“In caso di mancato recapito, rinviare all’Ufficio Postale di Milano CMP-Roserio, detentore del conto, per la restituzione al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa”. Sistema Università Notiziario trimestrale Anno IX, n. 37 Settembre 2011 Autorizzazione n. 320 del Tribunale di Milano - 11/5/1996 Poste Italiane Spa Spedizione in A.P. - 70% LO/MI Crescere in tempi difficili di Dario Casati pag. 2 Il museo mineralogico di Rosangela Bocchio pag.. 3 L’Archivio Colla al Centro Apice di Martino Marazzi Gli ostraka della Collezione Milano Vogliano pag. 4 di Claudio Gallazzi pag. 6 La nuova pubblicazione di Egittologia AWIN: il progetto europeo sul benessere animale di Patrizia Piacentini di Silvana Mattiello, Sara Barbieri, Lorenzo Ferrari e Elisabetta Canali pag. 7 pag. 9 Un quadro in evoluzione di Guido Sali pag. 10 EDITORIALE Crescere in tempi difficili di Dario Casati, Prorettore, Università degli Studi di Milano. 2 L a predisposizione del Bilancio di previsione ha assunto una crescente importanza, trasformandosi, da un’operazione in apparenza solo ragionieristica e di scarso interesse immediato, in un momento di rigorosa riflessione su obiettivi, priorità e, in parallelo, sulle risorse disponibili. La gestione dell’Università divenuta, non per nostra scelta, sempre più complessa e, per certi aspetti, quasi ostica ci richiama all’assunzione di una maggiore responsabilità: esistono limiti invalicabili a cui non eravamo abituati a prestare attenzione, le risorse non sono illimitate e nemmeno crescenti, una serie di eventi economici di cui non coglievamo il collegamento con l’Università, al contrario, incidono profondamente sulla sua vita. Di fronte a ciò si sarebbero potute assumere due diverse modalità di comportamento: provvedere ad una stesura del Bilancio di previsione formalmente corretta, ma in cui ci si limitava a prendere atto passivamente delle crescenti difficoltà, oppure elaborare, entro i limiti della rigidità della spesa e della contrazione delle entrate, un bilancio che fosse davvero programmatico, almeno per quanto consentito, e contenesse indicazioni su come l’Ateneo intendeva reagire al nuovo contesto. A questo criterio ci siamo attenuti in questi anni, anche con l’approvazione nel Consiglio di amministrazione di dicembre 2011 del Bilancio per il 2012. Un bilancio predisposto ed approvato ancora in assenza della precisa entità delle risorse trasferite dallo Stato per il 2011: anche se gli elementi nel frattempo emersi appaiono complessivamente tali da consolidare le previsioni. Dopo la devastante minaccia di tagli prodotta nel 2008, le manovre effettivamente sviluppate per il 2010 e il 2011 ne hanno considerevolmente ridotto l’impatto negativo. L’introduzione di percentuali premiali nella definizione del FFO ha avuto conseguenze decisamente positive per la nostra Università, che ha visto riconosciuto, e una volta tanto non in modo platonico, il suo impegno nella ricerca. La situazione complessivamente drammatica della finanza pubblica non deve indurre a facili ottimismi. Ma possiamo guardare con relativa fiducia al futuro immediato, e cioè al nuovo anno; con qualche timore prudenziale in più a quello successivo, ma prevedendo in ogni caso condizioni migliori che in passato. Per il dettaglio delle cifre e l’allocazione delle diverse voci rinviamo direttamente al documento di bilancio, mentre vorremmo sviluppare qualche considerazione sulla logica che ha animato gli organi di governo. Stiamo affrontando contemporaneamente due passaggi molto critici: la trasformazione dell’Ateneo conseguente all’applicazione della legge 240/2010, che assorbe energie consistenti, ma che dovrebbe consentire una gestione più attenta e una maggiore valorizzazione delle risorse umane, finanziarie e strutturali; la grande operazione di avvicendamento delle risorse umane, dettata dai nuovi vincoli sul pensionamento dei docenti e sul parziale recupero delle risorse finanziarie che si liberano, con la creazione di nuove figure, come i ricercatori a tempo determinato, l’attivazione delle nuove modalità di selezione dei docenti, le soluzioni da adottare per la progressione delle carriere. Con un uso attento delle risorse disponibili e di quelle assegnate in relazione alla riforma l’Ateneo vuole riprendere il suo cammino di crescita per un apprezzamento sempre più evidente della sua qualità, attestata dalla collocazione nei ranking internazionali più seri. Lo abbiamo già fatto nel 2011 e con il bilancio 2012 la nostra Università indica come proseguire nell’immediato futuro. È questo il senso profondo del cambiamento del significato di un bilancio che valorizza anche la necessità di rafforzare gli interventi strutturali che a fine 2011vengono rimessi in movimento: con l’avvio del completamento del Polo di Lodi, la costruzione dell’edificio per gli Informatici e i doverosi interventi sulla messa in sicurezza. Il 2012 ci vedrà impegnati nella sfida della costruzione del nuovo assetto dell’Università, basato sulle rinnovate competenze delle strutture. Ma non si ferma (non si può fermare!) l’attività ordinaria, mentre ricominciamo a investire per il futuro dell’Ateneo dopo anni di stasi dei grandi progetti, a partire da quelli di supporto alla ricerca e alla didattica. Milano, 30 gennaio 2012 Foto di Glenda Mereghetti Università Sistema Collezioni Il museo mineralogico di Rosangela Bocchio, Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” (sezione di Mineralogia e Petrografia), Università degli Studi di Milano. I l Museo delle collezioni mineralogiche, gemmologiche, petrografiche e giacimentologiche è stato istituito formalmente nel 2004. Esso è situato in via Botticelli 23 presso la Sezione di Mineralogia del Dipartimento di Scienze della Terra “Ardito Desio” e comprende un vasto patrimonio storico di minerali, gemme, rocce e campioni di interesse giacimentologico raccolti a partire dal 1937, anno in cui avvenne il trasferimento in questa sede degli Istituti di Mineralogia e Geologia dell’Università degli Studi di Milano. Infatti, fino dal 1924, anno di fondazione dell’Ateneo milanese, i due istituti erano stati ospitati presso il Museo Civico di Storia Naturale della città e avevano potuto godere dei Gabinetti di Mineralogia, Geologia e Paleontologia in esso presenti. Nel corso degli anni, grazie al contributo dei docenti, dei ricercatori e degli studenti, le collezioni sono diventate via via sempre più consistenti per quanto riguarda gli allestimenti, il numero dei campioni e il loro valore. La raccolta del materiale museologico cominciò a costituirsi con il trasferimento nella nuova sede ed avvenne ad opera di Emanuele Grill (1884-1961), al tempo Direttore del nuovo Istituto di Mineralogia, che ottenne dal Consiglio di amministrazione dell’Università una assegnazione di fondi per l’acquisto di una collezione di minerali e rocce appartenente agli eredi di un famoso collezionista, l’Ing. Eugenio Bazzi (1862-1929). La collezione Bazzi, costituita da qualche migliaio di pezzi, molti dei quali eccezionali, era nota in tutto il mondo scientifico e comprendeva una parte sistematica mondiale e alcune collezioni regionali di aree italiane mineralogicamente molto significative, composte da campioni raccolti nei primi anni del 1900. L’intera collezione Bazzi, che costituisce tuttora il nucleo più importante delle raccolte di minerali del Museo, fu acquistata per la somma di Lire 45.000, con la clausola che il pagamento fosse effettuato nell’arco di tre anni, dal 1939 al 1941, in rate di Lire 15.000 ciascuna. Una piccola parte dei minerali della collezione Bazzi venne subito esposta ma, purtroppo, con l’avvento dei tristi anni della seconda guerra mondiale (1940-1945), Grill si vide costretto a ricoverare i campioni nelle cantine dell’Istituto per ripararli dai bombardamenti. Nel dopoguerra furono Giovanna Pagliani e Gustavo Fagnani (in seguito anch’essi professori dell’Università) ad aiutare Grill a riordinare e catalogare tutti i campioni, creando anche le prime collezioni didattiche. Lo spazio espositivo del Museo aumentò significativamente nel 1955, anno in cui l’Istituto di Geologia lasciò la sede di via Botticelli per trasferirsi in quella nuova di Piazzale Gorini. L’Istituto di Mineralogia venne rimodernato e, grazie anche al contributo di Giuseppe Schiavinato (1915-1996) che sostituì nel 1955 Grill alla cattedra di Mineralogia, le collezioni dei minerali e delle rocce si arricchirono di nuovi campioni. In particolare, è opportuno ricordare l’allestimento, nel 1961, di una collezione regionale alpina con i fondi donati dagli eredi di Luigi Magistretti (1886-1958), altro famoso collezionista milanese di minerali. Nella sala a lui dedicata sono attualmente esposti numerosi campioni provenienti da tutte le Alpi e appartenenti per la maggior parte alla collezione Bazzi, ad eccezione di alcuni campioni del Gottardo, di Baveno, della Val Malenco e della Val Codera donati dagli stessi eredi di Magistretti. Dai primi anni Sessanta del secolo scorso cominciò ad essere notevolmente incrementato, grazie al contributo del personale di tutto l’Istituto, anche il numero dei campioni della collezione di rocce, che divenne