Infanzia e adolescenza (1923-1940)
 15 ott. 1923: Nasce a Cuba, in un sobborgo dell’Avana,
Santiago de Las Vegas
 Autunno 1925: La famiglia rientra a San Remo, dove il padre
è stato nominato direttore della Stazione sperimentale di
Floricultura
 1927-29.: Frequenta l’asilo infantile inglese, S.George
College
 1929-33: Frquenta le scuole valdesi, preferite da famiglie di
orientamento laico e socialista, mal viste dalla Curia cattolica
 1934-40: Frequenta il ginnasio-liceo classico: i genitori
chiedono formalmente di esentarlo dalle lezioni di religione:
“Fin da piccolo, a scuola, imparai quel che vuol dire avere
un’idea diversa dagli altri, sopportare sospetti,
discriminazioni, scherni da parte di superiori e compagni
perché non si seguono le idee ufficiali”.
Guerra e Resistenza (1941-1945)
I primi anni di guerra coincidono con i suoi studi universitari, e
anche con la maturazione della sua coscienza politica:
 1941-42: Si iscrive ad Agraria a Torino, controvoglia, solo
per compiacere il padre;
 1943: Si trasferisce ad Agraria a Firenze. Nel frattempo si
dedica ai suoi primi tentativi letterari: brevi racconti, opere
teatrali, poesie di ispirazione montaliana;
 25 luglio 1943: Vede la caduta di Mussolini come una
congiura di palazzo e non come l’inizio di una liberazione;
Tornato a San Remo durante l’estate, con Scalfari fonda il
Mul, Movimento universitario liberale;
 Dopo l’8 settembre, incomincia a orientarsi decisamente
verso i comunisti, e nel feb. 1944 entra nel Pci.
 Giugno 1944-Aprile 1945: Milita in varie formazioni
partigiane, con il nome di battaglia “Santiago”.
Per una letteratura dell’impegno (1945-1955)
1945: si trasferisce a Torino, dove entra in contatto con il
mondo politico e intellettuale della città e pubblica i suoi testi
di argomento resistenziale:
Una serie di racconti scritti a
partire dal 1946 e poi raccolti in
volume, Ultimo viene il corvo
(1949);
 Un romanzo, Il sentiero dei nidi
di ragno, scritto di getto nel
dicembre 1946 e pubblicato da
Einaudi nell’ott. 1947.
Per una letteratura dell’impegno (1945-1955)
 Incomincia a frequentare la casa ed. Einaudi, dove conosce
Cesare Pavese e dove lavorerà per trentacinque anni;
 Al tempo stesso, gravita anche su Milano dove entra in
contatto con l’altro suo grande punto di riferimento di questi
anni, Elio Vittorini.
 Collabora con riviste e giornali: il
“Politecnico”, “Rinascita”, l’“Unità”
(dove tiene una rubrica di costume
intitolata “Gente nel tempo”; dal
1948 al 1949 diventa responsabile
della terza pagina).
Per una letteratura dell’impegno (1945-1955)
Il midollo del leone (1955):
 È venuta meno la spinta innovativa e propulsiva del
neorealismo. È iniziato un movimento regressivo e
involutivo; molti scrittori hanno rinunciato a qualunque
prospettiva di impegno attivo
 In questo contesto, Calvino cerca di fare il punto su una
serie di questioni centrali che avevano animato il dibattito
letterario nel dopoguerra:
1. Il rapporto tra politica e letteratura;
2. La funzione sociale attiva dell’intellettuale e dello
scrittore come guida dei processi storici;
3. La definizione dell’ambito di intervento della letteratura,
dei suoi compiti specifici nel contesto generale della
società e della cultura.
