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Sommario
00. Programma del corso ...................................................................................................4
01. Midollo osseo, cellule staminali e fattori di crescita emopoietici...................................5
02. Diagnostica ematologica..........................................................................................15
03. Definizione e classificazione delle anemie................................................................23
04. Aplasia midollare......................................................................................................28
05. Anemia da insufficienza renale cronica.....................................................................33
06. Anemia da malattia cronica ......................................................................................35
07. Anemia da carenza di ferro.......................................................................................38
08. Anemie megaloblastiche ..........................................................................................44
09. Sindromi talassemiche .............................................................................................48
10. Anemie emolitiche: classificazione e valutazione di laboratorio.................................59
11. Disordini della membrana eritrocitaria.......................................................................61
12. Deficit enzimatici eritrocitari ......................................................................................65
13. Emoglobinopatie ......................................................................................................67
14. Anemie emolitiche immunologiche ...........................................................................71
15. Emoglobinuria parossistica notturna.........................................................................78
16. Anemia emorragica ..................................................................................................82
17. Sovraccarico di ferro.................................................................................................84
18. Eritrocitosi e policitemia............................................................................................89
19. Trombocitemia essenziale........................................................................................94
20. Mielofibrosi idiopatica ...............................................................................................98
21. Leucemia mieloide cronica .....................................................................................102
22. Sindrome ipereosinofila.........................................................................................111
23. Sindromi mielodisplastiche .....................................................................................113
24. Leucemia mieloide acuta........................................................................................120
25. Leucemia linfatica (o linfoblastica) acuta ...............................................................131
26. Linfoma di Hodgkin.................................................................................................137
27. Linfomi non Hodgkin...............................................................................................145
28. Leucemia linfatica cronica (LLC) ed altre malattie linfoproliferative croniche.........163
29. Gammapatie monoclonali ......................................................................................172
30. Disordini non neoplastici dei granulociti e dei monociti............................................187
31. Fisiopatologia dell’emostasi....................................................................................192
32. Trombosi venosa profonda ed embolia polmonare .................................................196
33. Piastrine, piastrinosi e piastrinopenia......................................................................199
34. Porpora trombotica trombocitopenica (sindrome di Moschowitz) ............................202
35. Malattia di von Willebrand.......................................................................................204
36. Emofilia A...............................................................................................................207
37. Coagulopatie acquisite ...........................................................................................211
38. I gruppi sanguingi ..................................................................................................214
39. Terapia trasfusionale..............................................................................................217
40. Trapianto di cellule staminali ..................................................................................221
2006, Fondazione Ferrata Storti. Il contenuto di questa dispensa è fornito a titolo gratuito dalla Fondazione Ferrata Storti. Si
invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
1) Le sindromi anemiche:
- Anemie da carenza di ferro
- Anemie megaloblastiche
- Anemie delle malattie croniche
- Anemie emolitiche
Disordini emolitici ereditari
Disordini emolitici da cause extraglobulari
- Anemia aplastica ed altre emocitopenie selettive
(eritroblastopenia isolata, neutropenie e trombocitopenie)
2) Le sindromi mieloproliferative
-
Leucemia mieloide cronica
Mielofibrosi idiomatica
Policitemia vera
Trombocitemia essenziale
3) Le sindromi mielodisplastiche
4) Le leucemie acute
5) La leucemia linfatica cronica, hairy
6) I linfomi maligni
- Morbo di Hodgkin
- Linfomi non Hodgkin
7) Le gammopatie monoclinali
- Mieloma multiplo
- Macroglobulinemia di Waldenstrom
8) Terapia trasfusionale: componenti del sangue o terapia con i
componenti del sangue
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1. Midollo osseo, cellule staminali e fattori di crescita emopoietici
Il midollo osseo emopoietico
Il midollo osseo emopoietico è costituito dalle cellule emopoietiche (cellule staminali,
progenitori e precursori emopoietici) e da cellule di supporto, che costituiscono,
unitamente alla matrice extracellulare, il microambiente midollare.
Le principali sedi di emopoiesi nel corso della vita intrauterina sono il fegato e la milza. Il
midollo osseo diventa sede di emopoiesi a partire dal 4-5 mese di vita fetale e
rappresenta in condizioni normali il solo organo emopoietico attivo nella vita extrauterina.
L’attività emopoietica interessa nell’infazia l’intero apparato scheletrico, mentre in età
adulta è limitata alle ossa piatte (bacino, costole, sterno, vertebre).
Le cellule di supporto sono rappresentate principalmente da osteoblasti, fibroblasti,
adipociti, macrofagi e dalle cellule endoteliali dei sinusoidi midollari. Queste cellule
elaborano la maggior parte dei fattori richiesti per la corretta differenziazione e la
maturazione delle cellule emopoieitiche: fattori di crescita, citochine e componenti della
matrice extracellulare. Questi ultimi includono diversi tipi di collage, laminina, fibronectina,
trombospondina, proteoglicani. La matrice extracellulare ha un ruolo essenziale nella
corretta collocazione delle cellule emopoietiche nel microambiente midollare.
La cellula staminale emopoietica
Le cellule staminali emopoietiche sono caratterizzate dalla capacità di automantenersi, di
differenziarsi lungo le varie filiere cellulari midollari e di generare colonie cellulari quando
vengano coltivate in vitro. La capacità di automantenersi consente a questo
compartimento cellulare di non esaurirsi nel tempo e dipende dal fatto che al momento
della sua divisione la cellula staminale genera cellule figlie (divisione simmetrica), da cui
verrà sostituita, che possiedono il suo stesso grado di differenziazione e cellule figlie
(divisione asimmetrica) con un più avanzato grado di differenziazione e maturazione.
Pertanto proliferando e differenziandosi la cellula staminale dà origine ad un sempre
maggior numero di cellule figlie che perdono la capacità di automantenimento e
acquisiscono una sempre più ristretta capacità differenziativa e maturativa.
Identificazione della cellula staminale emopoietica.
Le cellule staminali emopoietiche vennero per la prima volta dimostrate nel topo con il
“colony-forming-units spleen assay”, basato sulla capacità di cellule emopoietiche sortate
di dare origine a colonie spleniche in un topo che dodici giorni prima era stato sottoposto
ad irradiazione letale. Da questa prima dimostrazione sono stati compiuti molti progressi
nello sviluppo di metodiche che consentono di meglio caratterizzare le cellule staminali.
Tali metodiche sono costituite dai tests di clonogenicità e dall’immunofenotipo. Una
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1. sono capaci di creare un equilibrio tra automantenimento e differenziamento;
2. sono multipotenti: una singola cellula staminale produce almeno 8-10 linee distinte
di cellule mature del sangue;
3. ciascuna cellula è capace di generare una progenie di cellule mature sufficiente a
garantire la ripresa dell’emopoiesi dopo un trapianto;
4. sono rare, avendo una frequenza compresa tra 1 su 10.000 e 1 su 100.000 cellule
nel caso del midollo osseo;
5. sono quiescenti, essendo nella fase G0 del ciclo cellulare, o possiedono un basso
indice mitotico nel sistema emopoietico dell’adulto in “steady-state”.
Inoltre l’analisi della clonalità ha dimostrato che il sistema emopoietico è organizzato
secondo un ordine gerarchico e ha anche stabilito quale sia l’azione delle diverse
citochine sulla cellula staminale.
Pertanto l’impiego di questi sistemi di coltura, inizialmente usati per lo studio della cellula
staminale murina e successivamente adattati allo studio di quella umana, ha permesso di
valutare alcuni aspetti funzionali della cellula staminale emopietica e d’individuare e
quantificare diversi tipi di cellule progenitrici orientate verso l’una o verso l’altra linea
differenziativa. Sono oggi disponibili sistemi di coltura a breve, medio, lungo termine che
consentono di esaminare le varie classi di cellule staminali.
Di solito le colture a breve termine consentono di dimostrare variazioni di numero dei
progenitori emopoietici, di valutare la risposta ai diversi fattori di crescita e citochine e di
stabilire quale sia l’azione delle molecole regolatorie su progenitori emopoietici con
diverso livello di differenziazione. Colture a breve termine denominate HPP-CFC (“high
proliferative potential colony-forming cells) consentono di identificare progenitori
emopoietici molto primitivi. In coltura le cellule danno origine a colonie del diametro
superiore a 0.5-1mm composte da almeno 1000 elementi. Le cellule di questi sistemi di
coltura sono resistenti a dosi quasi letali di 5-fluorouracile e nel topo sono contenute nella
stessa frazione delle cellule capaci di ricostituire l’emopoiesi a lungo termine. Tuttavia le
HPP-CFC rappresentano una popolazione cellulare eterogenea formata da un lato da
cellule con potenziale staminalità e dall’altro da cellule situate lungo la scala
diffferenziativa appena prima dei progenitori commissionati.
Tra le colture a lungo termine che consentono di individuare la cellula staminale bisogna
ricordare le seguenti:
LTC-IC: si basano sulla dimostrazione che in colture a lungo termine le cellule
aderenti alla fiasca (stromali) contenute nel midollo osseo non solo supportano la
sopravvivenza delle cellule staminali ma anche la loro capacità di generare “Clony
Forming Cells” (CFC). In questo sistema le cellule staminali vengono piastrate su
un layer preformato, costituito da cellule stromali. Tali colture vengono seguite nel
tempo per dimostrare la presenza di progenitori emopoietici capaci di garantire
un’emopoiesi a lungo termine. Siccome le cellule clonogeniche inizialmente
presenti nella sospensione cellulare non sopravvivono per un periodo di tempo
superiore alle tre settimane, la quantificazione delle LTC-IC primitive presenti al
momento dell’allestimento della coltura viene fatta misurando la produzione di
cellule clonogeniche dopo cinque-otto settimane. Normalmente la quota di LTC-IC
presenti in una coltura di midollo osseo incubata per cinque settimane è pari a
circa una cellula per 5x105 cellule mononucleate. Il 20% delle LTC-IC ottenute da
midollo osseo con fenotipo CD34+ e CD38- è capace di automantenersi. E’ stato
dimostrato che le LTC-IC del topo sono in grado di ripopolare un ospite
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settimane (“extended LTC-IC”). Si tratta di cellule CD34 positive e CD38 negative
che rispetto alle normali LTC-IC sono più quiescenti e meno responsive alla
stimolazione con fattori di crescita.
CFU di tipo A: in questo sistema le cellule di interesse vengono coltivate su un
layer stromale irradiato contenuto in pozzetti. Le cellule staminali ed i progenitori
emopoietici crescono in un modo particolare, formando, dopo trentacinque giorni
di coltura, strutture che prendono il nome di “cobblestone areas”. Più primitiva è la
cellula piastrata più a lungo essa manterrà la capacità di formare “cobblestone
areas”. Le cellule che dopo trentacinque giorni sono ancora in grado di generare
“cobblestone areas” sono considerate cellule staminali emopoietiche. Sul piano
funzionale le CFU di tipo A di sei-dodici settimane sono resistenti all’azione del 5fluorouracile. Quelle di sei settimane sono paragonabili alle “Long-term initiating
cells” (LTC-IC), mentre quelle di dodici settimane sono paragonabili alle
“extended” LTC-IC. Dal punto di vista immunofenotipico le prime sono positive per
l’antigene CD34 e presentano una eterogeneità nell’espressione del CD38, mentre
le seconde sono CD34 positive e CD38 negative. Pertanto la differenza tra LTC-IC
e CFU di tipo A consiste nel fatto che queste ultime analizzano cellule presenti
nelle “cobblestone areas” e non la produzione delle CFC ed individuano
progenitori multipotenti, presenti ad una frequenza circa dieci volte inferiore a
quella osservata nelle LTC-IC.
Altri sistemi hanno studiato le cellule staminali più primitive basandosi sulla loro capacità
di ricostituire l’emopiesi in un ospite precedentemente irradiato o affetto da un carenza di
cellule staminali. La capacità funzionale della cellula staminale può essere dimostrata in
vivo utilizzando tre metodologie: la radioprotezione, il trapianto in modelli geneticamente
compromessi e la ripopolazione competitiva. I marcatori più spesso impiegati sono
aberrazioni cromosomiche e retrovirus. La maggior parte degli studi diretti a definire le
proprietà delle cellule staminali sono stati condotti nel topo, mentre informazioni sulle
cellule staminali umane sono state ottenute impiegando gli xenotrapianti.
Immunofenotipo
Il fenotipo di membrana della cellula staminale è tuttora poco definito. Tuttavia una
popolazione capace di ricostituire l’emopoiesi di un ricevente precedentemente
sottoposto a chemioradioterapia mostra una positività per il CD34 e l’AC133 ed una
negatività per il CD38 e per HLA-DR. Si tratta di cellule che oltre ad essere presenti nel
midollo osseo si trovano nel cordone ombelicale e nel sangue periferico dove possono
essere mobilizzate impiegando la chemioterapia o il fattore di crescita. Uno dei passi più
importanti nella caratterizzazione delle cellule staminali è consistito nell’identificazione
dell’antigene CD34, una sialomucina presente sulla loro superficie. Studi recenti hanno
però dimostrato che tale antigene può essere espresso solo temporaneamente dalle
cellule staminali e che alcune di queste possono non presentare tale antigene. In
condizioni fisiologiche le cellule CD34 positive costituiscono l’1-3% di tutte le cellule
mononucleate del midollo osseo, mentre solo lo 0.1-0.2% delle cellule mononucleate del
sangue periferico e lo 0.8-1.2% delle cellule mononucleate del sangue del cordone
ombelicale. La frazione di cellule CD34 positive è composta da cellule staminali e da
progenitori emopoietici commissionati. I progenitori molto precoci sono contenuti nella
popolazione CD34 positiva, CD38 e HLA-DR negativa e Thy positiva e nella popolazione
CD34 positiva Lin negativa. Un altro antigene che individua i progenitori emopoietici è
l’AC133, caratteristicamente espresso dalle cellule CD34 positive del midollo osseo.
Siccome non è espresso da altre cellule del sangue può essere impiegato in alternativa al
CD34 per individuare la cellula staminale e per la caratterizzazione dei progenitori
necessari per la ricostituzione emopoietica. Recentemente è stato osservato che cellule
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CD34 e Lin negative contengono una sottopopolazione di cellule emopoietiche capaci di
garantire la ricostituzione emopoietica e di differenziarsi in cellule CD34 positive in
riceventi sottoposti a chemioradioterapia mieloablativa.
Manipolazioni in vitro
Si tratta di procedure impiegate in campo trapiantologico e consistono in:
selezione positiva o negativa delle cellule staminali;
espansione in vitro in presenza di appropriate citochine;
inserzione di vettori retrovirali o di geni per terapia genica.
Selezione: è basata sull’assetto immunofenotipico della cellula staminale e in particolare
sulla presenza dell’antigene CD34. Come già riportato si distingue una selezione
negativa ed una positiva. La prima impiega anticorpi monoclonali diretti verso antigeni
presenti sulla superficie della cellula tumorale o comunque verso antigeni non espressi
sulla superficie della cellula staminale. Le cellule a cui sono legati gli anticorpi
monoclonali possono essere eliminate dalla sospensione cellulare tramite lisi indotta
dall’attivazione della cascata complementare, mediante tossine direttamente coniugate
con l’anticorpo o mediante rimozione con sistemi magnetici. La selezione positiva viene
effettuata con anticorpi monoclonali diretti verso l’antigene CD34. La rimozione delle
cellule CD34 positive con adeso l’anticorpo dalla sospensione cellulare utilizza particelle
paramagnetiche che trattengono le cellule marcate quando queste vengono eluite
attraverso un campo magnetico.
Espansione in vitro: utilizza sistemi di coltura in fase liquida contenente diverse
combinazioni di citochine. Tali sistemi permettono di ottenere un buon numero di CFUGM e di espandere le LTC-IC.
Inserzione di vettori retrovirali e di geni. Le cellule staminali CD34 positive essendo
prontamente disponibili mediante procedure di aferesi, potendo essere facilmente
sottoposte a procedure di manipolazione ex vivo e possedendo la capacità di
automantenersi possono essere impiegate per un’eventuale terapia genica.
Fisiologia delle cellule staminali emopoietiche
Come già riportato le cellule staminali sono presenti nel midollo osseo con una frequenza
compresa tra 1 su 10.000 e 1 su 100.000 cellule. Quelle più indifferenziate, chiamate
totipotenti, generano tutte le cellule del sangue e danno origine alle cellule staminali
multipotenti che si differenzaziano in senso mielopoietico o linfopoietico. Da questo ultimo
tipo di cellula staminale originano i progenitori emopoietici commissionati verso una sola
linea cellulare. Le cellule staminali totipotenti sono per la maggior parte quiescenti
essendo nella fase G0 del ciclo cellulare. Tuttavia dati recenti ottenuti da modelli
sperimentali murini indicano che la cellula staminale entra ed esce dal ciclo cellulare: ogni
cellula staminale in grado di garantire una ricostituzione emopoietica a lungo termine si
divide almeno una volta al mese.
La cellula staminale è molto sensibile alla irradiazione che non solo causa la morte di
cellule in divisione ma anche quella di cellule in interfase. Invece il trattamento con 5fluorouracile o con 4-idroperossiciclofosfamide elimina le cellule in divisione ma non
altera la capacità della cellula staminale midollare di ricostituire l’emopoiesi a lungo
termine.
Le cellule staminale sono contenute nelle nicchie midollari. Nell’ospite sottoposto a
radiochemioterapia la cellula staminale reinfusa raggiunge le nicchie midollari nello
stesso giorno della sua reinfusione. Questa capacità della cellula staminale che va sotto il
nome di “homing” è controllata da molecole della famiglia delle integrine (tra queste
soprattutto da VLA-4) e da recettori di adesione come il CD44. Tra gli altri recettori che
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mediano l’”homing” bisogna ricordare il c-KIT che consente alla cellula di aderire allo
stroma. Viceversa la mobilizzazione della cellula staminale avviene per azione del fattore
di crescita granulocitario (G-CSF) che indurrebbe i neutrofili a liberare delle proteasi che
digeriscono le proteine di adesione liberando la cellula staminale dalla nicchia midollare.
Cellule progenitrici emopoietiche
Si collocano fra le cellule staminali ed i precursori emopoietici. Non si riconoscono
morfologicamente: si valutano come "unità formanti colonie", o CFU (Colony Forming
Unit) in vitro in mezzo semisolido. La cellula progenitrice umana più immatura capace di
dar luogo a colonie contenenti granulociti, eritroblasti, macrofagiciti e megacariociti, viene
definita CFU-GEMM (Colony Forming Unit – Granulocytic, Erithroid, Macrophagic,
Megakariocytic). Cellule progenitrici più mature ed orientate vengono definite, secondo gli
elementi cellulari presenti nelle colonie da essi formati, CFU-GM (Colony Forming Unit Granulocytic Macrophagic), CFU-E (Colony Forming Unit - Erythroid) e CFU-Meg (Colony
Forming Unit - Megakariocytic). Le BFU-E (Burst-Forming Unit - Erytroid) sono progenitori
eritroidi più immaturi delle CFU-E, che danno luoghi a grosse colonie cellulari
multicentriche definite burst.
Precursori emopoietici
Seguono nel processo di differenziazione i progenitori emopoietici. Sono cellule
identificabili morfologicamente all’esame microscopico dell’aspirato midollare e/o della
biopsia ossea.
Linea eritroide: proeritroblasto, eritroblasto basofilo, policromatofilo ed ortocromatico o
picnotico, reticolocito, globulo rosso. Con l’avanzare del processo di differenziazione, gli
eritroblasti diventano progressivamente più piccoli, mentre aumenta il loro contenuto in
emoglobina e quindi l'acidofilia del citoplasma, e la cromatina nucleare diventa sempre
più addensata. Si possono così riconoscere gli stadi di eritroblasto basofilo (precoce),
policromatofilo (intermedio) ed ortocromatico o picnotico (tardivo). Alla fine del processo
di maturazione, l'eritroblasto ortocromatico espelle il nucleo e diventa un reticolocito
midollare, che possiede ancora residui di RNA ribosomiale ed è capace di sintetizzare
emoglobina. Questa cellula spende 1-2 giorni nel midollo ed altri 1-2 giorni nel sangue
periferico: durante questo periodo perde i residui di RNA ribosomiale e diventa un globulo
rosso maturo. Sfruttando la capacità di legarsi ai residui di RNA ribosomiale di alcuni
coloranti (blu brillante di cresile) o di sostanze fluorescenti (arancio di acridina), è
possibile contare i reticolociti manualmente o con strumenti automatici (citofluorimetri). Il
numero di reticolociti, è un indice di attività eritropoietica.
Linea granulocitaria: mieloblasto, promielocito, mielocito, metamielocito, cellula a banda,
granulocito maturo o segmentato. I promielociti sono caratterizzati da granuli primari. I
granuli specifici, o secondari (neutrofili, eosinofili o basofili), appaiono chiaramente a
partire dallo stadio di mielocito.
Linea monocitaria: monoblasti, promonociti e monociti.
Linea megacariocitaria: megacarioblasti, megacariociti. I megacariociti maturano
attraverso un processo di replicazioni nucleari sincrone endomitotiche (il numero dei
nuclei è sempre una potenza di due, con un progressivo aumento del citoplasma). Ad
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uno stadio variabile dello sviluppo, solitamente allo stadio di 8 nuclei, si arrestano sia la
replicazione nucleare che la crescita cellulare: il citoplasma diventa granulare e vengono
prodotte le piastrine, che sono frammenti di citoplasma dei megacariociti.
Stem
cells
BFU-E
Myeloid
stem cell
Pluripotent
stem cell
CFU-E
CFU-GM
CFU-Mk
Megacaryocyte
B-cell
Lymphoid
stem cell
T-cell
Fattori di crescita emopoietici
Il processo di differenziazione della cellula staminale è mediato dai fattori di crescita
emopoietici.
I principali fattori di crescita emopoieitici sono:
Stem cell factor
Eritropoietina
GM-CSF (Granulocyte, Macrophage - Colony Stimulating Factor)
G-CSF (Granulocyte - Colony Stimulating Factor)
M-CSF (Macrophage – Colony Stimulating Factor)
Trombopoietina
Interleukine 1-18
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Eritropoietina
L'eritropoietina è il più importante fattore regolatore dell'eritropoiesi. E’ una proteina
glicosilata del peso molecolare di 30.4 kD.
165 aa
30,4 kD
glicosilazione
40%
Si comporta a tutti gli effetti come un ormone: è prodotta da un organo, il rene, diverso dal
midollo osseo emopoietico, raggiunge le cellule bersaglio attraverso il sistema
circolatorio, la sua produzione è inibita con un meccanismo feedback dall'ossigeno
trasportato dagli eritrociti. Le cellule renali che producono eritropoietina sono fibroblasti
peritubulari, mentre i sensori della tensione venosa di ossigeno sono cellule endoteliali
delle vene renali. La concentrazione normale di eritropoietina nel sangue circolante varia
da 5 a 25 mU/mL. L'eritropoietina ha molteplici azioni, tutte dipendenti dalla presenza di
uno specifico recettore sulla superficie delle cellule responsive. Quella più importante
fisiologicamente riguarda i progenitori eritroidi CFU-E e i proeritroblasti: l'eritropoietina
previene la morte programmata o apoptosi di queste cellule. Quando le CFU-E e i
proeritroblasti sono esposti a concentrazioni elevate di eritropoietina, la maggior parte di
loro sopravvive e può progredire nel ciclo cellulare fino alla mitosi: l'eritropoiesi viene
quindi pre-amplificata. L'opposto succede quando la concentrazione di eritropoietina è
inadeguata e quindi la maggior parte dei progenitori eritroidi muore di apoptosi.
Erythropoietin production:
Transcriptional feedback regulation
Erythroid
marrow
RBCs
Oxygen sensor
(heme protein)
Circulating
HIF-1
RBCs
Epo
Epo
O2
Kidney
Erythroid
marrow
RBC
Il fatto che l’eritropoietina espanda l’eritropoiesi prevenendo la morte programmata dei
progenitori eritroidi è di fondamentale importanza per l’impiego clinico dell’eritropoietina
umana ricombinante: infatti, il farmaco è efficace quasi esclusivamente in quelle
condizioni in cui la produzione endogena di eritropoietina è deficitaria, come tipicamente
avviene nell’insufficienza renale cronica.
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Plasticità della cellula staminale
Il tessuto emopoietico è stato sempre ritenuto un sistema ad organizzazione gerarchica
con il compartimento delle cellule staminali totipotenti all’apice della piramide, il
compartimento delle cellule commissionate verso le varie filiere cellulari nel mezzo ed il
compartimento delle cellule ormai differenziate lungo una particolare filiera cellulare alla
base della piramide. La cellula staminale emopoietica è assolutamente indispensabile per
mantenere una normale emopoiesi e per garantire la ripresa dell’emopoiesi dopo un
trapianto di midollo osseo. La cellula staminale emopoietica svolge tali funzioni poiché è
dotata di capacità clonogenica, è in grado di automantenersi dando origine ad altre
cellule staminali ed è inoltre in grado di differenziarsi lungo le varie linee cellulari presenti
nel midollo osseo e nel sangue periferico. Cellule staminali con analoghe caratteristiche
biologiche e funzionali sono presenti in tutti i tessuti dotati di capacità rigenerativa e sono
considerate tessuto specifiche. Così le cellule staminali nervose danno origine a neuroni,
astrociti, oligodendrociti; le cellule staminali gastrointestinali danno origine a cellule con
attività assorbente, secretoria ed endocrina. Solo le cellule embrionali derivate dal
foglietto più interno della blastocisti, che origina dopo sette-otto divisioni cellulari della
cellula uovo fecondata, sono in grado di dare origine a tutti i tipi di cellule dell’organismo.
Questa potenzialità viene persa quando le cellule della blastociti differenziano in cellule
embrionali prima e fetali poi, assumendo i programmi differenziativi delle cellule
appartenenti ai tre foglietti embrionali.
Sino ad oggi è stato ritenuto che le cellule staminali adulte, ivi inclusa la cellula staminale
emopoietica, potessero dare origine differenziandosi solo alle cellule del tessuto di
appartenenza. Questo concetto è stato però recentemente contraddetto da studi preclinici
e clinici che hanno dimostrato come la cellula staminale adulta possieda la capacità di
generare cellule appartenenti a tessuti diversi da quello d’origine. Questa caratteristica
della cellula staminale è indicata con il termine di plasticità.
Modelli sperimentali animali
La plasticità della cellula staminale fu per la prima volta dimostrata utilizzando modelli
sperimentali murini. Quando cellule staminali provenienti da un topo di sesso maschile
venivano reinfuse in un topo di sesso femminile precedentemente irradiato, il cromosoma
Y non veniva individuato solo nelle cellule del tessuto emopoietico ma anche in alcune
cellule epiteliali situate a livello dei dotti biliari, del polmone,del tratto gastro-enterico e
della cute. Questo modello sperimentale, pur con i limiti della metodica impiegata
(ibridazione in situ), ha per la prima volta dimostrato che la cellula staminale emopoietica
è effettivamente dotata di una certa plasticità. Modelli sperimentali successivi, che hanno
utilizzato cellule staminali purificate e dotate di un marcatore specifico, hanno indicato
che la reinfusione di un piccolo numero di cellule staminali normali in topi affetti da
tirosinemia di tipo 1 è sufficiente a correggere il difetto enzimatico. Gli stessi modelli
sperimentali hanno indicato che le cellule staminali reinfuse sono capaci di differenziarsi
in epatociti (che esprimono il gene dell’albumina umana), in cardiomiociti, in strutture
endoteliali, in cellule muscolari lisce neointimali e che tutte queste cellule sono capaci di
svolgere le loro normali funzioni. Altri studi sperimentali, che hanno impiegato progenitori
emopoietici mobilizzati nel sangue periferico dopo trattamento con G-CSF, hanno
indicato che quei progenitori emopoietici sono effettivamente in grado di produrre una
neovascolarizzazione dell’occhio nel topo e del miocardio infartuato nel ratto.
2006, Fondazione Ferrata Storti. Il contenuto di questa dispensa è fornito a titolo gratuito dalla Fondazione Ferrata Storti. Si
invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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Modelli clinici
Nell’uomo le prove a favore della plasticità della cellula staminale sono state fornite
dall’efficacia terapeutica del trapianto allogenico nei pazienti affetti da osteogenesi
imperfetta e dallo studio dei trapianti di midollo osseo condotti nelle coppie
donatore/ricevente di sesso diverso. Varie casistiche hanno riportato che il ricevente
sviluppa uno stato di chimerismo (presenza di cellule del donatore accanto a cellule del
ricevente) a livello del tessuto epatico, del tessuto nervoso (ippocampo, corteccia
cerebrale, cellule di Purkinje), del tratto gasrotroenterico (quest’ultimo successivamente
bersaglio di “Graft versus Host Disease, GvHD) e della cute. In questi tessuti lo stato di
chimerismo compare di solito tredici giorni dopo il trapianto e persiste sino ad almeno 354
giorni. Altri studi condotti nei pazienti sottoposti a trapianto di organo solido da donatore
di sesso diverso hanno dimostrato la plasticità delle cellule staminali presenti nel sangue
periferico. E’ stato infatti osservato un chimerismo maschile (cellule maschili accanto a
cellule femminili) in pazienti di sesso maschile sottoposti a trapianto cardiaco da donatore
di sesso femminile ed è stato suggerito che le cellule staminali maschili del ricevente
possano favorire il rimodellamento ventricolare del cuore trapiantato. Una situazione
analoga è stata osservata anche a livello endoteliale nei pazienti di sesso maschile che
avevano sviluppato un rigetto dopo trapianto di rene da donatore di sesso femminile.
I risultati raggiunti dai modelli sperimentali animali e dagli studi sino ad oggi condotti
nell’uomo devono essere interpretati con cautela perché le metodiche utilizzate
presentano importanti limiti legati alla loro diversa sensibilità e specificità. Inoltre bisogna
considerare che cellule del donatore, identificate dal cromosoma Y, potrebbero essere
linfociti o macrofagi coinvolti in una risposta infiammatoria e non cellule epiteliali derivate
dalla cellula staminale totipotente del donatore. Un altro problema è costituito dal
fenomeno noto come “fusione cellulare”. Studi recenti hanno infatti contraddetto i risultati
sin qui ottenuti riguardo alla plasticità della cellula staminale e hanno suggerito che le
cellule staminali normali del donatore possano formare cellule ibride, contenenti i geni del
donatore e del ricevente, fondendosi con quelle del ricevente. In realtà la poliploidia che
ne deriva è stata dimostrata solo a livello epatico e solo in alcuni casi aneddotici a livello
del tessuto sede della lesione. La fusione cellulare potrebbe spiegare la presenza in un
organo solido di cellule che mostrano solo alcune caratteristiche del donatore e sarebbe
un processo fisiologico di riparo del danno cellulare: la cellula staminale fornirebbe geni
nuovi e sani alla cellule specializzata che così sopravviverebbe o correggerebbe un
deficit enzimatico costituzionale.
Ipotetici meccanismi che determinano la plasticità della cellula staminale emopoietica
La cellula capace di dare origine a cellule di organo solido si ritiene sia un elemento
mononucleato presente nel tessuto emopoietico midollare o in circolo nel sangue
periferico. I meccanismi che consentono a tale cellula di differenziarsi in elementi non
tessuto specifici sono tuttora sconosciuti. Sono state proposte le seguenti quattro possibili
ipotesi:
1. Una prima ipotesi propone che cellule staminali diverse, ciascuna tessuto
specifica, possano circolare nel sangue periferico. Questa ipotesi trova conferma
nel fatto che oltre alla cellula staminale emopoietica il sangue periferico contiene
cellule mesenchimali, progenitori del tessuto endoteliale e muscolare liscio e
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2. Una seconda ipotesi suggerisce invece che durante tutta la vita adulta il tessuto
emopoietico midollare e/o il sangue periferico possano contenere cellule staminali
con caratteristiche funzionali simili a quelle delle cellula embrionale e pertanto
capaci di dare origine ai vari tipi di cellule staminali circolanti tessuto specifiche.
3. Una terza ipotesi propone un processo di transdifferenzazione della cellula
staminale emopoietica. In pratica tale cellula presenterebbe un difettoso
funzionamento del proprio programma di differenzazione che, in particolari
condizioni, verrebbe abbandonato e sarebbe sostituito da un altro programma di
differenziazione che consentirebbe di generare cellule diverse da quelle presenti
nel tessuto d’origine.
4. Una quarta ipotesi propone che una cellula differenziata di un organo solido e
pertanto tessuto specifica possa perdere le proprie caratteristiche biologiche e
funzionali (de-differenziarsi) e riacquisire i caratteri di cellula staminale adulta allo
scopo di generare cellule con caratteristiche funzionali e differenziative specifiche
di un altro tessuto (ridifferenzazione).
Meccanismi di differenziazione della cellula staminale adulta
I meccanismi che controllano il reclutamento e la differenziazione delle cellule staminali
adulte sono ancora mal definiti. Tuttavia tre fattori sono sicuramente importanti per tale
regolazione:
il danno tissutale: è stato osservato che un paziente sottoposto a trapianto
epatico mostra la maggior percentuale di epatociti del donatore in
occasione di un’epatite C ricorrente ad impronta colestatica;
la concentrazione di cellule staminali adulte nella sede del danno tissutale:
è stato riportato un efficace riparo del tessuto cardiaco infartuato quando si
inietta in loco un buon numero di cellule staminali prelevate da midollo
osseo o quando si mobilizzano cellule staminali nel sangue periferico
somministrando G-CSF;
la liberazione di citochine da parte del tessuto danneggiato. Il
microambiente può trasmettere segnali alla cellula staminale adulta
modificane i processi trascrizionali e quindi anche il programma
differenziativo.