poco alla volta rappresentativa dei principali litotipi presenti in Italia e di molte aree del resto del mondo.Tali rocce, raccolte durante le campagne di rilevamento o in occasione di congressi e di spedizioni scientifiche, oltre a costituire un materiale espositivo molto interessante, sono state o sono tuttora anche oggetto di studi e di ricerche pubblicate su riviste italiane ed estere. Negli stessi anni venne iniziato anche l’allestimento di una vasta collezione di campioni di interesse giacimentologico provenienti da tutto il mondo. Il promotore di questa iniziativa fu Dino di Colbertaldo (1913-1972), titolare della cattedra di Giacimenti Minerari dal 1962. La collezione giacimentologica venne curata dallo stesso di Colbertaldo fino al 1972, anno della sua prematura scomparsa e poi, per oltre i tre successivi decenni, da Luciano Brigo e Ida Venerandi. I campioni presenti sono rappresentativi delle mineralizzazioni di alcuni dei più importanti giacimenti italiani e stranieri, frutto di ricerche e campagne di studio di allievi e studenti e in parte provenienti da donazioni di società minerarie cui era stato richiesto il contributo. Nei primi anni settanta del secolo scorso la ristrutturazione dell’edificio portò ad un notevole incremento dello spazio espositivo delle collezioni, meglio valorizzate grazie ai nuovi allestimenti curati, in modo particolare, da Bona Bianchi Potenza, che occupò la qualifica di Conservatore di Museo nel periodo 1967-1996. Nel 1982 gli Istituti di Geofisica, Geologia, Mineralogia e Paleontologia si fusero in una unica struttura, il Dipartimento di Scienze della Terra, che tuttavia mantenne distinte, in quanto ubicate in edifici diversi, le tre sezioni di Geologia e Paleontologia, di Mineralogia, Petrografia, Geochimica e Giacimenti minerari e di Geofisica. Anche nell’ambito della nuova struttura, le collezioni di via Botticelli continuarono ad essere costantemente arricchite sia mediante acquisti diretti di singoli campioni da commercianti di minerali milanesi e lombardi, sia mediante acquisizioni da collezionisti privati di intere collezioni composte da un rilevante numero di campioni. Ad incrementare il numero delle specie mineralogiche presenti contribuirono anche numerose donazioni di membri della Sezione di Mineralogia o di ex allievi dei corsi di laurea in Scienze Geologiche e Scienze Naturali.Va ricordato, in particolare, che Giuseppe Schiavinato nel 1995 donò tutti i campioni di rocce e minerali da lui raccolti in occasione di Congressi internazionali. Nel 2004, alle collezioni mineralogiche, gemmologiche, petrografiche e giacimentologiche della Sezione di Mineralogia venne attribuito, con decreto rettorale, lo stato di Museo. Il riconoscimento del valore culturale e scientifico delle collezioni presenti nell’edificio di via Botticelli fu da stimolo per Achille Blasi, Direttore del Museo dal 2004 al 2010, per incrementare il patrimonio mineralogico mediante l’acquisto di una collezione di oltre 3.000 campioni (collezione Borrelli), per curare l’allestimento di nuove vetrine (acquistate grazie all’acquisizione di fondi regionali) e per aumentare e valorizzare ulteriormente lo spazio espositivo. La nuova sistemazione ha riguardato il piano rialzato e il 1° piano dell’edificio e l’Aula E, situata nel seminterrato. Il patrimonio museologico attuale comprende 13.000 esemplari di minerali e di gemme, sia naturali che sintetiche, e una raccolta costituita da circa 33.000 rocce e campioni di interesse giacimentologico. Il Museo dispone anche di altro materiale museale didattico costituito da strutture atomiche di minerali, modelli di poliedri cristallini, tabelloni didattici d’epoca, strumenti scientifici di interesse storico e un pregevole patrimonio librario di antiquariato. Di seguito una breve descrizione delle collezioni. - Le collezioni mineralogiche comprendono circa 10.000 campioni di cui oltre 1.400 esposti nelle vetrine.Tra i minerali più significativi della regione alpina attualmente esposti ricordiamo i famosi 3 Università Sistema Collezioni demantoidi della Val Malenco e un campione di quarzo, ortoclasio e fluorite di Baveno, citato tra i minerali più belli del mondo (P. Bancroft, The world’s finest minerals and crystals, 1973). Quest’anno, per celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia, è stata allestita ed esposta una selezione di minerali provenienti dalle diverse regioni italiane ed appartenenti alle numerose collezioni storiche del Museo. - Le collezioni gemmologiche comprendono circa 300 campioni di gemme naturali e sintetiche di cui oltre 250 in vetrina. Recentemente sono entrate a fare parte della collezione alcune olivine della Sardegna e due tanzaniti, oggetto di ricerche tuttora in corso. - Le collezioni petrografiche comprendono circa 30.000 campioni di rocce di cui oltre 1.000 esposti in vetrine. Pregevoli sono le raccolte litologiche regionali italiane e le lastre lucidate di pietre ornamentali usate in edilizia e provenienti da varie località italiane ed estere. Da citare sono anche le collezioni di rocce delle diverse aeree del mondo oggetto di spedizioni scientifiche. - Le collezioni giacimentologiche comprendono circa 3.000 campioni di interesse giacimentologico, di cui oltre 900 esposti in vetrine e circa 400 provenienti dai più importanti depositi metalliferi e di minerali industriali coltivati in Italia e all’estero. I campioni, spesso di notevoli dimensioni, rivestono un particolare interesse scientifico in quanto, in molti casi, nei siti di provenienza l’attività estrattiva è ormai esaurita. Ricordiamo una serie di campioni, storici e recentemente acquisiti, provenienti dall’importante complesso minerario di Trepcha (Kosovo). Il Museo occupa una parte significativa all’interno del patrimonio storico-scientifico dell’Università. Nel suo ambito si svolgono attività di ricerca, di didattica e di informazione scientifica. La realizzazione di tutti questi comparti e la gestione stessa del Museo (allestimenti, catalogazione, aggiornamento) potrebbero essere significativamente migliorati attraverso l’individuazione e l’acquisizione di personale tecnico e scientifico professionalmente preparato ad affrontare nuove progettualità. Apice L’Archivio storico del Teatro delle Marionette Colla al Centro Apice di Martino Marazzi, Dipartimento di Filologia moderna, Università degli Studi di Milano. H a trovato una sistemazione presso il Centro Apice una parte cospicua del poliedrico patrimonio storico del Teatro delle Marionette di Gianni e Cosetta Colla.“Sistemazione” è vocabolo che, nel caso del teatro delle marionette, suona quasi ossimorico, tanto mobili le figure sul palco, misteriosamente cangiante la loro espressività, rischiosa la scommessa artistica dei marionettisti e dell’intera operazione drammaturgica, complicata la gestione – stagione dopo stagione – di compagnie la cui esistenza (e ormai, occorre dire, sopravvivenza) appare quasi da sempre in bilico fra il fascino e il consenso manifestato dagli spettatori, e la distrazione – quando non l’indifferenza – delle istituzioni “grandi”. In questo senso, l’attenzione dell’Università degli Studi di Milano potrebbe persino essere vista come il segnale di un’auspicabile controtendenza nei confronti di una tradizione teatrale tanto riconosciuta e consolidata quanto erroneamente e frettolosamente giudicata “minore” o di scarso rilievo. Il discorso non chiama in causa solo il Teatro di Gianni e Cosetta Colla, anche se l’attuale acquisizione ci invita ovviamente a partire da qui; il nuovo fondo archivistico offre a studiosi, studenti, appassionati un’occasione unica per addentrarsi con cognizione di causa nel suo universo, al tempo stesso storicamente reale, intriso di materialità, ma anche meravigliosamente fantasmagorico. Il Teatro della Marionette è di casa non lontano dal Centro Apice, al milanese Teatro della Quattordicesima (dopo una peregrinazione che l’ha visto attivo, negli ultimi decenni, al Litta, al Teatro dell’Arte, agli Olivetani; da anni langue in rovina il Gerolamo, eponimo simbolo del marionettismo meneghino). Attualmente vi operano la seconda e la terza generazione di Colla discendenti di Gianni, il quale (19061998), fondatore dell’attuale compagnia, era a sua volta figlio, nipote e bisnipote d’arte, di un Giovanni già marionettista nel periodo napoleonico, col suo teatro di giro, fra Piemonte, Lombardia ed Emilia. Come per i Rame, i Preti, i Campogalliani, i Ferrari, i Reccardini, i Fiando, i Lupi, gli Aimino, i Razzetti, i Corelli, i Monticelli, e tanti altri nel corso dell’Ottocento e sino alla prima metà del XX secolo, lungo tutta la penisola e non solo (i pupi siciliani), è il gruppo familiare a garantire – nelle sue diverse componenti generazionali e di genere – la continuità dell’esercizio e la graduale evoluzione del repertorio, come pure la “naturale” eccellenza della difficile professionalità, la quale richiede una padronanza assoluta delle tecniche e una non comune duttilità sia drammatica che produttivo-organizzativa. Del resto, famiglie (più o meno “biologiche”) di marionettisti sono ben documentate nell’intero continente (fiorentissima la tradizione in