esta afirmación genérica y no portadora de modelo de
solución. Y surge la triple petición, que irá reiterándose: no convocado por el papa
(libre), en territorio alemán (con alemanes) y laicos con derecho a voto95. Lutero
usará esta pretensión “nacionalista y laical”, afirmará Cristiani, como arma contra
Roma. Con ella se pretende romper el derecho multisecular de la Iglesia, en donde
se afirmaba que el papa era el primero de la comunidad y debía convocar y presidir,
él y sus delegados, lo que a toda ella se refiriera; y por otra parte, la jurisdicción en
la Iglesia sólo la podían ostentar los que habían sido ordenados, no era función de
los laicos96.
La ruptura, incluso física con el derecho antiguo (fue uno de los libros quemados en su “protesta”) la unirá con la vuelta a “la pureza del evangelio”. En estos
años Lutero publica la mayoría de sus escritos fundamentales de reforma. Por desgracia, en vez de vivificar a la Iglesia la dividirá; será el gran cisma de Occidente.
Cf. L. Cristiani, Trento, op. cit., aquí p. 9.
Sobre la historia de los concilios, cf. la obra dirigida por Walter Brandmüller,
Konziliengeschichte, Schöningh, Paderborn, Reihe A: Darstellungen, Reihe B: Untersuchungen.
95 Cf. la raíces doctrinales en L. Cristiani, Trento, op. cit., p. 27, nota 2a. En la obra editada
de Álvarez encontraremos respuesta y valoración de estas pretensiones.
96 Los estudios del prof J. L. Illanes son de interés, vésase su síntesis en: Laicado y
Sacerdocio, EUNSA, Pamplona 2000.
93 94 258
2.1.2. Como hacer la reforma
Las tres soluciones que se daba al modo y razones para realizar la reforma
eran: A. No al Concilio. Ésta posición era defendida principalmente por la curia97.
Las razones que se esgrimían: Ya había habido un concilio hacía poco tiempo,
bastaba con reformar la curia y algunos otros asuntos concretos. B. Se debe hacer
concilio. El gran defensor de esta propuesta era el elector de Sajonia, y las razones
más importantes que esgrimían sus partidarios eran: Había que escuchar al reo antes de ser condenado, y, como era alemán, debía hacerlo la Iglesia alemana. C. El
Concilio debía ser general. Esta es la teoría que defenderá el autor que estudiamos.
Y con diversos matices la del emperador. Las razones más importantes eran: Porque afectaba a toda la Iglesia y quien debe convocar y presidir era el principal en la
Iglesia (Papa)98. Y, además, había sido la forma más frecuente de hacer la reforma
en la Iglesia.
2.1.3. Los papas ante el Concilio y los problemas de este tiempo
Adriano VI (1522-1523) pone como fecha para celebrar el Concilio en 1524.
Su actitud hace surgir una esperanza de reforma por medio del concilio. Se proponen como elementos de reforma más importantes: Que la Curia respetase los
Concordatos, la de dar satisfacción a la nación alemana, al igual que dar derecho
de voto a los laicos. La Dieta teniendo en cuenta la forma de proceder la Iglesia, no
acepta la última propuesta. Todos estos aires de auténtica reforma se deshacen con
la muerte del papa en 1523. El nuevo papa Clemente VII (1523-1534) prefiere más
la solución política que la conciliar99.
Entre 1520-1530 ocurren algunos hechos, además de los generales especialmente los de la reforma protestante. En 1520 Condena oficial de Lutero con la bula
Exsurge Domine de León X y en 1521 con la bula Decet Romanum Pontificem
excomulga a Lutero. Desde 1520 se extendió en la Iglesia la necesidad de un Concilio; los dos problemas que siempre surgían eran: el conciliarismo100 y el ataque
a la Curia romana. El protestantismo adquirió sus características definitivas101. En
1522 bajo la influencia de Lutero U. Zwinglio (1484-1531) hace la reforma en
97 Como veremos también algunos papas fueron partidarios de no hacer Concilio o buscaron
otro tipo de soluciones, razones de todo tipo influyeron en esa decisión.
98 Por una excelente recensión sobre el estudio de estas ideas en la historia y el derecho, cf.
Agostino Marchetto, Chiesa e Papato nella storia en el diritto. 25 anni di studi critici, Libreria
Editrice Vaticana, Ciudad del Vaticano 2002.
99 Según Carlos V en sus Memorias “tenía horror Clemente VII” al concilio. H. Jedin,
Historia del Concilio de Trento, op. cit., t. I, p. 386.
100 Un buen resumen y estudio sobre el Concilio y Reforma (desde Basilea al concilio V de
Letrán) lo encontramos en H. Jedin, Historia del Concilio de Trento, op. cit., t. 1, p. 3-31. Este
trabajo es imprescindible para el conocimiento de esta época de Trento.
101 H. Chadwick, G. R. Evans, Atlas de la Iglesia cristiana: veinte siglos de historia, Folio,
Barcelona 1990, p. 92-102).
259
Zurich; en Ginebra J. Calvino (1509-1564) crea otro centro de reforma. En 1523
comienza el movimiento anabaptista. En 1524 es la revuelta campesina en Alemania, en 1525 fue aplastada, matando a sus cabecillas. (Lutero escribe – Contra las
hordas de campesinos asesinos ladrones – “no puede haber nada más pernicioso
que una rebelión”102). En 1525 el rey francés Francisco I pierde la batalla de Pavía
y es hecho prisionero (uno de los lugares donde estuvo encarcelado fue el castillo
de Benisanó [Valencia]). Zwinglio escribe: De vera et falsa religione. En 1527
sucede el saqueo de Roma103. En 1530 el emperador propone que el concilio se
celebrase en Trento, territorio considerado alemán, a fin de acallar a los príncipes
alemanes que querían celebrarlo en su territorio104. El 22 de marzo de ese mismo
año consigue el emperador promesa del papa de que haya concilio. Sin embargo, la
dieta de Augsburgo, agosto 1530, y la Confessio augustana protestante, escrita por
Melanchthon, sirve de excusa a algunos que dicen: ¿para qué queremos el concilio
si los protestantes no aceptan los anteriores?105. El 15 de julio de 1530 los protestantes manifiestan no querer al emperador como mediador, sólo aceptan el concilio.
A la petición del emperador a su carta de 14 de julio, con referencia a las conversaciones de Bolonia, Clemente VII, el 31 de julio, responde sobre una convocatoria del concilio general y dice un “sí tan ‘encapsulado’ [críptico] que equivalía
a un no”106. El emperador estimaba no quedarle más alternativa para solucionar de
este gran problema, (que no era solamente religiosa sino, además, político) si fallaban las negociaciones o el concilio, el de las armas. Pero, para que fuera el concilio,
debería ser aceptado por todos como remedio para solucionar los problemas. Sin
embargo, al entremezclarse con la política, con la restitución de sedes episcopales,
de bienes de la Iglesia, de la dependencia o no del emperador se hizo muy difícil el
Ibid., p. 98.
Duró ocho días, murieron unos 4.000 habitantes, el resto abandonó la ciudad. Alfonso
Álvarez Guerrero es testigo, como hemos indicado supra, del saqueo y hace una reflexión sobre
las razones de este desastre. Describe y comenta el saco en el Palacio de la fama en los fólios
80v.‑ 86v.: “pero del Papa yo me maravillo / también de la turba de sus Cardenales / los quales
son causa de tantos males / que aquestos temiendo se van al Castillo [Sant’Angelo]” (fol. 84v.);
“y a Roma le dieron un crudo maltrato / y ellos destruyen en poco rato / toda la pompa de
aquel mal bivir” (fol. 85v.). Y habla de los excesos que se cometieron: “Y si se excedieron …
nadie los tome por tan criminales / si de los contrarios mirais la intención” (fol. 85v.), pero da
una visión distinta de lo que algunos cuentan: “Pero yo digo que tanto de mal / como publican
ni tanta de menguas / no cometieron: mas mil malas lenguas / sabed o lectores que dizen tal /
tambien la iusticia derecha e igual / es imposible en tiempo aziago” (ibid.). Todo esto ocurre
como dice él: “Eran en el año de mil mas siete / también ya quinientos y veinte pasados” (fol. 86);
cf. E. Iserloh, La reforma protestante impulsada por los príncipes alemanes, in H. Jedin (ed.),
Manual de Historia de la Iglesia, Herder, Barcelona 1972, t. V, p. 346-347.
104 Antes (1525) ya se había señalado Trento como sede idónea, cf. L. Cristiani, Trento,
op. cit., p. 30, nota 39. Debemos recordar que este año fue el de la coronación (consagración)
imperial en Bolonia (1530) por Clemente VII. Sobre la coronación, cf. Palacio de la fama, fol. 102.
105 Cf. L. Cristiani, Trento, op. cit., p. 20-21.
106 E. Iserloh, La reforma protestante, op. cit., t. V, p. 374.
102 103 260
camino que llevaba al concilio. La “protesta” que al principio era una discusión teológica y, a la vez, de reforma de costumbres y abusos (especialmente los gravamina), termina siendo una auténtica lucha nacional. La Dieta de Spira de 1526 y 1529,
entre otros hechos, y el progreso protestante, con la paulatina adhesión de príncipes
a la misma, van a crear un clima tan enrarecido que impedirán la concordia. Felipe
de Hesse en 1524 se adhiere a la reforma; Federico el Sabio (1525) lo hace también
en su lecho de muerte; la alianza de Gotha-Torgau de 1526 (se unen a la reforma
la ciudad de Magdeburgo, los príncipes Ernesto y Francisco de Brunswick-Lüneburgo; Enrique de Meckelenburgo, Felipe de Brunswick-Grubenhaben; Wolfgang
de Anhalt, Alberto de Mansfeld, Alberto de Prusia)107. Todo ello hace derivar la
reforma religiosa hacia cambios en la vida y sociedad civil. La politización del
problema religioso estaba completada. El tiempo lo agudizaría todavía más si cabe.
El 27 de febrero de 1531 surge la liga de Esmalcalda para seis años (uno de las
dificultades que querían evitar era la vuelta a sus sedes de los obispos depuestos por
ellos, y lo que conllevaba, la devolución de patrimonio eclesiástico). El emperador
da el 15 de abril de 1531 como plazo para que se arrepientan los protestantes. A fin
de restablecer su autoridad108 y la paz109, el dilema para el emperador, era la guerra
o el concilio. Las negociaciones parecían ser un fracaso.
El 16 de febrero de 1531 la Liga de Esmalcalda envía una carta a los príncipes
de Inglaterra y Francia en favor de un “concilio libre, piadoso y en Alemania”110.
El 28 de noviembre de 1531 el Consistorio (de cardenales) dice sí al Concilio pero
que lo decida el papa. El papa rechaza la nulidad del matrimonio de Enrique VIII
con Catalina de Aragón (en 1524 pidió el divorcio); el rey rompe con Roma (15331534); es el cisma inglés: obliga al clero a reconocerlo como jefe supremo y único
de la Iglesia de Inglaterra (acto de supremacía, 3 de noviembre de 1534). El papa
Clemente VII no fue testigo de la ruptura definitiva porque murió el 25 de septiembre de 1534111.
Cf. ibid., p. 307-442, véase especialmente: La politización del movimiento reformista,
p. 378-397, y, también, La reforma protestante impulsada por los príncipes alemanes, p. 307424. J. Lortz, Historia de la Iglesia, Cristiandad, Madrid 1982, especialmente p. 115-121: Las
reforma y los príncipes alemanes.
108 ¿Qué autoridad? ¿La del imperio medieval (unidad jurídica) o la nueva concepción
moderna de estado? Éste es el momento clave del cambio y ruptura, definitiva con el tiempo, de
la concepción del medievo. Cf. Orio Giacchi, Lo Stato laico, Vita e pensiero, Milán 1975 (1978
reedición); Pietro Bellini, Respublica sub Deo. Il primato del Sacro nella esperienza giuridica
della Europa preumanistica, Le Monnier, Florencia 1981.
109 La presión turca en centro Europa, posesiones de la propia casa de Habsburgo, y en el
mediterráneo la política del rey francés, le hacían muy necesaria la paz en los territorios alemanes.
Con esta necesidad del emperador jugaron tanto el rey francés Francisco I como el papa. Como
ve esta situación nuestro Alfonso Álvarez Guerrero, véase el cap. 15 de la edición del Tractado
de 1537. Además de las historias citadas, véase también Ulrich Eisenhardt, Die kaiserlichen
Privilegia ‘de non apellando’, Böhlau Verlag, Colonia y Viena 1980.
110 L. Cristiani, Trento, op. cit., p. 22 y 30, nota 52.
111 La historia ha sido muy dura con este papa: “‘sin duda fue el más funesto de los papas
107 261
La llegada al papado de Pablo III (1534-1549), según afirma Pastor, es un
“momento crucial de la historia de la Iglesia”112. Ya el 17 de octubre de 1534 proclama la necesidad del concilio y el día de su coronación, 13 de noviembre, insiste sobre el tema113. El Consistorio del 14 de enero de 1535 la mayoría de los
cardenales van contra el concilio. El papa, sin embargo, tiene la firme voluntad de
convocar concilio y así lo hace saber, señala como sede Mantua, que es aceptado
por el emperador. La respuesta de Lutero, con la liga de Esmalcalda, dice sí pero
para condenar al papa, e insisten en el “concilio libre” (es decir, no convocado, ni
presidido por el papa o sus delegados)114. El 29 de mayo de 1536 convoca el concilio, para el 2 de junio de 1536, fijándose, posteriormente, para mayo de 1537. El
papa empieza la reforma de la Curia115. El duque de Mantua, sede designada para
el concilio, a fin de asegurar la paz durante su celebración exige un ejército (1.500
hombres). No se consideró procedente; en consecuencia, se desestima la sede. Se
aplaza al 1 de marzo de 1537 esta vez en Vicenza. Nuevo aplazamiento para el 1 de
mayo de 1538 en la misma sede. Nuevas dificultades y la poca asistencia (el 12 de
mayo 5 obispos), hace que el concilio se aplace: “el papa tiene razones para creer
que se celebraría en Vicenza, durante el año de 1539”116. Después de tantas prórrogas se decide la suspensión el 21 de marzo de 1539.
La política de diálogo de las dos partes contendientes parecía que excluía la
celebración del Concilio. El papa y sus legados protestan y el concilio, primero,
se aplaza y, después, se suspende. La discusión se enardece y no hay árbitro de la
misma: se rechaza al emperador y no se tiene el concilio, dentro de las perspectivas, como solución. Los resultados son escasos “el libro de Ratisbona”117 y la
que se hayan sentado jamás en la silla de san Pedro’ (Ranke). Funesto sobre todo, porque no dio
ningún paso decisivo par la renovación de la Iglesia, ni quiso el concilio, que ya debía haberse
celebrado mucho antes, y pensó que la unidad de la Iglesia podía asegurar por medios políticos y
una hábil diplomacia” (H. Jedin, Historia del Concilio de Trento, op. cit., t. I, p. 348).
112 L. Pastor, Geschichte der Päpste, Herder, Friburgo 1928, 12ª ed., t. V.
113 La opinión que tiene el emperador sobre la actitud de este papa sobre el concilio, cf.
P. Leturia, Paolo III e il concilio di Trento nelle “Memorie” di Carlo V, in Civiltà Cattolica 97
(1946) p. 12-23.
114 Cf. L. Cristiani, Trento, op. cit., p. 38.
115 Cf. H. Jedin, Historia del Concilio de Trento, op. cit., t. V, p. 473 sqq. y 497.
116 L. Cristiani, Trento, op. cit., p. 40. En relación a las diversas dificultades sobre estas
convocatorias fallidas dice H. Jedin, Historia del Concilio de Trento, op. cit., t. I, p. 386: “La
apariencia o, por mejor decir, el hecho de la quíntuple dilación habla demasiado claro contra él
[Pablo III]. La chunga de los venecianos y la risa burlona de Francisco en Niza eran síntomas
de la profunda desconfianza sobre las últimas intenciones del papa. El emperador que, ya al
enviar a Held a Alemania (1536) no había ocultado sus dudas. Veía ahora en él el obstáculo
capital del concilio. Sobre esto poseemos testimonios irrebatibles”. Veremos en nuestro tratado el
estudio sobre si el mismo emperador podría convocar concilio (cf. cap. 3: En que se trata como al
emperador toca y compete solicitar con el papa que se celebre concilio general. Y como habiendo
negligencia en la Iglesia al emperador toca el derecho de hacer que se congrege concilio general.).
117 Cf. L. Cristiani, Trento, op. cit., p. 44-45; H. Jedin, Historia del Concilio de Trento,
op. cit., t. I, p. 431.
262
misma reunión queda en un rotundo fracaso. Están claras las posiciones doctrinales contradictorias: no sólo sobre la justificación, sino también sobre la eucaristía
y la penitencia eran problemas abiertos. ¿Quién debía dirimir la cuestión? ¿Las
partes en discordia? ¿Los príncipes, el emperador, el papa? Si el Concilio era el
único tribunal ¿asistirían los protestantes, los franceses y los ingleses? Se vuelve a
mezclar religión y política; la alianza protestante, por una parte, y la católica, por la
otra, favorecen esa letal mixtura. Las diferencias doctrinales arropadas por intereses políticos, como venimos diciendo, hicieron inevitable la ruptura en la Iglesia118.
El 29 de julio de 1541 la Dieta de Ratisbona termina con el compromiso de
que el Concilio se reúna en el transcurso de año y medio. Se añadió una cláusula,
protestada por el delegado papal Contarino, que señalaba que de no haber concilio
general habría nacional o dirimiría la cuestión la Dieta del Imperio119. A causa del
fracaso de Ratisbona y la reunión del papa y el emperador en Lucca (13-18 septiembre), se va desbloqueando el tema del concilio. Ahora se debate más bien el
lugar de su celebración, que su necesidad, que va siendo aceptada. El consistorio
del 22 de mayo de 1542 decide que el lugar sea Trento y la convocatoria para el 1
de noviembre. La bula de convocatoria de Trento no surtiría efecto hasta tres años
y medio después.
El 10 de julio de 1542 el rey de Francia declaraba la guerra a Carlos V. Ésta
y otras dificultades, que podrían aparecer como de protocolo, dilataron el Concilio.
Se crea la Congregación del Santo Oficio en Roma (1542). La reunión del emperador con el papa en Busseto (Italia) del 21‑ 26 de julio de 1543 despejó muchos
problemas. La victoria del emperador sobre Francia: paz de Crépy-en-Laonais de
7 de septiembre de 1544 (pero el rey francés estaba todavía en guerra con Inglaterra) allanó parte de los problemas para el comienzo del Concilio. La bula Laetare
Hierusalem revocaba la suspensión del concilio y fijaba su convocatoria para el 15
de marzo de 1545120.
La trabajosa convocatoria de este concilio, que hemos querido esbozar, es
uno de los más complejos momentos históricos de Europa. Las dificultades que encontramos no son solamente históricas, sino que se entremezcla aspectos jurídicos,
teológicos y, como hemos insistido, de “razón de Estado”, y, por si fuera poco, los
nacionalismos emergentes lo hace más complejo todo. Con este esquema, queremos enmarcar nuestro tratado que irá dando respuestas a los interrogantes (históricos, teológicos y, sobre todo, jurídicos), que planteaba la conveniencia-necesidad
(segunda parte del tratado) y la convocatoria del Concilio.
Cf. H. Jedin, Historia del Concilio de Trento, op. cit., t. I, p. 435 sqq.
Cf. L. Cristiani, Trento, op. cit., p. 42-45; H. Jedin, Historia del Concilio de Trento,
op. cit., t. I, p. 501-502. En este año (1541) perdía el emperador una de las joyas del patrimonio
familiar, el reino de Hungría, que fue anexionado por el imperio Otomano.
120 Cf. H. Jedin, Historia del Concilio de Trento, op. cit., t. I, p. 563-564.
118 119 263
2.1.4. Evolución del tema conciliar en el protestantismo
Como hemos visto, la convocatoria o no para solucionar la reforma de la
Iglesia en el protestantismo va desde una apelación al Concilio (a fin de reformar
la cabeza: papa y curia y en los miembros, al igual que sobre los gravamina de la
nación alemana) por parte de Lutero121, el 25 de noviembre de 1518, a pocos meses
de haberse terminado el V de Letrán, hasta un rechazo de los mismos, ya que “en
los concilios hubo errores”, pasando por la aceptación de los primeros concilios
como norma de convivencia122, y llegando hasta poner en duda su validez. Hasta el
extremo de quedarse sólo y únicamente en la Sagrada Escritura, lo hizo con toda su
virulencia Tomás Münzer (1490-1525) que murió torturado y decapitado, después
de capitanear la revuelta campesina.
Estas actitudes extremas daban a algunos123, en apariencia, motivos para preguntar: “¿para qué iba a servir el concilio desde el momento en que estaba claro como el día que los luteranos no comulgaban con los decretos de los concilios
anteriores?”124. Recordemos que en Leipzig, en la disputa con Juan Eck, Lutero negó
el primado del papa y la infalibilidad de los concilios (1519). Sin embargo, encontramos125 en carta de Lutero de 14 de julio de 1530 que ellos “sólo aceptan el concilio”
y no la mediación del emperador126. Se aferraron los protestantes al Concilio hasta la
paz de Núremberg el 2 de agosto de 1532, donde se les reconoce el status quo (que
todo se quede como en el estado actual) de los reformadores hasta el Concilio, a
convocar en seis meses, y se comprometían entre otras cosas a que no habría guerra.
Desde el momento en que consiguen la esperada paz y el reconocimiento de
su status quo, dan largas a la reunión conciliar para poder disfrutar y afianzarse
durante esa espera127. Pero “la situación cambió radicalmente cuando, el 2 de junio
de 1536, Pablo III convocó para mayo de 1537 un concilio general en Mantua”128.
La Junta de Esmalcalda rechaza completamente la asistencia al Concilio, 24 de
febrero, ya que ello supondría reconocer al papa como juez y aceptar su propia
condena129.
121 Para ver la opinión de Lutero al respecto cf. A. Fliche, V. Martin (ed.), Historia de la
Iglesia, op. cit., p. 49-50 y 54 (notas).
122 Cf. ibid.; C. Schönborn, Unidad de la fe, Edicep, Valencia 2001, libro de interés teológico
especialmente en lo referente a los símbola y su recepción por la Iglesia.
123 Cf. L. Cristiani, Trento, op. cit., p. 30, nota 46 y Concilium Tridentinum. Diariorum,
actorum, epistolarum, tractatuum nova colectio, Görres-Gesellschaft (ed.), Friburgo 1901 sqq.,
aquí el tomo IV (ed. S. Ehses), p. 42.
124 L. Cristiani, Trento, op. cit., p. 21.
125 Debemos recordar que entre 1517-1525 fue época de fuertes polémicas. En 1530 hay un
cierto acuerdo doctrinal, pero hay que extirpar los abusos. Pero posteriormente se vuelve a las
polémicas anteriores. Cf. H. Jedin, Historia del Concilio de Trento, op. cit., t. V, p. 375.
126 Ibid., p. 21.
127 Ibid., p. 23.
128 Ibid., p. 387 y 484.
129 Ibid., p. 389.
264
Melanchthon en Ratisbona (abril-mayo de 1541) negó la autoridad del Concilio en materia de fe.
2.2. Razones y contenido de la obra
La Iglesia a finales del siglo XV y principios del XVI, como hemos visto, está
en un momento álgido de tensiones internas; la situación era desoladora. La reforma pedida no solamente por los fieles en general, sino por los mismos santos y las
personas más ilustres, debería suponer un cambio radical en la forma de vivir de sus
miembros, especialmente el mundo clerical y religioso. No habían aparecido los
efectos que se podían esperar, o deberían haber surgido del Concilio V de Letrán.
2.2.1. Razones de esta obra
Las pretensiones de reforma, con o sin la convocatoria de concilio, como ante
hemos esbozado, tienen en este tratado un claro motivo130. Sin embargo, el autor ve
argumentos sobrados para exigir la convocatoria de un concilio, o, por lo menos,
reformar la vida de la Iglesia.
Sus libros, si consideramos su contenido, nos dan a entender un hombre que
estuvo al servicio del emperador ya que, como hemos indicado, no solamente se
las dedica las dos (o tres, según ya señalamos) primeras obras editadas en Valencia,
sino también por el contenido de las mismas. Tiene en cuenta toda problemática de
la época131, desde la ascendencia del emperador (Linea imperatorum) hasta el mal
de la Iglesia (él llama “sofista Lutero”). Ya en el Palacio de la fama (1530) ve la
celebración de un concilio (Sinoda santa) como el remedio para la reforma de la
clerecía132. Al igual habla del “saco de Roma” (1527), del que parece fue testigo.
130 La descripciones que hacen los historiadores de esta época son realmente duras, dice
L. Cristiani, Trento, op. cit., p. 50, “aquel mundo cerrado y obstinado de la Curia romana, que
vivía de los abusos y que no podía comprender que le afectase la reforma”, o J. Lortz, Historia
de la Iglesia, op. cit., t. II, p. 50: “Hacia finales de la Edad Media, la Iglesia se vio también
debilitada por una profunda división entre las pretensiones pontificias y la opinión predominante
de los canonistas”. En este ambiente aparece nuestro tratado, sintetizando y resumiendo ese
pensamiento.
131 Para conocer la teología española de su tiempo, sus preocupaciones y estudiosos, cf. M.
Andrés, La teología española en el siglo XVI, op. cit.; J. Belda Plans, La Escuela de Salamanca,
BAC, Madrid 2000, importante para conocer el movimiento renovador en la España del XVI,
con una selecta bibliografía; véase también F. Piñeros, Bibliografía de la Escuela de Salamanca,
Pamplona 1983 (editada en: Edición Catedral de Bogotá, Bogotá 1983): tesis doctoral dirigida
por J. Belda, es de gran interés para el conocimiento de la producción científica de la escuela de
Salamanca, es decir, de la situación de la teología en la escuela que más influyó en el Concilio
de Trento.
132 “Y es imposible que cese el gran mal / del intrincado Sophista Lutherio / sino congregada
por santo misterio / la sinoda santa ques don divinal / y es remedio que doy general / en la clerezia
reformación / y esta primera: y final conclusión / sin duda se tenga por muy principal” (fol. 107)
265
Afirma que fue mal provocado por sus propios pecados133.
El Tractado sobre el concilio (1536), que trataremos más extensamente, y el
De admistratione justitiae (1536), nos hablan de los problemas más acuciantes de
su época: la reforma y la administración de la justicia. Antes de la edición en latín
de su Tractado sobre el Concilio (esta vez editada en Nápoles 1545), escribe un
libro sobre De bello iusto e iniusto (1543), en el que estudia la diferencia de las
guerras: justas e injustas. Cuándo, cómo y quién las puede hacer etc.134. Era tema
de una actualidad rabiosa y continúa siéndolo en nuestros días.
Ya rota la convivencia entre la familia cristiana intenta definir los límites de
los dos poderes: civil y eclesiástico. Las numerosas ediciones de su obra muestran
el interés que suscitó en su tiempo (cf. supra).
y habla también de la reforma y cómo debe empezar: “Por tanto gran Cesar del mundo mayor /
Vuestros electos para dignidades / sean aprovados en todas bondades / y tales que teman de vos
el honor / y cumple monarcha del mundo señor / que se reforme el bivir tan profano / y es mal
exemplo del pueblo christiano / que crezcan los vicios sin rienda y temor” (fol. 108).
133 En el fol. 106 dice que el mal no está sólo en Italia, sino en todas partes. Y así como cayó
Roma antigua, “pues la rapiña de sus seguidores / a menos reduxo el Imperio Romano”, puede
caer éste, (Así lo percibe modernamente E. Iserloh, La reforma protestante, op. cit., p. 347: “El
saqueo de Roma fue el castigo de la Roma del Renacimiento”.). De ahí la purificación de todos
los males, también, por parte del emperador. Nos suena a lo que varios siglos después, decía Hugo
Rahner, Kirche und Staat im frühen Christentum, Kösel, Múnich 1961, cap. II, p. 95, respecto a
la época constantiniana: “La amalgama de pesantes consecuencias, de política y fe, el peligroso
argumento según el cual el Dios de los cristianos, si se honra de modo justo, bendecirá las armas
del imperio y manifestará su satisfacción con un éxito político. Así había pensado Constantino
con una ligereza casi todavía pagana: todas las victorias eran victorias del Dios cristiano”.
134 Cap. 1. Utrum hodie aliquod bellum possit dici licitun inter christianos; Cap. 2. Utrum
liceat bellantibus uti insidiis; Cap. 3. De revocatione belli (dice: libelli. El ejemplar de BNE:
R. 1323 lo tiene tachado con tinta); [manuscrito fol. 35 e impreso fol 22: De tregua] Cap. 4.
De diffidatione; Cap. 5. An Princeps possint componere invicem de dannis subditoru<m>eis
consultis; Cap. 6. Quando bellum iustum est capiuntur et spoliantur, et soplians dominus rei
fecit; Cap. 7. An liceat Principi christiano uti auxilio infideliun; Cap. 8. An iuste liceat catholico
Imperatori nostro indicere bellum publicum in ocurrenti calamitate contra Regem gallorum ius
sibi et iniustiam ministrando. El colofón de la obra dice: Pastor est diligendus: mercenarius
tolerandus: latro canendus. Finis // Laus Deo eiusque Genitrici. [El manuscrito vaticano añade:
Excusa omnia contenta in isto tractatu in civitate Neapolitana nonis ottobris Anno 1542].
Regnante invictissimo Romanorum cesare Carolo eius nominis quinto. Invidus aut taceat nostris
detractor honoris. Aut aliud melius (si sciat) edat opus. La obra termina en el manuscrito fol. 70v.
y en el impreso fol. 48. Visión actual sobre estos temas cf. Jorge Hevia Sierra, La injerencia
humanitaria en situaciones de crisis, Presentación de Prof. Dr. Guillermo León Escoba Herrán y
Rvdo. P. D. Miguel Castillejo Gorraiz, Prólogo de Dr. Federico Trillo-Figueroa Martínez-Conde,
Fundación Simón Bolivar, Bogota, 2002.
266
2.2.2. Contenido de la obra
2.2.2.1. Índice de las ediciones de 1536, 1537 y 1545
Editamos el índice de la obra de 1536, lo que añade la segunda edición de
1537 está entre paréntesis cuadrados, la edición de 1545 lo ponemos en su idioma
original latino. La edición de 1545 en latín añade siete capítulos más y hace algunas
correcciones y añadiduras a los otros:
- Proemio y capitulo primero del tractado: en que se contiene donde ouieron
origen los concilios generales.
- Capitulo segundo: en que se dize que el papa por tener la primera silla: es el
que tiene auctoridad para congregar concilio general.
- Capitulo tercero: en que se tracta como el emperador toca y compete solicitar con el papa que se celebre concilio general. y como auiendo negligencia
en la yglesia: al emperador toda el derecho de hazer que se congrege concilio general.
- Capitulo quarto: en el que se tracta quien son los que han de ser citados y llamados al concilio: y quien son los que tienen voto en el concilio para statuyr
y sentenciar.
- Capitulo quinto: en el que se trata de la forma de la citacion al concilio. y de
los que pueden parescer por procuradores. y de la pena delos que no parescen.
- Capitulo .vi. en que se tracta de como el poder y autoridad de la yglesia uniuersal. resta en los obedientes en venir a concilio.
- Capitulo séptimo: en que se tracta: como el papa regularmente es sobre el concilio: mas cuentanse algunos casos donde el Concilio es sobre el papa.
- Capitulo octauo como el concilio procedera en las causas ecclesiasticas sin se
recusado: y como no se dissoluera el concilio hasta auer hecho el effecto para
que fue congregado.
- Capitulo nono. De como el concilio ha de destruyr heregias: hazer que se guarden los decretos y canones de los concilios: porque de otra manera se decolora
el estado eclesiastico.
- Capitulo decimo. como el papa no ha de dispensar sin preceder causa.
- Capitulo onze: que los clerigos residan en sus beneficios.
- Capitulo doze: en que se dize que el papa no apropie para el los despojos y
bienes que quedan de los obispos que mueren: ni menos apropie los fructos y
rentas del obispado: sede vacante.
- Capitulo treze: en que se trata de algunas cosas que se hazen en roma muy
injustas.
- Capitulo catorze: en que se dize que es cosa justa que el pontifice anulle las
ex­emptiones. y que no las conceda mas.
- [cap. 14. De aliquibus abusibus: qui in religione christiana versantur
(fol. 47-49v.)].
- cap. 15. Ubi dicitur: quod equum est: ut pontifex annullet exenptiones:
easque amplius non concedat (49v.-52). [Este capítulo es el 14 de 1536:
267
Capitulo catorze. en que se dize que es cosa justa que el pontifice anulle
las exemptiones. y que no las conceda mas.]
- [Capitulo quinze: en que se tracta como es cosa iusta y sancta: que veniendo
exercitos de infieles contra la Christiandad: el Papa amoneste y mande a los
Reyes y Principes christianos: que se Iunten con el Emperador como con
cabeca de los principes, para hazer resistencia: y que es nesecsario que el
Papa gaste en la dicha defensa: todo el thesoro de la yglesia, y dizese mas
de donde ouo origen la auctoridad y poderio del ceptro sagrado del imperio.
(Este capítulo es nuevo en la edición de 1537).]
- cap. 16. In quo tractatur: quod ecclesia est una et catholica dicenda: et
apostolica (52v.-54).
- cap. 17. Quod talis ordo sit et esse debeat in ecclesia: ut unus sic rector:
princeps: et gobernator: quod multiplici ratione colligatur (54-56).
- cap. 18. Quod solus Romanus Pontifex in Ecclesia Dei habet plenitudinem potestatis (57-60).
- cap. 19. De remediis contra papam: si moribus suis pravis scandalizaverit ecclesiam (60-63).
- cap. 20. In quo tractatur: quod ad evitandum scandalum christianitatis
ortum et culpa pontificis: papa potest compelli cedere et nolens cedere
potest deponi ad concilio generali (63-65v.).
- cap. 21. De excessibus: quos faciunt episcopi in suis diocesibus: et ne
ordinent homines ydiotas (65v-68). [(Como el 15 de 1536 y el 16 de la
de 1537 que tiene el mismo título) Capítulo final. De los agrauios que los
obispos hazen en sus ciudades y diocesis de 1536.]
El estudio que nuestro autor hace sobre el Concilio, y los abusos que hay que reformar, es desconocido por los estudiosos actuales y la mayoría ni lo citan. Unos, por no
tener una biografía fiable, otros por la rareza del original, que les ha impedido valorar
su contenido, al no poder tener entre sus manos la obra. Incluso los que han trabajado
sobre la teología española, tal vez por considerarlo portugués135, no lo tratan, y si lo hacen, siempre citándolo simplemente, y algunos confundiéndolo con Pedro Guerrero136.
135 Como hemos visto, lo consideran así sin haber prueba documental suficiente, antes al
contrario todos los argumentos históricos que poseemos y hemos estudiado, van a favor de ser
clérigo español. Sin embargo, no es tan importante la nacionalidad, como su influencia a través
del tiempo hasta llegar al papa Benedicto XIV. Cf. supra.
136 Cf. M. Andrés, La teología española del siglo XVI, op. cit., t. II, p. 404-407. Habla de
los tratadistas sobre los concilios (el primero que cita es el de Carranza de 1546, p. 404), o de la
tradición dice, p. 407: “Don Pedro Guerrero [claro error por: Alfonso Alvarez Guerrero] es autor
de una obra poco conocida: Tractado de la forma que se ha de tener en la celebración del general
concilio (Valencia 1536)”. Cf. supra.
268
2.2.2.2. Contenido de la obra de 1536
La obra137 ya indica su pretensión en su título: Tractado de la forma que se
ha de tener en la celebración del General Concilio: y acerca de la reformación de
la Iglesia: y donde ovieron los Concilios y quien tiene auctoridad para llamar al
concilio y que se ha de tratar en el concilio con otras muy notables cosas acerca de
la reformación de la Iglesia necesaria o en la portadilla que resume el contenido:
Acerca del modo y orden que se ha de tener en la celebración del general concilio. y
acerca de la reformación de la Iglesia.
Está, por tanto, dividida en dos partes la obra: La primera respecto a la celebración del Concilio: Quién convoca [cap. 3 y 4]; forma de citación, quiénes
han de ser citados, quórum necesario [cap. 5]; quién tiene voto [cap. 6]; cuál es la
máxima autoridad [cap. 6]; materias a tratar [cap. 8]; fines principales [cap. 9], y la
segunda respecto a la reforma de la Iglesia: No dispensar sin causa [cap. 10]; sobre
la residencia de los clérigos [cap. 11]; de los expolios [cap. 12]; de los abusos de
la curia romana[cap. 13]; de las exenciones [cap. 14]; de los abusos de los obispos
[cap. 15 final].
2.2.2.2.1. Primera parte
Después de afirmar la necesidad de los concilios entra en la ordenación del
mismo. Señala como han sido útiles (“para remediar convenían”) y que “por los
concilios generales se han de determinar las grandes cosas y arduos negocios”138 y
que “labor y escardillo es [el concilio] del campo del Señor”139.
Ya en 1530 decía que el Concilio era la manera de reformar la clerecía, ahora,
en este estudio que irá modificando pero reeditando en sus obras posteriores, desarrolla el tema, que era un punto candente de discusión en su tiempo140. Si, por ejem-
Cf. H. J. Sieben, tiene unos estudios fundamentales para el conocimiento histórico de
la idea de Concilio a través de la Historia. El más atinente a nuestro tema es: H. J. Sieben,
Traktate und Theorien zum Konzil, Knecht, Frankfurt a. M. 1983. Es éste un estudio sobre los
tratados sobre el concilio del tardío Medievo hasta Lutero, donde podemos ver la evolución de
la teoría conciliarista y la relación Concilio-Papa y los temas concomitantes. Véase también
sus otras dos obras: Id., Die Konzilsidee der alten Kirche, Schöningh, Paderborn 1979 y Id.,
Die Konzilsidee des lateinischen Mittelalters (847-1378), Schöningh, Paderborn 1984 (Los dos
en la colección: Konziliengeschichte, Reihe B. Untersuchungen). Véase la valoración de estas
obras en A. Marchetto, Chiesa e Papato nella storia e nel diritto, op. cit., aquí p. 159-172. (Hay
traducciones al español, inglés, francés y compendiado en ruso).
138 Tractado, op. cit., p. 2.
139 Tractado, op. cit., p. 4.
140 En 1534, después de haber escrito dos Relecciones sobre la potestad de la Iglesia (15321533), Francisco de Vitoria escribe una Relección sobre la potestad del Papa y del Concilo,
editado por Teófilo Urdanoz (ed.), Obras de Francisco de Vitoria: Relecciones teológicas, BAC,
Madrid 1960. Cf. J. Belda Plans, La Escuela de Salamanca, op. cit., p. 366-379, allí describe
el pensamiento eclesiológico de Vitoria, en especial sobre la potestad de la Iglesia y sobre la
137 269
plo Vitoria no pudo escribir su relección antes del 24 de marzo de 1534141, estamos
ante uno de los estudios pioneros sobre el tema en el siglo de Trento.
La reforma podía venir según el pensamiento de la época: desde el papa,
desde el emperador, o desde una reunión eclesial (sínodos o concilios: era lo que se
había realizado hasta ahora, como afirma el autor).
Motivo de la convocatoria142 – El autor señala la “gran necesidad de reformación de la Iglesia” (p. 5) y cuando hay que tratar de “cosas y arduos negocios” (p. 2)
se convocaron concilios, al igual que el emperador en las necesidades temporales
convoca la “curia imperial”. Así lo manifiestan los que escribieron los santos padres, “con tanta diligencia”, sobre los mismos.
Hace la historia de los primeros concilios: Así se eligieron los siete diáconos
para remediar a los Apóstoles. Al igual, “para remediar la herida de los fariseos”.
En el Nuevo Testamento se ve como cuando había que solucionar un problema
importante se convocaba asamblea. Como también se hizo en él la Vieja Ley (p. 2).
Cuando la Iglesia tuvo herejía, según el autor, fue cuando por las persecuciones no
hubo libertad para “reunirse y convenir en uno para hacer concilio general” (p. 3).
Los emperadores en los primeros tiempos de libertad de los cristianos, y de
los primeros concilios generales, “ampararon”, “congregaron”, “aseguraron y dieron autoridad”, fueron “abogados defensores” del mismo. El “general concilio”
siempre ha sido considerado, por que tratan de materias “santas y utilísimas para
remedio de la cristiandad” (p. 5), el instrumento para la “reformación de la religión
cristiana” y “salud para las almas”, por eso lo escritores más eximios han tratado el
tema con “tanta diligencia” (ibid.).
Autoridad para convocar143 – Para Alfonso Álvarez Guerrero es claro, y lo
trata en el capítulo 2: (A) Normalmente el papa; (B) cuando hay negligencia (debiendo convocar el concilio no se convoca): el emperador puede convocarlo144.
relación papa-concilio. Cf. M. Andrés, La teología española del siglo XVI, op. cit., t. II, p. 404405, afirma: “La convocatoria de Trento puso de actualidad el tema de los concilios”. Resultara
extraño que España, que entonces por su emperador, era Europa, hubiese descuidado un tema que
estaba tan discutido por la reforma.
141 Podemos datarlo por una cita interna: “se dice que en nuestro tiempo lo ha hecho el papa
Clemente VII”. Dispensa Enrique IV. Luego no pudo ser antes de este tiempo. La datación del
manuscrito del Patriarca (Valencia) de 1543 es una transposición de los dos últimos números, así
lo afirma Vicente Beltrán de Heredia, Los manuscritos del Maestro Fray Francisco de Vitoria,
Santo Domingo el Real, Madrid-Valencia 1928, p. 104 y 139-140.
142 Ponemos entre paréntesis las páginas del Tractado de 1536.
143 El llama congregar, que tenía un acento distinto en su tiempo.
144 M. Andrés, La teología española del siglo XVI, op. cit., t. II, p. 405, nota 52. Habla de
“la línea mitigada española (del conciliarismo)” y señala como propio de ella la convocación del
concilio por negligencia del papa en estos casos [veremos que con la lectura de este tratado se
enriquece el panorama]: “1) Si el papa cae en herejía. 2) Cuando hay varios romanos pontífices.
3) Si amenaza grave necesidad para extinguir herejías y el papa, después de avisado no quiere
convocarlo. 4) Cuando, muerto el papa, los cardenales no se ponen de acuerdo para la elección
del romano pontífice”. El autor en la edición de 1545 (como ya había añadido a la edición de
270
(A) Normalmente el papa – El papa debía convocar en razón de las materias
que debían ser tratada en el mismo: Herejías (para que resplandezca la fe, una y
verdadera, como dirá el autor) y reforma (en la cabeza y en los miembros: in capite
et in membris). Y así lo demuestra con argumentos históricos145 y jurídicos, empleando la metodología de su tiempo, por autoridades.
Hemos visto la evolución del pensamiento de los protagonistas, especialmente
en los reformadores y en lo que se refiere a la convocación o no de un concilio o
quién debe ser el sujeto activo y pasivo de la reformación.
Era necesaria la reforma (“la Iglesia siempre debe ser reformada”), en eso no
había duda, las partes implicadas y la Iglesia general sentía esa necesidad. El cómo
y el quién debía realizarla, presidirla o ejecutarla esa era la dificultad. ¿Cómo podía presidir y reformar el que había de ser reformado? Así se afirmaba de la Curia
romana y del mismo papa. El conciliarismo podría aparecer como la mejor teoría
para solucionar este problema (“la colectividad es más que el individuo”), pero
chocaba en la estructura multisecular de la Iglesia, ordenada por su Fundador, en
que claramente nunca podía existir concilio sin la presencia de la Primera sede146.
El papa convocaba o aceptaba, dirigía siempre y su aceptación era preceptiva: “el
concilio no se puede convocar sin el papa” (cap. 2).