Possibili applicazioni cliniche
Una futura applicazione delle cellule staminali adulte è costituita da un loro possibile
impiego nella riparazione dei tessuti. Per essere efficacemente utilizzate esse
dovrebbero essere facilmente accessibili, dovrebbero raggiungere la sede della lesione
in concentrazione sufficiente e dovrebbero essere correttamente guidate da segnali
citochinici specifici liberatisi dal tessuto danneggiato. Per raggiungere questi obiettivi è
necessaria una migliore comprensione dei meccanismi che regolano la differenziazione
ed il richiamo di tali progenitori nella sede di danno tissutale. Inoltre in un prossimo
futuro per avere una concentrazione sufficiente di cellule staminali adulte sarà
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2. Diagnostica ematologica
Esame emocromocitometrico
L'esame emocromocitometrico completo include numerosi parametri riguardanti le
popolazioni cellulari presenti nel sangue periferico, di estrema utilità nella diagnosi dei
disordini ematologici.
Valori normali di riferimento dell'esame emocromocitometrico nella popolazione adulta
Parametri
Maschi
Femmine
Emoglobina (Hb) g/dl
13,0-17,0
12,0-16,0
0,39-0,50
0,36-0,47
39-50
36-47
Eritrociti (RBC) 10 /l
Volume globulare medio (MCV) fl
4,5-5,9
4,0-5,5
Contenuto emoglobinico globulare medio (MCH) pg
27-32
Ematocrito (Hct ):
L/L
%
12
80-100 (ambito più ristretto 83-97)
Concentrazione emoglobinica globulare media (MCHC), 32-36
g/dl
RDW*, CV %
11,5-14,5
Reticolociti:
%
0,5-2,0
9
20-100
10 /l
9
Leucociti (WBC) 10 /l
9
Piastrine (PLT) 10 /l
°tra parentesi vengono riportati gli acronimi inglesi
* Red cell distribution width
4-11
100-400
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Formula leucocitaria:
Granulociti neutrofili 45-70%
Granulociti eosinofili 1-3%
Granulociti basofili 0-1%
Linfociti 20-40%
Monociti 3-7%
Di fondamentale importanza è riconoscere la presenza di elementi immaturi (promielociti,
mielociti, metamielociti) o patologici (blasti leucemici, cellule linfatiche patologiche, etc.).
L’esame dello striscio di sangue periferico consente di apprezzare varie anomalie
morfologiche che possono essere utili per la diagnosi.
Principali anomalie morfologiche degli eritrociti e quadri clinici più frequenti ad
esse associati
Anomalie
Morfologia
Quadri clinici
Corpi di Howell-Jolly
Residui nucleari
Splenectomia
Corpi di Heinz
Denaturazione Hb
Emoglobinopatie, splenectomia
Punteggiatura basofila
Precipitazione
di Affezioni
ematologiche,
ribosomi
infezioni, intossicazione da Pb
Aggregati di ferritina e Anemie con sovraccarico di Fe,
ribosomi
talassemie, splenectomia
Inclusi eritrocitari
Corpi di Pappenheimer
Alterazioni di forma e dimensioni
Schistociti
Dacriociti
Anemie
emolitiche
microangiopatiche
Eritrociti di forma sferica Sferocitosi ereditaria, anemie
emolitiche autoimmuni
Eritrociti con colorazione Sideropenia
di un orletto periferico
Eritrociti con colorazione Talassemie
di un orletto periferico e
area centrale
Eritrociti a lacrima
Mielofibrosi Idiopatica
Drepanociti
Eritrociti a falce
Echinociti
Eritrociti
spinosi
Sferociti
Anulociti
Cellule a bersaglio
Eritrociti frammentati
con
Drepanocitosi
rilievi Insufficienza renale cronica
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Principali anomalie morfologiche dei granulociti neutrofili e quadri clinici più
frequenti ad esse associati
Anomalie
Quadri clinici
Anomalie nucleari
Ipersegmentazione
Anemie megaloblastiche
Iposegmentazione
Nuclei ad anello
Anomalia di Pelger-Huet, mielodisplasie e leucemia
mieloide acuta (anomalia pseudo-Pelger)
Leucemia mieloide cronica, leucemia mieloide acuta
Addensamento cromatinico
Mielodisplasie
Anomalie citoplasmatiche
Degranulazione
Mielodisplasie
Ipergranulazione
Granulazioni anomale
Gravidanza, infezioni, infiammazioni, anemia aplastica,
leucemia mieloide cronica
Mielodisplasie, leucemia mieloide acuta
Vacuolizzazione
Infezioni, intossicazione
Corpi di Doehle
Gravidanza, infezioni, infiammazioni, mielodiplasie,
leucemia mieloide acuta
Esame morfologico del midollo osseo
Mieloaspirato
L'aspirato di midollo osseo consente di esaminare, mediante apposizione o striscio dei
frustoli midollari su un vetrino porta-oggetti, i precursori delle cellule ematiche circolanti.
Consente di valutare le proporzioni dei vari tipi cellulari, di esaminare le singole cellule e
di evidenziare elementi patologici.
Citochimica
Alcune reazioni enzimatiche consentono di caratterizzare le cellule ematiche normali e
patologiche e, benché affiancate da metodiche più moderne e sofisticate, hanno ancora
oggi una funzione rilevante nella diagnostica ematologia.
Acido periodico di Schiff (PAS)
La reazione del PAS evidenzia la presenza di glicogeno nelle cellule. I precursori mieloidi
presentano positività di tipo diffuso, crescente con la maturazione, mentre i monociti sono
debolmente positivi. I precursori linfoidi presentano una positività di tipo granulare.
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Sudan nero B
La reazione al sudan nero B colora i fosfolipidi nelle cellule. I precursori mieloidi
presentano positività ad intensità crescente con la maturazione, mentre i precursori
linfoidi sono negativi.
Mieloperossidasi
La mieloperossidasi è un enzima lisosomiale, presente nei granuli dei granulociti e dei
monociti. Tra i precursori mieloidi, i mieloblasti sono negativi o debolmente positivi,
mentre promielociti, mielociti e granulociti sono positivi alla colorazione. I precursori
linfoidi sono negativi.
Esterasi
Alfa-naftil-acetato-esterasi (ANAE) – I precursori mieloidi granulocitari sono negativi,
mentre i precursori monocitari ed i precursori linfoidi T risultano positivi.
Cloroacetato-esterasi (CAE) – I precursori granulocitari risultano positivi alla colorazione,
mentre i precursori monocitari sono negativi.
Fofatasi acida
La reazione colora fosfati inorganici con anelli aromatici. I precursori mieloidi presentano
una positività di tipo diffuso, mentre i precursori linfoidi T una positività localizzata
all’apparato del Golgi.
Biopsia osteo-midollare (B.O.M.)
La biopsia ossea consiste nel prelevare, mediante apposito ago, un campione di osso e
midollo osseo, che viene poi trattato ed esaminato presso il Servizio di Anatomia
Patologica. La biopsia ossea è di notevole utilità per valutare l'architettura e la cellularità
midollare, ed è il mezzo migliore per evidenziare eventuali infiltrati midollari patologici.
Separazione dell’emoglobina
Le emoglobine possono essere separate mediante diverse metodiche, tra le quali
elettroforesi e cromatografia.
Elettroforesi dell’emoglobina
L’elettroforesi dell’emoglobina è basata sulla differente velocità di migrazione delle
molecole di emoglobina in un campo elettrico. Il principale metodo di separazione
dell’emoglobina è l’elettroforesi su acetato di cellulosa in tampone alcalino (pH 8.6 – 8.8).
L’elettroforesi in tampone acido (gel di agorosio, pH 6.2) è utile per per differenziare
alcune emoglobine patologiche, in particolare HbS da HbD.
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Mobilità elettroforetica delle varianti emoglobiniche (acetato di cellulosa pH 8.8)
-
C
E
O
A2
S
A
D
Lepore
J
H
+
High Performance Liquid Chromatography (HPLC)
HPLC consente di separare le proteine in base alla differente carica. Consente di
separare e quantificare le emoglobine anormali. E’ una tecnica efficiente, dotata di
elevata sensibilità.
Citogenetica e biologia molecolare
Citogenetica
La citogenetica viene utilizzata in ematologia per studiare il cariotipo delle cellule
neoplastiche. L’esame viene eseguito su cellule midollari ottenute mediante mieloaspirato
oppure su cellule di sangue periferico nei pazienti che hanno cellule neoplastiche
circolanti. Il campione può essere processato immediatamente (preparazione diretta)
oppure messo in coltura per 24-72 ore;
in alcuni laboratori vengono impiegate sostanze che sincronizzano le divisioni cellulari.
Per preparare le cellule in metafase, il campione è esposto ad un inibitore mitotico
(colchicina) per arrestare le cellule in mitosi, quindi ad una soluzione ipotonica per
dilatare le cellule ed infine ad un fissativo. La sospensione cellulare viene quindi posta su
vetrini per microscopia e colorata utilizzando tecniche di bandeggio cromosomico (la più
utilizzata è trypsin-Giemsa).
Aberrazioni cromosomiche e loro nomenclatura
Il cariotipo viene descritto secondo l’International System for Human Cytogenetic
Nomeclature (ISCN) (International System for Human Cytogenetic Nomeclature:
Guidelines for Cancer Cytogenetics: Supplement to an International System for Human
Cytogenetic Nomenclature VI, F. Mitelman, ed. Karger, Basel). Il numero totale dei
cromosomi viene indicato per primo, seguito dai cromosomi del sesso; l’aggiunta o la
perdita di interi cromosomi vengono indicate anteponendo “+” o “–“ al numero del
cromosoma; l’aggiunta o la perdita di parti di cromosoma vengono identificate
posponendo “+” o “–“ al numero del cromosoma; “p” e “q” rappresentano rispettivamente
le braccia corte e lunghe del cromosoma. La traslocazione è indicata da “t” seguita dal
numero dei cromosomi interessati tra parentesi, e dalle regioni di rottura in una seconda
parentesi. La delezione viene identificata con “del”, l’inversione con “inv”, seguite dal
numero del cromosoma e dalla regione cromosomica interessata tra parentesi; “i” è
utilizzata per indicare un isocromosoma.
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Fluorescence in situ hybridization (FISH)
Questa tecnica è basata sulla capacità di singoli filamenti di DNA di appaiarsi a filamenti
con sequenza complementare. Essa prevede l’impiego di sonde nucleotidiche con
sequenza complementare ai geni o ai riarrangiamenti da studiare; le sonde sono
sintetizzate con nucleotidi marcati con biotina o digossigenina; la visualizzazione viene
effettuata con avidina o con anticorpi anti-digossigenina coniugati con fluorocromi. La
FISH può essere effettuata su campioni di sangue midollare o di sangue periferico nei
pazienti con cellule neoplastiche circolanti e consente di studiare il DNA di cellule in
interfase. E’ una tecnica rapida, efficiente, dotata di sensibilità e specificità più elevate
della citogenetica convenzionale.
Poylmerase Chain Reaction (PCR)
La PCR è una tecnica che consente di amplificare selettivamente una sequenza nota di
DNA (o della quale si conosce la sequenza delle regioni adiacenti), mediante l’uso di
primers oligonucleotidici specifici. La reazione consiste in una serie di cicli, eseguiti da
uno strumento in grado di variare ciclicamente la temperatura (termociclatore o thermal
cycler); ogni ciclo è costituito da una fase di denaturazione del DNA, una fase di
appaiamento dei primers, una fase di sintesi dei nuovi filamenti per estensione dei
primers ad opera di una DNA polimerasi resistente alle alte temperature (purificata da un
battere termofilo, Thermophilus acquaticus). Il risultato viene quindi visualizzato mediante
elettroforesi su gel.
In ambito ematologico la PCR ha notevole rilevanza diagnostica, in quanto consente di
evidenziare con elevate sensibilità e specificità l’eventuale presenza di riarrangiamenti
genici specifici di neolpasie ematologiche (es. bcr/abl nella leucemia mieloide cronica,
pml/rar- nella leucemia acuta promielocitica, bcl2-IgH nei linfomi follicolari, etc.).
Southern blotting
Il Southern blotting è una tecnica che consiste nella corsa elettroforetica su gel di
agarosio di DNA e successivo trasferimento da gel ad una membrana di nitrocellulosa. La
visualizzazione viene effettuata mediante ibridazione con una sonda marcata con 32P o
fluorocromi e complementare ad un tratto della sequenza di interesse.
Northern blotting
Il Northern blotting è una tecnica che consente la visualizzazione degli RNA mediante
trasferimento, dopo corsa elettroforesi su gel di agarosio-formaldeide, ad una membrana
di nitrocellulosa e successiva ibridazione con una sonda marcata con 32P o fluorocromi
con sequenza complementare ad un tratto dell’RNA di interesse.
Western blotting
Il Western blotting è una tecnica che consiste nel trasferimento di proteine dopo corsa
elettroforetica su gel di poliacrilamide ad una membrana. Per la visualizzazione vengono
impiegati anticorpi specifici per le proteine di interesse.
Citofluorimetria a flusso
Principi della metodica
La citometria a flusso valuta le cellule sulla base delle caratteristiche fisiche dei
componenti cellulari e dell’espressione di antigeni di membrana o citoplasmatici. La
metodica si basa sulla misurazione della fluorescenza e della dispersione luminosa delle
cellule che scorrono attraverso un raggio laser monocromatico. Il laser può eccitare i
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costituenti cellulari, inducendo l’emissione di luce a diverse lunghezze d’onda
(autofluorescenza) oppure può eccitare vari fluorocromi (come la fluoresceina, FITC, la
ficoeritrina, PE, o lo ioduro di propidio, PI). Coniugando questi fluorocromi con anticorpi
monoclonali specifici per gli antigeni di interesse è possibile studiare l’intensità di
espressione degli antigeni a livello citoplasmatico o di membrana.
Antigeni CD: distribuzione sulle cellule del sistema emopoietico
Popolazione cellulare
Antigeni CD
Cellula staminale emopoietica
Precursori mieloidi
CD34
CD33, CD13, CD15
Granulociti
CD13, CD15
Monociti
CD13, CD14, CD15
Precursori eritroidi
CD36, CD71, Glicoforina A
Eritrociti
CD55, CD59, CD147, Glicoforina A
Megacariociti
CD41, CD61, CD151
Cellule B
CD19, CD20, CD21, CD22
Cellule T
CD2, CD3, CD5, CD7, CD4/CD8
Per la espressione degli antigeni CD da parte di cellule patologiche si rimanda alla
trattazione delle singole patologie.
Colture cellulari
Principi della metodica
Esistono vari metodi per studiare la proliferazione e la differenziazione dei progenitori
emopoietici.
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Definizione e significato biologico delle colture di cellule emopoietiche
LTC-IC
cellule prossime alle cellule staminali emopoietiche capaci di generare in
vitro colture a lungo termine
CFU-GEMM
cellula progenitrice umana più immatura capace di dar luogo a colonie
contenenti granulociti, eritroblasti, macrofagi e megacariociti
BFU-E
progenitori eritroidi più immaturi, che danno origine a grosse colonie
cellulari multicentriche
CFU-E
progenitori eritroidi più maturi
CFU-GM
progenitori granulocitari e macrofagici
CFU-MK
progenitori megacariocitari
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3. Definizione e classificazione delle anemie
Definizione
Si definisce anemia la condizione caratterizzata da una concentrazione di emoglobina
inferiore a 13 g/dl nel maschio adulto e a 12 g/dl nella donna adulta. Per i bambini e gli
adolescenti i limiti inferiori degli intervalli di normalità variano nelle diverse fasce di età.
Fisiopatologia
La funzione principale degli eritrociti è il trasporto di ossigeno dai polmoni ai tessuti e di
anidride carbonica in senso inverso. Il midollo osseo di un adulto normale rilascia ogni
secondo nel sangue periferico circa 2,6 x 106 eritrociti; ovviamente, lo stesso numero di
eritrociti senescenti viene fagocitato ogni secondo dalle cellule del sistema monocitomacrofagico.
Il trasporto di ossigeno ai tessuti dipende dalla concentrazione di emoglobina, dalla
saturazione in ossigeno dell’emoglobina (funzione della pressione parziale di ossigeno
nel sangue arterioso), dalla portata cardiaca e dall’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno.
In caso di ipossiemia si attivano meccanismi di compenso che consistono primariamente
nell’aumento della portata cardiaca attraverso un aumento sia della frequenza cardiaca
che della gittata sistolica, nella ridistribuzione del flusso ematico agli organi vitali (cuore,
cervello) e nella diminuzione dell’affinità dell’emoglobina per l’ossigeno attraverso un
aumento del 2,3-DPG eritrocitario, che sposta la curva di dissociazione dell’emoglobina
verso destra. Tali meccanismi sono tanto più efficienti quanto più lento è lo sviluppo
dell’anemia, e viceversa.
100
Ossiemoglobina
Saturazione
dell’emoglobina
per l’ossigeno (%)
P50
Desossiemoglobina
0
0
pO2 tissutale (torr)
100
L’anemia può diventare sintomatica attraverso le manifestazioni dell’ipossia tissutale e
dei meccanismi di compenso.
I principali sintomi secondari alla riduzione della capacità di trasporto dell’ossigeno ai
tessuti sono l’astenia, l’affaticabilità, la dispnea da sforzo. La palpitazione è il principale
sintomo secondario a meccanismi di compenso.
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Il principale segno dell'anemia secondari alla riduzione della concentrazione di
emoglobina è il pallore, mentre in segutioad attivazione dei meccanismi di compenso si
possono osservare tachicardia ed un soffio cardiaco olosistolico.
Nei pazienti che abbiano una concomitante malattia cardiovascolare le manifestazioni
cliniche dell’anemia possono essere più gravi, e possono comprendere l’angina da
sforzo, la claudicatio intermittens e lo scompenso cardiaco, talora ad alta portata.
Il quadro clinico del paziente anemico è naturalmente caratterizzato oltre che da sintomi e
segni dell’anemia, da sintomi e segni specifici della patologia di base (carenza di ferro, di
vitamina B12, emorragia, emolisi, etc…).
Classificazione delle anemie
In base al meccanismo patogenetico, si possono distinguere quattro gruppi di anemie: le
anemie iporpliferative, le anemie da eritropiesi inefficace, le anemie emolitiche e le
anemie emorragiche.
Anemie ipoproliferative
Il meccanismo patogenetico risiede nella ridotta capacità proliferativa del midollo eritroide.
Il quadro è caratterizzato da un conteggio reticolocitario inadeguato per il grado di anemia
(< 2%) e da una bilirubina totale tendenzialmente bassa.
Le condizioni cliniche responsabili di anemia ipoproliferativa possono essere
sommariamente distinte in alterazioni primitive delle cellule staminali (aplasia midollare ed
eritroblastopenia, emopatie clonali), in anemia mieloftisica (da infiltrazione midollare
neoplastica), in anemie da diminuita produzione di eritropoietina (insufficienza renale
cronica, anemia dell’infiammazione o delle malattie croniche, da malnutrizione), ed in
anemie da ridotto apporto di ferro al midollo eritroide (carenza di ferro) (Tabella 1).
Tabella 1 – Anemie ipoproliferative
Alterazioni primitive delle cellule staminali:
aplasia midollare e eritroblastopenia,
emopatie clonali (EPN, sindromi mielodisplastiche);
anemia mieloftisica (da infiltrazione midollare neoplastica);
diminuita produzione di eritropoietina:
insufficienza renale cronica,
infiammazione o malattia cronica,
malnutrizione;
ridotto apporto di ferro al midollo eritroide: carenza di ferro.
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Anemie da eritropoiesi inefficace
Le anemie da eritropoiesi inefficace sono dovute ad aumentata morte intramidollare degli
eritroblasti. Sono caratterizzate da un conteggio reticolocitario inadeguato per il grado di
anemia (< 2%) e da una bilirubina totale tendenzialmente aumentata.
Si distinguono condizioni dovute ad alterazione della maturazione nucleare, le anemie
megaloblastiche e le anemie diseritropoietiche congenite, e condizioni dovute ad
alterazione della maturazione citoplasmatica, le sindromi talassemiche e le anemie
sideroblastiche (Tabella 2).
Tabella 2 – Anemie da eirtropoiesi inefficace
Alterata maturazione nucleare:
anemie megaloblastiche,
anemie diseritropoietiche congenite;
Alterata maturazione citoplasmatica:
sindromi talassemiche;
anemie sideroblastiche.
Anemie emolitiche
Le anemie emolitiche sono condizioni caratterizzate da una ridotta sopravvivenza in
circolo degli eritrociti. Si osservano un conteggio reticolocitario adeguato per il grado di
anemia ( 3%), ed una bilirubina totale aumentata.
Dal punto di vista fisiopatologico si distinguono condizioni cliniche caratterizzate da
emolisi extravascolare e condizioni dovute ad emolisi intravascolare.
L’emolisi extravascolare è il meccanismo predominante nei disordini della membrana
eritrocitaria, nelle emoglobinopatie, nei difetti enzimatici o metabolici eritrocitari, in alcune
anemie emolitiche immunologiche, nell’ipersplenismo (Tabella 3).
L’emolisi intravascolare è invece il meccanismo responsabile delle anemie da cause
meccaniche, in corso di coagulazione intravascolare disseminata, di porpora trombotica
trombocitopenica (sindrome emolitico uremica), in alcune malattie vascolari, nelle
reazioni trasfusionali e nelle anemie emolitiche immunologiche con attivazione del
complemento (Tabella 3).
2006, Fondazione Ferrata Storti. Il contenuto di questa dispensa è fornito a titolo gratuito dalla Fondazione Ferrata Storti. Si
invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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Tabella 3 – Anemie emolitiche
Emolisi extravascolare:
disordini della membrana eritrocitaria,
emoglobinopatie,
difetti enzimatici o metabolici eritrocitari,
anemie emolitiche immuni,
ipersplenismo;
Frammentazione eritrocitaria e altre cause di emolisi intravascolare:
cause meccaniche,
coagulazione intravascolare disseminata,
porpora trombotica trombocitopenica (sindrome emolitico uremica),
malattie vascolari,
reazione trasfusionale;
meccanismi autoimmuni con attivazione del complemento.
Anemia emorragica
E’ una condizione dovuta ad una perdita di eritrociti dal circolo per emorragia. E’
caratterizzata da un conteggio reticolocitario tendenzialmente aumentato e da una
bilirubina totale normale.
Parametri di utilità clinica nella diagnosi di anemia e loro ambiti di riferimento
Parametri
Maschi
Femmine
Diagnosi di anemia
Emoglobina (Hb), g/dL
13,0-17,0
12,0-16,0
Diagnosi differenziale di anemia
Volume globulare medio (MCV), fL
80-100
Reticolociti
0,5-2% (20-100x109/L)
N.B. Il numero di globuli rossi o eritrociti (RBC) è parametro di scarsa utilità diagnostica,
talora fuorviante (numero normale o anche aumentato nelle anemie microcitiche).
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Classificazione delle anemie sulla base dell’MCV
-
Anemie microcitiche (MCV < 80 fL):
- anemia da carenza di ferro,
- sindromi talassemiche,
- anemia delle malattie croniche (una parte);
-
anemie normocitiche (80 ≤ MCV ≤ 100 fL):
- anemia delle malattie croniche (una parte),
- anemia dell'insufficienza renale cronica,
- anemie refrattarie (sindromi mielodisplastiche, la maggior parte),
- anemia associata a malattia mieloproliferativa,
- anemia associata a malattia linfoproliferativa,
- anemia associata a gammopatia monoclonale,
- anemia aplastica (compresa l'eritroblastopenia selettiva, una parte),
- anemie emolitiche (la maggior parte),
- anemia emorragica;
-
anemie macrocitiche (MCV > 100 fL):
- anemie megaloblastiche (carenza di vitamina B12 o folati);
- anemia aplastica (compresa l'eritroblastopenia selettiva, una parte);
- anemie refrattarie (sindromi mielodisplastiche, una parte);
- anemie emolitiche (una piccola parte).
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4. Aplasia midollare
L'aplasia midollare, o anemia aplastica, è una condizione patologica caratterizzata da
ipocellularità del midollo osseo emopoietico e citopenia mono-trilineare nel sangue
periferico.
Dal punto di vista epidemiologico l’aplasia midollare ha una incidenza di circa 1-2
casi/1.000.000 di persone/anno in Europa e nel Nord America, che equivale a 110-120
nuovi casi all’anno in Italia, mentre ha una incidenza sensibilmente superiore nel sud-est
asiatico.
Patogenesi
Dal punto di vista patogenetico si possono distinguere forme ereditarie, come l’anemia di
Fanconi e la discheratosi congenita, e forme acquisite, idiopatica, a patogenesi
autoimmune, e secondarie a cause fisico/chimiche (radiazioni, farmaci, tossici) e virali
(EBV, virus epatotropi non-A, non-B, non-C, HIV).
Tabella 1 – Classificazione etiopatogenetica dell’aplasia midollare
Forme congenite:
con interessamento di tutte le serie maturative:
o Anemia di Fanconi;
o Discheratosi congenita;
o Sindrome di Shwachman-Diamond;
con interessamento selettivo della serie eritroide: Anemia di Blackfan-Diamond;
Forme acquisite:
con interessamento di tutte le serie maturative: aplasia midollare:
o
secondaria a cause fisico/chimiche (radiazioni, farmaci, agenti chimici);
secondaria ad infezione virale (epatite non-A, non-B, non-C; EBV, HIV-1);
o
immunomediata (idiopatica);
o
con interessamento selettivo della serie eritroide: eritroblastopenia selettiva acquisita:
o
secondaria ad infezione virale (Parvovirus B19);
immunomediata (timoma).
o
Molteplici evidenze cliniche e di laboratorio supportano l’ipotesi che la patogenesi della
aplasia midollare “idiopatica” sia autoimmune. Le prime osservazioni state rappresentate
da pazienti sottoposti a trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche che andavo
incontro a rigetto, ma ricostituivano una emopoiesi normale, probabilmente grazie
all’effetto immunosoppressivo del regime di condizionamento al trapianto. Queste
osservazione preliminari sono state successivamente confermate da evidenze di
laboratorio che dimostrano che i linfociti dei pazienti sono in grado di sopprimere in vitro
la crescita di progenitori emopoietici del paziente stesso e di donatori sani. L’attivazione
dei linfociti T citotossici è mediata da cellule TH1 con liberazione di interferone gamma,
TNF alfa ed interleuchina 2. E’stato ipotizzato che, come in altri modelli di malattie
autoimmuni, la reazione possa essere innescata da un evento infettivo (virale) attraverso
meccanismi di mimetismo molecolare e antigenic spread.
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In un ridotto numero di casi l’aplasia midollare è secondaria a patologie virali note, come
l’infezione da EBV (mononucleosi infettiva) e quadri di epatite non-A, non-B, non-C.
In corso di infezione acuta da EBV il riscontro di aplasia midollare è raro e generalmente
transitorio, mentre è più frequente e persistente in caso di infezione cronica attiva da EBV
nei soggetti immunocompromessi.
In circa 1-5% dei casi l’insorgenza dell’anemia aplastica è preceduta da un episodio di
epatite acuta non-A, non-B, non-C. L’agente eziologico dell’epatite non è stato
identificato. La pancitopenia insorge generalmente entro due mesi circa dall’epatite;
alcune evidenze di laboratorio suggeruscono che la patogenesi possa essere
immunomediata e questa ipotesi sembra confermata dalla responsività di queste forme
alla terapia immunosoppressiva.
La patogensi delle aplasie midollari secondaria a farmaci può essere mediata da un
meccanismo diretto, come nel caso della chemioterapia o da una reazione
“idiosincrasica”, probabilmente dovuta ad alterazioni nella via metabolica o a reazioni
immunomediate al farmaco. Tra i farmaci di uso comune più frequentemente interessati vi
sono alcuni antiinfiammatori non steroidei, furosemide, farmaci anti-tiroidei, allopurinolo.
Circostanze della diagnosi
Dal punto di vista clinico l’aplasia midollare si presenta con pancitopenia. Il quadro è
pertanto caratterizzato da sintomi e segni secondari ad anemia, granulocitopenia,
piastrinopenia. L’anemia è generalmente normo- o macrocitica, con reticolocitopenia.
Quanto più gravi sono le alterazioni a carico delle cellule staminali, tanto più grave è la
citopenia e quindi la prognosi, determinata soprattutto dal rischio di complicanze infettive
secondarie alla granulocitopenia e dal rischio di complicanze emorragiche secondarie alla
piastrinopenia.
Si definisce aplasia midollare grave o severa la condizione in cui, accanto ad un midollo
ipoplastico (cellularità inferiore al 25%), siano presenti almeno due delle seguenti tre
condizioni: reticolociti inferiori a 1%, granulociti inferiori a 0.5x109/l, piastrine inferiori a
20x109/l. Quando i granulociti sono inferiori a 0,2 x 109/l, l'aplasia midollare si definisce
molto grave.
Esami di laboratorio
Il corretto inquadramento del paziente con sospetta anemia aplastica prevede l’esame
emocromocitometrico, che dimostrerà anemia normocitica associata a leucopenia con
neutropenia e piastrinopenia (pancitopenia), ed il conteggio reticolocitario, che risulta
inadeguato per il grado di anemia, seguiti da un mieloaspirato con analisi cromosomica
ed immunofenotipo e da una biopsia osteomidollare, che dimostra una ipoplasia midollare
con cellularità inferiore al 25%.
Diagnosi differenziale
L’aplasia midollare va posta in diagnosi differenziale con tutte le condizioni di
pancitopenia. Queste possono essere distinte, dal punto di vista operativo, in
pancitopenie con midollo osseo ipocellulare, che comprendono, oltre all’aplasia midollare,
alcune sindromi mielodisplastiche, rare leucemie acute mieloidi, alcune leucemie acute
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linfoblastiche, alcuni linfomi ad interessamento midollare, ed in pancitopenie con midollo
osseo normocellulare, come la maggior parte delle sindromi mielodisplastiche,
l’Emoglobinuria Parossistica Notturna (EPN), la mielofibrosi idiopatica, alcune leucemie e
linfomi ad interessamento midollare, la mieloftisi, leucemia a cellule capellute (hairy cell
leukemia).
Bisogna infine considerare le pancitopenie secondarie a malattie sistemiche, in
particolare a lupus eritematotus sistemico, ipersplenismo, carenza di vitamina B12 ed
acido folico, alcool, brucellosi, sarcoidosi, tuberculosi, leishmaniosi.
Terapia
La terapia dell’aplasia midollare si avvale oltre che del supporto trasfusionale, della
terapia immunosoppressiva, dell’uso di fattori di crescita emopoietici e del trapianto
allogenico di cellule staminali emopoietiche.
La terapia immunosoppressiva comprende la globulina anti-timocitaria (ATG) e la
ciclosporina A (CSA). L’uso della sola ATG consente di ottenere risposte in circa il 50%
dei casi, mentre l’associazione di ATG e CSA aumenta la percentuale di risposta all’80%
dopo un anno di trattamento. Attualmente la terapia immunosoppressiva trova
indicazione nei pazienti di età superiore a 50 anni o nei soggetti < 50 anni che non
dispongano di un donatore familiare HLA-identico.
L’impiego di G-CSF consente di aumentare la percentuale di risposta dei neutrofili in
corso di terapia immunosoppressiva senza tuttavia migliorare significativamente la
sopravvivenza a lungo termine.
I fattori di crescita possono essere impiegati nel trattamento delle forme refrattarie alla
terapia immunosoppressiva, nelle quali si osserva un transitorio aumento del numero dei
neutrofili, che non migliora significativamente la sopravvivenza.
Nei pazienti di età inferiore a 55 anni con donatore compatibile familiare o unrelated, il
trapianto alleogenico rappresenta un’opzione terapeutica potenzialmente guaritiva. Nei
pazienti giovani (di età inferiore a 20 anni) con donatore familiare HLA-identico la
sopravvivenza a lungo termine è superiore all’80%. Il limite della procedura è
rappresentato dalla morbidità e dalla mortalità legata al trapianto (rigetto, infezioni, graftversus-host disease, veno-occlusive disease).
Aplasie midollari ereditarie
Anemia di Fanconi
L’anemia di Fanconi è una condizione patologica ad ereditarietà autosomica recessiva
caratterizzata da anomalie congenite, insufficienza midollare progressiva ed aumentata
suscettibilità a neoplasie.
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Patogenesi
Sono stati identificati 8 distinti gruppi di complementazione (A, B; C; D1, D2, E, F, G), il
più frequente dei quali è costituito dal gruppo A, che comprende circa il 60% dei casi.
Recentemente sono stati identificati diversi geni implicati, che interagiscono formando un
complesso che regola l’ubiquitinazione di diverse proteine cellulari, coinvolte nel
meccanismo di riparazione del DNA.
Circostanze della diagnosi
L’anemia di Fanconi ha una incidenza stimata di circa 0.5-1 caso/100.000 nati/anno.
