Infanzia e adolescenza (1923-1940) 15 ott. 1923: Nasce a Cuba, in un sobborgo dell’Avana, Santiago de Las Vegas Autunno 1925: La famiglia rientra a San Remo, dove il padre è stato nominato direttore della Stazione sperimentale di Floricultura 1927-29.: Frequenta l’asilo infantile inglese, S.George College 1929-33: Frquenta le scuole valdesi, preferite da famiglie di orientamento laico e socialista, mal viste dalla Curia cattolica 1934-40: Frequenta il ginnasio-liceo classico: i genitori chiedono formalmente di esentarlo dalle lezioni di religione: “Fin da piccolo, a scuola, imparai quel che vuol dire avere un’idea diversa dagli altri, sopportare sospetti, discriminazioni, scherni da parte di superiori e compagni perché non si seguono le idee ufficiali”. Guerra e Resistenza (1941-1945) I primi anni di guerra coincidono con i suoi studi universitari, e anche con la maturazione della sua coscienza politica: 1941-42: Si iscrive ad Agraria a Torino, controvoglia, solo per compiacere il padre; 1943: Si trasferisce ad Agraria a Firenze. Nel frattempo si dedica ai suoi primi tentativi letterari: brevi racconti, opere teatrali, poesie di ispirazione montaliana; 25 luglio 1943: Vede la caduta di Mussolini come una congiura di palazzo e non come l’inizio di una liberazione; Tornato a San Remo durante l’estate, con Scalfari fonda il Mul, Movimento universitario liberale; Dopo l’8 settembre, incomincia a orientarsi decisamente verso i comunisti, e nel feb. 1944 entra nel Pci. Giugno 1944-Aprile 1945: Milita in varie formazioni partigiane, con il nome di battaglia “Santiago”. Per una letteratura dell’impegno (1945-1955) 1945: si trasferisce a Torino, dove entra in contatto con il mondo politico e intellettuale della città e pubblica i suoi testi di argomento resistenziale: Una serie di racconti scritti a partire dal 1946 e poi raccolti in volume, Ultimo viene il corvo (1949); Un romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, scritto di getto nel dicembre 1946 e pubblicato da Einaudi nell’ott. 1947. Per una letteratura dell’impegno (1945-1955) Incomincia a frequentare la casa ed. Einaudi, dove conosce Cesare Pavese e dove lavorerà per trentacinque anni; Al tempo stesso, gravita anche su Milano dove entra in contatto con l’altro suo grande punto di riferimento di questi anni, Elio Vittorini. Collabora con riviste e giornali: il “Politecnico”, “Rinascita”, l’“Unità” (dove tiene una rubrica di costume intitolata “Gente nel tempo”; dal 1948 al 1949 diventa responsabile della terza pagina). Per una letteratura dell’impegno (1945-1955) Il midollo del leone (1955): È venuta meno la spinta innovativa e propulsiva del neorealismo. È iniziato un movimento regressivo e involutivo; molti scrittori hanno rinunciato a qualunque prospettiva di impegno attivo In questo contesto, Calvino cerca di fare il punto su una serie di questioni centrali che avevano animato il dibattito letterario nel dopoguerra: 1. Il rapporto tra politica e letteratura; 2. La funzione sociale attiva dell’intellettuale e dello scrittore come guida dei processi storici; 3. La definizione dell’ambito di intervento della letteratura, dei suoi compiti specifici nel contesto generale della società e della cultura. Per una letteratura dell’impegno (1945-1955) Il midollo del leone (1955): «Si parla spesso d’un problema del personaggio nella nostra letteratura d’oggi: personaggio positivo o negativo, nuovo o vecchio. […] Perché, tra le possibilità che s'aprono alla letteratura d'agire sulla storia, questa è la più sua, forse la sola che non sia illusoria: capire a quale tipo d'uomo essa storia col suo molteplice, contraddittorio lavorio sta preparando il campo di battaglia, e dettarne la sensibilità, lo scatto morale, il peso della parola, il modo in cui esso uomo dovrà guardarsi intorno nel mondo; quelle cose insomma che solo la poesia – e non per esempio la filosofia o la politica – può insegnare» (p. 9). Per una letteratura dell’impegno (1945-1955) Il midollo del leone (1955): «Questa stagione letteraria che molti considerano sotto l’approssimativa insegna del “neorealismo” e che comunque è caratterizzata da una ripresa d’interessi in un senso realistico e da un predominio – per quantità e risonanza – della narrativa sugli altri mezzi d’espressione, pare rifiuti di lasciarsi simboleggiare e riassumere in una fisionomia morale tipica, in un preciso carattere umano» (p. 10). Per una letteratura dell’impegno (1945-1955) Il midollo del leone (1955): «Noi siamo tra quelli che credono in una letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una letteratura come educazione, di grado e di qualità insostituibile. Ed è proprio a quel tipo d’uomo o di donna che noi pensiamo, a quei protagonisti attivi della storia, alle nuove classi dirigenti che si formano nell’azione, a contatto con la pratica delle cose. La letteratura deve rivolgersi a quegli uomini, deve – mentre impara da loro – insegnar loro, servire a loro, e può servire solo in una cosa: aiutandoli a esser sempre più intelligenti, sensibili, moralmente forti. Per una letteratura dell’impegno (1945-1955) Il midollo del leone (1955): Le cose che la letteratura può insegnare sono poche ma insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, il porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o di non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e tante altre cose necessarie e difficili. Il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia, dalla vita, come noi tutti dobbiamo continuamente andare ad impararlo» (pp. 21-22). Per una letteratura dell’impegno (1945-1955) Il midollo del leone (1955): «Questa coscienza di vivere nel punto più basso e tragico di una parabola umana, di vivere tra Buchenwald e la bomba H, è il dato di partenza d’ogni nostra fantasia, d’ogni nostro pensiero […] La coscienza acuta del negativo non vogliamo per nulla attenuarla, proprio perché essa ci permette d’avvertire come continuamente sotto di esso qualcosa si muove e travaglia, qualcosa che non possiamo sentire come negativo perchè lo sentiamo come nostro, come ciò che sempre finalmente ci determina» (pp. 22-23). «Intelligenza, volontà: già proporre questi termini vuol dire credere nell’individuo, rifiutare la sua dissoluzione» (p. 23). «I romanzi che ci piacerebbe di scrivere o di leggere sono romanzi d’azione, ma non per un residuo di culto vitalistico o energetico: ciò che ci interessa sopra ogni altra cosa sono le prove che l’uomo attraversa e il modo in cui egli le supera» (p. 23). La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959) Postfazione ai Nostri antenati (1960): «Io, prima, facevo dei racconti «neorealistici», come si diceva allora. Cioè raccontavo delle storie successe non a me ma ad altri, o che immaginavo che fossero successe o potessero succedere, e questi altri erano gente, come si dice, “del popolo”, ma sempre un po’ degli irregolari, comunque persone curiose, che fosse possibile rappresentare solo dalle parole che dicono e dai gesti che fanno, senza perdersi molto dietro ai pensieri e ai sentimenti» (p. 1208). La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959) Postfazione ai Nostri antenati (1960): «Così provai a scrivere altri romanzi neorealistici, su temi della vita popolare di quegli anni, ma non riuscivano bene, e li lasciavo manoscritti nel cassetto. […]. Era la musica delle cose che era cambiata: la vita sbandata del periodo partigiano e del dopoguerra s’allontanava nel tempo […] La realtà entrava in binari diversi, esteriormente più normali, diventava istituzionale; le classi popolari era difficile vederle se non attraverso le loro istituzioni e anch’io ero entrato a far parte d’una categoria regolare: quella del personale intellettuale delle grandi città, in abito grigio e camicia bianca» (p. 1209). La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959) I “romanzi neorealistici” a cui si riferisce sono due: Il bianco veliero (scritto tra il 1947-49), che narra le vicende di un enorme camion della borsa nera detto appunto il “Bianco veliero” (viene stroncato da Vittorini e da Natalia Ginzburg, e quindi abbandonato); I giovani del Po (scritto dal gen. 1950 al lug. 