Vermeer
il secolo d’oro dell’arte olandese
Vermeer e il secolo d’oro della pittura olandese
Testo in catalogo di Arthur K. Wheelock Jr.1
Il mondo raffigurato dagli artisti olandesi del Seicento ha l’aspetto e l’immediatezza del reale.
Guardando i loro dipinti hai quasi l’impressione di girovagare per quei paesaggi piatti, scanditi da
città e campanili le cui silhouette si stagliano contro la vastità del cielo (fig/cat. Daniel Vosmaer,
Veduta di Delft da un porticato, Stedelijk Museum het Prinsenhof ); di incontrare, nelle strade e nei
cortili delle case, i distinti cittadini che costituivano la spina dorsale della potenza economica della
piccola nazione (fig/cat. Pieter de Hooch, Ritratto di famiglia in un cortile a Delft, Gemäldegalerie
der Akademie der bildenden Künste); di essere testimone degli incontri di varia umanità – come
quello tra madre e figlia – che gli artisti fissavano sulla tela in modo tanto efficace nelle loro
descrizioni della vita quotidiana (fig/cat. Pieter de Hooch, La camera da letto, National Gallery of
Art). Malgrado ciò, quando ti avvicini a queste immagini cominci a capire che, se è facile entrare
nel loro mondo, comprenderlo è molto più arduo. Nel suo apparente realismo infatti, la pittura
olandese contiene idee e principi che spesso sfuggono anche all’esame più accurato, volto a
determinare l’intento pittorico dell’artista.
Sotto questo profilo, i quadri di Johannes Vermeer sono particolarmente affascinanti. Vermeer è
uno di quei rari artisti la cui opera trascende i limiti spazio-temporali. Considerato uno dei
migliori pittori olandesi, la sua fama si basa su un numero relativamente esiguo di dipinti, tutti
pervasi di un’intima poesia che è immediatamente riconoscibile, benché quasi impossibile da
descrivere e spiegare. Cos’è che cattura e tiene avvinto lo sguardo dell’osservatore nel ritratto di
una donna con un cappello esotico (fig/cat. Johannes Vermeer, Ragazza con cappello rosso, National
Gallery of Art), di un’altra che strimpella la chitarra in un angolo della sua camera (fig/cat.
Johannes Vermeer, Suonatrice di liuto, Metropolitan Museum of Art) o nella veduta di una
tranquilla strada di città (fig/cat- Johannes Vermeer, Stradina, Rijksmuseum)? Non certo
l’elemento narrativo, quasi inesistente, ma qualcosa di più universale. Grazie alla tecnica
magistrale del pittore abbiamo non solo la percezione dei diversi materiali, dal raso scintillante di
un abito femminile alla trasparenza del vetro, ma anche della luce radiosa che pervade gli
ambienti. Restiamo stupefatti di fronte alla bellezza dei colori, dal giallo limone di una giacchetta
femminile alle intense sfumature di azzurro della stoffa che riveste una sedia. Le persone che
vediamo in queste scene sono alle prese con attività e interessi che ci appaiono in qualche modo
familiari e collegati alla nostra vita. Il fascino durevole delle immagini vermeeriane, tuttavia, non è
riconducibile al loro apparente realismo, ma all’atmosfera serena e fuori dal tempo che ne
determina la straordinaria dignità artistica. Queste opere sono permeate di significati che spesso
rimangono avvolti nel mistero: l’artista spiega raramente il contesto in cui si muovono i suoi
soggetti, né descrive le emozioni umane tramite gesti o espressioni particolari, e preferisce lasciare
che ciascuno interpreti la scena a modo suo. Facendolo, ognuno arriva inevitabilmente a una
comprensione più profonda dei propri sentimenti e rapporti con gli altri.
È sorprendente quanto poco sappiamo della carriera di un artista universalmente noto come
Vermeer. Va dunque sottolineato come qualsiasi conclusione sulla sua arte debba necessariamente
basarsi sull’esame delle opere che possiamo attribuirgli con certezza e che ammontano a circa
trentasette. Nulla ci resta del suo periodo di formazione e nessuno dei suoi disegni si è conservato;
lo stesso vale per eventuali scritti di suo pugno sulla tecnica utilizzata o le finalità artistiche
perseguite; non sappiamo se abbia mai avuto una bottega. Mentre – soprattutto grazie alle accurate
ricerche d’archivio di John Michael Montias – abbiamo una visione piuttosto chiara, anche se a
grandi linee, della vita domestica di Vermeer a Delft, enormi lacune ostacolano la comprensione
delle sue scelte artistiche. Malgrado ciò, facendo uso delle informazioni disponibili e collocando
Vermeer nel contesto della sua epoca, siamo in grado di delineare i possibili scenari del suo
peculiare percorso: questa è appunto la finalità del presente saggio, mentre in quello successivo
Walter Liedtke si concentrerà sullo stile pittorico di Vermeer.
LE FONDAMENTA DELLA REPUBBLICA OLANDESE E L’IMPORTANZA STORICA DI DELFT
I valori culturali sottesi alle composizioni vermeeriane ed evidentemente condivisi, chi più chi
meno, da tutti gli altri pittori presenti in questa mostra scaturivano dalla lotta degli olandesi per
1
Curator of Northern Baroque Paintings, National Gallery of Art di Washington
emanciparsi dal controllo della Spagna tra la fine del Cinquecento e l’inizio del secolo successivo.
Gli stessi valori emergono nei miti creati dagli olandesi per conferire una cornice culturale alla loro
esistenza, miti che non influenzarono solo le convenzioni artistiche ma anche la struttura politica
della Repubblica.
All’inizio del Seicento, quando la Repubblica olandese divenne un’entità politica, appariva assai
improbabile che la giovane nazione avesse risorse adeguate per alimentare e sostenere una
tradizione artistica di alto livello dopo la lunga ed estenuante guerra contro la Spagna. Eppure gli
olandesi seppero trarre forza dalle avversità, compiendo progressi in tutti i campi: nel commercio
come nella coscienza politica e nella tolleranza religiosa, nella diffusione della ricchezza e
soprattutto nell’autostima. Orgogliosi delle loro conquiste, erano determinati a dotare il proprio
paese di fondamenta sufficientemente solide per garantire la continuità del loro eccezionale
patrimonio socio-culturale. La Repubblica nacque nel momento in cui la libera federazione delle
sette province del nord – Olanda, Zelanda, Utrecht, Gheldria, Overijssel, Fresia e Groninga – diede
vita a una entità politica unitaria per difendere i suoi diritti dalla tirannia della Spagna (fig. Claes
Jansz. Visscher, Leo Hollandicus, 1648, incisione; collezione Atlas van Stolk, Historisch Museum,
Rotterdam, inv. n. 1067). Ogni provincia inviava i suoi rappresentanti agli Stati Generali,
l’organismo legislativo con sede all’Aia, responsabile del benessere socio-economico della nazione.