Per una letteratura dell’impegno (1945-1955)
Il midollo del leone (1955):
«Si parla spesso d’un problema del personaggio nella nostra
letteratura d’oggi: personaggio positivo o negativo, nuovo o
vecchio. […] Perché, tra le possibilità che s'aprono alla
letteratura d'agire sulla storia, questa è la più sua, forse la sola
che non sia illusoria: capire a quale tipo d'uomo essa storia
col suo molteplice, contraddittorio lavorio sta preparando il
campo di battaglia, e dettarne la sensibilità, lo scatto morale,
il peso della parola, il modo in cui esso uomo dovrà guardarsi
intorno nel mondo; quelle cose insomma che solo la poesia –
e non per esempio la filosofia o la politica – può insegnare»
(p. 9).
Per una letteratura dell’impegno (1945-1955)
Il midollo del leone (1955):
«Questa stagione letteraria che molti considerano sotto
l’approssimativa insegna del “neorealismo” e che comunque è
caratterizzata da una ripresa d’interessi in un senso realistico
e da un predominio – per quantità e risonanza – della
narrativa sugli altri mezzi d’espressione, pare rifiuti di
lasciarsi simboleggiare e riassumere in una fisionomia morale
tipica, in un preciso carattere umano» (p. 10).
Per una letteratura dell’impegno (1945-1955)
Il midollo del leone (1955):
«Noi siamo tra quelli che credono in una letteratura che sia
presenza attiva nella storia, in una letteratura come
educazione, di grado e di qualità insostituibile. Ed è proprio a
quel tipo d’uomo o di donna che noi pensiamo, a quei
protagonisti attivi della storia, alle nuove classi dirigenti che
si formano nell’azione, a contatto con la pratica delle cose. La
letteratura deve rivolgersi a quegli uomini, deve – mentre
impara da loro – insegnar loro, servire a loro, e può servire
solo in una cosa: aiutandoli a esser sempre più intelligenti,
sensibili, moralmente forti.
Per una letteratura dell’impegno (1945-1955)
Il midollo del leone (1955):
Le cose che la letteratura può insegnare sono poche ma
insostituibili: il modo di guardare il prossimo e se stessi, il
porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire
valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti
e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto
dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto
della morte, il modo di pensarci o di non pensarci; la
letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza,
l’ironia, l’umorismo, e tante altre cose necessarie e difficili. Il
resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia,
dalla vita, come noi tutti dobbiamo continuamente andare ad
impararlo» (pp. 21-22).
Per una letteratura dell’impegno (1945-1955)
Il midollo del leone (1955):
«Questa coscienza di vivere nel punto più basso e tragico di una
parabola umana, di vivere tra Buchenwald e la bomba H, è il dato
di partenza d’ogni nostra fantasia, d’ogni nostro pensiero […] La
coscienza acuta del negativo non vogliamo per nulla attenuarla,
proprio perché essa ci permette d’avvertire come continuamente
sotto di esso qualcosa si muove e travaglia, qualcosa che non
possiamo sentire come negativo perchè lo sentiamo come nostro,
come ciò che sempre finalmente ci determina» (pp. 22-23).
«Intelligenza, volontà: già proporre questi termini vuol dire
credere nell’individuo, rifiutare la sua dissoluzione» (p. 23).
«I romanzi che ci piacerebbe di scrivere o di leggere sono romanzi
d’azione, ma non per un residuo di culto vitalistico o energetico:
ciò che ci interessa sopra ogni altra cosa sono le prove che l’uomo
attraversa e il modo in cui egli le supera» (p. 23).
La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959)
Postfazione ai Nostri antenati (1960):
«Io, prima, facevo dei racconti «neorealistici», come si diceva
allora. Cioè raccontavo delle storie successe non a me ma ad
altri, o che immaginavo che fossero successe o potessero
succedere, e questi altri erano gente, come si dice, “del popolo”,
ma sempre un po’ degli irregolari, comunque persone curiose,
che fosse possibile rappresentare solo dalle parole che dicono e
dai gesti che fanno, senza perdersi molto dietro ai pensieri e ai
sentimenti» (p. 1208).