1951), romanzo di ambiente operaio, di cui Calvino è estremamente insoddisfatto, che resta nel cassetto e viene pubblicato sulla rivista “Officina” molti anni dopo (1957). La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959) Postfazione ai Nostri antenati (1960): «Così, in uggia con me stesso e con tutto, mi misi, come per un passatempo privato, a scrivere Il visconte dimezzato, nel 1951. […] Eravamo nel cuore della guerra fredda, nell’aria era una tensione, un dilaniamento sordo, che non si manifestavano in immagini visibili ma dominavano i nostri animi. Ed ecco che scrivendo una storia completamente fantastica, mi trovavo senz’accorgermene a esprimere non solo la sofferenza di quel particolare momento ma anche la spinta a uscirne; cioè non accettavo passivamente la realtà negativa ma riuscivo a riimmettervi il movimento, la spacconeria, la crudezza, l’economia di stile, l’ottimismo spietato che erano stati della letteratura della Resistenza» (1209-10). La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959) Introduzione all’ed. inglese dei Nostri Antenati (1980): «Dopo il mio primo novel […] e le mie prime short stories […] avevo fatto dei tentativi per scrivere il vero-romanzorealistico-rispecchiante-i-problemi-della -società-italiana (io ero allora quello che si diceva uno “scrittore politicamente impegnato”) ma non c’ero riuscito. E allora, nel 1951 […] mi sono messo a scrivere come mi veniva più naturale, cioè inseguendo i ricordi delle letture che m’avevano più affascinato fin da ragazzo. Anziché sforzarmi di costruire il libro che io dovevo scrivere, il romanzo che ci si aspettava da me, preferii immaginarmi il libro che mi sarebbe piaciuto leggere, un libro trovato in soffitta, d’un autore sconosciuto, d’un’altra epoca e d’un altro paese» (1306-7). La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959) Appena pubblicato il Visconte dimezzato, fa un altro tentativo con il romanzo realistico: Tra il 1952 e il 1954 scrive La collana della regina, “romanzo di vasto impianto” ambientato a Torino, che dovrebbe fornire “una rappresentazione satirica dei vari ambienti sociali d’una città industriale, negli anni di tensione del dopoguerra”. Ma anche questo progetto viene abbandonato; 1954-1956: Raccoglie fiabe dalla tradizione e pubblica il volume delle Fiabe italiane. La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959) 1956-1957: Sono anni di grande produttività, in cui prendono vita contemporaneamente due progetti molto diversi: 1956: Calvino si dedica a un libro “impegnato”, un lungo racconto su un problema di attualità: La speculazione edilizia (pubblicato nel 1957); Ma a un certo punto (in dicembre) interrompe la stesura e scrive la seconda delle sue “storie araldiche”, Il Barone rampante (1957). La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959) 1958-59: Lo schema si ripete esattamente negli stessi termini: 1958: Scrive un altro lungo racconto sull’alienazione del mondo contemporaneo, La nuvola di smog (1958); 1959: Scrive il terzo romanzo della trilogia araldica, Il cavaliere inesistente. Lettera del 15 feb. 1960 a Lanfranco Caretti: «Quanto al mio nuovo romanzo devo dirti che per la prima volta sono soddisfatto di quello che ho fatto, ho la presunzione di essermi espresso. Niente facilità, lasciarsi andare, gioco: ho voluto dire delle cose sull’essere, sulla vita, e credo di averle dette; considero questo il mio primo libro importante come contenuto, il primo in cui ho detto qualcosa». Dall’immagine alla scrittura Postfazione ai Nostri antenati (1960): «All’origine di ogni storia che ho scritto c’è un’immagine che mi gira per la testa, nata chissà come e che mi porto dietro magari per anni. A poco a poco mi viene da sviluppare questa immagine in una storia con un principio e una fine […] Dunque, da un po’ di tempo pensavo a un uomo tagliato in due per lungo, e che ognuna delle due parti andava per conto suo» (1210). «Anche qui avevo da tempo un’immagine in testa: un ragazzo che sale su di un albero; sale, e cosa gli succede? Sale, ed entra in un altro mondo; no, sale, e