Gli stadhouder, responsabili degli affari militari, discendevano tutti dal principe Guglielmo
d’Orange (detto il Taciturno), leader della rivolta, assassinato a Delft nel 1584 (Hendrik Goltzius,
Guglielmo, principe di Nassau-Orange, 1581, incisione, stato I/II; National Gallery of Art,
Washington, Rosenwald Collection, 1950.14.1231). La separazione dei poteri creò un sistema di
pesi e contrappesi che contribuì efficacemente alle scelte di politica nazionale. Gli Stati Generali –
dominati dalla provincia più importante, quella olandese, con le città di Amsterdam, Haarlem,
Leida e Delft – difendevano la causa della pace e della stabilità che favoriva il commercio e quindi
la prosperità economica del ceto borghese. Dal canto loro, gli stadhouder Maurizio (1567-1625),
Federico Enrico (1584-1647) e Guglielmo II (1626-1650) erano tutti abili condottieri e poiché in
guerra il loro ruolo acquistava importanza e prestigio, sostenevano una politica d’intervento
militare. Spesso però la loro volontà veniva ostacolata dagli Stati Generali. In questo modo, a
differenza delle monarchie assolute che all’epoca regnavano in altri paesi, la politica nazionale
olandese era condizionata da un organismo che rappresentava diversi segmenti della società. Un
fattore essenziale nella struttura politica e sociale della nazione era rappresentato dal calvinismo.
La rivolta contro la Spagna fu intrapresa per un insieme di ragioni, non ultima la questione
religiosa. Le regioni del nord osteggiavano l’intrusione del cattolicesimo spagnolo e abbracciavano
le idee della Riforma nell’interpretazione di Giovanni Calvino. Il protestantesimo tuttavia si
manifestava in forme e contesti diversi. I calvinisti più rigorosi, che avocavano a sé l’autorità in
materia di religione, sostenevano l’esigenza di un forte governo centrale ed erano schierati con la
Casa d’Orange. I fautori di un calvinismo meno estremo, più tolleranti e di orientamento
umanistico, erano dalla parte degli Stati Generali. Tra le diverse fazioni si creò così un clima di
tensione, con l’esplosione occasionale di veri e propri conflitti religiosi che avevano implicazioni
dirette nella sfera politica. L’Olanda, tuttavia, non era un paese rigorosamente protestante, ma
tollerava la presenza di ebrei e cattolici. Questi ultimi in particolare – molti dei quali erano
immigrati dai Paesi Bassi meridionali alla fine del Cinquecento in cerca del benessere economico –
vivevano e adoravano il loro Dio (sebbene nelle chiese cosiddette “nascoste”) fianco e fianco coi
protestanti. Tra gli immigrati cattolici vi erano numerosi artisti e artigiani, gli stessi che ci hanno
restituito l’immagine di questa terra e della sua gente, come Johannes Vermeer, ma di questo
diremo più avanti. La città di Delft, in cui Vermeer trascorse tutta la sua vita, aveva un illustre
passato, strettamente legato alla storia della rivolta olandese. Situata tra Rotterdam e L’Aia, le sue
origini risalgono al XIII secolo. Nella Veduta di Delft, eseguita all’inizio degli anni sessanta (fig.
Johannes Vermeer, Veduta di Delft, 1660-1661 ca., olio su tela, Koninklijk Kabinet van Schilderijen
Mauritshuis, L’Aia) Vermeer raffigurò quello che all’epoca era l’ingresso principale della città da
che, nel 1614, era stato costruito il porto, alimentato da un corso d’acqua proveniente da Schiedam
e Rotterdam. Per questo le due porte trecentesche, alla destra e alla sinistra dell’arcata del ponte, si
chiamavano con i nomi delle due città. Alla metà del Seicento la città, con una popolazione di circa
22.000 anime, era bella e fiorente, con una prospera attività commerciale incentrata sulla
produzione di ceramiche, arazzi e birra. Ma ad attrarre i turisti era soprattutto il fascino dei
monumenti di Delft e i suoi legami con la storia della nazione. Un gentiluomo inglese scrisse:
“Delft ha tanti ponti quanti sono i giorni dell’anno e un numero equivalente di strade e canali,
affollati di barche che vanno su e giù”. Un altro viaggiatore la descrive come la città più
incantevole di tutta l’Olanda e un terzo ha parole di ammirazione per la grande piazza del mercato
2 nel centro della città, con l’imponente municipio e la svettante guglia del campanile della Nieuwe
Kerk, illuminato dal sole nella veduta di Vermeer. A Delft la maggior parte dei visitatori si recava
in pellegrinaggio alla tomba imponente di Guglielmo il Taciturno nel coro della Nieuwe Kerk
(fig/cat. Emmanuel de Witte, Interno della Nieuwe Kerk a Delft con la tomba di Guglielmo il Taciturno,
Musée des Beaux-Arts, Lille). Nel 1667 lo storico di Delft Dirck van Bleyswijk scrisse con accenti
pieni di orgoglio che la magnifica tomba in marmo e bronzo costruita nel 1622 da Hendrick de
Keyser era così celebre che i visitatori provenienti da tutta Europa venivano ad ammirarne le
imponenti dimensioni e il potente simbolismo delle immagini. Il monumento non si limitava a
ricordare all’osservatore la gloria e la fama del principe, ma anche le quattro virtù fondamentali a
lui associate: giustizia, fede, fermezza e libertà. Nel dipinto illusionistico della Nieuwe Kerk,
presente in mostra, Hendrick van Vliet concentra l’attenzione su una di queste personificazioni
(fig/cat. Hendrick van Vliet, La Nieuwe Kerk a Delft con la tomba di Guglielmo il Taciturno, Stedelijk
Museum het Prinsenhof, Delft): l’allegoria della Giustizia posta frontalmente sull’angolo sinistro
della tomba. Luogo di sepoltura del padre della Repubblica olandese e dei principi che gli
succedettero – Maurizio, Federico Enrico e Guglielmo II – alla metà del Seicento la tomba aveva
acquisito un’enorme valenza simbolica. Le leggende che circondavano la vita e la morte di
Guglielmo il Taciturno rivestivano una grande importanza per gli olandesi, e per Delft in
particolare, dove il principe si era trasferito nel 1583 – un anno prima del suo assassinio – per
guidare da lì la rivolta contro la Spagna. Aveva preferito Delft all’Aia perché con le sue mura
esposte alle intemperie e le sue porte simili a quelle di una fortezza, la cittadina offriva l’illusione
di una maggiore sicurezza in tempi tanto difficili. Dal momento che morì prima di riuscire a
liberare i Paesi Bassi dal giogo spagnolo, gli scrittori e i teorici coevi lo paragonarono a Mosè,
morto anche lui prima di accedere alla Terra Promessa. Il repertorio di immagini che collegava le
due figure, come in questa incisione con ritratto allegorico che comprende scene dalla vita di Mosè
ai quattro angoli, non fece che valorizzare la fama e l’eredità di Guglielmo il Taciturno.