L’esordio clinico avviene prevalentemente entro la prima decade; circa il 10% è
diagnosticato dopo i 14 anni. In circa due terzi dei casi i pazienti presentano anomalie a
carico di altri organi o apparati come alterazioni della pigmentazione cutanea, difetti
scheletrici, malformazioni genito-urinarie, gastrointestinali e cardiopolmonari. Il quadro
clinico predominante è rappresentato dall’insufficienza midollare progressiva, che
generalmente coinvolge la serie trombocitopoietica e quindi la serie eritroide e mieloide. I
pazienti con anemia di Fanconi hanno un maggiore rischio di sviluppare neoplasie, sia a
carico del sistema emopoietico (leucemia acuta mieloide e mielodisplasia), sia a carico di
altri organo o apparati (fegato, apparato genito-urinario). Il decorso clinico è
estremamente variabile, in funzione della presenza di anomalie congenite e della rapidità
di progressione dell’insufficienza midollare. Nelle prime serie di pazienti riportate, la
sopravvivenza era approssimativamente di 2-4 anni dall’esordio clinico. L’introduzione di
strategie terapeutiche efficaci ha consentito di cambiare significativamente la storia
naturale della malattia.
Esami di laboratorio
Il test diagnostico è basato sull’aumentata sensibilità delle cellule di anemia di Fanconi ad
agenti chimici che inducono cross-linking del DNA, come il diepossibutano e la
mitomicina C. L’esposizione dei linfociti a questi agenti induce un numero abnorme di
rotture cromosomiche. Bisogna tuttavia rilevare che una piccola percentuale di pazienti
non dimostra ipersensibilità agli agenti genotossici ed alcuni soggetti presentano un
quadro di mosaicismo, dovuto alla presenza di due distinte popolazioni cellulari, una con
ipersensibilità all’agente genotossico ed una resistente probabilmente per l’acquisizione
di mutazioni somatiche che compensano il difetto. In questi casi il test può essere ripetuto
per conferma su fibroblasti. L’identificazione dei difetti genetici implicati nella patogenesi
della malattia, ha consentito recentemente di introdurre nella pratica clinica indagini
genetiche più accurate.
Terapia
La terapia dell’anemia di Fanconi, inizialmente costituita dal solo supporto trasfusionale, è
stata successivamente integrata dall’impiego di agenti stimolanti l’emopoiesi, e più
recentemente dal trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche. Il primo
trattamento utilizzato è stato quello con androgeni, che consente di ottenere un
incremento dei livelli di emoglobina e che ha permesso di aumentare significativamente la
sopravvivenza nei soggetti responsivi. Recentemente sono stati impiegati anche i fattori
di crescita ricombinanti (G-CSF e GM-CSF).
Il solo approccio terapeutico in gradi di modificare significativamente la storia naturale
della malattia è il trapianto allogenico di ellule staminali emopoietiche. La procedura
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consente di curare in modo ottimale l’insufficienza midollare e di prevenire la comparsa di
emopatie maligne, ma è gravato da una elevata incidenza di secondi tumori a carico di
organi ed apparati non emopoietici, con sopravvivenze globali intorno al 50%.
Eritroblastopenia pura o aplasia eritroide selettiva (pure red cell aplasia, PRCA)
L’eritroblastopenia selettiva acquisita è una condizione patologica caratterizzata da ridotta
capacità di proliferazione e maturazione dei progenitori eritroidi (BFU-E e CFU-E), con
eritroblastopenia selettiva nel midollo osseo e anemia isolata nel sangue periferico.
Dal punto di vista patogenetico si distinguono principalmente forme a patogenesi
immunomediata e forme a patogenesi virale.
La PRCA è stata frequentemente descritta in associazione a timoma, patologie
autoimmuni come il lupus eritematosus sistemico e l’artrite reumatoide, mononucleosi
infettiva, diordini linfoproliferativi. Nel siero di questi pazienti sono stati dimostrati anticorpi
IgG diretti contro gli eritroblasti e in alcuni casi contro l’eritropoietina, in grado di inibire in
vivo ed in vitro l’eritropoiesi. L’associazione con il timoma segnalata inizialmente in oltre
la metà edi casi, sembra essere in realtà meno frequente; in alcuni casi si può osservare
regressione spontanea della eritroblastopenia dopo asportazione del timoma.
Generalmente i pazienti rispondono alla terapia immunosoppressiva con steroidi,
ciclosporina, ciclofosfamide, globulina anti-linfocitaria. Il trattamento della eventuale
patologia associata può talvolta indurre come nel caso del timoma, remissione spontanea
della PRCA.
La seconda forma di eritroblastopenia selettiva acquisita è quella a patogenesi virale. Il
virus più frequentemente coinvolto è il Parvovirus B19, che infetta selettivamente i
precursori eritroidi utilizzando come recettore l’antigene P. Il virus è ubiquitario e circa il
90% della popolazione adulta risulta sieropositivo. L’infezione induce una aplasia
transitoria della serie eritroide, che non si manifesta clinicamente nei soggetti normali,
mentre determina una anemia severa (crisi aplastica) nei pazienti con condizioni
emolitiche croniche, come la sferocitosi ereditaria e l’anemia a cellule falciformi.
L’infezione generalmente è autolimitante; anemia particolarmente severa può necessitare
di supporto trasfusionale.
Individui immunocompromessi possono sviluppare una infezione cronica da Parvovirus
B19 che si manifesta con PRCA cronica o, meno frequentemente, con pancitopenia. La
diagnosi è basata sulla dimostrazione del DNA virale nel siero. La terapia può avvalersi di
immunoglobuline ad alte dosi che contengono generalmente un elevato titolo anti-B19.
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5. Anemia da insufficienza renale cronica
E’ una condizione patologica caratterizzata da anemia dovuta a ridotta produzione di
eritropoietina in corso di insufficienza renale cronica.
Alla patogenesi possono contribuire alcuni fattori secondari, quali la presenza in circolo di
inibitori dell'eritropoiesi (poliamine e peptidi), l’iperparatiroidismo secondario, una ridotta
sopravvivenza eritrocitaria e cause correlate alla dialisi (perdite di sangue, emolisi
traumatica, intossicazione da Al).
Circostanze della diagnosi
La diagnosi di anemia da insufficienza renale cronica viene generalemente formulata in
pazienti con diagnosi nota di insufficinza renale cronica, spesso in trattamento dialitico da
tempo.
Per valori di creatinina superiori a 3-5 mg/dL l’anemia diventa marcata (Hb < 8-9 g/dL).
L’anemia è più severa nei pazienti che abbiano anche un diabete mellito, mentre è lieve o
assente nei pazienti con rene policistico.
Esami di laboratorio
Gli accertamenti utili alla diagnosi consistono nell’esame emocromocitometrico, che
dimostra anemia normocitica con conteggio reticolocitario inadeguato per il grado di
anemia (< 2%) e leucociti e piastrine nella norma, e negli esami di funzionalità renale
(creatininemia, azotemia, uricemia), che confermano l’insufficienza renale cronica.
L’anemia da insufficienza renale cronica deve essere primariamente differenziata
dall’anemia delle malattie croniche (anch’essa normocitica, nelle fasi iniziali). A tal fine
sono utili la valutazione dello stato del ferro corporeo (sideremia, TIBC, ferritina sierica) e
degli indici di fase acuta che risultano nella norma nei pazienti con insufficienza renale
cronica (tabella 1).
Tabella 1 - Diagnosi differenziale tra anemia delle malattie croniche e anemia da
insufficienza renale cronica
Anemia
cronica
da
malattia Anemia da insufficienza
renale cronica
MCV, fL
80-90
80-100
Sideremia, µg/L
< 60
60-150
TIBC
100-300
240-360
Ferritina sierica
> 100
Ambito normale
Indici fase acuta
Aumentati
Normali
Creatinina sierica
Normale
Aumentata
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Terapia
La terapia di elezione dell’anemia da insufficienza renale cronica è la somministrazione di
eritropoietina umana ricombinante, generalmente per via endivenosa. Il 95% dei pazienti,
se trattati con dosi adeguate, rispondono, ottenendo un miglioramento della qualità di vita
ed un prolungamento della sopravvivenza.
Le principali complicanze in corso di trattamento con rHuEpo sono costituite da eventi
trombotici dell'accesso vascolare, dall’aggravamento dell'ipertensione arteriosa con
episodi di encefalopatia ipertensiva, e dallo sviluppo di aplasia eritroide pura.
L’aplasia eritroide pura in pazienti trattati con eritropoietina è dovuta ad anticorpi antieritropoietina, che si possono sviluppare in qualunque momento del trattamento (3-67
mesi).
Il sospetto diagnostico viene generalmente posto in pazienti con insufficienza renale
cronica responsivi al trattamento con rHuEpo, che sviluppano anemia severa e diventano
trasfusione-dipendenti.
La diagnosi viene confermata dall’assenza quasi completa di reticolociti nel sangue
periferico e di cellule eritroidi immature nel midollo osseo, con presenza di anticorpi antieritropoietina neutralizzanti.
Il trattamento è basato sull’impiego di immunoglobuline ad alte dosi e corticosteroidi, ed
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6. Anemia da malattia cronica
Per anemia da malattia cronica o anemia dell’infiammazione si intende una condizione
patologica, associata a processi infiammatori subacuti e cronici, caratterizzata da anemia
e riduzione della sideremia con depositi corporei di ferro non depleti.
Patogenesi
Un ruolo essenziale nella patogenesi dell’anemia da malattia cronica è svolto dalle
citochine infiammatorie, proteine solubili prodotte da cellule emopoietiche e non
emopoietiche, che intervengono nella regolazione della risposta immune e nel controllo
della risposta infiammatoria. Le citochine agiscono con meccanismo autocrino, paracrino,
endocrino ed i loro effetti sono ridondanti e pleiotropici.
Le citochine possono essere distinte in prima analisi sulla base dell’attività (e delle cellule
che le producono) in citochine immunoregolatorie coinvolte nello sviluppo e
nell’attivazione di linfociti e monociti (IL-2, IL-4, IL-10, IFN- , e TGF- ),citochine prodotte
dai monociti/macrofagi in risposta ad agenti infettivi ad azione pro-infiammatoria (IL-1,
TNF- , ed IL-6) ed infiammatoria (IL-8), e citochine che fungono da fattori di crescita per i
progenitori ed i precursori dei granulociti e dei monociti (IL-3, IL-5, IL-7, GM-CSF, GCSF).
In corso di processi infiammatori cronici, l’eccessiva produzione di citochine infiammatorie
(interleuchina 1, tumor necrosis factor- , interleuchina 6) determina una serie di
alterazioni del metabolismo del ferro, che comprendono un accumulo di ferro nelle cellule
del sistema reticolo-endoteliale (con conseguente riduzione della sideremia ed aumento
della ferritina) ed una riduzione dell’assorbimento intestinale. Queste alterazioni sono
associate ad inibizione della secrezione di eritropoietina e dell’eritropoiesi (Figura 1).
Viene inoltre aumentato il rilascio di G-CSF, con stimolo della mielopoiesi e conseguente
leucocitosi neutrofila. L’iperproduzione di IL-6, che è un fattore di crescita e di
differenziazione dei megacariociti induce piastrinosi.
Figura 1 – Patogenesi dell’anemia associata a malattie infiammatorie croniche
IL-1
TNF
Epo
IFN
Erytroid
progenitor
cell
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Il mediatore delle alterazioni del metabolismo del ferro è costituito dall’epcidina, una
proteina di fase acuta ad azione antibatterica, sintetizzata principalmente dal fegato in
risposta all’IL-6.
Un’aumento della sintesi di epicidina comporta una ridotta espressione delle proteine di
trasporto intestinali, con conseguente inibizione dell’assorbimento del ferro, una riduzione
dell’espressione della ferroportina (proteina responsabile dell’escrezione del ferro)
associata ad un aumento dell’espressione di ferritina nei macrofagi. Questo determina un
“blocco” o “sequestro” del ferro nel sistema monocito-macrofagico, che si riflette in una
riduzione della sideremia e della saturazione della transferrina, mentre la ferritina sierica,
che è in equilibrio con la ferritina citoplasmatica (vedi cap. 8), è normale o aumentata ad
indicare che che i depositi di ferro dell’organismo non sono depleti.
Tra le cause più frequenti di anemia da malattia cronica, troviamo malattie infettive
(infezioni polmonari, endocardite batterica subacuta, infezioni croniche delle vie urinarie,
processi infettivi della pelvi, osteomieliti), malattie flogistiche non infettive (artrite
reumatoide, lupus eritematoso sistemico, polimialgia reumatica, sarcoidosi, febbre
reumatica, enterite regionale), malattie neoplastiche (carcinomi, anche occulti, morbo di
Hodgkin, linfomi non-Hodgkin)
Circostanze della diagnosi
Nella maggior parte dei casi (circa il 70% dei casi diagnosticati di anemia da malattia
cronica), l’anemia dell’infiammazione è un rilevo clinico o laboratoristico effettuato in
pazienti con una patologia infiammatoria nota. In questi casi il quadro clinico è
generalmente dominato dai sintomi e segni della malattia di base, di cui l’anemia non
modifica significativamente il decorso clinico.
L’anemia da malattia cronica può, tuttavia, rappresentare (in circa il 30% dei casi) anche il
primo segno di malattia in soggetti altrimenti asintomatici e con anamnesi negativa per
malattia cronica. Tra le malattie infiammatorie croniche ad esordio subdolo e
scarsamente sintomatico, troviamo soprattutto neoplasie occulte. È quindi assolutamente
necessario, di fronte ad una diagnosi di anemia dell’infiammazione, giungere quanto
prima alla diagnosi certa della malattia di base.
Esami di laboratorio
Gli esami di laboratorio che consentono di formulare la diagnosi di anemia delle malattie
croniche comprendono l’esame emocromocitometrico con conteggio reticolocitario, la
valutazione dello stato del ferro corporeo, e gli indici di fase acuta.
L'anemia da malattia cronica è generalmente di grado lieve o moderato, normocromica
normocitica in circa i tre quarti dei casi, e quasi sempre nelle fasi iniziali della malattia,
mentre tende a diventare modicamente microcitica (MCV tra 75 e 80 fL) e ipocromica con
il perdurare della condizione morbosa. Il conteggio reticolocitario è inadeguato al grado di
anemia.
2006, Fondazione Ferrata Storti. Il contenuto di questa dispensa è fornito a titolo gratuito dalla Fondazione Ferrata Storti. Si
invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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La valutazione dello stato del ferro corporeo dimostra una sideremia inferiore a 60 µg/dL
(ambito normale: 60-150 µg/dL), con TIBC compresa tra 100 e 300 µg/dL (ambito
normale: 240-360 µg/dL), e ferritina sierica normale o aumentata (ambito normale: 15250 µg/L). Dal punto di vista operativo, in presenza di una sideremia ridotta, si può
considerare indicativo di un blocco reticolo-endoteliale del ferro un valore di ferritina
sierica superiore a 100 µg/L.
Diagnosi differenziale
L’anemia delle malattie croniche deve essere primariamente distinta dall’anemia da
carenza di ferro sulla base della valutazione dello stato del ferro corporeo.
Nell’anemia delle malattie croniche il quadro è caratterizzato da una sideremia ridotta
(inferiore a 60 g/dL), con TIBC normale o ridotta (100-300 µg/dL) e ferritina sierica
normale o aumentata (superiore a 100 µg/L).
L’anemia da carenza di ferro è invece caratterizzata da sideremia ridotta (inferiore a 60
g/dL), con TIBC aumentata (superiore a 360 µg/dL) e ferritina sierica ridotta (inferiore a
10-15 µg/L).
I casi di associazione fra anemia delle malattie croniche e carenza di ferro sono
caratterizzati da microcitosi eritrocitaria netta (MCV inferiore a 75 fL), con sideremia
ridotta e ferritina sierica pari compresa tra 10-15 e 100 g/L, generalmente 40-50 µg/L. In
questi casi si osserva risposta parziale alla terapia marziale
Terapia
La terapia dell’anemia delle malattie croniche è costituita primariamente dal trattamento
della malattia infiammatoria cronica, e, nei casi in cui è possibile ottenere la remissione
del processo infiammatorio, si osserva risoluzione dell’anemia.
In caso di anemia severa, o in presenza di patologie associate (per esempio nei soggetti
cardiopatici) è possibile ricorrere alla terapia trasfusionale con globuli rossi concentrati.
Recentemente è stato sperimentato l’uso dell’eritropoietina umana ricombinante,
ottenendo risposte nel 40-50% dei casi.
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7. Anemia da carenza di ferro
Il metabolismo del ferro nell’uomo
La quantità totale di ferro presente nell’organismo (ferro corporeo) è pari a 3-5 g. Circa
1800 mg si trovano negli eritrociti circolanti, circa 3 mg nel plasma (transferrina), 300 mg
nel midollo osseo, 600 mg nel sistema reticolo-endoteliale, 300 mg nel muscolo, 1000 mg
nel fegato (Figura 1).
Figura 1 – Turn-over del ferro nell’organismo.
Midollo
osseo
Fegato
Fe
Sistema
reticoloendoteliale
La sede di assorbimento del ferro è il duodeno (Figura 2). Il ferro mediamente assorbito
al giorno è circa 1-2 mg.
Figura 2 – Meccanismi molecolari dell’assorbimento intestinale del ferro.
Lume
intestinale
enterocito
plasma
DMT1
Tf
HFE
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Nel citoplasma cellulare il ferro è legato alla ferritina, una proteina di deposito, ubiquitaria.
La proteina contiene fino a 4,000 Fe/mole. La ferritina è costituita da 24 subunità; è un
ibrido citoplasmatico di due tipi di catene: H (cr 11) e L (cr 19). La catena H ha attività
ferro-ossidasica; ci sono circa 20 (pseudo)geni della catena H su vari cromosomi. Alcuni
potrebbero essere funzionali.
Una piccola frazione della ferritina è secreta nel plasma (ferritina plasmatica o sierica). La
ferritina sierica è in equilibrio con la ferritina citoplasmatica, rappresentando un indice
attendibile dei depositi di ferro dell’organismo.
La principale proteina di trasporto del ferro nel plasma è la transferrina, una glicoproteina
a singola catena, con due siti di legame per il ferro, sintetizzata principalmente dal fegato.
Negli epatociti, la sintesi della transferrina, così come quella della ferritina, è regolata con
un meccanismo di tipo feed back negativo trascrizionale dal ferro citoplasmatico (Figura
3).
Figura 3 - Meccanismo di regolazione intracellulare del metabolismo del ferro.
scarce cellular iron
ferritin mRNA
5'
ORF
results in high affinity IRP1
and less degradation of
IRP2
TfR mRNA
5'
3'
IRP1
ORF
3'
IRP2
translation is inhibited
stable mRNA and
efficient translation
Fe
Fe
5'
ORF
3'
efficient translation of
ferritin mRNA
IRP1
IRP2
abundant cellular iron
5'
ORF
3'
TfR mRNA is degraded
results in low affinity IRP1
and degradation of IRP2
La perdita media di ferro al giorno è pari a 1-2 mg. I principali meccanismi attraverso i
quali avviene la perdita di ferro sono la desquamazione cellulare, le mestruazioni ed altre
perdite ematiche.
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Parametri per la valutazione dello stato del ferro corporeo
Una valutazione accurata dello stato del ferro corporeo può essere ottenuta
determinando la concentrazione del ferro nel siero (sideremia), la concentrazione
plasmatica della transferrina (transferrinemia) o della capacità totale legante il ferro (Total
Iron Binding Capacity, TIBC), la saturazione della transferrina e la concentrazione della
ferritina sierica. Gli intervalli di normalita di questi parametri sono indicati in tabella 1.
Tabella 1 - Parametri per la valutazione dello stato del ferro corporeo ed intervalli di
normalità.
Parametro
Intervallo di normalità
Sideremia
60-150 µg/dL
TIBC (Total Iron Binding Capacity)
240-360 µg/dL
Saturazione della transferrina
15-50%
Ferritina sierica
M 15-250 g/L
F 10-150 g/L
Anemia da carenza di ferro
Fisiopatologia
L’anemia da carenza di ferro è il risultato di un processo, il primo passaggio del quale è
rappresentato dala deplezione dei depositi di ferro, una condizione caratterizzata da
ferritina sierica inferiore a 10 µg/L nella femmina o 15 µg/L nel maschio (Figura 4).
In presenza di un ridotto apporto di ferro al midollo eritroide si instaura una condizione di
eritropoiesi carente di ferro, caratterizzata da una sideremia inferiore a 60 µg/dL, una
TIBC superiore a 360 µg/dL, una concentrazione emoglobinica compresa entro i limiti di
normalità, con un volume globulare medio (MCV) di circa 80 fL (intervallo di normalità 8397 fL).
Nel momento in cui la richiesta di ferro del midollo emopoietico non è più soddisfatta, si
sviluppa l’anemia da carenza di ferro, caratterizzata da una concentrazione emoglobinica
inferiore a 12 g/dL nella donna e 13 g/dL nell’uomo, MCV inferiore 80 fL, MCH inferiore a
27 pg (anemia microcitica e ipocromica), conteggio reticolocitario inadeguato al grado di
anemia (inferiore al 2%), bilirubina da normale a ridotta (anemia di tipo ipoproliferativo),
sideremia ridotta (inferiore a 60 µg/dL), TIBC elevata (superiore a 360 µg/dL) e ferritina
sierica ridotta (inferiore a 10-15 µg/L).
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Figura 4 - Fasi di sviluppo la carenza di ferro.
N
D
E
A
dep
Hb
(N =normale, D: deplezione dei depositi corporei, E = eritropoiesi carente di ferro, A =
anemia da carenza di ferro, dep = depositi, Hb = emoglobina):
Circostanze della diagnosi
Il quadro clinico dell’anemia da carenza di ferro è caratterizzato da sintomi e segni dovuti
all’anemia (astenia, affaticabilità, dispnea da sforzo, pallore, tachicardia) e da sintomi e
segni da carenza di ferro, che comprendono una ridotta capacità lavorativa o scolastica,
disturbi del comportamento (in particolare irritabilità), e, nelle condizioni più severe,
perversioni del gusto (pica). La carenza di ferro provoca anche alterazioni della cute che
appare secca e rugosa, degli annessi cutanei, (unghie incavate a vetrino d'orologio,
coilonichia), e delle mucose, con ragadi agli angoli della bocca (stomatite angolare),
glossite e disfagia (sindrome di Plummer-Vinson), pseudomembrane esofagee.
La carenza di ferro può considerarsi una condizione parafisiologica in bambini e ragazzi,
nei quali la rapidità della crescita determina un aumentato fabbisogno di ferro (ma non
solo, anche di folati) e nelle donne in età feconda, nelle quali il ciclo mestruale induce con
elevata frequenza una deplezione dei depositi di ferro. In questi casi, un’attenta anamnesi
consentirà di valutare se sussista l’indicazione ad ulteriori indagini sulla causa di carenza
di ferro, oppure se procedere direttamente con la terapia marziale, non trascurando di
valutare attentamente la risposta al trattamento.
La carenza di ferro è da considerarsi una condizione patologica in adulti/anziani, nei quali
la causa più frequente è lo stillicidio cronico di sangue dal tubo digerente o dal
dall’apparato genito-urinario.
Le condizioni più frequentemente associate a stillicidio cronico di sangue dal tubo
digerente, fisiologicamente inferiore a 1 mL al dì, ; sono la gastropatia emorragica da
aspirina o altri farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS), l’ernia iatale e/o esofagite
da reflusso, le emorroidi, i diverticoli del colon, le neoplasie gastriche o del grosso
intestino.
Un’altra condizione da considerare come cause di carenza di ferro è rappresentata dal
malassorbimento, ed in particolare dal morbo celiaco. Nei paesi in via di sviluppo
un’importante concausa nello sviluppo della carenza di ferro è rappresentata
dall'infestazione da elminti.
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Un quadro clinico particolare è la cosiddetta anemia factitia o sindrome di Lasthénje de
Feriol (dal nome della protagonista del romanzo francese Une histoire sans nome).
Questa sindrome colpisce donne relativamente giovani, svolgenti un'attività paramedica,
soprattutto religiose, con disadattamento socio-affettivo e tendenza masochista, che
praticano ripetuti autosalassi. Le modalità dei salassi - occulti - sono le più varie, spesso
con profonde automutilazioni.
Esami di laboratorio e strumentali
Gli esami di laboratorio utili alla diagnosi di anemia da carenza di ferro sono l’esame
emocromocitometrico, che dimostra anemia microcitica e ipocromica con contegio
reticolocitario inadeguato al grado di anemia (inferiore al 2%), ed i parametri per la
valutazione dello stato del ferro corporeo che dimostrano una sideremia ridotta (inferiore
a 60 µg/dL), TIBC elevata (superiore a 360 µg/dL) e ferritina sierica ridotta (inferiore a 1015 µg/L). La bilirubina totale ed indiretta risultano nella norma.
La ricerca di stillicidio cronico di sangue dal tratto gastrointestinale e dal tratto genito
urinario prevede, come primo passagio la ricerca di sangue occulto nelle feci (positivo per
perdite di 10-20mL al dì) ed un esame completo delle urine con valutazione microscopica
o citometrica del sedimento urinario, da approfondire, in caso di positività, con gli
opportuni esami strumentali.
Diagnosi differenziale
L’anemia da carenza di ferro va differenziata dalle altre condizioni di anemia microcitica,
costituite essenzialmente dalle sindromi talassemiche e dall’anemia delle malattie
croniche. In seconda istanza sono da considerare anemie rare (HbC, anemia
sideroblastica congenita).
La diagnosi differenziale con la talassemia e l’anemia delle malattie croniche è
essenzialmente basata sulla valutazione dello stato del ferro corporeo (Tabella 2).
Tabella 2 - Parametri per la valutazione del ferro corporeo nelle anemie microcitiche.
Parametro
Carenza di ferro
Malattie croniche
Talassemie
(eterozigote)
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emoglobina di circa 2 g/dL dopo 3-4 settimane di terapia può essere utilizzato come
criterio di un’adeguata risposta terapeutica. Dopo la correzione dell’anemia, la terapia
marziale deve essere continuata per repletare i depositi di ferro, fino ad ottenere una
concentrazione di ferritina sierica superiore a 50 g/L, oppure empiricamente per 4-6
mesi. In circa il 10% dei casi, la terapia per via orale non è efficice, e si rende necessaria
la somministrazione endovenosa.
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8. Anemie megaloblastiche
Il metabolismo dell’acido folico e della vitamina B12 (cobalamina)
Acido folico
L’acido folico (acido pteroilmonoglutammico) è una molecola che funge da donatore di
unità mono-carboniose nella sintesi di macromolecole biologiche: le purine (adenina e
guanina), il deossitimidilato monofosfato (dTMP), la metionina (sintetizzata
dall’omocisteina).
Prodotto da vegetali e batteri, l’acido folico si trova nella frutta e nella verdura.
L’assorbimento avviene prevalentemente a livello del digiuno e dell’ileo prossimale. Il
principale organo di deposito è il fegato: le riserve corporee sono di 5-20 mg mentre il
fabbisogno giornaliero minimo è di 50 µg, ma diviene considerevolmente più alto in molte
condizioni fisiologiche e patologiche. Pertanto un deficitario apporto o un consumo
eccessivo possono comportare carenza in pochi mesi.
Vitamina B12 (cobalamina)
La vitamina B12 è un complesso metallo-organico; è costituita da un anello corrinico,
composto da 4 anelli pirrolici che legano un atomo di cobalto, e da un nucleotide,
composto da una base (5,6-dimetilbenzimidazolo) legata mediante legame -glicosidico
ad una molecola di riboso 3-fosfato. Le molecole attive sono la metil-cobalamina e
l’adenosil-cobalamina.
Agisce da cofattore nella sintesi della metionina dall’omocisteina, provocando, in caso di
carenza, la cosiddetta “trappola dei folati”, che determina le alterazioni megaloblastiche, e
nella sintesi del succinil CoA dal metilmalonil CoA, che determina le alterazioni
neurologiche.
La vitamina B12 è contenuta in carne, latte e latticini. Nello stomaco si lega ad una
proteina, R-binder. Nel duodeno la proteina viene degradata e la vitamina B12 si lega al
fattore intrinseco (FI), sintetizzato dalle cellule parietali dello stomaco. Nell’ileo la vitamina
viene assorbita mentre il fattore intrinseco viene degradato.
La cobalamina assorbita viene legata nel plasma dalla transcobalamina, una proteina
sintetizzata principalmente nel fegato.
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Patogenesi
Il midollo osseo emopoietico è attivamente proliferante. La proliferazione cellulare
richiede la duplicazione del DNA: la sintesi di DNA può avvenire solo in presenza di
concentrazioni adeguate di metaboliti attivi della vitamina B12 e dell’acido folico. La
mancanza di questi metaboliti comporta la morte intramidollare degli eritroblasti, e quindi
eritropoiesi inefficace e anemia. Comporta anche mielopoiesi e magacariocitopoiesi
inefficace, che esitano in leucopenia e piastrinopenia (pancitopenia).
Cause di carenza di acido folico
Le cause di carenza di acido folico comprendono un insufficiente apporto alimentare, un
aumentato fabbisogno, un alterato assorbimento intestinale, l’uso di farmaci antifolici ed
errori metabolici congeniti (sindrome di Lesch-Nyhan).
Una carenza di folati dovuta ad insufficiente apporto alimentare è di frequente riscontro
negli etilisti (vino e birra contengono pochi folati e l’alcool interferisce con il metabolismo
dei folati), negli anziani in condizione di disagio socio-economico, e nei tossicodipendenti
con dieta sbilanciata.
Un’aumentata richiesta di acido folico può determinarne carenza anche in condizioni
fisiologiche come l’adolescenza, la gravidanza e l’allattamento (rischio di danni al midollo
spinale del feto!). Un deficit di folati è di frequente riscontro in condizioni patologiche
caratterizzate da elevato turn-over cellulare, come le anemie emolitiche croniche e la
policitemia vera, e nei soggetti emodializzati.
Una carenza di acido folico è di frequente riscontro in condizioni di alterato assorbimento
intestinale, come nella sprue tropicale, la malattia celiaca dell'adulto, e nel prolungato uso
di barbiturici e di difenil-idantoina.
Alcuni farmaci agiscono interferendo con la via metabolica dei folati. Tra gli agenti più
comunemente utilizzati, ricordiamo il thrimethoprim/sulfametossazolo, il methotrexate
(antifolici), la 6-mercaptopurina, la 6-tioguanina (anaoghi delle purine), il 5-fluorouracile
(analogo delle pirimidine), l’idrossiurea e la citarabina (inibitori della ribonucleotide
reduttasi).
Bisogna infine ricordare l’ossido nitroso (N2O), impiegato in anestesia, che determina la
degradazione della metil-cobalamina, inducendo anemia megaloblastica acuta.
Cause di carenza di vitamina B12:
La carenza di vitamina B12 può essere dovuta ad un insufficiente apporto alimentare
(raro, soltanto nei vegetariani stretti, i cosiddetti vegetaliani), ad un alterato assorbimento,
e ad errori metabolici congeniti (sindrome di Imerslund-Gräsbeck).
L’alterato assorbimento intestinale può essere causato dalla mancata produzione di
fattore intrinseco, da un’alterazione della flora intestinale (eccessiva crescita batterica,
infestazione da Botriocefalo), e da un alterato (sprue tropicale, malattia celiaca
dell'adulto, enterite regionale).
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La mancata produzione di fattore intrinseco si può riscontrare dopo gastrectomia
(soprattutto totale), e nell’anemia perniciosa, una malattia a patogenesi immunologica,
frequente fra gli abitanti del Nord Europa e gli Afro-americani, che comporta progressiva
atrofia della mucosa gastrica ed esordio clinico dopo i 60 anni.
Quadro clinico
Le manifestazioni cliniche delle anemie megaloblastiche comprendono sintomi e segni
dell’anemia (pallore, affaticabilità, tachicardia, polso celere, soffi olosistolici puntali,
cardiopalmo, dispnea da sforzo), frequentemente associate a manifestazioni
gastrointestinali (megaloblastosi dell’epitelio intestinale), come glossite, anoressia,
dispepsia, diarrea (particolarmente frequenti nella carenza di acido folico).
Nella carenza di vitamina B12, il quadro è complicato da manifestazioni neurologiche
dovute alla demielinizzazione, seguita da degenerazione assonale, dei cordoni posterolaterali del midollo spinale e dei nervi periferici (atassia, parestesie, etc.).
Diagnosi
Gli accertamenti diagnostici utili al corretto inquadramento del paziente con anemia
megaloblastica prevedono l’esame emocromocitometrico, il conteggio reticolocitario, il
dosaggio della bilirubina totale ed indiretta e dei livelli sierici di vitamina B12 sierica, folati
sierici, omocisteina sierica.
L’esame emocromocitometrico dimostra anemia macrocitica (nelle forme conclamate
MCV
110 fL), con presenza di megaovalociti nello striscio di sangue periferico,
tendenza alla, o presenza di leucopenia con ipersegementazione dei neutrofili, tendenza
alla, o presenza di piastrinopenia (quindi pancitopenia nelle forme conclamate), ed il
conteggio reticolocitario risulta inadeguato al grado di anemia.
Gli esami ematochimici rivelano una bilirubina indiretta tendenzialmente aumentata
(riflette il meccanismo patogenetico: eritropoiesi inefficace), così come la lattico
deidrogenasi (LDH) sierica.
I dosaggi sierici della vitamina B12 e dell’acido folico consentono di evidenziare il deficit
del o dei composti (Tabella 1).
Tabella 1 - Indagini di laboratorio utili per la diagnosi di carenza di vitamina B12 e folati
Ambito normale
Possibile carenza
Carenza
Vitamina B12 sierica (ng/L)
> 200
100-200
< 100
Folati sierici (µg/lL)
>4
3-4
<3
Omocisteina sierica (µmol/l)
5-15
15-25
> 25
2-7
<2
Test di
Schilling (B12) > 7
(eliminazione urinaria, %)
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Test di Schilling.