incontra personaggi straordinari; ecco: sale, e d’albero in albero viaggia per giorni e giorni, anzi, non torna più giù, si rifiuta di scendere a terra, passa sugli alberi tutta la vita» (1213-14). Dall’immagine alla scrittura Postfazione ai Nostri antenati (1960): «Dall’uomo primitivo che, essendo tutt’uno con l’universo, poteva esser detto ancora inesistente perché indifferenziato dalla materia organica, siamo lentamente arrivati all’uomo artificiale che, essendo tutt’uno coi prodotti e con le situazioni, è inesistente perché non fa più attrito con nulla, non ha più rapporto con ciò che (natura o storia) gli sta intorno, ma solo astrattamente “funzione”. Questo nodo di riflessioni s’era andato per me a poco a poco identificando con un’immagine che da tempo mi occupava la mente: un’armatura che cammina e dentro è vuota. Provai a scriverne la storia (nel 1959), ed è quella del Cavaliere inesistente, che nella trilogia può occupare tanto l’ultimo posto quanto il primo, in omaggio alla priorità cronologica dei paladini di Carlomagno, e anche perché, rispetto agli altri due racconti, può essere considerato più un’introduzione che un epilogo». Dall’immagine alla scrittura Lezioni americane (Visibilità) (1985): «C’è un verso di Dante nel Purgatorio (XVII, 25) che dice: “Poi piovve dentro a l’alta fantasia”. La mia conferenza di stasera partirà da questa constatazione: la fantasia è un posto dove ci piove dentro» (697). «Possiamo distinguere due tipi di processi immaginativi: quello che parte dalla parola e arriva all’immaginazione visiva e quello che parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione verbale. Il primo processo è quello che avviene normalmente nella lettura: leggiamo ad esempio una scena di romanzo o il reportage d’un avvenimento sul giornale, e a seconda della maggiore o minore efficacia del testo siamo portati a vedere la scena come se si svolgesse davanti ai nostri occhi, o almeno frammenti e dettagli della scena che affiorano dall’indistinto» (699). Dall’immagine alla scrittura Lezioni americane (Visibilità) (1985): «Quando ho cominciato a scrivere storie fantastiche non mi ponevo ancora problemi teorici; l'unica cosa di cui ero sicuro era che all'origine d'ogni mio racconto c'era un'immagine visuale. Per esempio, una di queste immagini è stata un uomo tagliato in due metà che continuano a vivere indipendentemente; un altro esempio poteva essere il ragazzo che s'arrampica su un albero e poi passa da un albero all'altro senza più scendere in terra; un'altra ancora un'armatura vuota che si muove e parla come ci fosse dentro qualcuno. Dunque nell'ideazione d'un racconto la prima cosa che mi viene alla mente è un'immagine che per qualche ragione mi si presenta come carica di significato, anche se non saprei formulare questo significato in termini discorsivi o concettuali. Dall’immagine alla scrittura Lezioni americane (Visibilità) (1985): Appena l'immagine è diventata abbastanza netta nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio, sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé. Attorno a ogni immagine ne nascono delle altre, si forma un campo di analogie, di simmetrie, di contrapposizioni. […] Nello stesso tempo la scrittura, la resa verbale, assume sempre più importanza; direi che dal momento in cui comincio a mettere nero su bianco, è la parola scritta che conta: prima come ricerca d'un equivalente dell'immagine visiva, poi come sviluppo coerente dell'impostazione stilistica iniziale, e a poco a poco resta padrona del campo. Sarà la scrittura a guidare il racconto nella direzione in cui l'espressione verbale scorre più felicemente, e all'immaginazione visuale non resta che tenerle dietro» (704-5). Lo scudo di Agilulfo Lucien Dällenbach, Il racconto speculare: “è ‘mise en abyme’ ogni inserto che intrattiene una relazione di somiglianza con l’opera che lo contiene” (p. 13). “Il termine di ‘mise en abyme’, fin dal suo apparire, designa, in maniera univoca, quello che alcuni autori chiamano ‘l’opera nell’opera’ o la ‘duplicazione interna’” (p. 26). Lo scudo di Agilulfo Lucien