I FONDAMENTI ALLEGORICI DELL’ARTE OLANDESE
Gli avvenimenti politici e le posizioni religiose dell’epoca non sono immediatamente evidenti nella
ricca varietà di materiali visivi prodotta dagli artisti olandesi, anzi, i loro ritratti, paesaggi, marine,
scene di genere e nature morte appaiono sorprendentemente privi di informazioni sugli eventi
contemporanei. Nondimeno, i fondamenti filosofici sui quali gli artisti basavano il proprio lavoro
erano chiaramente gli stessi che regolavano le decisioni politiche, militari e religiose. Questa
ideologia era essenzialmente ispirata a tre principi: l’opera di Dio si manifesta in maniera chiara ed
evidente nel mondo; benché ogni cosa sia mortale e transitoria, tutti gli aspetti della creazione
divina meritano di essere notato, esaltato e rappresentato; in ultimo, gli olandesi, come gli antichi
Israeliti, erano un popolo eletto, favorito e benedetto dalla protezione divina.
Questi concetti aiutano a far luce su certe caratteristiche di fondo dell’arte olandese che lasciano
perplessi gli osservatori moderni. In realtà, gli olandesi erano un popolo di moralisti, inclini a
usare immagini realistiche per esprimere commenti sulla realtà così come veniva percepita. Ad
esempio, pur inclini a godere dei piaceri dei sensi e raffigurando spesso scene di incontri amorosi
(fig/cat. Jacob Ochtervelt, Coppia che mangia le ostriche, Museum Boijmans van Beuningen,
Rotterdam), erano consapevoli delle conseguenze implicite nell’abbandonarsi completamente ad
essi. Così, la vermeeriana Donna con una bilancia afferma anzitutto la necessità di condurre una vita
all’insegna della moderazione e della temperanza (fig. Johannes Vermeer, Donna con una bilancia,
1664 ca., olio su tela, National Gallery of Art, Widener Collection, 1942.9.97).
Componente cruciale di questo aspetto moraleggiante del realismo olandese è la visione del
mondo in chiave allegorica. Gli olandesi del Seicento stabilivano molti paralleli tra il mondo in cui
vivevano e i grandi avvenimenti storici, letterari e politici. Come già accennato prima, l’esperienza
di una nazione come la loro – un piccolo paese che aveva combattuto contro un potente oppressore
fino ad affermare il proprio diritto di esistere – veniva di frequente messa in collegamento alle
vicende degli antichi Israeliti. Questa analogia conferiva alla lotta contro la Spagna una legittimità
fondata su precedenti storici ed epici. Un altro elemento importante nella creazione del mito
nazionale era il parallelo tra la situazione politica dell’epoca e la rivolta dei Batavi, antichi antenati
degli olandesi, contro i Romani. Le allusioni storiche divennero parte intrinseca della mitologia
olandese, tanto quanto l’eroica difesa di Haarlem dagli invasori spagnoli nel 1573 e l’assassinio di
Guglielmo il Taciturno a Delft nel 1584. Un terzo parallelo era quello con la Repubblica romana,
particolarmente diffuso dopo la ratifica del trattato di Münster che nel 1648 riconobbe
formalmente la Repubblica olandese. Dotata di una forma di governo assolutamente unica per
l’epoca, l’Olanda modellò il proprio ideale di servizio pubblico a maggior gloria del paese
sull’esempio degli antichi Romani. Per rafforzare ulteriormente questi contenuti allegorici, gli
3 artisti raffiguravano spesso soggetti tratti dalla storia antica e l’architettura era improntata allo
stile classico (fig. Jan van der Heyden, Il municipio di Amsterdam, 1667, olio su tela, Galleria degli
Uffizi, Firenze).
IL GIOVANE VERMEER E IL CARATTERE DELLE ARTI A DELFT INTORNO AL 1650
Secondogenito – e primo figlio maschio – di Reynier Jansz e Digne Baltens, Johannes Vermeer fu
battezzato nella Nieuwe Kerk, a Delft, il 31 ottobre 1632. Suo padre era un tessitore di “caffa”, un
tipo di seta pregiata. L’anno prima della nascita del figlio, tuttavia, si era iscritto alla Gilda di San
Luca in qualità di mercante d’arte, professione che probabilmente svolgeva in una locanda da poco
presa in affitto sulla Voldersgracht. Nel 1641 Reynier era abbastanza abbiente da poter acquistare
una grande casa, la cosiddetta “Mechelen”, con annessa locanda, sulla piazza del mercato di Delft.
Qui, a quanto pare, faceva compravendita di quadri. Quando morì nel 1652, la vedova ereditò la
locanda, e Johannes diventò a sua volta un mercante d’arte, attività che continuò a svolgere per
tutta la vita.