Sin embargo, la no clara distinción de los elementos fundamentales no reformables por nadie, ya que eran voluntad del Fundador, y lo que podríamos decir los
1536) dice: “quod negligente papa: et cardinalibus Imperator tamquam ceteris maior: poterit
congregare concilium generale” (cap. 2, fol. 6). En el cap. III, fol. 7 afirmará del emperador:
“potest concilium congregare”. No habla del emperador sólo que podrá, sino que puede convocar
concilio si hay negligencia en el papa y los cardenales en hacerlo, habien gran necesidad o el bien
general de la Iglesia, esta idea la desarrollará más en sus escritos posteriores. Y sobre la autoridad
del concilio dice: “quia jura et concilium Constantiensi dant potestatem concilio in aliquibus
casibus super Papam” (fol. 11). Tres afirmaciones de nuestro autor nos puede dar a conocer su
opinión al respecto: El Concilio está sobre el papa en caso de herejía (del papa), cisma y reforma
de la Iglesia (cf. p. 23); la apelación al Concilio y no al Papa (cf. p. 15); sin embargo, el Papa es
juez en causa propia (cf. p. 26).
145 Como estudiábamos en otro lugar, en el siglo XVIII, Gregorio Mayans usaba también
la historia como argumento jurídico. Allí notábamos la importancia de la misma ya que la
costumbre forma parte del derecho y la historia entre otras cosas demuestra las costumbres,
en este caso eclesiásticas, y a la vez puede señalar que tipo de derecho se estaba usando. Cf. A.
Benlloch Poveda, Historia y derecho: La historia en el razonamiento jurídico de Gregorio Mayans
y Siscar (1699-1781), in A. Aberola, E. La Parra (ed.), La ilustración española, Instituto Juan GilAlbert, Alicante 1986, p. 333-349.
146 Vitoria decía, en la Relección sobre la Potestad del Papa y del Concilio, “puto utramque
esse probabilem”. Opinaba que las dos teorías de Santo Tomás y sus seguidores que decían que
el Papa era superior al Concilio; y, la otra, del Panormitano, la escuela de París y otros que el
Concilio era superior al Papa eran probables y no entró en la discusión. Veremos la solución
de nuestro autor que es muy matizada. Vitoria no quiso entrar en “la odiosa comparación entre
papa y concilio”. La potestad del concilio no viene porque representa a la Iglesia universal
(democracia) sino porque se acumula la autoridad de todos los que Cristo confirió poder en ella
(acumulación). Cf. J. Belda Plans, La Escuela de Salamanca, op. cit.
271
elementos que desarrollan, hic et nunc, esa obligación, no estaban bien matizados
en la teología de la época en algunos autores. Sería el Concilio Vaticano I el que
clarificaría con mayor precisión esa relación entre la autoridad del Papa y lo constitutivo de la Iglesia y la importancia del episcopado, fundamento de derecho divino
y base de la expresión colegial de su autoridad, matizado por el concilio Vaticano II
el que daría una mayor precisión a la solución de este problema. Sin embargo,
en este tiempo aunque hay elementos suficientemente claros, y bien desarrollados
teológicamente, para ver la solución, latía todavía el conciliarismo, aunque fuera
mitigado. La teología no había alcanzado sin polémica, lo que explícitamente se
llegará en los dos concilios del Vaticano147.
La autoridad del Papa en el Tractado – La concepción de Iglesia que se desprende en este Tractado no es la de una Iglesia democrática, en el sentido de que
su funcionamiento dependa de la voluntad del pueblo, sino institucional, es decir,
que los elementos básicos y fundamentales de sus creencias y ordenamiento no
nacen de la voluntad de sus miembros sino de la de su Fundador. En consecuencia la autoridad en la Iglesia no es de dominio, sino de servicio (dispensador, cf.
p. 35‑ 36), garantizar la unidad y la fidelidad al Fundador. Por eso cuando habla de
concilio se tiene en cuenta estas dos finalidades del mismo: (1) la extirpación de
la herejía (para evitar la ruptura con la verdad fundacional), destruir los cismas, y
(2) la reforma (para desarraigar la corrupción que en el transcurso del tiempo y el
cambio de las circunstancias pueden provocar en los mandatos, incluso divinos148,
castigar los excesos.
Afirma claramente la superioridad del papa: “El papa tiene plenísima potestad
en las cosas que son de derecho positivo” (p. 35). “Ningún cristiano es mayor que
el papa” (p. 7), y como veremos posteriormente es el que debe convocar (cap. 2
y 3), presidir (cap. 6), aprobar (p. 3) o revocar decretos aprobados en Concilio
[éste siempre con el papa; “el papa y el concilio dieron autoridad al emperador
para elegir papa… mas después el papa hizo decreto revocando el derecho de los
emperadores” (p. 5)].
El papa es el principio de la unidad en la Iglesia: “Dios edificó la Iglesia sobre
Pedro” “por manifestar unidad dispuso su autoridad que el origen de la unidad tuviese principio en uno”. Así le llama “cabeza principal de la fábrica” “el papa que
147 Dirá nuestro autor claramente en su libro de 1545, cap. 3, fol. 10: “et his quae pertinent ad
fidem et salutem ecclesiae universalis papa non potest contra concilium generale statuta facere”.
148 Este será un argumento que usará para poder tener base, en autoridad bíblica, para la
reforma de decretos incluso papales: Si Dios mandó hacer la serpiente para que viéndola sirviera
para la salvación del pueblo – mordido por ella. El rey Ezequías, también con la aprobación
de Dios “hizo lo que era bueno delante del Señor … hizo pedazos la serpiente de bronce que
había hecho Moisés, porque hasta aquel tiempo le quemaban incienso los hijos de Israel, y le
llamaban Nejustán”, la destruye, porque estaba sirviendo de corrupción al pueblo (cf. 2 Reyes
18, 3). Al igual decretos, mandatos etc. – incluso pontificios – deben ser reformados por que
con el transcurso del tiempo sirven no para la salvación sino de escándalo para el pueblo. Cf.
Tractado, op. cit., p 54.
272
es la cabeza”, “el ejemplo de la cabeza” (p. 10, 11, 30, 34, 46 y 59; cf. cap. 7). Al
igual cuando habla de la reforma “en la cabeza y en los miembros”, está hablando
del papa y los otros fieles cristianos (cf. p. 6, 7, 9, 23, 24). Como Pedro es principio de unidad (p. 59) en el Colegio Apostólico, así el papa, que representa a Pedro
(p. 23), es principio de unidad en la Iglesia. No está sobre la ley de Dios (p. 32)
ni sobre los decretos que fueron ordenados generalmente para perpetua utilidad y
“la primera salud es guardar rectamente la regla de fe” (ibid.). El pecado apartó a
Pedro, el arrepentimiento “hecha penitencia se quedó papa y apóstol” (p. 27). Al
igual si el papa cae en herejía pierde el papado. El concilio debe condenarle. Si se
arrepiente sólo podrían reponerlo los cardenales, porque el concilio es juez no elector (ibid.). Así lo dirá más claramente en las ediciones posteriores.
El papa puede derogar tanto la legislación humana, temporal o positiva (cf.
p. 31) como los decretos del concilio siempre que esto no pertenezca a la fe y estructura institucional de la Iglesia. El emperador y el papa no están sujetos a la ley
temporal (p. 28). Pero deben guardar la ley divina y los estatutos, al igual que lo
estatuido por los santos padres (p. 32)149. De una manera expresa habla de la supremacía del papa: “el mandato del papa aunque sea injusto se ha de guardar” (p. 22),
excepto si llevara a la “herejía” (ibid.) o provocase grandes males, en ese caso la
obediencia de ese tipo de mandatos sería pecado mortal. Al igual la encontramos,
también, en otro tipo de afirmaciones cuando dice: “las cosas del Papa se han de
remitir al juicio de Dios” (p. 25) y más adelante afirma “el papa es juez en su propia
causa” (p. 17 y cf. cap. 7). Sin embargo, al papa “no conviene destruir los estatutos
de sus antecesores” ya que tiene poder para construir no para destruir la Iglesia
(p. 58). “Todo está permitido pero no todo conviene” y si algo sirve de escándalo
no se debe hacer “para no escandalizar a mi hermano” (p. 59). Este es modelo que
Alfonso Álvarez pone para la actuación del Papa150.
La problemática, que no es sólo de este autor como hemos visto, será cuando
el mismo Papa comete abusos. Aquí es donde pone el Concilio como autoridad suprema en la iglesia. ¿Cómo podría remediar él los abusos en la Iglesia si él mismo
Papa los cometiese? Nunca este autor quita la autoridad al Papa. Si el Papa por su
comportamiento en vez de edificar destruye hay que poner el remedio, que en su
época era discutido por diversos motivos por unos y otros: unos los protestantes
para pedir la reforma, otros los católicos para hacerla dentro de la Iglesia, algunos
de los que cometían los abusos para seguir en su situación. Veremos las diversas
fórmulas que propone nuestro autor: la conciliar y la intervención del emperador
dentro de sus dominios. “No se puede convocar regularmente el concilio sin licen-
Lo dirá en la edición latina de 1545 con toda claridad: “quod papa non debet dispensare
contra statuta conciliorum sine causa: quia papa non est super legem Dei” (fol. 3).
150 Como vemos en este Tractado la escusa para no reformar por ser costumbre en la
Iglesia y así haberse prácticado anteriormente no es válida ya que viendo el mal que provoca (la
decolora) debe ser suprimido: ya que provoca error y superstición como se ve en 2 Reyes 18, 3.
Ya que puede ser para mal (pasados los tiempos) lo que surgió para bien (cf. p. 58). Este es el
criterio: si sirve consérvese, si no sirve suprímase (cf. p. 22).
149 273
cia y mandato del sumo pontífice o delegado suyo” (p. 7)151. El Papa es el principio
de la unidad o autoridad de la Iglesia, y en concilio uno de los objetivos es devolver
esta unidad: “destruye los cismas” (p. 4). Por eso el papa es claramente el moderador y presidente del mismo.
(B) Cuando hay negligencia (debiendo convocar el concilio no se convoca):
el emperador puede convocarlo – La dificultad mayor que se ponía para la convocatoria del concilio por el emperador era su condición de laico152, ya que la jurisdicción solamente podía darse a los ordenados. Sin embargo, el emperador, laico153,
podía convocar concilio según Álvarez Guerrero en algunos casos. Ante las dificultades que supone esta afirmación, los desarrolla un poco más en las ediciones del
1537 y 1545 (esta es la que usó Benedicto XIV). Afirma el derecho del emperador
a pedir, urgir la convocatoria de concilio por parte del papa ante una gran necesidad
del mismo (herejía, cisma, reforma de la Iglesia). Pero si no se hace caso lo puede
convocar el emperador por dos razones: (a) por ser el primero de la comunidad
cristiana: (autoridad); (b) porque los concilios y la historia de la Iglesia lo presenta
como abogado y defensor de la misma: (obligación). Y debe (o sólo debe) convocarlo en estas situaciones y teniendo en cuenta lo siguiente:
1. Por caer en herejía o cisma el mismo papa, y añade otra razón, cuando es
grande la necesidad de reforma en la Iglesia y el papa no quiere, porque él mismo
no quiera ser reformado, es decir, porque es “incorregible” (que es una especie de
herejía; cf. p. 11).
2. Si el Papa, no teniendo en cuenta la “urgente necesidad” o por haber caído
en herejía o cisma, dice no a la convocatoria. Entonces pueden los cardenales convocarlo154. Si estos no lo convocan, puede el emperador convocarlo. Volviendo al
antiguo derecho de los primeros concilios – “que son como los cuatro evangelios”
(cf. p. 3) – y esto, como hemos dicho antes, por ser el mayor de la comunidad, y
porque “revertitur ad ius pristinum” (edición de 1545, fol. 8).
Con gran rotundidad afirmará en el Tractado (cap. 2) y traducido y matizado en latín
(1545), “quod nemo potest convocare concilium nisi Papam. nam si congregatur concilium sine
licencia Pontificis: monstruosum esse: et contra naturam conciliorum: quia concilium habere
debet caput … unde si convocarent concilium sine licentia pape: essent scismatici … unitas
(autoridad en castellano) representatur in Papa” (cap. 2, fol. 6).
152 El enfoque del autor tiene su peculiaridad dice: “Petrus pecavit et ecclesia remansit in
sola Virgine” (en la edición de 1545, fol. 21, en la de 1559, p. 242) y afirma: “quia fides remanere
etiam apud simplicem laycum: et in omnibus alliis perire: sicut accidit in personam beate Marie
in passione Christi” (1545, fol. 21v.; 1559, ibid.)
153 La pretensión de que la unción imperial fuera sacramento tenía también su vertiente no
solo religiosa sino también política. Sobre las primeras implicaciones entre religión y política, cf.
Hugo Rahner, Kirche und Staat im frühen Christentum, op. cit.
154 Es interesante la clarificación sobre los cardenales y el Concilio. Dice: los cardenales
son electores pero no mayores al concilio. El concilio puede corregir, deponer, incluso al papa
(herejía y cisma) pero no elegir al papa, que pertenece a los cardenales. Cf. p. 27. Esto lo precisará
y ampliará en ediciones posteriores. Cf. H. Jedin, Historia del Concilio de Trento, op. cit., t. V,
p. 346.
151 274
3. Una afirmación rotunda ratifica su postura, pensando el concilio como tribunal que debe corregir los abusos y reponer los derechos: Quien no puede conseguir justicia por el superior, le es lícito por su propia autoridad recuperarla (ibid.).
4. Ante la dificultad canónica, por ser el emperador laico155, no puede actuar
en la jurisdicción eclesiástica, responde que por ser materia especial y en razón de
la necesidad puede ejercer este antiguo derecho; y argumenta que en la materia
feudal el clérigo está bajo el laico y, al igual, en la observación del cónclave156 el
príncipe puede sobre los laicos (cf. edición de 1536, p. 9).
Resumiendo – Cuando hay negligencia el emperador puede convocar concilio. Es clara esta posibilidad cuando el papa es hereje, cismático o incorregible
(p. 11) o apóstata (p. 18). La razón es porque no hay que obedecer al papa cuando
vienen daños a la Iglesia (cf. p. 12 y 15). Y, debe ser el emperador, cuando los responsables no lo hacen (papa o cardenales), porque el emperador es el primero de
la comunidad y, además, este derecho lo ha ejercido históricamente (se le devuelve
el derecho antiguo, cf. supra). El autor, aunque acepta esta especial intervención
a los legos (laicos o no consagrados), no por eso deja de distinguir claramente las
dos jurisdicciones: “ni el papa usurpará la jurisdicción temporal del emperador, ni
el emperador la espiritual del papa” (p. 15).
2.2.2.2.2. Reforma de la Iglesia
Los últimos capítulos (del 10 al 15) hablan de los males de la Iglesia su causa
y la necesidad de reforma que por ellos se debe practicar en la misma. Aunque la
distribución o enumeración del autor tiene una razón histórica (tiene en cuenta los
problemas de su tiempo) y jurídica (la concatenación de los hechos), vamos nosotros hacer una ordenación distinta, tal vez nos ayude a clarificar un poco más la
doctrina expuesta. Los males vienen: (A) De las dispensas: que son «una relajación
hecha del derecho común» (p. 35). Lo trata en el capítulo 10; (B) De las exenciones: o sea «derogación de la potestad de los obispos…» (p. 54). Son tratadas en capítulo 14; (C) Por la no residencia de los clérigos (no vivir en su beneficio). Lo trata
en el capítulo 11; (D) Por los abusos (de la curia de) Roma: (D1) Despojos: o sea,
adquisición por parte del papa de los bienes de los obispos muertos y de las rentas
155 Este tema lo desarrolla posteriormente. Afirma que solamente los laicos pueden participar
en el Concilio, con voto consultivo no “decisivo” (deliberativo), en estos tres casos: 1. Si son
citados. 2. Cuando se tratan cosas de fe. 3. Si se trata del matrimonio (fol. 15).
156 También el concilio le dio derecho de elegir al papa que le fue quitado: “El emperador
Carlo Magno, hijo de Pipino Archiduque de Austria antecesor de Vuestra Majestad, congregó
concilio general con el papa Adriano. Y allí intervinieron ciento cincuenta y cinco obispos. Allí el
Papa y concilio dieron autoridad al emperador para elegir Papa. Y de esto es decreto el. c. adrianus
segundo en orden [D LXIII, 2]. Mas después el Papa hizo decreto revocando el derecho que los
emperadores tenían de elegir pontifice” (Tractado, op. cit., p. 5). Dice en la edición de 1545:
“Imperator potest generare bellum in personam Pontificis (en caso de papa incorregible, herético
o cismático), multo fortius potest congregare concilium generale” (fol. 13).
275
del obispado mientras no hay nuevo obispo; lo trata en el capítulo 12; (D2) El (mal)
funcionamiento de la misma curia. Hay mucho abuso, con la excusa que siempre
se ha hecho así. Lo trata en el capítulo 13; (E) Por los abusos de los Obispos en sus
diócesis. Lo trata en el capítulo 15.
(A) De las dispensas – Uno de los males que destaca como causa de la corrupción dentro de la Iglesia es, según el Autor, la dispensa sin causa justa. Así
afirma con rotundidad: “el Papa fácilmente y sin causa dispensa” (p. 34). Hace un
pequeño tratado sobre la dispensa. Todo el capítulo décimo lo dedica a “como el
papa no ha de dispensar sin proceder causa”157. La dispensa tiene que ser “pensada”
y considerando muchas cosas. Hace un juego de palabras entre dispensar y pensar,
que le permite el castellano. No lo podrá hacer tan directamente en latín y allí
dirá: “et dispensare est diuersa pensare: nam multa debet dispensator considerare
pro iustificanda dispensatione”. Tiene presente la etimología de san Isidoro158 que
lo hace entre dispensar (administrar) y pesar (así se contaba el dinero). Hay que
sopesar bien lo que se hace159. Debe ser hecha siempre la dispensa por justa causa,
y ante Dios; no ve que sea concedida la dispensa sin ella: Será válida en el fuero
externo pero no en el interno, es decir, valdrá para la Iglesia militante pero no para
la triunfante. La dispensa no puede ser disipación de la utilidad pública. E incluso,
cuando habla de los beneficios que se necesita, para ejercerlos, la residencia, ve la
imposibilidad del cumplimiento de la ley, ya que al requerir residencia hace claramente imposible el cumplimiento: nadie puede estar en dos sitios distintos a la vez.
Es decir, no puede tener más beneficios que los que pueda atender, y, en consecuencia, serían inhábiles, es decir, serían incapaces de levantar las cargas en dos sitios ó
más distintos. Considera que se tienen más beneficios para tener más allá de la sustentación160. No aceptar más ganancias que las necesarias. Se debe vivir del altar,
pero no más de la comida y el vestido propio y de los sirvientes, estaría poniendo
en peligro incluso su propia salvación, “no estaría seguro con Dios” (p. 38). Todo
lo que supone boato, ostentación, despilfarro, lujo etc. es un robo de los bienes que
pertenecen a Dios. Lo dirá reiteradamente, sí que será lícito destinar lo que sobra a
la mejora del templo y de los pobres, que de ellos es lo que sobra161. Pero nunca al
enriquecimiento propio o de la familia.
Excursos sobre dueño, usufructuario, administrador – Hace un excursos sobre lo que él considera de gran interés: demostrar que los bienes de la Iglesia son
Insiste más adelante: “Tornando a la materia de la dispensación, digo que no ha de
dispensar el Papa sin causa justa” (p. 42).
158 Isidoro, Etimologias, X, 67: “Dispensator vocatur, cui creditur administratio pecuniarum.
Et ideo dispensator quia prius qui dabant pecuniam non numerabant eam, sed adpendebant”.
159 El so castellano viene en esta palabra de suus latino. Como se define en el diccionario
de la Real Academia. Sopesar: levantar una cosa como para tantear el peso que tiene o para
reconocerlo.
160 Lo dirá reiteradamente que la causa de la acumulación de beneficios es la ambición y
avaricia (p. 38).
161 Cf. p. 60-61.
157 276
administrados por usuarios (dispensadores), no usufructuarios y, por supuesto, no
pueden considerarse dueños de los mismos sino administradores (p. 40 sqq.). Esto
lo aplicará en todas las direcciones: tanto en la cabeza (papa) como en los miembros. No hacen los frutos suyos: por tanto, no podrá testar de los bienes que sean
de la Iglesia, sí de los suyos propios. La argumentación va por dos caminos: (a) la
administración; (b) la herencia. Afirmará que lo “superfluo”, es decir, lo que sobra
después de los gastos necesarios para el mantenimiento y conservación de la institución y de su poseedor, pertenece a los pobres. En consecuencia, ni puede hacerlos
suyos, ni si los acumula lo puede pasar a los herederos (cf. p. 41‑ 42, 48‑ 49). Como
hace la definición de lo necesario (comida y vestido), cuando habla de ayuda a sus
familiares, debe tan solo ser en lo necesario, es decir, en comida y vestido, sin que
esta ayuda suponga merma para los pobres; y consecuentemente de los bienes que
sobran nunca podrás ser usados ni para enriquecimiento propio ni de sus parientes.
Esto lo afirma tanto referido a los obispos (después hablará también del papa) como
de los clérigos inferiores. Los bienes de la Iglesia “no están en comercio de los
clérigos” (p. 40)162; tampoco pueden gastarlos, excepto a favor de la Iglesia y sus
necesidades, por tanto “no tienen (los clérigos) libre administración de los frutos
del beneficio” (p. 41) porque lo que tienen “es de los pobres”, esta idea la repite
constantemente en este apartado163. Será este capítulo el que más modificará en la
edición de 1537.
El papa, en consecuencia, no puede hacer suyas las rentas y herencia de los
obispos, ya que son de los pobres. Sería como matarles de hambre. Y abunda en
la argumentación: “el Papa tiene camerario: el cual recibe los bienes temporales que
pertenecen a la Sede Apostólica” en la muerte del papa no cesa quien tiene que ayudar a los pobres en su nombre, “este oficio no vaca por muerte del Papa. Y la razón
principal es: porque, Sede vacante, él tenga el cargo de sustentar los pobres [a fin de]
que no mueran de hambre” (p. 49). Si del dinero del Papa se hace de ese modo, igualmente debe hacerse de los bienes de los obispos difuntos. Y en este apartado habla
claramente de que no puede dedicarse a ningún tipo de limosna que la establecida
(dedicarlo a los pobres), ni tampoco para la edificación de iglesias, ni otra clase de
necesidades (cf. p. 50).
(B) De exenciones164 – Trata de la “derogación de la potestad de los obispos”
(p. 54). Se desvinculan personas o instituciones de la autoridad inmediata del obispo diocesano. Aunque el no niega la necesidad y la conveniencia de algunas de
estas exenciones las rechaza por ser causa de muchos males (no hay control, por
estar muy lejano el que puede o debe vigilar – Roma –, y lo que con ello conlleva) y
Este mismo principio sería recogido en el Reglamento de la Ley Hipotecaria española,
de clara raíz romanística, de no inscribir en el registro aquellos edificios dedicados al culto. Era
en fin de cuentas impedir la posibilidad de comerciar con ellos, por falta de inscripción; eran por
tanto bienes que estaban fuera del comercio. A la vez estos bienes eran inembargables, porque no
se podía ejercer acto sobre ellos al no estar inscrito por imposición de ley.
163 Cf. p. 38, 40, 41, 42, 44, 46, 48, 49, 50, 60, 61.
164 Son tratadas, especialmente, en capítulo 14.
162 277
por ser excepción no debía ser cosa normal, al contrario de lo que en estos tiempos
ocurría. La exención debía ser la excepción y la norma la vinculación, de personas
e instituciones, a la autoridad del obispo.
Su argumentación es teológica, parte de que los apóstoles fueron los representantes de la Iglesia, como en la actualidad son los obispos, ya que son sus sucesores165. De este principio concluye que unos de los grandes males de la Iglesia es
“haber perjudicado el honor y la potestad de los obispos” por medio de las exenciones, que le han quitado parte de su autoridad sobre los residentes en su diócesis,
como son la exenciones de la autoridad episcopal de los monasterios y ciertas iglesias. Si estas exenciones fueron en un tiempo justificadas, como lo fue la serpiente
que Dios hizo hacer a Moisés, pasados los tiempos pueden convertirse en daño para
la Iglesia. Así como vemos que Ezequías mandò destruir la serpiente de bronce porque había sido causa de mal ejemplo e idolatría (2 Reyes 18, 3), al igual se deben
destruir estas exenciones por el mal que traen a la misma Iglesia.
La variación de los tiempos (cf. p. 55) hace que las exenciones produzcan
más daño que utilidad. Lo que sirvió para afianzar los monasterios y lugares religiosos dándoles exención (es decir, dependencia directa del Papa, o “inmunidades
y libertades a las iglesias catedrales y colegiales”, p. 57) ahora ha sido y son causa
de muchos males. La autoridad de los obispos está mermada, los pleitos son continuos, la disciplina es relajada, los que podrían controlar, al estar más cercanos,
no tienen autoridad y el mal ejemplo cunde por todas partes. Para remedio de estos
males habría que romper estas exenciones, como lo fue la serpiente de bronce, con
ello no se corrige el mandato de Dios si no que se pone orden y autoridad donde se
ha perdido. Todo ello lo basa por ser los obispos sucesores de los Apóstoles.
Excursos sobre los obispos sucesores de los apóstoles – En el tratado aboga
claramente por la autoridad apostólica de los obispos, y lo deduce de la Biblia y de
la Historia de la Iglesia166. Los obispos son los sucesores de los apóstoles y fue el
mismo Cristo quien los instituyò167. Estableció los distintos órdenes: los apóstoles
y los setenta y dos (episcopado, presbiterado)168. Y que esta prelación u orden es
el que se ve en los textos sagrado, tanto en el Antiguo como en el Nuevo Testa-
El nuevo Código de Derecho Canónico (1983) cuando habla de la Constitución
jerárquica de la Iglesia en su sección primera de la Suprema Autoridad de la Iglesia dice en el
can. 330: “Así como, por determinación divina, san Pedro y los demás Apóstoles constituyen
un Colegio, de igual modo están unidos entre sí el Romano Pontífice, sucesor de Pedro, y los
Obispos, sucesores de los Apóstoles”.
166 Cf. p. 18, 23, 54, 55, 58. Los apóstoles se reúnen en concilio (cf. p. 1 y 2) es decir a ellos,
y a sus sucesores, se les ha dado autoridad para regir la Iglesia.
167 “Cristo mismo, aparece de la lectura del Evangelio, instituyó los doce Apóstoles como
mayores sacerdotes: y instituyó setenta y dos discípulos como en menores sacerdotes” (p. 55). “En
lugar de los apóstoles de Cristo sucedieron los obispos” (p. 56). “Y que los obispos sucedieron en
lugar de los Apóstoles” (ibid.).
168 “Y en lugar de los setenta y dos discípulos, que los apóstoles eligieron, sucedieron los
presbiteros” (p. 56).
165 278
mento169. Los mismos textos enseñan que los Apóstoles representaban a la Iglesia170. Que los Apóstoles nombraron sucesores suyos en las ciudades171 y por eso los
obispos tienen autoridad en ella172. De aquí que esta autoridad, por norma general,
alcanza a todos aquellos, monasterios e Iglesia, que están en su misma diócesis173.
Aunque afirme la autoridad apostólica que gozan los obispos no deja nunca de recordar que el principio de unidad es la de Pedro y sus sucesores174.
(C) La no residencia de los clérigos (no vivir en lugar donde tienen su
beneficio)175 – Afirma la necesaria permanencia del beneficiado en el lugar de su
oficio. Como consecuencia de las dispensas, sin preceder causa justa, esta institución ha llegado a degenerarse provocando grandes males en la Iglesia. No hay predicación o catequesis suficiente, a veces, ni existe. No hay celebración de los sacramentos; en fin de cuentas, la cura de almas – principalmente – está desatendida sino
abandonada etc. Aunque no enumera las cargas pastorales, que exigen permanencia
en el lugar, ya que estaba determinadas las responsabilidades que tenía cada clérigo
en sus parroquias, beneficios etc., si que señala la incongruencia de recibir una paga
para servir al altar y no cumplirla. El hace un retruécano de la frase de san Pablo,
“quien sirve al altar debe vivir del altar”, diciendo quien vive del altar debe servir
al altar. También señala la imposibilidad de cumplir las obligaciones, como una
inhabilitación: ¿Cómo puede uno residir, a la vez, en dos o más beneficios aquellos
que son titulares de dos o más? ¿Cómo pueden ejercer sus obligaciones sin estar
presentes176? ¿En razón de qué cobran las rentas de estos beneficios?
Este abuso está unido a la concepción equivocada, si no viciada o maliciosa
por la forma de proceder, de que los bienes de la Iglesia son propios del beneficiario
o, por lo menos, como si los poseyesen como usufructuarios de ellos177, y por tanto
“Así que parece a la clara que la dicha orden de la prelación procedió de Dios en el Viejo
Testamento: y de Cristo en el Nuevo. Y que los obispos sucedieron en lugar de los Apóstoles: y que
esta ordenación no se haya de menospreciar, lo prueba el beato Augustín (D. XI, 5 [S. Agustín en el
libro Ex dictis Basilii])” (p. 56).
170 “Manifiestamente enseñó que apelación de Iglesia: entendía todos los Apóstoles: que en
aquel tiempo representaban la Iglesia” (p. 25).
171 “Y los Apóstoles ordenaron obispos por las ciudades” (p. 56).
172 “Cada obispo tiene especial derecho en la ciudad y diócesis que le está encomendada”
(p. 56). Y afirma claramente: “De manera que, según la divina general y universal ordenación, los
obispos son ordinarios y tienen el poder de los apóstoles en sus ciudades y diócesis: y les son subjetos
todos los monasterios y lugares religiosos” (p. 56).
173 “Generalmente todo los monasterios y lugares religiosos están debajo de la gobernación y
cura de los obispos en las ciudades y diócesis de ellos, como sucesores de los Apóstoles, pues ellos
tienen el mismo poder suyo” (p. 55).
174 “Dios edificó la Iglesia sobre san Pedro: y así sobre uno solo. Y aunque a todos los apóstolos
después de la resurrección diò potestad” (p. 59).
175 Lo trata en el capítulo 11.
176 Antes había dicho que eran inhábiles, en este lugar desarrolla esta afirmación.
177 Cf. supra: Dueño, usufructuario o usuario. Debemos recordar que el beneficio era
una institución canónica para el mantenimiento del clero; era una masa de bienes que con sus
169 279
nadie los puede “subcontratar” a fin de que otros levanten las cargas. Si se debe
ser párroco, se nombra un sustituto178, que hace las veces de párroco dándole una
pequeña parte, que muchas veces no era suficiente. Algunas de estas posibilidades
eran aceptadas por el Derecho vigente, como por ejemplo el poner una pensión
para el cura enfermo, nombrar un ayudante por la importancia de las cargas etc.
Era abuso manifiesto, dice el autor, el extenderlo a otras situaciones en las que
claramente se daba a entender que lo que se buscaba era conseguir mayor rentas, y
no hacer lo que ellas exigían.
Cuando señala las excepciones lógicas, ausencias justas, ciertos privilegios
razónables (familiares del Papa – dos solamente de cada iglesia – o de los cardenales) lo hace para marcar la diferencia entre lo que es razonable y lo que ha llegado
a ser abuso. Indica, sobre todo, la necesaria residencia de lo obispado en su sede179,
y pide su remedio en el concilio180. Cita un ejemplo tan sangrante, de abuso de la
dispensa, que después tuvo resonancia en otros autores: “Y de aquí vemos por vista
de ojos que murió pocos días ha en Roma un cortesano español: y aunque era clérigo
no dijo en su vida misa: y sin saber letras vacaron por su muerte ciento treinta beneficios: cosa de abominación en la religión cristiana” (p. 44).
(D) Por los abusos (de la curia) de Roma – En estos apartados, cap. 12 y 13,
nos indica especialmente dos formas de proceder de la curia, que el autor considera
abusivos. Uno es el procedimiento, que se estaba empleando en Roma, respecto
a los bienes remanentes en las diócesis a la muerte de los obispos, despojos y
frutos y rentas de la sede vacante. Y el otro la forma de impedir, por medio de las
exenciones, la jurisdicción del obispo dentro de su propia diócesis. Aquí vuelve a
defender, por una parte, su clara opinión de que los bienes de la Iglesia tienen un
destino fijado: el mantenimiento de sus servidores, el del templo propio y la de los
pobres del lugar. Los titulares del beneficio son solamente usuarios. Insiste que
desde esta perspectiva se debe administrar el patrimonio de la Iglesia y por tanto
su uso. Nunca serán ni son posesión de los clérigos (titulares de los beneficios), ni,
incluso, deben ser considerados como bienes usufructuarios. Y, por otra parte, la
rentas garantizaba el levantamiento de las cargas que le eran inherentes (con cura de almas o no:
parroquias, capellanías, organistas etc.; eran consistoriales o no; seculares o religiosos etc.). Se
decía “el beneficio es por el oficio”. Cf. S. Alonso Morán, Los beneficios eclesiásticos, in A.
Alonso Lobo, S. Alonso Morán, M. Cabreros, L. Miguelez, Comentarios al Código de Derecho
Canónico, BAC, Madrid 1964, t. 3, p. 82-138.
178 Algunas ayudas eran aceptadas por el derecho, pero no tenían el carácter, normalmente,
de quitar las obligaciones del beneficiado; estas cargas se quitaban por medio de la dispensa. Lo
que se instituyó para hacer razonable la institución: poner cargas (o pensiones personales) para
mantener al beneficiado enfermo o impedido. La unión de benéficos tanto extintiva, apareciendo
uno nuevo, o subjetiva, uniéndolo a una persona (en razón de su insuficiencia o pequeñez –
parroquias o diócesis excesivamente pequeñas – etc.) u otras razones objetivamente positivas,
terminando siendo abuso de la institución de la exención. Y donde más lo nota el autor es en la
falta de residencia: difícilmente uno puede levantar las obligaciones y cargas sino está presente.
179 El obispado de Valencia, en estos tiempos, estuvo un siglo sin obispos residentes.
180 Ese sería el gran caballo de batalla del concilio de Trento.
280
afirmación de que los obispos son no delegados del papa en sus diócesis, sino que
son sucesores de los Apóstoles y por tanto de institución divina.
(D1) Despojos: o sea, adquisición por parte del papa de los bienes de los
obispos muertos y de las rentas del obispado mientras no hay nuevo obispo.
Lo trata en el capítulo 12. La teoría que desarrolla parte del principio (dado
por supuesto) que los bienes son de cada institución; y para cumplir sus fines,
especialmente los referentes a los pobres, debe tener una propia administración
y levantamientos de las cargas. Por eso habla de la necesaria reforma de esta
práctica de que los despojos (bienes sobrantes de la Iglesia al morir el obispo),
no de su patrimonio181, no deben pasar a la administración papal sería entre otros
males el impedir la asistencia a los pobres que dependían de los bienes sobrantes del obispo. Al mismo tiempo, que da este argumento de gran importancia,
vuelve a insistir en la necesidad de clarificar los fines de los bienes de la Iglesia:
mantenimiento del clero (lo necesario), reparar las iglesias y la de dar de comer
a los pobres (p. 45). La reforma para nuestro autor es también la simplificación
de la vida de los obispos, aunque directamente no lo manifiesta trasluce un estilo
de sencillez y austeridad.
¿Podemos afirmar que la otra solución que propone el Dr. Alfonso, de no
haber concilio, es regalista? Al afirmar que de no solucionarse por concilio se debía
solucionar por el mismo emperador, el autor pretende contestar esta duda, y lo hace
de modo original. No es que el emperador se entrometería en la legislación de la
Iglesia sino que la haría cumplir. Si está legislado, ¿por qué no podría o, tal vez, debería el emperador, que era el brazo secular – “procurador del bien universal de la
cristiandad” (p. 48) – hacer cumplir la misma (que estaba decidida y clara en otros
concilios)? No aboga por la intromisión sino por el cumplimiento. Así se evitaría
que algunos, con pretensión de clérigos, “son semejantes a lobos hambrientos en la
avaricia de adquirir beneficios eclesiásticos a diestro y siniestro” (p. 47).
Por otra parte esta forma de razonar nos clarifica el concepto de Concilio que
se estaba debatiendo en la época, no era sólo que fuera legislativo, es decir que
regulase algunos aspectos de la vida eclesial, sino que fuera judicial, es decir que
juzgase ciertos comportamientos y que los corrigiese con la autoridad suprema de
la Iglesia. La opinión de algunos que el concilio de Trento no aportó ninguna novedad desde el punto de vista legislativo, era hacerle al concilio una petición que
nunca estuvo en su perspectiva. Sí se podría modificar, así nos lo recuerda el Dr.
Alfonso, pero las líneas maestras de comportamiento de los fieles, y en especial del
181 La canonística clásica clasifica las distintas formas de poseer el beneficiado:
1. Beneficiales: Las rentas que se recibe del beneficio. 2. Patrimoniales: Por herencia (los bienes
propios); por donación (debería verse el contendió de la misma: podría ser para el beneficiario
o para el beneficio o levantar algunas cargas); por compra (debía verse con que dineros lo
han comprado); por el ejercicio de un arte o industria profana (estos se podían llamar quasipatrimoniales: estos trabajos estaban también regulados, algunos prohibidos – regentar casa
de juegos). 3. Cuasipatrimoniales: Por realizar actos propios de los clérigos: actos de culto,
predicación, sacramentos etc. 4. Parsimoniales: Por ahorro propio de personas austeras.
281
clero, no dejaba de estar claramente legislada, por tanto, lo que se debía hacer era
erradicar los abusos que habían oscurecido la vida de la Iglesia.
El Autor no solamente habla de lo que el obispo dejaba de “ahorrado en
las diócesis” y cual debiera ser su destino, sino también lo que debiendo percibir el obispo y estando en sede vacante perteneciera a la Santa Sede. Nunca se
debe olvidar que hay una parte destinada a dar de comer a los pobres y que a
ellos pertenece. Así lo hacen en Roma cuando muere el papa (“el camerario”).
¿Cómo es posible que eso no se aplique también en otras partes? No hay escusa
que esos bienes se destinen a limosnas, ya tiene destino (de otra forma “mueren los pobres de hambre sede vacante”, p. 49), ni destinados a obras justas y
caritativas, porque la obra más pía que puede hacerse es que se de a los pobres
lo que ya están señalados. Termina afirmando, la limosna que “el Papa hiciera
de los tales bienes” (los destinados a los pobres) no son limosnas, sino acciones
simoníacas182.
(D2) El (mal) funcionamiento de la misma curia183 – El funcionamiento de la
Curia Romana la plantea desde la raíz jurídica y pretende dar, a la vez, una doble
solución: La reforma de la misma por si misma o por el concilio y la reforma hecha
por el mismo emperador.
El primer punto que destaca es la base jurídica, corrompida por el paso del
tiempo, en la que se basa: la costumbre184 o estilo de la Curia para justificar el
procedimiento a seguir. Pero demuestra lo mastodóntica y compleja que resulta la
misma, en detrimento de la economía de tiempo y de dinero. Con ello se fomenta
la que sólo el dinero sea el que posibilita conseguir algo de Roma, y la corrupción
que conlleva ello; ya que algunos pueden acumular injustamente beneficios (como
anteriormente señaló), y conseguir como si fuera “mercadería” toda clase de dispensas y privilegios. Esta es una de las partes más duras de este tratado.
Señala la forma de funcionamiento, que complica y encarece de forma la gestión
en Roma. Se necesita ser un experto, o tener mucho dinero, para conseguir cualquier
cosa por lo complejo de la tramitación (se ha creado un tramado de gentes que viven
de estos negocios, comprando, vendiendo, acumulando, “ingeniosos pescadores” que
“hinchas las redes de la sangre de los pobres”) y por otra parte haciendo los procesos
tan largos que nadie puede conseguirlo sin grandes gastos o fuertes sumas. No se mira
182 El autor al hablar de simonía habla en sentido mas amplio “conseguir una ventaja social
e, incluso, referente a la esfera espiritual” con bienes que no le son propios. Usar mal los bienes
que tienen un destino claro en su rentas, no era lícito y podía esconder una pretensión de poder.
El favorecer con estos bienes a parientes y amigos “nepotismo” fue una de las corrupciones que
el Concilio ayudó en gran parte a solucionarlo.
183 Lo trata en el capítulo 13.
184 Hay mucho abuso, con la escusa que siempre se ha hecho así. El criterio es simplemente
se puede dispensar o hacer todo lo que “se ha hecho otras veces” (p. 50). En la página siguiente
saca las consecuencias que ha portado este proceder, es decir, el criterio de “que otra vez se ha
hecho”, se suman los abusos y “no queda decreto, ni estatuto de concilio general que allí no sea
quebrantado”.
282
las cualidades de quien lo pide o si es persona hábil (es decir, si tiene las cualidades
que el oficio requiere de ciencia, santidad etc.), o si tiene derecho.
Hace una descripción sintética del iter para conseguir algún “documento” de
la Curia Romana: Se presenta la súplica, pasa al referendario, de este a la comisión
de cardenales a los que consulta el Papa. Si estos dicen fiat (hágase) no termina el
proceso. El referendario firma esta súplica y la pasa al datario. Este mira si concede
algo contra derecho. Hasta que este pone la fecha (data) la voluntad del Papa “no
tiene fuerza”185. Libremente el datario la envía al registro, si es normal, pero si va
contra derecho debe “redimirlo” con dinero. Si precede dinero todo se dispensa.
Pero no ha terminado todavía el proceso: “redimida (con dinero) la suplicación del
datario, de ahí va al registro, y registrada la dan en mano del suplicante; y esto no
tiene ya que hacer otra cosa sino expedir bulas”. Una vez expedidas debe pagar
la expedición (y por supuesto con muchísimos gastos, ya que pasando por “tantas
manos y oficios” y pagando tantos dineros el resultado son sumas que no se puede
soportar. Si no lo puede pagar, quien lo paga tiene derecho sobre ello. Las consecuencia son nefastas para la Iglesia: (1) No se da a los adecuados, sino a los que
tienen dinero; (2) se hace un tráfico por aquellos que pueden comprar las bulas: les
ponen cargas (para devolver el dinero prestado, pero termina siendo el beneficio
como una inversión que da rentas – “cargar pensión sobre el beneficio” – o se la dan
a otro, que sí tiene dinero para pagarlo186; (3) “reina la avaricia”, en vez de respetar
lo establecido por “los estatutos de los cuatro concilios generales y decreto de los
santos padres”, y ello ha provocado que “la religión y el estado eclesiástico está
vilipendiado por los legos”; (4) la Iglesia universal está “escandalizada y descolorida”, ha perdido su belleza, por tanto abuso que reina.
El autor no va contra las exenciones y acumulaciones de beneficios (cuando
son insuficientes para un digno mantenimiento o son compatibles) sino la acumulación de los abusos que existen: tanto en el ejercicio como en la concesión de
los mismos, no sólo porque no se ejerce la actividad pastoral que cada beneficio
conlleva, sino que además lo que impera es que para vivir bien hay que acumular
beneficios, no por el oficio que conlleva sino por las rentas que tienen. Parafrasea a
san Pablo: “porque si viven del altar que cosa hay tan necesaria para sus conciencias como servir al altar”187.
(E) Por los abusos de los Obispos en sus diócesis188 – Señala los elementos más
importantes: la forma de ejercitar la visita canónica y el mal funcionamiento de la curia. La falta de control en el ejercicio de su ministerio, no atendiendo a los cánones, y
la codicia ha hecho que “se vendan cosas justas” y sólo se busque la ganancia. Así “si
cobra los diezmos, gratis ha de impartir la justicia”. En las curias episcopales encuentra otro tanto a reformar. Se repiten los males en las Iglesias particulares (diócesis) que
Tractado, op. cit., p. 51.
Lo cual hace que no permite recibir lo que uno es capaz para ejercerlo o merecerlo, sino
que son los beneficios y las dispensas sólo para los que tienen dinero.