Francia, Germania e Austria, 4 nell’Europa orientale) e, com’è noto, è di assoluto rilievo anche la storia dei teatri di figura asiatici. Marionette, burattini,“ombre” fanno parte, si può dire, delle strutture antropologiche dell’immaginario eurasiatico. Nella tradizione indiana antica, il sutradhara, narratore-regista delle rappresentazioni teatrali, è – letteralmente – “colui che controlla i fili”; per arrivare all’oggi, una delle ultime proposte dell’avanguardia newyorkese prevede una mise-en-scène della Tempest per mezzo delle figure del bunraku giapponese (Teddy Jefferson, Rorschach Tempest). Si tenga presente che anche in Italia si può parlare, e da almeno due secoli, del repertorio di uno “Shakespeare manipulated” (Susan Young). Lo stesso Gianni Colla, nel 1960, allestisce al Teatrino di Brera una Tempesta con splendide marionette costruite dagli allievi dell’Accademia, per musiche di Niccolò Castiglioni. Nella tradizione marionettistica i grandi classici (anche tragici) convivono con l’eredità del repertorio delle fiabe; il teatro “scritto”, riformato, con la vivacità della commedia dell’arte: volta per volta, intrecciandosi e alternandosi. La fissità delle maschere è, appunto, animata. Shakespeare e le Mille e una notte; Perrault e Andersen; Collodi e Carlo Gozzi; Giulio Cesare Croce e il “Corriere dei Piccoli”; Jules Verne e Pirandello; Buzzati e Rodari; Lewis Carroll e Mark Twain;Tolstoj e Barrie. Ma quel binomio attoriale inscindibile che è la coppia marionettista-marionetta può anche, all’occorrenza, adattarsi alla misura di originalissime opere liriche: per Gianni Colla accadrà soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, in allestimenti (alcuni dei quali scaligeri) del Retablo de Maese Pedro di De Falla, dell’Histoire du soldat di Stravinskij, del Viaggio a Reims di Rossini. E c’è spazio per memorabili sperimentazioni “metamarionettistiche”, come nel capolavoro Ballata per un popolo di legno (Il popolo di legno si intitola la rivelatrice, poetica autobiografia scritta insieme a Gustavo Bonora: 1982). A portare sul piccolo palco la Tempesta di Brera è la compagnia dei “Fratelli Colla”: i vari membri della famiglia (Gianni è l’ultimo di otto fratelli) hanno cominciato a prendere strade diverse. A partire dal 1945, il ramo che fa capo a Gianni, coerentemente con una riflessione sulla logica del proprio teatro che chiama in causa un’idea “sociale” (quasi brechtiana) di pedagogia, e quindi di necessità un’idea dell’immaginario marionettistico in rapporto al proprio pubblico di grandi e piccini, si muove in direzione di un teatro per ragazzi; per conferirgli nuova dignità occorre svecchiare evitando le secche di un facile e corrivo infantilismo. Si ricordi che, sin dall’Ubu Roi del 1896, alle marionette e al marionettismo sono ricorsi anche autori di punta del rinnovamento teatrale europeo: da Jarry, appunto, Università Sistema Apice al Depero dei Balli plastici; dal 1939 al 1949, a Milano, è attivo il teatrino sperimentale di Marta Latis, con cui collaborano fra gli altri Giorgio Strehler e Franca Valeri. Per portare avanti la sua svolta di un teatro indirizzato ai ragazzi, Gianni Colla, anziché abbassare il livello artistico, mette allora in campo collaborazioni altrettanto prestigiose e indicative del suo impegno intellettuale: da nomi già ricordati, come il Buzzati della Famosa invasione degli orsi in Sicilia, a Luigi Veronesi nelle vesti di creatore di marionette, a Coca Frigerio per le scene e i costumi. Dalle carte d’archivio spuntano altre firme non casuali, da Calvino a Paolo Grassi. Lo spettacolo simbolo dell’innovazione è il Pinocchio del 1961: mettendo a frutto una vera e propria interpretazione del capolavoro collodiano e del suo protagonista-avatar in rapporto con la coppia adulta GeppettoFatina, Colla decide di dar corpo agli attori, facendoli interagire sul palco con quelli che già Goldoni, per il suo allestimento marionettistico dello Starnuto d’Ercole, aveva chiamato i “comici di legno”. Ne esce pressoché rivoluzionato l’intero equilibrio scenico e drammaturgico. D’altra parte, è significativo che questa interpretazione-esecuzione sia contemporanea (e anzi preceda) riletture più blasonate del capolavoro di Collodi, come quelle di Carmelo Bene e di Giorgio Manganelli. Si pensi, per analogia, a quanto abbia agìto sottotraccia su uno Shakespeare autenticamente contemporaneo quello dei Sonnets “eseguiti” da Duke Ellington. Il Teatro di Gianni e Cosetta Colla – Compagnia di Marionette e Attori rinasce su queste basi nel 1972. Questa operazione di rottura (cui seguirà con naturalezza, nel 1973, l’introduzione della tecnica “allo scoperto”, che rende visibili al pubblico i marionettisti nerovestiti all’opera sul “ponte”) ottiene il risultato di avvicinare i due pubblici. L’effetto dal vivo è commovente e coinvolgente; la riuscita artistica, certo, si fonda sulla maestria, il talento, il gusto degli esecutori tutti. Ma se al teatro di marionette è connaturato il riferimento al fantastico, tramite il quale grandi e piccini sospendono la propria incredulità, ora l’esplicita sottolineatura dell’effetto di finzione, mentre conferma al bambino e al ragazzo la pratica normale e quotidiana della creazione fantastica alla radice dei meccanismi del gioco, viene vista dall’adulto come un altrettanto naturale portato delle riflessioni teatrali novecentesche sul doppio, la corporeità attoriale, la convenzionalità del rapporto fra scena e realtà. Semplicità e perfezione si sposano nella nuova e “strana” coppia di un Geppetto umano (e marionettista) che dialoga con il suo figlio-creatura di legno. Nella piena pratica scenica, nel rapporto al tempo stesso umanissimo e del tutto artificiale (la “magia” del teatro...) fra attore “reale” e attore “animato”, si raggiunge così quel centro di gravità simbolo di grazia e innocenza al di là del tempo, del senso e, persino, della colpa, su cui aveva memorabilmente teorizzato Kleist nel suo saggio sul teatro delle marionette. I nomi dei teorici (e adepti) del marionettismo formano un’altra, e non meno nobile, famiglia, da Maeterlink a Gordon Craig, dal nostro Yorick a Benjamin, da Kantor a Roberto Leydi. Ma non è ora il caso di allargarsi agli universali: dai tanti storici copioni, dai bozzetti, dai più vari documenti sugli spettacoli, la loro produzione ed esecuzione, la vita della compagnia, oltre che dalla presenza di uno scelto gruppo di marionette, è possibile ricostruire le vicende di una parte importante del teatro e della cultura teatrale italiana, seguirne il lavoro, porsi in ascolto diretto – nella migliore delle ipotesi – dei suoi demiurghi. Come concludeva Gianni Colla,“non sarà esagerato (...) definire il teatro delle marionette un vero e proprio laboratorio drammaturgico e di animazione, il quale, mentre conserva e trasmette la tradizione, introduce le innovazioni più audaci e le soluzioni più rigorose”: come quella, appunto, di parlare “per davvero” a un burattino di legno. O, come nell’Alice, portando in scena con strabiliante energia uno dei grandi racconti letterari sulla crescita al femminile, fra libertà fantastica e richiami all’ordine:Alice è marionetta, ma la Regina di Cuori (Cosetta Colla) urla a ripetizione e a squarciagola di tagliarle la testa, fra scene coloratissime, marionette incredibili, musiche travolgenti. Un’altra perfetta metafora di questo insostituibile teatro, e della inscindibile unità dei suoi due caratteri principali. Le carte e i materiali d’archivio ce ne raccontano, almeno in parte, la storia. 1 2 3 1. Un primo piano del coniglio dell’Alice nel Paese delle Meraviglie. Il debutto dell’Alice è del 1997. 2. Un primo piano del Prospero dalla Tempesta di Shakespeare allestimento 1960. 3. La marionetta della Principessa per l’Histoire du soldat di Stravinskij, realizzata da Luigi Veronesi negli anni Trenta, ha debuttato alla Piccola Scala solo nel 1981. Foto di Paolo Delvecchio. 