La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959)
Postfazione ai Nostri antenati (1960):
«Così provai a scrivere altri romanzi neorealistici, su temi
della vita popolare di quegli anni, ma non riuscivano bene, e li
lasciavo manoscritti nel cassetto. […]. Era la musica delle cose
che era cambiata: la vita sbandata del periodo partigiano e del
dopoguerra s’allontanava nel tempo […] La realtà entrava in
binari diversi, esteriormente più normali, diventava
istituzionale; le classi popolari era difficile vederle se non
attraverso le loro istituzioni e anch’io ero entrato a far parte
d’una categoria regolare: quella del personale intellettuale delle
grandi città, in abito grigio e camicia bianca» (p. 1209).
La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959)
I “romanzi neorealistici” a cui si riferisce sono due:
 Il bianco veliero (scritto tra il 1947-49), che narra le vicende
di un enorme camion della borsa nera detto appunto il “Bianco
veliero” (viene stroncato da Vittorini e da Natalia Ginzburg, e
quindi abbandonato);
 I giovani del Po (scritto dal gen. 1950 al lug. 1951), romanzo
di ambiente operaio, di cui Calvino è estremamente
insoddisfatto, che resta nel cassetto e viene pubblicato sulla
rivista “Officina” molti anni dopo (1957).
La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959)
Postfazione ai Nostri antenati (1960):
«Così, in uggia con me stesso e con tutto, mi misi, come per
un passatempo privato, a scrivere Il visconte dimezzato, nel
1951. […] Eravamo nel cuore della guerra fredda, nell’aria era
una tensione, un dilaniamento sordo, che non si manifestavano
in immagini visibili ma dominavano i nostri animi. Ed ecco che
scrivendo una storia completamente fantastica, mi trovavo
senz’accorgermene a esprimere non solo la sofferenza di quel
particolare momento ma anche la spinta a uscirne; cioè non
accettavo passivamente la realtà negativa ma riuscivo a
riimmettervi il movimento, la spacconeria, la crudezza,
l’economia di stile, l’ottimismo spietato che erano stati della
letteratura della Resistenza» (1209-10).
La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959)
Introduzione all’ed. inglese dei Nostri Antenati (1980):
«Dopo il mio primo novel […] e le mie prime short stories
[…] avevo fatto dei tentativi per scrivere il vero-romanzorealistico-rispecchiante-i-problemi-della -società-italiana (io ero
allora quello che si diceva uno “scrittore politicamente
impegnato”) ma non c’ero riuscito. E allora, nel 1951 […] mi
sono messo a scrivere come mi veniva più naturale, cioè
inseguendo i ricordi delle letture che m’avevano più affascinato
fin da ragazzo. Anziché sforzarmi di costruire il libro che io
dovevo scrivere, il romanzo che ci si aspettava da me, preferii
immaginarmi il libro che mi sarebbe piaciuto leggere, un libro
trovato in soffitta, d’un autore sconosciuto, d’un’altra epoca e
d’un altro paese» (1306-7).
La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959)
Appena pubblicato il Visconte dimezzato, fa un altro tentativo
con il romanzo realistico:
 Tra il 1952 e il 1954 scrive La collana della regina,
“romanzo di vasto impianto” ambientato a Torino, che
dovrebbe fornire “una rappresentazione satirica dei vari
ambienti sociali d’una città industriale, negli anni di tensione
del dopoguerra”. Ma anche questo progetto viene abbandonato;
 1954-1956: Raccoglie fiabe dalla tradizione e pubblica il
volume delle Fiabe italiane.
La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959)
1956-1957: Sono anni di grande produttività, in cui prendono
vita contemporaneamente due progetti molto diversi:
 1956: Calvino si dedica a un libro “impegnato”, un lungo
racconto su un problema di attualità: La speculazione edilizia
(pubblicato nel 1957);
 Ma a un certo punto (in dicembre) interrompe la stesura e
scrive la seconda delle sue “storie araldiche”, Il Barone
rampante (1957).