187 Tractado, op. cit., p. 54.
188 Lo trata en el capítulo 15.
185 186 283
en la Iglesia universal: Se dan los oficios a personas “no dignas, ni letradas”; se dan
pluralidad de beneficios a una misma persona “sin causa justa y razonable”; no reparten los bienes según su destino: obispo, clérigos, fábrica (culto: iglesias), y los pobres;
hay bienes que en vez de darlo a los pobres se dan a los familiares.
Preocupado por los pobres hace una breve pero dura interpelación contra los
abusos de este género. Citando a san Ambrosio dice “no es menor crimen denegar
a los pobres lo que abunda que quitarlo a los que tienen”, y afirma “es redención
de los miserables el dinero que tu escondes”. Al igual afirma de la “hospitalidad”
virtud y obligación del Obispo, porque de ella también seremos juzgados. De la
misma habla de la obligación de ser buen administrador de la familia a quien Dios
lo puso al frente: “Puesto que fuiste fiel en lo poco. Te pondré al frente de mucho,
entra en el gozo del Señor”. Debemos notar que lo que siempre subyace en lo que
respecta a la atención de los pobres, que no es en la autoridad un acto de virtud sino
una obligación inherente al cargo (y encaso de necesidad de todos los cristianos); a
la vez, que es dar a los pobres lo que les corresponde: una parte de los bienes de la
Iglesia siempre se deben destinar a los pobres.
3. A modo de conclusión
Indiscutiblemente las dos partes de la obra (concilio y reforma) van unidas por
un principio común: el concilio ha sido en la Iglesia el lugar donde se han fraguado
todas las reformas y donde se han corregido todos los abusos, por lo tanto en el Concilio es donde se debe buscar la solución de los males actuales. Por ser el Concilio una
expresión de la comunión entre Pedro y los Apóstoles en el Nuevo Testamento debe
serlo también para sus sucesores. Así la doctrina fundamental que sobre el Concilio
manifiesta Alfonso Álvarez Guerrero se puede resumir en las siguientes afirmaciones: Pedro y sus sucesores es el principio de la unidad, los Apóstoles y sus sucesores
los Obispos desde aquel tiempo representaban la Iglesia. Y saca las consecuencias: El
Papa y los Obispos deben hacer presente en nuestro mundo el mandato del Fundador.
Su vida, su doctrina, la administración de todo lo que se les ha dado, tanto las cosas
espirituales y las cosas materiales, deben ser de tal forma que ayuden al crecimiento y
perfeccionamiento de la Iglesia. Pero como hay deformación (por desgracia tanto en la
cabeza como en los miembros) son los encargados por el Señor en corregir, reformar,
devolver el esplendor querido por su Fundador. Por eso el Concilio donde está presente
todo lo que el Señor diò mandato para regir su Iglesia en él se debe buscar la reforma
de la Iglesia. Y, por ello, habla de la necesidad del mismo y lo así lo señala, el autor,
en la historia de la Iglesia y en especial en los primeros tiempos: Todo problema fue
solucionado por medio de un Concilio desde tiempos apostólicos.
La reforma de la Iglesia, no es solamente hacer leyes justas, estas ya existen, sino ver como se cumplen, como se han ido añadiendo y adhiriendo defectos,
abusos, desviaciones, corrupciones, idolatrías, supersticiones, males que deben ser
arrancados, ya que ellos decoloran la hermosura de la Iglesia e impide que sea
respetadas por todos. Los clérigos hacen lo mismo ya que el mal ejemplo de los
284
sacerdotes mayores (papa, obispos etc.) les invita a no comportarse como se debe,
y los laicos (legos), que debían seguir el ejemplo, la desprecian (vilipendio de los
legos) y no cumplen con sus propios deberes.
Además cuando el mal también se encuentra en la cabeza, la única forma
de reformarla es por medio del Concilio, porque es la única autoridad que puede
hacer que estos abusos se manifiesten y se corrijan. La historia de la Iglesia desde
los tiempos apostólicos así lo ha hecho. Reconociendo el autor, que en el caso de
corrección del Papa, quien debe juzgarlo Dios, es más difícil, sin embargo él al
hablar de los elementos irreformables de la Iglesia, de los constitutivos, afirma que
romper con ellos es romper con la Iglesia y dejar de pertenecer a la misma. Así,
como los autores de su tiempo, habla de la necesidad del Concilio como elemento
de reforma de las desviaciones tanto en la cabeza (Papa) como en los miembros. El
Concilio aceptado por todos, porque en ellos está la gracia del Espíritu, es el modo
mejor para una reforma de la Iglesia universal. A la vez, sale al paso de la teoría
de que los problemas, que están con toda su virulencia en el centro de Europa y en
Inglaterra, no pueden más que tener una solución apta y una respuesta adecuada
al modo que, desde la primitiva Iglesia, siempre se ha realizado, “conviniendo” en
uno189, y presidido y convocado por el que dà la unidad a la Iglesia: el Papa. Por
eso, a tenor de una gran parte de los juristas de su época, afirma que si habiendo
necesidad, como la hay al presente, no lo hiciera el Papa, el emperador, por derecho antiguo y porque uno puede buscar remedio a los males, tiene la capacidad de
convocar concilio. Debería ser el emperador y no otro, porque él es el primero de
la comunidad de los fieles cristianos, en ediciones posteriores dará a los cardenales
un mayor protagonismo en estos casos.
Debemos destacar su afirmación que “hay que rogar a Dios” para encontrar
solución a los problemas, él lo dice al tratar de los Obispos, pero es extensible a
todo el tratado. Orar para tener pastores que sepan llevar la Iglesia, con la limpieza,
decoro, rectitud que el Fundador, Jesucristo, estableció.
Otra gran preocupación de Alfonso Álvarez Guerrero está en destacar que entre los fines que tienen los bienes de la Iglesia nunca se puede olvidar la atención al
sustento y vestido de los pobres. Seremos juzgado por el amor: “Porque tuve hambre
y me diste de comer, sed y me diste de beber, porque estuve enfermo y en la cárcel
y me visitaste, porque fui forastero y me hospedaste entra en el gozo de tu Señor”190.
189 En lo que los latinos llamaban concilium (de concieo), recordando sin olvidar el otro
vocablo que viene del griego: sínodo = sin (con) – odos (camino). Aunque el autor sigue a Isidoro
en sus Etimologías (VI, 16, 11-13), donde habla de las etimologías de las palabra sínodo (n. 11),
concilio (n. 12), reunión (coetus; n. 13).
190 Cf. Mt 25, 21; Lc 16, 9; 19, 17.
285
Das Verhältnis von Primat
und Bischofsamt
in den Diskussionen
des Konzils von Trient
Karl-Josef Rauber
In der ersten Sitzungsperiode des Konzils von Trient (1546-1547) wurde die
Frage der Residenzpflicht der Bischöfe und Pfarrer auf die Tagesordnung gesetzt.
Die Debatte darüber rührte zu der Frage nach dem Ursprung der bischöflichen Gewalten. Der Bischof ist als Hirte seiner Herde zur Residenz verpflichtet. Wer ihn zu
seinem Hirtenamt bestellt, das heißt, wer ihn mit den für sein Hirtenamt notwendigen Gewalten ausrüstet, der verpflichtet ihn auch zur Residenz. Somit stellte sich
ganz konkret die Frage, ob der Bischof unmittelbar von Gott seine Leitungsgewalt
erhält und somit von Gott zur Residenz verpflichtet ist, oder ob er sie vom Papst
als dem obersten Hirten übertragen bekommt und somit von diesem zur Residenz
angehalten wird. Mit diesem Problem sollten sich die Konzilsväter von Trient eine
Weile auseinandersetzen.
In der damaligen Zeit erwies sich dies als schwierig, denn der Konziliarismus war noch nicht überwunden und die Verfechter der Reformation zweifelten an
der Rechtmäßigkeit der vom Papst bestellten Bischöfe1. Die damit möglicherweise
verbundene Gefahr einer Schwächung der Stellung des Papstes lässt sich aus dem
Bemühen des päpstlichen Legaten Kardinal Del Monte erkennen, zusammen mit
der Mehrheit der italienischen Bischöfe für die Rechte des päpstlichen Primates
einzutreten und sie überall dort zu verteidigen, wo sie ihrer Meinung nach angetastet
wurden. So sah man in der Erklärung des göttlichen Rechtes der Residenzpflicht und
der darin eingeschlossenen Aufwertung des Bischofsamtes eine Schmälerung des
päpstlichen Einflusses auf die von den Bischöfen ausgeübte Leitung der Diözesen2.
Damit tat man der Gruppe der Konzilsväter, die sich hauptsächlich aus spanischen Bischöfen zusammensetzte und das göttliche Recht der Residenzpflicht
vertrat, sicherlich Unrecht. Der von allen hochgeschätzte Bischof von Calahorra
brachte seine Papsttreue überzeugend zum Ausdruck, wenn er erklärte: „Wir alle
sind bereit, für den Primat des Papstes unser Leben hinzugeben“3.
In den Diskussionen über die bischöfliche Hirtengewalt und damit über die Beziehung des päpstlichen Primates zum Bischofsamt zeichnen sich grundsätzlich zwei
Auffassungen ab nämlich a) die bischöfliche Hirtengewalt wird von Gott unmittelbar
bei der Bischofsweihe mitgeteilt; b) die bischöfliche Hirtengewalt hat als solche ihren
Ursprung in Gott, wird dem Bischof aber vom Papst unmittelbar übertragen.
Vgl. Hubert Jedin, Geschichte des Konzils von Trient, Bd. 2: Die erste Trienter Tagungsperiode, Herder, Freiburg i. Br. 1957, S. 296.
2 Ibid., S. 278.
3 Für die Texte des Konzils von Trient, siehe Concilium Tridentinum, Societas Goerresiana
(Hg.), Bd. III, V, VIII und IX, Herder, Freiburg i. Br. 1901-1961. Diese Ausgabe wird im Folgenden C.T. abgekürzt. Hier C.T. V, S. 978.
1 289
In seinem Votum vom 3. Januar 1547 macht sich der Bischof von Castellamare, Juan Fonseca, zum Sprecher der spanischen Konzilsväter und auch der
Konzilsväter anderer Nationalitäten: „Residentia praelatorum est de iure divino.
Nam cum episcopis sit iniunctum onus regendi gregem […] ex consequenti est
iniuncta eis residentia, cum pascere gregem non possint, nisi resideant; et quod
datum est apostolis regendi gregem, datum est episcopis, Mt. Ult. 19, Luc. 9, ubi
apostolis munus praedicandi iniungitur. Et licet ad Pontificem pertineat distribuere
dioeceses, tamen cum sint distributae, qui eas habeant, de iure divino earum oves
pascere tenentur: Acta 20, 28: Attendite vobis et universo gregi. Et sicut dicitur
de matrimonio, quod licet sit voluntarium ante factum, sed cum factum esset, de
iure divino est, ne separetur […]“4. Juan Fonseca ist also der Meinung, dass die
Hirtenaufgabe den Bischöfen von Gott übertragen wird und damit auch die Residenzpflicht. Dies folgt aus der Tatsache, dass die Bischöfe Nachfolger der Apostel
sind. Denn den Aposteln ist die für die Leitung der ihnen anvertrauten Herde erforderliche Gewalt von Gott unmittelbar übertragen worden. Als Nachfolger der
Apostel empfangen deshalb auch die Bischöfe ihre Leitungsgewalt von Gott. Der
Beweis sind die Schriftstellen, wo vom Hirtenamt der Apostel und damit der Bischöfe die Rede ist.
Einen ähnlichen Schriftbeweis führt auch der Kardinal Pedro Pacheco: „[…]
nam in Joannis ultimo 17 dicitur: Pasce oves meas quod ad omnes episcopos refertur, et 1 Petr. Cap. 5, 2: Pascite, qui in vobis est gregem, et Acta 20, 28: Ut regere
possitis ecclesias etc.“5.
Wenn die Bischöfe von Gott zu Hirten bestellt werden und ihnen von ihm die
Leitungsgewalt für die Herde übertragen wird, wie gestaltet sich dann ihr Verhältnis zum Papst? Fonseca gibt dazu die Antwort in dem oben zitierten Votum: „[…]
et licet ad Pontificem pertineat distribuere dioeceses“. Der Papst weist dem von
Gott mit der Leitungsgewalt ausgerüsteten Bischof das Territorium zu, wo er diese
seine Gewalt ausüben kann. Diese Zuweisung schließt aber nicht die Übertragung
der Gewalt selbst mit ein, sondern der Bischof bleibt auch dann, wenn er vom Papst
das Territorium d. h. seine Diözese erhalten hat, der von Gott und nicht vom Papst
mit Leitungsgewalt ausgerüstete Hirte, der kraft göttlichen Rechtes seine Aufgabe
wahrnehmen muss: „[…] tamen cum sint distributae, qui eas habent, de iure divino
earum oves pascere tenentur“.
Der Gedanke der Zuteilung der Diözesen durch den Papst wiederholt sich
öfters in den Voten der spanischen Konzilsväter, aber auch in denen einiger Italiener. So zum Beispiel im Votum des Dominikaners Angelo Paschalis, Bischof von
Motula: „Episcopus de iure divino tenetur residere in ecclesia catholica, sed quod
Petrus vel Joannes in hac vel ista ecclesia resideat, est de iure positivo; quae disiunctio dioecesium a Pontifice facta est“6.
C.T. V, S. 754.
C.T. V, S. 745.
6 C.T. V, S. 754.
4 5 290
Obwohl das Bischofsamt göttlichen Rechtes ist, bleibt dem Papst doch die
höchste Gewalt über die konkrete Ausübung des Hirtenamtes in der Diözese, denn
er allein bestimmt, dass es und wo es ausgeübt werden kann.
Wie bereits oben angedeutet, war die Mehrzahl der italienischen Konzilsväter unter der Führung der päpstlichen Legaten gegen eine Erklärung des ius
divinum der Residenzpflicht und erst recht gegen eine Begründung desselben
aus dem von Gott übertragenen Hirtenamt. Zwar war der Kardinallegat Del
Monte persönlich überzeugt – wie übrigens auch andere italienische Bischöfe,
– dass die Verpflichtung zur Residenz an sich göttlichen Rechtes ist. Für den
konkreten Bischof in der konkreten Diözese jedoch wird die Verpflichtung zur
Residenz durch das positive kirchliche Recht geregelt7. Dahinter steht wohl die
Unterscheidung zwischen dem von Gott eingesetzten Hirtenamt und der damit
von Gott gegebenen Verpflichtung zur Residenz und der konkreten Hirtenaufgabe, die Diözese nach Maßgabe des positiven Kirchenrechtes zu verwalten
und damit durch dasselbe Recht zur Residenz verpflichtet zu sein. Damit aber
ergab sich ein Gegensatz zu den Voten der spanischen Richtung der Konzilsväter, die an einer unmittelbar von Gott kommenden Verpflichtung zur Residenz
festhielten, da sie eine unmittelbare Übertragung des Hirtenamtes von Gott annahmen.
Wie aber ist das von Gott unmittelbar übertragene Hirtenamt mit der Unterordnung unter den Papst vereinbar? Diese Frage beschäftigt die Konzilsväter
der italienischen Richtung. Für sie ist der Papst der alleinige von Gott unmittelbar
bestellte Hirte, der ebenfalls unmittelbar von Gott die Leitungsgewalt empfängt. In
seinem Votum vom 7. Februar 1547 erklärt daher der Bischof Ambrosius Catharinus von Minori: „[…] solus Papa habet a Deo immediate potestatem“8 und der
Bischof von Bosa vertritt dieselbe Auffassung, wenn er ausführt: „Summus Pontifex est immediate pastor ovium a Christo constitutus, et episcopi sunt immediate a
Sua Sanctitate“9.
Nach der Auffassung der Konzilsväter der italienischen Richtung sind die Bischöfe nicht unmittelbar von Gott bestellte Hirten, sondern sie werden vom Papst
in ihr Amt eingesetzt und von ihm erhalten sie auch ihre Hirtengewalt. Man war
nur dann einer Unterordnung der Bischöfe unter dem Papst sicher, wenn diese ihre
Leitungsgewalt unmittelbar vom Papst erhielten. Deshalb ist der Bischof von Alife
Sebastian Pighius der Meinung, dass es in der Kirche nur Leitungsgewalt gibt, die
vom Papst übertragen wird. Aus diesem Grunde haben die zum Konzil versammelten Bischöfe lediglich das Recht das zu beraten, was der Papst in seiner Eröffnungsbulle festgelegt hat. Keineswegs dürfen sie sich erdreisten, über den Papst
Gesetze zu erlassen. Man kann den Papst nur bitten, über seine Angelegenheiten
selbst zu entscheiden10.
C.T. V, S. 788.
C.T. V, S. 893.
9 C.T. V, S. 211.
10 C.T. V, S. 893.
7 8 291
Zusammenfassend kann man sagen, dass bereits in den ersten Sitzungen des
Konzils von Trient über die Residenzpflicht der Bischöfe noch ganz im Hintergrund die Frage nach dem Verhältnis von bischöflicher und päpstlicher Gewalt
auftaucht. Sowohl die spanische Richtung der Konzilsväter wie die italienische
unterscheiden zwischen dem Hirtenamt als solchem und seiner Ausübung. Während eine Gruppe der Konzilsväter der Auffassung ist, dass die Hirtengewalt jedem Bischof unmittelbar von Gott übertragen wird und der Papst nur das Gebiet
zur Ausübung zuweist, sieht die Mehrheit der Konzilsväter einen Unterschied
zwischen dem Hirtenamt als solchem, das von Gott eingesetzt ist, und der konkreten Diözesanleitung, wozu die Bischöfe Gebiet und Hirtengewalt vom Papst
erhalten.
In dieser noch recht verhaltenen Auseinandersetzung wird jedenfalls schon
deutlich, wie schwer es den Konzilsvätern fiel, einerseits die höchste Autorität des
päpstlichen Primates überzeugend darzustellen und andererseits auch den Bischöfen im Hinblick auf die Hl. Schrift gerecht zu werden.
In der dritten Sitzungsperiode des Konzils von Trient (1562-1563) wurden
nach den Osterferien die Diskussionen über das ius divinum der Residenzpflicht
wieder aufgenommen. Wie in der ersten Sitzungsperiode waren es vor allem die
Konzilsväter der spanischen Richtung unter Führung des Erzbischofs von Granada,
die ganz entschieden für das ius divinum plädierten. Hinsichtlich der Lauterkeit
ihrer Absicht bestand kein Zweifel11.
Aber auch dieses Mal blieb die Debatte nicht bei der Verpflichtung zur Residenz stehen, sondern die Frage nach dem Ursprung des bischöflichen Amtes und
der bischöflichen Amtsgewalt wurde wiederum aufgegriffen und in Beziehung zum
päpstlichen Primat gesetzt12.
Die Konzilsväter der spanischen Richtung, denen sich auch Konzilsväter aus
Frankreich, Portugal, Ungarn und Italien anschlossen, vertraten, wie in der ersten
Sitzungsperiode, die Ansicht, dass die Bischöfe unmittelbar von Gott zu Hirten
bestellt und deshalb auch zur Residenz verpflichtet sind. in seinem Votum vom 11.
Dezember 1562 führt der Erzbischof von Granada aus: „[…] praesertim cum perspicuum sit, pastores animarum teneri iure divino ad eas regendas et pascendas […]
At multo magis tenentur episcopi ad eorum oves conservandas et pascendas, cum
pastores a Christo instituti sint“13. Ähnlich argumentieren auch die Bischöfe von
Metz und Città di Castello14. Wie in der ersten Sitzungsperiode wird der Schriftbeweis mit Apg 20, 28 und 1 P 5, 1 geführt. Von den Kirchenvätern werden vor allem
Zitate aus Augustinus und Ambrosius verwendet.
Vgl. Hubert Jedin, Krisis und Abschluss des Trienter Konzils 1562-1563. Ein Rückblick
nach vier Jahr­hunderten, Herder, Freiburg i. Br. 1964, S. 25.
12 Vgl. Karl Hofmann, Die kirchenrechtliche Bedeutung des Konzils von Trient, in Georg
Schreiber (Hg.), Das Weltkonzil von Trient. Sein Werden und Wirken, Bd. 1, Herder, Freiburg
i. Br. 1951, S. 281-296.
13 C.T. IX, S. 246‑247.
14 C.T. IX, S. 281 und C.T. IX, S. 319, 5.
11 292
Für die Konzilsväter der spanischen Richtung ist es „sonnenklar“‚ dass nach
dem Zeugnis der Hl. Schrift und den Vätern die Bischöfe ihr Hirtenamt und ihre
Hirtengewalt unmittelbar von Christus erhalten: „Cum sole clarius constet, tam
ex Scripturis novi et veteris Testamenti, quam ex patrum sibi invicem ab initio
nascentis ecclesiae succedentium, munus episcoporum ipsorumque potestatem a
Christo Domino ad aedificationem et conservationem ecclesiae esse institutum“.
Für den Bischof von León liefert die Weiheliturgie den Beweis, dass die Bischöfe
von Gott zu Hirten bestellt werden: „Item cum episcopus consecratur, mittitur ad
pascendum gregem sibi commissum, datur liber atque baculus pastorali, quae omnia sunt dicta episcopo in persona Dei, et ex consequenti tenetur residere de iure
divino, et praesertim quod ad pascendum datur episcopo in consecratione potestas
supernaturalis“15. Ähnlich auch der Bischof von Fünfkirchen16.
Durch die Überreichung von Evangelienbuch und Hirtenstab wird symbolisch ausgedrückt, was in der Bischofsweihe wirklich geschieht: Der Bischof wird
von Gott zum Hirten bestellt und hat diese Aufgabe persönlich wahrzunehmen
durch die Verkündigung des Gotteswortes und durch die Leitung seiner Herde. Als
der von Gott bestellte und bevollmächtigte Hirte ist der Bischof für das Wohl seiner
Gläubigen verantwortlich, was ihn vom Vikar unterscheidet, der nur im Auftrag
und in der Verantwortung des Amtsinhabers handelt.
Im Hinblick auf das Wesen und den Ursprung der Hirtengewalt oder Jurisdiktionsgewalt erklärt der Bischof von Verona in seinem Votum vom 16. April 1562:
„At dicent: Si iurisdictio episcoporum, quam habent in suis ecclesiis episcopi est
a Pontifice Summo, sequetur profecto, eos minime ad residentiam de iure divino
teneri, cum propter iurisdictionem residere debeant“17. Die Jurisdiktionsgewalt ist
engstens mit der Verpflichtung zur Residenz verbunden. Sie ist Hirtengewalt, zu
deren wesensgerechter Ausübung es der Gegenwart des Hirten bei seiner Herde
bedarf. Wer die Gewalt verleiht, verpflichtet auch zur Residenz.
Um dem päpstlichen Primat Rechnung zu tragen, unterscheiden der Bischof
von Verona und andere Konzilsväter derselben Richtung eine zweifache Jurisdiktionsgewalt, nämlich eine die von Gott in der Weihe übertragen wird und untrennbar mit dem Bischofsamt verbunden ist. Sie kommt in der Tätigkeit: „praedicare,
docere, consecrare“ zum Ausdruck. Davon unterscheidet sich eine zweite konkrete
Jurisdiktionsgewalt, die vom Papst übertragen wird und die Tätigkeit „praeesse,
praecipere, ius habere, absolvere posse“18 umfasst. Diese zweite Weise der Ausübung der Jurisdiktionsgewalt hat unmittelbar Bezug zur Herde und setzt ein bestimmtes Territorium voraus, in dem sie ausgeübt werden kann. Somit kann das
Votum des Bischofs von Verona so verstanden werden, dass die eine Hirtengewalt
des Bischofs unter zwei Gesichtspunkten betrachtet wird und zwar die Jurisdiktionsgewalt, die der Bischof von Gott empfängt und die konkrete Ausübung dieser
C.T. IX, S. 284.
C.T. IX, S. 298, 40.
17 C.T. VIII, S. 455, 35.
18 C.T. VIII, S. 455, 35-50.
15 16 293
Gewalt, zu der der Papst durch Zuweisung einer Diözese befähigt. Damit ist der
Anschluss zu der in der ersten Sitzungsperiode zum Ausdruck gekommenen Auffassung gegeben und es wird ein Weg zur Lösung des schwierigsten Problems in
diesem Fragenkreis, nämlich das Verhältnis der Bischöfe zum Papst, aufgezeigt.
In seinem Votum vom 29. Dezember 1562 geht der Bischof von León auf
diesen Fragenkreis ein und erklärt, dass der Auftrag Christi seine Herde zu weiden,
an Petrus gleichsam stellvertretend für alle andern Apostel und ihre Nachfolger,
die Bischöfe, ergangen ist. Petrus hat den Hirtenauftrag in Vertretung der übrigen
Apostel empfangen und zwar nicht für sich allein, sondern um diesen Auftrag an
andere weiterzugeben. Der Papst ist folglich nicht der alleinige Hirte, sondern die
Bischöfe nehmen an seiner Hirtenaufgabe teil19. Darum ist es dem Bischof von
Alife ein Anliegen herauszustellen, dass die Rechte, die dem Bischof kraft seiner
ordentlichen Hirtengewalt zustehen, nicht Gegenstand einer päpstlichen Delegierung sein dürfen20.
Papst und Bischöfe sind lebensnotwendig miteinander verbunden und aufeinander bezogen. Der Papst kann sein Amt nicht ohne die Bischöfe ausüben, da diese
die von Gott bestellten Mithirten des Papstes sind. Auf ihre Mitarbeit ist der Papst
kraft göttlicher Anordnung angewiesen. Sie sind keine Vikare oder Beauftragte des
Papstes, die ohne weiteres ersetzt werden könnten. Aber auch die Bischöfe sind auf
den Papst angewiesen, weil in Petrus das Unterpfand der Einheit gegeben ist. Es ist
das Vorrecht des Papstes, die Bischöfe in ihre Diözesen einzusetzen und die Ausübung ihrer Hirtengewalt entsprechend den Erfordernissen der Kirche zu regeln21.
Die Stellungnahme der Konzilsväter der italienischen Richtung ließ nicht auf
sich warten. Generell äußerten sich diese Konzilsväter gegen eine Erklärung des ius
divinum der Residenzpflicht, weil sie glaubten, dass durch die Konsequenzen, die
sich daraus ergeben würden, die Rechte des Primates angetastet, ja eingeschränkt
würden. Der Bischof von Montefalasci machte sich zum Sprachrohr dieser Befürchtung, wenn er in seinem Votum erklärt:
Declaratio autem, quo iure sit residentia, non videtur facienda, ne si declaretur, eam esse de iure divino, ex consequentia dicatur, distinctionem
dioecesium et earum assignationem esse de iure divino, cum eadem ratione, qua probatur primum, probaretur secundum. Item ne decidatur, episcopos a Christo institutos, nam posito uno, alius sequitur. Et cum episcopi successerint apostolis, ea facere tenentur et possunt, quae apostoli ex
institutione divina fecerunt et ut ubique locorum episcopi sicut apostoli
auctoritatem exercere valeant. Praeterea episcopi transferri non possent
ad aliam ecclesiam […] Item Pontifex super residentiam dispensare non
posse22.
C.T. IX, S. 292-293; C.T. IX, S. 293, 5-20.
C.T. IX, S. 349.
21 C.T. IX, S. 302 Vicensis.
22 C.T. IX, S. 282-283.
19 20 294
Wenn die Bischöfe von Gott unmittelbar zu Hirten bestellt werden und ihre
Leitungsgewalt von Gott empfangen, wie können sie dann noch dem Papst unterstehen? Wie kann man dann noch von einem wirklichen Jurisdiktionsprimat sprechen?
Wenn den Bischöfen ihre Jurisdiktionsgewalt von Gott übertragen würde, dann wären sie berechtigt, sie in gleicher Weise wie der Papst auszuüben. Das war das Problem, dem sich die Gegner der spanischen Richtung gegenüber sahen. Nach ihrer
Auffassung können die Bischöfe nur wirksam dem Papst untergeordnet sein, wenn
sie von ihm zu Hirten bestellt werden, unmittelbar von ihm die Hirtengewalt für eine
bestimmte Diözese erhalten und dort durch ihn zur Residenz verpflichtet werden.
Die notwendige Beweisführung dazu übernimmt der Bischof von Justinopolis, der mit seinem Votum vom 9. April 1563 darlegt, dass Petrus der von Christus
bestellte alleinige Hirte ist und der uneingeschränkte Gewalt über seine Schafe, zu
denen auch die übrigen Apostel und die Bischöfe gehören, ausübt. Ebenso ist der
Nachfolger Petri, der Papst, der alleinige von Christus bestellte Hirte, der seinerseits als Hirten die Bischöfe beruft und ihnen Anteil an seiner Hirtenaufgabe gibt,
die er selbst nicht allein wahrnehmen kann. Wenn aber die Bischöfe vom Papst als
Hirten eingesetzt werden, so ergibt sich daraus, dass sie auch vom Papst die Leitungsgewalt erhalten und von ihm zur Residenz verpflichtet werden23.
Eine Einschränkung der päpstlichen Gewalt durch die Aufwertung der bischöflichen Stellung könnte gegebenenfalls großen Schaden für die Bischöfe mit
sich bringen. Der Papst und seine Autorität wären dann kein Schutz mehr vor den
Zugriffen der weltlichen Machthaber24.
Mit ihren Ausführungen tragen die Konzilsväter der italienischen Richtung
zwar zu einer Stärkung des päpstlichen Primates bei, dem eigenständigen Wesen
des Bischofsamtes wird dabei aber zu wenig Rechnung getragen.
In ihrer Antwort verteidigen sich die spanischen Bischöfe energisch gegen
den Vorwurf, die päpstliche Autorität schwächen oder gar sich von Rom trennen
zu wollen25. Gerade diejenigen, die gegen eine Erklärung des ius divinum agitieren,
untergraben damit die Autorität des Apostolischen Stuhles. Dies erklärt der Bischof von Vich: „Hoc unum dico, nimium Apostolicae Sedis studiosi videri volunt,
gravissimam eos Apostolicae Sedi ignominiam inurere, quasi illa divino iure et
veritatis explicatione labefactari ac non potius firmari et stabiliri possit. Si Pontificatus divino iure constitutus est, quid ius divinum metuistis? An veritati veritas
repugnant? Unus est enim episcopatus, nec solus successor Petri est episcopus, sed
etiam alii sunt episcopi“26.
Die Konzilsväter der spanischen Richtung weisen darauf hin, dass die Grenzen der päpstlichen Gewalt durch die göttliche Heilsordnung gegeben sind und in
dieser Heilsordnung sind die Bischöfe die von Gott bestellten Hirten. Der Hl. Stuhl
bleibt aber immer „ecclesiarum mater et veritatis magistra et custos“27.
C.T. VIII, S. 43, 35-40 und S. 434, 1-5.
C.T. IX, S. 276.
25 C.T. IX, S. 283, Auriensis.
26 C.T. IX, S. 302.
27 C.T. VIII, S. 453, 40-45 Sutrinus.
23 24 295
Durch das eingehende Studium der Hl. Schrift und der Kirchenväter sowie
bedeutender Theologen und Kanonisten wie Heinrich von Genf, Johannes von Paris, Johannes Gerson und Francisco de Victoria glaubten die Konzilsväter der spanischen Richtung mit ihrer Auffassung im Recht zu sein.
Nach den Auseinandersetzungen über das ius divinum im Zusammenhang mit
der Residenzpflicht folgten die Diskussionen über das Weihesakrament. Der zur
Debatte gestellte Canon 8 enthielt diesbezüglich die Aussage: „Si quis dixerit episcopos non esse iure divino institutos et presbyteris superiores aut non habere ius
ordinandi, vel id etiam presbyteris competere. Anathema sit“. Es wurde hier wohl
an die göttliche Einsetzung des Bischofsamtes als solchem und nicht an die göttliche Einsetzung der konkreten Bischöfe gedacht. Die darauf folgende Abänderung
des Canons 8 in einen Canon 7, wodurch das ius divinum gestrichen wurde, sorgte
dann aber für einen lang andauernden und mit Heftigkeit ausgetragenen Streit der
beiden Richtungen der Konzilsväter.
Für das ius divinum des Bischofsamtes erklärten sich neben den spanischen
Konzilsvätern die Franzosen, die Vertreter des Kaisers und einige Italiener, das heißt
mehr als ein Drittel der anwesenden Konzilsväter. Angeführt wurde diese Gruppe
von dem wortgewaltigen Erzbischof von Granada, der in seinem Votum ausführte:
„Episcopos esse iure divino et a Christo institutos sunt veritates certissimae et indubitabiles“, die bestens von der Hl. Schrift und der kirchlichen Tradition bezeugt
werden. Beim Papst zweifelt niemand, dass er unmittelbar von Gott zum Bischof
eingesetzt wird. Was vom Papst ausgesagt wird, das gilt auch für die übrigen Bischöfe. Auch sie werden unmittelbar von Gott bestellt. Von Gott wird den Bischöfen die
Weihegewalt und die Leitungsgewalt übertragen28. Mit der göttlichen Einsetzung der
Bischöfe ergibt sich auch eine andere, sichere Wahrheit, nämlich dass die Bischöfe
die eigentlichen Nachfolger der Apostel sind: „Veritas est certissima numquam dubitata a patribus antiquis, quia episcopi sint apostolorum successores“29.
Die göttliche Einsetzung der Bischöfe und die Tatsache, dass sie wirkliche Nachfolger der Apostel sind, legen den Gedanken nahe, dass die Bischöfe auch die für die
Erfüllung ihrer Amtsaufgaben erforderlichen Gewalten unmittelbar von Gott empfangen haben, da sie ihrem Wesen nach als übernatürliche Gewalten nicht von einem
Menschen ausgehen können. Der Papst ist daher bei der Übertragung der Gewalten
an die Bischöfe nur dienender Vermittler. Aufgabe des Papstes ist es aber, die Diözese
zuzuteilen, wo die von Gott übertragenen Gewalten ausgeübt werden können30.
Als Nachfolger der Apostel werden den Bischöfen die Gewalten unmittelbar
von Gott übertragen und somit sind sie kraft göttlichen Rechtes den Priestern übergeordnet31. Dies muss vom Konzil erklärt werden, da sonst die Gefahr besteht, dass
sich die Priester die Ausübung bischöflicher Gewalten anmaßen32.
C.T. IX, S. 49.
C.T. IX, S. 49, 10-20.
30 C.T. IX, S. 49-50 und 50, 1.
31 C.T. IX, S. 49, 25-35 Granatensis.
32 C.T. IX, S. 82, 20 Montismaranus.
28 29 296
Was die Stellung des Papstes anbelangt, sind die Konzilsväter der spanischen
Richtung der Auffassung, dass der Papst nicht dadurch den Bischöfen übergeordnet ist, dass er der Ursprung ihrer Leitungsgewalt ist. Der Papst ist nur Mensch
und kann deshalb nicht Ursprung einer geistigen/geistlichen Gewalt sein. Deshalb
ist die Tätigkeit des Papstes bei der Übertragung der Leitungsgewalt an die Bischöfe vergleichbar mit der eines Spenders der Sakramente. Bei einem Vergleich
der bischöflichen Gewalt mit der päpstlichen ist festzuhalten: „Atque enim una est
spiritualis sicut alia, et licet una amplior et maior, non tamen alterius generis“. Der
Papst empfängt von Christus die höchste Leitungsgewalt und ist dadurch „minister
generalissimus et omnibus superior“. Allerdings wird der Papst durch die Übertragung der Fülle der Leitungsgewalt nicht zum absolutistischen Herrscher, denn er
ist wie die Bischöfe zum Heilsdienst an den Gläubigen bestellt. Durch die Übertragung der bischöflichen Gewalten von Gott, sind aber die Bischöfe dem Papst nicht
gleichgestellt, sondern ihm untergeordnet. Die Unterordnung besteht darin, dass
die Bischöfe ihre Leitungsgewalt nicht ausüben können, wenn nicht der Papst die
Ausübung erlaubt und ermöglicht33.
Wie schon mehrfach erwähnt, lag nichts den Konzilsvätern der spanischen
Richtung ferner als die Rechte des päpstlichen Primates einzuschränken. Sie sahen
vielmehr in der Aufwertung der bischöflichen Stellung ein geeignetes Mittel, den
päpstlichen Primat zu stärken34.
Diese Argumente der Konzilsväter der spanischen Richtung riefen den Widerspruch zahlreicher italienischer Konzilsväter hervor. Es sind vor allem der Erzbischof von Rossano Calabro und der Jesuitengeneral Jakob Laynez, die in ausführlichen Voten gegen die spanische Richtung Stellung beziehen.
Für den Erzbischof von Rossano genügt es, dass das Konzil erklärt: „Si quis
dixerit, episcoporum ordinem seu gradum non esse a Christo Domino institutum:
anathema sit“. Eine Erklärung, die auch die Jurisdiktionsgewalt mit einbezieht,
lehnt er ab. Der Canon soll lediglich die aus der Weihegewalt resultierende Würde der Bischöfe gegen die Angriffe der Reformatoren schützen. Den Erörterungen über die Jurisdiktionsgewalt möchte der Erzbischof aus dem Weg gehen, denn
namhafte Kirchenväter und Theologen widersprechen ihrem göttlichen Ursprung
und sind vielmehr der Ansicht, dass diese vom Papst unmittelbar übertragen wird.
Eine ohne Einschränkung gegebene Erklärung des ius divinum der Bischöfe ist
daher nicht annehmbar35.
Der Jesuitengeneral P. Laynez ist der Meinung, dass die Bischöfe nur hinsichtlich der Weihegewalt de iure divino sind. Sie haben sie von Gott empfangen
und sie ist unveränderlich. Hinsichtlich der Jurisdiktionsgewalt sind die Bischöfe
nicht de iure divino, da die Jurisdiktionsgewalt von Christus unmittelbar nur dem
Petrus und seinen Nachfolgern und den Aposteln übertragen wurde. Den Bischö-
C.T. IX, S. 50, 7; 50, 10 und 50, 15 Granatensis.
C.T. IX, S. 49, 30 Granatensis.
35 C.T. IX, S. 53, 20 und 55, 5.
33 34 297
fen wird sie durch den Papst übertragen und ist deshalb, weil sie von Menschen
stammt, veränderlich und nicht de iure divino36.
Damit zeigten die italienischen Konzilsväter mit ihren wichtigsten Rednern,
dass sie eine uneingeschränkte Erklärung des göttlichen Rechtes nicht zulassen
wollen.
Auch hinsichtlich der apostolischen Nachfolge der Bischöfe entwickelten die
italienischen Konzilsväter ein eignes Konzept. Nach der Lehre Martin Luthers hat
Petrus im Papst, die Apostel in den Bischöfen ihre Nachfolger. Um dem zu widersprechen, ist der Erzbischof von Rossano der Meinung, dass allein der Papst
der wirkliche Nachfolger Petri ist, die Bischöfe hingegen sind nicht wie der Papst
wirkliche Nachfolger der Apostel, sondern lösen die Apostel nur in ihrer Aufgabe
ab. Sie treten an die Stelle der Apostel – in loco apostolorum – und übernehmen
ihren Dienst in der Kirche37.
Pater Laynez beschränkt den Heilsdienst, den die Bischöfe von den Aposteln
übernommen haben, auf die Funktionen der Weihegewalt. Hinsichtlich der Jurisdiktionsgewalt führt er aus: „Nam Petro et successoribus eius data est a Deo immediate, aliis
Apostolis mediate; sed ego credo quod immediate, et hoc fuit speciale privilegium“38.
Nach Meinung des Erzbischofs von Rossano ist es sicherlich verkehrt, von
einer Überordnung der Bischöfe über die Priester kraft göttlichen Rechtes zu sprechen. Weder Hieronymus, noch Johannes Chrysostomus, noch Ambrosius, noch
Thomas von Aquin sehen einen von Gott angeordneten Unterschied zwischen Bischöfen und Priestern. Hinsichtlich der Jurisdiktionsgewalt sind die Bischöfe keinesfalls den Priestern übergeordnet. Da sie auch keine wirklichen Nachfolger der
Apostel sind, stehen sie mit den Priestern auf gleicher Stufe. Folglich ist das positive Recht vollkommen genügend, da es die Priester den Bischöfen unterstellt und
die Vollmacht gibt, ihre Unterordnung zu erzwingen. Nur die Weihegewalt verleiht
den Bischöfen gegenüber den Priestern eine höhere Würde39. Wenn von anderen
italienischen Konzilsvätern eine Überordnung der Bischöfe kraft göttlichen Rechtes anerkannt wird, dann ist dies nur hinsichtlich der Weihegewalt der Fall.
Hinsichtlich des päpstlichen Primates war es unerschütterlicher Grundsatz
der italienischen Konzilsväter, dass dem Papst von Christus die Fülle kirchlicher
Leitungsgewalt übertragen worden ist und dass von ihm alle in der Kirche ausgeübte Leitungsgewalt ihren Ausgang nimmt. Die Ansicht von P. Laynez lautet: „Papa
autem solus est vicarius generalis Christi et ideo solus est immediate a Deo, ceteri
vero ab ipso. Nam Vicarius generalis fit a Domino, vicarius autem particularis a
Vicario generali“. Der Papst ist wie der Generalvikar das „alter ego“ seines Herrn.
Die Bischöfe werden vom Papst in der Weise ernannt, wie die Vikare vom Generalvikar ernannt werden40.
C.T. IX, S. 95, 30 und 95, 45 und 96, 30.
C.T. IX, S. 52, 25-30.
38 C.T. IX, S. 96, 25.
39 C.T. IX, S. 57, 10-20.
40 C.T. IX, S. 100, 5.
36 37 298
Die bischöfliche Gewalt wird von P. Laynez wie auch von anderen Konzilsvätern der italienischen Richtung in Weihegewalt und Jurisdiktionsgewalt unterschieden. Beide Gewalten haben als Ziel die Heiligung des Menschen. Die Mittel, deren
sie sich bedienen, sind verschieden. Die Jurisdiktionsgewalt wendet äußere Korrektionsmittel an, die Weihegewalt dagegen heiligende Gnadenmittel, die im Innern des
Menschen wirksam werden und von Gott eingesetzt sind. Während die Weihegewalt
unmittelbar von Gott übertragen wird, genügt es zur Ausübung der Jurisdiktionsgewalt, dass ihr Träger bzw. Empfänger ein vernünftiger Mensch und mit Rücksicht
auf das Kirchenrecht Kleriker ist. Die Jurisdiktionsgewalt wird deshalb nur durch
einfache Bevollmächtigung von Seiten des zuständigen kirchlichen Oberen erteilt.
Sie wird also nicht immer von Gott, sondern auch von Menschen übertragen.
Petrus ist von Christus zum Hirten der gesamten Kirche bestellt worden und
hat damit auch von ihm die Gewalt für die gesamte Kirche erhalten. Wenn nun der
Papst als Nachfolger des hl. Petrus mit derselben Hirtenaufgabe und Gewaltenfülle
von Christus betraut worden ist und seinerseits sich in den Bischöfen Gehilfen für
die Durchführung seines Hirtenamtes bestellt, so übergibt er ihnen mit der Hirtenaufgabe in einem Bistum auch die dazu erforderliche Gewalt41.
Mit P. Laynez stimmen auch die Voten der übrigen italienischen Konzilsväter
überein. Er selbst hat mit seinen Ausführungen dem Papst und dem päpstlichen
Primat einen großen Dienst erwiesen, weil er nicht nur alle einschlägigen Schriftund Kirchenväterstellen, sondern auch alle theologischen und kirchenrechtlichen
Argumente, die für eine unmittelbare Übertragung der Jurisdiktionsgewalt von
Gott angeführt werden konnten, zu „entschärfen“ bzw. für seine Thesen zu interpretieren versuchte. Was aber P. Laynez offensichtlich fehlte, war die Kenntnis
der kirchlichen Lehre und Praxis des ersten Jahrtausends, wonach es allgemeine
Überzeugung war, dass dem Bischof die gesamte Hirtengewalt bei seiner Weihe
unmittelbar von Gott übertragen wird42.