5 Università Sistema 6 Collezioni Gli ostraka della Collezione Milano Vogliano di Claudio Gallazzi, Dipartimento di Scienze dell’antichità, Centro di Papirologia “Achille Vogliano”, Università degli Studi di Milano. I n uno degli scorsi numeri di Sistema Università si è già trattato della raccolta di reperti scritti che è conservata presso il Laboratorio di Papirologia di via Festa del Perdono e che è conosciuta come Collezione Milano Vogliano. Sebbene fosse piuttosto esteso, quell’articolo si è soffermato unicamente sui papiri, che costituiscono la parte più cospicua e scientificamente più rilevante della collezione. Questa, però, nel corso degli anni, è venuta acquisendo anche varie decine di testi stesi su supporti diversi, ad esempio ostraka, vale a dire cocci di terracotta provenienti da vasellame e recipienti spaccati. Gli ostraka, come si sa, furono utilizzati in Atene, a partire dalla fine del VI sec. a.C., per tracciarvi sopra i nomi delle persone da mandare in esilio con quella pratica che, non a caso, ha preso il nome di ostracismo. Essi, però, erano già impiegati per scrivere nell’Egitto del III millennio a.C. e continuarono ad essere usati sino all’XI sec. d.C. Certamente non costituivano il supporto più funzionale per la scrittura, giacché la loro superficie era piuttosto ridotta, era incurvata e sovente scabrosa; tuttavia non costavano niente ed erano facilmente reperibili in tutti i centri abitati, dove gli oggetti in terracotta, quando si rompevano, venivano lasciati sul posto o gettati sui mucchi di pattume sparsi qua e là fra le case. Per questa ragione gli ostraka furono usati a migliaia per scrivere testi di breve estensione e non destinati a un’archiviazione prolungata: ricevute, attestati, lettere, appunti, liste, conti, esercizi di scuola e formule magiche. I primi ostraka entrarono nella raccolta del nostro Ateneo allorché questa cominciò a formarsi, nel 1934. In quell’anno Achille Vogliano (1881-1953), titolare di Letteratura greca presso la Facoltà di Lettere e filosofia, condusse la sua prima campagna di scavi in Egitto, tra le rovine dell’antica Tebtynis, ed effettuò i suoi primi acquisti di materiale scritto. Come risulta dalla documentazione inclusa nel suo archivio,Vogliano recuperò 38 ostraka a Tebtynis e ne comperò altri 30: una ventina da Maurice Nahman (1868-1948), all’epoca il più noto antiquario del Cairo, i restanti da uno o più venditori locali nell’oasi del Fayûm.Alla fine del ’34 tutti i pezzi furono trasferiti a Milano; e negli anni successivi qualche altro esemplare si aggiunse ad essi: uno raccolto nel 1936 a Narmuthis, dove Vogliano aveva aperto uno scavo, e una decina comperati nel 1938 presso venditori non meglio conosciuti. Con lo scoppio della guerra, nel giugno del 1940, il materiale fu collocato nei sotterranei del Castello Sforzesco, per proteggerlo dai bombardamenti, e là dentro rimase per decenni, senza che nessuno più ne conoscesse la collocazione. Quando tutti ormai lo ritenevano perduto, all’inizio degli Anni Settanta, il materiale venne ritrovato, ma purtroppo in condizioni pessime: a causa dell’umidità dell’ambiente alcuni pezzi erano andati distrutti, parecchi si erano sfaldati e molti avevano subito distacchi dell’inchiostro più o meno estesi. Allorché il lotto dei reperti fu finalmente riportato in Università, nell’aprile del 1990, dell’ottantina di ostraka riposti dentro le gallerie del Castello ne giunsero in via Festa del Perdono solamente 48. Nel frattempo, però, la collezione, sia per le esigenze della ricerca sia per quelle della didattica, si era procurata altri reperti. Due erano stati concessi nel 1967 dal Service des Antiquités dell’Egitto nell’ambito della ripartizione degli oggetti rinvenuti a Narmuthis dalla Missione archeologica dell’Ateneo, che aveva ripreso i lavori di Vogliano. Un altro paio arrivarono dieci anni dopo: erano due attestati di consegna in greco un tempo appartenuti a George Michaïlidis (1900-1973), un grande Figura 1. Conto in greco (III sec. a. C.) collezionista residente al Cairo, la cui raccolta era andata dispersa. 7 pezzi furono comprati nell’84; e subito dopo venne acquisito un importante lotto di oltre 40 reperti, tutti quanti scritti in greco, ma con varie provenienze e diverse collocazioni cronologiche. Un secondo gruppo consistente di pezzi entrò nella raccolta sul finire degli Anni Ottanta: una trentina di esemplari con testi in copto raccolti nell’area dell’odierna Luxor. Così la collezione è arrivata a comprendere 130 pezzi con scritti in demotico, greco e copto, che sono dislocati in un arco cronologico esteso dal III sec. a.C. all’VIII sec. d.C. I reperti con testi in greco sono quelli più numerosi: 88 esemplari, di cui 10 trovati nello scavo a Tebtynis (1934), 3 rinvenuti a Narmuthis (1936, 1966) e i rimanenti acquistati sul mercato. I pezzi raccolti sugli scavi si presentano quasi tutti in condizioni precarie ed in genere portano testi ridotti, in prevalenza un semplice onomastico seguito dal patronimico. Ma fra essi si segnalano 3 cocci del II sec. d.C. venuti alla luce a Tebtynis, che conservano attestati delle consumazioni di birra fatte da membri di associazioni religiose. I regolamenti di queste ultime, conosciuti da alcuni papiri in greco ed in demotico, prevedevano che i soci effettuassero bevute rituali di birra nel corso di varie cerimonie: i 3 ostraka ci offrono una testimonianza diretta di tale consuetudine. Meglio conservati sono gli esemplari comperati, i quali risultano pure assai più vari per contenuto, provenienza e datazione. I più antichi sono un paio di conti scritti nella zona di Tebe (Luxor), che risalgono al III sec. a.C. (Fig. 1). Al II sec. a.C. data, invece, un ordine proveniente dall’oasi del Fayûm, che fu emesso da un komogrammateus, cioè dalla più alta autorità di un villaggio, per dare avvio alla vendemmia in un appezzamento di terra, in quell’epoca, infatti, la raccolta e la pigiatura dell’uva erano sottoposte ad un rigido controllo statale e senza un’autorizzazione esplicita non potevano essere effettuate. Un ordine analogo, impartito dalla stessa persona, è conservato nel Kelsey Museum of Archaeology dell’Università del Michigan (Ann Arbor). Più recenti, cioè collocabili nel I e nel II sec. d.C., sono una dozzina di liste contabili e di ricevute, che arrivano da Tebe e dal suo circondario. Dai forti dislocati lungo le piste, che collegavano la Valle del Nilo al Mar Rosso, vengono, invece, una quindicina di pezzi, che riguardano la vita quotidiana di piccoli distaccamenti militari romani acquartierati in presidi sperduti: sono ordini inviati a subalterni, messaggi scambiati fra commilitoni, attestati per consegne di razioni ed elenchi di turni di guardia, tutti da attribuire al II sec. d.C. Un altro lotto di materiale omogeneo è costituito da 10 esemplari provenienti dal Fayûm, scritti negli anni a cavallo fra il III e il IV sec. d.C. e tutti contenenti ricevute per il pagamento di imposte in natura o per l’adempimento di obblighi in lavoro cui i contribuenti erano tenuti. Rispetto all’insieme degli ostraka greci, il gruppo di quelli scritti in copto è assai meno cospicuo: consta di 36 esemplari situabili nel VII e nell’VIII sec. d.C., di cui 2 scavati nel 1934 a Tebtynis, 3 di origine incerta comperati da Vogliano nel 1938 e i restanti provenienti dal territorio di Tebe, acquisiti alla raccolta sul finire degli Anni Ottanta. I 2 di Tebtynis contengono ricevute per pagamenti di tributi, che sino a pochi anni addietro, cioè sino a quando la Missione congiunta del nostro Ateneo e dell’IFAO del Cairo non ha ripreso gli scavi nell’area, erano gli unici documenti in copto conosciuti per quel grande centro urbano. I pezzi acquistati, invece, nella stragrande maggioranza portano lettere, in qualche caso di carattere Figura 2. Domanda oracolare in copto (VII-VIII sec. a. C.) Università Sistema Collezioni ufficiale. Ma accanto a queste troviamo pure testi di contenuto nettamente diverso e talora poco usuale. Ad esempio, abbiamo due esercizi scolastici: uno con le lettere dell’alfabeto tracciate più volte da un principiante, l’altro costituito da una frase scritta dal maestro nella prima riga e successivamente copiata dall’allievo sino all’esaurimento della superficie del coccio. Incontriamo poi un paio di domande oracolari, che riflettono la pratica assai diffusa di chiedere responsi alla divinità sottoponendole domande scritte. Queste in genere erano due per ogni quesito: una formulata in modo positivo, l’altra in modo negativo. I due testi venivano deposti davanti all’immagine della divinità; poi, con procedimenti a noi sconosciuti, si effettuava la scelta di uno di essi, che costituiva il responso. Nell’Egitto tolemaico, romano e bizantino, cioè dal IV sec. a.C. in poi, le domande di norma erano scritte su foglietti di papiro; nel nostro caso, invece, sono eccezionalmente stese su pezzi di coccio. Una riguarda l’acquisto di un terreno, l’altra la posizione occupata da una certa persona (Fig. 2). Oltre agli esercizi di scuola e alle domande oracolari, merita una citazione specifica almeno un altro reperto, che fu scritto ben tre volte. Dapprima vi fu steso un conto sulla superficie convessa; poi ne fu tracciato un altro su quella concava; indi il testo scritto per primo fu parzialmente cancellato e al suo posto vennero aggiunti i nomi di alcuni dei 40 Martiri di Sebaste. Il coccio diventò così un insolito filatterio, cioè un amuleto protettivo, realizzato senza pretese di accuratezza, ma non per questo privo di efficacia, almeno nelle speranze di chi lo preparò. Ancora meno numerosi degli esemplari in copto sono quelli scritti in demotico: appena 9, raccolti da Vogliano a Tebtynis durante i suoi scavi del ’34. Sfortunatamente questi pochi pezzi, che forse erano già in condizioni precarie al momento del recupero, si sono ulteriormente guastati durante gli anni trascorsi nei sotterranei del Castello; sicché ora si può soltanto dire che essi portano i resti di liste e di conti situabili nel periodo compreso fra il II sec. a.C. e il I sec. d.C. Di tutti i reperti della raccolta solo 25 sono stati finora editi: 9 con testi in greco e 16 scritti in copto. Però l’insieme dei pezzi è dettagliatamente catalogato, viene studiato regolarmente e ha già offerto materiale per una tesi di laurea, oltre che per innumerevoli esercitazioni. Si conta quindi di presentare fra non molto l’edizione degli ostraka greci