La ricerca del romanzo e la trilogia araldica (1947-1959)
1958-59: Lo schema si ripete esattamente negli stessi termini:
1958: Scrive un altro lungo racconto sull’alienazione del
mondo contemporaneo, La nuvola di smog (1958);
1959: Scrive il terzo romanzo della trilogia araldica, Il
cavaliere inesistente.
Lettera del 15 feb. 1960 a Lanfranco Caretti:
«Quanto al mio nuovo romanzo devo dirti che per la prima
volta sono soddisfatto di quello che ho fatto, ho la presunzione
di essermi espresso. Niente facilità, lasciarsi andare, gioco: ho
voluto dire delle cose sull’essere, sulla vita, e credo di averle
dette; considero questo il mio primo libro importante come
contenuto, il primo in cui ho detto qualcosa».
Dall’immagine alla scrittura
Postfazione ai Nostri antenati (1960):
«All’origine di ogni storia che ho scritto c’è un’immagine che
mi gira per la testa, nata chissà come e che mi porto dietro
magari per anni. A poco a poco mi viene da sviluppare questa
immagine in una storia con un principio e una fine […]
Dunque, da un po’ di tempo pensavo a un uomo tagliato in due
per lungo, e che ognuna delle due parti andava per conto suo»
(1210).
«Anche qui avevo da tempo un’immagine in testa: un ragazzo
che sale su di un albero; sale, e cosa gli succede? Sale, ed entra
in un altro mondo; no, sale, e incontra personaggi straordinari;
ecco: sale, e d’albero in albero viaggia per giorni e giorni, anzi,
non torna più giù, si rifiuta di scendere a terra, passa sugli alberi
tutta la vita» (1213-14).
Dall’immagine alla scrittura
Postfazione ai Nostri antenati (1960):
«Dall’uomo primitivo che, essendo tutt’uno con l’universo, poteva
esser detto ancora inesistente perché indifferenziato dalla materia
organica, siamo lentamente arrivati all’uomo artificiale che, essendo
tutt’uno coi prodotti e con le situazioni, è inesistente perché non fa
più attrito con nulla, non ha più rapporto con ciò che (natura o storia)
gli sta intorno, ma solo astrattamente “funzione”.
Questo nodo di riflessioni s’era andato per me a poco a poco
identificando con un’immagine che da tempo mi occupava la mente:
un’armatura che cammina e dentro è vuota. Provai a scriverne la
storia (nel 1959), ed è quella del Cavaliere inesistente, che nella
trilogia può occupare tanto l’ultimo posto quanto il primo, in
omaggio alla priorità cronologica dei paladini di Carlomagno, e
anche perché, rispetto agli altri due racconti, può essere considerato
più un’introduzione che un epilogo».
Dall’immagine alla scrittura
Lezioni americane (Visibilità) (1985):
«C’è un verso di Dante nel Purgatorio (XVII, 25) che dice:
“Poi piovve dentro a l’alta fantasia”. La mia conferenza di
stasera partirà da questa constatazione: la fantasia è un posto
dove ci piove dentro» (697).
«Possiamo distinguere due tipi di processi immaginativi:
quello che parte dalla parola e arriva all’immaginazione visiva e
quello che parte dall’immagine visiva e arriva all’espressione
verbale. Il primo processo è quello che avviene normalmente
nella lettura: leggiamo ad esempio una scena di romanzo o il
reportage d’un avvenimento sul giornale, e a seconda della
maggiore o minore efficacia del testo siamo portati a vedere la
scena come se si svolgesse davanti ai nostri occhi, o almeno
frammenti e dettagli della scena che affiorano dall’indistinto»
(699).
Dall’immagine alla scrittura
Lezioni americane (Visibilità) (1985):
«Quando ho cominciato a scrivere storie fantastiche non mi
ponevo ancora problemi teorici; l'unica cosa di cui ero sicuro era
che all'origine d'ogni mio racconto c'era un'immagine visuale.