Questo test valuta l’assorbimento della vitamina B12. Consiste nel somministrare
vitamina B12 marcata per via orale, dosandone l’escrezione urinaria nelle 48 ore
successive. Nel soggetto con ridotto assorbimento (es. anemia perniciosa) l’escrezione
urinaria è significativamente inferiore rispetto al normale.
Diagnosi differenziale
Il riscontro di un’anemia con MCV superiore a 110 fl è altamente suggestivo di anemia
megaloblastica. Queste, tuttavia, devono essere in ogni caso differenziate da tutte le
condizioni caratterizzate da anemia macrociticha (MCV > 100 fl), ed in particolare dalle
sindromi mielodisplastiche, dalle anemie aplastiche e dalle anemie emolitiche.
Terapia
La terapia dell’anemia megaloblastica si basa primariamente sulla somministrazione di
acido folico e/o vitamina B12.
L’acido folico viene somministrato alla dose di 5 mg al dì per os. A questo dosaggio è
generalmente in grado di correggere il deficit anche nei soggetti con malassorbimento. La
somministrazione di folati è in grado di correggere l’anemia anche nei pazienti con deficit
di vitamina B12, senza tuttavia agire sulle manifestazioni neurologiche, che possono nel
frattempo progredire drammaticamente. É quindi assolutamente necessario, in fase
diagnostica, valutare sia il dosaggo di acido folico sia quello di vitamina B12.
La vitamina B12 viene somministrata alla dose di 100-500 µg/die i.m. E’ anche disponibile
una preparazione per os, utilizzabile nei soggetti con carenza dietetica.
La risposta reticolocitaria si osserva generalmente in 3-5 giorni, mentre i livelli di
emoglobina si normalizzano entro 1-2 mesi di trattamento.
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9. Sindromi talassemiche
Sintesi delle catene globiniche
I geni che codificano per le catene globiniche umane (embrionarie, fetali e dell’adulto)
sono mappati sul cromosoma 11 e sul cromosoma 16. E’ da notare che sul cromosoma
16 esistono due geni alfa (Figura 1).
Figura 1 – Mappatura dei geni delle catene globiniche sui cromosomi 11 e 16.
Cromosoma 11
G
A
Cromosoma 16
La molecola di emoglobina è costituita da 4 catene globiniche (uguali a due a due),
ciascuna delle quali lega un gruppo eme (quindi, ci sono 4 gruppi eme in una molecola di
emoglobina) (Figura 2).
Figura 2 – Struttura quaternaria dell’emoglobina.
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Nel corso della vita embrionale vengono sintetizzate le emoglobine Gower 1 (
),
Portland (
), Gower 2 (
). Le caterne e sono sostituite rapidamente dalla catena
, che costituisce con la catena l’emoglobina fetale (Hb F) 2 A o G 2). Alla nascita
l’eoglobina è costituita per il 75% da HbF e per il 25% da HbA ( 2 2). Nei primi sei mesi
dopo la nascita la trascritzione del gene si riduce rapidamente (Figura 3).
Nell’adulto la composizione emoglobinica normale è Hb A ( 2 2) in percentuale superiore
al 97% del totale, Hb A2 ( 2 2) inferiore al 3% ed Hb F 2 2) inferiore all’1% del totale
dell’emoglobina
Figura 3 - Sintesi globinica a vari stadi dello sviluppo embrionario e fetale.
Fegato
50
Sacco
vitellino
Midollo
Milza
40
30
20
10
18
24
6 12
Vita intrauterina
30
6
Nascita
12
18
24 30
36
Periodo postanatale
42 48
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50
Le sindromi talassemiche
Le sindromi talassemiche sono disordini ereditari della sintesi della globina caratterizzate
da microcitosi e ipocromia, nelle quali una lesione genica trasmessa come carattere
ereditario comporta riduzione o abolizione completa della sintesi di una o più catene
globiniche. La sintesi di emoglobina è deficitaria e si hanno alterazioni degli eritroblasti e
degli eritrociti provocate dalle catene globiniche in eccesso, con conseguente eritropoiesi
inefficace, da morte intramidollare degli eritroblasti, ed iperemolisi periferica.
Alfa talassemie
Le alfa talassemie sono sindromi talassemiche da deficitaria o assente sintesi di catene
Sono ampiamente diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo, in Africa, in Medio Oriente e
nel Sud-Est Asiatico. Le forme 0 sono prevalentemente diffuse nel Sud-Est Asiatico e nel
Mediterraneo, mentre sono rare in Africa ed in Medio Oriente (Figura 4).
Figura 4 – Distribuzione della - talassemia nel mondo.
1-15%
5-15%
60%
5-40%
+
Thalassemia
o
Thalassemia
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invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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Patogenesi
La maggior parte dei casi di alfa talassemie sono dovute a delezione di geni alfa
(ereditata). Il termine + viene usato per definire un tipo di alfa talassemia nella quale un
solo gene alfa è deleto su un singolo cromosoma 16 ( -) (Figura 5).
Figura 5 – Patogenesi delle
+
talassemie
+
thal
X
Il termine 0 viene usato per definire un tipo di alfa talassemia nella quale entrambi i geni
alfa di un cromosoma 16 sono deleti (--) (Figura 6).
Figura 6 – Patogenesi delle
0
talassemie.
0
X
thal
X
Esistono anche alfa talassemie da meccanismi diversi dalla delezione genica, ma sono
rare.
Vi soggetti che hanno 5 geni alfa, 3 dei quali mappati su un cromosoma, e che derivano
da un crossing over ineguale (Figura 7).
Figura 7 - Patogenesi delle
+
talassemie.
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Classificazione e quadro clinico delle -talassemie da delezione
Tipo di -talassemia
Genotipo
Quadro clinico ed ematologico
eterozigote
--/
Soggetto asintomatico con Hb normale o lievemente
ridotta (12-13 g/dL), microcitosi (MCV 70-80 fL), 510% Hb Bart's ( 4) alla nascita (sangue placentare e
sangue del neonato)
omozigote
--/--
Idrope fetoplacentare: morte prematura del feto o
morte perinatale (il feto ha solo Hb H, o 4, che ha
un’elevata affinità per l’ossigeno e porta a grave
ipossia tissutale)
eterozigote
- /
Soggetto asintomatico, con Hb normale, MCV
normale o ai limiti inferiori della norma (~ 80-85 fL);
tracce di Hb Bart's (1-2%) alla nascita (sangue
placentare e sangue del neonato)
omozigote
- /-
Soggetto asintomatico con Hb normale o lievemente
ridotta (12-13 g/dL), microcitosi (MCV 70-80 fL), 510% Hb Bart's ( 4) alla nascita (sangue placentare e
sangue del neonato)
o
+
talassemia
talassemia
Malattia con Hb H ( 4)
Dall’interazione o/ + deriva la cosiddetta malattia con Hb H 4). Il genotipo è --/- ed
esita in un quadro clinico di thalassemia intermedia, di variabile gravità (Hb 7-10 g/dL,
MCV variabilmente ridotto, da 60 a 80 fL ), con splenomegalia.
Vi è reticolocitosi, in quanto il meccanismo principale di anemia è l’emolisi periferica (le
catene in eccesso precipitano e danneggiano gli eritrociti).
All’elettroforesi dell’emoglobina si osserva Hb H in percentuale del 5-20% del totale.
Diagnosi
In generale la diagnosi di
talassemia si articola su 3 livelli. Il primo consiste nel
riconoscere una condizione di anemia microcitica ipocromica, o più semplicemente di
microcitosi, attraverso un esame emocromocitometrico eseguito con un contatore
elettronico. Il secondo consiste nell'escludere una carenza di ferro, attraverso una
valutazione del ferro corporeo (sideremia, TIBC e ferritina sierica), ed una talassemia,
attraverso l'elettroforesi dell'emoglobina. Se quest'ultima evidenzia Hb H 4) (nell'adulto)
o Hb Bart's ( 4) (nel neonato), può già essere posta la diagnosi di talassemia. Il terzo
livello é quello costituito dallo studio della sintesi delle catene globiniche in vitro (che
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dimostra la ridotta sintesi di catene ) e dallo studio dei geni
biologia molecolare (Southern blot, PCR).
attraverso un approccio di
Beta talassemie
Le beta talassemie sono sindromi talassemiche da deficitaria o assente sintesi di catene
Le -talassemie sono ampiamente diffuse nell’area Mediterranea, in Medio Oriente, in
India e Pakistan, nel sud della Cina e nel Sud-Est Asiatico. Sono meno frequenti in Africa,
ad eccezione del Nord-Africa (Figura 8).
Figura 8 - Distribuzione della - talassemia nel mondo.
1-25%
15-30%
4-8%
1-3%
4-8%
1-3%
3-7%
Thalassemia
In Italia il difetto genetico ha una frequenza di circa 0,015: la prevalenza di eterozigoti è
quindi del 3% circa. Le aree di maggiore incidenza sono rappresentate dal delta del Po,
dalla Calabria, dalla Sicilia e dalla Sardegna (Figura 9).
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Figura 9 – Distribuzione geografica della - talassemia in Italia
0,985
0,015
0,985
0,9702 0,0148
0,015
0,0148 0,0002
Patogenesi
Il termine o viene usato per definire un tipo di beta talassemia nella quale il gene non
dà luogo a sintesi di catene beta.Il termine + viene usato per definire un tipo di beta
talassemia nella quale il gene produce catene beta, anche se in misura ridotta (1020%).
Il meccanismo patogenetico molecolare consiste in mutazioni puntiformi che comportano
una ridotta o assente sintesi della globina beta. Ne esistono molte ed interessano diversi
meccanismi dell’espressione genica e della sintesi proteica (tabella 1).
Mutazioni puntiformi che comportano una ridotta trascrizione genica [flanking regions
(promoter, ATA box)], alterano la regolazione dell'espressione genica e sono responsabili
di + talassemie; tipica é la mutazione in posizione - 29 (ATA ATG) che comporta una
talassemia clinicamente non grave dell’etnia africana nera.
Mutazioni puntiformi che comportano un’alterata maturazione dell’mRNA: possono, ad
esempio, interessare le cosidette consensus sequences ed interferire quindi con lo
splicing impedendo la maturazione dell'mRNA; sono responsabili sia di o talassemie che
di + talassemie, ma in generale di quest’ultime.
Mutazioni che introducono un codone di stop della traduzione dell'RNA messaggero
[Codoni di stop: UAA, UAG, UGA (uracile per timidina in RNA)] sono responsabili di o
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talassemie; tipica é la mutazione in posizione 39 C T (CAG TAG) responsabile della
o
talassemia sarda, e più in generale mediterranea (la o talassemia più diffusa in Italia).
Tabella 1 – Mutazioni identificate nei pazienti -talassemici nel bacino del Mediterraneo
Mutazione
Thal.Intermedia
n (%)
Thal.Major
n (%)
cd 39 C T
72 (24)
136 (53.5)
IVS I-110 G A
52 (17)
58 (23)
IVS I-6 T C
94 (31.5)
16 (6.3)
IVS I-1 G T
8 (2.7)
19 (7.4)
IVS II-1 G A
14 (4.7)
10 (3.9)
IVS II-745 C G
11 (3.7)
9 (3.5)
-101 C T
10 (3.3)
---
cd 6 –A
10 (3.3)
3 (1.2)
-87 C G
8 (2.7)
---
Sicilian
13 (4.3)
---
Lepore Boston
2 (0.7)
---
IVS I-5 G A
---
1 (0.4)
IVS I-5 G C
1 (0.3)
---
IVS II-844 G C
1 (0.3)
---
IVS I-2 T A
1 (0.3)
---
cd 44 –C
---
1 (0.4)
cd 8 –AA
1 (0.3)
1 (0.4)
TOTALE
298 (100)
254 (100)
Quadri clinici e circostanze della diagnosi
Si possono distinguere diversi quadri clinici che correlano con il genotipo. I soggetti
eterozigoti sono asintomatici, i soggetti omozigoti presentano un quadro di talassemia
major o intermedia, mentre soggetti doppi eterozigoti o composti genetici presentano un
quadro di talassemia major o intermedia.
La talassemia major è caratterizzato da grave anemia (Hb minore di 6 g/dl), nella quale la
sopravvivenza dipende da regolari trasfusioni di eritrociti.
La talassemia intermedia è una condizione meno grave, con valori di Hb compresi fra 6 e
9 g/dl e occasionale fabbisogno di trasfusioni di eritrociti.
Per talassemia minor si definisce una condizione con lieve anemia, con emoglobina
generalmente compresa fra 9 e 12 g/dl, senza evidenti manifestazioni cliniche.
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La talassemia minima o trait talassemico è una condizione caratterizzata da valori di
emoglobina normali, microcitosi eritrocitaria e alterazione della composizione
emoglobinica.
Con il termine di portatore silente si intende una condizione senza alcuna alterazioni degli
eritrociti e dei parametri eritrocitari, ma con ridotta sintesi globinica in vitro e con lesione
molecolare del gene beta.
Trait talassemico
Il trait talassemico è una condizione clinicamente silente, che viene diagnostica
occasionalmente, sulla base di esami di controllo, eventualmente suggeriti da
un’anamnesi familiare positiva, o eseguiti per altri accertamenti. La concentrazione
emoglobinica è generalmente ai limiti inferiori della norma, che può essere associata ad
un conteggio aumentato di globuli rossi, mentre sono presenti marcate microcitosi ed
ipocromia.
Un tipico emocromo di un soggetto beta talassemico eterozigote è, a titolo
esemplificativo, riportato in tabella 2.
Tabella 2 - Emocromo di un tipico beta talassemico eterozigote (portatore):
Ambito di riferimento
13.0-17.0
Emoglobina (Hb), g/dL
13.0
Ematocrito (Hct), %
39.9
39-50
Eritrociti (RBC), 1012/L
6.13
4.3-5.9
Volume globulare medio (MCV), fL
65
80-100
Contenuto emoglobinico
globulare medio (MCH), pg
21.2
27-32
Reticolociti (Retic), %
oppure 109/L
1.2
74
0.5-2.0
20-100
Leucociti (WBC), 109/L
7.5
4-11
Piastrine (PLT), 109/L
240
100-400
La diagnosi è formulata sulla base del riscontro, all’elettroforesi dell’emoglobina, di una
percentuale di HbA2 superiore al 3%. Il risultato dell’elettroforesi dell’emoglobina di un
soggetto beta talassemico eterozigote è riportato a titolo esemplificativo in tabella 3.
Tabella 3 – Esempio di elettroforesi dell’emoglobina in un soggetto
eterozigote
Hb A
Hb A2
Hb F
)
)
-talassemico
93.6% (v.n. > 97%)
5.5% (v.n. < 3%)
0.9% (v.n. < 1%)
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-thalassemia major o morbo di Cooley
Quadro clinico e circostanze della diagnosi
La malattia diventa clinicamente manifesta fra i 6 ed i 18 mesi, quando si ha
fisiologicamente lo switch globinico da catene a catene , e diventa quindi manifesto il
difetto dei geni beta. Le manifestazioni cliniche della -talassemia major sono dovute sia
alla grave anemia che all'espansione dell'attività eritropoietica, largamente inefficace, nel
midollo osseo e in sedi extramidollari. Il bambino diventa inappetente, pallido ed itterico e
la crescita rallenta.
Se non viene trattato il paziente sviluppa splenomegalia, epatomegalia, deformazioni
scheletriche per l’abnorme espansione del midollo eritroide e sindrome ipercatabolica.
In epoca pre-trasfusionale (fino alla fine degli anni ’60) i pazienti presentavano
ipostaturalismo e deformazioni scheletriche, e morivano nei primi 10 anni per varie
complicanze (infezioni, complicanze cardiache).
Nei primi 10-15 anni di regolare terapia trasfusionale (fino alla metà degli anni ‘80) i
pazienti sviluppavano ipogonadismo ipogonadotropo e morte per scompenso cardiaco
intorno ai 20 anni (complicanze del sovraccarico di ferro trasfusionale).
Con una regolare terapia trasfusionale (Hb pre-trasfusionale intorno a 9-9.5 g/dL) e
regolare terapia chelante del ferro (anni ‘90) l’aspettativa di vita è attualmente quasi
normale.
Esami di laboratorio
L’esame emocromocitometrico dimostra grave anemia microcitica; la valutazione
morfologica dello striscio di sangue periferico mostra la presenza di eritroblasti circolanti.
Gli esami ematochimici evidenziano iperbilirubinemia indiretta.
L’elettroforesi dell’emoglobina dimostra l’aumento dell’emoglobina A2 e dell’emoglobina
F.
Diagnosi prenatale
Se entrambi i genitori sono portatori (25% di probabilità di avere un figlio con talassemia
major) e si conoscono le alterzioni geniche dei geni beta, si può ricorrere alla diagnosi
prenatale sul feto. Mediante amniocentesi o biopsia trofoblastica si può ottenere DNA da
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200-250 mg di ferro, dopo trasfusione di 50-100 unità si sviluppa sovraccarico di ferro.
Questo può essere prevenuto mediante somministrazioni sottocutanee quotidiane di
desferrioxamina (infusione di 8-10 ore con apposita pompa): in tal modo il ferro viene
escreto come ferrioxamina nelle urine nella bile.
(DFO 40-60 mg/kg/die, infusione sottocutanea mediante, minimo di 5 infusioni alla
settimana, con una compliance dell’86% a Pavia).
La sola terapia in grado di guarire la malattia è rappresentata dal trapianto allogenico di
cellule staminali emopoietiche da donatore familiare. È attualmente in fase sperimentale
l’impiego di donatori non consanguinei e di cellule staminali da cordone ombelicale.
Tra le terapie sperimentali in fase di studio , meritano di essere ricordati gli approcci
finalizzati alla riattivazione della sintesi di emoglobina fetale, e la terapia genica.
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10. Anemie emolitiche: classificazione e valutazione di laboratorio
Si definisce anemia emolitica una condizione patologica caratterizzata da anemia dovuta
a ridotta sopravvivenza degli eritrociti nel sangue periferico.
Dal punto di vista fisiopatologico, i reperti di laboratorio tipici dell'anemia emolitica sono
rappresentati dall’iperbilirubinemia indiretta (non coniugata), associata all’aumento della
lattico deidrogenasi (LDH), espressione della distruzione eritrocitaria e dalla reticolocitosi,
espressione dell’aumentata attività eritropoietica midollare compensatoria: il conteggio
reticolocitario è superiore al 3% e a 100 x 109/L nei casi di anemia emolitica conclamata.
I reticolociti si riconoscono con la colorazione sopravitale con blu brillante di cresile o altro
colorante (arancio di acridina), che evidenzia una sostanza reticolo-filamentosa (da cui il
nome) costituita da RNA ribosomiale precipitato e aggregato (figura 1).
Figura 1 – Morfologia degli eritroblasti e dei reticolociti
Nei casi di anemia emolitica grave si possono osservare in circolo di eritroblasti,
espressione di eritropoiesi molto espansa.
Nel soggetto normale oltre il 90% degli eritrociti viene fagocitato dai macrofagi della milza,
del fegato e del midollo osseo stesso (emolisi extravascolare).
Una piccola frazione di eritrociti (< 10%) può fisiologicamente andare incontro a
distruzione in circolo (emolisi intravascolare): l'emoglobina che si libera in circolo viene
rimossa con diversi meccanismi.
Si possono individuare due principali meccanismi di emolisi: l’emolisi intravascolare, e
l’emolisi extravascolare.
In corso di emolisi intravascolare l’emoglobina liberata nel plasma è instabile e viene
rapidamente dissociata nei suoi dimeri, che vengono prontamente complessati
dall'aptoglobina, una alfa-2-globulina presente nel plasma in elevata concentrazione.
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La lisi intravascolare di 10 ml di eritrociti (pari a circa lo 0,5% di tutta la massa
eritrocitaria) è in grado di dare emoglobinemia di tale entità da conferire al plasma un
colore debolmente rosa. Per essere certi che si tratti di emolisi intravascolare, il prelievo
di sangue venoso va fatto con le dovute cautele.
Il complesso emoglobina-aptoglobina viene rapidamente rimosso dal circolo ad opera
degli epatociti, che processano l'emoglobina in modo analogo ai macrofagi (assenza di
iperbilirubinemia).Poiché i metodi di dosaggio valutano l'aptoglobina libera, in caso di
emolisi intravascolare la concentrazione di aptoglobina risulta ridotta o assente: i valori
normali sono compresi tra 0.25 e 2.0 g/L.
Una volta saturata la capacità di legame dell’aptoglobina, le molecole di emoglobina
passano il filtro renale e vengono assorbite dalle cellule del tubulo renale prossimale,
all’interno delle quali vengono catabolizzate; il ferro viene staccato e immagazzinato in
molecole di ferritina e emosiderina. Siccome le cellule senescenti dell'epitelio tubulare
passano nell’urina, la presenza di emosiderina al loro interno può essere rivelata
mediante colorazione di Perls del sedimento urinario (emosiderinuria).
Nell’emolisi intravascolare grave viene saturata anche la capacità di assorbimento
tubulare (circa 1,5 mg/min, ovvero circa 5 g nelle 24 ore) e l'emoglobina compare in
soluzione nell’urina del paziente (emoglobinuria). L’emolisi acuta intravascolare massiva
può comportare comparsa di insufficienza renale acuta, per cui è importante monitorare
in questi pazienti diuresi, peso specifico delle urine, azotemia e creatininemia.
Classificazioni delle anemie emolitiche
Si possono utlizzare diversi criteri di classificazione delle anemie emolitiche. In base al
meccanismo patogenetico le anemie emolitiche si possono distinguere in anemie
emolitiche da cause intraglobulari ed anemie emolitiche da cause extraglobulari (Tabella
1). In base all’ereditarietà le anemie emolitiche possono essere classificate in congenite
ed acquisite.
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11. Disordini della membrana eritrocitaria
La membrana eritrocitaria
Funzioni
La membrana eritrocitaria ha diverse funzioni che concorrono a rendere efficiente
trasporto di ossigeno da parte dell'eritrocito: è una barriera che consente di mantenere
all'interno del globulo rosso concentrazioni di ioni e di metaboliti molto diverse da quelle
del plasma; contiene canali e meccanismi energetici di pompa per il flusso attivo di sodio,
potassio, calcio e glutatione ossidato; consente di mantenere la forma a disco biconcavo
e l'integrità strutturale dell'eritrocito.
Struttura
Nella membrana eritrocitaria si distinguono proteine intrinseche o integrali
transmembrana: banda 3 e glicoforina, e proteine estrinseche: spectrina, actina, anchirina
e banda 4.1 e 4.2 (figura 1).
Le proteine estrinseche concorrono alla costituzione del citoscheletro, che ha un ruolo
fondamentale nel mantenimento della forma a disco biconcavo e della elasticità
(deformabilità) eritrocitaria.
Figura 1 - Struttura della membrana eritrocitaria e del citoscheletro.
Banda 3
Glicoforina-C
Doppio
strato
Proteina 4.2
Spectrina
- catena
- catena
Anchirina
Proteina 4.1
Spectrina
Actin
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Lesioni molecolari dei geni delle proteine del citoscheletro sono responsabili di disordini
ereditari caratterizzati da alterazioni morfologiche degli eritrociti e da iperemolisi, come
la sferocitosi ereditaria, caratterizzata da difetti molecolari comportanti perdite di
membrana eritrocitaria, sferocitosi, ridotta deformabilità eritrocitaria e iperemolisi;
l'ellissocitosi ereditaria, dovuta a difetti molecolari che inducono ellissocitosi, ridotta
deformabilità eritrocitaria e iperemolisi; la piropoichilocitosi ereditaria e la stomatocitosi
ereditaria.
Sferocitosi ereditaria
Epidemiologia
La sferocitosi ereditari ha un’incidenza di 1:1.000-5.000. Si trasmette in genere come
carattere autosomico dominante, ma esistono anche forme recessive.
Patogenesi
Sono state identificate mutazioni a carico dei geni della spectrina, dell’anchirina e della
banda 3: in tutti i casi c’è un deficit quantitativo di spectrina come risultato finale. Nel 50%
dei casi si osserva una anchirina funzionalmente anomala, che non consente un normale
assemblaggio del citoscheletro (forma comune, autosomica dominante). Nel 25% vi è
una spectrina funzionalmente anomala, che non lega la proteina 4.1 (forma comune,
autosomica dominante). Infine, nel 25% si rileva un deficit di banda 3.
Le alterazioni della membrana eritrocitaria causano la perdita di parte di questa, con una
conseguente riduzione del rapporto superficie-volume che determina la forma sferoidale
del globulo rosso.
Quadro clinico
L’espressione clinica della sferocitosi ereditaria è molto variabile. In alcuni individui
l’anemia è assente in quanto la distruzione dei globuli rossi è completamente
compensata dall’incremento dell’attività eritropoietica; il solo sintomo è costituito dall’ittero
associato alle alterazioni morfologiche eritrocitarie e ad un conteggio reticolocitario
modestamente aumentato.
La forma più tipica è caratterizzata da moderata anemia, ittero, splenomegalia.
Occasionalmente la sferocitosi ereditaria può manifestarsi anche con grave ittero
emolitico neonatale.
Il decorso clinico può essere complicato da colelitiasi (in più del 50% dei soggetti), e da
crisi aplastiche da parvovirus B19. In questo caso l’infezione può presentarsi in modo
asintomatico o con sintomi influenzali o rash maculopapulare, ed induce eritroblastopenia
e reticolocitopenia acute. Le crisi aplastiche devono essere differenziate da alterazioni
megaloblastiche acute da carenza di folati (dovuta all’aumentata richiesta da parte
dell’eritropoieisi iperplastica).
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Globulo rosso normale
Sferocito
M
Diagnosi
Gli esami di laboratorio utili alla diagnosi di sferocitosi ereditaria comprendono l’esame
emocromocitometrico, che dimostra MCV ~ 80 fL, MCHC 35-38 g/dL e reticolocitosi, lo
striscio di sangue periferico, che evidenzia la presenza di sferociti, gli esami
ematochimici, che dimostrano iperbilirubinemia indiretta edil test della resistenza
osmotica eritrocitaria, che dimostra riduzione della resistenza osmotica eritrocitaria, o, in
altre, parole, aumento della fragilità osmotica (test: resitenza osmotica eritrocitaria, test di
lisi al glicerolo).
Terapia
Nei pazienti con ittero importante, complicato da colelitiasi, anemia con crisi aplastiche, la
terapia consiste nella splenectomia, che consente di aumentare la sopravvivenza
eritrocitaria, di ridurre l’ittero e di correggere l’anemia nei casi in cui è presente.
Dopo la splenectomia, specie nei bambini, sono particolarmente frequenti le infezioni,
anche gravi, da batteri Gram-positivi capsulati.
Nelle settimane precedenti l’intervento è opportuno procedere, presso il competente
Ambulatorio dell’ASL locale, alle vaccinazioni antipneumococcica (vaccino Pneumo 23
Pasteur Merieux, 1 fl), contro Hemophilus influenzae (vaccino Acthib Pasteur Merieux, 1
fl) e contro meningococco (vaccino Mencevax Smith Kline Beecham, 1 fl).
Inoltre, i bambini devono fare terapia antibiotica quotidiana con Fenospen, cpr da
1.000.000 U, 1 cpr la sera prima di coricarsi.
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Elissocitosi ereditaria
L’ellissocitosi ereditaria è un disordine della membrana eritrocitaria caratterizzato dalla
presenza di eritrociti allungati (elissociti) nel sangue periferico. Anche in questo caso la
sindrome clinica può essere il risultato di diverse alterazioni delle proteine del
citoscheletro eritrocitario. L'espressione clinica negli eterozigoti è variabile, in quanto ad
una estremità troviamo pazienti con anemia e splenomegalia, mentre all'estremità
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12. Deficit enzimatici eritrocitari
Il metabolismo eritrocitario
L’energia necessaria per mantenere la normale configurazione e deformabilità cellulare,
ed il contenuto in acqua e cationi, viene essenzialmente prodotta sotto forma di ATP
metabolizzando glucosio attraverso la glicolisi anaerobia (ciclo di Embden-Meyerhof) e il
ciclo dei pentoso-fosfati (shunt degli esoso-monofosfati o glicolisi aerobia).
Il 2,3-difosfoglicerato (2,3-DPG), principale fosfato eritrocitario e principale determinante
della curva di dissociazione dell'ossigeno, viene prodotto nello shunt di RapoportLuebering della glicolisi: maggiore è il contenuto di 2,3-DPG degli eritrociti, più facilmente
l'ossigeno viene ceduto dall'emoglobina.
La membrana e l'emoglobina vengono protette dal danno ossidativo attraverso potere
riducente prodotto da NADH, NADPH e glutatione ridotto.
Deficit degli enzimi eritrocitari possono comportare diminuita produzione di ATP o di
potere riducente, e quindi danno eritrocitario.
Le principali anemie emolitiche da deficit enzimatici sono quelle da carenza di glucoso-6fosfato-deidrogenasi (G6PD), di piruvato chinasi, di pirimidin-5' nucleotidasi.
Deficit di glucosio-6-fosfato deidrogenasi
Il deficit di G6PD interessa più di 200.000.000 di pazienti nel mondo. Il gene che codifica
per la G6PD si trova sul cromosoma X. La forma allelica normale viene definita di tipo B.
Circa il 20% dei neri africani hanno una variante A+, funzionalmente normale.
Le due varianti patologiche più note sono G6PD A-, neri africani ed afroamericani, e
G6PD Mediterranea.
Quadro clinico
La variante G6PD A- è responsabile di lieve emolisi cronica con crisi emolitiche acute
(emolisi intravascolare) non gravi.
La variante G6PD Mediterranea è responsabile di emolisi cronica con gravi crisi
emolitiche intravascolari.
La sindrome clinica più frequente è l'emolisi acuta intravascolare con emoglobinuria da
stress ossidativo, sostenuto da: farmaci [sulfamidici, antimalarici (primachina),
nitrofurantoina], tossine (fave/favismo), infezioni virali o batteriche, chetoacidosi diabetica.
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invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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Diagnosi
La diagnosi si basa sulla dimostrazione della ridotta attività enzimatica. Risultati
falsamente negativi possono essere ottenuti se si esegue il test poco dopo la risoluzione
di episodi acuti, dopo i quali si trovano in circolo globuli rossi giovani e reticolociti, ad
elevata attività G6PD.
Profilassi e terapia
L’intervento primario in caso di deficit di G6PD Meditaerraneo consiste nell’evitare
l’assunzione o nella immediata sospensione, delle sostanze ossidanti, e nel pronto
trattamento delle infezioni intercorrenti.
Nei casi di anemia severe e sintomatica, si può ricorrere alla trasfusione di globuli rossi
concentrati.
Deficit di piruvato chinasi
E’ la più frequente anemia emolitica dovuta ad un difetto enzimatico della glicolisi
anaerobia.
L’anemia e l’ittero possono essere importanti e vi può essere sovraccarico di ferro
secondario da aumentato assorbimento intestinale.
La morfologia eritrocitaria è normale: la diagnosi viene sospettata sulla base del test
dell'autoemolisi, che dimostra una aumentata emolisi spontanea, non corretta
dall'aggiunta di glucosio. La diagnosi deve essere confermata dalla dimostrazione di una
ridotta attività enzimatica.
Deficit di pirimidin-5' nucleotidasi
Una rara anemia emolitica da deficit enzimatico è quella da carenza di pirimidin-5'
nucleotidasi: la peculiarità è la caratteristica punteggiatura basofila degli eritrociti dovuta a
residui di RNA, che non viene normalmente degradato in seguito al deficit enzimatico.
Poichè l’enzima viene anche inibito dal piombo, la punteggiatura basofila si osserva
anche nell’intossicazione da piombo.
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13. Emoglobinopatie
Definizione
Le emoglobinopatie sono disordini ereditari dovuti a lesioni molecolari dei geni delle
catene globiniche: le alterazioni molecolari delle proteine consistono in sostituzioni di uno
o due aminoacidi, delezioni di aminoacidi, elongazione delle catene globiniche e variabili
fusioni delle catene globiniche e .
Patogenesi
Le anomalie molecolari delle principali emoglobinopatie comprendono sostituzioni
aminoacidiche singole, sostituzioni aminoacidiche doppie nella stessa catena globinica,
delezioni aminoacidiche singole, delezioni aminoacidiche singole, fusione di catene
globiniche (tabella 1).
Tabella 1 - Anomalie molecolari delle principali emoglobinopatie
Sostituzioni aminoacidiche singole:
• Drepanocitosi o Hb S 6 Glu Val)
• Emoglobina C ( 6 Glu Lys)
• Emoglobina D-Punjab ( 121 Glu Gln)
• Emoglobina E ( 26 Glu Lys)
• Emoglobina O araba ( 121 Glu Lys)
Sostituzioni aminoacidiche doppie nella stessa catena globinica:
• Emoglobina C Harlem 6 Glu Val; 73 Asp Asn)
Delezioni aminoacidiche singole:
• Emoglobina Leiden 6 o 7 Glu 0)
Delezioni aminoacidiche singole:
• Emoglobina Constant Spring ( + 31C: 142 Stop Gly)
Fusione di catene globiniche:
• Kenia (1-81)- (86-146)
Quadri clinici
Le manifestazioni delle emoglobine S, C, D, E e O araba (caratteri autosomici recessivi)
riguardano lo stato omozigote.
Alcune varianti emoglobiniche vengono definite “instabili”, in quanto mostrano una ridotta
solubilità o una elevata suscettiblità all’ossidanzione. Le emoglobine instabili sono
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trasmesse come caratteri autosomici dominanti, e sono quindi clinicamente espresse allo
stato eterozigote.