in uno specifico volume, mentre quelli copti e quelli demotici, non sufficienti per formare volumi, saranno pubblicati insieme ai papiri scritti nella stessa maniera. Quando i testi appariranno si vedrà ancora meglio quale sia l’interesse scientifico della raccolta e quale importanza essa abbia per il patrimonio culturale di Milano. In Italia le collezioni di ostraka sono ancora meno di quelle di papiri: la più consistente si trova al Museo Egizio di Torino, una abbastanza ampia è all’Università di Pisa, un centinaio di pezzi stanno all’Università di Padova, esigui lotti sono conservati a Firenze e al Castello Sforzesco. Ma i reperti di Torino sono pressoché tutti in egiziano, così come quelli di Pisa, mentre i testi di Padova sono tutti greci e vengono da un unico sito. La Collezione Milano Vogliano, invece, comprende esemplari in varie lingue, con provenienze differenti e datazioni diverse; conseguentemente offre una campionatura ben più vasta e più articolata dell’utilizzo di un supporto della scrittura che a noi appare sorprendente, ma che in epoca antica fu diffusissimo. Le vetrine del sapere La nuova pubblicazione di Egittologia di Patrizia Piacentini, Dipartimento di Scienze dell’antichità, Università degli Studi di Milano. G li straordinari materiali d’archivio, fotografie, disegni, libri antichi e rari, conservati nella Biblioteca e Archivi di Egittologia dell’Università degli Studi di Milano, vengono presentati, in molti casi per la prima volta, nell’opera in due volumi Egypt and the Pharaohs. Pharaonic Egypt in the Archives and Libraries of the Università degli Studi di Milano. Il primo volume reca come sottotitolo From the Sand to the Library, il secondo From Conservation to Enjoyment (entrambi pubblicati nella collana di «Le vetrine del sapere», edita da Università degli Studi di Milano e Skira). A partire dal 1999 l’Ateneo milanese ha condotto, con l’aiuto della Fondazione Cariplo e di alcuni generosi mecenati, una sistematica politica di acquisizione di collezioni librarie e archivistiche egittologiche, che ha portato in pochi anni alla creazione di un centro di ricerca di eccellenza. La pubblicazione dei due volumi costituisce una sorta di celebrazione del decennale della Biblioteca e degli Archivi, ma ancor più degli studiosi che, con il loro paziente lavoro sul campo e nelle biblioteche, hanno fatto la storia dell’Egittologia. Vi sono presentate le prime esplorazioni dei siti antichi e le grandi scoperte archeologiche compiute in Egitto, le tappe della decifrazione dei geroglifici e della comprensione della civiltà egiziana, la ricostruzione della storia dei faraoni e del loro popolo attraverso una documentazione variegata e ricchissima, fatta di libri e di documenti d’archivio, conservata a Milano. I momenti salienti della nascita e della strutturazione della disciplina vengono presentati dal celebre egittologo egiziano Zahi Hawass che, negli anni recenti della sua direzione del Supreme Council of Antiquities, ha introdotto nuove regole a protezione e valorizzazione del patrimonio archeologico, artistico e architettonico del Paese, allargando la conoscenza dell’Egitto antico anche al grande pubblico grazie a una capillare utilizzazione dei media. Hawass racconta le imprese dei principali egittologi egiziani e del resto del mondo impegnati in scavi e ricerche nella terra dei faraoni, e le principali scoperte da lui stesso effettuate. Alcune di esse sono state compiute partendo da quelle degli archeologi del passato, come la recente identificazione – grazie all’incrocio di dati storico-archeologici e a test del DNA – di alcune mummie ritrovate da Victor Loret nel 1898 nella tomba di Amenhotep II nella Valle dei Re. La documentazione relativa a questa scoperta di fine Ottocento, e in particolare il giornale e le fotografie di scavo dell’archeologo, è stata acquisita nel 2002 dagli Archivi egittologici milanesi, e pubblicata nel 2004 da Christian Orsenigo e da chi scrive nel volume La Valle dei Re riscoperta. I giornali di scavo di Victor Loret (18981899) e altri inediti, primo della collana «Le vetrine del sapere». Questo materiale eccezionale è stato inoltre esposto, nel 2008, alla mostraVictor Loret in Egypt. (1881-1899). From the Archives of the Milan University to the Egyptian Museum in Cairo, organizzata dalla Cattedra di Egittologia dell’Università degli Studi di Milano e dalla direzione del Museo Egizio del Cairo, e qui tenutasi dal 19 maggio al 30 giugno 2008. La mostra si inseriva nelle attività di collaborazione tra l’Università milanese, il Museo e il Supreme Council of Antiquities, iniziata alla metà degli anni ’90 e tuttora in corso. In un capitolo redatto con Elmar W. Seibel si traccia poi la storia della diffusione del “mito” dell’Egitto, le prime esplorazioni del Paese, la nascita e lo sviluppo dell’Egittologia attraverso volumi antichi e rari conservati a Milano: da alcune cinquecentine a libri novecenteschi appartenuti ad Howard Carter, scopritore della tomba di Tutankhamon, e a molti altri celebri studiosi. Questi volumi provengono essenzialmente dal fondo Elmar Edel, acquistato dall’Ateneo nel 1999 e composto da circa sedicimila titoli, tra libri ed estratti da riviste, e dal fondo Alexandre Varille, depositato in Biblioteca in comodato da un privato nel 2002 e formato per lo più da libri di pregio. Vengono quindi presentati nel volume i numerosi fondi archivistici egittologici – completi o parziali – raccolti presso l’Università degli Studi di Milano: da quelli di Auguste Mariette, fondatore del Museo Egizio del Cairo, a quelli appartenuti ad altri celebri egittologi, quali Victor Loret, Giuseppe Botti, George Fraser,Alexandre Varille, James Quibell, Pierre Lacau, Bernard V. Bothmer,William Kelly Simpson. Gli archivi costituiscono oggi una nuova frontiera per gli studi egittologici: il loro studio accurato permette infatti di ripercorrere la storia delle ricerche per meglio condurre le esplorazioni future. Si tratta inoltre di materiali non solo di grandissimo interesse egittologico e storico, ma anche pregevolissimi da un punto di vista estetico, com’è il caso degli 7 Università Sistema Le vetrine del sapere acquerelli realizzati da Victor Loret nella Valle dei Re. Christian Orsenigo illustra, attraverso inediti materiali d’archivio, alcune delle più grandi scoperte archeologiche effettuate nel Paese tra i primi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento, dalla necropoli di Saqqara che cominciava a emergere dalla sabbia grazie alle ricerche di Mariette fino alle mummie rinvenute da Loret, dagli ori di Tutankhamon scoperti da Carter e rimasti in Egitto grazie alla determinazione di Lacau, agli argenti dei faraoni di Tanis trovati da Montet, in una galleria sorprendente per la personalità degli archeologi e i materiali portati alla luce. Il più famoso egittologo italiano del Novecento, Sergio Donadoni, racconta quindi, attraverso ricordi personali, alcune lettere inedite e bellissime fotografie, la grande avventura del salvataggio dei monumenti della Nubia che rischiavano di essere sommersi dalle acque del lago Nasser, tra cui il grandioso tempio di Abu Simbel. Il primo volume si conclude con uno sguardo al futuro. Glauco Mantegari e Laura Marucchi illustrano infatti le applicazioni informatiche e le soluzioni più attuali, già adottate dagli Archivi di Egittologia di Milano o che saranno applicate in futuro, per salvaguardare il patrimonio archivistico, fotografico e bibliografico e metterlo a disposizione di un pubblico sempre più vasto. Infine, Elmar Seibel, alla cui paziente ricerca di fondi archivistici e librari si deve il continuo arricchimento della Biblioteca e degli Archivi di Egittologia, immagina il completamento della Biblioteca stessa con opere molto rare e pregiate, che potrebbero andare ad aggiungersi a quelle già presenti. L’augurio è che i fondi archivistici possano essere reperiti nel futuro e che altri egittologi vogliano lasciare la loro documentazione di studio e di scavo presso gli archivi milanesi, seguendo l’esempio generoso del Professor William Kelly Simpson, di Clara e Paola Botti – nipoti di Giuseppe Botti “primo” – di MarieJeanne e Solange Lacau – figlie di Pierre Lacau – e degli illustri studiosi che hanno già promesso i loro archivi. Nel secondo volume, chi scrive riprende la parola per raccontare come nel corso dell’Ottocento siano stati compiuti i primi passi per la protezione del patrimonio archeologico egiziano e siano nati i musei in Egitto, tra cui quello Egizio del Cairo e quello Greco-Romano di Alessandria. Molti aspetti della nascita e degli sviluppi di quest’ultima collezione sono illustrati in una serie di lettere del suo fondatore e primo direttore, Giuseppe Botti “primo”, depositate in comodato negli Archivi di Egittologia della nostra Università.Altre utili informazioni possono dedursi dai documenti conservati nelle collezioni Loret e Lacau dell’Ateneo. La storia del Museo Egizio del Cairo, nelle sue successive sedi di Bulaq, di Giza e del centro della città – oggi piazza Tahrir – è stata ricostruita in molti suoi aspetti inediti grazie a numerosissimi materiali conservati negli Archivi milanesi. Essa è