Per esempio, una di queste immagini è stata un uomo tagliato in
due metà che continuano a vivere indipendentemente; un altro
esempio poteva essere il ragazzo che s'arrampica su un albero e
poi passa da un albero all'altro senza più scendere in terra;
un'altra ancora un'armatura vuota che si muove e parla come ci
fosse dentro qualcuno.
Dunque nell'ideazione d'un racconto la prima cosa che mi
viene alla mente è un'immagine che per qualche ragione mi si
presenta come carica di significato, anche se non saprei
formulare questo significato in termini discorsivi o concettuali.
Dall’immagine alla scrittura
Lezioni americane (Visibilità) (1985):
Appena l'immagine è diventata abbastanza netta nella mia
mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio, sono le
immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il
racconto che esse portano dentro di sé. Attorno a ogni immagine
ne nascono delle altre, si forma un campo di analogie, di
simmetrie, di contrapposizioni. […] Nello stesso tempo la scrittura, la resa verbale, assume sempre più importanza; direi che
dal momento in cui comincio a mettere nero su bianco, è la
parola scritta che conta: prima come ricerca d'un equivalente
dell'immagine visiva, poi come sviluppo coerente
dell'impostazione stilistica iniziale, e a poco a poco resta padrona
del campo. Sarà la scrittura a guidare il racconto nella direzione
in cui l'espressione verbale scorre più felicemente, e
all'immaginazione visuale non resta che tenerle dietro» (704-5).
Lo scudo di Agilulfo
Lucien Dällenbach, Il racconto
speculare:
“è ‘mise en abyme’ ogni inserto che
intrattiene una relazione di somiglianza
con l’opera che lo contiene” (p. 13).
“Il termine di ‘mise en abyme’, fin dal
suo apparire, designa, in maniera
univoca, quello che alcuni autori
chiamano ‘l’opera nell’opera’ o la
‘duplicazione interna’” (p. 26).
Lo scudo di Agilulfo
Lucien Dällenbach, Il racconto speculare:
“Il termine ‘mise en abyme’ mira a raggruppare un insieme di
realtà distinte. Queste ultime […] si riducono a tre figure
essenziali che sono la duplicazione semplice (frammento che
intrattiene con l’opera che lo include un rapporto di
similitudine), la duplicazione all’infinito (frammento che
intrattiene con l’opera che lo include un rapporto di
similitudine e che include anch’esso un frammento che… e
così di seguito) e la duplicazione aporistica [o paradossale]
(frammento che presumibilmente include l’opera che lo
include)” (p. 47).
Lo scudo di Agilulfo
Calvino, Il Mihrab (in Collezione di sabbia, 1984):
«Il mihrab è la nicchia che nelle moschee indica la direzione
della Mecca. Ogni volta che visito una moschea, mi fermo
davanti al mihrab e non mi stanco di guardarlo. Quello che
m’attira è l’idea d’una porta che fa di tutto per mettere in vista
la sua funzione di porta ma che non s’apre su nulla; l’idea di
una cornice lussuosa come per racchiudere qualcosa
d’estremamente prezioso, ma dentro alla quale non c’è niente»
(611).
Lo scudo di Agilulfo
Calvino, Il Mihrab:
«Nella moschea dello Sceicco
Lotfollah il mihrab (del XVII
secolo), in una parete tutta
ricoperta di maiolica indaco e
turchese, […] è una cavità […]
che s’apre nello spessore del
muro, splendente di maiolica
azzurra e oro, ornata in tutta la
sua superficie con disegni
d’archi […] e con una volta
composta di tanti alveoli a nido
d’ape […].