Vista la professione del padre, probabilmente il giovane Vermeer crebbe in compagnia di artisti e
artigiani. L’inizio del suo apprendistato deve risalire alla fine degli anni quaranta, visto che la sua
iscrizione alla Gilda di San Luca di Delft come maestro pittore avvenne il 29 dicembre 1653 e che
gli aspiranti artisti dovevano completare un periodo di formazione pari a circa sei anni. Riguardo
alle motivazioni che lo portarono a voler diventare un artista, tuttavia, non abbiamo alcuna
informazione, né conosciamo il nome del suo maestro (o maestri) e neppure se la sua formazione
avvenne a Delft. Non sappiamo se si sia recato in Italia, in Francia o nelle Fiandre per ampliare il
suo bagaglio di conoscenze. Forse lo fece, ma su questo punto, come su molti altri, vi è una totale
carenza di prove certe. La documentazione è inoltre sconsolatamente vaga o del tutto priva di
riferimenti ai rapporti di Vermeer con altri artisti. Sappiamo che il pittore di Delft Leonard Bramer
(1596-1674) gli fece da testimone nel 1653, poco prima del matrimonio con Catharina Bolnes, e che
Vermeer appose la sua firma accanto a quella dell’influente ritrattista e pittore di genere Gerard ter
Borch (1617-1681) su un documento stilato due giorni dopo le nozze. Non abbiamo però alcuna
informazione riguardo a eventuali incontri del pittore con Bramer o Ter Borch dopo il 1653. In un
poema di Arnold Bon, pubblicato nel 1667, Vermeer viene celebrato come il successore del
concittadino Carel Fabritius (1622-1654), che morì nella devastante esplosione del deposito di
polvere da sparo nel 1654 (fig/cat. Eglon van der Poel, Veduta di Delft dopo l’esplosione del 1654,
Johnny van Haeften). Non vi sono tuttavia documenti che attestino effettivi contatti tra i due. Allo
stesso modo, nulla è noto dei rapporti di Vermeer con Jan Steen (1625/1626-1679) e Pieter de
Hooch (1629-1684), due pittori attivi a Delft negli anni cinquanta che avrebbero potuto condividere
con lui i medesimi interessi artistici. Infine, non sappiamo se Vermeer abbia mai conosciuto Frans
van Mieris (1635-1681) e Gabriel Metsu (1629-1667), importanti pittori di genere attivi
rispettivamente a Leida e Amsterdam, anche se i tre hanno degli elementi in comune sia per
quanto riguarda i soggetti che lo stile. Il rapporto di Vermeer con Leonard Bramer è
particolarmente intrigante. Non vi è dubbio che quest’ultimo conoscesse il pittore agli esordi della
sua carriera, visto che fu garante della sua integrità morale all’epoca del fidanzamento con
Catharina Bolnes. Quest’ultima aveva avuto un’educazione cattolica e a quanto pare la madre,
Maria Thins, di spiccate tendenze gesuitiche, insistette perché Vermeer si convertisse al
cattolicesimo. Evidentemente l’artista acconsentì e Bramer, cattolico anche lui, funse da testimone
alla deposizione della futura suocera di Vermeer in cui ella dichiarò che non avrebbe ostacolato il
matrimonio della figlia. Le nozze furono celebrate nel dicembre dello stesso anno, poco prima che
Vermeer si iscrivesse come maestro alla Gilda di San Luca. La coppia avrebbe poi dato a uno dei
figli il nome di Ignatius, in onore di Ignazio di Loyola, fondatore dell’ordine dei Gesuiti. Poco
dopo il matrimonio, Vermeer e Catharina si trasferirono nella casa di Maria Thins sulla Oude
Langendijk, in una zona chiamata “angolo dei papisti” adiacente alla chiesa dei Gesuiti, uno dei
due luoghi di culto “nascosti” in cui i cattolici potevano adorare il proprio Dio. Maria Thins prestò
del denaro alla giovane coppia e nel suo testamento, redatto nel 1657, fu molto generosa con la
figlia. Lo stretto legame che univa Maria Thins alla figlia e al genero è testimoniato in modo ancor
più significativo dal fatto che la prima figlia dei due venne battezzata col nome di Maria. La
suocera di Vermeer ebbe anche un’influenza sulla sua evoluzione artistica: ella aveva infatti dei
parenti a Utrecht, tra cui il celebre pittore Abraham Bloemaert (1564-1651), e possedeva una
collezione di quadri eseguiti da artisti di quella città, alcuni dei quali compaiono sullo sfondo delle
opere di Vermeer. Sembra invece improbabile che Bramer abbia esercitato una profonda influenza
sullo stile di Vermeer, basta paragonare i suoi piccoli notturni ricchi di pathos con l’ampia
concezione delle scene mitologiche e religiose che il giovane artista eseguiva in quegli anni. In
4 seguito al suo viaggio in Italia, Bramer divenne maestro nella tecnica dell’affresco e negli anni
quaranta partecipò alla decorazione dei palazzi principeschi di Honselaarsdijk e Rijswijk, entrambi
situati non lontano da Delft. Durante il lavoro per Federico Enrico d’Orange, entrò probabilmente
in contatto con altri artisti di orientamento classicista provenienti da Utrecht, Haarlem e Anversa.
È senz’altro possibile che lo stesso Bramer abbia suggerito a Vermeer di fare pratica di stile
classicista a Utrecht, nell’atelier di Bloemaert, oppure ad Amsterdam dove avrebbe potuto
assimilare almeno in parte le ampie e audaci composizioni rembrandtiane. Nessuna delle due
possibilità è documentata, ma lo stile iniziale di Vermeer rende certamente plausibile l’ipotesi di
un periodo di studi lontano da Delft. Ad ogni modo, se Vermeer si spostò in qualche altro luogo
per ampliare la propria educazione, probabilmente lo fece prima della morte del padre. Con tutta
probabilità nell’ottobre 1652, quando lui e Catharina Bolnes certificarono la loro intenzione di
sposarsi sei mesi dopo, Vermeer viveva alla Mechelen, la locanda di famiglia sulla piazza del
mercato. L’artista si iscrisse alla Gilda di San Luca il 29 dicembre 1653, data che, come già indicato,
segna la fine del suo periodo di apprendistato.
La comunità artistica di Delft, strettamente legata ai gusti della corte olandese, non doveva
apparire particolarmente dinamica agli occhi di un giovane che, come Vermeer, aveva raggiunto la
maggiore età alla fine degli anni quaranta ed era interessato alla carriera di pittore. Tuttavia, nel
1650 si verificò un evento ricco di implicazioni per gli artisti attivi a Delft nel decennio successivo,
che probabilmente mise in discussione i preconcetti del giovane sulla direzione da imprimere alla
propria carriera. Nell’autunno di quell’anno il giovane Guglielmo II d’Orange contrasse il vaiolo e
morì improvvisamente lasciando solo un figlio, Guglielmo III (1650-1702) – nato dopo la sua morte
–, a portare avanti la linea di successione di Casa d’Orange. Questo avvenimento, in cui molti
videro il segno della fine del regno dei principi d’Orange, condusse a un periodo di “vacanza dello
statolderato” durante il quale i Paesi Bassi furono governati solo dagli Stati Generali con sede
all’Aia. La morte di Guglielmo II, sepolto nel marzo 1651 nella cripta sottostante la tomba di
Guglielmo il Taciturno, causò una rinnovata attenzione nei confronti di questo monumento,
stimolando gli artisti di Delft alla creazione di un nuovo genere di pittura architettonica. Gerrit van
Houckgeest (1600-1661), Emanuel de Witte (1617-1692 ca.) (fig/cat. Emanuel de Witte, Interno della
Nieuwe Kerk a Delft con la tomba di Guglielmo il Taciturno, 1656, Musée des Beaux-Arts, Lille) e
Hendrick Cornelisz van Vliet (c. 1611-1675) (fig/cat. Hendrick van Vliet, La Nieuwe Kerk a Delft con
la tomba di Guglielmo il Taciturno, Stedelijk Museum het Prinsenhof, Delft) iniziarono a dipingere
vedute della tomba dopo la morte del principe, certamente a causa della grande richiesta di
immagini del genere. Questi artisti ritraevano spesso la tomba da punti di vista inconsueti, come se
l’osservatore si fosse imbattuto nel monumento mentre stava girovagando per la chiesa. Nei