Und gerade diese Lehre und Praxis bringen die Konzilsväter der spanischen
Richtung in Erinnerung, wenn sie, wie der Bischof von Segovia, darauf hinweisen,
dass der Konsekrator in der Bischofsweihe für den zu weihenden Bischof den „spiritus gubernationis“ erfleht. Diese Auffassung wird noch erhärtet durch das Zeugnis zahlreicher Väter wie Clemens von Rom, Ana­kletus, Evaristus, Alexander I.,
Leo der Große und Cyprian von Karthago, sowie durch das Konzil von Konstanz,
das erklärte, dass nicht nur der Papst seine Gewalt von Gott empfangen hat, sondern auch die Bischöfe und die Bischofsversammlung43.
Aus der Tradition lässt sich nach Meinung des Bischofs von Segovia noch
ein weiteres Argument anführen. Die Apostel, die ihre Leitungsgewalt unmittelbar
C.T. IX, S. 96, 25-28 und 33-38 und 94, Fußnote 2.
C.T. IX, S. 140, 31-50 und 141, 1-2.
43 Der Bischof von Segovia beruft sich hier auf das Dekret „Sacrosancta“ des Konzils von
Konstanz, Sess. V vom 6. April 1415: „Haec sancta Synodus Constantiensis […] declarat, quod
ipsa in spiritu sancto congregata, concilium generale faciens et ecclesiam catholicam repraesentans, potestatem a Christo immediate habet […]“.
41 42 299
von Christus empfangen hatten, bestellten ihre Nachfolger selbst, wie das Beispiel
des hl. Paulus zeigt. Diese von den Aposteln bestellten Nachfolger waren wirkliche
Bischöfe, ohne dass ihnen von Petrus irgendwelche Gewalt übertragen worden war.
Zugunsten dieses Zeugnisses spricht auch das Konzil von Nizäa, das die Bischofsweihe durch die Nachbarbischöfe bzw. durch den Metropoliten vorschreibt, ohne
dass dabei eine Intervention des Papstes erwähnt wird44.
Um in gewisser Weise den Konzilsvätern der italienischen Richtung Rechnung zu tragen, unterscheiden die Konzilsväter der spanischen Richtung zwei
Quellen der Leitungsgewalt, nämlich die Bischofsweihe und der Papst. In der
Weihe wird dem Bischof eine seinem Amt zugehörige Leitungsgewalt unmittelbar
von Gott übertragen. Die vom Papst übertragene Jurisdiktionsgewalt wird dagegen
niemals zu einer dem Bischof eigenen Gewalt, sondern bleibt für ihn eine von der
übergeordneten Autorität erteilte Vollmacht, der sich der Bischof bedienen kann,
die aber auch Nicht-Bischöfen übertragen wird.
Das eigentliche Problem, das sich den Konzilsvätern der spanischen Richtung
stellt, um nicht konziliaren Ideen Vorschub zu leisten, ist die Erklärung wie einerseits die Bischöfe ihre Leitungsgewalt in der Weihe empfangen und andererseits
dem Papst untergeordnet sein können. Um dieses Problem zu lösen – das Argument ist keineswegs neu – stellen sie klar den Unterschied zwischen der von Gott
übertragenen Leitungsgewalt als solcher und ihrer Ausübung, die nur in einem vom
Papst übertragenen Gebiet möglich ist, heraus. Die in der Bischofsweihe übertragene Gewalt ist daher keine ausübungsfähige Gewalt; sie wird es erst durch die
Zuweisung einer Diözese durch den Papst; damit wird sie zur Jurisdiktionsgewalt
im eigentlichen Sinne. Ohne die Zuweisung der Diözese sind dem Bischof, obwohl
geweiht, gewissermaßen die Hände gebunden. Insofern ist die Zuweisung der Diözese wesentlich und damit ein klares Zeugnis für die Primatialgewalt des Papstes,
da nur er und kein anderer in der katholischen Kirche, am wenigstens der Bischof
selbst, diese Zuweisung vornehmen kann und damit die in der Weihe dem Bischof
übertragene Gewalt aktuieren kann.
Außerdem hat der Papst – auch das ist ein schon benutztes Argument – einen
Einfluss bei der Übertragung der bischöflichen Gewalt durch die Weihe, indem
er entweder selbst die Weihe vornimmt oder einen andern Bischof beauftragt, die
Weihe vorzunehmen. Die Funktion des Papstes ist aber hier nur eine dienende (ministerialiter), indem er nämlich das äußere Zeichen setzt oder kraft seiner Autorität
von einem beauftragten Bischof setzen lässt, durch das die innere Gnade, das heißt
die Übertragung der Gewalten von Gott erfolgt45.
In ihrer Antwort behandeln die Konzilsväter der italienischen Richtung,
hauptsächlich vertreten durch den Erzbischof von Rossano und den Jesuitengeneral
P. Laynez, die Frage der bischöflichen Leitungsgewalt bzw. Jurisdiktionsgewalt auf
eine grundsätzlich verschiedene Weise. Man trennt scharf zwischen Weihegewalt,
C.T. IX, S. 141, 24-25.
C.T. IX, S. 172, 22-23.
44 45 300
die den Bischöfen durch die Weihe übertragen wird, und Leitungs- oder Jurisdiktionsgewalt, die nur vom Papst mitgeteilt wird.
Dabei wird das schon benutzte Argument wiederholt: Alle Leitungsgewalt in
der Kirche hat Christus dem Petrus übertragen und von diesem ist sie in ihrer ganzen Fülle auf die Päpste als wirklichen Nachfolgern Petri übergegangen. Somit hält
der Papst die oberste Kirchenleitung in seinen Händen und übt seine Hirtengewalt
als Primatialgewalt über die ganze Kirche aus. Wie Petrus hat auch der Papst die
Vollmacht von Christus erhalten, sich für die Leitung der Kirche Gehilfen zu bestellen. Diese Gehilfen waren die Apostel und sind jetzt die Bischöfe, die der Papst
beruft, indem er ihnen ein bestimmtes Kirchengebiet zur Leitung überträgt und
ihnen dazu die nötige Jurisdiktionsgewalt mitteilt. Diese Leitungsgewalt ist ihrer
Natur nach keine Gewalt, die wie die Weihegewalt unter einem sakramentalen Zeichen mitgeteilt wird, sondern hängt allein vom Willen des Papstes ab, der sie nach
seinem Ermessen in verschiedenem Umfang überträgt und jederzeit auch darauf
Einfluss nehmen kann.
Dass man dabei die in der kirchlichen Tradition offensichtlich besser verankerten Argumente der Konzilsväter der spanischen Richtung nicht berücksichtigen zu können glaubte, ist allein mit dem Bestreben zu erklären, auf möglichst
konsequente Weise die Rechte des päpstlichen Primates zu wahren und gegen alle
episkopalistischen und konziliaren Tendenzen sowie gegen die Lehren der Reformatoren zu verteidigen. Von Rom wurden den Kardinallegaten dazu auch entsprechende Instruktionen erteilt46.
Unter den der päpstlichen Kurie nahe stehenden Bischöfen hatte es aber auch
Männer gegeben, die die Argumente der Konzilsväter der spanischen Richtung
nicht nur nicht zu widerlegen versuchten, sondern dafür sogar Verständnis aufbrachten, ja den Versuch einer Vermittlung unternahmen. Es sind in erster Linie
die Bischöfe von Chioggia, Motula, Nicastro und der Kardinal von Lothringen, die
in mancher Hinsicht den Thesen der Konzilsväter der spanischen Richtung nahe
kommen, in einigen entscheidenden Fragen wie zum Beispiel die Mitteilung der
Leitungsgewalt in der Bischofsweihe doch eher von ihnen abweichen, zumindest
was die Bischöfe von Chioggia, Nicastro und den Kardinal von Lothringen betrifft.
Es handelt sich aber um eine Vermittlung und nicht um den Versuch, den Gegensätzen, die während der Konzilsdebatten auftraten, eine allgemein annehmbare Lösung zu geben.
46 In einem Schreiben des Kardinalstaatssekretärs Carlo Borromeo vom 17. Februar 1563
wurde offen an der Loyalität derjenigen gezweifelt, die sich allzu sehr für die bischöflichen Rechte einzusetzen schienen. Man legte es ihnen als eine bewusste Opposition gegen den päpstlichen
Primat aus: „[…] quello che offende principalmente Sua Santità lo intendere che con tanta arroganza et pertinacia si cerchi di pregiudicare a la autorità di questa Sede […] quelli ancora che
fanno professione d’essere aperti nemici de gli heretici, ardiscano di negare quei titoli a Sua
Santità, che tanto ragionevolmente se gli debbono, et che da li medesimi heretici son dati […]
Sua Santità è adesso tanto risoluta in non voler pregiudicare a l’autorità e dignità sua, la quale gli
è data da Dio et da nissun huomo gli può essere levata“.
301
Der Bischof von Motula fordert die Erklärung im Canon 7, dass die Bischöfe kraft göttlichen Rechtes den Priestern übergeordnet sind. Das bischöfliche Amt
umfasst, so der Bischof von Motula, die Aufgaben des „pascere, regere et docere“,
die mit der Bischofsweihe übertragen werden. Somit sind die Bischöfe nach dem
Zeugnis der Kirchenväter, von denen der Bischof von Motula einige zitiert, göttlichen Rechtes und von Gott eingesetzt. Sonst wäre ja nicht dort, wo die Bischöfe
versammelt sind, die wahre Kirche. Deshalb sollte im Canon 7 erklärt werden, dass
die Bischöfe von Christus eingesetzt sind und vom Papst zur Mitregierung berufen
werden47.
Der Bischof von Nicastro erwähnt in seinem Votum ein zweifaches Eheband.
Wenn der Bischof vom Kapitel gewählt oder vom König nominiert wird, dann ist
das der Anfang seiner geistigen Ehe mit seinem Bistum. Erhält er die Bestätigung
des Papstes, wird das geistige Eheband vervollständigt. Durch die Bischofsweihe
wird die Ehe vollendet und zugleich: „contrahimus aliud vinculum cum ecclesia
universali et cum eo consequimur potestatem libere generandi filios, nempe sacerdotes, in ecclesia nostra particulari et in universali comprehensa; sed consecratio
nihil addit vinculo ecclesiae particulari contracto“. Wird der Bischof geweiht, dann
ist er kraft des unauslöschlichen Weihecharakters für immer Bischof, das heißt:
Jetzt ist er nicht mehr nur auf Grund des positiven Rechtes ernannter Bischof einer
Diözese, sondern gehört zum Episkopat der Gesamtkirche und zwar auf immer
kraft des eingeprägten Charakters. Rein äußerlich betrachtet vermittelt der Bischof
von Nicastro einige neue Ideen. In den anstehenden Fragen kommt es aber zu keiner Annäherung an die Position der Konzilsväter der spanischen Richtung48.
Es mutet sonderbar an, dass ein so hoch gebildeter und einflussreicher Mann
wie der Kardinal von Lothringen von seinem theologisch so guten Ansatz hinsichtlich des ius divinum der Bischöfe abrückt und sich in seinen Ausführungen den
Papalismus der kurialen Richtung des Konzils zu eigen macht. Der Zweck, den
er damit verfolgt, wird wohl der sein, Rom die Sorge hinsichtlich der konziliaren
Ideen in Frankreich zu nehmen49.
Was das vom Konzil schließlich verabschiedete Kapitel IV erklärt, gibt im
Wesentlichen das wieder, was an Vorschlägen von den Konzilsvätern der italienischen Richtung vorbereitet worden war. So vermied man, die Bischöfe als direkte Nachfolger der Apostel zu bezeichnen. Ferner spricht man zwar von einer
Überordnung der Bischöfe über die Priester, vermeidet es aber das ius divinum
zu erwähnen und lässt die Gewaltenfrage offen. Zugunsten der Konzilsväter der
spanischen Richtung spricht jedoch, dass weder in der Frage des ius divinum noch
in der Gewaltenfrage negativ Stellung genommen wurde und die Angelegenheit
nach beiden Seiten hin offen blieb. Ferner konnten die Konzilsväter der spanischen
Richtung auch in ihrem Sinne die Aussage interpretieren, wonach die Bischöfe
C.T. IX, S. 146, 35-39.
C.T. IX, S. 179, 4-15, 15-20, 20-28, 29-40.
49 C.T. IX, S. 208, 25-28, 28-31, 36-38.
47 48 302
vom Heiligen Geist bestellt sind, die Kirche Gottes zu regieren50. Ganz allgemein
waren die einschlägigen Canones von Kapitel IV in erster Linie gegen die Irrlehren
der Reformatoren gerichtet.
Dass die Konzilsväter der spanischen Richtung ihre Zustimmung zum Kapitel IV gaben, obwohl die Frage des ius divinum der Bischöfe und der bischöflichen
Gewalt offen geblieben ist, hat zunächst wohl seinen Grund darin, dass es Kardinal
Morone gelang, den spanischen Gesandten auf seine Seite zu ziehen, um so Druck
auf die spanischen Konzilsväter auszuüben, damit sie Kapitel IV akzeptierten51. Sie
konnten ja immer noch hoffen, dass zu einem späteren Zeitpunkt die Frage des ius
divinum und der Übertragung der bischöflichen Leitungsgewalt neu aufgegriffen
und behandelt werden würde52, eine Hoffnung die sich allerdings erst einige Jahrhunderte später im II. Vati­kanischen Konzil erfüllen sollte.
Hinsichtlich des Weihesakramentes erklärt das Konzil im Kapitel IV: „Sancta Synodus
declarat praeter ceteros ecclesiasticos gradus episcopos, qui in Apostolorum locum successerunt,
ad hunc hierarchicum ordinem precipue pertinere, et positos (sicut idem Apostolus ait) a Spiritu
Sancto ‚regere Ecclesiam Dei‘, eosque presbyteris superiores esse ac sacramentum confirmationis conferre, ministros ecclesiae ordinare atque alia pleraque peragere ipsos posse quarum
functionum potestatem reliqui inferioris ordinis nullam habent“.
51 Vgl. Gustave Constant, La Légation du cardinal Morone près l’Empereur et le Concile
de Trente, avril-décembre 1563, Champion, Paris 1922, S. 437.
52 Der Bischof von Segovia stimmt deshalb den Dekreten mit dem Zusatz zu: „sub spe
futurae declarationis“ (C.T. IX, S. 622).
50 303
Essere infallibilisti
nell’Italia del Settecento
Paola Vismara
La storia della Chiesa di Roma in età moderna è percorsa da molteplici discussioni, tra le quali figura in primo piano, in modo esplicito o implicito, quella
relativa alle modalità autentiche per l’interpretazione e la salvaguardia del depositum fidei, nonché alla sua stessa natura. Non poco spazio occupa il problema della
figura del vescovo di Roma, del suo ruolo, dei suoi poteri. L’infallibilità o meno del
pontefice, attorno al quale nel Medioevo molto si era detto1, tornava ad essere – e
con maggior rilievo – al centro dell’attenzione e vi sarebbe rimasta nella lunga e
lunghissima durata.
In tale percorso una prima tappa fu segnata dal contraddittorio con i Riformati. Nella piena età moderna esercitarono una considerevole influenza in materia
le condanne pontificie del giansenismo e le motivazioni del loro rifiuto da parte
dei fautori di tale corrente, come pure le vicende relative alla pace di Westfalia e
alla perdita di prestigio politico da parte del papato. Le problematiche teologiche e
quelle politiche continuarono a intrecciarsi in tutto l’arco di tempo considerato, dal
tardo Seicento al tardo Settecento. Va inoltre rilevata l’influenza non indifferente
esercitata dalla mentalità giuridico-politica del tempo sulle istituzioni ecclesiastiche e sulla loro configurazione.
Nella contesa giansenista la teologia della grazia appare come elemento importante, ma sin dalle origini, e tanto più nel corso del XVIII se­colo, l’ecclesiologia
divenne la vera cartina di tornasole. Tanto i gallicani quanto i giansenisti ricusavano l’idea che la Chiesa – dunque a maggior ragione il pontefice – fosse infallibile
in materie di fatto. Il dibattito intorno ai “fatti dogmatici”, vivo nel Seicento, si
trasmise al secolo successivo, raggiungendosi via via un maggior grado di precisione nella definizione, assai complessa. Scrive Neveu: “Le ‘fait dogmatique’,
dont la définition a pris forme précise au xviiie siècle, inclut des données factuelles
qui confèrent leur consistance à des affirmations doctrinales, celles-ci ne pouvant
subsister sans celles-là. Le jugement sur le sens de livres ou de propositions offre
un parfait exemple de cet alliage entre le concret du fait et l’énoncé théologique” 2.
La discussione sulle cinque proposizioni offrì lo spunto per un animato dibattito intorno alle competenze pontificie. Per certi aspetti, la questione prioritaria per
Roma divenne questa, assai più che la sostanza del discorso sulla grazia. Le posi-
Brian Tierney, Origins of papal infallibility, 1150-1350. Sovereignty and Tradition in
the Middle Ages, Brill, Leiden 1972; per l’epoca successiva, nell’ampia bibliografia si veda per
esempio Gustave Thils, L’Infaillibilité pontificale. Source, conditions, limites, Duculot, Gembloux 1969.
2 Bruno Neveu, L’Erreur et son juge. Remarques sur les censures doctrinales à l’époque
moderne, Bibliopolis, Napoli 1993, 21 (ivi anche bibliografia) e passim, soprattutto 704-716.
1 307
zioni gallicane e gianseniste diedero dunque il via a riflessioni nelle quali in primo
piano è lo statuto stesso della Chiesa, la figura del pontefice, le condizioni alle quali
egli può giudicare in modo certo (e infallibile) intorno a questioni dogmatiche che,
non rivelate, s’intrecciano con la realtà fattuale. Dallo statuto incerto dei “fatti dogmatici” aveva origine la difficoltà a precisare la natura dell’obbedienza dovuta a
decisioni romane di tal genere3. Gli avversari dell’in­fal­li­bi­lità insistevano sul fatto
che la capacità di discernere in materia dipende dalla capacità di conoscenza da
parte dell’uomo e, di conseguenza, non può attingere la certezza assoluta.
1. Intorno ai “fatti dogmatici”
Anche prima della pubblicazione della Unigenitus, vi furono prese di posizione in materia, due delle quali menzionerò a titolo di esempio. A difesa dell’in­
fal­li­bi­lità pontificia si schierò il gesuita Carlo Antonio Casnedi, nell’opera Crisis
theologica4. In un momento nel quale, a seguito delle condanne di Alessandro VII
e Innocenzo XI, sembrava che ai probabilisti convenisse sminuire tale dato, al contrario il gesuita sostiene vigorosamente che il pontefice sia infallibile5. Ciò non
solo in fide et moribus, ma anche su questioni “di fatto”, come le censure di singole
proposizioni e le canonizzazioni. L’autore non fu noto al di fuori della cerchia
degli addetti ai lavori. Tuttavia le sue idee sono interessanti e ben documentano
l’atteggiamento di chi difendeva il papa contro i suoi “aggressori”: nella fattispecie
giansenisti e gallicani. Egli sembra ritenere che la crisi interna della Chiesa avrebbe potuto essere risolta solo attraverso la difesa del pontefice, la cui figura doveva
divenire sempre più autorevole, sino al pieno riconoscimento dell’in­fal­li­bi­lità.
Lodovico Antonio Muratori, soprattutto nel De ingeniorum moderatione in
religionis negotio, prese posizione sui “fatti dogmatici”. L’opera uscì a Parigi nel
1714, ma si sa che essa era compiuta da qualche anno, circa dal 1710. Le difficoltà incontrate per l’edizione a Modena, Padova e Venezia, nonché il timore di
un intervento inquisitoriale, ne avevano ritardato la pubblicazione6. Le posizioni
3 La questione, assai complessa, presentava molteplici sfaccettature: B. Neveu, L’Erreur et
son juge, op. cit., 663 sqq. e 689.
4 Emanuele Colombo, Un gesuita inquieto. Carlo Antonio Casnedi (1643-1725) e il suo
tempo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, soprattutto al cap. 7, “Più infallibilista del papa”,
175-212.
5 Fu accusato da Concina, insieme ad altri probabilisti, di “mettere in contesa la Pontificia
autorità di questi Decreti [di Alessandro VII e Innocenzo XI]” attraverso la distinzione tra pronunciamenti ex cathedra e pronunciamenti dei pontefici in quanto a capo di una congregazione
romana (nella fattispecie, l’Inquisizione). Daniele Concina, Della storia del probabilismo e del
rigorismo. Dissertazioni teologiche, morali e critiche, In Lucca, e si trovano in Venezia appresso
Simone Occhi, 1743, t. I, 77-78.
6 Già nel 1710, in una lettera a Muratori, Apostolo Zeno segnalava che le reticenze circa
un’eventuale pubblicazione dell’opera erano essenzialmente determinate da quei “capitoli ove
ragionate della fallibilità del papa in materia anche di semplice fatto”; nel caso di pubblicazione
308
dell’autore dunque, malgrado la data di edizione, riflettono una realtà anteriore
alla bolla clementina7. Pur lontano dal giansenismo in materia di grazia, Muratori
insisteva sull’importanza della distinzione tra questione di diritto e questione di
fatto e negava l’in­fal­li­bi­lità della Chiesa per quanto concerne la seconda tipologia.
Lo studioso era alla ricerca di un equilibrio dogmatico, di un “buon gusto” anche
in materia teologica.
Il De ingeniorum moderatione attirò l’atten­zione dei censori del Sant’Ufficio8.
Tra i vari argomenti oggetto di esame, le critiche furono rivolte anche e soprattutto
a questi aspetti. Non poteva trovare buona accoglienza a Roma la diffidenza muratoriana verso qualsiasi proclamazione di infallibilità della stessa Chiesa. Questa
è ritenuta soggetta all’errore in tutto ciò che non attiene strettamente alle materie
di fede. I “fatti dogmatici non rivelati” sono oggetto dell’esercizio della ragione e
della coscienza9. In tal caso, ad avviso di Muratori, il fedele sarebbe tenuto solo
a un “rispettoso ossequio” nei confronti delle decisioni romane, a un’obbedienza
corde et ore la cui natura non è del tutto chiarita. L’idea di “fede ecclesiastica” si era
venuta elaborando a seguito della quaestio iuris et facti, per definire quale assenso
si dovesse ai pronunciamenti romani che concernevano in modo indiretto il depositum fidei10. Viene operata una chiara distinzione tra diritto e fatto, il quale ultimo
ottiene assenso dal fedele per una sorta di evidenza solo morale11. Le affermazioni
del libro, “sicuramente ne avrete la proibizione da Roma” (Lettera 19 luglio 1710, in Anna Burlini Calapaj (ed.), Carteggi con Zacagni… Zurlini, Olschki, Firenze 1975, 317).
7 Sulla quale Muratori poi evitò di pronunciarsi, limitandosi a riferimenti generali e prudenti.
Cf. Paola Vismara, Entre romanisme et antiromanisme : l’œuvre historique de Lodovico Antonio
Muratori, in Sylvio De Franceschi (ed.), Histoires antiromaines. L’antiromanisme dans l’historiographie ecclésiastique catholique (xvie-xxe siècles) (= Chrétiens et sociétés. Documents et
Mémoires, n. 15), Laboratoire de recherche historique Rhône-Alpes-RESEA, Lyon 2011, 87-114.
8 Paola Vismara, Muratori ‘immoderato’, in Ead., Cattolicesimi. Itinerari sei-settecenteschi, Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 2002, 29-61.
9 Per il binomio ragione e coscienza, ad esempio Lodovico Antonio Muratori, De ingeniorum moderatione in religionis negotio, I, 18 (cito dall’edizione delle Opere, Arezzo, per Michele
Bellotti, 1770, t. X/1, 158). Cf. Giuseppe Cacciatore, S. Alfonso de’ Liguori e il giansenismo.
Le ultime fortune del moto giansenistico e la restituzione del pensiero cattolico nel secolo XVIII,
Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1944, 529-531; Pierluigi Giovannucci, Canonizzazioni e
infallibilità pontificia in età moderna, Morcelliana, Brescia 2008, 203-208.
10 Considerazioni sul tema della fede umana ed ecclesiastica: Adolphe Gits, La Foi ecclésiastique aux faits dogmatiques dans la théologie moderne, Bureaux de la Revue, Louvain
1940; Jean-François Chiron, L’Infaillibilité et son objet. L’autorité du magistère infaillible de
l’Église s’étend-elle aux vérités non révélées ?, Éditions du Cerf, Paris 1999; P. Giovannucci,
Canonizzazioni e infallibilità pontificia, op. cit., soprattutto 57-70; E. Colombo, Un gesuita inquieto, op. cit., 185-212; Yves Congar, Fait dogmatique et foi ecclésiastique, in Catholicisme,
Letouzey et Ané, Paris 1956, t. IV, col. 1060.
11 Muratori e l’evidenza morale: De ingeniorum moderatione, op. cit., passim, soprattutto
I, 18-20; cf. in particolare I, 18, 163; I, 20, 176-178; lettera a Francesco d’Aguirre, 24 settembre
1741, citata più avanti. Cf. Alberto Vecchi, L’opera religiosa del Muratori, Edizioni Paoline,
Milano 1955, 127-129.
309
in merito sono indicate dal censore romano come passibili di censura, con le note
falsa, temeraria, erronea.
Anche le critiche rivolte a Muratori circa l’Immacolata Concezione possono esser fatte rientrare in questo medesimo ambito. L’ecclesiastico modenese era
contrario agli eccessi della devozione mariana, che riteneva sommamente evidenti
nel caso del voto di sangue relativo all’Immacolata e giudicava devianti, in quanto
riferite a dottrina non definita. Egli non combatteva la dottrina immacolatista in
sé, ma opinava che mai sarebbe stata dogmatizzata. La tendenza, anche in questo
caso, era quella a circoscrivere il campo dogmatico, a non riconoscere la capacità
dogmatizzante di Roma12. Merita ricordare, almeno en passant, che per ragioni
opposte negli anni sessanta del secolo precedente aveva suscitato riserve ed era
stata posta all’Indice la Immunitas ab errore tam speculativo quam practico definitionum S. Sedis Apostolicae in canonizatione sanctorum et definitione dogmatum
dello scienziato gesuita G. B. Riccioli13, ove la capacità dogmatizzante del pontefice era stata vigorosamente sottolineata per quanto concerne la canonizzazione dei
santi, l’istituzione di festività ecclesiastiche e via dicendo, attraverso argomenti
ritenuti discutibili.
Muratori invece si proclamava scettico per quanto concerne l’eventuale infallibilità nella canonizzazione dei santi. Si noti che, pur con grande moderazione e una sensibilità di fondo al pensiero muratoriano, Lambertini-Benedetto XIV
avrebbe formulato ipotesi diverse nel De servorum Dei beatificatione et beatorum
canonizatione (la cui prima edizione bolognese risale al 1734-1738). Di qui tra
l’altro discende “il definitivo ingresso della questione nell’ambito delle più ampie
discussioni sette-ottocentesche sull’in­fal­li­bi­lità papale e sul primato pontificio”14.
Nel 1741 Muratori scriveva a Francesco d’Aguirre: “Nella Chiesa Santa (a
riserva di ciò che si ha dalla rivelazione o espressa nelle sacre carte, o dedotta per
infallibili conseguenze come nelle materie morali, o venuta a noi per legittima tradizione de’ Padri) tutti gli altri fatti non rivelati possono ben talvolta essere certi e
certissimi per evidenza morale, ma non per questo divengono articoli di fede per li
quali si sia obbligato a spargere il sangue”15.
De ingeniorum moderatione, op. cit., I, 12-15 (soprattutto al c. 15).
Cf. Cesare Preti, Riccioli e l’Inquisizione, in Maria Teresa Borgato (ed.), Giambattista Riccioli e il merito scientifico dei gesuiti nell’età barocca, Olschki, Firenze 2002, 213-249;
P. Giovannucci, Canonizzazioni e infallibilità pontificia, op. cit., 190-196.
14 P. Giovannucci, Canonizzazioni e infallibilità pontificia, op. cit., 227; Mario Rosa, “Il
tribunale della santità”, in Diventare santo. Itinerari e riconoscimenti della santità tra libri, documenti e immagini, Events-Biblioteca apostolica Vaticana, Cagliari-Città del Vaticano 1998,
65-72.
15 Lettera a Francesco d’Aguirre, 24 settembre 1741, in Gianni Fabbri, Daniela Gianaroli
(ed.), Carteggi con AA… Amadio Maria di Venezia, Olschki, Firenze 1997, 184-186; la lettera fu
edita nel 1756 nella Raccolta Milanese. Su d’Aguirre: ibid., 141-145; Roberto Zapperi, Aguirre,
Francesco d’, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 1, Istituto della Enciclopedia Italiana,
Roma 1960, 511-512.
12 13 310
Muratori era consapevole del fatto che il De ingeniorum moderatione suscitava critiche, proprio perché egli vi metteva in discussione la capacità di definizione
dogmatica. La medesima tematica era già stata esposta, seppur meno compiutamente, nelle Riflessioni sopra il buon gusto: “Gli oratori e scrittori d’ottimo gusto
[…] sanno poi bene non doversene ammetter di Dommi, e di cognizioni nuove,
necessarie per istruire la Chiesa di Dio, assai istrutta dal medesimo Cristo e da’ suoi
Apostoli per quello, che si ha obbligazione di credere”16. Altri invece avrebbero
sottolineato il fatto che, pur essendo la Rivelazione perfettamente e pienamente
compiuta, i pontefici avevano il compito di accrescere l’intelligenza della fede; le
definizioni nuove non avrebbero dunque creato dogmi nuovi nella sostanza17.
Le posizioni di Muratori sull’in­fal­li­bi­lità erano peraltro ondeggianti. Mai
nega, come appare ovvio, l’infallibilità della Chiesa. Talora indica come “infallibili
giudici dei dogmi della Chiesa cattolica” pontefici e concili insieme; oppure la
Chiesa unita al papa18. Perlopiù egli riteneva che non si potesse parlare di infallibilità a proposito di facta non revelata.
Le preoccupazioni romane circa il De ingeniorum moderatione si legavano
anche al fatto che era ancora assai viva la diatriba giansenista, in cui la quaestio
iuris et facti aveva avuto tanto peso. A tale retroterra faceva riferimento lo stesso
Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti (cito dall’edizione delle Opere,
per Michele Bellotti, Arezzo 1768, t. VIII), parte I, cap. XI, 159.
17 Per esempio, Giovanni Marchetti, Esercitazioni ciprianiche circa il battesimo degli
eretici e degli scismatici, e il libro de Unitate Ecclesiae del medesimo santo, nella stamperia
Salomoni, Roma 1787, 126, 178 sq.
18 Dichiarazioni più o meno generiche a favore dell’in­fal­li­bi­lità si ritrovano frequentemente
negli scritti di Muratori (ad esempio, lettera a G. C. Battelli, 2 marzo 1717, in Matteo Campori
(ed.), Epistolario, Tipografia della Società Tipografica Modenese, Modena 1901 sqq., vol. V,
1903, n. 1701, 1864-1867). Nei Prolegomena all’opera di Celso Cerri, Muratori s’era mostrato
sostenitore dell’in­fal­li­bi­lità della Chiesa, giudice certissimo anche nei fatti dogmatici (cf. A. Vecchi, L’opera religiosa del Muratori, op. cit., 30 sqq. e 127). Sull’in­fal­li­bi­lità della Chiesa si veda
anche la bella pagina delle Riflessioni sopra il buon gusto, 113. Cf. inoltre Lettera scritta a nome
di una inglese cattolica a uno inglese protestante, pubblicata per la prima volta in Opere, per
Michele Bellotti, Arezzo 1767, t. IV, 345-432, ivi soprattutto 389-391. In quest’opera apologetica
scriveva tra l’altro: “Dio ha conceduta l’in­fal­li­bi­lità alla sua Chiesa, e autorità a lei di decidere le
controversie della fede, e della disciplina; con obbligare i fedeli a sottomettere il lor privato giudizio a quello della Chiesa lor Madre” (349 sq.). Cf. infine gli Annali d’Italia (cito dall’edizione
dalla Società tipografica de’ classici italiani contrada del Cappuccio, vol. VI, Milano 1819, 226).
Si ha talora l’impressione di una qualche ambiguità, secondo i contesti. Infatti, nelle riflessioni
di carattere più generale Muratori si limitava ad asserire l’in­fal­li­bi­lità della Chiesa, senza entrare
in discussioni circa la spinosa questione della diversa “qualità” dei fatti dogmatici. Interviene più
chiaramente in testi come il De ingeniorum moderatione (op. cit., passim, soprattutto I, 16). Nel
voto censorio si menzionava espressamente il seguente passo: “In iis factis, quae Apostolorum
aetatem subsequuta sunt, aut per Traditionem a Christo atque Apostolis nuntiata fuisse non constat, Ecclesia et summi pontifices falli possunt, et re ipsa quandoque errarunt” (I, 16, 142 sq.); cf.
I, 19, 167: “Huiusmodi judicia [a proposito di interpretazioni di libri] feruntur in facta quaedam
non revelata, in quibus nulla ab errore immunitas Ecclesiae Dei promissa fuit”.
16 311
Muratori, le cui allusioni erano peraltro assai misurate19. La prudenza non gli evitò
né le osservazioni del censore né, già prima e forse non senza rapporto, le accuse
di giansenismo da parte di gesuiti. Nel 1730 un suo corrispondente lo informò del
fatto che “in un suo picciol opuscolo [Burgi] ha insolentemente ardito di tacciare
la sua opera De moderatione ingeniorum, anco col solito Gloria Patri del giansenismo, in cui finiscono tutti i salmi gesuiteschi in qualunque materia”20. Analoghe
accuse continuarono ad essergli rivolte, come segnalava Fortunato Tamburini nel
1743, con specifico riferimento a “ciò che scrive Lamindo sopra l’in­fal­li­bi­lità della
Chiesa nella condanna de’ libri”21. Tutto ciò evocava lo spettro del giansenismo,
non ancora esorcizzato.
Alla questione giansenista si affiancava quella gallicana, che nel Seicento,
con la pubblicazione dei “quattro articoli” del 1682, aveva acquisito uno spazio
rilevante. Uno di essi concerneva il valore dei pronunciamenti di Roma, se emessi
indipendentemente dal consenso della Chiesa universale. Pare che Innocenzo XI
avesse in animo di definire dogmaticamente l’in­fal­li­bi­lità pontificia. Quanto meno,
egli commissionò a Tirso González de Santalla, che da lui stesso era stato imposto
come generale della Compagnia di Gesù, un’opera sull’argomento22. Il De infallibilitate Romani Pontificis fu pubblicato nel 1689; nel 1698 fu pubblicata, e successivamente ristampata, una sinossi dell’ampio testo.
In questo percorso la bolla Unigenitus (1713), con la quale Clemente XI condannava 101 proposizioni estratte dall’opera di Pasquier Quesnel, venne a costituire un fondamentale punto di snodo. Il pensiero quesnelliano e la risposta romana
diedero una svolta ulteriore alle polemiche ecclesiologiche. Il rifiuto della bolla,
pur appannaggio di un numero limitato di persone (i cosiddetti appellanti), segnò
profondamente la Chiesa di Francia, non solo a ridosso della sua pubblicazione. Le
discussioni in materia di statuto dei poteri nella Chiesa, già vive, si rinfocolarono
ulteriormente dopo la Unigenitus. Se la bolla, per sollecitazione di Luigi XIV, interveniva su un autore francese e su un testo diffuso in quell’area, di fatto le diatribe
travalicarono subito i confini.
Molta parte dei dibattiti intra-ecclesiastici nel secolo dei Lumi fu appunto
segnata da diatribe ecclesiologiche, sino alla Auctorem Fidei (1794). Scipione de’
Ricci scrivendo a Pietro Leopoldo nel 1783 avrebbe definito la Unigenitus come
“il capo d’opera di Babilonia”, tentativo della Roma-Babilonia di estendere in-
De ingeniorum moderatione, op. cit., ad esempio I, 19-20.
Beretti a Muratori, 12 aprile 1730, in Anna Burlini Calapaj (ed.), Carteggi con Bentivoglio… Bertacchini, Olschki, Firenze 1983, 320.
21 Lettera di Fortunato Tamburini a proposito di un Ritratto della falsa dottrina di Lamindo
Pritanio esposto da Fulgosio Montepelero palermitano [16 febbraio 1743, in Filippo Valenti
(ed.), Carteggio con Fortunato Tamburini, Olschki, Firenze 1975, 123]. Julien Stricher, Le Vœu
du sang en faveur de l’Immaculée Conception. Histoire et bilan théologique d’une controverse,
Academia Mariana Internationalis, Roma, 1959, vol. I, 61 sq.
22 E. Colombo, Un gesuita inquieto, op. cit., 178-179.
19 20 312
debitamente il proprio potere23. Dunque l’opposizione alla bolla poté fungere da
coagulo per quanti intendevano combattere e ridimensionare le “pretese” romane.
Nella Auctorem Fidei il tema è assolutamente predominante, tanto che l’avvio è
dato dalla condanna di una proposizione relativa all’oscura­mento delle verità nella
Chiesa, segnata con la nota di eresia. In effetti, affermare ciò significava negare la
continuità della Tradizione, intesa quale fondamento inalterabile dell’auto­rità della
Sede romana.
Anche la considerazione stessa del giansenismo subì qualche accentuazione dopo la Unigenitus, segnando l’età successiva. “Giansenista” diveniva sempre
più colui che si opponeva a determinate forme del potere pontificio. L’abate Luigi
Cuccagni, scrivendo al giansenista Giambattista Molinelli, così si esprimeva: “Qui
si suol dare il titolo di giansenista, e chiamasi giansenismo in un senso più largo,
a tutti quei che resistono all’autorità delle bolle, e tutte quelle dottrine, che combattono i diritti del Papa e della Chiesa in genere. Ciò è nato dal vedere che tutti i
presenti scrittori nemici della Chiesa e di Roma, e adulatori sfacciati dei principi,
ai quali sottopongono le cose tutte della Chiesa, sono di quelli che si dicevano
giansenisti”24.
Nel 1742 Benedetto XIV, pur incline alla moderazione e al rispetto del pluralismo teologico, indirizzò a Ysé de Saléon, vescovo di Rodez, un breve nel quale la Unigenitus era definita “dogmaticum, definitivum et irreformabile Ecclesiae
iudicium”25. Successivamente nel De Synodo dioecesana il pontefice avrebbe esplicitamente confermato che il giudizio del Papa nelle costituzioni dogmatiche che
riguardano la fede è definitivo e irreformabile26. Altrove egli parla di infallibilità,
23 Scipione de’ Ricci a Pietro Leopoldo, 13 giugno 1783, in Bruna Bocchini Camaiani, Marcello Verga (ed.), Lettere di Scipione de’ Ricci a Pietro Leopoldo 1780-1791, Olschki, Firenze
1992, vol. I, 178. Si riprende una terminologia tipica degli appellanti, che definivano la bolla
“capo d’opera della politica infernale dei gesuiti, rovesciamento della fede, opera delle tenebre”
e via dicendo.
24 Vedi Ernesto Codignola (ed.), Carteggi di giansenisti liguri, Le Monnier, Firenze 1941,
vol. I (LXIX per la citazione, e passim). Sulla figura di Luigi Cuccagni (1740-1798) e sull’evolu­
zione del suo pensiero, da filogiansenista a strenuo difensore dei diritti di Roma, vedi Giuseppe
Pignatelli, Cuccagni, Luigi, in Dizionario biografico degli Italiani, op. cit., vol. 31, Roma 1985,
285-292; Id., Aspetti della propaganda cattolica a Roma da Pio VI a Leone XII, Istituto per la
storia del Risorgimento italiano, Roma 1974, ad indicem.
25 5 luglio 1742. Cf. Pietro Stella, La bolla ‘Auctorem fidei’ (1794) nella storia dell’ultramontanismo. Saggio introduttivo e documenti, LAS, Roma 1995, 128. Al fatto che nella lettera
all’Assemblea generale del clero gallicano Benedetto XIV non utilizzasse il termine regula fidei
si richiamavano i giansenisti. Il testo è comunque esplicito nel dichiarare che “nemo fidelium
possit, absque salutis aeternae discrimine, a debita erga ipsam subiectione sese subducere, aut
eidem nullo modo refragari”, per negare poi recisamente che il viatico potesse essere amministrato ai refrattari (Ex omnibus, 16 ottobre 1756, in Benedicti papae xiv Bullarium, t. III/2, In
Typographia Aldina, Prati 1847, 384-386).
26 De synodo dioecesana, Ex Typographia Fratrum Borsi, Parmae 1764, t. I, lib. IX,
cap. VIII, n. 3, 264. Al tempo stesso, si ha una valorizzazione del ruolo dell’episcopato (Tarcisio
313
e tra gli oggetti indica anche la canonizzazione dei santi e l’interpretazione delle
Scritture27.
Benedetto XIV, dopo la pubblicazione da parte degli agostiniani della lettera confidenziale indirizzata all’Inquisitore di Spagna (Dum praeterito, 31 luglio
1748), reagì asserendo che con la difesa di Noris egli non aveva inteso in alcun
modo negare il valore della Unigenitus28. Nel 1752 pubblicò un breve, a condanna
di un testo francese contro la bolla, smentendo ulteriormente le voci di una sua contrarietà a tale atto pontificio, voci che personaggi in vista della gerarchia romana
facevano circolare ad arte29.
Proprio la lezione della Unigenitus avrebbe indotto successivamente Roma
a valutare attentamente le forme dei pronunciamenti, onde evitare conseguenze
altrettanto gravose. Nel 1745, a conclusione dell’esame di alcune questioni concernenti il prestito a interesse, il domenicano rigorista Daniele Concina aveva
avanzato alcune drastiche proposte. Dopo averle esaminate su incarico di Benedetto XIV, il cardinale Gioachino Besozzi scriveva al pontefice: “Per quello che
riguarda alle tre proposizioni [attribuite a Maffei], non assegnando [Concina]
autori dalli quali l’abbi in terminis cavate, non stimerei io pure opportuno il proporle per condannarsi, acciò non si rinnovino ancora in questa materia le per altro
ingiuste antiche querele de giansenisti, che si fingano in Roma le proposizioni
da condannarsi, quali non si ritrovino ne rispettivi autori, o se ritrovansi aver
annesse alcune restrizioni e cautele, con le quali si porta riparo al cattivo senso
delle medesime”30.
Bertone, Il governo della Chiesa nel pensiero di Benedetto XIV, LAS, Roma 1977, 73 e 82-84).
Il nesso tra i due elementi è messo in luce da Marek Sygut, Natura e origine della potestà dei
vescovi nel Concilio di Trento e nella dottrina successiva (1545-1869), Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1998, 253-254.
27 Cf. T. Bertone, Il governo della Chiesa, op. cit., 72-73.
28 Allegato a Lettera a de Tencin, 14 maggio 1749, in Emilia Morelli (ed.), Le lettere di Benedetto XIV al card. De Tencin, 16 febbraio 1746, vol. II, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma
1965, 157-159. Che dai suoi propri atti, scrive il pontefice, “s’inferisca, ch’abbiamo rivocata
la bolla Unigenitus è un fantasma de’ giansenisti, al quale il solo Iddio può rimediare col fargli
conoscere la verità”.
29 Militantis Ecclesiae regimini, 20 novembre 1752, in Bullarium, t. III/2, op. cit., 36-37.
T. Bertone, Il governo della Chiesa, op. cit., 161. Quanto a coloro che spargono notizie false,
Benedetto XIV dichiara che agiscono “senza permissione o espressa o tacita del papa”, anche se
la loro posizione ecclesiastica potrebbe far ipotizzare un consenso: il riferimento è probabilmente
al card. Corsini (lettera a de Tencin, 27 dicembre 1752, in Emilia Morelli (ed.), Le lettere di
Benedetto XIV, op. cit., II, 535).