Lo scudo di Agilulfo
Calvino, Il Mihrab:
È come se il mihrab,
suddividendo il proprio
spazio limitato e raccolto in
una molteplicità di mihrab
sempre più piccoli, aprisse
la sola via possibile per
raggiungere l’illimitato. […]
Lo scudo di Agilulfo
Calvino, Il Mihrab:
Dopo essere rimasto un bel pezzo a contemplare il mihrab, mi
sento in dovere di giungere a una qualche conclusione. Che
potrebbe essere questa: l’idea di perfezione che l’arte insegue
[…] rimanda a un solo significato, celebra un solo principio e
fondamento, implica un solo ultimo oggetto. Ed è un oggetto
che non c’è. La sua sola qualità è quella di non esserci. Non gli
si può nemmeno dare un nome.
Vuoto, nulla, assenza, silenzio sono tutti nomi carichi di
significati troppo ingombranti per qualcosa che non vuol essere
nessuna di queste cose. Non lo si può definire a parole: il solo
simbolo che lo rappresenta è il mihrab. Anzi, per esser più
precisi: è quel qualcosa che si rivela non esserci nel fondo del
mihrab» (612-13).
Il sistema dei personaggi
Calvino, Postfazione ai Nostri antenati:
Descrive «quello che è sempre stato e resta il mio vero tema
narrativo: una persona si pone volontariamente una difficile
regola e la segue fino alle ultime conseguenze, perché senza di
questa non sarebbe se stesso né per sé né per gli altri» (1213).
Il sistema dei personaggi
Calvino, Postfazione ai Nostri antenati:
«Agilulfo, il guerriero che non esiste, prese i lineamenti
psicologici d’un tipo umano molto diffuso in tutti gli ambienti
della nostra società; il mio lavoro con questo personaggio si
presentò subito facile. Dalla formula Agilulfo (inesistenza
munita di volontà e coscienza) ricavai, con un procedimento di
contrapposizione logica (cioè partendo dall’idea per arrivare
all’immagine, e non viceversa come faccio di solito), la formula
esistenza priva di coscienza, ossia identificazione generale col
mondo oggettivo, e feci lo scudiero Gurdulù. Questo
personaggio non riuscì ad avere l’autonomia psicologica del
primo. E ciò è comprensibile, perché di prototipi di Agilulfo se
ne incontrano dappertutto mentre i prototipi di Gurdulù si
incontrano solo nei libri degli etnologi» (1216).
Il sistema dei personaggi
Agilulfo vs Gurdulù
Intorno a queste due figure antitetiche, si dispone tutto il
sistema degli altri personaggi. Si tratta di un sistema quasi
geometrico, che riproduce e amplifica questa dicotomia
fondamentale: Due uomini e due donne, legati tra loro in due
coppie simmetriche:
 Rambaldo-Bradamante, protagonisti principali di una
travagliata storia d’amore;
 Torrismondo-Sofronia, protagonisti di un sottointreccio, di
una vicenda secondaria.
Il sistema dei personaggi
Calvino, Postfazione ai Nostri antenati:
«Questi due personaggi, uno privo di individualità fisica e
l’altro d’individualità di coscienza, non potevano sviluppare
una storia; erano semplicemente l’enunciazione del tema, che
doveva essere svolto da altri personaggi in cui l’esserci e il non
esserci lottassero all’interno della stessa persona. Chi non sa
ancora se c’è o non c’è, è il giovane; quindi un giovane doveva
essere il vero protagonista di questa storia. Rambaldo, paladino
stendhaliano, cerca le prove d’esserci, come tutti i giovani
fanno. La verifica dell’essere è nel fare; Rambaldo sarà la
morale della pratica, dell’esperienza, della storia. Mi serviva un
altro giovane, Torrismondo, e ne feci la morale dell’assoluto,
per cui la verifica dell’esserci deve derivare da qualcos’altro
che se stesso, da quel che c’era prima di lui, il tutto da cui s’è
staccato.
Il sistema dei personaggi
Calvino, Postfazione ai Nostri antenati:
Per il giovane, la donna è quel che sicuramente c’è; e feci due
donne: una, Bradamante, l’amore come contrasto, come guerra,
cioè la donna del cuore di Rambaldo; l’altra – appena accennata
– Sofronia, l’amore come pace, nostalgia del sonno prenatale, la
donna del cuore di Torrismondo» (1216-17).