stata illustrata nella mostra The History of the Egyptian Museum, organizzata dalla Cattedra di Egittologia dell’Università degli Studi di Milano e dalla direzione del Museo Egizio del Cairo, e qui tenutasi dal 19 ottobre 2008 al 31 gennaio 2009. La mostra è stata molto apprezzata non solo dai numerosi visitatori internazionali del Museo – tra i quali il Presidente della Repubblica 8 Gli egittologi E. Brugsch, F.W. von Bissing e P. Lacau sulla balconata del Museo di Giza, 12 marzo 1898. Biblioteca e Archivi di Egittologia, Università degli Studi di Milano, fondo Lacau. Giorgio Napolitano – ma anche, e forse ancor più, dal pubblico egiziano, che ha potuto scoprire episodi inediti relativi alla creazione di una delle più importanti istituzioni del Paese e al suo sviluppo nel corso di un secolo e mezzo dalla sua nascita. Laura Marucchi e chi scrive ripercorrono quindi, attraverso immagini di straordinaria bellezza, la storia dei fotografi operanti in Egitto fin dalla nascita della Fotografia verso gli anni ‘40 dell’Ottocento, dai dagherrotipi di Joly de Lotbinière ai calotipi di Maxime Du Camp, da Francis Frith ad Antonio Beato e a molti altri.Vengono quindi presentate le immagini delle prime riprese aeree realizzate nel Paese da Kofler – un personaggio di probabile origine altoatesina di cui non si sa ancora molto ma sul quale si stanno conducendo intense ricerche –, e illustrate le sperimentazioni e la diffusione delle tecniche fotografiche applicate all’archeologia egizia. Una sezione del volume tratta della “fortuna” dell’Egitto nella cultura moderna. Si inizia dalla pittura con un saggio di Fernando Mazzocca relativo agli aspetti dell’antico Egitto più frequentemente ripresi dai pittori del XIX secolo, tra i quali gli italiani Federico Faruffini e Pietro Paoletti. Nel capitolo seguente, la scrivente illustra e analizza criticamente le realizzazioni di ispirazione egizia del pittore “ornatista” italiano Gaetano Lodi. Dopo aver partecipato alla decorazione del foyer dell’Opéra di Parigi e della galleria Vittorio Emanuele a Milano, Lodi nel 1872 partì per l’Egitto dove decorò, tra l’altro, il palazzo del vicerè Ismail Pasha a Giza, in seguito divenuto, nell’ultimo decennio del XIX secolo, sede del Museo Egizio del Cairo. Durante gli anni della sua permanenza in Egitto, Lodi realizzò inoltre i bozzetti preparatori per un servizio in porcellana in stile “egittizzante” commissionato dal vicerè e realizzato tra il 1874 e il 1875 dalla Manifattura Ginori. Grazie a una serie eccezionale di acquerelli, che un collezionista ha concesso in studio alla Cattedra di Egittologia dell’Università milanese, e al raffronto con alcuni pezzi conservati nel Museo Richard-Ginori della Manifattura di Doccia a Sesto Fiorentino, si è potuto infatti provare con certezza che proprio a Gaetano Lodi si deve il raffinato design del prezioso servizio. Il pittore realizzò inoltre la decorazione all’egiziana di una saletta in un palazzo di Bologna, che costituisce un bell’esempio di Egyptian Revival in Italia nella seconda metà del XIX secolo. L’immagine dell’Egitto, come si era formata e andata consolidando a partire dalla Spedizione di Napoleone Bonaparte del 1798-’99 e dalle successive ondate di Egittomania, si riflette anche nell’arte, nei libri e nelle riviste novecentesche, conservate negli Archivi del Centro Apice dell’Università degli Studi di Milano.All’argomento è dedicato il contributo di Antonello Negri e Marta Sironi. Gli Archivi egittologici, infine, hanno ricevuto in deposito temporaneo un’incredibile collezione di oggetti del XIX e XX secolo di ispirazione egizia, formata in particolare da oltre 800 scatolette di sigarette in cartoncino o metallo con decorazioni egittizzanti. Si tratta di un esempio non comune di Egittomania, un fenomeno culturale e di costume cui la Cattedra di Egittologia dell’Università milanese sta dedicando da anni studi specifici. Un capitolo riccamente illustrato su questo argomento chiude, con un sorriso, il volume. Il tempio di Karnak in una fotografia di Heinz Leichter, tra il 1910 e il 1940. Biblioteca e Archivi di Egittologia, Università degli Studi di Milano, fondo Varille. Università Sistema Ricerca AWIN:il progetto europeo sul benessere animale di Silvana Mattiello, Sara Barbieri, Lorenzo Ferrari e Elisabetta Canali, Dipartimento di Scienze animali Sezione di Zootecnica veterinaria, Università degli Studi di Milano. N ell’ambito del 7° Programma Quadro dell’Unione Europea (FP7KBBE-2010-4), il Dipartimento di Scienze Animali (DSA) partecipa al nuovo progetto Development, integration and dissemination of animal-based welfare indicators, including pain, in commercially important husbandry species, with special emphasis on small ruminants, equidae e turkeys, coordinato da Adroaldo Zanella dello Scottish Agricultural College. Si tratta di uno dei più importanti studi europei sinora finanziati, dedicato all’approfondimento dei temi riguardanti il benessere degli animali da reddito. Questa tematica è oggetto di una crescente attenzione non solo da parte dell’ambiente scientifico, ma anche dell’opinione pubblica: il benessere animale è diventato negli ultimi decenni argomento di attualità, al centro di discussioni e dibattiti tra allevatori, consumatori e tutti coloro che operano nel settore delle produzioni animali. Le esigenze dei consumatori stanno cambiando velocemente. Il consumatore è alla continua ricerca di prodotti con elevati livelli qualitativi e, tra le caratteristiche di qualità richieste, sempre più spesso compare anche la certificazione di processi produttivi che siano in grado di garantire un adeguato livello di benessere agli animali. Numerosi autori hanno proposto, nel corso degli anni, una definizione di “benessere animale” che risultasse accettabile sia dal punto di vista scientifico che da quello etico, riuscendo spesso a conciliare i due aspetti. Tra tutte le definizioni, quella data da Hughes e Duncan nel 1988 può essere considerata sufficientemente esaustiva e allo stesso tempo chiara e concisa:“Il benessere è uno stato generale di buon equilibrio fisico-mentale in cui l’animale si trova in armonia con l’ambiente circostante”. L’animale deve quindi essere messo in condizione di potersi adattare all’ambiente in cui viene allevato e l’uomo è responsabile della qualità di tale ambiente. La domanda sempre più pressante per la ricerca di soluzioni di allevamento orientate al benessere animale rende necessario lo sviluppo di un metodo semplice ma valido per la valutazione delle condizioni in cui vivono gli animali che alleviamo. Attivato ufficialmente nel maggio 2011, grazie a un finanziamento di circa 5 milioni di euro, il Progetto AWIN (acronimo di Animal Welfare Indicators) si compone di quattro linee di ricerca (Work Packages), ognuna mirata al raggiungimento di uno specifico obiettivo: individuare un “protocollo di valutazione del benessere in campo” che possieda quattro fondamentali caratteristiche (validità, semplicità di utilizzo, economicità e accettazione da parte degli allevatori); comprendere la reale percezione del dolore degli animali rispetto ad alcune pratiche di allevamento, al fine di vagliare procedure alternative; stabilire l’effetto dell’ambiente prenatale e neonatale sul futuro benessere degli animali allevati; attivare un programma globale di divulgazione ed educazione in tema di benessere animale, con metodiche innovative e interattive. Il diretto e importante coinvolgimento dell’Università degli Studi di Milano si concretizza attraverso il lavoro del gruppo di ricerca del DSA che si occupa di benessere animale e produzioni sostenibili. Il gruppo coordinerà infatti la linea di ricerca,che prevede la stesura di protocolli basati sull’utilizzo di indicatori di pratico utilizzo in allevamento, al fine di permettere la valutazione del benessere di cavalli, asini, pecore, capre e tacchini. Il progetto rappresenta il logico proseguimento del precedente progetto europeo denominato Welfare Quality ® (nel quale il DSA era già stato attivamente coinvolto), che si era a suo tempo focalizzato sulla messa a punto di protocolli per la valutazione in allevamento del benessere di bovini, suini e polli. Il 9 e 10 novembre 2011, presso la Rappresentanza della Commissione Europea a Milano, ha avuto luogo il primo meeting degli esperti, nel corso del quale sono stati presentati e discussi i risultati del lavoro di revisione della letteratura scientifica sui possibili indicatori di benessere per le varie specie considerate, al fine di selezionare quelli più promettenti da inserire nei futuri protocolli di valutazione del benessere in allevamento. Le ricerche per lo sviluppo di tali protocolli verranno svolte in aziende zootecniche di vari Paesi europei, per testare la validità, la ripetibilità e la fattibilità degli indicatori selezionati. Hanno partecipato al meeting alcuni tra i maggiori esperti internazionali, appartenenti a numerose istituzioni ed enti di ricerca: Scottish Agricultural College, Neiker-Tecnalia (Spagna),Technical University of Lisbon, Institute of Animal Science di Praga, Pferdeklinik Havelland Equine Clinic (Germania), University of Edinburgh (UK) e