30 Card. Gioachino Besozzi a Benedetto XIV, Ospizio di S. Croce, 24 settembre 1745, in
Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, Sant’Officio, Materiae diversae 174549, fasc. XI. Vi si avverte l’eco dei problemi sollevati dalle condanne delle cinque proposizioni;
più remota sullo sfondo la condanna di proposizioni tratte – anche queste senza indicazione di
autore e libro – dall’opera di Baio. Sul contesto: Paola Vismara, Oltre l’usura. La Chiesa moderna e il prestito a interesse, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004.
314
Di fronte a quanti mettevano sempre più in discussione il primato pontificio
e le sue forme di esercizio, aprendo spazi di potere nuovi ai vescovi e al clero
di second’ordine, non mancarono le reazioni di teologi che intendevano non solo
mantenere il ruolo del pontefice, ma anche potenziarlo. Nel 1727, a proposito della
bozza della bolla Pretiosus di Benedetto XIII, il cardinale Bentivoglio osservava:
“Se un pontefice ritratta le decisioni di un altro in materia di fede, dove si fonderà
l’in­fal­li­bi­lità della cattedra di Pietro?”31.
Si consolidò uno schieramento “romano”, nettamente favorevole all’in­fal­li­
bi­lità pontificia, tanto più quanto più si constatava come una determinata ecclesiologia andasse a scapito di un pontificato già in difficoltà e volutamente favorisse
l’intervento dei sovrani in materie ecclesiastiche32.
2. Gli orientamenti degli infallibilisti
Il panorama è ampio e, pur nella relativa compattezza dei filo-romani, le posizioni non sono univoche. Se è impossibile prospettare in breve spazio un quadro
completo, data l’ampiezza del dossier, merita soffermarsi almeno su alcuni personaggi e su alcune linee portanti, per meglio comprendere un passaggio fondamentale nel percorso verso la proclamazione dell’in­fal­li­bi­lità pontificia. Si può inoltre
constatare come progressivamente alcune questioni di teologia della grazia e di teologia morale passino in secondo piano, a fronte di una rilevanza sempre maggiore
delle discussioni ecclesiologiche.
Nel campo del diritto canonico, la Prompta Bibliotheca di Lucio Ferraris –
pubblicata in prima edizione nel 1746 e ristampata moltissime volte33 – presenta il
pontefice come dotato di primato e potere assoluto nella Chiesa, nonché del privilegio dell’in­fal­li­bi­lità: “Decreta, quae edit Papa ex cathedra circa doctrinam fidei et
morum, sunt infallibilia. Est de fide”34.
Citato in Bruno Neveu, L’oracle romain au risque de l’interprétation: Benoît XIII (17241730) et l’ordre dogmatique, in Philippe Koeppel (ed.), Papes et papauté au xviiie siècle, Champion, Paris 1999, 121-144. La considerazione del primato pontificio tra il XVII e il XVIII secolo
è stata fatta oggetto di puntuali riflessioni da parte del autore anche in altri testi: Bruno Neveu,
Érudition et religion aux xviie et xviiie siècles, Albin Michel, Paris 1994; Id., Saint Paul et Rome: à
propos d’une controverse sur la primauté pontificale, in Homo Religiosus. Autour de Jean Delumeau, Fayard, Paris 1997, 446-452; Orthodoxie et innovation, in Susanna Elm, Éric Rebillard,
Antonella Romano (ed.), Orthodoxie, christianisme, histoire, École Française de Rome, Rome
2000, 375-387; L’autorité doctrinale de l’Église à l’épreuve du jansénisme, in Revue d’Histoire
Ecclésiastique 95 (2000) 196-210.
32 Carlo Fantappiè, Le dottrine teologico-canonistiche sulla costituzione della Chiesa nel
Settecento, in Il diritto ecclesiastico 112 (2001) 795-834.
33 Ancora nell’Ottocento: l’ultima edizione data alla fine del secolo.
34 Lucio Ferraris, Prompta bibliotheca […]: Papa, Art. II, “Quo ad ea quae concernunt
Papae dignitatem, auctoritatem, seu potestatem et infallibilitatem” (cito dall’edizione: Venetiis,
Typis Vincentii Radici, 1770, ivi t. VII, 115-123; la citazione, 118). È interessante rilevare alcune
31 315
Una tappa importante è costituita, nella prima metà del Settecento, dall’opera
del domenicano Giuseppe Agostino Orsi, segretario della Congregazione dell’Indice, Maestro del Sacro Palazzo, cardinale35. Nel contesto curialista e filo-romano egli
si distingue non tanto per l’abbondanza della sua produzione quanto per la maggior
radicalità delle sue posizioni. È considerato da successivi avversari dell’in­fal­li­bi­lità
del pontefice, come Pietro Tamburini, in assoluto il difensore più accanito di tale
prerogativa e, più in generale, della “dispotica monarchia” pontificia36. Ad avviso
di Orsi la qualifica dell’in­fal­li­bi­lità non può in alcun modo essere disgiunta dal
primato unanimemente riconosciuto al pontefice; le sue decisioni in materia di fede
sono provviste del carattere dell’in­fal­li­bi­lità 37.
Orsi pubblica sull’argomento non solo in latino, ma anche in italiano. L’intento di tale pubblicazione è subito dichiarato. Egli intendeva argomentare in modo
solido la “difesa e dimostrazione della infallibilità della Sede Apostolica e de’ Romani Pontefici, in definire le controversie appartenenti alla Religione”38. Ciò per
fornire uno strumento “atto a risvegliare […] i sensi dell’antica pietà” soprattutto
presso quanti, spesso di modesto livello culturale, subivano l’influenza delle idee
provenienti dalla Francia39.
In questo periodo si distinguono per le loro prese di posizione a favore dell’in­
fal­li­bi­lità pontificia alcuni rigoristi, come Pietro Ballerini e Daniele Concina. L’insufficiente distinzione perdurata a lungo nella storiografia ha sovente indotto a identificare in modo arbitrario giansenisti e rigoristi. Concina rifiutava con lucidità tale
assimilazione già negli anni quaranta del Settecento. Per quanto concerne il rigore,
osservava: “La differenza però grande è, che i Giansenisti insegnano un rigore soverchio, ed obbligano a cose impossibili. I Cattolici insegnano il più mite rigore”40.
prese di distanza rispetto alle posizioni dell’autore, a partire da quelle dell’anonimo annotatore,
che nell’edizione del 1770 critica pesantemente le asserzioni dell’autore e lo ritiene sospetto di
eresia (ivi 123, nota). Alberigo, che della Bibliotheca utilizza le voci concilium ed episcopus,
tralascia invece la voce papa.
35 Nato a Firenze nel 1692, appartenente all’Ordine Domenicano dal 1708, durante la sua
vita ricoprì diverse cariche: Segretario della Congregazione dell’Indice nel 1738, Maestro del
Sacro Palazzo nel 1749 e Cardinale nel 1761. Morì a Roma nel 1761. Richard F. Costigan, The
Consensus of the Church and Papal Infallibility. A Study in the Background of Vatican I, Catholic University of America Press, Washington D.C. 2005, 78-93. Le idee di Orsi in materia sono
espresse in De irreformabili Romani Pontificis de definiendis fidei controversiis judicio, adversus
quartam cleri gallicani propositionem, Typis Sacrae Congregationis de Propaganda Fide, Roma
1739; De Romani Pontificis in Synodos oecumenicas et earum canones potestate, Typis Sacrae
Congregationis de Propaganda Fide, Roma 1740; Della infallibilità e dell’autorità del Romano
Pontefice sopra i Concili Ecumenici, Nella Stamperia de’ Pagliarini, Roma 1741.
36 Pietro Tamburini, Vera idea della Santa Sede, Dalla Tipografia di Vincenzo Ferrario,
Milano 1818, II, II, § 22-25, 225-233 (17841).
37 G. A. Orsi, Della infallibilità e dell’autorità, op. cit., t. I, 194.
38 Ibid., t. I, 283.
39 Per una definizione dei “decreti solenni et ex cathedra”, ibid., t. I, 306.
40 D. Concina, Della storia del probabilismo e del rigorismo, op. cit., t. I, 54.
316
Un punto forte di discrimine è costituito dal rispetto o meno per l’autorità
pontificia. I giansenisti “attaccarono l’in­fal­li­bi­lità de’ sommi pontefici. […] Le artifiziose scappate, i ritrovamenti insidiosi, e finalmente le ostinate ribellioni hanno palesato la loro contumace disubbidienza alle infallibili decisioni de’ Vicari di
Gesucristo”41. Questo argomento è messo in opera non solo contro i giansenisti, ma
anche contro i probabilisti (tra cui spiccano alcuni autori gesuiti). L’autore asserisce che essi “spacciano al volgo, che basta essere seguace del più probabile, per
essere seguace di coloro che negano l’in­fal­li­bi­lità pontificia” e ritorce contro di
essi le accuse. Ammette che i probabilisti si schierano a difesa dell’in­fal­li­bi­lità, ma
ritiene tali affermazioni incongruenti dal punto di vista logico all’interno del loro
sistema di pensiero42.
Nella difesa dell’in­fal­li­bi­lità pontificia, oltre a Orsi, durante il XVIII secolo
risaltano tra le altre le figure di Pietro Ballerini43, Giovanvincenzo Bolgeni, Alfonso
Muzzarelli. Moltissimi altri autori, che si schierano sul fronte degli infallibilisti,
affrontano la questione senza dedicarvi riflessioni organiche. Definiti “difensori
italiani del papato”, essi sono gli epigoni settecenteschi dell’ecclesiologia controriformistica e della centralizzazione romana, intesa nel suo senso dottrinale più che
amministrativo-istituzionale44.
Non si deve peraltro immaginare un assoluto irrigidimento. Come bene ricorda Neveu, infatti, la scuola “romana”, pur animata da una fedeltà assoluta al pontefice, fonda l’ecclesiologia del primato e dell’in­fal­li­bi­lità sulla base della tradizione
patristica e dà atto del regime di comunione che necessariamente deve intercorrere
tra il pontefice e il collegio episcopale. In tal modo essa “a fourni une contribution
majeure au thème de l’infaillibilité”45.
Lo si può verificare analizzando a titolo di esempio il pensiero di Giovan Vincenzo Bolgeni, che bene illustra il passaggio tra il XVIII e il XIX secolo. Questo
ex-gesuita, colto e agguerrito, interviene sovente nelle diatribe dottrinali e affronta
con coraggio le più svariate tematiche, ivi compresa la questione del “giuramento
civico”, che gli sarebbe costata l’incarico di teologo della Sacra Penitenzieria46. Ne-
Ibid., 41.
Ibid., 188-191 e 197 sqq.
43 1698-1769. Manca un’esauriente biografia del personaggio. Cf. Ovidio Capitani, Ballerini, Pietro, in Dizionario biografico degli Italiani, op. cit., vol. 5, Roma 1963, 575-587; P. Vismara, Oltre l’usura, op. cit., passim. Altro autore di rilievo, tanto citato quanto poco studiato,
è il gesuita Giovanni Battista Noghera (1719-1784). Egli compone due opere sull’argomento
dell’infallibilità: Riflessioni sulla infallibilità della vera Chiesa cristiana nel suo magistero, Nella Stamperia di Bassano, a spese Remondini, 1775; Riflessioni sulla infallibilità del papa nel
magistero dogmatico, appendice alla infallibilità della Chiesa, Nella Stamperia di Bassano, a
spese Remondini, 1776.
44 Philippe Boutry, Tradition et autorité dans la théologie catholique au tournant des xviiie
et xixe siècles. La bulle « Auctorem Fidei » (28 août 1794), in Jean-Dominique Durand (ed.),
Histoire et théologie, Beauchesne, Paris 1994, 59-82. Alcuni nomi: Francesco Antonio Zaccaria,
Clemente Biagi, Ermanno Cristianopulo.
45 B. Neveu, L’erreur et son juge, op. cit, 28-29.
46 Per i dati biografici: Renzo De Felice, Bolgeni, Giovan Vincenzo, in Dizionario biogra41 42 317
veu giudica Bolgeni, come pure altri teologi “romani”, dotato di “esprit d’équilibre,
sens de la mesure, puisés à une profonde connaissance de l’Antiquité chrétienne et
de la science juridique”47.
Il tema dell’infallibilità pontificia emerge in particolare nelle polemiche bolgeniane contro Pietro Tamburini, per esempio nell’Esame della vera idea della
Santa Sede e nella Risposta al quesito Cosa è un appellante?48. L’ex-gesuita negava
la superiorità del concilio sul pontefice e riconosceva a quest’ultimo l’in­fal­li­bi­lità,
anche previamente al consenso della Chiesa universale. Ai fini della dimostrazione
di un principio di natura dottrinale, la storia diviene strumento indispensabile49.
Importava ribattere ai “giansenisti”, per i quali l’in­fal­li­bi­lità era “massima nuova”,
“massima contraria all’antica dottrina della Chiesa”. Bolgeni invece tende a portare
prove a sostegno di un “punto di dottrina […] corredato da moltissime e fortissime
prove, tratte dalla parola di Dio scritta e trádita”50.
Non mancano anche riflessioni di altra natura; Bolgeni, la cui sensibilità alle
varie sfaccettature della realtà è indubbia, tiene conto di un aspetto che concerne in
modo diretto ogni fedele cattolico. Posto che l’opinione della maggioranza possa essere fallace e persino il papa possa errare in materia di fede, ai fedeli non rimarrebbe
alcun elemento di sicurezza: “Chi mi istruirà, chi mi assicurerà quando il Papa colle
sue decisioni agisce in nome della Chiesa, e quando no?”51. Al contrario, “la fede non
può riposarsi sicuramente se non sulla infallibilità dell’insegnamento” e sulla stabilità
della Chiesa. Né, argomenta Bolgeni, si può far dipendere “la solidità del fondamento
dalla solidità dell’edifizio”52. In fondo, si potrebbe affermare che l’orientamento bol-
fico degli Italiani, op. cit., vol. 11, Roma 1969, 274-277. Sul pensiero in materia, qualche cenno,
sostanzialmente evasivo, in Giuseppe Alberigo, Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella Chiesa universale. Momenti essenziali tra il XVI e il XIX secolo, Herder, Roma-Freiburg-Basel 1964,
311 sqq.; efficace la sintetica esposizione di B. Neveu, L’Erreur et son juge, op. cit., 694-700.
47 B. Neveu, L’Erreur et son juge, op. cit., 29. Quanto a Bolgeni, è definito uno dei “défenseurs les plus habiles de l’autorité pontificale” (ibid., 694).
48 G. Bolgeni, Risposta al quesito Cosa è un appellante? ossia Osservazioni teologico-critiche sopra due libri stampati in Piacenza 1784 e intitolati Cosa è un appellante? e Continuazione dell’appellante, presso Antonio Cortesi e Bartolommeo Capitani, Macerata 1787. Bolgeni –
come si evince dal titolo – in quest’opera contestava le idee degli appellanti e il sostegno ad esse
espresso da Pietro Tamburini. Sulla Vera Idea della Santa Sede di Pietro Tamburini, vedi anche
Paola Vismara, L’anti-infaillibilisme des jansénistes lombards à la fin du xviiie siècle, in Sylvio
De Franceschi (ed.), Le Pontife et l’erreur. Anti-infaillibilisme catholique et romanité ecclésiale
aux temps posttridentins (xviie‑xxe siècles) (= Chrétiens et sociétés. Documents et Mémoires,
n. 11), Laboratoire de recherche historique Rhône-Alpes-RESEA, Lyon 2010, 77-104.
49 G. Bolgeni, Risposta al quesito Cosa è un appellante?, op. cit., 113 sqq.
50 Ibid., 135.
51 G. Bolgeni, Esame della Vera Idea della Santa Sede, Nella Tipografia del Collegio Urbano, Roma 18364, § 98-99, 138 e 142. Su alcuni aspetti della polemica contro la Vera Idea
della Santa Sede di Pietro Tamburini, rimando a P. Vismara, L’anti-infaillibilisme des jansénistes
lombards, op. cit.
52 G. Bolgeni, Risposta al quesito Cosa è un appellante?, op. cit., 124 e 236 sq.
318
geniano è una versione “ecclesial-psicologica” delle ben note argomentazioni teologiche di Melchior Cano, nel De locis theologicis, circa le basi della firmitas Ecclesiae.
Si noti che le riflessioni bolgeniane non costituiscono un travisamento del pensiero dei
filogiansenisti. Guadagnini, per esempio, ammette in sostanza che per i fedeli è impossibile riconoscere il pusillus grex e avere un punto di riferimento certo; sull’opposto
versante, non diverse sono le riflessioni di Muzzarelli53. “Povera mia fede, – scrive
Muzzarelli – come dovrà confortarsi nelle sue perplessità ed angustie?”54.
Bolgeni deplora il “falso metodo” degli appellanti, che porta con sé conseguenze nefaste per la Chiesa al suo interno: “Ciò ad altro non può servire che a
staccarmi dal porto sicuro in cui mi trovo, per condurmi in alto mare ad essere
sbattuto dai flutti e portato qua e là da ogni vento di dottrina, e raggirato dalla
malizia degli uomini, dalle insidie dell’errore e dalle illusioni del privato mio
pensare”55. L’infallibilità – negata al papa, persino qualora a lui si unisca la maggioranza dei vescovi come nel caso della Unigenitus – a suo avviso rischia di
divenire appannaggio del singolo, solo o raccolto in conventicola56. Più che considerazioni meramente teoriche di natura controversistica57, le argomentazioni
sembrano scaturire sul terreno dell’osservazione della realtà: di quella riformata,
ove, accanto ad altri fattori, la mancanza di un centro autorevole e indiscusso
aveva favorito la sistematica gemmazione di nuovi frammenti, conflitti anche
violenti, impedimenti nel comunicare e trasmettere la propria identità; di quella
cattolica, ove, nonostante tutte le difficoltà, il pontificato aveva garantito l’uscita
dalla crisi cinquecentesca, il rafforzamento dell’identità, l’espansione missionaria. Tuttavia nel tempo presente il pontificato era bersaglio di molte critiche
dall’esterno e soprattutto dall’interno. Il vero pericolo interno per il cattolicesimo erano considerati i negatori delle prerogative del romano pontefice, in primo
luogo i giansenisti.
Secondo Bolgeni le tesi degli oppositori della Unigenitus avevano contribuito
a costruire il fenomeno dell’in­cre­du­lità. L’analisi è interessante, anche se non è
qui possibile soffermarvisi58. Insomma, a causa della negazione dell’in­fal­li­bi­lità
pontificia il giansenismo e in particolare il fenomeno dell’appello sono intesi quali
fattori di disgregazione della Chiesa come della società intera.
53 Cf. Santino Maruti, Il caso Guadagnini (1723-1807). Tendenze parrochiste nell’ecclesiologia del giansenismo lombardo, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Torino, 2003.
“Non ve l’ho io detto poco innanzi, che se il Papa non è infallibile, anch’io credo di avere gli
stessi privilegi del papa?” (Alfonso Muzzarelli, Il buon uso della logica in materia di religione,
Presso Attilio Tofani, Firenze 1821-18225, t. I, Primato e infallibilità del papa, 97-210, per la
citazione, 146).
54 A. Muzzarelli, Il buon uso della logica in materia di religione, op. cit., 158.
55 G. Bolgeni, Risposta al quesito Cosa è un appellante?, op. cit., 407.
56 Ibid., 250 e 509.
57 Klaus Schatz, Il primato del papa. La sua storia dalle origini ai nostri giorni, Queriniana, Brescia 1996, 186.
58 G. Bolgeni, Risposta al quesito Cosa è un appellante?, op. cit., 321 sqq.
319
Nel 1788 uscì a Brescia un’importante opera dell’ex-gesuita: Fatti dommatici
ossia della infallibilità della Chiesa nel decidere sulla dottrina buona, o cattiva
de’ libri59. Si tratta di una sistemazione coerente e organica della dottrina sull’in­
fal­li­bi­lità pontificia anche nei fatti dogmatici, che prendeva spunto dalla questione
censoria. Bolgeni si domandava “se la Chiesa sia infallibile nel decidere che un tale
determinato libro contiene dottrina ereticale; oppure se la Chiesa possa errare in
una tale decisione? I giansenisti dicono che la Chiesa può errare su questo punto; io
affermo, che non può errare: ecco il punto preciso della questione da trattarsi nella
presente dissertazione”60.
Potrebbe sembrare che si tratti di infallibilità della Chiesa, non del pontefice in senso stretto. Ma: “Se si tratta di insegnamento pubblico e di decisioni in
materie religiose, i termini Papa, Sede Apostolica, Chiesa Romana, Cattedra di
S. Pietro, sono tutti affatto sinonimi, e i Padri nostri non vi hanno mai fatta alcuna
differenza”61.
Per quanto qui interessa, risalta con particolare evidenza la prerogativa del
pontefice: “Il Papa è infallibile nelle solenni dommatiche decisioni che indirizza
a tutta la Chiesa come primate e capo di essa e pastore universale di tutti i fedeli:
sogliono comunemente chiamarsi decisioni dommatiche ex cathedra”62.
I fondamenti per l’elaborazione del concetto di infallibilità personale del pontefice erano già stati posti in modo perspicuo anche nell’Esame della vera idea.
Scrive Bolgeni:
Il privilegio della infallibilità pone tra i Vescovi presi separatamente e il
Papa una differenza essenziale. Se il Papa solo è infallibile per se stesso,
[…] questo Privilegio esclude subito la necessità che il Papa nelle sue decisioni, e nel suo insegnamento debba agire di concerto colla sua Chiesa
particolare di Roma, o colla Chiesa universale […]. Il testo pasce agnos
meos, pasce oves meas, è indirizzato al solo s. Pietro a distinzione e preferenza degli altri Apostoli: e con queste parole s. Pietro viene costituito
Capo degli altri Apostoli, e di tutta la Chiesa63.
L’espressione evangelica “Confirma fratres tuos” è utilizzata ai fini della
dimostrazione dell’in­fal­li­bi­lità pontificia: “Essendo per confermare gli altri nella
59 G. Bolgeni, Fatti dommatici, ossia Della infallibilità della Chiesa nel decidere sulla dottrina buona o cattiva de’ libri, Dalle stampe Bossini, Brescia 17881. Cf. Marco Rochini, Giovanni
Vincenzo Bolgeni e le discussioni sui poteri del pontefice, Tesi di laurea, Università degli Studi di
Milano, anno accademico 2009-2010.
60 G. Bolgeni, Fatti dommatici, op. cit., 72. Vi si riscontra l’eco delle posizioni di Fénelon;
cf. sull’argo­mento J.‑F. Chiron, L’Infaillibilité et son objet, op. cit., 136.
61 G. Bolgeni, Fatti dommatici, op. cit., 445.
62 Ibid., 932. Cf. anche G. Bolgeni, Esame della Vera Idea, op. cit., § 91, 130, ove l’autore
afferma che i fedeli sono tenuti a obbedire “coll’intelletto e con vera fede interna a tutte le decisioni del papa”, quando questi si pronuncia ex cathedra.
63 G. Bolgeni, Esame della Vera Idea, op. cit., § 21, 38 e § 34, 52.
320
fede un mezzo assolutamente necessario l’in­fal­li­bi­lità, Gesù Cristo nel comandare
a s. Pietro di confermare i fratelli nella fede gli promise ancora l’infallibilità per
quel tempo, e in quelle occasioni, nelle quali avrebbe dovuto mettere in esecuzione
il comando.”
Il “perfetto concerto di dottrina e di insegnamento tra il Papa decidente ex
Cathedra, e la Chiesa universale” discende dalla comunione dei vescovi con il
pontefice, che possiede in tutta la sua estensione e universalità poteri e prerogative
che i vescovi possiedono solo in parte e limitatamente alla propria diocesi64.
Alla strutturazione gerarchica della Chiesa e ai suoi fondamenti è dedicata
l’opera L’Episcopato, la cui composizione pare essere stata espressamente richiesta
a Bolgeni dal pontefice Pio VI in persona65. La comunione tra i vescovi e il pontefice non è il prodotto di una volontà umana di unanimità, bensì discende dalla natura
stessa dell’epi­sco­pato. Anche i poteri sono conferiti ai vescovi, così come al pontefice, non dalla Chiesa, ma direttamente da Dio, in quanto essi sono rispettivamente
successori degli apostoli e di Pietro. “Il Papa e i vescovi sono vicari e ministri di
Gesù Cristo, non già della Chiesa: dunque non è la Chiesa, cioè a dire tutto il corpo dei fedeli, quel soggetto, che ha la proprietà delle chiavi, e il diritto di far uso
delle medesime per mezzo dei successori degli apostoli sino alla consumazione de’
secoli”66.Tuttavia Bolgeni distingue accuratamente la giurisdizione particolare che
il vescovo esercita nell’ambito della propria diocesi, in sottomissione al papa, dalla
giurisdizione universale del vescovo di Roma.
Ciò che è indispensabile per i fedeli, nel caso di dubbi o difficoltà, è quindi la
comunione con il centrum unitatis (inteso ben diversamente che nell’eccle­sio­logia
giansenista): “La comunione col centro subalterno e particolare non è assolutamente necessaria per essere membro della Chiesa di G. C.; ma sibbene è assolutamente
necessaria la comunione col centro ultimo e universale”67.
Assai interessante è la prospettiva per la quale Bolgeni, autore di notevole
indipendenza e originalità, nella strenua difesa delle prerogative del pontefice – ivi
compresa l’infallibilità – supera la visione sostanzialmente giuridica dell’eccle­sio­
logia post-tridentina. Pur confermando l’indispensabile necessità della monarchia
pontificia, egli propone un modello trinitario, che dà nuovo respiro a tutto il suo
argomentare. L’unità dell’episcopato si esempla a imitazione dell’unità di Dio nella
Trinità delle persone.
L’episcopato è uno solo in tutta la moltiplicità de’ Vescovi, come una sola
è l’essenza divina nella Trinità delle Persone divine. […] Pretendono al-
Ibid., § 85, 121.
G. Bolgeni, L’Episcopato ossia della potestà di governar la Chiesa, senza note tipografiche, 1789. Lo scopo era quello di “sviscerare fin nei suoi fondamenti il punto della gerarchia
ecclesiastica” (Bolgeni a mons. Giovanni Nani, lettera 7 febbraio 1789, Biblioteca Nazionale di
Roma, Fondi minori 719, cit. in G. Pignatelli, Aspetti della propaganda cattolica, op. cit., 129).
66 G. Bolgeni, Esame della Vera Idea, op. cit., § 38, 59-60 e passim.
67 Ibid., § 91, 129.
64 65 321
cuni, che per l’unità dell’Episcopato, e della Chiesa relativamente al suo
governo, basti la sommissione, ed ubbidienza, che tutti, Vescovi e popoli,
sono obbligati a prestare al Pontefice Romano come a Pastor de’ Pastori,
Capo, e Vescovo universale. Ma no: questo non basta. L’unità, della quale
si tratta, deve essere formata ad imitazione, e rassomiglianza della unità
di Dio nella trinità delle persone68.
Nella Trinità vi è un solo principio e origine. Ecco dunque perché autorità e
comunione non sono elementi contraddittori: la teologia trinitaria ne fornisce l’esempio più alto.
Altro personaggio di rilievo per quanto riguarda queste tematiche è l’exgesuita Alfonso Muzzarelli69. All’interno del Buon uso della logica in materia di
religione, un ampio saggio è dedicato all’argomento70; il testo sarebbe poi stato
ristampato come operetta a sé stante nel 1870. Assai sensibile alle tematiche e argomentazioni bolgeniane, nonché all’ispirazione feneloniana71, Muzzarelli non è
autore originalissimo. Emergono peraltro alcuni elementi degni di nota, come lo
spazio dato all’assistenza dello Spirito Santo nelle decisioni dei pontefici. Di norma, è comunque ritenuta indiscutibile l’assistenza dello Spirito per quanto riguarda
la Chiesa: ciò vale in ogni tempo, non solo nella Chiesa primitiva72. L’autore pone
insistentemente l’accento sul fatto che le promesse di Cristo a Pietro circa “l’Unità,
la Fermezza e Immobilità della Chiesa” riguardavano anche e soprattutto il futuro
e si fondavano sull’autorità dei successori di Pietro73.
3. Le dottrine infallibiliste settecentesche tra presente e futuro
In contingenze difficili, Roma aveva sempre più rivendicato la propria “vocation majeure, celle de résoudre à tout moment la disharmonie latente entre la foi
vécue et l’expression dogmatique ou la règle disciplinaire”74: lo si constata partico-
G. Bolgeni, L’Episcopato, op. cit., n. 143 e 146 (ma vedi in generale tutto il cap. VI).
Notizie biografiche a opera di Gaetano Moroni, in Dizionario di erudizione storicoecclesiastica, vol. 47, Dalla Tipografia Emiliana, In Venezia 1847, 295 sqq., e di Giuseppe Baraldi, in Memorie di religione, di morale e di letteratura, t. I, per gli eredi Soliani, Modena 1822,
389-412. Sul suo pensiero ecclesiologico, soprattutto per il versante dei fondamenti dell’autorità
episcopale, vedi M. Sygut, Natura e origine della potestà dei vescovi, op. cit., 281-287.
70 A. Muzzarelli, Il buon uso della logica, op. cit., 97-210.
71 J.-F. Chiron, L’Infaillibilité et son objet, op. cit., 137-139.
72 Asserzione che appare come risposta a una mitizzazione della Chiesa delle origini.
73 A. Muzzarelli, Il buon uso della logica, op. cit., 124 e passim.
74 Bruno Neveu, Juge suprême et docteur infaillible. Le pontificat romain de la bulle « In
eminenti » (1643) à la bulle « Auctorem fidei » (1794), in Id., Érudition et religion aux xviie et
xviiie siècles, op. cit., 441. Sulla traditio continuativa di una Ecclesia docens incarnata soprattutto
dal magistero romano, varie osservazioni nello stesso volume (indicazioni bibliografiche: 382).
Cf. Ph. Boutry, Tradition et autorité dans la théologie catholique, op. cit.
68 69 322
larmente dopo il sinodo di Pistoia, del quale risultano sempre più evidenti agli occhi
di Roma le tendenze disgreganti. Questo percorso e i convincimenti romani sono
interessanti in sé, come pure in prospettiva: guardando in avanti, si scorge la strada
– pur non lineare – verso la definizione dell’in­fal­li­bi­lità pontificia al Vaticano I.
Riprendendo quanto detto sopra, si possono fare alcune brevissime considerazioni conclusive. Osserverei in primo luogo che la sottolineatura del primato e
dell’in­fal­li­bi­lità tanto più è messa in opera quanto più difficili sono i frangenti storici e concreto il rischio della frantumazione interna. Per il periodo in esame è il caso
del giansenismo quesnellista e di quello “pistoiese”, che comportavano il rischio
della policentricità nella Chiesa a danno dell’unità, nonché una decisa subordinazione al potere civile. Si paventava dunque la costituzione di Chiese nazionali, a
loro volta divise al proprio interno e assoggettate in tutto al volere dei governanti.
Si prospettavano i pericoli dell’incertezza e del particolarismo, nel caso di assenza
di una figura centrale dotata del primato di giurisdizione e considerata come infallibile. Si evocava l’incombere di ulteriori lacerazioni, l’incapacità di resistere agli
attacchi, la perdita di visibilità.
Le obiezioni alle dimensioni dell’auto­rità pontificia, già indebolita per altre ragioni, e ai suoi possibili ulteriori sviluppi erano presenti nel giansenismo,
nell’epis­copalismo, nell’anti­gesuitismo, nel giurisdizionalismo. I timori per il confluire di tali orientamenti non erano certo infondati. Stringersi attorno al papa era
dunque considerata, come l’età successiva avrebbe confermato, strategia essenziale
per la difesa della Chiesa stessa75. La propensione per l’in­fal­li­bi­lità pontificia equivaleva a un riconoscimento forte del ruolo della Sede romana, così come la sua
negazione coincideva generalmente con la volontà di opporsi all’esalta­zione del
ruolo del vescovo di Roma. Di particolare peso in ciò era la questione del potere
indiretto del pontefice in rebus temporalibus76.
In secondo luogo, come è stato giustamente rilevato, l’ecclesiologia “romana”
del tardo Settecento, di cui la Auctorem Fidei costituisce il punto più alto e significati-
Sul ruolo attribuito in quest’epoca alla difesa dell’infallibilità, si veda ad esempio quanto
scriveva Alfonso de’ Liguori: “I letterati alla moda hanno tutto l’impegno di togliere l’infallibilità
del Papa, sopra la quale pietra fondamentale è fabbricata la Chiesa. Tolta la pietra fondamentale,
la Chiesa non può reggersi. E questa rovina oggidì si sperimenta, con pianto di tutti i veri fedeli”
(4 dicembre 1776, in G. Cacciat­ or­ e, S. Alfonso de’ Liguori e il giansenismo, op. cit., 220; sul
pensiero di Alfonso circa l’infallibilità cf. soprattutto cap. V, “La costituzione della Chiesa”,
301 sqq.).
76 Si veda a titolo di esempio, per l’Italia, il caso di Antonio Tommaso Schiara (?-1718),
qualificatore del S. Officio e consultore dell’Indice. Il teologo teatino attribuisce una notevole
ampiezza ai poteri del papa, al quale riconosce la più ampia potestas indirecta in rebus temporalibus. Si veda in proposito l’opera – che egli stesso considerava assai innovativa – Romanus
Pontifex omnium Jurium dispositione Propugnandus Christianae Reipublicae exhibetur, typis
Buagni, Roma 1712. Nella Theologia bellica (1702) si trova l’affermazione che il pontefice in
quanto tale non può errare quando parla ex cathedra e che tale assunto è articolo di fede. Sulla
Theologia bellica e il suo autore, vedi Emiliano Redaelli, “Theologia bellica. Un trattato su
guerra e religione agli inizi del XVIII secolo”, in Nuova Rivista Storica 93 (2009) 477-504.
75 323
vo, non è tanto una teologia dell’autorità quanto una teologia della visibilità77. “Sussiste […] sempre la Chiesa, e sussiste sempre quel tribunale, che in mezzo alle dispute
può ricondurre gli animi all’unità: la Chiesa è sempre visibile, sempre discernibile,
sempre colonna e sostegno della verità”78. Tale indirizzo si collega strettamente a
mio avviso alla teologia dell’in­carna­zione, che segna tutta l’epoca moderna. Non a
caso Jean-Louis Quantin ha definito in modo molto efficace la religione cattolica in
genere, e quella tridentina in particolare, come una “religione dell’incarnazione”79.
In terzo luogo, il conclamato ruolo del pontefice non escludeva che il corpo
episcopale avesse una sua precisa configurazione e fosse preso in considerazione nel quadro di un’ecclesiologia complessiva. L’idea che il Concilio Vaticano I
puntasse solo ed esclusivamente all’esalta­zione dell’infallibilità pontificia, le cui
premesse erano state poste efficacemente in opera nel secolo precedente, è astorica. È infatti impossibile valutare a fondo l’ecclesiologia di un concilio incompiuto. Anche per il passato occorre valutare le opere “infallibiliste” nel loro contesto. Per il tardo Settecento, l’esempio maggiore è quello, testé preso in esame,
dell’ecclesiologia bolgeniana. Alla considerazione delle prerogative pontificie si
accompagna una coerente esposizione della figura e del ruolo del vescovo, in modo
particolarissimo nell’opera L’episcopato80. Cuccagni, che mantenne l’adesione alla
scuola agostiniana ma si allontanò dal giansenismo, incentrò larga parte della sua
produzione sull’auto­rità del pontefice, senza per questo lasciare l’episco­pato sullo
sfondo, in un ruolo di pura subordinazione. Ne sono testimonianza, tra i molti testi
pubblicati, Dell’apostolato e de’ suoi diversi gradi e Dell’autorità e della giurisdizione del Romano Pontefice81. L’amico Molinelli sostenne le medesime idee in
77 Cf. Ph. Boutry, Tradition et autorité dans la théologie catholique, op. cit., 81. Si tratta
di un classico tema anti-giansenista, che venne ad assumere nel corso del tempo respiro e peso
sempre maggiori.
78 G. Bolgeni, Esame della Vera Idea, op. cit., § 100, 142.
79 Riporto il passo in questione, che ritengo, nella sua sobrietà, tra le descrizioni più illuminanti del cattolicesimo moderno. “En dernière analyse, il ne s’agit de rien d’autre que de
reconnaître que le christianisme est religion de l’Incarnation, non seulement au sens où l’Incarnation est événement inaugural mais parce que l’histoire même du christianisme, spécialement
dans sa forme catholique et plus spécialement encore, peut-être, dans la version tridentine du
catholicisme, est Incarnation continuée […]. Que l’historien croit ou non en l’Église et en JésusChrist […], l’histoire du catholicisme moderne est nécessairement une histoire de l’Incarnation.”
Jean-Louis Quantin, Alphonse Dupront et l’histoire de la Contre-Réforme, in Revue d’histoire
de l’Église de France 92 (2006) 477-482, ivi 481-482.
80 G. Bolgeni, L’episcopato, op. cit.
81 Luigi Cuccagni, Dell’apostolato e de’ suoi diversi gradi, Nella stamperia di Giovanni
Zempel, Roma 1782; Dell’autorità e giurisdizione della Chiesa e del Romano Pontefice sull’erezione, e distribuzione dei vescovadi e delle parrocchie, sull’elezione e consacrazione dei vescovi,
e sulla disciplina della Chiesa, per Filippo Neri e Luigi Vescovi, Roma 1788. Il papa, in quanto
vescovo di Roma, possiede la giurisdizione sulla Chiesa universale; al vescovo compete un “apostolato esteriore”, per la giurisdizione sulla diocesi che gli è stata affidata da Roma; ma anche un
“apostolato interiore” che gli deriva dalla consacrazione ed è inseparabile dall’episcopato stesso.
324
opere analoghe sin nei titoli. Insomma, la difesa del ruolo e delle prerogative del
pontefice, in condizioni sfavorevoli per il papato, accomunava persone che su altri
argomenti manifestavano orientamenti diversi; inoltre spesso non andava disgiunta
da riflessioni sull’episcopato che, se attaccavano le tendenze episcopaliste, riconoscevano invece il regime di comunione tra collegio episcopale e pontefice82. Non è
dunque a mio avviso accettabile l’idea che in quest’epoca venga affermato sempre
e comunque, da una parte e dall’altra, il dualismo papa-vescovi83.
In ultima analisi, le vie per la costruzione dell’in­fal­li­bi­lità come prerogativa
del pontefice (e non della Chiesa soltanto) si modulano nel corso del secolo dei
Lumi secondo un percorso non lineare, ma complessivamente insistito. “Perché
dunque non si potrà essere Papista anche nel secolo decimo ottavo?”: Alfonso Muzzarelli poneva esplicitamente tale interrogativo84. In più di un caso un orientamento
di questo tipo tiene conto del quadro ecclesiologico generale, non contrapponendo
– bensì ponendo in regime di comunione – il corpo episcopale e il suo capo, il pontefice. I riferimenti scritturistici e patristici sono generalmente precisi, le tesi sono
ben argomentate. All’interno delle varie esposizioni, al di là delle sfumature o degli
accenti particolari, si scorge sia la capacità di riflettere sulle questioni alla luce della situazione coeva sia la volontà di porsi all’interno di una traditio continuativa,
stabile ma non immobile, salda ma non statica.
B. Neveu, L’Erreur et son juge, op. cit., 28-29.
G. Alberigo, Lo sviluppo della dottrina sui poteri, op. cit., in particolare 223.
84 A. Muzzarelli, Il buon uso della logica, op. cit., 181.
82 83 325
L’ESSENZA SACRAMENTALE
DEL PRIMATO ROMANO
Relazioni tra Primato e Ordinazione Episcopale
A proposito della elezione
del Vescovo di Roma
Giuseppe Ferraro
Il tema del Primato del Vescovo di Roma dalla sua definizione dogmatica nel
Concilio Ecumenico Vaticano I1, al Concilio Ecumenico Vaticano II che lo ha ribadito, a tutt’oggi è tema teologico sempre molto attuale, sia nell’ambito interno della
Chiesa Cattolica, sia nel campo dell’ecumenismo, sia considerato in se stesso che
nelle sue relazioni con l’Episcopato (cioè con l’Ordinazione Episcopale). Tale istituzione e la sua esatta concezione e il suo legittimo esercizio certamente sta molto
a cuore non soltanto a chi ne ha l’incarico e ne adempie il supremo ministero, ma
a tutta la Chiesa. Nel nostro tempo l’attenzione all’ufficio primaziale del Vescovo
di Roma è molto sentita anche nei credenti in Cristo che non appartengono alla comunione cattolica, per il comune desiderio dell’unità che oggi è diffuso ovunque. A
questo proposito aveva suscitato vivace interesse quanto scrisse Giovanni Paolo II,
riguardo al suo compito primaziale, nella enciclica “Ut unum sint”, nel punto in cui
chiede l’aiuto di tutti i cristiani per adempiere convenientemente ed efficacemente il
suo mandato di promotore dell’unità; in tale enciclica, dopo avere citato il tratto della
propria omelia pronunciata nella basilica vaticana alla presenza di Demetrio I, Patriarca ecumenico di Costantinopoli, il 6 dicembre 1987, in cui aveva detto: “È per il
desiderio di obbedire veramente alla volontà di Cristo che io mi riconosco chiamato,
come Vescovo di Roma, a esercitare tale ministero. Così, nella prospettiva di questa
perfetta comunione io prego insistentemente lo Spirito Santo perché ci doni la sua
luce e illumini tutti i pastori e i teologi delle nostre chiese affinché possiamo cercare,
evidentemente insieme, le forme nelle quali questo ministero possa realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri”2, il papa così prosegue: “Compito
immane che non possiamo rifiutare e che non posso portare a termine da solo. La
comunione reale, sebbene imperfetta, che esiste tra tutti noi, non potrebbe indurre i
responsabili ecclesiali e i loro teologi a instaurare con me e su questo argomento un
dialogo fraterno, paziente, nel quale potremmo ascoltarci al di là di sterili polemiche,
avendo a mente soltanto la volontà di Cristo per la sua Chiesa, lasciandoci trafiggere
dal suo grido ‘siano anch’essi una cosa sola perché il mondo creda che tu mi hai
mandato’ (Gv 17, 21)? La Chiesa Cattolica, sia nella sua praxis sia nei testi ufficiali,
sostiene che la comunione delle chiese particolari con la Chiesa di Roma e dei loro
Vescovi con il Vescovo di Roma è un requisito essenziale, nel disegno di Dio, della
Cf. Concilio Ecumenico Vaticano I, Sessione IV, Prima costituzione dogmatica sulla
chiesa di Cristo “Pastor aeternus”, cc. I-III, in Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di
G. Alberigo et al., Istituto per le scienze religiose, Bologna 1991, 810-815.
2 Joannes Paulus II, Homilia in templo Sancti Petri habita adstante Ss.mo Dimitrio I Constantinopolitano Archiepiscopo et oecumenico Patriarca, in Acta Apostolicae Sedis 80 (1988)
714.
1 329
comunione piena e visibile. Bisogna, infatti, che la piena comunione di cui l’Eucaristia è la suprema manifestazione sacramentale, abbia la sua espressione visibile in un
ministero nel quale tutti i Vescovi si riconoscano uniti in Cristo e tutti i fedeli trovino
la conferma della propria fede. La prima parte degli Atti degli Apostoli presenta Pietro come colui che parla a nome del gruppo apostolico e serve l’unità della comunità,
e ciò nel rispetto dell’auto­rità di Giacomo, capo della Chiesa di Gerusalemme. Questa funzione di Pietro deve restare nella Chiesa affinché sotto il solo suo capo che è
Cristo Gesù essa sia visibilmente nel mondo la comunione di tutti i suoi discepoli”3.