dipinti erano inevitabilmente inclusi gruppi di figure in atteggiamento devoto accanto alla tomba,
quasi a onorare la memoria di Casa d’Orange. Un’immagine come quella di Van Vliet, in cui la
tomba stessa è parzialmente celata da una tenda gialla e da una cornice lignea – accorgimenti tipici
della pittura trompe l’œil – rafforza il messaggio sulla caducità della vita: ciò che sembra reale e
permanente è in realtà solo un’illusione. Anche se non abbiamo informazioni sugli acquirenti dei
dipinti della tomba di Guglielmo, è molto probabile che si trattasse di persone relativamente
facoltose, appartenenti alla Chiesa riformata e di rango elevato. Immagini come queste dovevano
riportare alla mente dei collezionisti tutta la gamma di sentimenti e associazioni legata al
monumento: l’orgoglio civico e nazionale, la devozione alla Casa d’Orange, la coscienza della
fugacità dell’esistenza. Erano per così dire immagini private di esperienze pubbliche, grazie alle
quali valori e preoccupazioni condivise entravano nelle case e venivano rafforzati dalla visione
ripetuta. A causa del cambiamento nella politica nazionale, gli artisti di Delft non potevano più
contare sul patrocinio della corte, così anche l’arte sperimentò una rapida evoluzione verso
orientamenti nuovi. Forse più di ogni altro pittore olandese Carel Fabritius fu profondamente
toccato dalla morte di Guglielmo II, dal momento che era giunto a Delft nel 1650 per eseguire
pitture murali per il giovane principe. Dopo la morte del sovrano, Fabritius si dedicò soprattutto ai
ritratti (fig/cat. Carel Fabritius, Donna con orecchino di perla, Niedersachsisches Landesmuseum,
Hannover) e alle scene di genere, che rivelano la sua maestria nell’uso della prospettiva e degli
effetti ottici (fig. Carel Fabritius, Veduta di Delft, 1652, olio su tela, National Gallery, Londra; offerto
da The Art Fund, 1922, inv. n. NG3714). Questo artista, che aveva sfidato le convenzioni pittoriche
dominanti anche durante il periodo di studi con Rembrandt ad Amsterdam negli anni quaranta,
continuò a sperimentare nuovi approcci alla rappresentazione pittorica fino alla tragica morte
nell’esplosione del deposito di polvere da sparo avvenuta nel 1654. Fabritius ha lasciato soltanto
un piccolo gruppo di opere di scala ridotta che non rendono giustizia né all’impatto della sua arte
sulla scuola di Delft, né alla sua influenza sull’evoluzione di Vermeer.
5 La carriera di Vermeer iniziò dunque proprio nel periodo in cui l’importanza artistica, politica ed
economica della sua città sembrava essere drammaticamente giunta alla fine. La preminenza
politica di Delft grazie ai suoi legami storici con i principi d’Orange e alla sua vicinanza all’Aia era
già stata minata dalla morte prematura di Guglielmo II nel 1650. Il ritiro temporaneo della Casa
d’Orange aveva significato una notevole perdita economica per gli artisti di Delft che erano in
cerca di nobili mecenati. La devastante esplosione del 1654 indebolì ulteriormente la città: in
un’epoca fiorente per tutto il resto della nazione, Delft non era in grado di portare avanti uno
sviluppo politico ed economico e dovette invece concentrarsi su di sé e affrontare la tremenda
tragedia che l’aveva colpita. Il modo in cui Vermeer attraversò questo scenario artistico in
evoluzione è uno degli aspetti affascinanti dell’inizio della sua carriera.
VERMEER PITTORE DI STORIA
Le prime opera note di Vermeer, eseguite negli anni della formazione tra il 1653 e il 1656 non
somigliano affatto ai dipinti che lo hanno reso l’artista così celebre e amato che è ancora oggi.
Cominciò la carriera come pittore di storia, eseguendo un certo numero di scene mitologiche e
religiose di grandi dimensioni, indicative della sua formazione in tal senso: Santa Prassede (fig/cat.
Johannes Vermeer, Santa Prassede, 1655, olio su tela, 101,6 x 82,6 cm. The Barbara Piasecka Johnson
Collection Foundation, Princeton, N. J.), Cristo nella casa di Marta e Maria (fig. Johannes Vermeer,
Cristo nella casa di Marta e Maria, 1654-1655 ca., olio su tela, National Gallery of Scotland,
Edimburgo) e Diana e le compagne (fig. Johannes Vermeer, Diana e le compagne, 1653-1656 ca., olio su
tela, Koninklijk Kabinet van Schilderijen Mauritshuis Mauritshuis, L’Aia). A Delft e in altri centri
artistici esisteva un fiorente mercato per questo genere di grandi dipinti di storia d’ispirazione
classica e sotto questo profilo l’orientamento di Vermeer è analogo a quello di altri maestri quali
Jacob van Loo (1614-1670) (fig. Jacob van Loo, Diana e le compagne, 1648, olio su tela, DDRStaatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie; Braunschweig), Jan de Bray (1627 c.-1698) e Caesar
van Everdingen (1617 ca.-1678), che realizzarono scene simili a Haarlem e Amsterdam e per la
Oranjezaal nel palazzo di Huis ten Bosch, poco lontano dall’Aia. In queste prime opere Vermeer
emula una serie di orientamenti stilistici e tematici provenienti da fonti diverse, non solo olandesi
ma anche italiane e fiamminghe, traendo ispirazione da artisti diversi tra loro come il maestro
fiorentino Felice Ficherelli (1605-1669?), il caravaggista di Utrecht Hendrick ter Brugghen (15881629) e Rembrandt. Non sappiamo esattamente come Vermeer fosse arrivato a conoscere le opere
di questi pittori, ma vi sono diverse possibilità: tramite Bramer e/o Fabritius, per via dell'attività di
mercante d'arte del padre, grazie alla raccolta di dipinti della scuola di Utrecht della suocera e ai
contatti di questa con la comunità cattolica di Delft oppure in seguito ai viaggi e ai contatti dello
stesso Vermeer durante gli anni di formazione. Il particolare approccio dell'artista alla pittura di
storia si rivela nella sua scelta di momenti di pacata contemplazione che esaltano l'importanza
della vita meditativa, una tematica che appare in modo esplicito in Cristo nella casa di Marta e Maria
e implicito in Santa Prassede e Diana e le compagne. Santa Prassede osserva con aria pensosa il
crocefisso che tiene in mano mentre è intenta a strizzare una spugna impregnata del sangue dei
martiri, che defluisce nell'anfora davanti alla quale è inginocchiata. Un'atmosfera simile la
troviamo nelle espressioni malinconiche di Diana e le compagne, una delle quali, con gravità quasi
sacramentale, lava delicatamente il piede della dea in maniera non dissimile dalle scene della
lavanda dei piedi di Cristo da parte dell'apostolo. Per quanto appaia a prima vista difficile trovare
delle affinità tra lo stile e le tematiche di questi primi dipinti con le scene di genere e le vedute
cittadine della maturità, pure grazie a queste opere Vermeer acquisì un'ampia prospettiva di
visione ed esecuzione e una cornice tematica che nessun altro pittore di genere possedeva in quel
periodo. Così, mentre Gerard ter Borch aveva iniziato la propria carriera realizzando ritratti
raffinati di piccole dimensioni e Frans van Mieris aveva studiato inizialmente sotto la guida di un
pittore su vetro, per le sue grandi scene di storia Vermeer era costretto a considerare innanzitutto
l'impatto complessivo delle sue immagini, realizzate con una tecnica pittorica relativamente libera
e audace, adeguata alla loro ampia portata. In seguito, quando si dedicò alla pittura di genere e ai
paesaggi, usò tecniche più raffinate e complesse, pur mantenendo inalterata la capacità di evocare,
più che descrivere, forme e superfici. L'importanza della pittura di storia nell'evoluzione artistica
di Vermeer, tuttavia, non rimane confinata allo stile e alla tecnica: le sue immagini di vita
quotidiana sono intrise di concetti astratti paragonabili a quelli presenti nei suoi dipinti di storia.