La drepanocitosi (Hb S) è caratterizzata da emolisi cronica con crisi vaso-occlusive e
patologia d’organo secondaria. Le emoglobine C, D e O sono caratterizzate da modesta
anemia emolitica cronica, mentre l'emoglobina E presenta un quadro di marcata
microcitosi (MCV 55-65 fl); la doppia eterozigosi con la
thalassemia comporta un
quadro di talassemia major o intermedia.
Le emoglobine instabili sono caratterizzate da grave anemia emolitica non responsiva
alla splenectomia (Hb Nottingham, Hb Indianapolis), anemia emolitica parzialmente
responsiva alla splenectomia (Hb Köln, Hb S. Francisco, Hb Torino), modesta anemia
emolitica cronica con crisi emolitiche acute (Hb Leiden, Hb Seattle, Hb Zürich), nessuna
manifestazione ematologica (Hb J Rovigo, Hb Prato).
Drepanocitosi o anemia a cellule falciformi
Patogenesi
L’alterazione molecolare consiste nella mutazione missense GAG GTG nel codone 6
del gene della globina con conseguente sostituzione dell’acido glutammico con la valina
nella posizione 6 della catena polipeptidica della globina .
L’emoglobina S (da sickle, falce) diventa insolubile a basse tensioni di ossigeno e tende a
cristallizzare, provocando l’aspetto falciforme delle emazie (figura 1).
Figura 1 - Morfologia degli eritrociti normali e falciformi.
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Correlazione genotipo/fenotipo della drepanocitosi
Eterozigote 6S/ N (sickle cell trait). Asintomatico (raramente crisi dolorose). Es.
emocromocitometrico normale; ~ 40% di Hb S (elettroforesi o HPLC).
Omozigote 6S/ 6S (drepanocitosi o sickle cell anemia). Quadro clinico importante, ma
variabile. Hb da 7 a 10 g/dL, MCV normale. Hb S > 90%, Hb A2, Hb F.
Composto genetico 6S/ 0 (microdrepanocitosi). Quadro clinico di thalassemia intermedia
con crisi vaso-occlusive. Hb da 7 a 10 g/dL, MCV 60-70 fL. Hb S > 90%, Hb A2, Hb F.
Composto genetico 6S/ + (microdrepanocitosi). Quadro clinico di thalassemia minor con
rare crisi vaso-occlusive. Hb da 9 a 12 g/dL. Hb S ~ 60%, Hb A 40%, Hb A2, Hb F.
Quadro clinico
Il quadro clinico della drepanocitosi è caratterizzato da anemia emolitica cronica con
poche manifestazioni di anemia, nonostante valori di emoglobina oscillanti fra 7 e 10 g/dl,
in quanto la capacità di cessione dell’ossigeno ai tessuti si mantiene buona per lo
spostamento a destra della curva di dissociazione dell’emoglobina per l’ossigeno.
La manifestazione clinica principale è rappresentata dalle crisi vaso-occlusive, o crisi
falcemiche, con infarti tissutali e patologia d’organo secondaria (sindrome toracica acuta,
necrosi ossea, infarti splenici con conseguente atrofia della milza, infarto cerebrale). Gli
infarti tissutali sono spesso complicati da infezioni: tipiche sono le osteomieliti da
Salmonella.
La mortalità è elevata entro i 30 anni; i pazienti oltre i 30 anni tendono ad essere
asintomatici.
Le principali cause di mortalità precoce nei primi anni sono il sequestro splenico acuto,
caratterizzato da febbre, ingrandimento rapido della milza, shock ipovolemico, la sepsi da
pneumococco, le crisi aplastiche, prevalentemente da parvovirus B19, la sindrome
toracica acuta, caratterizzata da dispnea, tosse, dolore toracico ed infiltrati polmonari alla
radiografia del torace.
La principale causa di morte successiva (6-14 anni) è rappresentata dalla vasculopatia
cerebrale, con una mortalità dell’8% entro i 14 anni. Nel 70-80% dei casi l’evento
cerebrovascolare è sostenuto da trombosi, mentre nel 20-30% dei casi la causa è
emorragica. Nella patogenesi di questa complicanza sembra avere un ruolo rilevante
l’ipossia notturna.
Diagnosi
La diagnosi è basata, oltre che sul quadro clinico-ematologico, sul test di falcizzazione
(esposizione degli eritrociti del paziente ad una agente ossidante) e sull’elettroforesi
dell’emoglobina. E’ possibile effettuare la diagnosi prenatale su DNA ottenuto da
amniocentesi o biopsia dei villi coriali mediante l’uso di sonde specifiche.
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Terapia
Semplici misure mediche che riducono significativamente la mortalità: la diagnosi precoce
(prenatale o neonatale); arruolamento del paziente presso un centro per la cura della
drepanocitosi e/o della talassemia; uso profilattico della penicillina deposito (penicillina
deposito una volta al mese dall’età di 4 mesi all’età di 4 anni); vaccinazioni antipneumococco, anti-haemophilus ed anti-meningococco; trasfusioni regolari per la
profilassi dell’ictus.
Dopo il primo episodio di sequestro splenico acuto, è indicata la splenectomia. In caso di
crisi aplastiche, la terapia è costituita dal supporto trasfusionale, mentre è in fase
sperimentale il vaccino anti-parvovirus B19. La terapia della sindrome toracica acuta è
basata sull’exanguinotrasfusione. I soggetti con sintomi e segni riferibili ad accidente
cerebrovascolare devono essere immediatamente indagati con TC o RMN per chiarire la
natura trombotica o emorragica dell’evento. Nei casi di trombosi (70-80%) la terapia
indicata è l’exanguinotrasfusione, seguita da regolari trasfusioni, con l’obiettivo di
mantenere il livello di HbS inferiore al 30%.
Tra le nuove terapie, si annoverano il trapianto di cellule staminali allogeniche da
donatore familiare, che rappresenta l’unica terapia in grado di guarire il paziente, e
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14. Anemie emolitiche immunologiche
Le anemie emolitiche immunologiche sono condizioni patologiche nelle quali la ridotta
sopravvivenza degli eritrociti nel sangue periferico è dovuta ad una reazione
immunologica diretta contro la membrana eritrocitaria.
Classificazione
Le anemie emolitiche immunologiche sono classificate in base al meccanismo
patogenetico in anemie emolitiche da alloanticorpi (malattia emolitica del neonato,
reazione emolitica trasfusionale), anemie emolitiche da autoanticorpi (da anticorpi caldi,
anticorpi freddi, anticorpi bifasici), ed anemie emolitiche da farmaci.
Esami di laboratorio
Gli esami di laboratorio utili per il corretto inquadramento del paziente con anemia
emolitica immunomediata comprendono gli indici di emolisi (iperbilirubinemia indiretta,
aumento dell’LDH, conteggio reticolocitario adeguato per il grado di anemia), e gli indici di
emolisi intravasale (riduzione dell’aptoglobina, emosiderinuria, emoglobinuria). L’esame
più utile per evidenziare la patogenesi immunologica di un’anemia emolitica è il test di
Coombs diretto ed indiretto (Figura 1).
Il test di Coombs diretto svela, mediante l’impiego di anticorpi specifici, la presenza di
anticorpi o frazioni del complemento adesi alla superficie del globulo rosso del paziente.
Il test di Coombs indiretto svela, mediante l’impiego di eritrociti normali, la presenza di
anticorpi antieritrocitari incompleti nel siero del paziente.
Figura 1 – Test di Coombs diretto ed indiretto.
Anticorpi anti-Ig
TEST DI COOMBS
DIRETTO
Agglutinazione
GR paziente
Anticorpi anti-Ig
TEST DI COOMBS
INDIRETTO
Agglutinazione
Siero paziente
GR normali
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Anemie emolitiche da alloanticorpi
Malattia emolitica del neonato
La malattia emolitica del neonato è una condizione nella quale l’emivita degli eritrociti
fetali è ridotta per l’ azione di anticorpi specifici della madre diretti contro antigeni fetali.
Patogenesi
Gli anticorpi materni possono essere diretti contro l’antigene D del sistema Rh del feto
oppure contro gli antigeni A e B del sistema ABO o altri antigeni eritrocitari.
L’anemia emolitica del neonato da anticorpi diretti contro l’antigene D del sistema Rh del
feto si può instaurare in caso di madre Rh-negativa e feto Rh-positivo (padre Rhpositivo). Il contatto tra sangue materno e fetale può avvenire nel corso del I trimestre
(3% dei casi), nel II trimestre (12% dei casi), nel III trimestre (45% dei casi) oppure alla
nascita (65% dei casi). In seguito al contatto con gli eritrociti fetali la madre si immunizza
contro l’antigene D del sistema Rh del feto producendo IgM e, dopo 6 mesi circa, IgG anti
D nel 5-15% dei casi.
Gli anticorpi IgM non superano la barriera feto-placentare e pertanto, anche in caso di
contatto nel I trimestre, difficilmente si osserva l’emolisi degli eritrociti fetali nel corso della
I gravidanza. Alla seconda gravidanza, invece, gli anticorpi IgG anti-D materni, in grado di
superare la barriera feto-placentare, determinano emolisi degli eritrociti del feto Rhpositivi.
La malattia emolitica può essere osservata più probabilmente nel corso della prima
gravidanza nel caso in cui sia avvenuta una precedente immunizzazione della madre su
base trasfusionale.
L’anemia emolitica del neonato da anticorpi diretti contro l’antigene A e B del sistema
ABO può essere osservata in caso di madre di gruppo 0 e feto A o B, mentre
generalmente non si verifica in caso di madre di gruppo A o B. Questo avviene perché gli
individui di gruppo 0, dopo contatto con antigeni A o B, formano anticorpi alloimmuni
prevalentemente di tipo IgG, mentre i soggetti di gruppo A e B, dopo contatto
rispettivamente con antigeni B e A, formano anticorpi alloimmuni di tipo IgM, anche dopo
ripetuti contatti con l’antigene. Pertanto l’immunizzazione di madri di gruppo A o B rimane
un fenomeno immunologico clinicamente silente, dal momento che gli anticorpi IgM non
sono in grado di superare la barriera feto-placentare. Questo rende ragione del fatto che,
nonostante la notevole frequenza dell’immunizzazione ABO materna, la frequenza di
malattia emolitica sia bassa (0.5-1.5%).
Considerando che le madri di gruppo 0 hanno anticorpi innati di classe IgM diretti contro
gli antigeni A e B (per spiegazioni più dettagliate si rimanda al capitolo sui gruppi
sanguigni), il contatto del sitema immunitario della madre con gli antigeni eritrocitari fetali
induce lo switch di classe delle immunoglobuline, con produzione di IgG e conseguente
comparsa di manifestazioni emolitiche, già nel corso della prima gravidanza.
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Circostanze della diagnosi
Le manifestazioni cliniche sono estremamente variabili per momento della comparsa e
severità della sintomatologia. Durante la vita intrauterina in caso di emolisi severa può
comparire idrope fetale (25°-35°settimana di gestazione), caratterizzata da anemia grave,
ipertensione portale (dovuta ad emopoiesi extramidollare epatica), insufficienza
cardiovascolare, con morte intrauterina per malattia anasarcatica.Dopo la nascita, la
malattia può presentarsi con il quadro dell’ittero grave del neonato caratterizzato, nei 24 primi giorni dopo la nascita, da anemia, ittero e sofferenza neurologica, dovuta alla
tossicità della bilirubina indiretta, che supera la barriera emato-encefalica, con
scomparsa del riflesso della suzione, convulsioni, insufficienza respiratoria. Nei casi più
lievi la malattia si presenta con anemia ed ittero moderato.
Esami di laboratorio
Il sospetto clinico viene confermato mediante test di Coombs indiretto sul sangue
materno, che dimostra la presenza di anticorpi diretti contro eritrociti del feto, e test di
Coombs diretto sul sangue di cordone ombelicale, che evidenzia la presenza di
anticorpi materni sulla superficie degli eritrociti fetali.
Profilassi e terapia
In caso di gravidanza con incompatibilità Rh è indicato praticare subito dopo il primo
parto la profilassi dell’immunizzazione materna con immunoglobuline umane anti-D
(100-300 g post-partum). In caso di passaggio di eritrociti fetali nel circolo materno, il
legame delle immunoglobuline all’antigene D, previene la sensibilizzazione del sistema
immunitario della madre. Questa procedura ha drasticamente ridotto l’incidenza di
malattia emolitica da incompatibilità Rh. In caso di incompatibilità ABO
l’immunoprofilassi non è invece attuabile.
La terapia nel feto si avvale sulla somministrazione intravenosa o intraperitoneale di
trasfusioni di globuli rossi. L’eventuale induzione del parto deve essere valutata in base
all’età gestazionale ed alla risposta alle trasfusioni.
La terapia nel neonato è basata sulla fototerapia, che ossida la bilirubina indiretta
favorendone la coniugazione e l’escrezione epatica, sull’exanguino-trasfusione, che
rimuove gli eritrociti del neonato (oltre alla bilirubina ed agli anticorpi materni nel siero)
sostituendoli con eritrociti ABO compatibili ed Rh negativi, e sullo scambio plasmatico,
che rimuove gli anticorpi materni dal plasma del neonato.
Reazione emolitica trasfusionale
La reazione emolitica trasfusionale si verifica per emolisi acuta degli eritrociti trasfusi o
degli eritrociti del paziente, a causa dell’incompatibilità tra donatore e ricevente
nell’ambito del sistema ABO.
La reazione emolitica trasfusionale può verificarsi per trasfusione di globuli rossi
incompatibili, che vengono emolizzati dagli anticorpi del ricevente, oppure per emolisi dei
globuli rossi del ricevente di gruppo A, B o AB, da parte di anticorpi ad alto titolo presenti
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Quadro clinico
La severità del quadro clinico è variabile in funzione della quantità di sangue trasfusa e
del tipo di autoanticorpo. Il quadro più tipico è caratterizzato dalla comparsa, dopo pochi
minuti dall’inizio della trasfusione, di emolisi acuta associata a brividi, malessere,
nausea, dolore lombare, ipotensione, shock ed insufficienza renale acuta.
Terapia
La terapia consiste nella sospensione immediata della trasfusione e nel trattamento dello
shock.
Anemie emolitiche da autoanticorpi
Le anemie emolitiche autoimmuni possono essere distinte in forme idiopatiche, che
costuitscono circa il 50% dei casi, ed in forme secondarie, che complicano il corso di altre
patologie, in particolare di malattie linfoproliferative (leucemia linfatica cronica, linfomi
Hodgkin e non-Hodgkin, mieloma e malattia di Waldenström), connettiviti sistemiche
(lupus eritematoso sistemico, sclerodermia, artrite reumatoide), malattie infettive
(mononucleosi infettiva, polmonite atipica primaria da mycoplasma pneumoniae),
neoplasie (ovaio), malattie infiammatorie croniche (rettocolite ulcerosa, morbo di Crohn).
Patogenesi
Gli autoanticorpi responsabili dell’emolisi possono essere classificati in base alle
caratteristiche immunologiche in anticorpi caldi, anticorpi freddi (crioagglutinine), anticorpi
bifasici (Tabella 1).
Gli autoanticorpi caldi sono immunoglobuline di classe IgG, con una temperatura ottimale
di legame con gli antigeni eritrocitari di 37° C. Sono responsabili dell’80-90% dei casi di
anemia emolitica autoimmune. Questi anticorpi non sono in grado di attivare il
complemento, ed inducono un’emolisi di tipo extravascolare, mediata dal sistema
monocito-macrofagico del circolo splenico, attraverso i recettori per il frammento Fc delle
IgG (citotossicità anticorpo-mediata).
Gli autoanticorpi freddi sono immunoglobuline di classe IgM, con una temperatura
ottimale di legame con l’antigene compresa tra 4°-34° C. Sono responsabili del 10-20%
dei casi di anemia emolitica autoimmune, con un quadro clinico particolare, definito
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Tabella 1 - Caratteristiche immunologiche degli autoanticorpi.
Caratteristiche
Autoanticorpi
caldi
Autoanticorpi
freddi
Anticorpi
bifasici
Classe della Ig
IgG (IgM, IgA)
IgM (IgA, IgG)
IgG
IgG1 (IgG2, IgG3)
Clonalità della Ig
poli
poli-mono
poli-mono
Specificità antigenica
anti-Rh
anti-I/i
anti-P
Meccanismo di emolisi
extravasale
extra e intravasale
intravasale
Agglutinazione delle emazie rara
presente
presente
°t di legame con GR
4°-34°
0°-20°
Fissazione del complemento non comune
comune
comune (37°)
Potere emolitico diretto
scarso
elevato
elevato
Test di Coombs diretto
pos IgG
pos C3
pos IgG e C3
37° (0°-40°)
Anemie immunoemolitiche da farmaci
In circa il 10% dei casi la reazione immunologica responsabile dell’emolisi è indotta da
farmaci. Possono essere implicati antibiotici (penicilline, cefalosporine), antimalarici
(chinidina), analgesici (diclofenac, tolmetin), antiparkinsoniani (levodopa), chemioterapici
(teniposide, fludarabina, pentostatina), -metildopa.
Sono stati individuati 4 distinti meccanismi associati a questi disordini.
1) Adesione del farmaco alla membrana eritrocitaria con legame ad alta affinità
(penicilline, cefalosporine). Il farmaco è in grado di legarsi strettamente alle proteine della
membrana eritrocitaria in quantità dose dipendente e può stimolare la produzione di un
anticorpo IgG contro un aptene del farmaco, che sostengono un’anemia con decorso
subacuto.
2) Adesione del farmaco alla membrana eritrocitaria con legame a bassa affinità
(chinidina, rifampicina, amfotericina B, diclofenac). Il farmaco si lega debolmente alla
membrana eritrocitaria, determinando la formazione di un anticorpo che stabilizza il
legame membrana-farmaco e attiva la cascata complementare determinando una lisi
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di alcune proteine plasmatiche con meccanismo non immunologico. L’anemia ha un
decorso subacuto.
Circostanze della diagnosi
Anemia emolitica a decorso acuto
Un’anemia emolitica autoimmune ad esordio acuto può complicare il decorso di una
malattia nota, in particolare infezioni, più raramente di malattie linfoproliferative,
neoplastiche, autoimmunitarie, oppure, nelle forme idiopatiche, comparire in pieno
benessere. In entrambi i casi l’emolisi è sostenuta da autoanticorpi caldi ed è
prevalentemente di tipo extravascolare. Il quadro clinico è caratterizzato da anemia,
ittero, splenomegalia, febbre, malessere generale.
L’esordio clinico acuto è caratteristico anche di alcune anemie emolitiche da farmaci (con
legame a bassa affinità alla membrana eritrocitaria: chinidina, rifampicina, amfotericina B,
diclofenac), nelle quali, tuttavia, si osserva un’emolisi di tipo intravasale. Un’attenta
anamnesi farmacologica è in ogni caso indispensabile per un corretto inquadramento del
paziente.
Anemia emolitica a decorso subacuto
L’anemia emolitica complica generalmente il decorso di una malattia nota,
prevalentemente collagenopatie, linfomi, leucemia linfatica cronica, neoplasie, sarcoidosi,
cirrosi epatica. Il quadro clinico può essere asintomatico ed è caratterizzato
principalmente dai segni dell’emolisi cronica. Nel decorso della malattia, tuttavia, si
possono osservare fasi di riacutizzazione di intensità variabile, con sintomatologia
sovrapponibile alle forme acute.
L’esordio clinico subacuto è caratteristico anche della maggior parte dei casi di anemie
emolitiche da farmaci. Occorrerà pertanto valutare con particolare attenzione l’anamnesi
farmacologica.
In alcuni casi l’anemia emolitica può essere associata a piastrinopenia autoimmune:
questo quadro è denominato Sindrome di Evans.
Anemia emolitica da autoanticorpi freddi: malattia da crioagglutinine
La malattia da crioagglutinine è generalmente associata a infezioni (da mycoplasma
pneumoniae o EBV) o malattie linfoproliferative. L’esordio è generalmente sub-acuto o
cronico. Le manifestazioni cliniche sono strettamente correlate all’esposizione al freddo,
quindi più frequenti nei mesi invernali, e sono caratterizzate da cianosi delle parti distali
fino alla necrosi ischemica (segni di agglutinazione e precipitazione dei globuli rossi), e da
segni clinici e biochimici di emolisi, di intensità variabile.
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Anemia emolitica da autoanticorpi bifasici: emoglobinuria parossistica a frigore
Si possono distinguere una forma primitiva ed una forma secondaria, associata a sifilide
terziaria o, più frequentemente, a malattie virali del bambino (mononucleosi infettiva,
parotite, rosolia, varicella). In seguito ad esposizione al freddo, si osserva la comparsa di
emolisi associata a brividi, cefalea, dolori addominali, emoglobinuria. Il decorso è
generalmente acuto, con remissione spontanea, in particolare nelle forme post-infettive
del bambino e dell’adolescente.
Esami di laboratorio
Il sospetto clinico è confermato dalla positività degli indici di emolisi (iperbilirubinemia
indiretta, aumento dell’LDH, reticolocitosi), dalla eventuale positività degli indici di emolisi
intravascolare (riduzione dell’aptoglobina, emosiderinuria, emoglobinuria) (malattia da
crioagglutinine, emoglobinuria parossitica a frigore, farmaci con legame alla maembrana
eritrocitaria a bassa affinità), e dalla positività del test di Coombs.
Nella malattia da crioagglutinine, il dosaggio degli autoanticorpi freddi si effettua a 4° e
l’agglutinazione degli eritrociti è prontamente reversibile riscaldando la miscela a 40°C. Il
test di Coombs diretto risulta positivo per il complemento.
Nelle anemie emolitiche da farmaci, il test di Coombs diretto non risulta sempre positivo,
mentre per osservare la positività del test di Coombs indiretto, nei casi di farmaci che
aderiscono alla membrana eritrocitaria con legami ad alta affinità (penicilline,
cefalosporine) ed a bassa affinità (chinidina, rifampicina, amfotericina B, diclofenac), è
necessaria la presenza del farmaco nella miscela di reazione.
Terapia
La terapia delle anemie emolitiche autoimmuni idiopatiche prevede l’impiego di farmaci
immunosoppressivi. Il farmaco immunosoppressore di prima linea è il prednisone. Nei
pazienti che non rispondono ai corticosteroidi si può ricorrere ad altri afrmaci
immunosoppressivi come azatioprina, ciclofosfamide, ciclosporina. In caso di mancata
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invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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15. Emoglobinuria parossistica notturna
L’emoglobinuria parossistica notturna (EPN) è un disordine clonale della cellula staminale
emopoietica, caratterizzato da anemia emolitica cronica prevalentemente di tipo
intravascolare,
frequentemente associata
a
leucopenia
e
piastrinopenia.
Occasionalmente si hanno episodi emolitici notturni accompagnati da emoglobinuria
mattutina, cui si deve il nome della malattia.
Epidemiologia
Pur essendo descritti casi nella prima e seconda decade di vita, la malattia si manifesta
piú frequentemente nella terza e quarta decade; sono anche descritti casi diagnosticati
oltre i settanta anni. Le femmine sono lievemente piú colpite dei maschi. Vi è una
associazione significativa dell’EPN con l’anemia aplastica, la quale puo` sia precedere la
diagnosi di EPN, sia rappresentarne l’evoluzione. Non sono mai stati descritti casi
famigliari della malattia.
Patogenesi
In tutti i pazienti con EPN è dimostrabile una mutazione somatica del gene PIG-A
(Phosphatidyl Inositol Glycan complementation group A), mappato sul cromosoma X. Si
tratta prevalentemente di mutazioni puntiformi, distribuite lungo tutti i sei esoni da cui è
costituito il gene. Il gene PIG-A codifica per un enzima che catalizza la prima reazione
della biosintesi della molecola di glicosil fosfatidilinositolo (GPI), che funge da ancora per
numerose proteine della superficie cellulare. La mutazione porta ad una inattivazione
completa o parziale del gene e di conseguenza ad una mancata od alterata sintesi
dell’ancora di GPI. A sua volta, l’assenza dell’ancora di GPI determina anche l’assenza di
tutte le proteine GPI-legate sulle cellule derivate dalla cellula staminale emopoietica in cui
la mutazione e’ occorsa ed in tutta la sua progenie (Tabella 1). Va segnalato che in alcuni
pazienti sono state descritte due mutazioni diverse di PIG-A interessanti due diverse
cellule staminali.
Tabella 1 – Proteine di membrana ridotte o assenti sulla superficie delle cellule EPN.
Proteine di inibizione del complemento:
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presenti nel sangue periferico e nel midollo dei pazienti con EPN, e perché nei pazienti
con EPN siano presenti due popolazioni di cellule emopoietiche, una normale,
policlonale, ed una priva di proteine GPI-legate, monoclonale, derivata dalla cellula
staminale mutata. La proporzione delle due popolazioni cellulari (quella normale e quella,
o quelle, mutate) è variabile da paziente a paziente e, nel corso della malattia, puo`
variare anche nello stesso paziente. L’assenza di alcune proteine GPI-legate,
specificamente il DAF (CD55) ed il MIRL (CD59), dalla superficie dei globuli rossi è causa
di una aumentata sensibilità degli stessi all’azione litica del complemento: l’entitá
dell’emolisi dipende dal numero di emazie carenti di CD55 e CD59 e dall’entità di tale
carenza. Infatti, a seconda del tipo di mutazione di PIG-A, è possibile che la sintesi
dell’ancora GPI sia totale oppure parziale: nel primo caso le emazie derivate dalla cellula
staminale mutata sono completamente prive di proteine GPI-legate (cosiddette cellule
EPN tipo III) mentre nel secondo hanno una modesta quota residua di tali proteine
(cellule EPN tipo II; le emazie normali sono di tipo I).
Se la scoperta del difetto molecolare ha permesso di comprendere i meccanismi alla
base di alcuni sintomi della malattia, segnatamente la causa dell’emolisi, essa non spiega
perchè la cellula staminale in cui insorge la mutazione si espanda e dia origine ad una
popolazione cellulare che spesso contribuisce all’emopoiesi del paziente in maniera
consistente.
Una possibile ipotesi è che la perdita di una o piú proteine GPI-legate conferisca alla
cellula staminale mutata un vantaggio proliferativo intrinseco sulle altre cellule staminali
normali. Tuttavia, la recente dimostrazione della presenza di cloni EPN nel sangue
periferico di persone normali, sembra suggerire che l’acquisizione della mtazione non sia
sufficiente per svluppare la malattia. Piú verosimilmente, è possibile che un difetto a
carico dell’emopoiesi normale, e che risparmia invece il clone EPN, sia necessario
affinchè la cellula staminale mutata riesca ad espandersi e ad avere la meglio sulle altre
cellule staminali normali. La significativa associazione dell’EPN con l’anemia aplastica,
unitamente ad evidenze sperimentali, ottenute in modelli animali sembrano dimostrare
che l’evento che conferisce un vantaggio proliferativo al clone EPN sia lo sviluppo di
aplasia midollare su base autoimmunitaria. E’ stato ipotizzato che l’antigene self contro il
quale è diretta la reazione autoimmune sia una proteina ancorata mediante GPI, oppure,
alternativamente, che le cellule con deficit di GPI non espongano le molecole di
costimolazione, necessarie ad attivare la reazione autoimmunitaria. In ogni caso, la
cellula staminale con la mutazione, in queste condizioni, sarebbe in grado di espandersi e
di ricostituire l’emopoiesi.
Nel caso in cui il clone EPN sia in grado di ricostituire completamente l’emopoiesi, il
quadro clinico è caratterizzato essenzialmente da un’anemia emolitica intravascolare (la
cosiddetta EPN florida). Nel caso in cui la ricostituzione dell’emopoiesi sia soltanto
parziale il quadro potrà essere caratterizzato da anemia emolitica associata a leucopenia
e piastrinopenia (pancitopenia) lievi (EPN ipoplastica), da pancitopenia moderata (quadro
di aplasia midollare / EPN) o pancitopenia severa (aplasia midollare con clone EPN).
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Circostanze della diagnosi
Il quadro clinico più tipico è caratterizzato da un’anemia emolitica, con o senza
emoglobinuria, associata, in circa due terzi dei casi, a leucopenia e piastrinopenia, di
grado variabile.
Nel corso della malattia non è infrequente l’insorgenza di carenza di ferro, che viene
perso nelle urine come emosiderinuria ed emoglobinuria (reperti tipici dell’emolisi
intravascolare), e di carenza di acido folico, il cui consumo è incrementato a causa della
aumentata eritropoiesi compensatoria.
In circa il 20% dei pazienti il decorso clinico è complicato da eventi trombotici (pur in
presenza di piastrinopenia), probabilmente dovuti ad una attivazione piastrinica
complemento-mediata. I distretti più tipicamente interessati sono le vene epatiche
(sindrome di Budd-Chiari), le vene addominali, le vene ed i seni cerebrali, le vene del
derma. Le trombosi arteriose sono rare.
La trombosi può anche essere il primo segno di presentazione della malattia: in caso di
interessamento dei distretti vascolari suddetti, che non sono tra le sedi più
frequentemente interessate da eventi trombotici nella popolazione generale,
l’emoglobinuria parossistica nottura deve essere sospettata ed indagata.
Nel caso di presentazione con anemia isolata, l’EPN deve essere posta in diagnosi
differenziale con le anemie emolitiche, ed in particolare quelle caratterizzate da emolisi
intravascolare. In caso di presentazione con pancitopenia l’EPN dovrà essere
differenziata in particolare dalla ipoplasia/aplasia midollare, e dalle sindromi
mielodisplastiche.
Decorso e prognosi
La malattia ha un decorso estremamente variabile, con una sopravvivenza mediana di
circa 10-15 anni. Sono segnalati casi di remissione spontanea.
Le cause di morte più frequenti sono le complicanze trombotiche, e l’insufficienza
midollare, che predispone a complicanze infettive ed emorragiche.
Diagnosi
La diagnosi di EPN viene sospettata sulla base del quadro clinico, delle alterazioni
dell’esame emocromocitometrico (anemia normocitica, leucopenia, piastrinopenia), della
positività degli indici di emolisi (iperbilirubinemia indiretta, aumento dell’LDH,
reticolocitosi), e degli indici di emolisi intravascolare (riduzione dell’aptoglobina,
emosiderinuria, emoglobinuria). Tradizionalmente la diagnosi veniva confermata
mediante il test di Ham, che consiste nell’induzione della lisi delle emazie per attivazione
del complemento dopo acidificazione del siero (pH 6.2), e che è sostanzialmente
specifico per EPN.Attualmente la diagnosi viene confermata mediante analisi
citofluorimetrica di un campione di sangue periferico incubato con anticorpi marcati e
diretti contro proteine GPI-legate. Gli anticorpi piú usati sono quelli diretti contro il CD59
ed il CD55. L’analisi evidenzia la assenza di queste proteine dalla superficie di una parte
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rappresentano una misura piú precisa e costante dell’entità del clone EPN rispetto ai
globuli rossi, la cui quantità è influenzata dal grado di emolisi al momento dell’analisi.
Terapia
Il trattamento dell’EPN deve essere strettamente dipendente dal quadro clinico del
paziente. Le linee generali della terapia prevedono la correzione dell’anemia, il
trattamento e la prevenzione delle complicanze trombotiche, e la modificazione
dell’emopoiesi.
La correzione dell’anemia si basa sull’interruzione dell’attivazione del complemento
mediante l’impiego di corticosteroidi, sulla somministrazione di ferro ed acido folico, le cui
carenze possono aggravare l’anemia, e sull’eventuale terapia trasfusionale con globuli
rossi concentrati.
In caso di complicanza trombotica deve essere immediatamente iniziato un trattamento
con agenti trombolitici (streptochinasi, urochinasi), eparina sodica endovena (il cui
dosaggio viene modulato in base all’aPTT) oppure eparina a basso peso molecolare
sottocute (dosata sul peso corporeo), e dicumarinici (con dosaggio modulato sulla base
del tempo di Quick, INR). Dopo la risoluzione dell’episodio acuto, il trattamento con
dicumarinici deve essere mantenuto per almeno 6 mesi.
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16. Anemia emorragica
E’ una condizione nella quale l’anemia è dovuta a perdita di eritrociti per emorragia
interna o esterna.
Fisiopatologia
L’anemia emorragica è caratterizzata dal punto di vista fisiopatologico dalla perdita di
globuli rossi circolanti e dalla contemporanea riduzione del volume circolante
(ipovolemia).
Questo significa che l’anemia risulterà evidente soltanto dopo correzione, che
generalmente avviene per intervento terapeutico, dell’ipovolemia. Nel caso in cui , dopo
arresto dell’emorragia, non si proceda a correzione terapeutica della volemia, l’ematocrito
si riduce progressivamente per 2-3 giorni: una perdita del 20% di volume plasmatico
viene, infatti, generalmente corretta dall’organismo in 20-60 ore. La risposta eritropoietica
è invece più lenta: l’aumento dei reticolociti si osserva entro 6-12 ore, ma la produzione di
globuli rossi maturi richiede 2-5 giorni.
Circostanze della diagnosi
Per quanto tutte le emorragie possano determinare l’insorgenza di anemia, le evenienze
cliniche più frequenti, nell’ambito di un reparto medico o chirugico, sono la rottura di varici
esofagee in pazienti con epatopatia cronica ed ipertensione portale o il sanguinamento
da neoplasia gastrointestinale.