Parodia e intertestualità
Lettera del maggio 1965a una studentessa, autrice di una tesi
sul tema “Ariosto e Calvino”:
«Volendo raccontare la storia d’una armatura vuota, era del
tutto naturale che mi servissi del décor convenzionale del ciclo
carolingio. Per la letteratura italiana l’epopea cavalleresca
carolingia è quello che il western è per gli americani [...].
Quindi la scelta d’un’ambientazione così tradizionale non può
esser detta di per sé “ariostesca” [...]. Mi ricordo che, scrivendo
il Cavaliere inesistente, come “reference book” per trovare
nomi, etc., usavo non Ariosto, ma un volume di Cantari
cavallereschi dei secoli XV e XVI a cura di Giorgio Barini,
Bologna 1905» (Lettere869).
Parodia e intertestualità
Tasso, Gerusalemme liberata, Canto primo, vv. 46 ss.
(l’incontro tra Tancredi e Clorinda):
È fama che quel dí che glorioso
fe' la rotta de' Persi il popol franco,
poi che Tancredi al fin vittorioso
i fuggitivi di seguir fu stanco,
cercò di refrigerio e di riposo
a l'arse labbia, al travagliato fianco,
e trasse ove invitollo al rezzo estivo
cinto di verdi seggi un fonte vivo.
Quivi a lui d'improviso una donzella
tutta, fuor che la fronte, armata apparse:
era pagana, e là venuta anch'ella
per l'istessa cagion di ristorarse.
Parodia e intertestualità
Tasso, Gerusalemme liberata, Canto primo, vv. 46 ss.
(l’incontro tra Tancredi e Clorinda):
Egli mirolla, ed ammirò la bella
sembianza, e d'essa si compiacque, e n'arse.
Oh meraviglia! Amor, ch'a pena è nato,
già grande vola, e già trionfa armato.
Ella d'elmo coprissi, e se non era
ch'altri quivi arrivàr, ben l'assaliva.
Partí dal vinto suo la donna altera,
ch'è per necessità sol fuggitiva;
ma l'imagine sua bella e guerriera
tale ei serbò nel cor, qual essa è viva;
e sempre ha nel pensiero e l'atto e 'l loco
in che la vide, esca continua al foco.
La monaca scrivana
Calvino, Postfazione ai Nostri antenati:
«Avrete visto che in tutte e tre le storie ho avuto bisogno di un
personaggio che dicesse “io” forse per correggere la freddezza
oggettiva propria del raccontare favoloso con quest’elemento
ravvicinatore e lirico […]».
«Stavolta, nel Cavaliere inesistente, usai un “io”
completamente fuori dalla narrazione, e ne feci, tanto per avere
un gioco di contrasti in più, una monaca.
La presenza d’un “io” narratore-commentatore fece sì che
parte della mia attenzione si spostasse dalla vicenda all’atto
stesso dello scrivere, al rapporto tra la complessità della vita e il
foglio su cui questa complessità si dispone sotto forma di segni
alfabetici. A un certo punto era solo questo rapporto a
interessarmi, la mia storia diventava soltanto la storia della
penna d’oca della monaca che correva sul foglio bianco».
La monaca scrivana
Cfr. la formula di Jean Ricardou:
In molti romanzi delle nuove avanguardie novecentesche, si
passa dalla “scrittura di un’avventura” all’”avventura di una
scrittura”.