Molte di queste opere hanno fondamenti etici e morali anche quando il tema è palesemente
l'amore o un momento di riflessione nell'angolo di una stanza, come è il caso della giovane donna
intenta a osservare i piatti di una bilancia in posizione di equilibrio dinanzi a un dipinto del
Giudizio universale (fig. Johannes Vermeer, Donna con una bilancia, 1664 ca., olio su tela, National
6 Gallery of Art, Widener Collection, 1942.9.97). In un universo come questo l'allegoria non appare
come qualcosa di molto distante dalla vita quotidiana. Le due composizioni vermeeriane più
esplicitamente allegoriche, L'atelier del pittore (fig. Johannes Vermeer, L'atelier del pittore, 1666- 1668
ca., olio su tela, Kunsthistorisches Museum, Vienna) e l'Allegoria della Fede (fig/cat. Johannes
Vermeer, Allegoria della Fede, 1670- 1674 ca., olio su tela, The Metropolitan Museum of Art, New
York, dono di Michael Friedsam), risalgono all'ultima fase della carriera del pittore. In questi
imponenti dipinti l'artista esprime concetti in lui profondamente radicati sul significato dell'arte
nella società olandese e sull'essenza della fede nella dottrina cattolica. Le due opere ribadiscono
inoltre l'importanza che Vermeer attribuiva all'incorporare idee astratte nei suoi dipinti, pur
basando il proprio linguaggio visivo sul mondo fisico circostante, reso con immagini
accuratamente realistiche.
IL PASSAGGIO ALLA PITTURA DI GENERE E ALLE VEDUTE CITTADINE NELLA SECONDA
METÀ DEGLI ANNI CINQUANTA
Pur non sapendo esattamente se Vermeer si fosse dedicato alla pittura di storia a causa della sua
formazione o per via della sua conversione al cattolicesimo o piuttosto perché sperava di ottenere
prestigiosi incarichi per la realizzazione di grandi scene bibliche o mitologiche da parte di facoltosi
committenti, quel che è certo è che, qualche anno dopo essersi iscritto alla gilda in qualità di
maestro, egli mutò improvvisamente i soggetti e lo stile della sua pittura. Anche le ragioni di
questo improvviso cambiamento non sono note, si può tuttavia ipotizzare che la risposta della
committenza non fosse quella che si aspettava di ricevere. Sembra poco verosimile che questi primi
dipinti siano il frutto di commissioni pubbliche. Del resto, le loro dimensioni relativamente grandi
e l'approccio peculiare del pittore al tema prescelto li rendevano di difficile collocazione sul libero
mercato (anche se occorre ricordare che l'unico riferimento coevo a una composizione biblica o
mitologica di mano di Vermeer – l'opera Visita al sepolcro, oggi perduta – compare nell'inventario
del mercante d'arte di Amsterdam Johannes de Renialme nel 1657).
Con tutta probabilità, gli acquirenti di questi dipinti appartenevano a una ristretta cerchia di
conoscenti e parenti del giovane artista. Benché le immagini religiose avessero un mercato tra i
cattolici come tra i protestanti, un quadro dal valore iconico come la Santa Prassede poteva essere
appannaggio solo di una famiglia cattolica. La santa, che dedicò la propria vita alla cura dei resti
dei martiri cristiani, poteva essere una figura esemplare per la condotta nei confronti di coloro che
avevano bisogno di sostegno fisico e morale. Si può anche immaginare come un dipinto quale
Cristo nella casa di Marta e Maria sarebbe stato adatto ad abbellire la cappella privata di una delle
chiese "nascoste" di Delft e probabilmente l'Allegoria della Fede, risalente all'ultima fase della
carriera di Vermeer, gli fu commissionata da un'organizzazione religiosa di quel genere.
Pur avendo una visione limitata del percorso intrapreso da Vermeer per ridefinire la sua
personalità artistica, le scene realizzate nella seconda metà degli anni cinquanta rivelano come egli
iniziasse fin da subito a interagire con le opere di alcuni pittori contemporanei il cui interesse
principale era la raffigurazione di scene quotidiane. Vermeer scoprì anche assai rapidamente il
proprio talento nell'emulare e superare quegli artisti. A quanto sembra egli arrivò alla
consapevolezza che pur essendo un bravo pittore di scene bibliche e mitologiche, il suo autentico
genio artistico stava nell'abilità di convogliare nelle immagini di vita quotidiana un analogo senso
di dignità e nobiltà di intenti. A prescindere dall’esempio di Carel Fabritius, autore di dipinti di
genere che mostravano a Vermeer l’impatto visivo e psicologico di scene la cui materia narrativa
rimaneva impenetrabile, (fig. Schwerin), altri pittori di Delft fornirono all’artista la cornice visiva
utile al suo nuovo approccio a questo tipo di soggetti. Alla metà degli anni cinquanta, sia Pieter de
Hooch (1629-post 1684) (fig/cat. Pieter de Hooch, Donna con bambina in un cortile, National Gallery
of Art, Washington, Widener Collection, 1942.9.34) che Jan Steen (c. 1625-1679) dipingevano cortili
e scene di strada che possono essere considerati precedenti della Stradina vermeeriana (fig/cat.
Johannes Vermeer, Stradina, Rijksmuseum). Molte delle scene di De Hooch, in particolare, si
svolgevano in ambienti domestici che dovevano apparire significativi agli occhi dell’osservatore
contemporaneo. La Camera da letto, ad esempio (fig/cat. Pieter de Hooch, Camera da letto,
1658/1660, olio su tela, National Gallery of Art), era essenzialmente un quadro di armonia
domestica che rifletteva idee ampiamente condivise nella cultura nazionale, relative non solo alla
corretta educazione dei fanciulli, ma anche alla metafora di una casa pulita e ordinata che gli
olandesi associavano alla purezza dello spirito. Come De Hooch anche Vermeer iniziò a dipingere
scene di genere incentrate sulla condotta individuale e sulle norme di comportamento.