Nell’ambito del pronto soccorso, le condizioni più frequentemente responsabili di anemia
emorragica sono la rottura di milza con emoperitoneo, l’emotorace e la frattura di femore.
Il quadro clinico dell’anemia emorragica è dominato da sintomi e segni legati
all’ipovolemia (ipotensione ortostatica, tachicardia, oligo-anuria, sincope, shock), ai quali,
dopo correzione terapeutica della volemia, possono subentrare i sintomi e segni dovuti
all’anemia (astenia, affaticabilità, pallore cutaneo-mucoso, dispnea da sforzo, persitenza
della tachicardia).
La severità del quadro clinico dell’anemia emorragica dipende primariamente dall’entità
della perdita ematica.
In caso di perdita ematica inferiore al 20% del volume sanguigno (< 1000 mL in un
soggetto di 70 kg), l’anemia è generalmente tollerata e scarsamente sintomatica nei
soggetti giovani, mentre può diventare sintomatica nei soggetti anziani o con patologie
associate.
In seguito a perdita ematica pari al 20-30% del volume sanguigno (1000-1500 mL in un
soggetto di 70 kg) alcuni individui possono presentare una reazione vaso-vagale
(sensazione di debolezza, sudorazione, nausea, bradicardia, ipotensione) fino allo
svenimento e, talora, alla sincope. Nei soggetti giovani l’anemia è tollerata a riposo ed in
decubito supino, mentre diventa sintomatica in caso di aumentato consumo di ossigeno
(tachicardia e dispnea da sforzo). Nei soggetti anziani o con patologie associate, l’anemia
è invece marcatamente sintomatica.
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Una perdita ematica pari al 30-40% del volume sanguigno (1500-2000 mL in un soggetto
di 70 kg) è associata ad importante sintomatologia da ipovolemia con dispnea,
cardiopalmo e tachicardia a riposo, evidenti segni di ridistribuzione dei flussi sanguigni da
stimolazione adrenergica (in particolare, cute pallida e fredda) e contrazione della diuresi
(da ipersecrezione di ADH), sincope in posizione ortostatica.
In caso di perdita ematica superiore al 40% del volume sanguigno (> 2000 mL in un
soggetto di 70 kg), si instaura una condizione di shock con grave dispnea, acidosi lattica
da inadeguata ossigenazione tissutale, spesso con stato confusionale ed rischio elevato
di morte per shock irreversibile.
Esami di laboratorio
Il sospetto clinico di anemia emorragica deve essere supportato da un esame
emocromocitometrico con conteggio reticolocitario. É inoltre utile la valutazione degli
indici di emolisi (bilirubina totale ed indiretta, LDH), per una corretta diagnosi differenziale.
É fondamentale considerare, nell’interpretazione dell’esame emocromocitometrico, che il
primo esame non riflette la gravità dell’anemia: perché questo avvenga è necessario
correggere prima l’ipovolemia.
Terapia
La terapia dell’anemia emorragica si basa sull’arresto dell’emorragia, sulla correzione
rapida dell’ipovolemia e prevenzione dello shock, e sulla terapia trasfusionale, con
sangue intero, che contiene sia globuli rossi, utili alla correzione dell’anemia, sia plasma,
utile alla correzione dell’ipovolemia, oppure con globuli rossi concentrati.
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17. Emocromatosi
L’emocromatosi è una patologia caratterizzta dall’aumento del contenuto di ferro dei
depositi corporei (fegato, sistema reticoloendoteliale, etc.) che causa conseguenze
patologiche. Il contenuto di ferro dei depositi corporei nei soggetti normali raggiunge
valori fino a 30 mg/kg di peso. Manifestazioni cliniche dovute ad un sovraccarico di ferro
compaiono oltre i 100 mg/kg di peso; diventano gravi oltre i 200 mg/kg.
L’emocromatosi può esssere classificata in primaria (o genetica) e secondaria. (tabella 1)
Tabella 1. Classificazione dell’Emocromatosi
Emocromatosi genetica
Emocromatosi genetica classica (HFE hemochromatosis, type 1)
Emocromatosi genetica giovanile (Juvenile Hemochromatosis, type 2)
a) Chromosome 1q-linked (Hemojuvelin gene [HFE2, HJV] mutation)
b) Anomalie dell’ Epcidina (Hepcidin gene [HAMP] mutation)
Difetto del recettore della transferrina-2 (Transferrin-receptor-2 deficiency, type 3)
Difetto della Ferroportina (Ferroportin deficiency, type 4)
Emocromatosi secondaria
Disordini ereditari (anemie congenite con sovraccarico di ferro)
Talassemia
Deficit di piruvato chinasi
Deficit di G6PDH
Anemie diseritropoietiche congenite
Sferocitosi ereditaria
Disordini
acquisiti
Anemia
sideroblastica congenita
Sindromi mielodisplastiche
Anemie con fabbisogno trasfusionale cronico
Emocromatosi genetica classica (HFE hemochromatosis, type 1)
Patogenesi
Il gene mutato nei pazienti con emocromatosi genetica classica è HFE (che mappa sul
braccio corto del cromosoma 6) (Feder JN, Gnirke A, Thomas W, et al. A novel MHC
class I-like gene is mutated in patients with hereditary haemochromatosis. Nature Genet
1996; 13:399).
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Il gene HFE è strettamente legato agli antigeni HLA, ed è spesso associato all’aplotipo
A3, B7 o B14. La frequenza dell’antigene HLA-A3 nella popolazione generale è circa
28%, nei pazienti con emocromatosi è 70%. La frequenza di HLA B7 è del 23% nella
popolazione genrale e del 50% nei pazienti con emocromatosi.
Il gene HFE codifica per una proteina espressa sulle superficie cellulare come
etreodimero con la 2-microglobulina. Essa lega il recettore della transferrina,
riducendone la sua affinità per la transferrina, che regola criticamente la quantità di ferro
internalizzato nel citosol a costituire il pool labile. La perdita di funzione della proetina
HFE determina una riduzione del ferro del pool labile ed una conseguente
iperespressione delle proteine che promuovono l’assorbimento del ferro (DMT1, figura 1).
gut
DMT1
enterocyte
plasma
Fe3+ Tf
Ferroportin1
Cp
Fe2+
HFE
Erythroid
activity
(?)
Sono state individuate due mutazioni missense a carico di HFE:
G845A: Cys-282 Tyr (C282Y)
C187G: His-63 Asp (H63D)
L’emocomatosi genetica classica viene ereditata come carattere autosomico recessivo. I
soggetti eterozigoti non hanno espressioni cliniche di sovraccarico di ferro, che si
evidenziano invece nei soggetti omozigoti (o doppi eterozigoti).
La frequenza dell’allele C282Y HFE è 0.05: la frequenza degli eterozigoti è 0.095, la
frequenza degli omozigoti risulta pari 0.0025. La frequenza dell’allele H63D HFE è 0.15:
la frequenza degli eterozigoti è 0.255, la frequenza degli omozigoti 0.0225. I casi di
emocromatosi genetica nella popolazioni di origine scandinava in oltre il 90% dei casi
hanno genotipo C282Y/C282Y; in circa il 5-6% dei casi sono doppi eterozigoti
C282Y/H63D. Nelle popolazioni mediterranee l’ omozigosi C282Y è responsabile del 5065% dei casi, mentre la doppia eterozigosi C282Y/H63D di circa il 5-10%.
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Quadro clinico
Le manifestazioni cliniche di sovraccarico di ferro compaiono nei maschi, nella vita adulta,
soprattutto nella 5^ decade (nelle donne, protette dal sovraccarico di ferro dalla peridta
fisiologica con il mestruo, le manifestazioni sono generalmente piu’ ritardate):
colorito bronzino della cute;
epatopatia cronica con elevato rischio di evoluzione in cirrosi ed epatocarcinoma;
diabete mellito;
ipogonadismo ipogonadotropo;
artropatia;
cardiopatia (scompenso cardiaco).
Diagnosi
Il corretto inquadramento del paziente con sovraccario di ferro prevede:
valutazione dello stato del ferro corporeo, che dimostra:
- sideremia aumentata;
- TIBC ridotta (e quindi aumentata saturazione della transferrina):
- ferritina sierica aumentata.
ricerca delle mutazioni C282Y/H63D del gene HFE
biopsia epatica
Terapia
Gli obiettivi della terapia per il sovraccarico di ferro sono la riduzione ed il mantenimento
del ferro corporeo nei limiti di normalità. Il salasso è il trattamento di scelta
dell’emocromatosi ereditaria. La terapia in pazienti con alterazioni concomitanti dei livelli
di emoglobina si avvale di farmaci ferrochelanti (desferioxamina).
Emocromatosi genetica giovanile (Juvenile Hemochromatosis, type 2)
Patogenesi
Esistono due forme di emocromatosi genetica giovanile, distinte dal punto di vista
molecolare.
La prima forma è determinata da mutazioni a livello di un gene che mappa sul
cromosoma 1q21. Tale gene è stato recentemente identificato e denominato HFE2
(Papanikolaou G, Samuels ME, Ludwig EH, MacDonald ML, et al. Mutations in HFE2
cause iron overload in chromosome 1q-linked juvenile hemochromatosis.Nat Genet.
2004;36:77-82). Il prodotto proteico che deriva dalla trascrizione di tale gene è stato
denominato Hemojuvelin (emogiuvelina). L’ espressione di tale proteina è ristretta a
fegato, cuore, muscolo scheletrico e la sua funzione, anche se non completamente
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della proteina si traducono in una diminuzione dei livelli di epcidina, suggerendo che
HFE2 agisce come modulatore dell’espressione di epcidina.
La seconda forma è caratterizzata dal punto di vista molecolare da mutazioni del gene
HAMP dell’epcidina, che ne determinano una ridotta espressione/perdita di funzione.
In entrambe le forme di emocromatosi giovanile, la diminuzione dei livelli di epicidina
comporta una aumentata espressione delle proteine di trasporto intestinali, con
conseguente aumento dell’assorbimento del ferro ed una aumentata espressione della
ferroportina (proteina responsabile dell’escrezione del ferro) associata ad una
diminuzione dell’espressione di ferritina nei macrofagi (figura 2).
Figura 2. Emoscrimatosi e livelli di espressione di epcidina
JH*
HH**
Sovraccarico di ferro
corporeo severo
Sovraccarico di ferro
corporeo moderato
Espressione di epcidina
Assorbimento
intestinale di ferro
Rilascio di ferro dai
macrofagi
Fenotipo
*= emocromatosi giovanile
**=emocromatosi genetica classica
L’entità dell’qumento dell’assorbimento intestinale di ferro nell’emocromatosi giovanile è
maggiore rispetto all’emocromatosi genetica classica, esitando dal punto di vistra clinico
nell’espressione piu’ precoe dei danni organci da sovraccarico di ferro (generalmente
entro le prime due decadi di vita).
Natural history of juvenile
genetic hemochromatosis
Hypogonadotropic
hypogonadism
0
10
Cardiac
failure
20
30 yr
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Emocromatosi secondarie
All’interno di questa categoria si distinguono disordini ereditari, ovvero anemie congenite
con sovraccarico di ferro (talassemia intermedia, anemie da deficit enzimatico, anemie
diseritropoietiche congenite, sferocitosi ereditaria e anemie sideroblastiche congenite) e
disordini acquisiti (sindromi mielodisplastiche e anemie con fabbisogno trasfusionale
cronico).
Le anemie congenite sono caratterizzate da eritopiesi inefficace e il sovraccarico di ferro
è essenzialmente determinato da un aumento dell’assorbimento intestinale. Nelle forme
acquisite il sovraccarico marziale è determinato dall’apporto di ferro conseguente al
fabbisogno trasfusionale; nelle sindromi mielodisplastiche tuttavia è presente in aggiunta
eritropiesi inefficace con aumento dell’assobimento intestinale di ferro.
Anemie congenite con sovraccarico di ferro: anemia sideroblastica congenita [XLSA (XLinked congenital Sideroblastic Anemia)]
E’ una condizione patologica determinata dalla presenza di mutazioni puntiformi del gene
della -ALA sintetasi eritrocitaria, localizzato a livello della banda p11.21 del cromosoma
X. Il meccanismo di trasmissione ereditaria è diagnico (legato all’X), e di conseguenza
colpisce in prevalenza il sesso maschile. Esistono tuttavia forme più rare a trasmissione
autosomica, determinati da diversi difetti genetici della sintesi dell’eme.
Il difetto genetico causa anemia da eritropoiesi inefficace. L’anemia è caratteristicamente
microcitica e ipocromica. Inoltre è presente un prominente dimorfismo all’interno della
popolazione di globuli rossi (elevato Red cell Distribution Width, RDW).
Nei pazienti con anemia moderata e ben tollerata nei quali la diagnosi non viene
formulata nell’infanzia, le manifestazioni cliniche da sovraccarico di ferro compaiono in
4°-5° decade e comprendono cirrosi epatica, diabete mellito, cardiomiopatia restrittiva.
Di seguito è illustrato, a titolo esemplificativo, l’esame emocromocitometrico di un
soggetto di sesso maschile di 58 anni, affetto da anemia sideroblastica congenita:
Parametri
Valori
Ranges di normalità
Leucociti (WBC), 10 /l
Emoglobina (Hb), g/dl
5,8
4-11
11,4
13,0-17,0
Volume globulare medio (MCV) , fl
65
80-100
MCH, pg
25,4
27-32
MCHC, g/dl
31,1
32-36
17,2
11,5-14,5
Piastrine (PLT) 10 /l
Sideremia: µg/dL
241
100-400
210
60-150
Ferritina: ng/L
4480
M 15-250 g/L
F 10-150 g/L
9
RDW*,
9
Dal punto di vista terapeutico il 25-50% dei pazienti con anemia sideroblastica congenita
rispondono alla somministrazione di vitamina B6. Nei pazienti con anemia severa non
responsivi alla vitamina B6, il trattamento di scelta consiste in trasfusioni associate a
terapia ferrochelante.
2006, Fondazione Ferrata Storti. Il contenuto di questa dispensa è fornito a titolo gratuito dalla Fondazione Ferrata Storti. Si
invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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18. Eritrocitosi e policitemia
Si definisce eritrocitosi un aumento consensuale dei valori di emoglobina, ematocrito,
globuli rossi.
Fisiopatologia
L’insieme degli eritrociti costituisce la massa eritrocitaria, che normalmente è inferiore a
36 ml/kg nell’uomo e a 32 ml/kg nella donna. La misurazione della massa eritrocitaria
consente di stabilire se un aumento dei valori di Hb, Hct e RBC sia dovuto ad una
aumentata produzione midollare (massa eritrocitara aumentata) o sia relativo ad una
riduzione del volume plasmatici.
Figura 1 - Meccanismo di regolazione dell’eritropoiesi.
MIDOLLO
ERITROIDE
ERITROCITI
CIRCOLANTI
Eritropoietina
Rene
(sensore
02)
In base al meccanismo fisiopatologico le eritrocitosi vengono distinte in eritrocitosi
apparente o spuria, caratterizzata da una massa eritrocitaria normale, ed in eritrocitosi
assoluta, caratterizzata da massa eritrocitaria aumentata (tabella 1).
Tabella 1 - Classificazione fisiopatologica delle eritrocitosi
Eritrocitosi apparente o spuria (massa eritrocitaria normale):
eritrocitosi marginale,
eritrocitosi relativa sintomatica (disidratazione),
eritrocitosi relativa cronica (sindrome di Gaisböck);
Eritrocitosi assoluta (massa eritrocitaria aumentata):
da aumentata produzione di eritropoietina:
appropriata,
inappropriata;
da autonoma proliferazione di un clone emopoietico (malattie mieloproliferative);
da mutazioni del recettore dell’eritropoietina.
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Eritrocitosi apparente
Eritrocitosi relativa cronica (sindrome di Gaisböck)
E’ una condizione di eritrocitosi relativa, caratterizzata sul piano clinico-ematologico da
aumento isolato dell’emoglobina senza leucocitosi e piastrinosi. La massa eritrocitaria
non è aumentata, mentre vi è riduzione del volume plasmatici. Interessa generalmente
giovani adulti, con fattori di rischio quali ansia, stress, obesità, ipertensione, fumo.
Eritrocitosi assoluta
Eritrocitosi secondaria ad appropriata iperproduzione di eritropoietina
Vi troviamo le tutte le condizioni caratterizzate da ridotto apporto di ossigeno ai tessuti,
con conseguente aumento della secrezione di eritropoietina ed aumento della massa
eritrocitaria: permanenza in alta quota, ipoventilazione alveolare, deficitaria
ossigenazione polmonare, deficitario trasporto di ossigeno e deficitaria cessione di
ossigeno.
Permanenza in alta quota
Un incremento significativo della massa eritrocitaria si osserva nei soggetti che risiedono
stabilmente a 4500-5000 metri s.l.m.: la saturazione arteriosa di 02 a questa quota è di
circa l’80%. La concentrazione di emoglobina è generalmente compresa tra 18-20 g/dL,
l’ematocrito è del 55-60%.
Alcuni di questi soggetti dimostrano un ridotto adattamento all’alta quota, che è alla base
della cosiddetta malattia da montagna cronica (Chronic Mountain Sickness, CMS) o
Malattia di Monge, caratterizzata da eritrosi, cianosi, cefalea, dispnea da sforzo,
affaticabilità, rallentamento mentale fino alla letargia ed al coma.
Ipoventilazione alveolare
Vi troviamo condizioni caratterizzate da ipossia senza evidenza diretta di malattia
polmonare.
La sindrome di Pickwick (The “wonderfully fat boy” Joe described in The Pickwick Papers
by Charles Dickens) colpisce individui obesi, e si manifesta con eritrocitosi, ipercapnia e
sonnolenza.
La sindrome sonno-apnea (sleep-apnea) è caratterizzata da diminuita sensibilità del
centro del respiro alla CO2.
Deficitaria ossigenazione polmonare
Vi troviamo le malattie polmonari croniche, tra le quali le più frequenti sono la bronchite
cronica/enfisema polmonare ed il cor pulmonale (insufficienza ventricolare destra).
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Deficitario trasporto di ossigeno
Questa evenienza si verifica principalmente nelle cardiopatie con shunt destro-sinistro,
quali la tetralogia di Fallot (adulti), la sindrome di Eisenmenger (adulti) e le cardiopatie
neonatali.
In queste condizioni si possono riscontrare valori di Hct superiori al 70% e di RBC
superiori a 10 x 1012/L.
Deficitaria cessione di ossigeno
E’ la condizione che si verifica in presenza di emoglobine patologiche con elevata affinità
per l’ossigeno e deficitaria cessione tissutale. Sono state descritte oltre 40 varianti di
emoglobina di questo tipo (Hb Chesapeake la prima). La P50 delle emoglobine con
aumentata affinità per O2 varia da 9 a 21 mmHg (P50 normale da 23 a 29 mmHg).
Eritrocitosi secondaria ad inappropriata iperproduzione di eritropoietina
Si definisce inappropriata una iperproduzione di eritropoietina non conseguente ad una
riduzione dell’apporto di ossigeno ai tessuti. Si può riscontrare nelle seguenti condizioni:
sindrome paraneoplastica (carcinoma renale, epatoma, fibromioma uterino), rene
policistico/stenosi dell’arteria renale, post-trapianto renale.
Eritrocitosi familiare da mutazione del gene del recettore dell’Epo
È una condizione ereditaria, nella quale si riscontrano una concentrazione di Hb di 19-20
g/dL e valori di Hct del 60-70%.
Eritrocitosi secondaria da autonoma proliferazione di un clone emopoietico (malattie
mieloproliferative)
Le sindromi mieloproliferative sono patologie clonali della cellula staminale emopoietica,
caratterizzate da una proliferazione cellulare incontrollata, con differenziazione prevalente
lungo una linea emopoietica. La malattia invariabilmente caratterizzata da aumento della
massa eritrocitaria è la policitemia vera, ma una eritrocitosi assoluta può essere
osservata anche in corso di mielofibrosi idiopatica.
Policitemia vera
La policitemia vera è una patologia clonale della cellula staminale emopoietica
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Nuove conoscenze biologiche
Nella primavera del 2005 quattro gruppi di ricercatori hanno identificato
contemporaneamente in pazienti affetti da policitemia vera, trombocitemia essenziale e
mielofibrosi idiopatica la mutazione somatica (V617F) del gene Janus Kinase 2 (JAK2),
con conseguente aumentata attività della proteina tirosin-chinasica JAK2.
Ruolo biologico delle proteine Jak
Eritropoietina e trombopoietina, dopo essersi legate al recettore di membrana, utilizzano
un sistema di chinasi dette JAK e STAT (signal transducers and activators of
transcription) per la trasduzione del segnale all’interno del nucleo. Esistono 4 proteine
JAK: Jak1, Jak2, Tyc2, espresse ubiquitariamente, e Jak3 espressa solo nelle cellule
mieloidi e linfoidi. Le proteine JAK sono composte da sette regioni: JH1-JH7. JH1 è la
regione ad attività chinasica. JH2 è un dominio pseudo-chinasico, necessario per
l’attività catalitica di JH1 e coinvolto nella regolazione inibitoria di tale attività.
La mutazione JAK2 V617F
La perdita di eterozigosi per le braccia corte (p) del cromosoma 9 (“loss of
heterozigosity”, LOH)-9pLOH- rappresenta l’anomalia cromosomica più frequente nei
pazienti affetti da policitemia vera (circa un terzo dei casi) ed è presente in alcuni
soggetti affetti da trombocitemia essenziale. Utilizzando un sistema di mappaggio con
microsatelliti, è stata identificata una regione genomica minima comune a tutti i pazienti
con 9pLOH. Tale regione contiene il gene JAK2. Il sequenziamento della regione
codificante di JAK2 in pazienti con 9pLOH ha consentito di individuare una
transversione G T con sostituzione di una valina con fenilalanina in posizione 617
(V1617F). La mutazione V617F JAK2 coinvolge una porzione del dominio
pseudochinasico JH2 di JAK2, cruciale nel controllo inibitorio dell’attività di JH1. Ne
risulta un aumento di funzione della proteina JAK2 e quindi un incremento della
trasduzione del segnale.
La mutazione JAK2 V617F è presente nella maggior parte dei pazienti affetti da
policitemia vera (65-95%) e solo in una parte dei pazienti affetti da trombocitemia
essenziale (23-57%) e da mielofibrosi idiopatica (35-50%). Non è mai stata rilevata in
soggetti sani o in pazienti con eritrocitosi secondaria.
Quadro clinico
Nel corso della storia naturale della policitemia vera si distinguono una fase
asintomatica, una fase eritrocitosica, e una fase di mielofibrosi post-policitemica ed infine
l'evoluzione in leucemia acuta terminale.
La fase iniziale della policitemia vera è asintomatica. La diagnosi in questa fase è
pertanto occasionale: in soggetti che hanno eseguito esami di controllo, o si sono
sottoposti ad accertamento per altri disturbi non correlati alla policitemia, si possono
riscontrare splenomegalia, eritrocitosi o trombocitosi isolate.
Nella cosiddetta fase eritrocitosica, l’aumento della massa eritrocitaria è tale da
determinare la comparsa di sintomi da iperviscosità: cefalea, parestesie, acufeni, vertigini,
scotomi. Un sintomo molto comune è rappresentato dal prurito dopo un bagno caldo.
All’esame obiettivo si riscontra molto frequentemente una splenomegalia. In questa fase,
il decorso clinico può essere complicato da fenomeni tromboembolici, spesso invalidanti
e talora mortali.
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Dopo alcuni anni (10-20) la fase eritrocitosica può evolvere in mielofibrosi postpolicitemica, spesso attraverso una fase di riduzione consensuale di globuli rossi,
piastrine e comparsa di progressiva splenomegalia. La mielofibrosi post policitemia si
caratterizza per un incremento della splenomegalia, progressiva anemizzazione,
trombocitosi/trombocitopenia e sintomi sistemici (febbre, dolori osteoarticolari, calo
ponderale). Nel 5-10% dei pazienti si osserva evoluzione in leucemia acuta mieloide, a
volte dopo una fase di mielofibrosi.
Diagnosi
La diagnosi di policitemia è essenzialmente una diagnosi clinica, basata sulla diagnosi di
eritrocitosi assoluta con funzionalità polmonare normale, in presenza di criteri suggestivi
di malattia mieloproliferativa, come splenomegalia, trombocitosi, leucocitosi, bassi livelli di
eritropoietina sierica o crescita in vitro spontanea (in assenza, cioè, di fattori di crescita)
dei progenitori eritroidi. La valutazione della mutazione V617F del gene JAK2 è
consigliata in tutti i pazienti con eritrocitosi, anche se allo stato attuale non rientra nei
criteri diagnostici in uso.
I criteri diagnostici della policitemia vera sono stati rivisiti dalla WHO (World Health
Organization) nel 2001 e sono illustrati in tabella 2.
Tabella 2 - Criteri diagnostici della policitemia vera
A1 Elevata massa eritrocitaria o Hb > 18,5 g/dL (M), > 16.5 g/dL (F)
A2 Assenza di cause di eritrocitosi secondaria: non eritrocitosi familiare, non
incremento Epo (ipossia; Hb ad alta affinità per O2; neoplasia)
A3 Splenomegalia
A4 Anomalie genetiche clonali: non Ph’, non Bcr-Abl
A5 Crescita spontanea di colonie eritroidi
B1
B2
B3
B4
Trombocitosi > 400.000/mL
Leucocitosi > 12.000/mL
BOM con iperplasia eritroide e megacariocitaria
Bassi livelli serici di Epo
La diagnosi di policitemia vera si basa sull'associazione dei seguenti criteri maggiori (A)
o minori (B): A1+A2+A3+A4+A5 oppure A1+A2+ 2 (B1, B2, B3, B4)
Terapia
La terapia della policitemia vera si può avvalere di differenti approcci, che comprendono
salassi, trattamento citoriduttivo con idrossiurea o pipobromano, aspirina a basse dosi
(100 mg/die).
Gli obiettivi del trattamento sono il mantenimento dell’ematocrito a valori inferiori al 45% e
della conta piastrinica a valori inferiori a 400x109/l.
La scelta della strategia terapeutica deve essere valutata in funzione delle caratteristiche
del paziente.
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19. Trombocitemia essenziale
Definizione
La trombocitemia essenziale è una patologia mieloproliferativa cronica che deriva dalla
trasformazione clonale della cellula staminale emopoietica ed è caratterizzata da
proliferazione incontrollata con prevalente differenziazione in senso megacariocitario e
conseguente aumento delle piastrine nel sangue periferico.
Epidemiologia
In Europa la trombocitemia essenziale ha un’incidenza di 0,3-1 caso per milione di
abitanti per anno. L’età mediana alla diagnosi è di 55 anni e solamente il 24% dei pazienti
ha un età inferiore a 40 anni. Si tratta di una patologia prevalente nel sesso femminile
(rapporto sesso maschile / femminile =1/2).
Allo stato delle conoscenze attuali non è stato individuato nessun agente eziologico
esterno predisponente allo sviluppo della malattia.
Quadro clinico
L’esordio
In circa il 20-30% dei casi il riscontro di trombocitemia essenziale è occasionale e avviene
in corso di esami eseguiti per altri motivi.
In circa il 30-40% dei casi sono riscontrabili sintomi neurologici minori quali cefalea o
sincope, dolore toracico atipico, acrocianosi, disturbi visivi (scotomi), livedo reticularis,
eritromelalgia (eritema e dolore urente alle estremità di mani e piedi). In una percentuale
più ridotta di casi (15-20%), l’esordio clinico può essere caratterizzato da un evento
vascolare severo di tipo trombotico, che colpisce il distretto arterioso (infarto del
miocardio, TIA, ictus cerebrale o arteriopatie periferiche) o venoso (tromboflebiti
superficiali, trombosi venose profonde). Le pazienti con trombocitemia essenziale
possono presentare aborti spontanei, anche ripetuti. Infine la malattia può esordire con
manifestazioni emorragiche (25-30%) soprattutto a carico dell’apparato gastroenterico,
della cute e delle mucose (ematemesi, melena, epistassi, gengivorragie).
Una splenomegalia di grado modesto è presente in circa il 15-20% dei pazienti, mentre
un’epatomegalia si rileva nel 20% dei casi.
Il decorso clinico
Il decorso clinico è caratterizzato per lo più da complicanze trombotiche che possono
occorrere dal 10 al 40% circa dei pazienti. Le manifestazioni emorragiche intervengono
nel 8-14% dei pazienti, soprattutto nei soggetti che presentano una conta piastrinica
superiore a 1.000 x 109/L (sindrome di von Willebrand acquisita).
I fattori di rischio vascolare sono rappresentati dall’età maggiore di 60 anni, dall’anamnesi
positiva per trombosi o emorragia, e da una conta piastrinica superiore a 1.500 x 109/L. I
pazienti che non presentano i suddetti fattori sono definiti a “basso rischio” vascolare. I
pazienti che presentano uno o più fattori sono per contro considerati ad “alto rischio”
vascolare e necessitano di una terapia citoriduttiva per il controllo della piastrinosi con
conseguente riduzione del rischio vascolare.
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Diagnosi
La diagnosi di trombocitemia essenziale è una diagnosi di esclusione: bisogna infatti
escludere le possibili cause che possono sostenere una piastrinosi reattiva e la presenza
di altre malattie mieloproliferative o sindromi mielodisplastiche.
I criteri diagnostici della trombocitemia essenziale sono stati rivisiti dalla WHO (World
Health Organization) nel 2001 e sono illustrati in tabella 3
Tabella 3 - Criteri diagnostici della trombocitemia essenziale
Presenza di:
• Piastrine: stabile oltre 600.000/µL
• Biopsia osteomidollare: proliferazione della sola linea megacariocitica
Esclusione di:
• Policitemia vera: emoglobina < 18,5 g/dL (uomo), < 16,5 g/dL (donna); normale
stato del ferro
• Leucemia mieloide cronica: assenza cromosoma Ph e bcr/abl
• Mielofibrosi idiopatica: assenza fibrosi collagena; reticolo minimo o assente
• Mielodisplasia: del(5q-), t (3;3), inv 3
• Trombocitosi reattive: infiammazione, infezione, neoplasia
Le trombocitosi reattive sono per lo più secondarie a emorragia acuta, carenza di ferro, o
d'accompagnamento a neoplasie. Si riscontrano anche in corso di stati infiammatori e
infettivi acuti o cronici, come la colite ulcerosa, il morbo di Crohn, le collagenopatie, la
tubercolosi, la polmonite e l'osteomielite. Può esserci trombocitosi dopo un'intensa attività
fisica o stress emotivo o nelle fasi di ripresa dopo una chemioterapia, o anche in corso di
terapia con vitamina B12, folina e fattori di crescita. Le piastrine possono salire fino ad
oltre 1.000 x 109/L dopo splenectomia e tendono a ridursi e stabilizzarsi in 3-4 mesi circa.
Le malattie mieloproliferative croniche vengono distinte dalla TE effettuando la biopsia
ossea (la Mielofibrosi Idiopatica presenta una fibrosi midollare diffusa), l'analisi
citogenetica (la Leucemia Mieloide Cronica è caratterizzata dalla presenza della
traslocazione t(9;22), che genera il cromosoma Philadelphia, marcatore della malattia) e
valutando semplici parametri emocromocitometrici, come ematocrito ed emoglobina (la
Policitemia Vera presenta una massa eritrocitaria aumentata).
Raramente, alcune forme di sindromi mielodisplastiche sono associate a piastrinosi: tra
queste tipicamente vi è la sindrome del 5q-, e meno frequentemente l'anemia
sideroblastica idiopatica acquisita (ASIA)
La trombocitemia familiare è una forma rara e trasmessa per lo più come malattia
autosomica dominante: è legata ad una mutazione del gene della trombopoietina che si
traduce in un’ aumentata produzione piastrinica a livello midollare.
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Trombocitemie primitive
policitemia vera
mielofibrosi idiopatica
leucemia mieloide cronica
mielodisplasia con piastrinosi (sindrome del 5q-)
Trombocitosi reattive
Esercizio fisico
Emorragia acuta
Carenza marzialeSplenectomiaNeoplasie Stati infiammatori o infettivi acuti o cronici
(colite ulcerosa, morbo di Crohn, collagenopatie, TBC, polmonite cronica,
osteomielite)
Anemia emoliticaIn corso di terapia con citochine e fattori di crescita
La terapia della trombocitemia essenziale.
Sulla base di caratteristiche clinico-biologiche è possibile individuare pazienti a basso ed
alto rischio. La categoria di rischio cardiovascolare costituisce il criterio orientativo per la
scelta dell’approccio terapeutico del paziente. Nella Tabella 2 sono riportati i criteri per la
definizione del rischio vascolare.
Tabella 2
Criteri per la definizione di “basso rischio” cardiovascolare
età minore di 60 anni e
anamnesi negativa per trombosi ed emorragia e
piastrine inferiori a 1.500 x 109/L e
assenza di fattori di rischio cardiovascolare noti (genetici o acquisiti)
Criteri per la definizione di “alto rischio” cardiovascolare
età > 60 anni o
anamnesi positiva per trombosi o emorragia o
piastrine superiori a 1.500 x 109/L
Nei pazienti a basso rischio sono indicati la sola osservazione e l’impiego di
antiaggregante a basse dosi. Nei casi ad alto rischio è indicata la terapia citoriduttiva
associata alla terapia antiaggregante a basse dosi.
L’impiego di aspirina a basse dosi è indicato nelle manifestazioni vasomotorie in
monoterapia, nella prevenzione della trombosi in associazione ad agenti citoriduttivi,
mentre è controindicato nelle condizioni emorragiche e nelle trombocitosi estreme.