Dällenbach, Il racconto speculare: “Il termine ‘mise en abyme’ mira a raggruppare un insieme di realtà distinte. Queste ultime […] si riducono a tre figure essenziali che sono la duplicazione semplice (frammento che intrattiene con l’opera che lo include un rapporto di similitudine), la duplicazione all’infinito (frammento che intrattiene con l’opera che lo include un rapporto di similitudine e che include anch’esso un frammento che… e così di seguito) e la duplicazione aporistica [o paradossale] (frammento che presumibilmente include l’opera che lo include)” (p. 47). Lo scudo di Agilulfo Calvino, Il Mihrab (in Collezione di sabbia, 1984): «Il mihrab è la nicchia che nelle moschee indica la direzione della Mecca. Ogni volta che visito una moschea, mi fermo davanti al mihrab e non mi stanco di guardarlo. Quello che m’attira è l’idea d’una porta che fa di tutto per mettere in vista la sua funzione di porta ma che non s’apre su nulla; l’idea di una cornice lussuosa come per racchiudere qualcosa d’estremamente prezioso, ma dentro alla quale non c’è niente» (611). Lo scudo di Agilulfo Calvino, Il Mihrab: «Nella moschea dello Sceicco Lotfollah il mihrab (del XVII secolo), in una parete tutta ricoperta di maiolica indaco e turchese, […] è una cavità […] che s’apre nello spessore del muro, splendente di maiolica azzurra e oro, ornata in tutta la sua superficie con disegni d’archi […] e con una volta composta di tanti alveoli a nido d’ape […]. Lo scudo di Agilulfo Calvino, Il Mihrab: È come se il mihrab, suddividendo il proprio spazio limitato e raccolto in una molteplicità di mihrab sempre più piccoli, aprisse la sola via possibile per raggiungere l’illimitato. […] Lo scudo di Agilulfo Calvino, Il Mihrab: Dopo essere rimasto un bel pezzo a contemplare il mihrab, mi sento in dovere di giungere a una qualche conclusione. Che potrebbe essere questa: l’idea di perfezione che l’arte insegue […] rimanda a un solo significato, celebra un solo principio e fondamento, implica un solo ultimo oggetto. Ed è un oggetto che non c’è. La sua sola qualità è quella di non esserci. Non gli si può nemmeno dare un nome. Vuoto, nulla, assenza, silenzio sono tutti nomi carichi di significati troppo ingombranti per qualcosa che non vuol essere nessuna di queste cose. Non lo si può definire a parole: il solo simbolo che lo rappresenta è il mihrab. Anzi, per esser più precisi: è quel qualcosa che si rivela non esserci nel fondo del mihrab» (612-13). Il sistema dei personaggi Calvino, Postfazione ai Nostri antenati: Descrive «quello che è sempre stato e resta il mio vero tema narrativo: una persona si pone volontariamente una difficile regola e la segue fino alle ultime conseguenze, perché senza di questa non sarebbe se stesso né per sé né per gli altri» (1213). Il sistema dei personaggi Calvino, Postfazione ai Nostri antenati: «Agilulfo, il guerriero che non esiste, prese i lineamenti psicologici d’un tipo umano molto diffuso in tutti gli ambienti della nostra società; il mio lavoro con questo personaggio si presentò subito facile. Dalla formula Agilulfo (inesistenza munita di volontà e coscienza) ricavai, con un procedimento di contrapposizione logica (cioè partendo dall’idea per arrivare all’immagine, e non viceversa come faccio di solito), la formula esistenza priva di coscienza, ossia identificazione generale col mondo oggettivo, e feci lo scudiero Gurdulù. Questo personaggio non riuscì ad avere l’autonomia psicologica del primo. E ciò è comprensibile, perché di prototipi di Agilulfo se ne incontrano dappertutto mentre i prototipi di Gurdulù si incontrano solo nei libri degli etnologi» (1216). Il sistema dei personaggi Agilulfo vs Gurdulù Intorno a queste due figure antitetiche, si dispone tutto il sistema degli altri personaggi. Si tratta di un sistema quasi geometrico, che riproduce e amplifica questa dicotomia fondamentale: Due uomini e due donne, legati tra loro in due coppie simmetriche: Rambaldo-Bradamante, protagonisti principali di una travagliata storia d’amore; Torrismondo-Sofronia, protagonisti di un sottointreccio, di una