Federal University of Paraná (Brasile). Durante il meeting sono inoltre stati tenuti in considerazione gli input di altre istituzioni afferenti al progetto, quali la Norwegian University of Life Sciences che, pur non avendo direttamente preso parte all’incontro, ha comunque fornito un importante contributo. In chiusura dei lavori, è intervenuto Andrea Gavinelli, laureatosi presso la Facoltà di Medicina Veterinaria del nostro Ateneo e oggi Head of Unit D5 - Animal Welfare Health and Consumers Directorate General (DG SANCO) della Commissione Europea, che ha illustrato le aspettative della UE relativamente ai risultati del progetto e ha sottolineato l’importanza crescente delle ricerche nel campo del benessere animale. Tra gli aspetti peculiari di AWIN, risalta il forte coinvolgimento del mondo operativo fin dalle prime fasi di stesura dei protocolli per la valutazione del benessere, che devono necessariamente trovare un consenso anche da parte delle associazioni di allevatori, produttori, grande distribuzione e consumatori finali. Un altro aspetto fortemente caratterizzante del progetto risiede nel WP4, che prevede il coinvolgimento di tutti i partner per la creazione di un “global hub” interattivo per promuovere la ricerca e la formazione in tema di benessere animale, integrando ricerche passate, presenti e future e materiale didattico. Il contributo dei singoli partner al WP4 si concretizza nella messa a punto di specifici strumenti formativi, cioè di materiale audio e video da inserire in un’apposita sezione del sito AWIN dedicata alla formazione (http://www.animal-welfare indicators.net/site/index.php/ learning-objects) e già parzialmente attiva.Tale materiale deriva dalle sperimentazioni attuate di volta in volta nel corso del progetto e servirà come supporto per uniformare l’insegnamento dell’etologia applicata e del benessere animale a livello europeo. AWIN punta molto sui giovani e prevede pertanto la creazione di numerose posizioni di PhD e di formazione post-dottorato nei vari Paesi coinvolti, offrendo molteplici opportunità di formazione e crescita professionale. Per il Dipartimento di Scienze animali è un grande onore essere protagonisti di AWIN. L’attenzione dedicata e le risorse messe a disposizione dall’Unione Europea testimoniano la crescente importanza attribuita al benessere degli animali in allevamento. La leadership in uno dei principali Work Package del progetto è per il team del DSA una grande sfida e un’irripetibile opportunità per contribuire attivamente alla definizione di nuovi standard di benessere animale e, al contempo, una conferma del buon lavoro svolto in questi anni. Il gruppo di AWIN. Project AWIN website: www.animal-welfare-indicators.net 9 Università Sistema 10 Cooperazione allo sviluppo Un quadro in evoluzione di Guido Sali, Dipartimento di Economia e politica agraria, agro-alimentare e ambientale, Università degli Studi di Milano. L’ attività universitaria nel campo della cooperazione allo sviluppo si è evoluta seguendo percorsi non sempre facili. La nascita della moderna cooperazione allo sviluppo è collocabile a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 quando, sull’onda dell’allora giovane processo di decolonizzazione, si venne formando il fenomeno della cooperazione non governativa che agiva in aggiunta, e non raramente in contrapposizione, alla cooperazione attraverso i canali istituzionali. Occorre dire che l’università non era all’epoca interlocutore privilegiato né delle istituzioni né della società civile. Le prime si avvalevano principalmente del mondo delle imprese favorendo anche, in tal modo, l’affermazione dell’industria italiana all’estero attraverso grandi progetti industriali e infrastrutturali. Quanto alla cooperazione non governativa, essa si sviluppò intorno a modelli che differivano da quella governativa relativamente all’approccio, alle dimensioni, alle finalità. In sostanza si trattava di azioni che si fondavano su modelli derivanti più dalla tradizione missionaria di matrice cristiana o dalla elaborazione delle ideologie miranti al riscatto delle popolazioni oppresse, dove prevalevano decisamente l’aspetto operativo e relazionale rispetto alle esigenze di analisi e di impostazione tecnicoscientifica degli interventi. Entrambi gli approcci nel corso degli anni hanno manifestato limiti e difetti che non è il caso di approfondire. Basti pensare al processo di ripensamento della cooperazione governativa che, non solo a livello nazionale ma anche a livello europeo, già dagli anni ’90 ha dato vita a programmi coordinati e integrati in cui trovano sintesi da un lato le fasi di ricerca ed analisi e dall’altro quelle di intervento e di partnership operativa e paritetica. Anche la cooperazione non governativa ha maturato un processo di crescita tale da sviluppare la consapevolezza che solo poggiando i propri programmi su un solido quadro conoscitivo multilivello e multidimensionale fosse possibile migliorare sensibilmente non solo i risultati degli interventi ma anche gli impatti in ambito sociale ed economico. In questo contesto l’intervento dell’università nella cooperazione allo sviluppo ha acquisito un ruolo via via più rilevante parallelamente al crescere dell’esigenza di miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia degli interventi progettati. Non solo, una spinta fondamentale è derivata anche dal bisogno di imprimere un forte impulso alla crescita del capitale umano attraverso la formazione, gli scambi di studenti e docenti, l’allacciamento di rapporti sempre più stretti tra università sul fronte della ricerca e della didattica. Si può quindi affermare che il ruolo dell’università nella cooperazione allo sviluppo è cresciuto in virtù del processo di riequilibrio del fulcro decisionale, spostatosi dal paese donatore alla partnership bilaterale. È un ruolo cresciuto anche grazie al rovesciamento del processo di trasferimento (di tecnologie, di risorse finanziarie, di competenze) a favore della crescita endogena e della condivisione dei saperi, fino alla elaborazione di sintesi culturali nuove ed originali. In questo quadro negli ultimi anni si è venuto delineando un sistema nel quale istituzioni, società civile e università hanno ormai trovato una collocazione precisa e ruoli complementari nell’affrontare i temi dell’aiuto allo sviluppo. Il modello che nasce dall’esperienza acquisita nel corso degli anni vede quindi oggi una nuova stagione di collaborazione tra i tre soggetti che diventano altrettanti pilastri su cui si regge l’attività di cooperazione. Tra le azioni che hanno consentito di superare vecchie e comprensibili diffidenze va ricordata l’iniziativa del Ministero degli Affari Esteri che ha istituito un canale dedicato di interlocuzione con il mondo universitario, così da poter avviare iniziative concertate, di ampio respiro e multidisciplinari. Parallelamente è ormai prassi consolidata da parte delle organizzazioni non governative (ONG) avvalersi del supporto universitario per le fasi di analisi ed elaborazione dei problemi, così come per la verifica ex ante ed ex post dei progetti elaborati. Il modello di approccio ai temi della cooperazione così impostato su tre soggetti in stretta interrelazione consente di raggiungere diversi obiettivi strategici. In primo luogo il mondo della cooperazione non governativa, ormai radicato nei paesi in cui opera, è in grado di percepire i bisogni provenienti dal basso, legati ai problemi di sviluppo dell’economia locale, alle domande di salute e istruzione, alla qualità della vita e dell’ambiente, alla crescita del capitale sociale. Inoltre, le ONG sono in grado non solo di dotarsi della struttura necessaria a realizzare gli interventi, ma sovente hanno creato reti con altre organizzazioni locali ed estere per collaborare allo sviluppo dei programmi d’azione. In questo contesto le azioni prevalentemente intraprese riguardano i progetti in campo agricolo e artigianale, nella gestione delle risorse naturali ed energetiche, assistenza sanitaria di base, educazione e sensibilizzazione della popolazione, sviluppo dell’associazionismo e di un più solido tessuto sociale. Il coinvolgimento del mondo universitario in questo ambito è stato graduale e solo negli ultimi anni sta cercando di farsi “sistema” e uscire dall’approccio basato sul volontariato di tanti docenti. Questi, in contatto con il mondo della cooperazione per motivazioni ideali, hanno costruito nel tempo una fitta rete di collaborazioni tecnico-scientifiche che, tranne qualche eccezione, solo negli ultimi anni hanno trovato visibilità e sistematicità nelle attività istituzionali degli atenei. Testimonianza della dimensione istituzionale acquisita dalla attività di cooperazione per quanto riguarda il nostro Ateneo è il volume di prossima uscita, curato dal Delegato del Rettore per la Cooperazione allo Sviluppo, Claudia Sorlini, che raccoglie i progetti in corso su un ampio ventaglio disciplinare: dall’agricoltura alla sanità, dall’alimentazione all’energia, dall’archeologia alla mediazione linguistica e culturale. Il coinvolgimento universitario nei progetti di sviluppo locale ha consentito anche l’elaborazione di metodologie