La terapia citoriduttiva comprende farmaci come il pipobromano, l’idrossiurea,
l’interferone.
L’uso del pipobromano (alchilante) consente di ottenere risposte ematologiche nel 95100% dei casi con un buon controllo della malattia nel tempo. E’ un farmaco ben tollerato
e richiede una somministrazione continuativa. E’ efficace nel ridurre l’incidenza di
complicanze trombotiche. L’incidenza di mielofibrosi è minima, e il rischio di leucemia a
10 anni è del 3%.
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L’idrossiurea (antimetabolita) consente di ottenere risposte ematologiche nel 90-95% dei
casi. Il farmaco è ben tollerato e richiede un’assunzione continuativa. E’ efficace nella
prevenzione della trombosi; il controllo della malattia è tuttavia ridotto nel tempo. Il rischio
di leucemia è paragonabile al pipobromano (5-10% dopo 4-10 anni di malattia).
L’interferone è un farmaco antiproliferativo: risposte ematologiche sono state osservate
nel 70% dei casi con riduzione della splenomegalia nel 30% circa e miglioramento dei
sintomi clinici. Circa il 20% dei pazienti tuttavia si dimostra intollerante al trattamento.
Sono in corso di studio nuove formulazioni (Peg-interferone) con lo scopo di migliorare il
profilo di tollerabilità del farmaco.
Prognosi
La prognosi della malattia è buona e l’aspettativa di vita dei pazienti con trombocitemia
essenziale, se trattati secondo le indicazioni attuali basate sul rischio cardiovascolare, è
quasi simile a quella della popolazione generale.
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20. Mielofibrosi idiopatica
Definizione
La mielofibrosi idiopatica è una patologia mieloproliferativa cronica che deriva dalla
trasformazione clonale della cellula staminale emopoietica ed è caratterizzata da fibrosi
midollare con screzio leuco-eritroblastico e metaplasia mieloide con epatosplenomegalia.
Esiste una forma di mielofibrosi idiopatica o primitiva (più frequente) ed una forma
secondaria a policitemia vera (5-50% dei casi) o a trombocitemia essenziale (3-20% dei
casi).
Epidemiologia
La mielofibrosi idiopatica è una patologia più frequente nell’età avanzata e interessa
maggiormente il sesso maschile. L’incidenza in Europa è di 0.7 x 100.000 persone per
anno nel sesso maschile, mentre è di 0,4 x 100.000 persone per anno nel sesso
femminile. L’età media alla diagnosi è di 62 anni e solamente il 20% dei pazienti ha
un’età inferiore a 55 anni (età limite ai fini dell’eleggibilità a procedure trapiantologiche).
Patogenesi
La mielofibrosi idiopatica è considerata una patologia clonale della cellula staminale
emopoietica. Esistono numerose evidenze sperimentali che supportano questa ipotesi:
innanzitutto la presenza di alterazioni genetiche ricorrenti (delezioni del cromosoma 20,
cromosoma 13, cromosoma 7, cromosoma 12; e trisomie dei cromosomi 1, 8 e 9); inoltre
studi genetici sull’inattivazione del cromosoma X in pazienti di sesso femminile
dimostrano la presenza di un solo tipo di allele a livello delle cellule interessate dalla
malattia.
Patogenesi della fibrosi midollare
La proliferazione clonale dei megacariociti e dei monociti si accompagna a liberazione di
citochine infiammatorie che determinano una reazione delle cellule stromali del midollo
osseo di natura policlonale con potenziale fibrogenetico, angiogenetico e osteogenetico.
Le citochine interessate sono il TGF- (Transforming Growth Factor ), il bFGB (basic
Fibroblast Growth Factor) e il PDGF (Platelet Derived Growth Factor). Questi fattori
inducono una proliferazione policlonale di fibroblasti e osteoblasti associata a fibrosi
collagena e a osteosclerosi. Citochine ad azione neo-angiogenetica potrebbero
contribuire a tali fenomeni.
Patogenesi della metaplasia mieloide
Le cellule progenitrici fuoriescono dal midollo per una causa tuttora non nota e circolano
nel sangue periferico. La milza e, in seconda istanza, il fegato fungono da filtro favorendo
la maturazione dei progenitori circolanti, diventando sede di focolai di emopoiesi
extramidollare.
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Quadro clinico
L’ esordio
Circa un terzo dei pazienti è asintomatico al momento della diagnosi, mentre i restanti
due terzi riferiscono sintomi sistemici come febbre, calo ponderale, astenia, dispnea e
dolori articolari.
All’esame obiettivo, una splenomegalia è presente nell’85-100% dei casi, e spesso
raggiunge dimensioni notevoli. I pazienti possono riferire sensazione di tensione
addominale e dolore a livello dell’ipocondrio sinistro, spesso secondari ad infarti splenici.
Una epatomegalia è riscontrabile nel 50-70% dei pazienti. La splenomegalia che si
evidenzia nei pazienti con mielofibrosi idiopatica è attribuibile all’emopoiesi
extramidollare; l’epatomegalia può essere messa in relazione sia alla presenza di focolai
di emopoiesi extramidollare sia all’ipertensione secondaria alla splenomegalia.
L’esame emocromocitometrico dimostra anemia (50-70% dei casi), piastrinopenia (3540%) o piastrinosi (30%), e leucocitosi (50%). Allo striscio di sangue periferico sono
evidenziabili anisopoichilocitosi (variabilità delle dimensioni e della forma dei globuli
rossi), con presenza di dacriociti (eritrociti a lacrima) e screzio granulo-eritroblastico
(presenza in circolo di elementi immaturi della serie eritroide e granuloblastica) .
Diagnosi
I criteri per la diagnosi di mielofibrosi idiopatica sono riportati della Tabella 1.
I dati clinici e laboratoristici cui viene data maggiore importanza (definiti criteri necessari)
sono la presenza di fibrosi midollare e l’assenza del cromosoma Ph’ nelle cellule del
midollo osseo (marcatore specifico della leucemia mieloide cronica). Notevole rilievo ha
inoltre il riscontro di splenomegalia.
La diagnosi presuppone la presenza dei 2 criteri necessari più 2 criteri opzionali se è
presente splenomegalia, oppure dei 2 necessari più 4 opzionali se non vi è
splenomegalia.
Tabella 1
Criteri necessari:
fibrosi midollare diffusa
assenza del cromosoma Ph’ o del riarrangiamento bcr/abl
Criteri opzionali:
splenomegalia
anisopoichilocitosi con dacriociti nel sangue periferico
presenza di cellule mieloidi immature circolanti
presenza di precursori eritroidi circolanti
presenza di cluster e anomalie dei megacariociti alla biopsia ossea
metaplasia mieloide
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100
Diagnosi differenziale
La diagnosi differenziale deve essere posta essenzialmente con le altre malattie
mieloproliferative (leucemia mieloide cronica e trombocitemia essenziale), con altre
cause di fibrosi midollare o alterazione della struttura ossea (osteomielite, malattia di
Paget, osteopetrosi) e con cause differenti di splenomegalia.
La leucemia mieloide cronica presenta, come la mielofibrosi idiopatica, splenomegalia
spesso importante e elementi immaturi della serie granuloblastica nel sangue periferico:
la diagnosi differenziale è posta verificando la presenza del cromosoma Ph’ (o del
riarrangiamento bcr/abl) a livello delle cellule midollari.
La diagnosi differenziale nei confronti della trombocitemia essenziale può viceversa non
essere agevole, soprattutto nella fase cellulare della mielofibrosi: infatti entrambe le
condizioni presentano iperplasia megacariocitaria. Gli elementi distintivi delle due forme
sono la fibrosi midollare, lo screzio leuco-eritroblastico e l’anisopoichilocitosi delle emazie.
Va infine ricordato che il quadro di anisopoichilocitosi dei globuli rossi con dacriociti e la
presenza di elementi immaturi della serie eritroide e granuloblastica nel sangue periferico
è comune nelle anemie mieloftisiche, determinate da infiltrazione midollare da parte di
cellule neoplastiche metastatiche (polmone, mammella, prostata).
Decorso clinico e prognosi
Il decorso clinico dei pazienti con mielofibrosi idiopatica è molto variabile. Si osservano
pazienti asintomatici per un lungo periodo di tempo (anni) e pazienti invece con decorso
clinico ingravescente che può portare rapidamente all’exitus.
Con la progressione della malattia si osserva soprattutto un incremento della
splenomegalia (e dell’epatomegalia), un peggioramento dell’anemia, della leucopenia (o
della leucocitosi) e della piastrinopenia. A volte il decorso della malattia può essere
complicato da ipertensione portale, da trombosi della vena porta e/o da trombosi
splenica. Una espansione della metaplasia mieloide al di fuori delle sedi epatica e
splenica può comportare la comparsa di tamponamento cardiaco, noduli cutanei,
compressione spinale, versamento pleurico, ipertensione polmonare.
Le cause più frequenti di morte sono individuate nello scompenso cardiaco congestizio,
nelle complicanze emorragiche e nell’evoluzione in leucemia acuta.
Alcuni fattori, singolarmente o in associazione, condizionano negativamente la prognosi e
sono rappresentati dalla presenza di anemia con emoglobina < 10 g/dL, da leucopenia
con valori di globuli bianchi < 4 x 109/L e da leucocitosi con valori di globuli bianchi >30 x
109/L. La loro combinazione [Lille score (Dupriez, 1996)] consente di individuare 3
categorie di rischio (basso, intermedio, alto), che identificano pazienti con sopravvivenza
mediana diversa.
N° fattori
categoria di rischio
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La terapia della mielofibrosi idiopatica
In assenza di sintomi sistemici, splenomegalia sintomatica, blasti circolanti, anomalie
citogenetiche, citopenie periferiche è indicata la sola osservazione clinica senza terapia
citoriduttiva.
Per contro in presenza di leucocitosi, piastrinosi, splenomegalia progressiva o
sintomatologia clinica è utile una terapia citoriduttiva. Il farmaco prevalentemente
impiegato è l’idrossiurea, che consente di ottenere un controllo della malattia nel 40-80%
dei casi, a seconda dello stadio della malattia. Altri farmaci impiegati sono il busulfano o
l’interferone.
Un’opzione terapeutica attuabile in pazienti giovani che dispongano di un donatore
compatibile è il trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche. Questa procedura
può condurre alla guarigione una quota di pazienti, ma con un rischio elevato di mortalità
peritrapiantologica.
Recentemente la talidomide ha dimostrato efficacia ottenendo un controllo dell’anemia e
della piastrinopenia nel 40% circa dei pazienti con mielofibrosi.
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21. Leucemia mieloide cronica
Definizione
La leucemia mieloide cronica (LMC) è una malattia mieloproliferativa clonale della cellula
staminale emopoietica caratterizzata dal punto di vista molecolare dalla presenza del
riarrangiamento genico bcr/abl e dal punto di vista clinico da progressiva leucocitosi (con
accumulo nel sangue periferico di granulociti maturi e precursori mieloidi), da
ipercellularità midollare e da splenomegalia.
Epidemiologia
La leucemia mieloide cronica ha un’incidenza di 2 casi per 100.000 abitanti per anno e
costituisce circa 15% delle leucemie dell’adulto. L’età mediana di insorgenza è compresa
tra i 45 ed i 55 anni, con prevalenza nel sesso maschile.
Sebbene non sia noto il meccanismo responsabile della trasformazione neoplastica della
cellula staminale emopoietica, numerosi studi dimostrano che l’esposizione a radiazioni
ionizzanti induce un aumento dell’incidenza di LMC rispetto alla frequenza attesa nella
popolazione generale.
Patogenesi
La LMC è caratterizzata dal punto di vista citogenetico dalla presenza del cromosoma
Philadelphia o Ph’ (Nowell P, Hungerford D. A minute chromosome in human chronic
granulocytic leukemia. Science 1960;132:1497), ovvero un cromosoma 22 di piccole
dimensioni, che origina dalla traslocazione bilanciata tra il cromosoma 9 ed il cromosoma
22 [t(9;22)(q34;q11)] (Rowley JD. A new consistent chromosomal abnormality in chronic
myelogenous leukaemia identified by quinacrine fluorescence and Giemsa staining.
Nature. 1973;243:290).
Questa traslocazione determina a livello molecorare il riarrangiamento tra il gene bcr
(breakpoint cluster region) sito a livello della banda q11 del cromocsoma 22 ed il protooncogene abl (Ableson) a livello della banda q34 del cromosoma 9 (figura 1).
A livello di ABL il punto di rottura è situato all’estremità 5’ in una regione di circa 300kb e
può avvenire o a monte dell’esone Ib o a valle dell’esone Ia o, più spesso, tra entrambi.
Anche se uno o entrambi questi esoni vengono traslocati sul cromosoma 22 riarrangiato
essi non vengono trascritti essendo rimossi dal trascritto finale per azione del fenomeno
dello “splicing” operante a livello del mRNA.
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Figura 1 – traslocazione t(9;22) e riarrangiamento genico bcr-abl nella LMC.
A livello di BCR il punto di rottura può cadere in tre diverse regioni:
nella maggior parte delle LMC e in un terzo della LAL Ph’+ in una regione di 5.8kb
(Major breakpoint cluster region, M-BCR) tra gli esoni b2 e b3 ® trascritti b2a2 o b3a2
® proteina chimerica p210;
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nelle restanti LAL e in alcune LMC con monocitosi in una regione di 54.4kb (minor
breakpoint cluster region, m-BCR) tra gli esoni e2’ ed e2 ® trascritto e1a2 ® proteina
chimerica p190;
nei pazienti con leucemia cronica neutrofilica a valle dell’esone e19 (micro breakpoint
cluster region, m-BCR) ® trascritto e19a2 ® proteina chimerica p230. (figura 2)
Figura 2. Punti di rottura a livello dei geni bcr e abl
1b
abl
5'
bcr
5'
1a
2
3
4
5
6
7
8
9 10
11
3'
3'
1
LMC (5')
1a
2
3
2
4
3
4
5
5
6
7
8
9 10
11
3'
5'
1
2
LMC (3')
1a
2
3
4
5
6
7
8
9 10
11
3'
5'
1
2
3
Pertanto nei pazienti con LMC sul cromosoma 22 riarrangiato si crea un gene ibrido
BCR/ABL, formato per la porzione 5’ da sequenze BCR e per la porzione 3’ da sequenze
ABL. Il gene ibrido BCR/ABL determina l’attivazione costitutiva dell’attività tirosin-kinasica
del gene ABL.
Le tirosin-chinasi appartengono alla famiglia delle protein-chinasi, enzimi che
trasferiscono gruppi fosfati dall’adenosina trifosfato (ATP) a specifici aminoacidi (in
questo caso la tirosina) a livello del substrato. La fosforilazione di queste proteine porta
all’attivazione di vie di trasduzione del segnale che controllano una serie di importanti
processi biologici come la crescita e la differenziazione cellulare e l’apoptosi.
La proteina p210bcr-abl attraverso questi meccanismi (in particolare attraverso l’inibizione
dell’apoptosi) è in grado di prolungare la sopravvivenza della cellula e di determinare
l’espansione del clone leucemico (figura 1).
Quadro clinico
Circa il 50% dei casi di LMC viene diagnosticato attraverso esami eseguiti per altri motivi
(riscontro occasionale). L’esame emocromocitometrico mostra leucocitosi neutrofila con
presenza di precursori mieloidi nel sangue periferico, basofilia assoluta e piastrinosi.
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Di seguito è illustrato, a titolo esemplificativo, l’esame emocromocitometrico di una
giovane donna asintomatica (in neretto sono evidenziati parametri più significativi):
valori
ranges di normalità
Emoglobina (Hb), g/dL
Leucociti (WBC), 109/L
Neutrofili
Eosinofili
Basofili
Linfociti
Monociti
Elementi immaturi*
12.5
51.1
66 %
3%
6%
10 %
6%
9%
12.0-16.0
4-11
45-70
1-3
0-1
20-40
3-7
0
Piastrine (PLT), 109/L
540
150-400
* metamielociti 4%, mielociti 3%, promielociti 2%.
I pazienti con malattia più avanzata possono avere sintomi che dipendono
dall’ipermetabolismo, che comprendono anoressia, astenia, perdita di peso e sudorazioni
notturne. La splenomegalia è solitamente presente, talora importante e sintomatica
(senso di peso all’ipocondrio sinistro, sensazione di ripienezza post-prandiale, dolore in
caso di infarto splenico).
Storia naturale della leucemia mieloide cronica
La storia naturale della LMC è caratterizzata da una fase cronica, di durata variabile (in
genere 3-4 anni) asintomatica o scarsamente sintomatica, responsiva al trattamento
(controllo della leucocitosi).
A questa segue una fase più aggressiva, definita accelerata, caratterizzata dal punto di
vista ematologico dalla comparsa di blasti (elementi immaturi che hanno subito arresto
della maturazione) nel midollo osseo e nel sangue periferico (10-20% delle cellule
nucleate) con leucocitosi scarsamente responsiva al trattamento, da anemia e da
piastrinopenia; dal punto di vista clinico è caratterizzata da febbre e dolori ossei. L’analisi
citogenetica può dimostrare la comparsa di anomalie cromosomiche clonali aggiuntive.
Questa fase dura in genere qualche mese ed evolve nella crisi blastica (mieloide nei 2/3,
linfoide in 1/3 dei casi), caratterizzata dall’incremento della quota blastica ( 20% delle
cellule nucleate nel midollo osseo o nel sangue periferico) con anemia e piastrinopenia
gravi (insufficienza midollare), mentre dal punto di vista clinico si assiste ad un rapido
deterioramento delle condizioni generali (marcata astenia, calo ponderale), associato a
febbre e dolori ossei. La crisi blastica rappresenta la fase terminale della malattia ed è
scarsamente responsiva al trattamento chamioterapico, esitando nella quasi totalità dei
casi nell’exitus del paziente.
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Diagnosi
Gli accertamenti da eseguire per un corretto inquadramento del paziente con LMC:
l'esame emocromocitometrico (che dimostra in fase cronica leucocitosi neutrofila con
presenza di precursori mieloidi nel sangue periferico, basofilia assoluta e piastrinosi), il
mieloaspirato (che dimostra iperplasia della linea granulocitaria), l'analisi cromosomica su
sangue midollare (che dimostra la presenza del cromosoma Ph’) e la RT-PCR (Reverse
Transcriptase Polimerase Chain Reaction, che dimostra la presenza del riarrangiamento
bcr/abl).
Criteri diagnostici per la fase accelerata (Vardiman JW, Harris NL, Brunning RD. The
World Health Organization (WHO) classification of the myeloid neoplasms. Blood
2002;100: 2292).
Per formulare la diagnosi di fase accelerata deve essere presente almeno uno dei
seguenti criteri:
percentuale di blasti pari al 10-19% nel sangue periferico o nel midollo osseo;
percentuale di granulociti basofili nel sangue periferico 20%;
persistente trombocitopenia (<100x109/L), non correlata a terapia, o persistente
trombocitosi (>1.000x109/L) non responsiva alla terapia;
aumento della splenomegalia e della leucocitosi non responsivo alla terapia;
evidenza citogenetica di evoluzione clonale (comparsa di una anomalia genetica
aggiuntiva che non era presente al momento della diagnosi di LMC in fase cronica);
proliferazione di megacariociti in clusters di elevate dimensioni, associata a marcata
fibrosi reticolinica o collagena, e/o severa displasia granulocitica (questi reperti,
tuttavia, non sono stati ancora analizzati in grandi studi clinici; pertanto non è chiaro
se siano criteri indipendenti di fase accelerata. Si presentano spesso associati a uno o
più degli altri criteri elencati).
Criteri diagnostici per la crisi blastica (Vardiman JW, Harris NL, Brunning RD. The World
Health Organization (WHO) classification of the myeloid neoplasms. Blood
2002;100:2292).
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Fattori prognostici alla diagnosi
Sokall e coll. (Sokal JE, Cox EB, Baccarani M, et al. Prognostic discrimination in "goodrisk" chronic granulocytic leukemia. Blood 1984;63:789) hanno proposto uno score
basato sulla valutazione di quattro parametri (età, dimensioni della milza in cm dall’arco
costale, conteggio delle piastrine x109/L e pecentuale di blasti nel sangue periferico) per
calcolare il rischio relativo (RR) di ciascun paziente affetto da LMC.
Il rischio relativo (RR) viene calcolato con la seguente formula:
RR= ESP* 0.0116 x (età-43.4) + 0.0345 x (milza-7.51) + 0.188 x [(piastrine/700)2-0.563]
+ 0.0887 x (blasti-2.10)
*ESP= esponenziale.
I pazienti con rischio relativo <0.8 (cioè basso) hanno una sopravvivenza mediana una
volta e mezzo piu’ lunga rispetto a queli con rischio relativo superiore a 1.2 (alto rischio).
Terapia
Significato di risposta clinica, citogenetica e molecolare nella LMC.
Nei pazienti con LMC la remissione clinica completa è una condizione definita dalla
normalizzazione del quadro ematologico periferico e midollare.
La risposta citogenetica viene valutata in base alla percentuale di metafasi positive per la
ricerca del cromosoma Ph’ a livello midollare (su numero minimo di metafasi analizzate
pari a 20). La risposta citogenetica si definisce completa (remissione citogenetica) se il
cromosoma Ph’ è assente in tutte le metafasi analizzate, maggiore se è compreso tra l’1
e il 35%, minore se è compreso tra il 36 e il 65%, minima se comprso tra il 66 e il 95%,
assente se maggiore del 95%. La qualità della risposta citogenetica riveste un significato
prognostico ed è correlata con l’aspettativa di vita di questi pazienti.
Sensibilità della metodica: la citogenetica convenzionale, che presenta il limite di
analizzare le sole cellule in divisione, individua una cellula leucemica su 10-100 cellule
esaminate (sensibilità 10-1-10-2).
La risposta molecolare si definisce, nei pazineti con risposta citogenetica completa come
una riduzione > di 3 logaritmi nella quantità di trascritto bcr abl valutato con RT-PCR. La
remissione molecolare si definisce invece come una condizione caratterizzata dalla
scomparsa del trascritto bcr abl all’analisi RT-PCR.
Sensibilità della metodica: la tecnica PCR possiede elevata sensibilità rispetto alle altre
tecnhiche di laboratorio utilizzabili per la valutazione della quantità residua di malattia
dopo terapia, pari a 10-4-10-6.
Malattia minima residua (MMR): definizione e utilità clinica.
Nonostante i notevoli progressi avvenuti nel trattamento convenzionale e trapiantologico
delle neoplasie ematologiche, una significativa percentuale di pazienti in remissione
clinica completa recidivano dopo un intervallo di tempo variabile. Perciò in un consistente
numero di pazienti sopravvive una quota limitata di cellule neoplastiche, eventualmente in
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grado di determinare una ripresa della malattia. Questa piccola popolazione neoplastica
superstite, quantitativamente costituita da un numero di cellule sempre inferiori a 1010,
viene definita MMR ed è dimostrabile con diverse metodiche di laboratorio a diversa
sensibilità (citofluorimetria, citogenetica, FISH, PCR).
L’esame del trascritto BCR-ABL mediante RT-PCR ha costituito un modello per lo studio
di un’eventuale MMR e ha gettato le basi per l’analisi di quest’ultima anche in altri
disordini onco-ematologici. E’ stato osservato che la maggior parte dei pazienti con LMC
sottoposta a trapianto allogenico presenta una persistenza del trascritto nei primi sei
mesi, ma successivamente almeno due terzi dei pazienti diventano PCR negativi per
progressiva eliminazione delle cellule leucemiche per effetto della reazione che va sotto il
termine di “graft versus leukemia”. Pazienti che a distanza di un anno o più dal trapianto
allogenico presentano due campioni consecutivamente positivi alla PCR qualitativa sono
ad alto rischio di recidiva citogenetica ed ematologica. Pertanto tale metodica è stata
capace di predire a livello individuale la recidiva e conseguentemente di stabilire
precocemente gli opportuni interventi terapeutici.
La terapia della LMC
La terapia della LMC in fase cronica era in passato convenzionalmente basata
sull'impiego di idrossiurea e successivamente di interferone alfa. L’interferone permette
di ottenere una maggiore percentuale di risposte citogenetiche maggiori e complete
rispetto all’idrossiurea (aspettativa mediana di vita da 3-4 a 5-6 anni), garantendo ai
pazineti che rispondono alla terapia una vita media superiore agli 8 anni.
Il trattamento della crisi blastica era basato sull’impiego di cicli polichemioterapici, con i
quali tuttavia la percentaule di risposta non supera il 20% nelle traformazioni mieloidi e il
50% nelle trasformazioni linfoidi; inoltre i pochi pazienti che ottengono una risposta,
ricadono rapidamente o muoiono per progressione della malattia.
Il trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche è considerato l’unico approccio in
grado di garantire la guarigione dei pazineti con LMC, tuttavia è gravato da una mortalità
peritrapiantologica del 20-40%. Il trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche è
stato applicato con indicazione assoluta in pazienti giovani con disponibilità di un
donatore HLA identico.
Dal 2001 l'approccio terapeutico è stato radicalmente cambiato dall'introduzione
dell'imatinib mesilato (STI 571, Gleevec, Glivec), un inibitore specifico della tirosinachinasi mutata (terapia molecolare). Questo farmaco è stato concepito per competere
con l’ATP a livello del sito di legame specifico nel dominio chinasico della proteina di
fusione P210bcr-abl (Figura 3). Il legame con l’ATP permette alla tirosin-kinasi di fosforilare i
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Figura 3 – Meccanismo di azione di Imatinib Mesilato
I risultati degli studi clinici controllati sino ad ora eseguiti dimostrano che la terapia con
imatinib mesilato è molto più efficace rispetto alla terapia con interferone ed il farmaco è
molto ben tollerato. Con l’utilizzo di tale farmaco la percentuale di risposte citogenetiche
complete nei pazienti in fase cronica è superiore all’80% e sono state osservate anche
remissioni molecolari complete (assenza di riarrangiamento bcr-abl rilevabile con RTPCR). Inltre, a dosi piu’ elevate si e’ dimostrato efficae anche nelle fasi accelerate e
nelle crisi blastiche.
Per quanto non siano ancora disponibili dati sull'effetto a lungo termine, la terapia con
imatinib mesilato deve essere oggi considerata come terapia di prima scelta nel
trattamento della LMC e il trapianto allogenico di cellule staminali periferiche viene
riservato ai pazienti che falliscono nell’ottenimento di una risposta di buona qualità alla
terapia con imatinib. Sono in corso studi di valutazione dellla MMR durante la terapia con
Imatinib, allo scopo di identificare i pazineti con rischio di recidiva o progressione della
malattia.
Nelle diverse casistiche pubblicate, una percentuale variabile di pazienti (compresa tra il
5 ed il 15%) presenta o sviluppa una resitenza alla terapia con imatinib (definita come
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Sono allo studio nuovi inibitori di bcr-abl (BMS-354825 o dasatinib e AMN107) che hanno
mostrato efficacia nei confronti della maggior parte delle forme mutanti di bcr-abl testate
in vitro.
Algoritmo decisionale terapeutico per la leucemia mieloide cronica
LMC in fase cronica
IMATINIB MESILATO 400mg daily
THERAPEUTIC MILESTONES
3 mesi: risposta ematologica completa
6 mesi: risposta citogenetica minore
12 mesi: risposta citogenetica maggiore
18 mesi: risposta citogenetica completa
SI
Paziente <=55
anni
Paziente >55 anni
HLA testing
donor
available
prosegue
IMATINIB MESILATO
Allo BMT
IMATINIB MESILATO
600-800mg po daily
O TRIALS CLINICI
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22. Sindrome ipereosinofila
Definizione
Si tratta di una malattia clonale dell’emopoiesi caratterizzata dalla presenza nel sangue
periferico di un numero assoluto di eosinofili superiore a 1.5x109/L e da un aumento di
eosinofili nel tessuto emopoietico midollare per un periodo di tempo superiore a sei mesi
e in assenza di condizioni cliniche capaci di determinare un’eosinofilia.
Quest’ultima può essere infatti secondaria a malattia allergica, autoimmune, parassitaria,
dermatologica e neoplastica. Eosinofilie secondarie alla liberazione di citochine sono
state riportate non solo in pazienti con leucemia mieloide cronica Ph1 positiva, con
leucemia acuta linfoblastica e con linfomi non-Hodgkin, ma anche in pazienti che
apparentemente non presentavano una malattia linfoproliferativa. In quest’ultimo gruppo
di pazienti, con frequenti episodi di dermatite pruriginosa ed elevati livelli di IgE, è stata
osservata una popolazione clonale di linfociti T che produceva varie citochine ma
soprattutto interleuchina 5, necessaria per la differenziazione eosinofila della cellula
mieloide.
Patogenesi
La sindrome ipereosinofila è sempre causata da una mutazione somatica acquisita
insorta in una cellula staminale emopoietica. In alcuni casi la differenziazione cellulare è
prevalentemente orientata in senso eosinofilo (si parla allora di leucemia eosinofila), in
altri è invece verso tutte le linee cellulari mieloidi. In quest’ultimo gruppo di pazienti
l’eosinofilia fa parte di un più ampio disordine neoplastico dell’emopoiesi.
Comunque sia in entrambi i casi l’aumentata produzione di eosinofili è indotta da una
maggior produzione di interleuchina 5, interleuchina 3 e di fattore di crescita granulocitomacrofagico (GM-CSF).
Clinica
Al momento dell’esordio il paziente presenta una sintomatologia determinata dal fatto che
i granulociti eosinofili infiltrano i vari tessuti e liberano citochine contenute nei loro granuli.
Si spiegano così l’intenso prurito spesso associato alla presenza di noduli cutanei, la
profonda astenia con frequenti dolori retrosternali di tipo anginoso ed i più rari episodi di
diarrea profusa.
All’esame obiettivo si apprezzano importanti infiltrati cutanei con lesioni di tipo esfoliativo,
pustole ed angioedema localizzato; è spesso presente un’importante epatosplenomegalia, più rare sono le linfoadenomegalie. Una visita cardiologia spesso
dimostra un’insufficienza cardiaca congestizia, aritmie, angina e all’ecocardiografia si
osserva un marcato deficit dell’attività contrattile del miocardio ed alterazioni a livello delle
valvole cardiache. A livello del sistema nervoso centrale si osserva una sofferenza di tipo
diffuso con frequenti attacchi ischemici transitori e neuropatie periferiche; a livello
polmonare una marcata alterazione della funzionalità respiratoria dovuta all’importante
fibrosi polmonare; a livello del tratto gastroenterico infiltrati mucosi, causa della diarrea
lamentata dal paziente.
Il 16% dei pazienti dopo una fase cronica della durata di 6-9 mesi circa sviluppa una fase
acuta con quadro clinico sovrapponibile a quello di una leucemia acuta mieloide.
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Diagnosi
L’esame emocitometrico mostra di solito una leucocitosi con normali valori di emoglobina
e di piastrine. All’esame microscopico dello striscio di sangue periferico si rileva una
dacriocitosi e un aumento degli eosinofili, che presentano normali dimensioni e vacuoli
citoplasmatici. Il mieloaspirato mostra un tessuto emopoietico normo- o ipercellulato con
iperplasia dello stipite eosinofilo.
L’analisi citogenetica e molecolare rappresenta ormai uno strumento assolutamente
indispensabile non solo per un corretto inquadramento diagnostico della sindrome, ma
anche per un suo corretto trattamento.
E’ stato infatti dimostrato che la sindrome ipereosinofila non è un’entità omogenea ma
comprende varie sub-entità associate a specifiche alterazioni citogenetiche e molecolari.
La traslocazione cromosomica che per prima fu caratteristicamente associata ad una
malattia mieloproliferativa con marcato aumento degli eosinofili fu la t(5;12)(q31-33;p12p13). L’anomalia, che ha un’incidenza pari all’1% circa, determina il riarrangiamento tra il
gene che codifica per il recettore Beta del “Platelet Derived Growth Factor” (PDGFRB),
mappato alla banda 5q33, e il gene ETV6, mappato in 12p13. Il gene PDGFRB codifica
per una proteina recettoriale dotata di attività tirosina chinasica, che si sviluppa solo
quando è avvenuto il legame con il ligando, rappresentato dal PDGF. Il gene di fusione
ETV6-PDGF, prodotto dalla traslocazione, determina invece l’attivazione costitutiva della
chinasi in assenza del ligando.
Un’altra traslocazione associata ad un quadro di sindrome eosinofila è quella che
coinvolge il gene FGFR1, che codifica per la proteina “Fibroblast Growth Factor Receptor
1” ad attività tirosina chinasica. Nella traslocazione t(8;13) il gene FGFR1, mappato sul
cromosoma 8 alla banda p11, si riarrangia con il gene ZNF198, mappato alla banda
13q12. Il gene chimerico ZNF198-FGFR1, prodotto dalla traslocazione, causa
l’attivazione costitutiva della chinasi in assenza del ligando.
L’ultima traslocazione più recentemente dimostrata mediante tecniche di citogenetica
molecolare è quella che determina il riarrangiamento tra il gene per il recettore Alfa del
PDGF e il gene FIP1L1, entrambi mappati alla banda q12 del cromosoma 4. Anche in
questo caso la traslocazione genera un gene di fusione che provoca l’attivazione
costitutiva di PDGFRA.
Terapia
Fino ad un recente passato i farmaci più spesso impiegati nei pazienti con sindrome
ipereosinofila erano i cortisonici e gli antiblastici.