vicenda secondaria. Il sistema dei personaggi Calvino, Postfazione ai Nostri antenati: «Questi due personaggi, uno privo di individualità fisica e l’altro d’individualità di coscienza, non potevano sviluppare una storia; erano semplicemente l’enunciazione del tema, che doveva essere svolto da altri personaggi in cui l’esserci e il non esserci lottassero all’interno della stessa persona. Chi non sa ancora se c’è o non c’è, è il giovane; quindi un giovane doveva essere il vero protagonista di questa storia. Rambaldo, paladino stendhaliano, cerca le prove d’esserci, come tutti i giovani fanno. La verifica dell’essere è nel fare; Rambaldo sarà la morale della pratica, dell’esperienza, della storia. Mi serviva un altro giovane, Torrismondo, e ne feci la morale dell’assoluto, per cui la verifica dell’esserci deve derivare da qualcos’altro che se stesso, da quel che c’era prima di lui, il tutto da cui s’è staccato. Il sistema dei personaggi Calvino, Postfazione ai Nostri antenati: Per il giovane, la donna è quel che sicuramente c’è; e feci due donne: una, Bradamante, l’amore come contrasto, come guerra, cioè la donna del cuore di Rambaldo; l’altra – appena accennata – Sofronia, l’amore come pace, nostalgia del sonno prenatale, la donna del cuore di Torrismondo» (1216-17). Parodia e intertestualità Lettera del maggio 1965a una studentessa, autrice di una tesi sul tema “Ariosto e Calvino”: «Volendo raccontare la storia d’una armatura vuota, era del tutto naturale che mi servissi del décor convenzionale del ciclo carolingio. Per la letteratura italiana l’epopea cavalleresca carolingia è quello che il western è per gli americani [...]. Quindi la scelta d’un’ambientazione così tradizionale non può esser detta di per sé “ariostesca” [...]. Mi ricordo che, scrivendo il Cavaliere inesistente, come “reference book” per trovare nomi, etc., usavo non Ariosto, ma un volume di Cantari cavallereschi dei secoli XV e XVI a cura di Giorgio Barini, Bologna 1905» (Lettere869). Parodia e intertestualità Tasso, Gerusalemme liberata, Canto primo, vv. 46 ss. (l’incontro tra Tancredi e Clorinda): È fama che quel dí che glorioso fe' la rotta de' Persi il popol franco, poi che Tancredi al fin vittorioso i fuggitivi di seguir fu stanco, cercò di refrigerio e di riposo a l'arse labbia, al travagliato fianco, e trasse ove invitollo al rezzo estivo cinto di verdi seggi un fonte vivo. Quivi a lui d'improviso una donzella tutta, fuor che la fronte, armata apparse: era pagana, e là venuta anch'ella per l'istessa cagion di ristorarse. Parodia e intertestualità Tasso, Gerusalemme liberata, Canto primo, vv. 46 ss. (l’incontro tra Tancredi e Clorinda): Egli mirolla, ed ammirò la bella sembianza, e d'essa si compiacque, e n'arse. Oh meraviglia! Amor, ch'a pena è nato, già grande vola, e già trionfa armato. Ella d'elmo coprissi, e se non era ch'altri quivi arrivàr, ben l'assaliva. Partí dal vinto suo la donna altera, ch'è per necessità sol fuggitiva; ma l'imagine sua bella e guerriera tale ei serbò nel cor, qual essa è viva; e sempre ha nel pensiero e l'atto e 'l loco in che la vide, esca continua al foco. La monaca scrivana Calvino, Postfazione ai Nostri antenati: «Avrete visto che in tutte e tre le storie ho avuto bisogno di un personaggio che dicesse “io” forse per correggere la freddezza oggettiva propria del raccontare favoloso con quest’elemento ravvicinatore e lirico […]». «Stavolta, nel Cavaliere inesistente, usai un “io” completamente fuori dalla narrazione, e ne feci, tanto per avere un gioco di contrasti in più, una monaca. La presenza d’un “io” narratore-commentatore fece sì che parte della mia attenzione si spostasse dalla vicenda all’atto stesso dello scrivere, al rapporto tra la complessità della vita e il foglio su cui questa complessità si dispone sotto forma di segni alfabetici. A un certo punto era solo questo rapporto a interessarmi, la mia storia diventava soltanto la storia della penna d’oca della monaca che correva sul foglio bianco». La monaca scrivana Cfr. la formula di Jean Ricardou: In molti romanzi delle nuove avanguardie novecentesche, si