Il problema dell’unità indubbiamente tocca profondamente il rapporto tra il Vescovo
di Roma e gli altri Vescovi sia all’interno della Chiesa cattolica sia nel campo ecumenico, e tocca all’interno del ministero primaziale stesso il rapporto tra Primato ed
Episcopato, intendendo con Episcopato il sacramento dell’Ordine consistente nella
Ordinazione Episcopale. Appare così l’evo­lu­zione tra la concezione precedente quale
si esprimeva nel modo di descrivere la provenienza della potestà suprema al momento della elezione del Vescovo di Roma e la concezione attuale, che ha il suo fondamento nella dottrina dell’ultimo concilio sulla natura sacramentale della Ordinazione
Episcopale e degli uffici in essa conferiti. Essa sta alla base della disposizione data
da Paolo VI per cui l’eletto al pontificato supremo se è già Vescovo al momento della
elezione riceve subito tutta la pienezza della potestà nel momento della accettazione;
se non è Vescovo deve essere ordinato subito e dopo l’Or­dinazione Episcopale può
essere proclamato Sommo Pontefice, ricevere l’omaggio degli elettori, essere annunciato al popolo e dare la Benedizione urbi et orbi.
Esponiamo cioè, riguardo al tema del Primato nella Chiesa Cattolica, il suo
aspetto sacramentale, il fatto che il Primato, come è stato divinamente istituito e
conferito a Pietro e trasmesso ai suoi successori nella sede di Roma, non soltanto
non esiste e non potrebbe esistere senza la pienezza del sacerdozio ministeriale, la
pienezza del sacramento dell’Ordine che viene conferita dalla Ordinazione Episcopale, ma ha in tale pienezza del sacramento il suo fondamento e la sua radice vitale,
la sua essenza dogmatica, dottrinale e spirituale.
Mettere in evidenza e sottolineare l’aspetto sacramentale del Primato ci sembra che possa essere anche un contributo che favorisce il dialogo ecumenico e può
essere considerato come entrare in dialogo riguardo alla richiesta espressa dall’enciclica “Ut unum sint” sopra riferita.
1. Evoluzione nella dottrina sulla elezione del Sommo Pontefice
Riguardo all’essenza sacramentale del Primato, in seguito al concilio ecumenico Vaticano II si può costatare una evoluzione nella dottrina nello stesso magistero pontificio.
3 Giovanni Paolo II, Lettera enciclica “Ut unum sint” sull’impegno ecumenico del 25 maggio 1995, n. 95-96, in Enchiridion Vaticanum 14, Bologna 1997, n. 2869, 1685.
330
Il segno della evoluzione si può vedere in due atti significativi, avvenuti
a soli 18 anni di distanza dell’uno dall’altro, il primo è il discorso di Pio XII
al partecipanti al secondo congresso mondiale per l’apostolato dei laici del 5
ottobre 1957, l’altro è la costituzione apostolica “Romani Pontifici eligendo” di
Paolo VI del 1° ottobre 1975. Nell’in­ter­vallo tra l’uno e l’altro di questi pronunciamenti è accaduto l’evento ecclesiale dello svolgersi del Concilio Ecumenico
Vati­cano II.
Trattando del rapporto tra gerarchia e apostolato, Pio XII nella sua allocuzione, disse:
Gesù Cristo affidò agli stessi suoi apostoli un duplice potere: prima di
tutto il potere sacerdotale di consacrare, che fu accordato con pienezza a
tutti gli apostoli; in secondo luogo quello di insegnare e di governare, vale
a dire di comunicare agli uomini in nome di Dio la verità infallibile che li
impegna e di fissare le norme che regolano la vita cristiana. Questi poteri
apostolici passarono al papa e ai vescovi. Costoro con l’ordina­zione sacerdotale trasmettono ad altri in una misura determinata il potere di consacrare, mentre quello di insegnare e di governare è proprio del papa e dei
vescovi. Quando si parla di “apostolato gerarchico” e di “apostolato dei
laici”, bisogna tenere conto di una duplice distinzione: prima quella tra il
papa, i vescovi e i sacerdoti da una parte, e l’in­sieme dei laici dall’altra;
poi, nello stesso clero, tra coloro che hanno pienamente il potere di consacrare e di governare e gli altri chierici. I primi (papa, vescovi e sacerdoti)
appartengono necessariamente al clero; se un laico venisse eletto Papa,
egli non potrebbe accettare l’elezione se non alla condizione di essere atto
a ricevere l’ordinazione e disposto a farsi ordinare; il potere di insegnare
e di governare, come il carisma dell’in­fallibilità gli sarà accordato dall’istante della sua accettazione, anche prima dell’Ordi­na­zione4.
Secondo questo insegnamento, in chi è eletto all’ufficio primaziale senza che
abbia ricevuto il sacramento dell’Ordine, la potestà di insegnare (a cui è annesso il
carisma dell’infallibilità nelle condizioni stabilite), e quella di governare sono date
immediatamente, dopo la legittima elezione, con l’atto di consenso dell’eletto, la
potestà di ordine viene data per via sacramentale dalla ordinazione episcopale.
Dopo il Concilio ecumenico Vaticano II, il papa Paolo VI nella costituzione
apostolica “Romano Pontifici eligendo” del 1 ottobre 1975, che aggiornava le norme per l’elezione del Vescovo di Roma afferma:
4 Pius XII, Allocutio iis qui interfuerunt Conventui alteri catholicorum ex universo orbe,
pro Laicorum Apostolatu Romae habiti, die quinta octobris 1957, in Acta Apostolicae Sedis 24
(1957) 924; traduzione italiana: Discorso ai partecipanti al secondo congresso mondiale per l’apostolato dei laici, 5 ottobre 1957, in La Cattolica 108 IV (1957) 183.
331
Avvenuta canonicamente l’elezione, […] dopo l’accettazione l’eletto che
abbia già ricevuto l’ordinazione episcopale, è immediatamente vescovo
della Chiesa di Roma, vero papa e capo del collegio episcopale; lo stesso
acquista di fatto la piena e suprema potestà sulla Chiesa universale e può
esercitarla. Se invece l’eletto è privo del carattere episcopale, sia subito
ordinato Vescovo. Eseguite frattanto le altre formalità, previste dall’ordinamento dei sacri riti del conclave, i cardinali elettori, secondo i modi
stabiliti, si accostano per prestare atto di ossequio e di obbedienza al sommo Pontefice eletto. Successivamente si rendono grazie a Dio e quindi
il primo dei cardinali diaconi annuncia al popolo che attende il nuovo
Pontefice, il quale imparte la benedizione apostolica alla città di Roma e
al mondo. Se l’eletto è privo del carattere episcopale l’ossequio e l’obbedienza gli vengono prestati e l’annuncio al popolo viene dato soltanto dopo che è stato ordinato vescovo […]. L’ordinazione episcopale del
Sommo Pontefice eletto, che non sia ancora vescovo, di cui ai nn. 88 e 89,
viene fatta secondo l’usanza della Chiesa dal decano del sacro collegio
dei cardinali, o in sua assenza dal sotto-decano, o qualora questi sia impedito, dal più anziano dei cardinali vescovi. Stabiliamo che il conclave
[…] abbia fine subito dopo che è stato eletto il nuovo Sommo Pontefice
ed egli abbia dato l’assenso alla sua elezione; e, se non è vescovo, dopo la
sua ordinazione episcopale5.
La disposizione di Paolo VI, ripresa da Giovanni Paolo II, è stata confermata dalla sua Costituzione Apostolica “Universi Dominici Gregis” del 22 febbraio
1996 che regola l’elezione del Papa6.
5 Paulus VI, Constitutio Apostolica de Sede Apostolica vacante deque electione Romani
Pontificis, n. 87-91, in Acta Apostolicae Sedis 67 (1975) 643-645. Traduzione italiana in Costituzione Apostolica Romano Pontifici Eligendo, 1° ottobre 1975, n. 87-91, in Enchiridion Vaticanum 5, Bologna 1979, n. 1540-1544, 975-977.
6 “Avvenuta canonicamente la elezione […] dopo l’accettazione l’eletto che abbia già ricevuto l’Ordina­zione Episcopale è immediatamente vescovo della Chiesa di Roma, vero papa e
capo del collegio episcopale; lo stesso acquista la piena e suprema potestà sulla Chiesa universale
e può esercitarla. Se invece l’eletto è privo del carattere episcopale sia subito ordinato Vescovo
[…]. I cardinali elettori si accostano per prestare atto di ossequio e di obbedienza al neo eletto
sommo pontefice, il primo dei cardinali diaconi annuncia al popolo in attesa l’avvenuta elezione
e il nome del nuovo pontefice il quale subito dopo imparte la benedizione alla città di Roma e al
mondo. Se l’eletto è privo del carattere episcopale soltanto dopo che sarà stato solennemente ordinato Vescovo gli viene prestato l’omaggio e viene dato l’annuncio […]. L’Ordinazione Episcopale del sommo pontefice che non sia ancora Vescovo viene fatta secondo l’uso della Chiesa dal
Decano dei cardinali […]. Il conclave avrà fine subito dopo che il nuovo sommo pontefice abbia
dato l’assenso alla sua elezione.” [Ioannes Paulus II, Constitutio Apostolica “Universi Dominici
Gregis”. De Sede Apostolica vacante deque Romani Pontificis electione, n. 87-91, 22 mensis
februarii 1996, in Acta Apostolicae Sedis (1996) 341-342; traduzione in Enchiridion Vaticanum
18, Bologna 1999, n. 376-381, 167-169].
332
A tale norma è interessata la liturgia; infatti, sono stati pubblicati due libri
liturgici, uno riguardante i Riti del Conclave (= RC), l’altro i Riti per l’inizio del
ministero petrino del Vescovo di Roma (= rimpvr) la cui composizione è stata curata dall’Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice. Il primo libro,
che succede a una precedente edizione del 1978, fu approvato dal Papa Giovanni
Paolo II il 25 marzo 1998, il secondo dal Papa Benedetto XVI il 20 aprile 20057.
Le premesse ne descrivono il contenuto; quelle del RC, dopo avere illustrato l’importanza del conclave, trattano dei riti propri di tale evento e di altre celebrazioni
che possono avvenire nel tempo di svolgimento del conclave in conformità alle
disposizioni date dai documenti che regolano l’elezione del Papa. I singoli capitoli
presentano i vari riti; il primo tratta della Messa per l’elezione del Romano Pontefice prima dell’ingresso in conclave. Il secondo descrive il rito dell’ingresso in
conclave e del giuramento degli elettori. Il terzo, che ha come titolo “L’elezione
del Romano Pontefice” indica gli atti da compiere nelle singole sessioni per realizzare la elezione. Il quarto tratta dell’accettazione e proclamazione del Romano
Pontefice che è stato eletto. Il quinto descrive l’annuncio dell’elezione avvenuta e
la prima benedizione urbi et orbi del Romano Pontefice. Una appendice contiene
i formulari della messa dello Spirito Santo, per la Chiesa universale, della Vergine
Maria del cenacolo, dei santi Pietro e Paolo apostoli, e altri testi tra i quali quello
della Benedizione apostolica urbi et orbi. I Riti per l’inizio del ministero petrino
del Vescovo di Roma nelle premesse, nei tre capitoli e nell’appendice descrivono
le celebrazioni e danno i testi per i riti di inizio del ministero dell’Eletto, tra i quali
ha particolare rilievo la celebrazione eucaristica e l’insediamento sulla cathedra
romana del Vescovo di Roma nella Basilica Lateranense. Anche sulle liturgie che
formano il contenuto di questi libri ha fatto sentire il suo influsso la disposizione
data da Paolo VI nel caso che l’eletto non abbia il carattere episcopale. Le nostre
osservazioni hanno lo scopo di mettere in evidenza, nel procedimento da eseguire
nella elezione del papa, la essenza e il fondamento sacramentale del Primato, essenza consistente nella ordinazione episcopale. Nell’ampia materia ci soffermiamo
su quanto è detto nelle premesse del RC riguardo al capitolo quarto e a quanto è
detto sull’accettazione e proclamazione del Romano Pontefice eletto e poi nel secondo libro su quanto è detto circa il rito di inizio del ministero petrino e il rito di
insediamento sulla cattedra romana del Vescovo di Roma.
La disposizione di Paolo VI sulla immediata ordinazione episcopale da celebrare quando l’eletto sia privo del carattere episcopale è entrata anche nel Codice di
Diritto Canonico della Chiesa latina promulgato da Giovanni Paolo II il 25 gennaio
1983, che nel primo paragrafo del canone 332 stabilisce: “Il Romano Pontefice
La redazione per ambedue è bilingue, italiano e latino: Ufficio delle Celebrazioni liSommo Pontefice, Riti del Conclave, Città del Vaticano 2000; Id., Riti per l’inizio
del ministero petrino del Vescovo di Roma, Città del Vaticano 2005; Officium de liturgicis celebrationibus Summi Pontificis, Ordo Rituum Conclavis, Tipografia Vaticana, E Civitate Vaticana
2005; Id., Ordo Rituum pro Ministerii Petrini initio Romae Episcopi, Tipografia Vaticana, E
Civitate Vaticana 2005.
7 turgiche del
333
ottiene la potestà piena e suprema sulla Chiesa con l’elezione legittima da lui accettata insieme con la consacrazione episcopale. Di conseguenza l’eletto al sommo
pontificato il quale è già insignito del carattere episcopale ottiene tale potestà dal
momento dell’accettazione. Se l’eletto fosse privo del carattere episcopale sia immediatamente ordinato Vescovo”8.
A proposito di questo canone riferiamo il seguente commento:
Nel diritto precedente (can. 219) il Romano Pontefice otteneva la piena e
suprema potestà annessa “iure divino” al suo ufficio fin dal momento in
cui egli dichiarava di accettare l’elezione. Nel nuovo Codice si esige invece, come condizione, che l’eletto sia insignito del carattere episcopale,
per cui, qualora ne sia privo, dovrà essere consacrato vescovo e soltanto
dopo la consacrazione egli otterrà la potestà primaziale che gli spetta.
La nuova norma, introdotta da Paolo VI nella Costituzione apostolica
“Romano Pontifici eligendo” ai nn. 88-89 modifica soltanto una prassi e
non ha alcuna portata dottrinale. Un nuovo Pontefice potrebbe senz’altro
ristabilire la prassi rimasta in vigore fino al presente. Il motivo della variazione apportata è solo una ragione di convenienza: sembra meno proprio che diventi Capo del Collegio Episcopale chi non ne fa ancora parte
attraverso l’ordinazione sacramentale9.
8 CIC can. 332, 1. Stessa formulazione nel CCEO can. 44, 1: “Il Romano Pontefice ottiene la suprema e piena potestà nella Chiesa con la legittima elezione da lui accettata insieme
con l’ordinazione episcopale; perciò l’eletto al sommo pontificato, che sia insignito del carattere
episcopale ottiene la stessa potestà dal momento dell’accettazione; se invece l’eletto è privo del
carattere episcopale, sia immediatamente ordinato Vescovo”
9 L. Chiappetta, Il Codice di Diritto Canonico, Commento giuridco-pastorale, I, Libri I-II,
seconda edizione, Edizioni Dehoniane, Roma 1996, 448. A conforto della sentenza secondo cui
la norma è soltanto una modifica della prassi e non ha valore dottrinale l’autore adduce esempi
storici; ibid., 448-449, nota 2: “È storicamente certo che nel Medio Evo non pochi Sommi Pontefici (ad esempio Gregorio VII, Innocenzo III) esercitarono il loro potere primaziale prima della
consacrazione episcopale. Scrive opportunamente José Miguel Pinto Gomez, Prelato Emerito
della Rota Romana: ‘La separabilità della giurisdizione di fronte alla potestà di ordine appare più
palese in quei Sommi Pontefici che, eletti quando erano diaconi o Presbiteri, esercitarono la loro
suprema giurisdizione con importanti atti di governo, prima di essere ordinati Vescovo di Roma.
Esempi: S. Gregorio I il Grande, eletto nel mese di febbraio, fu ordinato Vescovo il 3 settembre
del 590; S. Gregorio VII eletto il 22 aprile, fu ordinato Presbitero il 22 maggio e consacrato Vescovo il 30 giugno del 1073; Innocenzo III, eletto l’8 gennaio fu ordinato Presbitero il 21 dello
stesso mese e Vescovo il 23 febbraio del 1198; Adriano V eletto l’11 luglio 1276 essendo diacono
e morto il 18 agosto dello stesso anno senza che fosse promosso al Presbiterato, revocò la costituzione del suo predecessore Gregorio X riguardante il conclave; Bonifacio VIII eletto il 24
dicembre 1294 fu consacrato Vescovo il 23 gennaio 1295. A conferma della validità dei suddetti
atti pontifici sta il fatto che Clemente V dichiarò scomunicati coloro che impugnavano siffatta validità’.” [P. A. Bonnet, C. Gullo (a cura di), Il processo matrimoniale canonico, Libreria Editrice
Vaticana, Città del Vaticano 1988, 43]. I commentatori del CIC espongono generalmente la stessa
opinione e indicano gli stessi casi storici. Cf. Pedro Lombardia e Juan Ignacio Arrieta (a cura
334
Questa interpretazione dell’enunciato del canone nega il significato e il valore
dottrinale della disposizione di Paolo VI secondo cui chi al momento dell’elezione
e dell’accettazione non è ordinato Vescovo non è ancora Vescovo di Roma e capo
della Chiesa cattolica, non è ancora vero papa ma lo diviene soltanto dopo avere
ricevuto la ordinazione episcopale che deve essere conferita immediatamente, e
perciò soltanto dopo l’ordinazione l’eletto riceverà l’atto di ossequio degli elettori,
sarà annunciato al popolo e darà la benedizione; l’interpretazione della disposizione del canone riferita ne afferma un significato soltanto pratico, dando una motivazione qualificata come di sola convenienza: “sembra meno proprio che diventi
capo del collegio episcopale chi non ne fa ancora parte attraverso l’ordinazione
episcopale”. Osserviamo subito che questa motivazione va ben oltre la sola “convenienza” di prassi; Pietro era già uno dei Dodici quando il Signore gli conferì il
Primato sugli altri, non è diventato apostolo in quel momento, lo era già prima, in
quel momento è stato elevato a capo degli apostoli.
Secondo quanto abbiamo riferito dell’allocuzione di Pio XII al congresso
mondiale per l’apostolato dei Laici, in chi è eletto all’ufficio primaziale mentre è
privo del carattere episcopale, la potestà di insegnare (a cui è annesso il carisma
dell’infallibilità nelle condizioni stabilite), e la potestà di governare da una parte, e la potestà sacramentale dall’altra, le quali provengono tutte da Dio, vengono
comunicate in modo tale che le prime due possono esistere ed essere esercitate
subito anche da un laico eletto Vescovo di Roma, senza che esista in lui la potestà
sacramentale che viene comunicata dal sacramento dell’ordine con l’ordinazione
Episcopale (Pio XII afferma tuttavia che il laico eletto non potrebbe accettare la
elezione se non a condizione di farsi ordinare); tale era la norma che regolava l’elezione del Vescovo di Roma prima della disposizione della costituzione apostolica
di Paolo VI10.
La posizione rappresentata dalla nuova norma di Paolo VI che prescrive la
immediata ordinazione episcopale dell’eletto Papa che ne è privo, prima che egli
riceva l’omaggio degli elettori e prima che sia annunciato pubblicamente al popolo
come Vescovo di Roma e capo della Chiesa Cattolica è una novità che, riteniamo,
di), Codice di Diritto Canonico, Edizione bilingue commentata, vol. I, libri I. II. III, Università
di Navarra Istituto Martin de Azpilcueta, edizione italiana a cura di Luigi Castiglione, Edizioni
Logos, Roma 1986, 271-272. Sulla valutazione della bolla di Clemente V, cf. J. Hortal Sanchez,
De initio potestatis primatialis Romani Pontificis. Investigatio historico-iuridica a tempore Sancti Gregorii Magni usque ad tempus Clementis V, Libreria Editrice dell’Università Gregoriana,
Roma 1968, 162.
10 Il CIC/1917 can. 219 stabiliva: “Romanus Pontifex legitime electus statim ab accepta
electione, obtinet iure divino plenam supremae iurisdictionis potestatem”. Nella nota a questo
canone sono indicate le fonti, cioè i documenti pontifici che si esprimono nel medesimo senso.
Al termine del CIC nelle edizioni fino al 1946 è riprodotta la costituzione di Pio X “Vacante Sede
Apostolica” dell’anno 1905, che al n. 88 conteneva l’enunciato del canone 219; nelle edizioni
dopo il 1946 è riprodotta la costituzione di Pio XII “Vacantis Apostolicae Sedis” del 1945, che
nel n. 101 conteneva l’enunciato corrispondente.
335
non può essere qualificata come priva di portata dottrinale, come riguardante soltanto la prassi e come dovuta a motivi di sola “convenienza”, essa riguarda soprattutto
la dottrina la quale suppone che chi è eletto e ha accettato l’elezione mentre è privo
del carattere episcopale, non essendo vescovo e membro del Collegio Episcopale
non è ancora vero Vescovo di Roma e vero capo del Collegio Episcopale e della
Chiesa finché non abbia ricevuto l’ordinazione episcopale. Per questo è necessario
richiamare qui la dottrina del Concilio Ecumenico Vaticano II sulla “sacramentalità” dell’ordinazione episcopale: tale ordinazione è sacramento dell’ordine in senso
pieno e completo. Questa dottrina che per varie ragioni si era andata oscurando fin
dal tempo del medioevo, era del tutto chiara nell’antichità.
2. Insegnamento del Vaticano II sulla sacramentalità dell’Episcopato
Il citato discorso di Pio XII è stato pronunciato il 5 ottobre 1957, e la costituzione apostolica di Paolo VI “Romano Pontifici eligendo” è stata pubblicata il 1°
ottobre 1975; benché tra l’uno e l’altro documento siano trascorsi soltanto pochi
anni, l’evoluzione tra le due posizioni è di notevole importanza. Quale la causa di
tale cambiamento? Nel breve tempo di intervallo trascorso tra i due interventi dei
due Papi è avvenuto il Concilio Ecumenico Vaticano II che ha insegnato con grande
rilievo che l’ordinazione episcopale è sacramento dell’Ordine e che nell’ordinazione episcopale vengono conferite tutte tre le potestà del sacerdozio ministeriale,
quella di santificare con i sacramenti, quella di insegnare e quella di governare. Riteniamo che l’evoluzione tra la posizione precedente enunciata nel citato discorso
di Pio XII e quella della nuova disposizione per l’elezione del Vescovo di Roma
formulata da Paolo VI sia stata cagionata dall’insegnamento dell’ultimo Concilio
sulla sacramentalità dell’episcopato e sul modo di trasmissione delle tre potestà sacerdotali di santificazione, di magistero e di governo, come richiameremo tra poco.
La sacramentalità dell’ordinazione episcopale era dottrina già presente nel
magistero di singoli papi precedente l’ultimo concilio, espressa in documenti importanti. In questo senso si era già espresso Leone XIII nella bolla “Apostolicae
curae” sulle ordinazioni degli Anglicani in cui leggiamo: “L’episcopato senza dubbio appartiene con assoluta verità al sacramento dell’Ordine secondo l’istituzione
di Cristo ed è sacerdozio di grado supremo; questo appunto è dichiarato dalla voce
dei santi padri e dalla nostra attuale consuetudine Sommo Sacerdozio, pienezza
del sacro ministero”11. Così pure dalla costituzione apostolica di Pio XII, la quale
ha come titolo “Sacramentum Ordinis” e perciò indica il sacramento dell’Ordine
come tema del documento, e tratta poi come contenuto “De sacris ordinibus Diaconatus Presbyteratus et Episcopatus”12, onde si può concludere che tutti tre questi ordini sono sacramento dell’Ordine. Giovanni XXIII nelle omelie pronunciate
Acta Sanctae Sedis 29 (1896-1897) 200.
Cf. Pius XII, Constitutio Apostolica Sacramentum Ordinis de sacris ordinibus Diaconatus
Presbyteratus et Episcopatus, in Acta Apostolicae Sedis 40 (1948) 5-7.
11 12 336
durante le otto consacrazioni episcopali da lui compiute nelle quali ha ordinato
complessivamente 64 Vescovi si è chiaramente pronunciato sulla sacramentalità
di tale ordinazione. Nell’omelia della consacrazione episcopale dell’otto maggio
1960 aveva detto: “L’umile successore di Pietro circondato dai seniori della chiesa
ripete l’invocazione primitiva, ripete il gesto della trasmissione del carattere episcopale e della grazia”13. Nella omelia del giovedì santo, 19 aprile 1962, in cui diede l’ordina­zione episcopale ai dodici cardinali della Curia Romana che non erano
Vescovi, disse:
Deve cogliersi il “sic decet omnino” della pienezza del sacerdozio appropriata a ciascuno dei componenti questo alto consesso […]. Eccoci
innanzi alla opportunità, alla bellezza, alla più alta efficacia dello zelo
pastorale rappresentata dalla parificazione di tutti i componenti il sacro
collegio dei Cardinali in una stessa dignità di Ordine sacro, di episcopale sacramento […]. Non vi pare che questa di oggi, giovedì santo, sia
una grande festa di giovinezza della santa Chiesa nella rinnovazione di
quel momento supremo in cui il suo Divino Fondatore ha voluto dare il
suo Corpo e il suo Sangue come alimento e istituire al tempo stesso quel
sacerdozio che nel suo nome e per la sua autorità continua nel mondo la
sua missione? Veramente in questa luce prende significato il rito augusto
odierno per cui la pienezza del sacerdozio è stata trasmessa a voi […]. Per
questa consacrazione episcopale al ministero e alla dignità degli apostoli
nei fulgori dell’eucaristia il primo significato della festa odierna prende
espressione di forte e gioiosa giovinezza. L’avvenimento odierno resterà
unico e nuovo nella storia della chiesa: il triplice ordine dei cardinali associato nella perfezione del sacerdozio14.
Queste espressioni e altre simili costituiscono un insegnamento ripetuto e costante sulla natura sacramentale dell’ordinazione episcopale. Il Papa Paolo VI poi
ha direttamente influito sulla formulazione della dottrina del concilio Vati­cano II
riguardante la sacramentalità dell’Episcopato, attraverso l’intervento dei discorsi
Ioannes XXIII, Allocutio in Basilica Vaticana habita, ritu peracto quo summus Pontifex
quattuordecim sacris praesulibus e variis terrarum orbis regionibus episcopale munus tradidit, die
8 mai mensis 1960, in Acta Apostolicae Sedis 52 (1960) 466.
14 Ioannes XXIII, Allocutio habita in Lateranensi Basilica feria quinta maioris hebdomadae
episcopali peracta consecratione duodecim S.R.E. Cardinalium, in Acta Apostolicae Sedis 54
(1963) 287-289. Cf. G. Ferraro, Il pensiero e l’insegnamento di Giovanni XXIII sulla sacramentalità dell’Episcopato, in T. Cabizzosu (a cura di) Studi in onore del Cardinale Mario Francesco
Pompedda, Edizioni della Torre, Cagliari 2002, 89-104. Sul pensiero e insegnamento di Pio XII,
cf. G. Ferraro, Il Magistero liturgico di Pio XII tra le fonti del Concilio Vati­cano II, in P. Chenaux (a cura di), L’Eredità del Magistero di Pio XII, Lateran University Press – Gregorian Biblical Press, Città del Vaticano 2010, 219-244; Id., Il magistero sacramentale e liturgico di Pio XII,
in La Civiltà cattolica 145 III (1994) 238-251; Id., Alle “Fonti” del concilio Vati­cano II: due temi
del magistero di Pio XII, in La Civiltà Cattolica 155 IV (2004) 45-56.
13 337
da lui pronunciati nelle ordinazioni episcopali celebrate durante lo svolgimento del
concilio. Se un aspetto dell’essenziale e fondamentale efficacia dell’azione sacramentale di ordinazione che viene solennemente proclamata sta nel carattere indelebile impresso dal sacramento dell’ordine nel suo grado supremo, è interessante
notare che Paolo VI fece questa affermazione sulla impressione del carattere con
il dono della grazia all’inizio della omelia pronunciata il 20 ottobre 1963 nella prima ordinazione episcopale da lui conferita a quattordici eletti, quattro mesi dopo
la sua elezione a Vescovo di Roma; se teniamo conto dello speciale momento in
cui si collocava quell’atto e l’affermazione, e cioè quella fase animata del concilio
ecumenico Vaticano II in cui le discussioni conciliari riguardavano precisamente
la sacramentalità dell’Episcopato, l’affermazione pronunciata nella omelia di Paolo VI che ordinava quattordici Vescovi assume speciale valore storico esprimendo
l’insegnamento del Maestro supremo della Chiesa su uno dei temi che occupavano
l’attenzione del Concilio. Per cui non fu certo priva dell’influsso di questa omelia
del papa sulla formulazione del Concilio stesso la affermazione di Paolo VI riguardante la impressione del carattere e il dono della grazia nella consacrazione episcopale, che può considerarsi come una sua discreta, delicata e chiarissima forma di intervento conciliare; così egli formulò il suo pensiero rivolgendosi ai nuovi ordinati:
Vi abbiamo ora consacrati vescovi della santa Chiesa di Dio, vi abbiamo
elevati dall’ordine presbiterale al fastigio della sacra gerarchia in cui si
trova la pienezza delle potestà, di cui alcune riguardano la efficace santificazione delle anime, altre il governo del popolo cristiano. Facendo ciò
abbiamo impresso in voi un segno sacramentale chiamato carattere nel
più alto grado possibile così che siete realmente configurati a somiglianza
di Cristo (Hoc facientes impressimus vobis sacramentalem notam quam
characterem vocant modo quo maior fieri nequit ut ad similitudinem
Christi reapse configuremini)15.
L’affermazione ritorna nell’ordina­zione episcopale del 28 giugno 1964:
Secondo la più ampia e antica tradizione l’ordina­zione episcopale ha valore di sacramento, è perciò una fonte di grazia, è un dono divino, è una
ricchezza spirituale, è una santificazione superiore. L’opera dello Spirito
Santo nel sacramento dell’Ordine non consiste solamente nel conferimento della grazia a colui che lo riceve ma nell’impressione altresì di un carattere che assimila l’anima del consacrato al sacerdozio di Cristo in grado sommo, in vera pienezza per chi dell’ordine sacro è assunto al grado
Paulus VI, Homilia habita in Petriana Basilica ab ipso Summo Pontefice quattuordecim
sacrorum Praesulum e variis terrarum orbis regionibus episcopali consecratione peracta, in Acta
Apostolicae Sedis 55 (1963) 1014. G. Ferraro, Il ministero dei Vescovi nella Chiesa italiana di
oggi. Paolo VI ai Vescovi italiani in visita “ad limina”, in La Civiltà Cattolica 128 IV (1977)
447-459. Id., Il ministero dei Vescovi nella Chiesa francese di oggi. Paolo VI ai Vescovi francesi
in visita “ad limina”, in La Civiltà Cattolica 129 I (1978) 373-382.
15 338
episcopale. E se per disavventura dell’umana fragilità si può dare il caso
che quella grazia si spenga, non si cancella invece il sigillo sacramentale,
non viene meno l’attitudine a fungere da strumento di Cristo così che la
validità del ministero sarà indipendente dalla santità del ministro perché
ormai Cristo ha così associato a sé il ministro stesso da sostituire in lui
ogni effettiva causalità16.
Questa stessa dottrina si trova nelle omelie pronunciate da Paolo VI dopo che
era già stata promulgata la costituzione dogmatica conciliare “Lumen Gentium”.
Nell’ordi­na­zione episcopale conferita il 19 marzo 1966 Paolo VI afferma:
Vi abbiamo qualificati, or ora consacrati come ornamentis totius glorificationis instructos, rivestiti delle insegne della più alta dignità; così è per
coloro che sono autentici successori degli apostoli, che hanno ricevuto il
sacerdozio di Cristo nella più ampia misura comunicabile a uomini, che
sono inondati dallo Spirito Santo con una speciale grazia santificante, che
sono segnati da un carattere indelebile per cui sono distinti dagli altri fedeli e dagli altri ministri dell’altare e abilitati a funzioni esclusive e vitali
per la conservazione storica e visibile e per la santificazione del corpo
mistico di Cristo. Dignità maggiore non esiste sulla terra17.
Ancora: “Lasciamoci penetrare da questo senso superiore dell’ordinazione
che stampa nella nostra persona il carattere sacerdotale di Cristo”18. Paolo VI si
pronunciò su tale tema molte volte, parlando a vescovi nelle visite ad Limina e in
altre udienze e occasioni, e ha ampiamente illustrato la dottrina negli anni successivi al concilio così che il suo magistero sul tema del sacramento dell’Ordine, dell’episcopato e del sacerdozio ministeriale supera grandemente, e non solo per l’aspetto quantitativo, quello di tutti i suoi predecessori messi insieme19. L’affermazione
della sacramentalità dell’ordina­zione episcopale ritorna solenne nella esortazione
apostolica postsinodale “Pastores Gregis” del papa Giovanni Paolo II pubblicata
il 16 ottobre 2003 in seguito alla assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema “Il vescovo servitore del vangelo di Gesù Cristo per la speranza del
mondo”, ove leggiamo:
Insegnamenti di Paolo VI, Volume II, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1964, 433.
Insegnamenti di Paolo VI, Volume IV, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano
1966, 111.
18 Insegnamenti di Paolo VI, Volume X, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1972, 140.
19 Paolo VI ha celebrato da Vescovo di Roma tredici ordinazioni episcopali, nelle quali ha
ordinato complessivamente ottantotto eletti Vescovi. Per il pensiero e l’insegnamento di Paolo VI
sulla sacramentalità dell’ordi­nazione episcopale, cf. G. Ferraro, Esperienza sacramentale della
collegialità episcopale nell’episcopato di Paolo VI, in La Civiltà Cattolica 127 IV (1976) 532546; Id., Il bacio della terra. Il sacerdozio nell’insegnamento di Paolo VI, Centro studi Cammarata – Lussografica, San Cataldo – Caltanissetta 2006.
16 17 339
La speciale effusione dello Spirito Santo di cui gli apostoli furono colmati
dal Signore risorto (cf. At 1, 5.8; 2, 4; Gv 20, 22-23) fu da essi partecipata attraverso il gesto dell’imposizione delle mani ai loro collaboratori (cf.
1 Tm 4, 14; 2 Tm 1, 6-7). Questi a loro volta con lo stesso gesto la trasmisero ad altri e questi ad altri ancora. In tale modo il dono spirituale degli inizi è
giunto fino a noi mediante l’imposizione delle mani, cioè la consacrazione
episcopale, che conferisce la pienezza del sacramento dell’ordine, il sommo sacerdozio, la totalità del sacro ministero. Così per mezzo dei vescovi e
dei presbiteri che li assistono il Signore Gesù Cristo, pur sedendo alla destra
di Dio Padre continua ad essere presente in mezzo ai credenti. In tutti i tempi e in tutti i luoghi egli predica la parola di Dio a tutte le genti, amministra
i sacramenti della fede ai credenti e nello stesso tempo dirige il popolo del
Nuovo Testamento nella sua peregrinazione verso l’eterna beatitudine20.
La concessione delle tre potestà all’eletto Vescovo di Roma mentre non è
ancora vescovo pone un problema del rapporto tra le potestà stesse e un problema
del modo con cui vengono date all’eletto.
Secondo la posizione espressa da Pio XII in chi è eletto all’ufficio primaziale
di papa mentre è privo del carattere episcopale le tre potestà di insegnare, di governare, di santificare vengono date da Dio ma in modo differente come abbiamo
accennato sopra; le prime due sono trasmesse senza alcuna mediazione con il solo
atto della legittima accettazione dell’ufficio dopo la elezione; la potestà di ordine
invece viene data da Dio attraverso l’ordinazione episcopale, cioè mediante il sacramento dell’Ordine costituito dall’ordinazione episcopale.
Secondo la dottrina del Concilio Ecumenico Vati­cano II per la concessione
delle tre potestà occorre distinguere: in chi è eletto Vescovo tutte tre le potestà
vengono date da Dio nell’ordinazione episcopale, ma tra di esse la potestà sacramentale di ordine è in se stessa subito (immediatamente) abilitata al proprio esercizio, le altre due invece hanno necessità della missione canonica da parte del capo
del Collegio Episcopale e della comunione con il capo e le membra del Collegio
Episcopale. In chi è eletto Vescovo di Roma e capo della Chiesa mentre è privo del
carattere episcopale, tutte tre le potestà vengono date da Dio nell’ordinazione episcopale e con essa sono tutte tre abilitate all’esercizio, poiché il Vescovo di Roma
non ha superiori sulla terra ed è lui che come capo del Collegio dei Vescovi è fonte
della comunione per gli altri.
Possiamo quindi ritenere che il motivo del cambiamento operato da Paolo VI
su questo aspetto dell’elezione del Vescovo di Roma e capo del Collego Episcopale
e della Chiesa cattolica sopra descritto non può avere soltanto un significato di cambiamento della prassi con motivo di sola convenienza (cambiamento che quindi potrebbe essere modificato ritornando alla precedente prassi per disposizione del nuovo
Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale “Pastores Gregis” sul tema: Il
vescovo servitore del vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo, 16 ottobre 2003, n. 6, in
Enchiridion Vaticanum 22, Bologna 2006, n. 665-963, 506-741.
20 340
eletto che non essendo ancora Vescovo acquisterebbe subito la pienezza delle potestà
di insegnare e governare mentre è ancora privo dell’ordinazione episcopale) non può
non avere un significato e un valore dottrinale, la nuova legislazione non può essere
soltanto la modifica di una prassi dovuta a ragioni di convenienza, l’ordinazione episcopale richiesta non può essere ridotta a una pura condizione per ricevere la potestà
primaziale, ma entra nella sua natura, nel suo fondamento dandogli la dimensione
sacramentale che costituisce la sua essenza profonda, la “sacramentalità”. L’opinione
che ritiene modificabile la disposizione di Paolo VI evidentemente suppone l’opinione che l’ordinazione episcopale non sia sacramento dell’Ordine.
3. Alcune osservazioni
3.1. La liturgia dell’ordinazione episcopale
Osserviamo ancora l’enunciazione di Paolo VI della nuova norma nella costituzione apostolica:
Dopo l’accettazione l’eletto che abbia già ricevuto l’ordinazione episcopale, è immediatamente vescovo della Chiesa di Roma, vero papa e capo
del collegio episcopale; lo stesso acquista di fatto la piena e suprema
potestà sulla Chiesa universale e può esercitarla. Se invece l’eletto è privo
del carattere episcopale, sia subito ordinato Vescovo. Eseguite frattanto
le altre formalità, previste dall’ordinamento dei sacri riti del conclave, i
cardinali elettori, secondo i modi stabiliti, si accostano per prestare atto
di ossequio e di obbedienza al sommo Pontefice eletto. Successivamente
si rendono grazie a Dio e quindi il primo del cardinali diaconi annuncia
al popolo che attende il nuovo Pontefice, il quale imparte la benedizione
apostolica alla città di Roma e al mondo. Se l’eletto è privo del carattere
episcopale l’ossequio e l’obbedienza gli vengono prestati e l’annuncio al
popolo viene dato soltanto dopo che è stato ordinato Vescovo […]. L’Or­
dinazione Episcopale del Sommo Pontefice eletto, che non sia ancora Vescovo, di cui ai nn. 88 e 89 viene fatta secondo l’usanza della Chiesa, dal
decano del sacro collegio dei cardinali, o in sua assenza dal sotto-decano,
o qualora questi sia impedito, dal più anziano dei cardinali Vescovi. Stabiliamo che il conclave […] abbia fine subito dopo che è stato eletto il
nuovo Sommo Pontefice ed egli abbia dato l’assenso alla sua elezione; e,
se non è Vescovo, dopo la sua Ordinazione Episcopale.
In un così breve tratto il tema dell’essere (o non essere già) vescovo al momento dell’elezione e del consenso all’ufficio del primato, e del ricevere subito
l’ordinazione episcopale ricorre undici volte fino a rendere pesante l’enunciazione
verbale della norma; si sente l’importanza che in essa ha l’episcopato, l’ordinazione episcopale per il nuovo eletto all’incarico del primato. Fa impressione questa
insistenza se si tiene conto anche del fatto che secondo la legislazione attuale tutti
341
gli elettori del vescovo di Roma, i cardinali, su uno dei quali generalmente cade la
elezione, devono avere ricevuto l’ordinazione episcopale21.
Osserviamo poi che per quanto riguarda la liturgia dell’ordinazione episcopale le premesse al rito del Pontificale Romano riformato e riveduto, dopo avere
enunciato il dovere di tutti i fedeli di pregare per l’elezione del proprio vescovo
stabiliscono: “Poiché il vescovo viene costituito per tutta la Chiesa particolare, la
sua ordinazione si faccia alla presenza del clero e del maggiore numero possibile di
fedeli”22; e poco dopo: “Il vescovo che presiede come capo a una diocesi, venga ordinato nella Chiesa cattedrale […]. L’ordinazione si faccia alla presenza del maggior
numero di fedeli in domenica o in altra festa”23. Ora l’eletto al sommo pontificato è
vescovo non soltanto della Chiesa particolare di Roma, ma governa come capo non
una sola diocesi, bensì la Chiesa intera; perciò la opportunità che la sua ordinazione
episcopale avvenga con la massima solennità, in giorno di domenica o di festa liturgica, alla presenza e con la partecipazione di numeroso popolo di fedeli di vescovi
e di presbiteri, e nella Chiesa cattedrale, appare ancora maggiore che per ogni altro
eletto all’episcopato; la disposizione di Paolo VI invece, divenuta legge, stabilisce che l’eletto alla sede di Roma riceva l’ordinazione episcopale immediatamente
dopo l’accettazione, al di dentro del conclave ancora chiuso e considerato come non
completato e non ancora terminato, quindi è esclusa la presenza di popolo all’ordinazione episcopale del nuovo eletto, l’azione liturgica in sé importantissima non è
celebrata in Chiesa Cattedrale o altra basilica, avviene in un giorno che può non essere né domenica né altra festa; la soppressione di questi aspetti che contribuiscono
alla solennità, l’assenza dei fedeli e del clero, della cattedrale, della festa liturgica
possono avere come giustificazione soltanto una ragione di superiore importanza,
una ragione dottrinale e cioè la verità riguardante la fede che l’eletto Vescovo di
Roma e primate della Chiesa cattolica è tale soltanto dopo che è stato ordinato vescovo e soltanto in quanto ordinato vescovo è abilitato ad esercitare la pienezza e
sommità della potestà annessa all’incarico a cui è stato eletto, perciò non può essere
annunciato ed essere riconosciuto e onorato come Papa, come vescovo di Roma,
come capo visibile di tutta la Chiesa mentre non lo è ancora non essendo Vescovo.
La motivazione di questo proviene dalla dottrina espressa nel concilio ecumenico Vaticano II riguardante l’episcopato e l’ordinazione episcopale, che costituisce una esplicitazione nello sviluppo della dottrina della Chiesa sull’episcopato, un
ricupero consapevole della dottrina dell’antichità, degli inizi della chiesa. Anzitutto
21 Il CIC, infatti, prescrive: “Ad essere promossi cardinali vengono scelti liberamente dal
Romano Pontefice uomini che siano costituiti almeno nell’ordine del presbiterato, in modo eminente distinti per dottrina, costumi, pietà e prudenza nel disbrigo degli affari; coloro che già non
siano vescovi devono ricevere la consacrazione episcopale” (can. 351 §1).
22 Pontificale romano riformato e riveduto a norma dei decreti del Concilio Ecumenico
Vati­cano II promulgato da Papa Paolo VI riveduto da Giovanni Paolo II, Ordinazione del Vescovo dei Presbiteri e dei Diaconi, Conferenza Episcopale Italiana, Libreria Editrice Vaticana, Città
del Vaticano 1992, n. 15, 34.