Tra gli artisti attivi in altre città che influenzarono il nuovo orientamento di Vermeer, spicca la
figura di Gerard ter Borch, insigne ritrattista e pittore di genere di Deventer, la cui firma compare
7 accanto a quella del pittore di Delft in un documento del 1653. A lui Vermeer si ispirò per la
delicata raffigurazione di donne intente a tranquille attività quotidiane nell’intimità domestica
(fig/cat. Gerard ter Borch, Curiosità, 1660-662 ca., olio su tela, The Metropolitan Museum of Art).
Nicolaes Maes (1634-1693), che si era trasferito nella vicina Dordrecht nel 1655 dopo aver studiato
con Rembrandt, si dilettava nella creazione di complessi spazi interni che sembrano aver ispirato
alcune tra le prime scene di genere di Vermeer. Infine l’artista di Leida Frans van Mieris (16351681) realizzò un certo numero di delicate scene di genere incentrate sul rapporto psicologico degli
amanti con modalità che anticipano alcune tra le composizioni più poetiche di Vermeer (fig.
Johannes Vermeer, Ragazza con l’orecchino di perla, 1665-1667 ca., olio su tela, Koninklijk Kabinet
van Schilderijen Mauritshuis, L’Aia). Benché il rapporto tra Vermeer e gli artisti suoi
contemporanei rimanga per molti versi oscuro, appare tuttavia evidente come a Delft il pittore
fosse considerato un maestro importante, la cui reputazione presso i conoscitori d’arte trascendeva
i confini della città. Il modo in cui seppe trasformare le convenzioni pittoriche dominanti nelle sue
scene di genere e vedute cittadine, come la Veduta di Delft (fig. Johannes Vermeer, Veduta di Delft,
1660-1661 ca., olio su tela, Koninklijk Kabinet van Schilderijen Mauritshuis, L’Aia), e le tecniche
innovative di cui fece uso (gli effetti ottici forse ottenuti grazie alla camera oscura) distinguono
l’opera vermeeriana da quella dei suoi contemporanei. Malgrado gli ci volesse presumibilmente
molto tempo per portare a termine i suoi quadri e sebbene abbia prodotto un numero di opere
relativamente esiguo, appare chiaro che nel corso della carriera godette di una reputazione
crescente, visto che fu eletto decano della Gilda di San Luca di Delft prima nel 1662-63 e poi
nuovamente nel 1670-71. Le opere di Vermeer avevano un mercato soprattutto, anche se non
esclusivamente, nella sua città. Come già accennato in precedenza, l’artista aveva contatti con un
mercante d’arte ad Amsterdam e le sue tele sono citate in inventari redatti all’Aia e ad Anversa.
Alcuni appassionati d’arte si recarono a Delft appositamente per ammirare le sue opere, tra questi
vi erano il diplomatico francese Balthasar de Monconys (1611-1665), il segretario dei principi
d’Orange Constantijn Huygens (1596-1687) e un giovane e facoltoso amateur dell’Aia, Pieter Teding
van Berkhout (1643-1713). Quest’ultimo visitò “l’eccellente” e “celebre” Vermeer in due diverse
occasioni nel corso del 1669; la prima volta gli vennero mostrate “alcune curiosità”, la seconda
“alcuni esempi della sua arte, il cui aspetto più straordinario e peculiare consiste nell’uso della
prospettiva”. Infine, in virtù della sua fama di esperto di pittura italiana, nel 1672 venne convocato
all’Aia per valutare una collezioni di quadri in vista della vendita. LA PROBLEMATICA DELLA COMMITTENZA
Potendo contare su una documentazione tanto scarsa relativa alla formazione, ai contatti con altri
artisti e agli eventuali committenti, occorre fare uso di estrema cautela nell’attribuire all’opera di
Vermeer idee e orientamenti precisi. Una questione affascinante, e di difficile risoluzione, riguarda
il motivo per cui l’artista mutò così radicalmente l’oggetto dei suoi interessi nella seconda parte
degli anni cinquanta. Un’ipotesi che ha avuto un certo seguito nella letteratura storico-artistica
degli anni recenti è quella secondo la quale il passaggio dalla pittura di storia alle scene di genere e
alle vedute cittadine si deve non tanto a un cambiamento di gusto del libero mercato, quanto alla
domanda specifica di un singolo committente. In effetti, l’influenza esercitata dalle richieste di un
cliente sui soggetti e sullo stile di un determinato artista è questione controversa e difficile da
determinare. Secondo John Michael Montias, pittori come Vermeer potevano investire tutto il
tempo necessario per realizzare scene così raffinate e meticolose solo lavorando per committenti
particolari anziché per il libero mercato. A questo proposito, cita l’esempio dei fijnschilders di Leida
Gerrit Dou e Frans van Mieris il Vecchio, ai quali i rispettivi mecenati versavano uno stipendio
annuale in cambio di dipinti oppure si riservavano il diritto di opzione su di essi, e immagina una
situazione analoga per Vermeer. Montias ipotizza che nel 1657, all’epoca delle prime scene di
genere e vedute cittadine, il pittore avesse cominciato a lavorare per un cliente di spicco, Pieter
Claesz van Ruijven (1624-1674), un ricco e nobile collezionista di Delft. Montias pensa che
quell’anno Van Ruijven avesse concluso con Vermeer un accordo, in cui rientrava anche il prestito
che gli fece nello stesso anno. I dipinti di proprietà di Van Ruijven e di sua moglie furono quasi
certamente lasciati in eredità alla figlia Magdalena, che nel 1680 sposò Jacob Dissius. Secondo lo
studioso, i venti Vermeer di proprietà di Dissius registrati nell’inventario stilato alla morte di
Magdalena nel 1682 provenivano appunto dalla collezione del padre di questa.