L’avventura di una scrittura
Calvino, Il livelli della realtà in letteratura (1978):
A un certo punto, si sofferma sulla «problematica, molto
ricca nel nostro secolo, della metaletteratura e problematiche
analoghe del metateatro, della metapittura eccetera. Già
abbiamo accennato al teatro nel teatro parlando di
Shakespeare, ed esempi simili non mancano nella storia della
letteratura teatrale, dall’Illusion comique di Corneille ai Sei
personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Ma è negli ultimi
decenni che questi procedimenti metateatrali e metaletterari
prendono nuovo rilievo, con fondamenti di natura morale o di
natura epistemologica: contro l’illusorietà dell’arte, contro la
pretesa naturalistica di far dimenticare al lettore o allo
spettatore di aver di fronte un’operazione condotta con mezzi
linguistici, una finzione studiata in vista d’una strategia degli
effetti» (388-89)
L’avventura di una scrittura
Calvino, Lettera 7 ott. 1963 ad Antonella Santacroce, autrice di
un saggio sul Cavaliere inesistente:
«La cosa che forse più mi interessa è la Sua osservazione che
per me sempre la pagina scritta è una pagina scritta, e la Sua
attenzione nel Cavaliere alla problematica sulla scrittura, sul
rapporto pagina-materia narrata. (Nessun critico si è mai
fermato su questo che era l’aspetto più moderno –
contemporaneo alla problematica del nouveau roman – e devo
dire che ne ero rimasto un po’ deluso)» (Lettere754).
La “giravolta narrativa”
Calvino, Postfazione ai Nostri antenati:
«Mi accorgevo intanto, andando avanti, come tutti i personaggi
del racconto s’assomigliassero, mossi com’erano dalla stessa
trepidazione, e anche la monaca, la penna d’oca, la mia
stilografica, io stesso, tutti eravamo la stessa persona, la stessa
cosa, la stessa ansia, lo stesso insoddisfatto cercare. Come
succede al narratore […], che tutto ciò che pensa gli si trasforma
in quel che fa – cioè in racconto -, tradussi quest’idea in
un’ultima giravolta narrativa. Cioè feci della monaca narratrice e
della guerriera Bradamante la stessa persona. È un colpo di scena
che mi è venuto in mente all’ultimo momento e mi pare non
significhi nulla di più di quel che vi ho detto» (1218-19).
Lettera del 28 aprile 1971 a Guido Almansi:
«L’agnizione finale è appiccicata lì, o meglio, appartiene a un
altro codice».
Mondo scritto e mondo non scritto
Jean Starobinski, Prefaz. a Calvino, Romanzi e racconti, vol. I:
«Teodora è stata messa in penitenza: in quanto destinata alla
scrittura del libro e alla “ricerca della verità”, essa prova di volta
in volta esaltazione e melanconia. Melanconia, quando il filo
dell’intreccio s’ingarbuglia, quando le parole escono dalla penna
come cenere, mentre la vera vita, fuori del libro, fa sentire il suo
rumore gioioso. Esaltazione, quando il desiderio acquisisce la
forza galoppante che consente di accelerare la narrazione e di
uscirne fuori per sempre. Il punto finale viene messo, il libro
viene abbandonato quando il racconto, ritornato alla descrizione
dell’atto di scrivere, ha potuto designare una morte della parola
che corrisponde all’inizio d’un avvenire amoroso.
Mondo scritto e mondo non scritto
Jean Starobinski, Prefaz. a Calvino, Romanzi e racconti, vol. I:
Nel silenzio imminente della storia ultimata e in procinto di
ammutolire per sempre, la narratrice rivela che lei stessa è la
guerriera Bradamante che, dentro il racconto, viveva e galoppava
e soffriva per una passione frustrata. La felicità balenata
nell’ultimo istante abolisce insieme la narrazione e la penitenza
melanconica. Il racconto termina quando vien meno lo scarto tra
l’attività della scrittura e la “vita reale”, lo scarto tra il desiderio
amoroso e l’oggetto d’amore».
Mondo scritto e mondo non scritto
Calvino, da un’annotazione:
«Io credo nell’esistenza di un mondo non scritto e che la
letteratura viva nella sfida di questo non scritto con cui deve
continuamente misurarsi, cercando di raggiungerlo, di
catturarlo, in una caccia, in un inseguimento che non avrà mai
fine».
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Calvino, Postfazione ai Nostri antenati