23 Ibid., n. 21-22, 34.
342
abbiamo il pronunciamento sulla natura sacramentale dell’ordinazione episcopale:
“Insegna il santo concilio che con la consacrazione episcopale viene conferita la
pienezza del sacramento dell’ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica
della Chiesa e dalla voce dei santi padri viene chiamata il sommo sacerdozio, il
vertice del sacro ministero”24; poi l’insegnamento che segue immediatamente sugli
uffici sacri conferiti dalla ordinazione episcopale: “La consacrazione episcopale
conferisce pure, con l’ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e di governare,
che però per loro natura, non possono essere esercitati se non nella comunione
gerarchica con il capo e con le membra del collegio”25. A queste affermazioni fa
seguito la motivazione della sacramentalità dell’atto di ordinazione e degli uffici
conferiti: “Dalla tradizione, infatti, quale risulta specialmente dai riti liturgici e
dall’usanza della Chiesa sia di Oriente che di Occidente, consta chiaramente che
con l’imposizione delle mani e con le parole della consacrazione la grazia dello
Spirito Santo viene conferita e viene impresso il sacro carattere in maniera che i
vescovi in modo eminente e visibile sostengono le parti dello stesso Cristo maestro,
pastore e pontefice e agiscono in sua persona”26. Ancora: “Uno viene costituito
membro del corpo episcopale in virtù della consacrazione sacramentale e mediante
la comunione gerarchica con il capo del collegio e con i membri”27. Proclamare che
la consacrazione episcopale conferisce la grazia dello Spirito Santo e imprime il
carattere è esattamente affermare che essa è sacramento dell’ordine.
A queste enunciazioni del concilio, che costituiscono una evoluzione e chiarificazione nella dottrina sull’episcopato, anzitutto nell’affermazione chiara che l’ordinazione episcopale è sacramento dell’Ordine, poi nella affermazione che in tale
ordinazione insieme con il munus di santificare viene dato anche quello di insegnare e quello di governare, chiarendo che questi due possono essere esercitati soltanto
nella comunione gerarchica con il capo e le membra del collegio episcopale, si
aggiungono le precisazioni contenute nella “Nota explicativa praevia” annessa alla
costituzione dogmatica sulla Chiesa, che afferma:
Uno viene costituito membro del collegio in virtù della consacrazione
episcopale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e i
membri. Nella consacrazione è data una “ontologica” partecipazione dei
sacri “uffici” come indubbiamente consta dalla tradizione anche liturgica.
Volutamente è usata la parola “uffici” (munerum) e non “potestà” (potestatum), perché quest’ul­tima voce potrebbe essere intesa come di potestà
“pronta all’esercizio” (ad actum expedita). Ma perché si abbia tale libera
potestà deve accedere la canonica o “giuridica determinazione” (iuridica
determinatio) da parte dell’autorità gerarchica28.
LG 21.
Ibid.
26 Ibid.
27 LG 22.
28 LG, “Nota esplicativa previa”, n. 2. La nota prosegue specificando che la determinazione
canonica o giuridica da parte dall’autorità gerarchica “può consistere nella concessione di un
24 25 343
3.2. Origine sacramentale della potestà episcopale
Con questo insegnamento “ritornando alla posizione universale e pacifica
dell’antichità cristiana il Concilio afferma che tutta la potestà e autorità episcopale
è di origine sacramentale”29. Con il pronunciamento sulla sacramentalità dell’ordinazione episcopale e sul conferimento in essa degli uffici di santificare, insegnare
e governare, il concilio radica e fonda tutti i compiti del vescovo nell’ordinazione
episcopale: l’ordinazione episcopale ha funzione di causalità sacramentale rispetto
a tutti tre gli uffici; per gli ultimi due, che necessitano della comunione gerarchica
al fine di essere esercitati, tale comunione, realizzata e significata dalla canonica
o giuridica determinazione da parte dell’autorità gerarchica, non ha funzione di
causalità, ma di condizione perché i compiti di insegnare e governare siano potestà
liberamente esercitabili30.
particolare ufficio o nella assegnazione dei sudditi ed è concessa secondo le norme approvate
dalla suprema autorità. Una siffatta ulteriore norma è richiesta dalla natura della cosa, trattandosi
di incarichi che devono essere esercitati da più soggetti per volontà di Cristo gerarchicamente
cooperanti. È evidente che questa comunione nella vita della chiesa è stata applicata secondo le
circostanze dei tempi prima di essere per così dire codificata nel diritto” (ibid.). “Questa giurisdizione che il papa dà ai nuovi vescovi non consiste nella carica conferita dalla consacrazione
episcopale, ma ne definisce invece più concretamente l’area di applicazione e sancisce il modo e
la misura in cui il vescovo deve assolvere le sue funzioni.” (G. Philips, La Chiesa e il suo mistero
nel Concilio Vati­cano II. Storia, testo e commento della Costituzione Lumen Gentium, traduzione
G. Stefani, Jaca Book, Milano 1969, 64). Nell’enciclica di Pio XII “Mystici Corporis” del 29
giugno 1943, a proposito della giurisdizione dei vescovi, era scritto: “I vescovi […] in quanto
riguarda la propria diocesi sono veri pastori che guidano e reggono in nome di Cristo il gregge
assegnato a ciascuno. Ma mentre fanno ciò non sono del tutto indipendenti, perché sono sottoposti alla debita autorità del romano pontefice, pur fruendo della ordinaria potestà di giurisdizione
comunicata loro direttamente dallo stesso sommo pontefice” [Pio XII, Enciclica “Mystici Corporis”, in Enchiridion delle Encicliche 6, Bologna 1995, n. 191]. L’idea è ripresa nell’enciclica
dello stesso papa “Ad Sinarum gentem” del 7 ottobre 1954: “In forza della divina volontà di
Gesù Cristo è costituita la duplice sacra potestà, cioè di ordine e di giurisdizione. Inoltre, ciò che
parimenti è stato divinamente stabilito, alla potestà di ordine per cui la gerarchia è composta di
vescovi, sacerdoti e ministri si accede ricevendo il sacramento dell’ordine sacro; la potestà di
giurisdizione, poi, che al sommo pontefice viene conferita direttamente per diritto divino, proviene ai vescovi dal medesimo diritto ma soltanto mediante il successore di san Pietro” (Pio XII,
Enciclica “Ad Sinarum gentem”, ibid., n. 1106). I citati testi delle due encicliche ritornano nella
enciclica di Pio XII “Ad Apostolorum principis” del 29 giugno 1958: cf. ibid., n. 1574.
29 J. Hamer, I soggetti della suprema potestà nella Chiesa: visione teologica, in Il nuovo
Codice di Diritto Canonico, novità, motivazione e significato, Libreria Editrice della Pontificia
Università Lateranense, Roma 1983, 141.
30 G. Philips, La Chiesa e il suo mistero nel Concilio Vati­cano II. Storia, testo e commento
della Costituzione Lumen Gentium, traduzione G. Stefani, Jaca Book, Milano 1969, 243: “L’incarico di insegnare e di reggere è ontologicamente conferito dalla consacrazione ed è di origine
sacramentale. Ciò che dà il papa è la determinazione ultima dei poteri ricevuti, che deve permettere il loro passaggio all’atto. Una affermazione non distrugge l’altra. Perciò il testo conciliare
non si è limitato a dichiarare che la consacrazione episcopale dà il germe o la radice o l’attitudine
344
Il magistero pontificio successivo al concilio ha più volte toccato questi punti.
A modo di esempio ricordiamo l’intervento di Giovanni Paolo II nell’udienza generale del mercoledì 30 settembre 1992:
Il Concilio Vaticano II dopo aver affermato la presenza attiva di Cristo nel ministero dei vescovi insegna la sacramentalità dell’episcopato
[…]. Per molto tempo questo punto era stato oggetto di controversia
dottrinale. Il Concilio di Trento aveva affermato la superiorità dei vescovi sui presbiteri, superiorità che si manifesta nel potere loro riservato di confermare e di ordinare. Ma non aveva ancora affermato la
sacramentalità dell’ordinazione episcopale. Possiamo dunque costatare il progresso dottrinale che su questo punto vi è stato con l’ultimo
concilio. Per fare tale affermazione il concilio si basa sulla tradizione
e indica i motivi per affermare che la consacrazione episcopale è sacramento. Essa, infatti, conferisce la capacità di rappresentare Cristo
maestro, pastore e sommo sacerdote e di agire in sua persona. D’altra
parte il rito liturgico dell’ordinazione è sacramentale: “Dall’imposizione delle mani e dalle parole della consacrazione la grazia dello Spirito
Santo è così conferita e così è impresso il sacro carattere” (LG 21) […].
Il concilio attribuisce ai Vescovi il potere sacramentale di assumere con
il sacramento dell’ordine nuovi eletti nel corpo episcopale. È l’espressione massima del potere gerarchico in quanto tocca i gangli vitali del
Corpo di Cristo che è la Chiesa31.
Nell’affermare l’origine e la causalità sacramentale anche del compito di
insegnamento e di governo, il concilio risolveva una questione, ma, come accade nelle enunciazioni riguardanti la fede, poneva nuove problemi. Un autore
che ha seguito da vicino la vicenda della redazione del testo conciliare, Umberto
Betti, propone due problemi, che toccano il nostro argomento: “Che cosa si deve
pensare di uno eletto vescovo, al quale, anche prima di ricevere la consacrazione
è riconosciuto il potere di insegnare e di governare la Chiesa cui è destinato? E
che cosa pensare di uno eletto papa, ritenuto successore di Pietro a tutti gli effetti
dal momento della valida elezione, nel caso in cui non sia ancora stato consa-
o la disposizione, o qualcosa di simile in vista di ricevere in seguito il potere; al contrario la
consacrazione dà, con la grazia che vi è legata, l’incarico stesso, che però ha bisogno, per il suo
esercizio pratico, di una sorta di decreto di esecuzione. Si potrebbe introdurre qui un paragone
con il potere di perdonare i peccati che è espressamente dato al presbitero nella sua ordinazione,
ma che non gli permette di dare immediatamente l’assoluzione a un peccatore. Per ascoltare le
confessioni e assolvere i peccati deve ricevere la ‘giurisdizione’. Tuttavia nessuno sosterrà che le
parole rivolte dal vescovo a questo presbitero: ‘Ricevi lo Spirito Santo, a chi rimetterai i peccati
saranno rimessi’ non hanno senso né efficacia”.
31 Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Volume XV, 2, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 1994, 205-206.
345
crato vescovo?”32. La risposta a queste questioni non è data dai testi conciliari, è
lasciata alla chiarificazione da parte dei teologi. Il Betti risponde:
Personalmente ritengo che almeno per il futuro debba avere valore dottrinale, con la relativa applicazione pratica, la soluzione proposta da alcuni
Padri conciliari. Un Vescovo eletto ma non consacrato, non è vero vescovo, non possiede in proprio nessuna potestà, che per essere tale deve
essere di origine divina e quindi sacramentale. Ugualmente un papa non
consacrato vescovo non è vero papa. L’intervallo tra l’elezione e la consacrazione teologicamente è ancora periodo di sede vacante. Egli diventa
successore di Pietro a tutti gli effetti, purché sia stato consacrato vescovo.
Deve cioè verificarsi anche per lui quello che si è verificato per Pietro, il
quale fu costituito capo del collegio apostolico perché era Apostolo anche
lui: venne scelto “tra loro”33.
È esattamente la soluzione data da Paolo VI con l’avere deciso che un eletto
all’episcopato e primato romano che sia privo del carattere episcopale, deve ricevere immediatamente l’ordinazione episcopale per poter essere riconosciuto e
annunciato come vero Vescovo di Roma, vero papa, e poter dare la benedizione.
Possiamo quindi cogliere un parallelismo tra chi è eletto al sommo pontificato e non ha ricevuto l’ordinazione episcopale e chi è eletto all’episcopato e non è
ordinato vescovo:
L’ufficio del supremo pastore della Chiesa viene costituito come è costituito l’ufficio dei vescovi, cioè attraverso la consacrazione episcopale e
la missione, ma con questa differenza, che i vescovi ricevono la missione
canonica, il Romano Pontefice, il quale non ha superiore umano e poiché non ha superiore umano, riceve la missione divina. Ciò è di grande
importanza, poiché così appare che l’esercizio della potestà primaziale,
sebbene sia frequentemente giuridico, è specificamente sacramentale,
spirituale, in quanto procede dal dono dello Spirito, dato nella consacrazione episcopale34.
Questo modo di pensare pone in evidenza ed esalta il valore della pienezza
del sacramento dell’Ordine in colui che sta al vertice della Chiesa quale suo capo
visibile, quale sommo sacerdote, mostra che la essenza e il fondamento del Primato
è di natura sacramentale, è la pienezza del sacramento dell’Ordine, del sacerdozio
U. Betti, La dottrina sull’Episcopato del concilio Vati­cano II. Il capitolo III della Costituzione dogmatica Lumen Gentium, Spicilegium Pontificii Athenaei Antoniani 25, Roma 1984,
371.
33 Ibid., 371-372; J. Hamer, I soggetti della suprema potestà nella Chiesa, op. cit., 356-357
concorda pienamente in questa idea.
34 W. Bertrams, De missione divina et de consecratione episcopali tamquam constitutiva
officii supremi ecclesiae pastoris, in Periodica de re morali canonica liturgica 65 (1978) 187.
32 346
ministeriale. La gerarchia della Chiesa cattolica è essenzialmente sacramentale,
anche nell’espressione e nell’incarico supremo del Primato.
3.3. Aspetto unitario delle tre funzioni di santificare, predicare e governare
La potestà ricevuta, di santificare, di insegnare e di governare, che conforma
a Cristo sacerdote maestro e pastore, dignità che viene enunciata e presentata con
triplice distinzione, partecipa alla funzione e potestà di sommo sacerdote di Cristo,
che è unitaria. A questo proposito il papa Giovanni Paolo II nell’esortazione apostolica postsinodale “Pastores Gregis” scritta in seguito al sinodo episcopale che
aveva avuto come tema precisamente la persona del vescovo, afferma:
Queste tre funzioni (triplex munus) e le potestà che ne derivano esprimono sul piano dell’agire il ministero pastorale che ogni Vescovo riceve
con la consacrazione episcopale. È lo stesso amore di Cristo partecipato
nella consacrazione che si realizza nell’annuncio del vangelo di speranza
a tutte le genti, nell’amministrazione dei sacramenti a chi accoglie la salvezza e nella guida del popolo santo verso la vita eterna. Si tratta infatti di
funzioni tra loro intimamente connesse, che reciprocamente si spiegano,
si condizionano e si illuminano. Per questo il Vescovo quando insegna al
tempo stesso santifica e governa il popolo di Dio, mentre santifica anche
insegna e governa, quando governa insegna e santifica […]. Tra il ministero della santificazione e gli altri due, della parola e del governo, vige
una profonda e intima consonanza. La predicazione, infatti, è ordinata
alla partecipazione della vita divina attinta alla duplice mensa della parola
e dell’eucaristia […]. Il ministero del governo poi, come quello di Gesù
buon pastore si esprime in funzioni e opere miranti a fare emergere nella
comunità dei fedeli la pienezza di vita nella carità a gloria della Santa
Trinità e a testimonianza della sua amorevole presenza nel mondo. Ogni
vescovo pertanto mentre esercita il ministero della santificazione (munus
sanctificandi) attua ciò a cui mira il ministero dell’insegnamento (munus
docendi) e insieme attinge la grazia per il ministero del governo (munus
regendi) modellando i suoi atteggiamenti ad immagine di Cristo sommo
sacerdote in modo che tutto sia ordinato alla edificazione della Chiesa e
alla gloria della Trinità santa35.
35 Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale “Pastores gregis”. Il Vescovo
servitore del vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo, 16 ottobre 2003, n. 9 e 32, in
Enchiridion Vaticanum 22, Bologna 2006, n. 693 e 786-787, 535 e 611. Lo stesso papa Giovanni
Paolo II nella lettera ai sacerdoti per il giovedì santo del 1979, aveva scritto analogamente: “La
missione del popolo di Dio si attua mediante la partecipazione all’ufficio e alla missione dello
stesso Gesù Cristo che ha una triplice dimensione: è missione e ufficio di profeta, di sacerdote
e di re. Analizzando con attenzione i testi conciliari è chiaro che bisogna parlare di una triplice
dimensione del servizio e della missione di Cristo, piuttosto che di tre funzioni diverse. Difat-
347
L’ordinazione episcopale comunica per partecipazione all’ordinato vescovo la carità di Cristo; tale carità si realizza nell’esercizio delle tre funzioni di predicare il vangelo, celebrare i sacramenti e il sacrificio eucaristico, governare la comunità, e conferisce
unità all’esercizio delle tre funzioni fino a renderle reciprocamente immanenti l’una
nell’altra. Il sacramento dell’ordine nel grado sommo sta all’origine di queste realtà,
infonde nell’ordinato vescovo la carità di Cristo esercitata nei tre compiti, realtà complesse che nel titolo del capitolo I del documento postsinodale sono qualificate come
costituenti il “mistero” del Vescovo. Siamo di fronte a una singolare conformazione del
vescovo a Cristo: in Cristo, infatti, le tre dignità e funzioni di maestro-profeta, santificatore-liturgo, pastore-re, si presentano come reciprocamente immanenti nel loro essere
ed agire. Cristo è tale profeta e maestro che identifica in sé la verità e la parola personale di Dio che si offre in cibo all’uomo per nutrirlo: “Io sono la verità” (Gv 14, 6). “In
principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1, 1). “Io sono il
pane della vita” (Gv 6, 34). Egli è tale sacerdote che offrendo in sacrificio se stesso attua
il culmine della rivelazione del Padre e porta i credenti in lui alla somma unità: “Gesù
doveva morire […] per riunire insieme i figli di Dio” (Gv 11, 51-52). Egli è tale re pastore che dà la vita per i suoi: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per
le pecore […]. Per questo il Padre mi ama perché offro la mia vita per poi riprenderla
di nuovo” (Gv 10, 11.14-15.17-18). Le tre funzioni, le tre potestà hanno in Cristo una
reciproca immanenza, una circolarità, circuminsessione e circumincessione, e ciascuna
segna il suo culmine nella sintesi di tutte le altre36. Questo mistero del sacerdozio di Cristo, in modo analogo, si estende e comunica al sacerdozio ministeriale e specialmente
al suo vertice, che è l’episcopato, nell’ordinazione. L’aspetto unitario della funzione
santificatrice, magisteriale e pastorale è del tutto coerente con la sua provenienza dal sacramento dell’Ordine, dall’ordinazione, come la partecipazione dei cristiani alla triplice
dignità di Cristo sacerdote maestro e pastore proviene dal sacramento del battesimo ed
è resa perfetta dal sacramento della cresima37.
ti queste sono fra di loro intimamente connesse, si spiegano reciprocamente, si condizionano
reciprocamente e reciprocamente si illuminano. Di conseguenza è da questa triplice unità che
scaturisce la nostra partecipazione alla missione e all’ufficio di Cristo. Come cristiani, membri
del popolo di Dio, e successivamente come sacerdoti partecipi dell’ordine gerarchico, prendiamo
origine dall’insieme della missione e dell’ufficio del nostro maestro che è profeta, sacerdote e
re, per rendergli una particolare testimonianza nella Chiesa e nel mondo.” [Giovanni Paolo II,
Lettera “Novo incipient” a tutti i sacerdoti della Chiesa per la Feria V in Cena Domini, 8 aprile
1979, in Enchiridion Vaticanum 6, Bologna 1990, n. 1293].
36 I testi del concilio Vaticano II parlando di Cristo, in relazione al sacerdozio, lo raffigurano costantemente secondo le tre funzioni, ma non precisano il rapporto, in Cristo, tra questi tre
compiti. A volte il concilio si esprime come se il compito sacerdotale, preso nella sua pienezza, implichi anche gli altri due. LG 28 insegna riguardo ai Presbiteri: “In virtù del sacramento
dell’ordine ad immagine di Cristo sommo ed eterno sacerdote sono consacrati per predicare il
vangelo, pascere i fedeli e celebrare il culto divino quali veri sacerdoti della nuova alleanza.” I
tre compiti nei Presbiteri sono fatti derivare da Cristo in quanto è sacerdote. Una dottrina simile è
esposta trattando dei vescovi, LG 21. Cf. C. Spicq, Épître aux Hébreux, t. I, Paris 1952, 266; Id.,
Médiation dans le Nouveau Testament, in Dictionnaire de la Bible, Supplément V, 1078-1079.
37 Il documento del Sinodo Episcopale svoltosi nel 1971 che ebbe come tema il sacerdozio
348
L’accentuazione e l’evidenza della pienezza del sacramento dell’ordine nella
realtà del primato del Vescovo di Roma può essere vista come una evoluzione nella
concezione del modo con cui viene comunicato all’eletto l’ufficio del capo supremo della Chiesa cattolica che era in vigore prima del concilio. Tale evoluzione è
dovuta a quella riguardante la dottrina sull’ordinazione episcopale come pienezza
del sacramento dell’Ordine da cui vengono conferiti i tre uffici nel modo esposto.
Anche nei tempi passati, tuttavia, quando generalmente l’eletto all’ufficio di Vescovo di Roma e quindi alla funzione primaziale non era Vescovo, la sua consacrazione
episcopale costituiva il momento dell’inizio dell’esercizio della suprema potestà38 .
Ciò che abbiamo detto sul fondamento sacramentale dell’ufficio primaziale
non è altro che una conseguenza e una applicazione della dottrina del concilio
sull’ordina­zione episcopale: in tale azione liturgica viene dato il dono dello Spirito
Santo, Spirito Santo che nella preghiera di ordinazione episcopale è denominato
“principale” e “arcisacerdotale”39, cioè lo Spirito del governo, della direzione e
ministeriale dice: “Quando parliamo del sacerdozio di Cristo bisogna tenere ben presente la realtà
unica, incomparabile che include in se stessa la funzione profetica e regale dell’Incarnato Verbo
di Dio.” [Synodus Episcoporum, I. Documentum “Ultimis temporibus” de sacerdotio ministeriali,
30 novembris 1971, pars prima, n. 1, in Enchiridion Vaticanum 4, Bologna 1980, n. 1156]. “Passo
notevole, questo del Sinodo, perché pone in termini espliciti e formali quello che già era del resto
contenuto nel Vaticano II e cioè la ‘realtà unica’ del sacerdozio di Cristo. Esso verifica, ma mentre compie, supera il sacerdozio dell’Antico Testamento e comprende, oltre la funzione sacrificale, anche quella profetica e regale. È in altri termini la trilogia dei compiti usata dal Vati­cano II
per esprimere l’effetto della consacrazione episcopale e sacerdotale.” [G. Rambaldi, L’unità delle
funzioni dei Presbiteri, in G. Concetti (dir.), Il prete per gli uomini d’oggi, Roma 1975, 494]. Cf.
Id., Notae circa sacerdotium et ministerium sacerdotale in Vati­cano II et in Synodo episcoporum
anno 1971, in Periodica de Re Morali Canonica et Liturgica 63 (1974) 535-557.
38 I casi elencati nella nota 9 possono trovare varia spiegazione; cf. W. Bertrams, De missione divina et de consecratione, op. cit.; J. Hortal Sanchez, De initio potestatis primatialis Romani
Pontificis, op. cit. La conclusione di questo studio relativizza il valore dottrinale del can. 219 del
CIC/1917, ibid., 162-163: “La conclusione generale di questa dissertazione è questa: dal tempo di
San Gregorio Magno fino al tempo di Clemente V vi era chiara distinzione, di diritto divino, tra il
Romano Pontefice eletto non consacrato e lo stesso eletto e consacrato. Donde derivava qualche
difficoltà nel giudicare l’inizio della potestà primaziale quando, a partire dall’alto Medio Evo, venivano eletti come romani pontefici anche alcuni già consacrati Vescovi. Si dà una certa evoluzione nel
senso di una progressiva equiparazione, ma la distinzione fondamentale rimase senza alcun dubbio.
Perciò il canone 219, con queste supposizioni, ottiene spiegazione; e cioè questo canone non è da intendere in senso assoluto, ma per il caso, oggi comune, di un eletto già precedentemente consacrato.
Perciò non esiste contraddizione tra questo canone e la dottrina del concilio Vati­cano II.”
39 “Pneuma hegemonikòn”, “pneuma archieratikòn”: queste due denominazioni si trovano
nel testo greco della Tradizione Apostolica di Ippolito di Roma; cf. B. Botte, La Tradition Apostolique de Saint Hippolyte, Essai de reconstitution (= Literaturwissenschafltiche Quellen und
Forschungen, Heft 39), Aschendorff, Münster Westfalen 1963, n. 3. Nel Pontificale romanum ex
decreto sacrosancto Oecumenici Concilii Vaticani II renovatum auctoritate Pauli PP VI editum
Ioannis Pauli PP II cura recognitum, De Ordinatione Episcopi, Presbyterorum et Diaconorum,
Editio Typica Altera, Typis Polyglottis Vaticanis 1990, la prima denominazione è tradotta con
“Spiritus principalis”, che significa: Spirito di principe, di capo; la seconda con “Spiritus summi
349
della guida della comunità, lo Spirito del sommo sacerdozio di Cristo per il bene
della Chiesa con i compiti a cui abilita di governo di santificazione e di insegnamento, conferiti come potestà episcopale unitaria, la quale in quanto data sacramentalmente non è ancora liberamente esercitabile (ad actum expedita). Con la
determinazione giuridica di questi uffici attraverso la missione canonica da parte
dell’autorità gerarchica del Vescovo di Roma capo del collegio, secondo le norme
da questa stabilite, la potestà data dal sacramento diviene liberamente esercitabile.
Poiché il Vescovo di Roma non ha sopra di sé alcuna autorità umana, la missione
che rende la potestà primaziale liberamente esercitabile viene a lui dal Signore
stesso; se è già ordinato Vescovo, nel momento stesso della elezione ed accettazione, se non è ancora ordinato Vescovo, nell’ordinazione episcopale. Tale la
dottrina di cui la disposizione di Paolo VI, divenuta legge della Chiesa è il frutto
e l’espressione.
Del secondo dei due libri liturgici di cui abbiamo dato notizia sopra, quello
che contiene i riti per l’inizio del ministero petrino del Vescovo di Roma, l’insistenza sull’essere vescovo si ha durante la prima celebrazione nella formula della imposizione del pallio e della consegna dell’anello che si svolge dopo la liturgia della
parola. Il cardinale protodiacono prima di imporre il pallio sulle spalle dell’eletto
pronuncia la seguente formula:
Il Dio della pace che ha fatto risorgere dai morti il Pastore grande delle pecore, il Signore nostro Gesù Cristo, ti doni il pallio preso dalla Confessione
dell’apostolo Pietro. A lui il buon Pastore ha comandato di pascere i suoi
agnelli e le sue pecorelle e oggi tu succedi a Pietro nell’episcopato di questa
Chiesa che egli ha generata alla fede assieme all’apostolo Paolo. Lo Spirito
di Verità che procede dal Padre doni abbondante ispirazione e discernimento al tuo ministero per confermare i fratelli nell’unità della fede. Dispiega o
Dio la tua potenza, conferma quanto hai fatto per noi (rimpvr, n. 51).
Al centro della formula sta l’affermazione: “Oggi tu succedi a Pietro
nell’episco­pato di questa Chiesa che egli ha generata alla fede” che accentua l’incarico supremo come quello di Vescovo della Chiesa di Roma fondata da Pietro.
L’altro rito che nella sua totalità esalta questo aspetto è l’insediamento sulla
cattedra romana del Vescovo di Roma nella Chiesa cattedrale, la Basilica Lateranense del Santissimo Salvatore. In tale celebrazione Benedetto XVI commentò egli
stesso questa realtà dicendo:
sacerdotii”; nel Pontificale romano riformato e riveduto, op. cit., la prima qualifica viene resa
con “Spirito che regge e guida”, la seconda con “Spirito del sommo sacerdozio”. Cf. G. Ferraro,
“Principale”. “Arcisacerdotale”. Due titoli dello Spirito Santo poco conosciuti, in Theologica &
Historica: Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sar­degna IX (2000) 157-162; Id., Dottrina sullo Spirito Santo nelle epiclesi delle preghiere di ordinazione al diaconato, al presbiterato e
all’episcopato, in Divus Thomas (placentinus) 78 (1975) 431-448; Id., La dimensione trinitaria ed
ecclesiale dell’episcopato alla luce della liturgia, in La Civiltà Cattolica 128 III (1977) 209-221.
350
Il Vescovo di Roma siede sulla sua cattedra per dare testimonianza di Cristo. Così la cattedra è il simbolo della potestas docendi, quella potestà di
insegnamento che è parte essenziale del mandato di legare e di sciogliere
conferito dal Signore a Pietro. La cattedra è simbolo della potestà di insegnamento che è una potestà di obbedienza e di servizio affinché la Parola
di Dio, la verità, possa risplendere tra di noi indicandoci la strada della
vita. Ma parlando della cattedra del Vescovo di Roma come non ricordare
le parole che sant’Ignazio di Antiochia scrisse ai Romani? Pietro provenendo da Antiochia sua prima sede si diresse a Roma sua sede definitiva. Una sede resa definitiva attraverso il martirio con cui legò per sempre
la sua successione a Roma. Nella sua lettera ai Romani si riferisce alla
Chiesa di Roma come a “colei che presiede nell’amore”, espressione assai
significativa […]. Per la Chiesa antica la parola amore, agape, accennava
al mistero dell’eucaristia. In questo mistero l’amore di Cristo si fa sempre
tangibile in mezzo a noi […]. Presiedere nella dottrina e presiedere nell’amore alla fine devono essere una cosa sola: tutta la dottrina della Chiesa
conduce all’amore […]. Cari Romani adesso sono il vostro vescovo40.
4. Conclusione
Concludiamo queste considerazioni dicendo che una concezione la quale per
le ragioni esposte vede nel primato del Vescovo di Roma essenzialmente una realtà
sacramentale, che ha il suo fondamento e la sua radice e la sua essenza nel sacramento dell’ordinazione episcopale offre una comprensione del mistero e ministero del
Primato che meglio si adegua alla sua realtà spirituale e pastorale vera e profonda41,
meglio si conforma alla sua intelligenza di fede ed è anche più affine a una visione
di unità ecumenica.
Benedetto XVI, Omelia, sabato 7 maggio 2005, in Insegnamenti di Benedetto XVI, Volume I, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, 62-64.
41 “Anche quella plena, suprema et universalis potestas che il vescovo di Roma esercita
nella Chiesa, in quanto egli è, come successore di Pietro ‘il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli’ (LG 23) dovrà costantemente
riconoscere nel sacramento della sua ordinazione episcopale e nella celebrazione della eucaristia
per la sua Chiesa la sua base fondamentale […]. Tutto conduce a ricercare nell’esercizio del
primato papale un equilibrio nuovo che non collochi al centro, come accade nella teologia del
Vati­cano I, il potere di giurisdizione, ma lo inserisca dentro un quadro ministeriale caratterizzato
dalla sua fonte sacramentale.” (S. Dianich, Per una teologia del Papato, Cinisello Balsamo 2010,
55-56, 79). Cf. G. Ferraro, Presenza della liturgia e sacramentalità dell’or­dina­zione episcopale
nell’esortazione apostolica postsinodale “Pastores gregis”, in Ephemerides Liturgicae 118 (2004)
143-166; N. Ciola, Il fondamento trinitario del ministero episcopale (PG 6-7), in A. Montan (a
cura di), Vescovi servitori del Vangelo per la speranza del mondo. Studi e Commenti sull’esorta­
zione postsinodale Pastores Gregis di Giovanni Paolo II, Lateran University Press, Roma 2005,
225-250; M. Augé, Il Vescovo grande sacerdote del suo gregge (PG 32-41), in ibid., 329-346.
40 351
“PRINCIPALE”
E “ARCISACERDOTALE”:
due titoli dello Spirito Santo
poco conosciuti
Studio della preghiera
di ordinazione episcopale
Giuseppe Ferraro
I titoli dati allo Spirito di Dio, terza persona della Trinità, sono numerosi. Lasciando da parte l’appellativo “Santo” che entra a comporre il suo stesso
nome, percorrendo semplicemente il Nuovo Testamento, incontriamo vari termini con cui egli viene chiamato, che contengono una dottrina sul terzo Autore
divino della nostra salvezza. Troviamo anzitutto, nel quarto vangelo, il termine
“Paraclito” (Gv 14, 16.26; 15, 26; 16, 7) che è da considerare nome personale;
un altro termine, considerato come un nome dello Spirito è “dono” (Gv 4, 10;
2, 38; 10, 45; 11, 17; Eb 6, 4); vi è poi “Spirito della verità” (Gv 14, 17; 15, 26;
16, 13; 1 Gv 4, 6)1, e “verità” egli stesso (1 Gv 5, 8). Troviamo alcune immagini o figure con cui la terza persona divina si è manifestata: la colomba discesa
su Gesù (Mt 3, 16; Mc 1, 10; Lc 2, 22; Gv 1, 32); l’acqua viva che zampilla (Gv 4, 10.14), l’acqua dei fiumi che scaturiscono dal seno di Cristo (Gv 7,
37‑39); un simbolo opposto a quello dell’acqua è il fuoco, disceso sotto forma di
lingue sugli Apostoli (At 2, 3; cf. Mt 3, 11; Lc 3, 16)2; ancora il vento (Gv 3, 8;
At 2, 2), il respiro del Signore risorto (Gv 20, 22); lo Spirito inoltre è connesso
con l’olio nei testi un cui si parla di unzione (Lc 4, 18; 2 Cor 1, 21; Eb 1, 9;
1 Gv 2, 20.27)3; frequentemente associato allo Spirito come sua indicazione
è “potenza” (Lc 1, 17; At 11, 15.17; 10, 38; Rm 15, 19; 1 Cor 2, 4; 1 Ts 1, 5);
altri tre appellativi dello Spirito sono: “eterno” (Eb 9, 14), “testimone” (1 Gv 5,
6.8), “vivificatore” (Gv 6, 63; 2 Cor 3, 6); ancora lo Spirito è messo in relazione con la santificazione (Rm 1, 4; 2 Ts 2, 13; 1 Pt 1, 2), con l’adozione filiale
(Rm 8, 15), con l’agape (Rm 15, 30) e con la dolcezza (1 Cor 4, 21; Ga 6, 1),
come qualificazioni, simili a quella già segnalata di “Spirito della verità”. Con
un’altra immagine Gesù lo denomina: “Dito di Dio” (Lc 11, 20 confrontato con
Mt 12, 28). Queste espressioni pongono lo Spirito in relazione al Padre e al Figlio Gesù Cristo in ordine all’operazione della nostra salvezza.
1 Cf. G. Ferraro, Il Paraclito, Cristo, il Padre nel quarto vangelo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1997; Id., Lo Spirito e Cristo nel vangelo di Giovanni, Paideia, Brescia
1984, 157-282.
2 R. Cantalamessa, Il canto dello Spirito. Meditazioni sul Veni Creator, Ancora, Milano
1997, 123.
3 In 1 Gv 2, 20.27 il termine “unzione (crisma)” designa probabilmente lo Spirito Santo stesso.
355
Dalla Scrittura tali appellativi passano alla Tradizione, che li interpreta negli
scritti dei Padri4 e dei grandi maestri medioevali5. Due inni liturgici, il “Veni Creator Spiritus”, attribuito a Rabano Mauro, vescovo di Magonza (VIII-IX secolo), e il
“Veni Sancte Spiritus” sequenza di Pentecoste, attribuita a Stefano Langton, arcivescovo di Canterbury (XII-XIII secolo), raccolgono questi numerosi titoli, arricchiti
dei commenti patristici e teologici; nel primo, oltre al titolo “Creatore”, troviamo:
Paraclito, Dono del Dio Altissimo (o forse più precisamente: Dono altissimo di
Dio), fonte viva, fuoco, carità, unzione spirituale, dito della destra del Padre6; nel
secondo lo Spirito è denominato: Padre dei poveri, datore dei doni, luce dei cuori,
consolatore perfetto, dolce ospite dell’anima, dolce refrigerio, riposo nella fatica,
riparo nella calura, conforto nel pianto, luce beatissima. Sono termini che attraverso la lettura del Nuovo Testamento e i canti liturgici approfondiscono la fede dei
credenti.
Ci soffermiamo ora su due appellativi dati allo Spirito rimasti isolati nella
letteratura teologica e poco conosciuti; essi sono: “principale” e “arcisacerdotale”; si trovano nella preghiera di ordinazione episcopale proposta dalla Tradizione
apostolica di Ippolito, e ritornata attuale per la sua introduzione, stabilita da Paolo VI, nel Pontificale Romanum Renovatum per la celebrazione dell’ordinazione
del vescovo nel rito latino7. La preghiera è strutturata in tre parti. La prima contiene
una anamnesi dell’opera di Dio Padre nella istituzione del ministero sacerdotale,
la seconda è l’epiclesi dello Spirito sull’eletto all’ordine episcopale, la terza è la
intercessione per la mediazione del Figlio di Dio Gesù Cristo. Il titolo “principale”
ricorre nella epiclesi, il titolo “arcisacerdotale” nella intercessione.
4 Cf. G. Ferraro, Lo Spirito Santo. I commenti di Origene, Giovanni Crisostomo, Teodoro di Mopsuestia e Cirillo Alessandrino, Orientalia Christiana Analecta 246, Pontificio Istituto
Orientale, Roma 1995, 61-65; Id., Lo Spirito e Cristo nel commento al quarto vangelo e nel
trattato trinitario di sant’Agostino, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, 9-66;
126-130; 32-34; 61-62.
5 Cf. G. Ferraro, Lo Spirito e l’“ora” di Cristo. L’esegesi di San Tommaso d’Aquino sul
quarto vangelo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1996; Id., Lo Spirito Santo nel
commento di San Bonaventura al quarto vangelo. Aspetti della pneumatologia e dell’esegesi
bonaventuriana, in Antonianum 49 (1974) 457-458; Id., Lo Spirito Santo nei “Commentaria in
Ioannem” di S. Bruno Astense, vescovo di Segni. Note di teologia ed esegesi, in Cesare Casale
Marcheselli (a cura di), Parola e Spirito. Studi in onore di Settimio Cipriani, Paideia, Brescia
1982, 636; Id., Il tema pneumatologico nelle “Enarrationes in Joannem” di Sant’Alberto Magno,
in Angelicum 61 (1984) 335.
6 Cf. G. Ferraro, Lo Spirito Santo nell’inno liturgico di Pentecoste, in La Civiltà Cattolica
149 II (1998) 354-365.
7 Cf. Pontificale Romanum ex decreto sacrosancti oecumenici concilii Vati­cani II renovatum auctoritate Pauli PP. VI editum Ioannis Pauli PP. II recognitum (PRRER), De ordinatione
Episcopi, Presbyterorum et Diaconorum (oepd), Editio typica altera, Typis Polyglottis Vaticani
1990, n. 47, 20-25; n. 83, 43-45.
356
1. Spirito principale
Per illustrare il significato del titolo “principale” riportiamo il testo dell’epiclesi, proponendo l’origine del termine, il suo significato nel Salmo 51, il significato assunto nella traduzione greca della Bibbia dei Settanta e nella traduzione latina
della Volgata, infine il significato che acquista nella formula di ordinazione. Per il
secondo titolo vedremo il significato che assume dal contesto immediato in cui si
trova nella preghiera consacratoria.
1.1. Epiclesi
Epiclesi – “Effondi ora sopra questo eletto la potenza che viene da te, o Padre,
il tuo Spirito che regge e guida (Spiritum principalem – pneuma hegemonikon); tu
lo hai dato al tuo diletto Figlio Gesù Cristo ed egli lo ha trasmesso ai santi Apostoli
che nelle diverse parti della terra hanno fondato la Chiesa come tuo santuario a
gloria e lode perenne del tuo nome”8.
La formulazione contiene una sequenza densa di concetti. Sono congiunte tre realtà: effusione, potenza, Spirito; queste tre realtà vengono domandate al Padre per l’eletto all’episcopato, con il duplice parallelismo tra Cristo e
gli Apostoli. Abbiamo quindi anzitutto l’azione sacramentale: “effondi sopra
questo eletto la potenza che viene da te o Padre, lo Spirito principale”, poi il
fondamento cristologico di tale azione: “che hai dato al tuo diletto Figlio Gesù
Cristo”, poi il fondamento apostolico: “che il tuo Figlio Gesù Cristo ha dato agli
apostoli”. Al centro e vertice sta lo “Spirito Principale”. Siamo nel cuore della
preghiera di ordinazione episcopale, di cui la formula dell’epiclesi è necessaria
per la validità dell’ordinazione9.
Pontificale Romano Riformato a norma dei decreti del concilio ecumenico Vaticano II
promulgato da Papa Paolo VI riveduto da Giovanni Paolo II (PRRPR), Ordinazione del vescovo
dei presbiteri e dei diaconi (ovpd), Conferenza Episcopale Italiana, Libreria Editrice Vaticana,
Città del Vaticano 1992, n. 52, 48-49; n. 94, 72-73.
9 Paolo VI, Costituzione Apostolica Pontificalis Romani Recognitio, con la quale si approvano i nuovi riti per l’ordinazione del diacono, del presbitero e del vescovo, in AAS 60 (1968)
373: “Nell’ordinazione del vescovo la materia è l’imposizione delle mani sul capo dell’eletto che
viene fatta in silenzio dai vescovi consacranti o almeno dal consacrante principale prima della
preghiera di ordinazione; la forma è costituita dalle parole della medesima preghiera di ordinazione, della quale sono essenziali, e perciò richieste per la validità queste parole: ‘Et nunc effunde
super hos electos eam virtutem quae a te est, Spiritum principalem, quem dedisti dilecto Filio tuo
Iesu Christo, quem ipse donavit sanctis Apostolis, qui constituerunt Ecclesiam per singula loca
ut sanctuarium tuum, in gloriam et laudem indeficientem nominis tui’”.
8 357
1.2. Spirito principale, spiritus principalis, hegemonikòn pneuma
in Sal 51, 14
La qualificazione “principale” data allo Spirito, con la locuzione Spiritus
principalis, traduzione latina del greco pneuma hegemonikòn, è presa dal Salmo
51, denominato dal suo inizio Miserere, nel quale forma l’ultima domanda della
trilogia sullo Spirito nei versetti 12-14. Per comprenderne il significato occorre
considerare la triplice petizione del Salmo.
12b: Rinnova in me uno Spirito saldo (rûah nakôn; spiritum firmum; pneuma
euthes); 13b: non privarmi del tuo Spirito Santo (rûah qados; spiritum sanctum; to
pneuma to hagion); 14b: sostieni in me uno Spirito generoso (rûah nedibah; spiritu
principali; pneuma hegemonikòn).
Queste tre petizioni dello Spirito, costituiscono la sommità della rivelazione pneumatologica dell’Antico Testamento. Lo Spirito riceve tre qualificazioni:
Spirito di fermezza, Spirito di santità, Spirito di obbedienza; il primo dono è lo
Spirito di fermezza: “L’uomo abbandonato a se stesso è fragile, incostante, pronto
al compromesso, instabile; attraverso il dono dello Spirito ‘saldo’ egli non spezzerà
più la sua risposta nel dialogo dell’alleanza con Dio”10 poiché lo Spirito redime da
ogni incostanza e instabilità nell’osservanza della legge di Dio; il secondo dono è
lo Spirito di santità, lo Spirito Santo:
Il concetto biblico di “santo” è innanzitutto ontologico, suppone una consacrazione e una separazione rispetto al resto, cioè al profano […]. Nel
pensiero del poeta c’è una allusione alla situazione del peccatore che è
escluso dalla liturgia e quindi dalla comunione viva con il volto di Dio.
Ancora più intensamente si prega Dio perché non prenda, non strappi via
il suo Spirito Santo. È questa la drammatica situazione per cui si cade
quasi nel nulla non avendo più l’alito sostentatore di Dio. Il terzo Spirito
riceve la specificazione nedibah, “generosità” (obbedienza), un vocabolo
che denota l’iniziativa spontanea, la generosità nelle cose difficili, la nobiltà interiore, è come ricevere un dinamismo nuovo che dà impulso alle
azioni dall’interno senza necessità di coazione esteriore, ma con generosità […] quasi come questo nuovo spirito fosse la colonna vertebrale della
nuova vita spirituale dell’orante. Si attua così la profezia della nuova alleanza […]. Lo spirito è quindi la forza che sostiene e fa agire con amore
e passione il cuore che è il luogo in cui lo Spirito di Dio è accolto e interiorizzato. Allora ritornerà la gioia della salvezza e della pace con Dio11,
che opera una esistenza santa, fa respirare l’uomo nella sfera della santità divina e della comunione con Dio; Spirito di obbedienza generosa che fortifica la volontà per renderla spontanea nella adesione immediata ai comandi di Dio, generosa
G. Ravasi, Il Libro dei Salmi, Commento e attualizzazione, vol. II, EDB, Bologna 1999, 52.
Ibid., 52-53.