di intervento basate sulle “tecnologie appropriate”, una forma di trasferimento tecnologico non improntato ai criteri di efficienza propri dei paesi industrializzati, ma in grado di adattarsi al sistema di vincoli strutturali delle realtà in cui devono essere implementate. L’università può quindi operare all’interno del perimetro delle proprie competenze e della propria missione, valorizzando e qualificando nel contempo l’azione della cooperazione, dotandola di una solida impostazione metodologica e mettendo a disposizione competenze, strutture e tecnologie. Sul fronte governativo le rappresentanze dei paesi donatori e delle istituzioni internazionali elaborano le strategie di intervento tenendo conto di un vasto spettro di parametri decisionali, tra cui spiccano le esigenze espresse dalle istituzioni locali. In questo caso l’università è chiamata a ricoprire un ruolo di cerniera tra l’individuazione del problema e la predisposizione di strategie per affrontarlo. È a questo Un momento dell’attività di cooperazione del CICSAA in Libano. Università Sistema Cooperazione allo sviluppo livello che si riscontrano le attività di cooperazione svolte dal nostro Ateneo nel campo delle grandi strutture sanitarie e dei programmi di lotta alle malattie endemiche, dei progetti di riconversione agricola, di tutela e valorizzazione delle risorse culturali (archeologiche, architettoniche, etnografiche, ecc.), fino alla predisposizione e realizzazione di progetti di istruzione universitaria e di alta formazione. I due livelli di intervento appena descritti, uno micro e uno macro, tendono inevitabilmente a congiungersi e a trovare parziali sovrapposizioni laddove alla rilevazione del problema da parte delle istituzioni governative fa riscontro il coinvolgimento dell’università per la fasi analitica e progettuale e della cooperazione non governativa per la fase di attuazione degli interventi. Si realizza così la saldatura dei tre pilastri in un quadro di azione che è oggi ancora ben lungi dal produrre tutti i potenziali benefici. Dalle esperienze recentemente vissute emerge infatti la consapevolezza che i tre soggetti possono sviluppare proficue azioni su diversi fronti e a diversi livelli, come dimostra l’impostazione dei principali strumenti comunitari di cooperazione: ENPI (strumento della politica europea di vicinato), DCI (strumento per la cooperazione allo sviluppo) e IPA (strumento di preadesione).Ad esempio ENPI è organizzato su diversi livelli di intervento, dalla cooperazione bilaterale a quella regionale e interregionale, fino alla cooperazione transfrontaliera e tematica. Soprattutto nell’ambito della cooperazione tematica viene affermato il decisivo ruolo della società civile da un lato e del mondo della cultura e dell’educazione dall’altro, con una particolare attenzione al ruolo che le università possono rivestire sia nell’elaborazione di proposte progettuali complesse sia nella creazione di consorzi tra soggetti pubblici e privati in grado di acquisire contratti quadro, strumento prezioso per dare continuità alle azioni intraprese e formare professionalità specificamente indirizzate verso i temi della cooperazione allo sviluppo. Non c’è dubbio quindi che il processo di riorganizzazione cui assistiamo in questi anni stia modificando profondamente gli schemi di intervento della cooperazione, evidenziando che la sfida dello sviluppo sta vivendo una stagione nuova, in cui l’azione si fa sistema di partenariato e l’approccio si fa pluridisciplinare e multilivello. L’esperienza di Ateneo testimoniano che il mondo universitario, e l’Università degli Studi di Milano in particolare, è in grado di raccogliere la sfida. Uno dei settori di intervento dell’Università degli Studi di Milano in questo tipo di attività fa capo al CICSAA - Centro Interuniversitario per la Cooperazione allo Sviluppo Agro-Alimentare e Ambientale. Attraverso il Centro, l’Ateneo ha avviato da circa cinque anni un’attività di supporto scientifico all’impostazione e all’esecuzione di programmi di cooperazione in Libano, affiancando l’azione delle ONG che operano in loco, la cooperazione italiana e le istituzioni locali. Elemento qualificante di tale attività è costituito dalla forte integrazione tra due livelli di azione: la presenza sul territorio e la fitta rete di relazioni locali realizzata dalle ONG, che permette di avere il “polso” delle problematiche provenienti dalla società locale e il bagaglio scientifico e metodologico che il partner universitario mette a disposizione e che consente di razionalizzare i problemi e le modalità di ricerca delle soluzioni. L’università può quindi operare dotando l’azione della cooperazione di una solida impostazione metodologica e mettendole a disposizione competenze, strutture e tecnologie. Tale azione, unitamente alla costante interlocuzione con le Istituzioni pubbliche italiane e libanesi, ha avuto come risultato un modello di interazione tra attori capace di affrontare i temi dello sviluppo secondo percorsi di partenariato, di condivisione e diffusione dei saperi, di radicamento sul territorio. Quelli che seguono sono i progetti a cui il CICSAA ha fornito fino ad oggi le proprie competenze: Interventi di emergenza nella piana di Marjayoun, Libano - finanziato dal MAE. Interventi di emergenza in West Bekaa, Libano - finanziato dal MAE. Promozione dell’agricoltura sostenibile in Libano - finanziato dalla Regione Lombardia. Improvement of irrigation water management in Lebanon and Jordan - finanziato dalla UE. Interventi di sviluppo socio-economico e agro-ambientale nella Caza di Marjayoun e in West Bekaa, Libano - finanziato dal MAE. Riabilitazione del perimetro irriguo di Balbeck, Libano - finanziato dal MAE. Acqua sorgente di convivenza - finanziato dalla Regione Lombardia. Acqua sorgente di convivenza: risposte urgenti e stabili per una coabitazione possibile a Marjayoun, Libano - finanziato dal MAE. Lotta integrata al fitoplasma delle drupacee in Libano - finanziato dal MAE. Lotta al fitoplasma “Candidatus Phytoplasma phoenicium” attraverso la valorizzazione della biodiversità in frutteti di pesco e mandorlo in Libano – finanziato dal Comune di Milano. • • • • • • • • • • Nel corso della realizzazione dei programmi di collaborazione scientifica è stato organizzato il convegno “La cooperazione allo sviluppo rurale ed agroalimentare in Libano”, tenutosi presso la Facoltà di Agraria il 18 aprile 2008. L’11 luglio 2008 il Centro ha partecipato al convegno “Eau et Agriculture: méthodes, impact et perspectives pour un développement durable dans la région de Marjayoun et dans la Békaa Ouest”, tenutosi nella Caza di Marjayoun, Libano. Il convegno è stato l’occasione per divulgare alle autorità locali e ai portatori di interesse i risultati dei lavori condotti dal Centro. Il 31 marzo 2009 il Centro ha partecipato al convegno “Acqua sorgente di convivenza: Interventi di sviluppo socio economico e agro ambientale nella caza di Marjayoun e West Bekaa”, tenutosi presso l’Université de Notre Dame a Beirut, Libano. Il convegno, organizzato dall’ONG AVSI, ha permesso di coinvolgere nel dibattito sui progetti di cooperazione numerosi stakeholders: Ministero degli Affari Esteri, ONG, amministratori locali, mondo accademico italiano e libanese. Il 25 settembre 2010 il Centro ha organizzato il convegno “Biodiversity, nutrition, development”, svolto presso l’Università degli Studi di Milano che ha avuto lo scopo di pubblicizzare i risultati conseguiti nel corso del progetto “Lotta integrata al fitoplasma delle drupacee in Libano”. Il 27 ottobre 2011 il ministro dell’Agricoltura libanese ha fatto visita alla nostra Facoltà di Agraria, manifestando il grande interesse del Libano al rafforzamento delle collaborazioni sui temi dell’agricoltura, dello sviluppo rurale e della gestione delle risorse naturali. Parallelamente, l’attività svolta ha consentito all’Università di Milano di stringere rapporti di cooperazione universitaria con diverse università libanesi, con cui sono attivati programmi di scambio scientifico e didattico.Al momento sono in essere tre Memorandum of Understanding con American University of Beirut, l’Université SaintEsprit de Kaslik, l’Université Libanaise. Con l’Università di Saint-Esprit si è appena conclusa una collaborazione didattica per la formazione di uno studente libanese presso la scuola di dottorato in “Innovazione tecnologica per le Scienze agro-alimentari e ambientali”. Un paesaggio rurale in Libano. 11 “Sistema Università” è edito da Università degli Studi di Milano, via Festa del Perdono 7, Milano Comitato di redazione: Ilaria Bonomi, Pier Francesco Bortignon, Dario Casati, Paolo Cavallari, Roberto Codella, Alberto Corsini, Marco Cuniberti, Roberto Escobar, Marco Ferraguti, Diego Fonda, Dario Frisio, Marino Regini. Presidente del Comitato di redazione: Dario Casati Direttore responsabile: Anna De Gaetano Responsabile di redazione: Anna Cavagna Redazione: Glenda Mereghetti tel. 0250312983 Progetto grafico: BLZ Impaginazione: Adriana Bolzonella Stampa: Arti Grafiche Turati, Desio (MI) La versione online di “Sistema Università” è disponibile all’indirizzo http://www.unimi.it/ateneo/40927.htm.