Per quanto attraente, anche questa ipotesi va considerata con cautela. Non disponiamo infatti di
alcun documento che individui in Pieter Claesz van Ruijven il mecenate di Vermeer e nessuna
opera dell’artista di Delft è menzionata tra i suoi beni. Il prestito che, secondo Montias, Van
Ruijven concesse all’artista nel 1657 “come anticipo sull’acquisto di uno o più dipinti”, non sembra
8 affatto rientrare in un accordo di questo genere. Al contrario, nel contratto di prestito Vermeer e
Catharina Bolnes promettono di “restituire la somma entro un anno… con gli interessi… finché il
debito non sarà ripagato per intero”. Nel caso in cui non avessero rispettato l’impegno,
acconsentivano a “essere condannati dai giudici di questa città”. Il documento non menziona
affatto la possibilità di ripagare il debito con i quadri. Se è verosimile che Van Ruijven abbia
acquistato da Vermeer un certo numero di dipinti, appare tuttavia improbabile che egli svolgesse
nella sua vita il ruolo fondamentale ipotizzato da Montias. Se così fosse stato, quando nel 1663
l’artista ricevette la visita del viaggiatore e scrittore francese Balthasar de Monconys e gli disse che
non aveva quadri da mostrargli, questi si sarebbe recato subito da Van Ruijven anziché da un
fornaio – presumibilmente Hendrick van Buyten. Altro documenti attestano che le difficoltà
finanziarie di Vermeer verso la fine della sua vita iniziarono prima della morte di Van Ruijven,
avvenuta nel 1674. In un atto del 1677, ad esempio, la vedova di Vermeer dichiara che l’artista
“non era riuscito a vendere nessuno dei suoi quadri” fin dalla guerra col re di Francia (1672) e
l’accumulo dei debiti con cui Catharina dovette lottare dopo la morte del marito illustra
efficacemente lo stato di indigenza in cui versava la famiglia. Gli scarsi documenti relativi alla
cessione delle opere di Vermeer dopo la sua morte riguardano soprattutto L’atelier del pittore
(Johannes Vermeer, L’atelier del pittore, 1666-1668 ca., olio su tela, Kunsthistorisches Museum,
Vienna), eseguito verso la fine degli anni sessanta, che rimase di proprietà dell’artista fino alla sua
morte. Anche nei periodi di tremende ristrettezze economiche, quando Vermeer lottava per nutrire
e vestire i suoi figli, il dipinto era sempre rimasto in possesso della famiglia. Dopo la morte
del’artista e la sua sepoltura nella Oude Kerk a Delft (Jan van der Heyden, Veduta di Delft, 1660 ca.,
olio su tavola, Nationalmuseum, Oslo), Catharina Bolnes e la madre Maria Thins fecero di tutto
per non disfarsi del dipinto, mentre tentavano di risanare la loro situazione economica. Il 24
febbraio 1676 Catharina cedette formalmente il dipinto alla madre per evitare che finisse nelle
mani dei creditori. Gli sforzi della vedova di serbare per sé L’atelier del pittore, evitando che fosse
messo all’asta insieme ad altre opere di Vermeer il 15 marzo 1677, quasi certamente non andarono
a buon fine. L’esecutore testamentario Anthonie van Leeuwenhoek, celebre per i suoi studi sul
microscopio e forse modello dell’Astronomo ((fig/cat. Johannes Vermeer, L’astronomo, 1668, olio su
tela, Musée du Louvre, Parigi), stabilì l’illegalità della cessione dell’opera alla suocera del defunto,
Maria Thins. Sfortunatamente, sappiamo soltanto che andarono all’asta ventisei dipinti di
proprietà dell’artista ma non ne conosciamo i titoli, né gli esiti della vendita. Ciò nonostante, anche
se è possibile che alcune di queste opere fossero state acquistate da Vermeer nell’ambito della sua
attività di mercante d’arte, appare improbabile che L’atelier del pittore sia stata l’unica sua opera
venduta all’epoca. Qualsiasi fosse il ruolo di Van Ruijven nella vita dell’artista di Delft, è probabile
che alcuni dipinti della collezione Dissius siano stati acquistati in quell’occasione. Il prezzo
stabilito non doveva essere molto alto, visto che l’economia, e in particolare il mercato dell’arte,
soffriva ancora degli effetti dell’invasione francese del 1672. Avendo appena ricevuto una cospicua
eredità e appartenendo a una famiglia che ovviamente aveva stretti contatti con l’artista,
Magdalena potrebbe aver acquistato lei stessa i dipinti. Un’altra possibilità è che alcuni dei
Vermeer di Jacob Dissius provenissero dal suo ramo familiare. L’inventario completo dei beni
della coppia, stilato nel 1683 – un anno dopo la morte di Magdalena – comprendeva ben 20 dipinti
dell’artista di Delft, anche se la loro provenienza dalla famiglia della donna non è certa. Di fatto,
data la clausola piuttosto inconsueta del testamento di Magdalena, che assegnava al padre del
marito, Abraham Jacobsz Dissius – uno stampatore che risiedeva sulla Piazza del mercato, non
lontano da Vermeer – la metà dei suoi beni rivela che probabilmente entrambe le famiglie avevano
apportato sostanziosi contributi. Alla morte di Abraham nel 1694, la collezione entrò in possesso di
Jacob Dissius. L’anno seguente, quando anche Jacob morì, l’intera raccolta, comprese le ventuno
opere di Vermeer, venne messa all’asta ad Amsterdam, il 16 maggio 1696.
FORTUNA POSTUMA
Secondo la leggenda, la fama e l’opera di Vermeer caddero completamente nell’oblio finché non
vennero riscoperte alla metà dell’Ottocento da Étienne-Joseph-Théophile Thoré (1807-1869),
collezionista, critico e mercante d’arte francese che scriveva sotto lo pseudonimo di William
Bürger. Le pagine piene di entusiasmo che egli dedicò all’artista di Delft contribuirono in buona
parte a riportare il maestro olandese all’attenzione del grande pubblico, che sarebbe sfociata nella
vera e propria smania per Vermeer cui assistiamo ancor oggi Thoré-Bürger intraprese un
pellegrinaggio alla ricerca di tutti i Vermeer che poteva trovare e riuscì a riattribuire al maestro un
certo numero di opere. In realtà, l’artista non fu mai completamente dimenticato: i suoi dipinti
vennero anzi notevolmente apprezzati in tutto il corso del Settecento e dell’Ottocento da una
9 ristretta cerchia di collezionisti, soprattutto ad Amsterdam. Il motivo delle diverse attribuzioni – a
Pieter de Hooch, Gabriel Metsu, Frans van Mieris il Vecchio e Rembrandt van Rijn – può essere
rintracciato nel fatto che i suoi dipinti comparivano piuttosto raramente nelle aste pubbliche
rispetto a quelli degli artisti citati.
Via via che la celebrità di Vermeer raggiungeva vertici senza precedenti nel corso del XX e XXI
secolo, il suo ruolo nel contesto del Seicento olandese è divenuto sempre più difficile da valutare in
maniera oggettiva. In ogni sua pennellata si ravvisa il segno del genio, ogni opera appare
insuperata per la qualità dell’esecuzione. Tuttavia, come dimostra la presente esposizione,
Vermeer operava in un ambiente artistico particolarmente dinamico, insieme ad altri pittori di
talento come lui dediti all’esplorazione di tematiche simili a quelle trattate nelle sue opere. Molti di
essi erano in grado di eguagliare la sua straordinaria abilità nel catturare gli effetti di luce e nel
rendere le superfici per creare immagini della realtà. Ciò che differenzia Vermeer dagli altri, e lo
rende unico, è la capacità di conferire una qualità atemporale a scene di vita quotidiana. Le sue
opere trasmettono contenuti e interessi comuni all’umanità, che continuano a riecheggiare in noi a
distanza di secoli dalla loro creazione.
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Vermeer il secolo d`oro dell`arte olandese