passa dalla “scrittura di un’avventura” all’”avventura di una scrittura”. L’avventura di una scrittura Calvino, Il livelli della realtà in letteratura (1978): A un certo punto, si sofferma sulla «problematica, molto ricca nel nostro secolo, della metaletteratura e problematiche analoghe del metateatro, della metapittura eccetera. Già abbiamo accennato al teatro nel teatro parlando di Shakespeare, ed esempi simili non mancano nella storia della letteratura teatrale, dall’Illusion comique di Corneille ai Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Ma è negli ultimi decenni che questi procedimenti metateatrali e metaletterari prendono nuovo rilievo, con fondamenti di natura morale o di natura epistemologica: contro l’illusorietà dell’arte, contro la pretesa naturalistica di far dimenticare al lettore o allo spettatore di aver di fronte un’operazione condotta con mezzi linguistici, una finzione studiata in vista d’una strategia degli effetti» (388-89) L’avventura di una scrittura Calvino, Lettera 7 ott. 1963 ad Antonella Santacroce, autrice di un saggio sul Cavaliere inesistente: «La cosa che forse più mi interessa è la Sua osservazione che per me sempre la pagina scritta è una pagina scritta, e la Sua attenzione nel Cavaliere alla problematica sulla scrittura, sul rapporto pagina-materia narrata. (Nessun critico si è mai fermato su questo che era l’aspetto più moderno – contemporaneo alla problematica del nouveau roman – e devo dire che ne ero rimasto un po’ deluso)» (Lettere754). La “giravolta narrativa” Calvino, Postfazione ai Nostri antenati: «Mi accorgevo intanto, andando avanti, come tutti i personaggi del racconto s’assomigliassero, mossi com’erano dalla stessa trepidazione, e anche la monaca, la penna d’oca, la mia stilografica, io stesso, tutti eravamo la stessa persona, la stessa cosa, la stessa ansia, lo stesso insoddisfatto cercare. Come succede al narratore […], che tutto ciò che pensa gli si trasforma in quel che fa – cioè in racconto -, tradussi quest’idea in un’ultima giravolta narrativa. Cioè feci della monaca narratrice e della guerriera Bradamante la stessa persona. È un colpo di scena che mi è venuto in mente all’ultimo momento e mi pare non significhi nulla di più di quel che vi ho detto» (1218-19). Lettera del 28 aprile 1971 a Guido Almansi: «L’agnizione finale è appiccicata lì, o meglio, appartiene a un altro codice». Mondo scritto e mondo non scritto Jean Starobinski, Prefaz. a Calvino, Romanzi e racconti, vol. I: «Teodora è stata messa in penitenza: in quanto destinata alla scrittura del libro e alla “ricerca della verità”, essa prova di volta in volta esaltazione e melanconia. Melanconia, quando il filo dell’intreccio s’ingarbuglia, quando le parole escono dalla penna come cenere, mentre la vera vita, fuori del libro, fa sentire il suo rumore gioioso. Esaltazione, quando il desiderio acquisisce la forza galoppante che consente di accelerare la narrazione e di uscirne fuori per sempre. Il punto finale viene messo, il libro viene abbandonato quando il racconto, ritornato alla descrizione dell’atto di scrivere, ha potuto designare una morte della parola che corrisponde all’inizio d’un avvenire amoroso. Mondo scritto e mondo non scritto Jean Starobinski, Prefaz. a Calvino, Romanzi e racconti, vol. I: Nel silenzio imminente della storia ultimata e in procinto di ammutolire per sempre, la narratrice rivela che lei stessa è la guerriera Bradamante che, dentro il racconto, viveva e galoppava e soffriva per una passione frustrata. La felicità balenata nell’ultimo istante abolisce insieme la narrazione e la penitenza melanconica. Il racconto termina quando vien meno lo scarto tra l’attività della scrittura e la “vita reale”, lo scarto tra il desiderio amoroso e l’oggetto d’amore». Mondo scritto e mondo non scritto Calvino, da un’annotazione: «Io credo nell’esistenza di un mondo non scritto e che la letteratura viva nella sfida di questo non scritto con cui deve continuamente misurarsi, cercando di raggiungerlo, di catturarlo, in una caccia, in un inseguimento che non avrà mai fine».