10 11 358
nell’obbedire a Dio, un dinamismo nuovo che fa scaturire sue azioni dal di dentro
senza costrizioni ma spontaneamente12. Questa implorazione dello Spirito compendia e concentra la dottrina veterotestamentaria sullo Spirito divino, collocandola
sullo sfondo profetico della nuova alleanza profetizzata da Geremia ed Ezechiele.
Tale profondità di dottrina si rivela nella inesauribile spiegazione del Salmo nella
letteratura patristica13.
La terza invocazione nell’originale ebraico suona: rûah nedibah. Proponiamo
anzitutto il suo significato nel testo originale ebraico, poi il significato di pneuma hegemonikòn della traduzione greca dei Settanta, seguita dalla Volgata Spiritus
principalis, infine il significato che attraverso l’interpretazione patristica viene ad
assumere nella preghiera di ordinazione episcopale14.
Dopo avere domandato uno Spirito di saldezza che lo renda irremovibile nella
via del Signore, dopo avere implorato Dio di mantenergli il suo Spirito di santità,
il Salmista chiede infine di essere fortificato con uno Spirito di nedibah. Questo
termine ebraico viene dalla radice ndb che significa agire per proprio impulso, volenterosamente, con generosità spontanea, con grandezza d’animo, disponibilità
volenterosa. Nello spiegare l’espressione gli esegeti sottolineano il fatto che la
generosità e prontezza è caratteristica dell’obbedienza e ne rendono il significato
con la parafrasi: confermami con uno spirito di obbedienza pronta ai tuoi comandamenti15. L’orante domanda a Dio uno spirito che lo renda capace di compiere
ciò che Dio vuole da lui. Il significato del testo originale è dunque: uno spirito di
generosità, di prontezza nell’obbedienza e nell’esecuzione dei comandi, dei voleri,
dei desideri di Dio. La generosità, la prontezza, la grandezza d’animo verso Dio
appaiono come qualità nobili, adatte specialmente a coloro che sono collocati in
alto, che hanno un compito di direzione, di guida, di comando; donde il significato
derivato: nobiltà, dote dei capi, dei principi, dei re che stanno al vertice del popolo.
12 Cf. H. J. Kraus, Psalmen, t. I, Neukirchen 1966, 388-389. “Non sappiamo se in tutto
l’Antico Testamento e Nuovo Testamento si trovi una epiclesi altrettanto bella come quella di
questi tre versi.” (L. Alonso Schökel, C. Carniti, I Salmi, vol. 1, Borla, Roma 1992, 829.)
13 La triplice ricorrenza di spirito in questo salmo ha avuto nell’esegesi patristica una interpretazione trinitaria a partire da Origene nell’Oriente e da Ambrogio nell’Occidente; cf. H. C.
Puech, Origène et l’exé­gèse trinitaire du Psaume 50, 12-14, in Aux sources de la Tradition chrétienne, Mélanges M. Goguel, Neuchâtel et Paris 1960, 180-194.
14 Nell’esporre il significato di pneuma hegemonikon seguiamo gli studi pubblicati su questo argomento, evitando citazioni continue. Per la parte biblica lo studio principale è J. Schneider, Pneuma hegemonikon. Ein Beitrag zur Pneumalehre der LXX, in Zeitschrift für die Neutestamentliche Wissenschaft 34 (1935) 62-69. Per la patristica i due studi di K. Rahner, Le début
d’une doctrine des cinq sens spirituels chez Origène, in Revue d’ascétique et de mystique 13
(1932) 113-145; Id., « Cœur de Jésus » chez Origène?, in Revue d’ascétique et de mystique 15
(1934) 171-174. Per la parte sia patristica che liturgica: J. Lecuyer, La grâce de la consécration
épiscopale, in Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques 36 (1952) 389-417; B. Botte,
Spiritus Principalis (Formule de l’ordination épiscopale), in Notitiae 10 (1974) 410-411.
15 È l’interpretazione di H. Gunkel, Die Psalmen, Göttingen 1968, 225. Cf. H. J. Kraus,
Psalmen, op. cit., 388-389.
359
Il traduttore greco ha reso l’espressione ebraica con pneuma hegemonikon. Con
tale traduzione ha dato una interpretazione che trasforma il senso. Nel testo originale
si tratta di spirito di obbedienza, nel testo greco si tratta di spirito “egemonico”, cioè di
dominio. La traduzione latina della Volgata ha ritenuto il significato della traduzione
greca: spiritu principali confirma me; la nuova traduzione si è riaccostata al significato
del testo originale traducendo: spiritu promptissimo confirma me16. Si può interpretare
la traduzione greca nel modo seguente: l’orante domanda uno spirito adatto al comando, un animo quale conviene a un egemone, a un capo. Il testo ebraico e quello greco
hanno in comune l’accentuazione della spontaneità nell’agire, la libertà da costrizione
esterna. Ma in questo significato comune ciò che viene sottolineato è diverso nelle due
lingue; nel testo originale l’accento è posto sulla interiore disponibilità e prontezza di
fronte a Dio e ai suoi voleri e comandamenti; nel testo tradotto è sottolineata l’autoaffermazione dell’uomo nel dominio di sé. Il campo, infatti, nel quale si esercita il dominio dello pneuma hegemonikòn è l’interiorità dell’uomo: i suoi sensi, le sue tendenze,
le sue passioni. Il traduttore può essere stato indotto a questa scelta da due elementi
convergenti; il primo è il significato derivato del termine ebraico: nobiltà di animo,
qualità di un principe; l’altro è il significato che aveva il termine hegemonikon nel
mondo greco, particolarmente nella cosmologia e nella psicologia stoica, significato di
principio unificatore e dominatore della totalità del cosmo e dell’uomo17. Il senso della
traduzione greca di questo versetto del Salmo viene dunque ad essere questo: fortificami con uno Spirito che abbia il dominio e la guida di tutta la mia vita interiore, che
mi indichi stabilmente il giusto cammino facendomelo seguire. Lo spirito egemonico
assume la funzione decisiva nella vita dell’anima ed è un dono che viene domandato a
Dio e da lui elargito affinché l’uomo così dotato possa adempiere i suoi doveri e i suoi
compiti. Lo pneuma egemonico dirige tutta la vita dell’uomo.
1.3. “Spirito principale” nella preghiera di ordinazione episcopale
Dal significato di dominio interiore dell’uomo, la parola hegemonikòn attraverso l’evo­lu­zione semantica, assume il significato di governo degli altri, di reggenza e
guida della comunità; in tale senso entra nella preghiera di ordinazione episcopale.
Tralasciando la documentazione di tale valore semantico nella letteratura patristica e
Pontificia Commissio pro Nova Vulgata Bibliorum Editione, Liber Psalmorum, Typis
Polyglottis Vaticanis 1969, 56.
17 Gli Stoici hanno hegemonikon come termine tecnico per la loro dottrina sulla natura e
sull’anima; hegemonikon è la ragione divina che anima e penetra il mondo, il principio che conferisce ordine e armonia a tutto l’universo e alle sue singole parti, fa della creazione intera un’unità,
un cosmo. Analogamente accade nell’anima dell’uomo; hegemonikon, che ha subito un’evoluzione dalla dottrina primitiva al seguito dello stoicismo, è la parte direttiva dell’anima, la ragione
che abbraccia tutte le sue attività e i suoi impulsi. Significato analogo gli attribuiscono Filone, e
nella letteratura cristiana antica, Eusebio e Clemente Alessandrino. Per la documentazione cf. gli
studi sopra citati di J. Schneider e K. Rahner.
16 360
in Ippolito Romano18, possiamo determinare questo significato all’interno della preghiera stessa; essa infatti nella sua parte iniziale, nella anamnesi parla della istituzione di principes, cioè di capi del popolo eletto, vedendo in essi la prefigurazione dei
vescovi della Chiesa; nella sua parte di intercessione chiede per i vescovi che siano
pastori e descrive la loro attività mediante quegli atti che caratterizzano il governo pastorale: assegnare i ministeri, accogliere di nuovo i fedeli nella comunione ecclesiale
dopo che ne sono stati separati. In questa luce assume significato chiaro, nel centro
dell’epiclesi, la domanda dello Spiritum principalem, del pneuma hegemonikon. È
lo Spirito di “principe”, cioè di capo della comunità, lo Spirito di autorità19. In forza
dello Spiritus principalis il vescovo è reso essenzialmente principe e capo, non nel
senso profano e politico, ma nel senso biblico di pastore della Chiesa, di eletto a cui
il Signore, mediante il sacramento dell’ordine, affida di governare, di pascere il suo
gregge. Sull’eletto all’episcopato viene dunque invocato ed effuso lo Spirito Santo, inteso come dono che abilita al sapiente governo spirituale del popolo di Dio. Il
seguito della preghiera, elencando gli atti episcopali, esplicita l’attuarsi concreto di
questa grazia, di questo carisma dello Spirito.
La dottrina contenuta nella breve formula della epiclesi è densa nella mirabile
rapidità stilistica della sequenza; essa esprime una dottrina trinitaria cristologica,
ecclesiologica, dossologica in stretta concatenazione e immanenza reciproca.
1.4. Dottrina trinitaria, cristologica, ecclesiologica
Nella epiclesi troviamo una dottrina sintetica del mistero cristiano: Trinità,
Cristo, Chiesa. La struttura e l’articolazione dei concetti attraverso i parallelismi,
la successione dei cicli episcopale trinitario, cristologico, apostolico, dossologico
mettono in evidenza il mistero trinitario e cristologico in rapporto al mistero e ministero del vescovo e della chiesa,
18 Rimandiamo, per la documentazione, agli studi già citati di J. Lecuyer, cui è da aggiungere: Id., Les étapes de l’enseignement thomiste sur l’épiscopat, in Revue Thomiste 41 (1957)
85-86, nota 102, 29-52; Id., Épiscopat, in Dictionnaire de Spiritualité IV, 1, 885-886 (879-907).
19 “Esprit souverain” traduce B. Botte, dando il seguente commento: “L’ordinazione conferisce un
carisma speciale; per il vescovo è lo spirito sovrano, che conviene a un capo” (Hyppolite de Rome, La tradition apostolique d’après les anciennes versions, introduction, traduction et notes par B. Botte (= Sources chrétiennes, 11bis), Cerf, Paris 1968, nota 3, 45). Cf. B. Botte, Spiritus principalis, op. cit.; A. Rose,
La prière consécratoire de l’évêque, in La Maison Dieu 98 (1969) 113. La traduzione italiana ufficiale
rende principalis con due verbi: “lo Spirito che regge e guida” (PRRPR, ovpd, n. 52, 48-49; n. 94, 72-73.
361
ciclo episcopale trinitario (1.4.1.)
et nunc (Deus Pater) effunde
super hunc electum
eam virtutem quae a te est
Spiritum principalem
ciclo cristologico (1.4.2.)
quem (Spiritum)
(Pater) dedisti
dilecto Filio tuo Iesu Christo
ciclo cristologico-apostolico (1.4.3.)
quem (Spiritum)
ipse (Filius) donavit
sanctis Apostolis
ciclo ecclesiale e dossologia (1.4.4.)
qui constituerunt Ecclesiam
per singula loca ut sanctuarium tuuum
in gloriam et laudem indeficientem
nominis tui (Pater)
1.4.1. Ciclo episcopale trinitario
Nella prima proposizione dell’epiclesi abbiamo anzitutto l’attuarsi dell’azione sacramentale nel suo momento centrale, che pone in rapporto diretto Dio Padre,
l’eletto all’episcopato e lo Spirito: “Dio Padre effondi su questo eletto lo Spirito
principale”. È il ciclo episcopale; internamente a questa azione sacramentale e al
rapporto che essa esprime, viene inglobato il rapporto immanente dello Spirito dal
Padre: “quella potenza che è da te”. È il ciclo trinitario. Consideriamo questi due
cicli, episcopale-trinitario e il loro rapporto reciproco presente e operante nell’azione sacramentale dell’ordinazione dei vescovi.
Ciclo episcopale – L’invocazione “Deus Pater effunde super hos electos Spiritum” pone in rapporto operante Dio Padre, gli eletti all’episcopato, lo Spirito; il
triplice rapporto viene stabilito tra il Padre e gli eletti mediante lo Spirito, tra il Padre
e lo Spirito in relazione agli eletti, tra lo Spirito e gli eletti in dipendenza dal Padre.
L’azione del Padre che crea il rapporto è espressa dal verbo effunde (epichee). Questo
verbo è molto usato nell’Antico Testamento in contesti cultuali; si effonde l’acqua,
si effonde il vino, si effonde il sangue, si effonde l’olio. Nel nostro caso interessa
l’effusione dell’olio sopra uomini scelti per essere costituiti sacerdoti, re e profeti.
Mosè per comando di Dio dà la consacrazione sacerdotale ad Aronne nella quale è
prescritto il rito di effondere l’olio sopra il suo capo: “Prenderai l’olio dell’unzione ne
verserai sul suo capo e così lo ungerai” (Es 29, 7). “Versò olio dell’unzione sulla testa
di Aronne e lo unse per consacrarlo” (Lv 8, 12). “Il sacerdote, che ha preminenza sui
fratelli, quello sulla cui testa fu versato l’olio dell’unzione” (Lv 21, 10)20. Samuele dà
L’unzione oltre che nella consacrazione del sommo sacerdote viene data anche nella consacrazione dei sacerdoti figli di Aronne: “Ungerai Aronne e i suoi figli, darai loro l’investitura e li consacrerai perché esercitino il sacerdozio in mio onore” (Es 28, 41). “Ungerai Aronne e lo consacrerai
20 362
la consacrazione regale prima a Saul, poi a Davide mediante lo stesso atto: “Samuele
prese l’ampolla dell’olio e la versò sulla testa di Saul, poi lo baciò dicendo: ecco il
Signore ti ha unto capo sopra Israele suo popolo” (1 Sam 10, 1). “Samuele prese il
corno dell’olio e consacrò Davide con l’unzione in mezzo ai suoi fratelli e lo Spirito
del Signore si posò su Davide da quel giorno in poi” (1 Sam 16, 13). “Così dice il
Signore, Dio di Israele: Io ti ho unto re di Israele” (2 Sam 12, 7)21.
L’unzione nella sacra Scrittura assume il valore di dedicare a Dio colui che
la riceve e di abilitarlo e dargli la forza di vivere la sua condizione di consacrato
e di esercitare la missione che gli viene affidata. Il senso del gesto rituale dell’unzione voleva dire che questi uomini erano stati scelti da Dio per essere suoi strumenti nell’esercizio del vero culto e nel governo del popolo eletto, per custodirne
la fede e per condurlo alla salvezza. Ciò che qui importa rilevare è che mediante
l’unzione essi diventavano partecipi dello Spirito di Dio. La connessione tra effusione dell’olio sul capo e dono dello Spirito viene rivelata esplicitamente nel
racconto della unzione di Davide: “Samuele prese il corno dell’olio e lo consacrò
con l’unzione in mezzo ai suoi fratelli e lo Spirito del Signore si posò su Davide
da quel giorno in poi” (1 Sm 16, 13); il termine “unto” diviene la designazione
dei sacerdoti e dei re; l’uomo unto con olio è posto in relazione del tutto speciale
con Dio.
Elia ricevette il comando di ungere Eliseo come profeta; ordine che non ebbe
attuazione22. Il profeta riceve una unzione che non è rituale ma metaforica; essa
costituisce la sua missione profetica, come si legge nel testo in cui sono unite le
due realtà, l’unzione e lo Spirito in ordine alla missione: “Lo Spirito del Signore è
su di me perché il Signore mi ha unto, mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai
poveri” (Is 61, 1). Oggetto della effusione sensibile è l’olio rituale, come simbolo
della donazione dello Spirito di Dio. Nel discorso di Pentecoste Pietro cita la profezia di Gioele: “Effonderò il mio Spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i
vostri figli e le vostre figlie […] anche sopra gli schiavi e le schiave in quei giorni
effonderò il mio Spirito” (Gl 3, 1‑2) e lo stesso verbo con lo stesso Spirito sono
presenti in Ezechiele: “Effonderò il mio Spirito sulla casa di Israele” (Ez 39, 29); e
in Zaccaria: “Effonderò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme
uno Spirito di grazia e di consolazione” (Zc 12, 10).
e così egli eserciterà il mio sacerdozio. Farai avvicinare anche i suoi figli […], li ungerai come il
loro padre e così eserciteranno il mio sacerdozio; in tale modo la loro unzione conferirà loro un
sacerdozio perenne.” (Es 40, 13-15). “Questi sono i nomi dei figli di Aronne: Nadab il primogenito,
Abiu, Eleazar e Itamar, che ricevettero l’unzione come sacerdoti e furono consacrati per esercitare
il sacerdozio” (Nm 3, 2-3); cf. L. Sabourin, Priesthood. A comparative Study, Leiden 1973, 140.
21 Così Eliseo inviò un figlio di profeta a ungere Ieu come re: “Gli versò l’olio sulla testa dicendogli: Dice il Signore Dio di Israele: io ti ungo re sul popolo del Signore su Israele”
(2 Re 9, 3).
22 “Ungerai Eliseo come profeta al tuo posto” (1 Re 19, 16). Al momento della chiamata
effettiva di Eliseo, Elia non lo unse ma gettò il mantello su di lui (cf. 1 Re 19, 19) e al momento
della sua ascensione verso il cielo lo spirito di Elia fu comunicato ad Eliseo (cf. 2 Re 2, 15).
363
Il Nuovo Testamento continua a usare questa terminologia che connette effusione, unzione e Spirito. Nella Pentecoste avviene la realizzazione della profezia
di Gioele e Gesù glorificato effonde lo Spirito (At 2, 17‑18.33). I cristiani ricevono
l’unzione in rapporto allo Spirito Santo: “È Dio stesso che ci conferma insieme con
voi in Cristo, e ci ha conferito l’unzione e ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la
caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2 Cor 1, 21‑22)23.
La preghiera di ordinazione episcopale usando il verbo “effondere” esprime,
invocandolo efficacemente e ottenendolo infallibilmente, il dono dello Spirito Santo dal Padre sugli eletti all’episcopato. Come nell’antichità Dio ha voluto che fosse
effuso l’olio di consacrazione sui sacerdoti, sui re, sui profeti, e mediante questo
simbolo ha donato il suo Spirito, così ora effonde non più l’olio simbolico, ma la
realtà da esso significata, lo Spirito Santo stesso per la consacrazione dei vescovi
quali sommi sacerdoti, maestri e capi del suo nuovo popolo24.
L’epiclesi dello Spirito sugli eletti all’episcopato e l’epiclesi sull’olio per renderlo Crisma si corrispondono e sono correlative25; i vescovi infatti, in virtù dello
Spirito Santo che è stato effuso in loro invocano efficacemente sull’olio lo Spirito
che lo renda crisma; a sua volta, l’olio consacrato dallo Spirito Santo viene effuso
sul capo dei nuovi vescovi per manifestare lo Spirito che è stato loro dato in pienezza: “Deus Pater effunde super hos electos Spiritum Principalem” è il centro
dell’atto sacramentale di ordinazione episcopale.
Ciclo trinitario – All’interno di questa azione sacramentale che pone in rapporto Dio Padre, l’eletto all’episcopato e lo Spirito, viene espresso il rapporto interpersonale intimo dello Spirito con il Padre: eam virtutem quae a te est, ten para
23 Cf. I. de la Potterie, L’onction du Christ. Étude de théologie biblique, in Nouvelle Revue
Théologique 80 (1958) 225-252; M. Cocagnac, I simboli biblici, EDB, Bologna 1993, 663-678.
24 Nello svolgimento dell’ordinazione episcopale i nuovi vescovi ricevono sul capo l’unzione del crisma, rito esplicativo, che significa l’unzione dello Spirito Santo già avvenuta nella congiunzione della imposizione delle mani e della preghiera di consacrazione; ecco la formula che
accompagna il gesto di unzione: “Deus, qui summi Christi sacerdotii participem te effecit, ipse te
mysticae delibutionis liquore perfundat, et spiritualis benedictionis ubertate fecundet” (PRRER,
oepd, n. 49, 26; n. 85, 45). “Dio che ti ha fatto partecipe del sommo sacerdozio di Cristo, effonda
su di te la sua mistica unzione e con l’abbondanza della sua benedizione dia fecondità al tuo
ministero” (PRRPR, ovpd, n. 54, 50; n. 96, 74).
25 Il crisma, olio mescolato con balsamo, viene benedetto mediante l’invocazione dello
Spirito su di esso per renderlo Crisma con l’epiclesi della preghiera di benedizione: “Te igitur
deprecamur, Domine, ut huius creaturae pinguedinem sanctificare tua benedictione digneris et ei
Sancti Spiritus immiscere virtutem, cooperante Christi tui potentia, a cuius sancto nomine chrisma nomen accepit, unde unxisti sacerdotes, reges, prophetas et martyres tuos.” (PRI, obocicc,
n. 25, 25). “Ora ti preghiamo, o Padre: santifica con la tua benedizione questo olio, dono della tua
provvidenza; impregnalo della forza del tuo Spirito e della potenza che emana da Cristo dal cui
santo nome è chiamato crisma, l’olio che consacra i sacerdoti, i re, i profeti e i martiri.” (PRRP,
bodca, n. 22, 1, 23). Cf. J. Rogues, La préface consécratoire du Chrême, in La Maison Dieu 49
(1957) 35-49; G. Ferraro, L’esistenza sacramentale cristiana nella preghiera di benedizione del
crisma, in La Civiltà Cattolica 146 III (1995) 13-25.
364
sou dynamin, “la potenza che è da te”. È la relazione trinitaria. Spirito e dynamis
sono intimamente connessi nella sacra Scrittura, fino alla identificazione. Il mistero
dell’incarnazione viene annunciato dall’angelo a Maria con le parole: “Lo Spirito
Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo stenderà su di te la sua ombra”
(Lc 1, 35). Dal suo concepimento prodigioso Gesù porta in sé una dynamis secondo
l’espressione che troviamo nel terzo vangelo: “Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo” (Lc 4, 14). È una dynamis che consiste nel possesso dello
Spirito. Alla sua risurrezione egli viene “costituito Figlio di Dio con la potenza
secondo lo Spirito di santificazione” (Rm 1, 4) e promette ai suoi la venuta dello
Spirito come di potenza: “Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso, ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24, 49).
“Avrete potenza dallo Spirito che scenderà su di voi” (At 1, 8). L’aspetto di forza,
di potenza dello Spirito si manifesta in comportamenti umani talora insoliti, come
il parlare in lingue, come il predicare “non in sublimità di parola o di sapienza […]
ma nella manifestazione dello Spirito e della sua potenza” (1 Cor 2, 1.4). Spirito e
potenza sono inscindibili, sono la stessa realtà26.
L’espressione eam virtutem quae a te est indica il rapporto di origine eterna
dello Spirito dal Padre, rapporto che sta a fondamento della missione temporale
salvifica del terzo autore divino della salvezza, è presente in tale missione e da essa
manifestato. La preghiera porta così ai vertici della vita intima di Dio, nel mistero
del Padre che è all’origine dello Spirito Santo, procedente dal Padre.
Rapporto tra il ciclo episcopale e il ciclo trinitario – Il ciclo episcopale, la
consacrazione degli eletti, operata dal Padre con l’effusione dello Spirito e il ciclo
trinitario della relazione tra lo Spirito e il Padre appaiono inscindibili, l’uno immanente nell’altro. La Trinità economica, cioè il Padre che dona lo Spirito Santo e
si dona nello Spirito Santo nel tempo e nella storia, è per identità la Trinità immanente, cioè il Padre dal quale procede lo Spirito nell’interiorità della vita divina. Il
rapporto interiore del Padre e dello Spirito nel loro mistero di luce infinita è incorporato nel loro rapporto salvifico con colui che è eletto alla successione apostolica.
Ciò significa che il mistero salvifico dell’invio e della effusione dello Spirito dal
Padre sul vescovo contiene il mistero dell’origine e processione dello stesso Spirito
dal Padre: “Spiritus qui a Patre procedit” (Gv 15, 26) dice Gesù; “ea virtus quae a te
est” dice la epiclesi consacratoria esprimendo la stessa idea e realtà27. L’origine, la
processione eterna dello Spirito dal Padre e la sua effusione nel presente momento
dell’ordinazione episcopale stanno insieme, il secondo momento nella sua puntualità porta in sé tutto il peso, la gloria, il mistero del primo. L’azione sacramentale è
l’irruzione dell’eternità nel tempo e l’assunzione del tempo nella eternità. Il valore
dottrinale di questa prima proposizione dell’epiclesi consacratoria dei vescovi preCf. W. Grundmann, duvnami, GLNT II, 1514-1515.
Il testo greco dell’epiclesi tèn parav sou dynamin tou hegemonikou pneumatou ha il parallelismo nel testo di promessa del quarto vangelo: to pneuma tès aletheias o para tou patros ekporeuetai (Gv 15, 26). Nel quarto vangelo la processione dello Spirito dal Padre rivela la sua missione temporale presso gli apostoli per il parallelismo con gli altri verbi che si riferiscono allo Spirito.
26 27 365
senta una sommità di dottrina teologica in cui è presente il primordiale e fondamentale mistero della fede, la Trinità divina.
1.4.2. Ciclo trinitario cristologico
“Quem (Spiritum) (Pater) dedisti dilecto Filio tuo Iesu Christo”: il ciclo trinitario si riversa, mediante lo Spirito, nel ciclo cristologico, che diviene una anamnesi dentro l’epiclesi. Qui il rapporto è tra le tre persone divine, e perciò ancora
trinitario, nella vicenda temporale storica salvifica del Figlio di Dio fatto uomo,
Gesù Cristo.
Il triplice rapporto viene ora stabilito tra lo Spirito e il Padre in relazione al Figlio,
tra lo Spirito e il Figlio da parte del Padre, tra il Padre e il Figlio mediante lo Spirito.
Il dono dello Spirito da Dio Padre al suo Figlio Gesù Cristo è presentato
dalla sacra Scrittura anzitutto nel mistero dell’incarnazione in cui il Figlio di Dio
diventa uomo per l’azione misteriosa dello Spirito in Maria: “Lo Spirito Santo
scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui
che nascerà sarà santo e chiamato Figlio di Dio” (Lc 1, 35). Lo Spirito Santo opera il prodigio divino che feconda il seno della vergine; i santi Padri commentano
con predilezione questo intervento dello Spirito riguardo a Gesù, che costituisce
la sua “unzione” fin dal primo istante del suo concepimento e della sua esistenza
umana. Sant’Ireneo scrive in un celebre testo: “Nel nome Cristo è sottinteso colui
che ha unto, colui che è stato unto e l’unzione stessa con cui è stato unto; colui che
ha unto è il Padre, colui che è stato unto è il Figlio, ed è stato unto nello Spirito,
che è l’unzione”28. Gregorio di Nissa parla di una unzione eterna del Verbo nella
sua generazione divina mediante lo Spirito Santo, partendo dal presupposto che
il nome “Cristo” “Unto” appartiene al Figlio da tutta l’eternità. Premessa la citazione: “Ti unse, Dio, il tuo Dio con olio di esultanza” (Sl 45, 8; Eb 1, 9), scrive:
“L’olio di esultanza presenta la potenza dello Spirito Santo, con il quale Dio è
unto da Dio, cioè l’Unigenito è unto dal Padre […]. Come il giusto non può essere
ingiusto, così l’unto non può essere non unto. Ora colui che non è mai non-unto, è
certamente l’unto da sempre. E chiunque deve ammettere che colui che unge è il
Padre e l’unzione è lo Spirito”29.
28 Irénée de Lyon, Contre les Hérésies, III, 18, 3, édition critique par A. Rousseau et L.
Doutrelau, t. II, texte et traduction, Paris 1974, 350. La stessa idea si trova in Basile de Césarée,
Sur le Saint-Esprit, XII, 28, introduction, texte et notes par B. Pruche, 2e éd., Paris 1968, 344:
“Nominare il Cristo è fare la professione di tutto: è mostrare Dio che unge, e il Figlio che viene
unto e lo Spirito che è l’unzione, come abbiamo imparato da Pietro negli Atti: ‘Gesù di Nazaret,
Dio lo unse di Spirito Santo’ (At 10, 38) e in Isaia: ‘Lo Spirito del Signore è su di me, per questo
mi ha unto’ (Is 61, 1). Ed anche il Salmista: ‘per questo ti ha unto, o Dio, il tuo Dio con olio di
esultanza’ (Sal 45, 8)”. Per la documentazione patristica su questo tema, cf. J. Lecuyer, Il sacerdozio di Cristo e della Chiesa. Esegesi e Tradizione, Edizioni Dehoniane, Bologna 1964, 57-88;
Id., La grâce de la consécration épiscopale, op. cit., 390-395.
29 Gregorio di Nissa, Antihaereticus adversus Apollinarem, 52, PG 45, 1249-1252.
366
Il Padre dà e manifesta il dono dello Spirito Santo al suo Figlio Gesù Cristo
nel battesimo al Giordano: “mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in
preghiera, il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea
come di colomba e vi fu una voce dal cielo: Tu sei il mio Figlio prediletto, in te
mi sono compiaciuto” (Lc 3, 21‑22; Mt 3, 16‑17; Mc 1, 10‑11). Questo momento
dell’esistenza di Gesù prima ancora che nella Tradizione ottiene una esegesi nel
Nuovo Testamento stesso. Gesù a Nazaret inaugura la sua missione nella sinagoga
leggendo il testo dell’unzione e vocazione profetica nel libro di Isaia e applicandolo a se stesso: “Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove
era scritto: lo Spirito del Signore è su di me, per questo mi ha unto e mi ha mandato
per annunciare ai poveri il lieto messaggio […]. Gli occhi di tutti nella sinagoga
stavano fissi sopra di lui, allora cominciò a dire: oggi si è adempiuta questa scrittura
che voi avete udita con i vostri orecchi” (Lc 4, 17‑21; Is 61, 1‑2). Alla manifestazione battesimale dello Spirito e a questa inaugurazione del ministero di Gesù nella
sinagoga di Nazaret allude Pietro nel discorso pronunziato in casa di Cornelio, ove
parla di unzione dello Spirito: “Dio unse in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret
il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del
diavolo, perché Dio era con lui” (At 10, 38). L’unzione di Gesù mediante lo Spirito
viene richiamata, nella liturgia, dall’anamnesi della preghiera di benedizione del
crisma. Evocando le preparazioni divine con cui l’olio veniva designato per essere
segno della comunicazione dello Spirito nei sacramenti, la preghiera dice:
“Quando Gesù Cristo tuo Figlio e nostro Signore chiese il battesimo a Giovanni nelle acque del fiume Giordano, allora tu hai mandato dal cielo in forma di
colomba lo Spirito Santo e hai testimoniato con la tua stessa voce, che in lui, tuo
Figlio unigenito, dimora tutta la tua compiacenza. Su di lui a preferenza di tutti
gli altri uomini hai effuso l’olio di esultanza profeticamente cantato da Davide”30.
Questa stessa unzione viene richiamata nell’anamnesi della preghiera di benedizione dell’acqua battesimale: “Il tuo Figlio battezzato nell’acqua del Giordano fu
unto dallo Spirito Santo”31. Tale unzione di Spirito e di potenza nel battesimo prepara Gesù Cristo a un altro battesimo che completa e perfeziona la sua missione:
“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso. C’è
un battesimo che devo ricevere, e come sono angosciato finché non sia compiuto”
(Lc 12, 49‑40).
Il dono e l’azione dello Spirito in Gesù avviene infine nel mistero della esaltazione glorificazione nella morte risurrezione. Dopo che Gesù “con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio” (Eb 9, 14), Dio Padre risuscita il suo Figlio
mediante la potenza dello Spirito Santo: “Se lo Spirito di Colui che ha risuscitato
Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Gesù dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8, 11).
Nella risurrezione la natura umana di Gesù viene completamente penetrata dallo
PRRP, bodca, n. 22, 1, 22-23; cf. PRI, obocicc, n. 25, 14.
RRRP, rbb, n. 60, 58; n. 108, 95; cf. RRI obp, n. 54, 29; n. 91, 41.
30 31 367
Spirito, di cui l’olio con la sua capacità penetrante è il simbolo: “Ti unse, Dio, il tuo
Dio con olio di esultanza” (Eb 1, 9; Sl 45, 8). Gesù viene così rivelato e manifestato come “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione
mediante la risurrezione dai morti” (Rm 1, 4).
La preghiera di ordinazione episcopale dice: “Spiritum principalem quem dedisti dilecto Filio tuo Iesu Christo”; tra i santi Padri Ireneo evoca il dono fatto da Dio
Padre a Cristo denominandolo “Spirito principale” secondo l’espressione del Salmo
51 nella traduzione greca. Le parole di Ireneo assumono una singolare importanza:
Gli Apostoli hanno detto che lo Spirito di Dio discese su di lui come una
colomba. È questo lo Spirito di cui Isaia aveva detto: “lo Spirito di Dio
riposerà su di lui” (Is 11, 2), e ancora: “lo Spirito del Signore è su di me,
perché mi ha unto” (Is 61, 1). È questo lo Spirito di cui il Signore diceva:
“non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla
in voi” (Mt 10, 20). E ancora quando egli dava ai suoi discepoli il potere
di far rinascere gli uomini, diceva: “Andate, fate miei discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”
(Mt 28, 19). Egli aveva promesso per mezzo dei profeti di effonderlo
negli ultimi tempi sopra i suoi servi e le sue serve affinché profetizzassero
(cf. Gl 3, 1‑2; At 2, 17‑18). Perciò questo Spirito è disceso sul Figlio di
Dio divenuto Figlio dell’uomo […]. È questo Spirito che Davide aveva
domandato per il genere umano dicendo: “et Spiritu principali confirma
me (kai pneumati hegemoniko sterison me)” (Sal 51, 14)32.
Gesù con l’intervento dello Spirito in lui, manifestato nel suo concepimento
umano, nell’inaugurazione del suo ministero, nel battesimo, nella morte e risurrezione è stato costituito Cristo; cioè è stato unto con unzione profetica, regale e
sacerdotale dal Padre mediante lo Spirito. Egli è il sommo sacerdote e pastore e
maestro del nuovo popolo di Dio che è la Chiesa. Tale è la rievocazione della formula di ordinazione in questo suo punto centrale che continua con l’opera di Gesù
in relazione allo Spirito e agli Apostoli.
1.4.3. Ciclo cristologico ecclesiale
“Quem (Spiritum) ipse (Filius) donavit sanctis Apostolis”. Gesù esaltato e
glorificato nella morte e risurrezione, ricevuta la pienezza del dono dello Spirito
Santo nella sua umanità, lo riversa sopra gli Apostoli, dando costituzione alla
Chiesa. Il ciclo trinitario e cristologico diviene ecclesiale mediante il dono dello
Spirito agli Apostoli che sono abilitati, in virtù di questo dono, a diventare i
costruttori della Chiesa. La relazione a partire dai soggetti che sono in azione,
presenta un triplice rapporto: tra lo Spirito e il Figlio in relazione agli Apostoli;
32 Irénée de Lyon, Contre les Hérésies, III, 17,1-2, éd. critique par A. Rousseau et L. Doutrelau, tome II, texte et traduction, Sources Chrétiennes 211, Paris 1974, 328-331.
368
tra il Figlio e gli Apostoli mediante lo Spirito, tra lo Spirito e gli Apostoli da
parte del Figlio.
Gesù aveva promesso lo Spirito prima dell’ascensione al cielo dicendo: “Io
manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; voi restate in città finché
non siate rivestiti di potenza dall’alto” (Lc 24, 49). “Avrete potenza dallo Spirito
Santo che scenderà su di voi” (At 1, 8). Lo aveva promesso nei discorsi dell’addio
come dono del Padre e suo: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito
perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità” (Gv 14, 16‑17). “Lo
Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome” (Gv 14, 26). “Quando verrà il
Paraclito che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre”
(Gv 15, 26). “Quando me ne sarò andato vi manderò il Paraclito” (Gv 16, 7). Gesù
ha mantenuto la promessa, ha donato lo Spirito la sera del giorno della risurrezione quando: “alitò e disse: Ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20, 22), e nella festa di
Pentecoste: “Innalzato alla destra di Dio e dopo avere ricevuto dal Padre lo Spirito
Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso come voi stessi potete vedere e udire”
(At 2, 33). La discesa dello Spirito Santo a Pentecoste è stata interpretata dalla
tradizione patristica come il dono dello Spirito in pienezza, partecipazione alla effusione dello Spirito in Cristo, alla sua unzione profetica, regale e sacerdotale. Tale
pienezza di donazione è riferibile, in modo diverso, a due sacramenti: alla cresima come perfezione e maturità dell’identità cristiana rispetto al sacramento del
battesimo; all’ordinazione episcopale come pienezza e perfezione del sacerdozio
ministeriale e della dignità e funzione apostolica in rapporto alla Chiesa universale
rispetto all’ordinazione presbiterale33.
1.4.4. Ciclo ecclesiale e dossologia
“Qui (Apostoli) constituerunt Ecclesiam per singula loca ut santuarium tuum
in gloriam et laudem indeficientem nominis tui (Pater)”. Da Dio Padre ai vescovi a
Cristo agli Apostoli alla Chiesa a Dio Padre alla gloria del suo nome; così si compie
la realtà dalla sua origine al suo fine, Dio Padre. Gli Apostoli, rivestiti dell’effusione dello Spirito, hanno adempiuto il compito per il quale erano stati abilitati, la
33 È questa l’interpretazione di J. Lecuyer, La grâce de la consécration épiscopale, op. cit.,
400-402, che dopo una esauriente rassegna di testi patristici scrive: “Questa stessa tradizione ha
visto nell’evento di Pentecoste una seconda unzione sacerdotale degli Apostoli. Senza dubbio nel
cenacolo tutti i discepoli presenti ricevettero lo Spirito Santo, ma gli apostoli ricevettero, sotto
lo stesso segno, una duplice effusione dello Spirito: quella che è data a tutti i cristiani dalla cresima e quella che è propria degli apostoli come tali, e che, a partire da loro, si diffonderà sui loro
successori, i vescovi […]. Si tratta ancora qui di una unzione sacerdotale ordinata all’apostolato
[…]. La discesa dello Spirito Santo sugli apostoli è dunque una consacrazione episcopale […]
e questa consacrazione episcopale degli apostoli viene dopo una prima ordinazione ricevuta da
loro prima della passione”. Cf. Id., Il mistero della Pentecoste e l’apostolicità della Chiesa, in
Studi sul sacramento dell’ordine (= Studi pastorali, 6), Edizioni Romane Mame, Roma 1959,
123-160; Id., Pentecôte et épiscopat, in La Vie Spirituelle 86 (1952) 451-466.
369
costruzione universale della Chiesa, tempio della gloria e della lode incessante del
nome divino.
Il primo architetto costruttore della Chiesa e la sua prima pietra è Gesù; resi
conformi a lui, gli Apostoli, ne sono i costruttori e le fondamenta; Paolo dice di sé:
“Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto, io ho posto il fondamento” (1 Cor 3, 10) che è Cristo; il tempio è la comunità34. È in questa
Chiesa, nuovo santuario e tempio, che si svolge il nuovo culto autentico in Spirito
e verità (Gv 4, 23-24); esso consiste nella gloria e lode di Dio35 che è di natura sua
incessante36. L’at­ti­vi­tà del culto, del servizio, del ringraziamento a Dio è propria
degli Apostoli e dei loro successori.
L’attività di costruzione della Chiesa, propria degli Apostoli, mediante la predicazione, la riunione dei credenti e il governo pastorale è in sé stessa una azione di
culto reso alla lode del nome di Dio Padre; il frutto da essi ottenuto, cioè l’assemblea riunita dei fedeli in popolo santo di Dio, in pietre vive dell’edificio spirituale è
lode incessante della gloria del Padre.
Così si conclude la epiclesi consacratoria dei vescovi: da Dio Padre tutto ha
inizio, in Dio Padre tutto ha il suo fine mediante il Figlio e lo Spirito Santo nella
Chiesa santuario della gloria divina.
1.4.5. Sintesi: Trinità, cristologia, ecclesiologia
Nella epiclesi, come abbiamo rilevato, troviamo una dottrina sintetica del mistero cristiano: Trinità, Cristo, Chiesa. Le tre persone divine appaiono nel loro rapporto
interpersonale, nella vita intima di Dio e in ordine alla salvezza che si compie nella
Chiesa mediante l’apostolato. Il Padre e lo Spirito appaiono in azione nel loro rapporto
immediato storico-salvifico, in quanto il Padre effonde lo Spirito sull’eletto vescovo e
dà lo Spirito al suo Figlio Gesù Cristo; Il Padre e lo Spirito appaiono nel loro rapporto
immediato eterno in quanto lo Spirito è eternamente originato e procedente dal Padre. Il Padre e il Figlio appaiono egualmente in duplice rapporto tra loro rispetto allo
Spirito: il Figlio riceve dal Padre lo Spirito, e avendolo ricevuto, con dipendenza dal
Padre lo dona agli Apostoli. Il Figlio e lo Spirito sono presentati similmente in duplice
relazione: il Figlio riceve lo Spirito dal Padre, il Figlio dona lo Spirito agli Apostoli. Il
Figlio è insieme dipendente dallo Spirito in quanto lo riceve, e origine dello Spirito in
M. Fraeyman, La spiritualisation de l’idée du temple dans les épîtres pauliniennes, Louvain 1948, 417: “Iniziando la descrizione di questo tempio spirituale notiamo che l’idea si applica in prima istanza alla comunità come tale e non ai cristiani presi individualmente […]. San
Paolo trasferisce l’idea di santuario materiale da Gerusalemme alla realtà spirituale della comunità cristiana. Di questo tempio spirituale la presenza dello Spirito è l’elemento costitutivo dal
quale derivano il carattere di santità e la necessità di un culto spirituale”. Cf. J. Colson, L’Église
rassemblement de Dieu en Jésus Christ, in La Vie Spirituelle 111 (1964) 445-461.
35 Il Salmista dice che la lode di Dio avviene nella ecclesia: “praticherò la mia lode nella
grande assemblea” (Sal 22, 26).
36 Cf. 1 Ts 2, 13; 5, 17.
34 370
quanto lo dona37. È la testimonianza del Battista che dopo essere stato testimone della
discesa dello Spirito su Gesù dice: “Ho visto lo Spirito scendere come una colomba
dal cielo e posarsi su di lui. Io non lo conoscevo ma colui che mi ha inviato a battezzare con acqua mi aveva detto: Colui sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito
è il battezzatore in Spirito Santo” (Gv 1, 32‑33). In questo secondo rapporto però, di
battezzare in Spirito, cioè di donare lo Spirito, il Figlio non è autonomo, non è origine
prima, ma dipende dal Padre, poiché elargisce lo Spirito dopo che lo ha ricevuto.
Ritroviamo così la stessa dottrina, lo stesso mistero, la stessa legge: nella
manifestazione dei rapporti salvifici intercorrenti tra gli Autori divini della nostra
salvezza, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, ci è dato di conoscere il loro eterno
intimo misterioso rapporto di origine. Lo Spirito dal Padre si riversa in Cristo, e da
Cristo negli Apostoli, i quali vengono così trasportati nella corrente delle relazioni
paterne e filiali nello Spirito. Viene in tale modo affermata e illustrata l’identità trinitaria dell’episcopato e di ogni vescovo, impressa sulla identità trinitaria data dal
sacramento del Battesimo e confermata dal sacramento della cresima.
A confermare questa identità trinitaria per il dono
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