La recente dimostrazione che nella maggior parte dei pazienti con sindrome
ipereosinofola si verifica l’attivazione costitutiva di una particolare tirosina chinasi a
seguito di una traslocazione cromosomica specifica ha radicalmente modificato il
trattamento di questi pazienti indirizzandoli verso una terapia molecolare.
Quest’ultima consiste nella somministrazione dell’imatinib mesilato (STI571, Gleevec,
Glivec), molecola già rivelatasi efficace nel trattamento della leucemia mieloide cronica
Ph1 positiva. Studi recenti indicano che il Glivec è in grado d’indurre remissioni durevoli
anche nei pazienti con t(5;12) o con riarrangiamento FIP1L1-PDGFRA.
2006, Fondazione Ferrata Storti. Il contenuto di questa dispensa è fornito a titolo gratuito dalla Fondazione Ferrata Storti. Si
invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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23. Sindromi mielodisplastiche
Definizione
Le sindromi mielodisplastiche sono un gruppo eterogeneo di disordini primitivi del midollo
osseo emopoietico che interessano tipicamente soggetti anziani e sono caratterizzate da
anemia, solitamente refrattaria al trattamento, neutropenia e trombocitopenia persistenti
(o varie combinazioni delle precedenti citopenie), e da un rischio (di grado variabile) di
evoluzione in leucemia mieloide acuta.
Epidemiologia
L’età mediana alla diagnosi è compresa tra i 65 e i 70 anni. L’incidenza complessiva di
tali patologie è di circa 8 casi ogni 100.000 persone per anno. Nei soggetti di età inferiore
a 30 anni è di 1 caso ogni 100.000 persone per anno, mentre oltre i 70 anni di età è di 35
casi ogni 100.000 persone per anno. Risultano più colpiti i soggetti di sesso maschile.
L’esposizione a fattori tossici quali solventi organici, pesticidi, radiazioni ionizzanti o
l’assunzione di terapie a base di farmaci citostatici rappresentano fattori di rischio per lo
sviluppo di una sindrome mielodisplastica.
Patogenesi
Le sindromi mielodisplastiche sono disordini clonali di cellule staminali emopoietiche che
mantengono la capacità di differenziare e maturare, ma lo fanno in modo disordinato
(displasia emopoietica) ed inefficiente (emopoiesi inefficace) (figura 1).
Figura 1 – Fisiopatologia delle sindromi mielodisplastiche.
Stem
cells
Myelodysplastic clone
BFU-E
CFU-GM
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Una malattia ematologica (come le sindromi mielodisplastiche) si definisce clonale in
quanto la proliferazione cellulare che la caratterizza prende origine da un unico
progenitore malato. La dimostrazione dell’origine clonale delle sindromi mielodiplsatiche
è basata sulla identificazione di anomalie citogenetiche acquisite, e, limitatamente alla
popolazione femminile, sulla dimostrazione dell'inattivazione casuale di un cromosoma
X mediante la diversa espressione di metilazione del DNA, nelle pazienti eterozigoti per
i polimorfismi del gene PGK (fosfoglicerato-chinasi) e HUMARA (recettore degli ormoni
androgeni umani).
I meccanismi genetici e molecolari responsabili della trasformazione neoplastica della
cellula staminale emopoietica nelle sindromi mielodisplastiche rimangono in gran parte
non chiariti. Alcune anomalie cromosomiche ricorrono con maggiore frequenza nelle
sindromi mielodisplastiche. Le più frequenti sono le alterazioni del cromosoma 5, del
cromosoma 20, del cromosoma Y (associate a prognosi favorevole), del cromosoma 7
(associata a prognosi sevara) e la trisomia 8 (prognosi intermedia) che rappresenta
l’anomalia numerica più frequente nei disordini mieloidi (sindromi mielodisplastiche,
leucemie acute mieloidi, malattie mieloproliferative).Circa il 40-60% dei pazienti
presentano un cariotipo normal all’analisi citogenetica con tecnica convenzionel
(bandeggio G). L’ utilizzazione di approcci più sensibili (citogenetica molecolare,
ibridazione in situ fluorescente, FISH) permette di individuare la presenza di lesioni
citogenetiche criptiche in una certa percentuale (10-20%) di pazienti con cariotipo
normale.
Quadro clinico
Al momento della diagnosi i pazienti riferiscono più comunemente sintomi correlabili
all'anemia, quali affaticabilità (astenia) di grado variabile e difficoltà respiratoria
(dispnea), soprattutto in concomitanza di sforzi fisici. Sintomi meno frequenti sono gli
episodi infettivi e le manifestazioni emorragiche. Le infezioni (conseguenti alla
neutropenia) sono per la maggior parte di tipo batterico, a carattere recidivante e a lenta
risoluzione. Nel caso di calo dei valori piastrinici (piastrinopenia) la manifestazione
clinica più importante è la comparsa di porpora, ecchimosi o ematomi in occasione di
traumi, più raramente epistassi, gengivorragia o sanguinamenti del tratto gastroenterico. Infine in un una certa percentuale di pazienti, la diagnosi è occasionale, cioè
sospettata sulla base di alterazioni emerse da un esame emocromocitometrico eseguito
nel corso di accertamenti di routine.
All'esame obiettivo, in una percentuale ridotta di casi (circa il 15%) si riscontra
epatomegalia, splenomegalia o linfoadenomegalie.
L’esame emocromocitometrico mostra citopenia mono-trilineare: anemia normo- o pù
spesso macrocitica con reticolociti non aumentati, neutropenia (<1.8 x 109/L),
piastrinopenia (<100 x 109/L). Lo striscio di sangue periferico rivela la presenza di
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disgranulopoiesi: asincronia maturativi nucleo-citoplasmatica, ipogranulazione, blasti
(elementi che hanno subito arresto maturativo)
dismegacariopoiesi: micro-megacariociti, megacariociti mononucleari, ipogranularità
Figura 2: eritroblasti ferritinici e a sideroblasti ad anello.
Sideroblasti
"ferritinico"
"ad anello"
I sideroblasti ad anello sono definiti in base alla presenza di un numero di granuli di ferro
>10 (colorazione di Perls) a disposizione perinucleare, che indica una localizzazione a
livello mitocondriale. Gli eritroblasti ferritinici presentano un numero minore di granuli che
si localizzazo a livello citoplasmatico.
Classificazione
Le sindromi mielodisplastiche sono state classificate fino ad oggi secondo i criteri
formulati dal French-American-British (FAB) Cooperative Group nel 1982 (Tabella 1).
Questa classificazione che si avvale esclusivamente di criteri morfologici (citopenia,
displasia midollare, percentuale di cellule immature o blastiche nel sangue periferico e
midollo, percentuale di sideroblasti ad anello midollari). Essa distingue 5 forme::
l’anemia refrattaria (AR), anemia refrattaria con sideroblasti ad anello (ASIA), anemia
refrattaria con eccesso di blasti (AREB), anemia refrattaria con eccesso di blasti in
trasformazione (AREB-t) e leucemia mielomonocitica cronica (LMMC).
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Tabella 1 - Classificazione FAB delle sindromi mielodisplastiche
Blasti
Blasti
midollari perif.
Corpi Monociti Sideroblasti
di Auer
ad anello
AR
<5%
< 1%
-
< 1000
< 15%
ASIA
<5%
< 1%
-
< 1000
> 15%
AREB
5-20%
< 5%
-
< 1000
LMMC
< 20%
< 5%
-
> 1000
> 5% or
+
AREB-t 21-30%
Nell’Ottobre del 2002 è stata formulata la nuova classificazione WHO, che incorpora
molti dei criteri e delle definizioni del sistema FAB, ma definisce con maggior precisione
alcuni sottotipi (Tabella 2). Essa distingue 6 forme principali: anemia refrattaria (AR),
anemia refrattaria con sideroblasti ad anello (ASIA), citopenia refrattaria (senza o con
sideroblasti ad anello) con displasia multilineare (RCMD, RS-RCMD), anemia refrattaria
con eccesso di blasti (AREB1 e AREB2) , sindrome 5q- (5q).
Le principali differenze rispetto alla classificazione precedente riguardano l'esclusione
del sottotipo AREB-t, assimilato alla categoria delle leucemie acute mieloidi;
l'eliminazione del sottotipo LMMC collocato in un gruppo dei disordini mieloidi con
caratteristiche sia delle sindromi mielodisplastiche sia delle malattie mieloproliferative
(MDS/MPD); la definizione di una nuova entità clinica, la sindrome 5q- associata a
prognosi favorevole.
Sindrome 5qQuesta sindrome è definita come una SMD de novo con una isolata anomalia
citogenetica che consiste nella delezione delle bande q21 e q32 del cromosoma 5.
Interessa con maggiore frequenza il sesso femminile. Dal punto di vista ematologico si
presenta come un’anemia (macrocitica) refrattaria, con un numero di piastrine normale o
aumentato e un aumentato numero di megacariociti, molti dei quali con nuclei ipolobati. Il
numero di blasti nel midollo e nel sangue periferico è inferiore al 5%. E’ associata a
prognosi favorevole.
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Tabella 2 - Classificazione WHO delle sindromi mielodisplastiche
CATEGORIA WHO
SANGUE
PERIFERICO
MIDOLLO OSSEO
Anemia refrattaria (AR)
Anemia
Assenza di o rari
blasti
Displasia eritroide isolata
Blasti <5%
Sideroblasti ad anello <15%
Anemia refrattaria con sideroblasti ad anello
(ASIA)
Anemia
Assenza di blasti
Displasia eritroide isolata
Blasti <5%
Sideroblasti anello 15%
Citopenia refrattaria con displasia multilineare
(RCMD)
Citopenie (bi- o trilineare)
Assenza di blasti
Non corpi di Auer
9
Monociti <1x10 /l
Displasia in 10% delle cellule
in 2/+ linee mieloidi
Blasti < 5%
Assenza di corpi di Auer
Sideroblasti anello <15%
Citopenia refrattaria con displasia multilineare
e sideroblasti ad anello
(RS-RCMD)
Citopenie (bi- o trilineare)
Assenza di blasti
Non corpi di Auer
9
Monociti <1x10 /l
Displasia in 10% delle cellule
in 2/+ linee mieloidi
Blasti < 5%
Assenza di corpi di Auer
Sideroblasti anello 15%
Anemia refrattaria con eccesso di blasti –1
(AREB-1)
Citopenie
Blasti < 5%
Non corpi di Auer
9
Monociti < 1x10 /l
Displasia mono-multilineare
Blasti 5-9%
Assenza di corpi di Auer
Anemia refrattaria con eccesso di blasti –2
(AREB-2)
Citopenie
Blasti 5-19%
Corpi di Auer
9
Monociti < 1x10 /l
Displasia mono-multilineare
Blasti 10-19%
Corpi di Auer
Sindrome mielodisplastica non classificata
Citopenie
Assenza di o rari
blasti
Non corpi di Auer
Displasia monolineare in
granulociti o megacariociti
Blasti < 5%
Assenza di corpi di Auer
Sindrome mielodisplastica con isolata del(5q)
Anemia
< 5 % blasti
Piastrine normali o
aumentate
Blasti: 0-20%
Disordini mielodisplastici/mieloproliferativi (MDS/MPD)
La leucemia mielomonocitica cronica è stata eliminata dalla categoria delle sindromi
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I criteri per la diagnosi di leucemia mielomonocitica cronica (LMMC) prevedono: la
presenza di monocitosi persistente > 1x109/l, l’assenza di cromosoma Philadelphia o
riarrangiamento BCR/ABL, la presenza di blasti nel sangue periferico o nel midollo
inferiore al 20%, e la presenza displasia in una o più linee mieloidi. Se la displasia è
assente o minima la diagnosi di LMMC può essere formulata se sono presenti gli altri
criteri e in aggiunta è presente una anomalia citogenetica clonale, o la monocitosi
persiste per almeno 3 mesi e tutte le altre cause di monocitosi sono state escluse.
Prognosi
La classificazione WHO ha dimostrato un significativo valore prognostico, stratificando sia
la sopravvivenza sia il rischio di evoluzione leucemica dei pazienti con sindrome
mielodisplastica (Tabella 3).
Tabella 3 – Sopravvivenza globale e rischio di evoluzione leucemica dei sottotipi di
mielodisplasie definiti dalla classificazione WHO
Sopravvivenza
mediana (anni)
Rischio di evoluzione
leucemica a 2 anni
AR, ASIA, MDS del(5q)
9
4%
RCMD, RCMD-RS
4
15%
RAEB-1
2
38%
RAEB-2
1
74%
Categoria WHO
Il sistema prognostico attualmente più utilizzato è l’International Prognostic Scoring
System (IPSS), definito nel 1997 (dunque prima dell’introduzione della nuova
classificazione WHO) da un gruppo cooperativo internazionale.
Questo sistema prende in considerazione la citopenia, la percentuale di blasti midollari (il
cui criterio di stratificazione è stato adottato con minime variazioni dalla classificazione
WHO), ed il cariotipo (Tabella 4). L’IPSS idenfica 4 differentio gruppi di rischio (basso,
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Tabella 4 - International Prognostic Scoring System (IPSS)
Variabili
0
0.5
Blasti
midollari
<5%
5-10%
Cariotipo*
Favorevole
Intermedio
Citopenia
0/1
2/3
1
1.5
2
11-20
21-30
sfavorevole
Gruppi di rischio: basso, 0; Intermedio-1, 0.5-1; Intermedio-2, 1.5-2; alto, >2
*Favorevole: normale, del(5q) (alterazione isolata), del(20q) (alterazione isolata), –Y
(alterazione isolata);*Sfavorevole: cariotipo complesso (>2 anomalie), anomalie
cromosoma 7; *Intermedio: altre anomalie.
#Citopenia: emoglobina <10 g/dL, piastrine <100x109/L, neutrofili < 1.8x109/L.
Terapia
La terapia delle sindromi mielodisplastiche si avvale di diversi approcci, da valutare in
funzione delle caratteristiche del paziente (età, performance status) e della malattia
(IPSS).
Tra gli strumenti terapeutici potenzialmente in grado di dare la guarigione vi sono il
trapianto allogenico di cellule staminali periferiche e la chemioterapia aggressiva, da
riservarsi a pazienti giovani (con età inferiore a 55 anni per il trapianto da donatore
familiare HLA-identico e inferiore a 65 anni per la chemioterapia) con forme di
mielodisplasia a rischio intermedio o alto.
I pazienti a basso rischio, oppure in età avanzata o con poor performance status sono
candidati a terapia di supporto: trasfusioni di globuli rossi, prevenzione e terapia delle
infezioni, prevenzione e terapia delle emorragie oppure a terapie sperimentali (Epo + GCSF, induttori della differenziazione, farmaci anticitochinici).
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24. Leucemia mieloide acuta
Definizione
La leucemia acuta mieloide (LAM) è una patologia clonale della cellula staminale
emopoietica caratterizzata da proliferazione incontrollata ed arresto della maturazione,
con accumulo di cellule mieloidi immature (blasti) nel midollo osseo e soppressione
dell’emopoiesi normale.
Epidemiologia
L’incidenza della leucemia acuta mieloide aumenta sensibilmente con il crescere dell’età;
complessivamente risulta di 2-3 casi ogni 100.000 persone per anno. Le LAM
rappresentano circa il 15-20% delle leucemie acute del bambino e l’80% delle leucemie
acute dell’adulto.
Patogenesi
Sono stati individuati alcuni fattori di rischio per lo sviluppo di leucemia acuta mieloide,
che comprendono fattori ambientali, malattie acquisite, malattie ereditarie (tabella 1).
Tabella 1 – Fattori di rischio per lo sviluppo di leucemia acuta mieloide
Fattori ambientali:
Radiazioni
Benzene
Farmaci chemioterapici
Cloramfenicolo
Malattie acquisite:
Sindromi mieloproliferative croniche
Sindromi mielodisplastiche
Anemia aplastica
Emoglobinuria parossistica notturna
Malattie ereditarie:
Anemia di Fanconi
Immunodeficienze combinateSindrome di Down
Sindrome di Bloom
Atassia-telangectasia
Sindrome d Wiskott-Aldrich
Discheratosi congenita
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Dal punto di vista genetico e molecolare sono state individuate diverse alterazioni che
ricorrono con frequenza e specificità variabile nelle LAM.
Traslocazione
Geni coinvolti
Proteina
Funzione
t(8;21) (q22;q22)
ETO-AML1
CBF
DNA binding
inv 16 (p13-q22)
CBF -MYH11
CBF
DNA binding
t(15;17)(q21;q11)
PML-RAR
RAR
attivatore trascrizionale
t(11;17)(q13;q11)
PLZF-RAR
RAR
attivatore trascrizionale
t(5;17)(q31;q11)
NPM-RAR
RAR
attivatore trascrizionale
t(11;17)(q13;q11)
NUMA-RAR
RAR
attivatore trascrizionale
t(9;11)(p22;q23)
AF9-MLL
MLL
regolatore positivo geni omeotici
t(11;19)(q23;p13.1)
MLL-ENL
MLL
regolatore positivo geni omeotici
Le leucemie acute mieloidi sono state classificate fino all’ottobre 2002 in base ai criteri
morfologici e immunocitochimici FAB (French-American-British Classification Group).
In tutti i casi, per porre diagnosi di leucemia acuta mieloide, ooccorre che il numero di
cellule blastiche presenti a livello midollare sia maggiore o uguale al 20% della cellularità
totale.
La classificazione FAB distingue i seguenti sottotipi di leucemia acuta mieloide:
Leucemia acuta M0 (indifferenziata): è caratterizzata da blasti privi di granuli
citoplasmatici e corpi di Auer. Le reazioni citochimiche convenzionali
(mieloperossidasi, sudan nero) risultano negative. Per la diagnosi deve essere rilevata
la positività per uno o più marker mieloidi (anticorpi monoclonali anti-CD13 e antiCD33) in almeno il 20% dei blasti leucemici. Non è associata ad alterazioni
citogenetiche specifiche.
Leucemia acuta M1 (senza maturazione): è caratterizzata da blasti mieloidi senza
segni di maturazione: non sono presenti granuli citoplasmatici, la cromatina nucleare è
fine. Per la diagnosi è necessario evidenziare la positività alla mieloperossidasi ed al
Sudan nero in almeno il 3% dei blasti leucemici. La componente granulocitaria con
segni di maturazione deve essere uguale o inferiore al 10%. Non è associata ad
alterazioni citogenetiche specifiche
Leucemia acuta M2 (con maturzione): è caratterizzata da blasti mieloidi nel cui
citoplasma è possibile osservare granuli azzurofili o corpi di Auer; a livello nucleare
sono ben evidenti nucleoli. La componente granulocitaria con maturazioneè superiore
al 10%; la componente monocitaria deve essere inferiore al 20%. Questo sottotipo si
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associa alla traslocazione t(8;21) con il coinvolgimento dei geni AML/ETO (prognosi
favorevole).
Leucemia acuta M3 (promielocitica): la quasi totalità delle cellule leucemiche è
costituita da promilociti atipici con citoplasma ricco di granulazioni azzurrofile e corpi di
Auer (variante ipergranulare). La reazione alla mieloperossidasi è intensamente
positiva. Questo sottotipo è associato con altissima frequenza alla t(15;17),
riarrangiamnto PML/RAR (prognosi favorevole).
Esiste una variante ipogranulare della leucemia acuta M3, in cui i granuli non sono
visibili alla microscopia ottica ma sono dimostrabili con la microscopia elettronica.
L’alterazione citogenetica è la medesima della variante ipergranulare
Leucemia acuta M4 (mielomonocitica): per la diagnosi di questa forma deve essere
presente oltre a una quota di blasti superiore al 20%, deve essere presente una
componente granulocitaria midollare in vari stadi differenziativi maggiore del 20% e
una componente monocitaria midollare non inferiore al 20%. Una positività per la
mieloperossidasi e la cloro-acetato-esterasi (esterasi specifiche) viene riscontrata nella
componente granulocitaria, e una netta positività delle esterasi non specifiche (alfanaftil-acetato-esterasi) è presente nelle cellule monocitarie. Una inv(16), con prognosi
favorevole, si associa frequentemente a una variante della LAM-M4 detta con
componente eosinofila. Gli eosinofili sono abnormi e nel citoplasma oltre ai granuli
specifici sono presenti granuli basofili particolarmente prominenti.
Leucemia acuta M5a (monocitica scarsamente differenziata): le cellule monocitiche
devono costituire almeno l’80% delle cellule leucemiche; i monoblasti devono costituire
almeno l’80% della componente monolitica; la componente granulocitaria se presente
deve essere inferiore al 20% delle cellule leucemiche. I monoblasti sono negativi alla
mieloperossidasi e positivi alla alfa-naftil-acetato-esterasi (esterasi non specifiche).
Questa forma non è associata a alterazioni citogenetiche specifiche.
Leucemia acuta M5b (monocitica con differenziazione): per la diagnosi è necessario
che i monoblasti siano meno dell’80% della componente monocitaria. I promonociti
sono predominanti.
Leucemia acuta M6 (eritroleucemia): è caratterizzata dalla coesistenza di blasti
mieloidi e eritroblasti abnormi a livello del midollo osseo. I precursori eritroidi sono
almeno il 50% delle cellule; almeno il 30% delle cellule non-eritroidi è costituito da
mieloblasti. I precursori eritroidi sono displastici e PAS positivi. Le alterazioni
citogenetiche sono estremamente variabili.
Leucemia acuta M7 (megacariocitaria): la diagnosi di questa forma è
esclusivamente immunofenotipica: gli elementio blastici devono essere positivi per gli
antigeni CD41, CD42 e CD61 (antigeni piastrinici GpIb, GpIIb/IIIa e GpIIIa). Inoltre la
natura megacariocitaria della leucemia può essere evidenziata con la microscopia
elettronica mediante la dimostrazione della perossidasi piastrinica delle cellule.
Nel 2002 è stata elaborata la classificazione WHO delle neoplasie mieloidi, che si basa
su molti criteri inclusi nella precedente classificazione FAB, assegnando tuttavia rilevanza
diagnostica ad alcune anomalie molecolari (tabella 2)
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Tabella 2 – Classificazione WHO delle leucemie acute mieloidi.
Leucemia acuta mieloide con anomalie genetiche ricorrenti:
- LAM con t(8;21) (q22;q22) (AML1/ETO)
- LAM con ipereosinofilia midollare e inv(16)(p12q22) o t(16;16)
(CBFb/MYH11)
- Leucemia acuta promielocitica con traslocazione t(15;17) (q11;q12)
(PML/RARa) e varianti
- LAM con anormalità 11q23 (MLL)
Leucemia acuta mieloide con displasia multilineare:
- Evoluzione di MDS o MDS/MPS
- Senza pregressa MDS o MDS/MPS, ma con displasia in almeno il 50%
delle cellule in 2 o più linee mieloidi
Leucemia acuta mieloide e sindromi mielodisplastiche secondarie a terapia:
- con agenti alchilanti/radioterapia
- con inibitori della topoisomerasi II
Leucemia acuta mieloide non altrimenti classificata:
- mieloblastica con differenziazione minima
- mieloblastica senza segni di maturazione
- mieloblastica con segni di maturazione
- mielomonocitica
- monoblastica/monocitica
- eritroide (eritroide/mieloide, eritroleucemia pura)
- megacarioblastica
- basofila
- Panmielosi acuta con mielofibrosi
- Sarcoma mieloide
Quadro clinico
Il quadro clinico delle leucemie acute mieloidi è caratterizzato da sintomi e segni da
insufficienza midollare: anemia (pallore, astenia, affaticabilità, palpitazione),
piastrinopenia (petecchie, ecchimosi, emorragie cutaneo-mucose), granulocitopenia
(infezioni).
In particolare nei sottotipi mielomonocitico e monocitico (LAM M4-M5 nella classificazione
FAB) si possono riscontrare sintomi e segni da infiltrazione (epato-splenomegalia,
linfoadenomegalie, infiltrati cutanei, ipertrofia gengivale, interessamento del sistema
nervoso centrale). L’esordio della malattia può anche essere caratterizzato da una
coagulazione intravascolare disseminata (CID), in particolare nella leucemia acuta
promielocitica (LAM-M3) (vedi oltre), dove questa complicanza è presente in più del 90%
dei casi.
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invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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Diagnosi
L’inquadramento del paziente con leucemia acuta mieloide prevede primariamente
l’esame emocromocitometrico, che nella maggior parte dei casi presenta leucocitosi
associata ad anemia e piastrinopenia, ma può dimostrare anche anemia e piastrinopenia
con leucociti nella norma o pancitopenia.
Di fondamentale importanza è la valutazione della coagulazione (attività protrombinica,
aPTT, tempo di Quick, fibrinogeno, FDP), al fine di individuare con tempestività
l’eventuale presenza di coagulazione intravascolare disseminata prevalentemente
associata alla leucemia acuta promielocitica.
Per definire la diagnosi occorre eseguire un mieloaspirato, con valutazione morfologica
dello striscio di sangue midollare, con quantificazione dei blasti (che devono essere
magiori o ugulai al 20% della cellularità totale e con caratterizzazione in
immunocitochimica delle cellule leucemiche.
La diagnostica moderna delle leucemie acute mieloidi prevede in aggiunta l’esecuzione
su cellule midollari dell’analisi immunofenotipica (i principali antigeni di utilità diagnostica
sono riportati nella tabella 3) e dell’analisi citogenetica e molecolare per la definizione del
rischio di malattia e della prognosi.
Tabella 3. Principali antigeni CD di utilità nella diagnostica della leucemia acuta mieloide
Antigene
Distribuzione
CD34
Cellula staminale pluripotente
CD33
Progenitori mieloidi
CD13
Precursori mieloidi
CD14
Monociti
CD15
Precursori mieloidi, monociti, granulociti
CD11c
Monociti, granulociti
MPO
Precursori mieloidi
Glicoforina A
Precursori eritroidi
CD41, CD61
Piastrine e megacariociti
Prognosi
I fattori che condizionano più significativamente il decorso clinico dei pazienti affetti da
LAM sono l’età, che sia associa a prognosi sfavorevole se superiore a 55-60 anni, e la
citogenetica, che consente di individuare alcune forme a prognosi favorevole (basso
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Algoritmo per la definizione del rischio delle leucemie acute mieloidi non M3
Rischio Basso
t(8;21), inv(16), t(16;16)
Rischio Standard
restanti anomalie
Rischio Alto
-5, -7, del(5q),an(3q), cariotipo complesso
LAM secondaria
non remissione dopo induzione
Terapia
La terapia del paziente affetto da leucemia acuta mieloide prevede un trattamento di
supporto, che consiste nell’idratazione e nella alcalinizzazione delle urine per prevenire
un danno renale dovuto ai prodotti di degradazione cellulare, nella profilassi e nel
trattamento delle infezioni, e nella terapia trasfusionale.
La terapia anti-leucemica si articola in una fase di induzione della remissione, che
prevede una chemioterapia con la finalità di ridurre le cellule leucemiche ad un valore
inferiore al 5% delle cellule midollari all’esame morfologico (remissione completa
ematologica).
A questa fase segue la terapia di consolidamento della remissione, che ha lo scopo di
prevenire la riespansione della malattia minima residua (morfologicamente non
evidenziabile) che persiste al momento dell’ottenimento della remissione completa.
Lo schema chemioterapico più utilizzato nella fase di induzione della remissione è il
cosiddetto “3-7”, che prevede l’associazione di daunoblastina (45 mg/m2) o idarubicina
(12 mg/m2) per 3 giorni e citosina arabinoside (ara-C) (200 mg/m2 in infusione continua)
per 7 giorni.
La fase di consolidamento della remissione può avvalersi della chemioterapia, oppure del
trapianto di cellule staminali emopoietiche autologhe o allogeniche.
Lo schema chemioterapico più utilizzato in questa fase prevede alte dosi di ara-C (2-3
g/m2/12 h x 4-8 dosi), che consente di ottenere una sopravvivenza libera da malattia del
30-40%.
Il trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche prevede la somministrazione di dosi
più elevate di agenti chemioterapici e garantisce una minore incidenza di recidiva. E’
tuttavia applicabile a pazienti di età inferiore a 65 anni ed è gravato da una mortalità
peritrapiantologica del 5% circa (dovuta alla tossicità dei farmaci e a complicanze
infettive). La sopravivvenza libera da malattia è con questa procedura è del 40-50% circa.
Il trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche (da donatore familiare o non
consanguineo) basa la propria efficacia, oltre che sull’effetto citotossico del regime di
preparazione radio-chemioterapico, sull’effetto anti-leucemico del sistema immunitario del
donatore nei confronti delle cellule leucemiche residue (graft-versus-leukemia, GvL). La
procedura è tuttavia applicabile a pazienti di età inferiore a 55 anni ed in buone condizioni
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generali ed è comunque gravata da una transplant-related mortality del 20-40%, dovuta
principalmente alla tossicità della radio-chemioterapia, alle complicanze infettive ed alla
malattia da trapianto verso l’ospite (graft-versus-host disease, GvHD) acuta e cronica. La
sopravvivenza libera da malattia nei pazienti sottoposti ad allo trapianto è del 50-60%
circa.
Leucemia acuta promielocitica
Per le peculiarità biologiche e cliniche merita una trattazione a parte la leucemia acuta
promielocitica (LAM-M3 della classificazione FAB), che rappresenta circa il 10% delle
leucemie acute mieloblastiche dell’adulto.
Patogenesi
Nel 98% dei pazienti con LAM-M3 si osserva la traslocazione bilanciata, senza perdita di
materiale, formalmente definita come t(15;17)(q22;q21); l’1% dei pazienti non mostra il
riarrangiamento all’esame citogenetico convenzionale (riarrangiamento criptico). Nel
1991 metodiche di biologia molecolare dimostrano che la traslocazione determina la
giustapposizione del gene PML (promyelocitic leukemia), mappato alla banda 15q22, e
RAR (subunità del recettore dell’acido retinico), mappato alla banda 17q21, con la
creazione della proteina di chimerica PML-RARA.
Il punto di rottura a livello di PML è variabile, localizzandosi in tre diverse “breakpoint
cluster regions” (BCR) ed essendo soggetto a fenomeni di “splicing” alternativo. I punti di
rottura più frequenti sono i seguenti:
Bcr1 (Incidenza: 70%): è situato verso l’estremità 3’ del gene e contiene le sequenze
codificate dagli esoni 5 e 6 di PML. Determina la creazione di una proteina chimerica
PML/RAR del peso di 110-120kD, definita perciò L=long
Bcr2 (Incidenza 10%): è situato all’interno o intorno all’esone 6 di PML. Proteina di
fusione di lunghezza variabile, definita perciò V=variable
Bcr3 (Incidenza 20%): è il più frequente e cade a livello dell’estremità 5’ del gene
PML; fonde gli esoni 1-3 di PML con l’esone 3 di RAR . Proteina di fusione piccola
del peso di 90-103kD, definita S=small.
Il punto di rottura nel gene RAR è costante essendo sempre localizzato a livello del
primo introne del gene. Il gene RAR è un fattore trascrizionale che svolge un ruolo
fondamentale nella normale emopoiesi determinando una normale differenzazione
cellulare e bloccando la proliferazione cellulare.. Nella LAP la proteina chimerica PML/
RAR è in grado di reclutare un complesso di repressione della trascrizione che agisce
attraverso una deacetilazione degli istoni. In questo modo la cromatina assume una
conformazione meno accessibile ai fattori necessari a promuovere la trascrizione. L’acido
rimuovere
differenziativo
in modo quasifisiologiche
fisiologico,èinin quanto
il geneinRAR
retinoicoilinblocco
forma trans
(ATRA) a concentrazioni
grado almeno
parte di
codifica per il recettore dell’ATRA.
Esistono traslocazioni varianti: t(11;17)(q13;q11) con riarrangiamento PLZF-RAR ,
t(5;17)(q31;q11) con riarrangiamento NPM-RAR .
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Quadro clinico
L’esordio clinico è caratterizzato in più del 90% dei pazienti da una severa sindrome
emorragica dovuta a coagulazione intravascolare disseminata innescata dall’attività
procoagulante dei granuli dei promielociti, e che peraltro è frequentemente aggravata
dalla iniziale citolisi indotta dalla chemioterapia.
Diagnosi
L’inquadramento del paziente affetto da leucemia acuta promielocitica prevede:
- l’esame obiettivo con particolare riguardo a manifestazioni emorragiche in atto o
sospette focolai infettivi in atto o sospetti
- l’esame emocromocitometrico, che dimostra generamente anemia, piastrinopenia,
leucocitosi/leucopenia
- coagulazione (PT, PTT, Fibrinogeno, FDP, D-dimero) che dimostra un aumento degli
FDP (da fibrinolisi secondaria), una riduzione del fibrinogeno, un allungamento del PTT e
del tempo di trombina (da consumo)
- il mieloaspirato: la morfologia mostra rispettivamente nella forma classica ipergranulare
promielociti ipergranulari con corpi di Auer e nella variante ipogranulare promielociti
microgranulari con nucleo ripiegato e lobulato
- il fenotipo immunologico su sangue midollare: nella forma classica ipergranulare i
promielociti patologici sono HLA-DR-, CD34-, CD11b-, CD9-, CD33+, CD13+; nella
variante ipogranulare: le cellule leucemiche esprimono frequentemente positività per
l’antigene CD2
- la citogenetica (convenzionale e/o FISH) su sangue midollare per la ricerca della
traslocazione t(15;17)(q22;q21)
- la biologia molecolare su sangue midollare o periferico per la ricerca del trascritto PMLRAR .
Terapia
La terapia del paziente con leucemia acuta promielocitica prevede il trattamento della
CID con concentrati piastrinici, plasma fresco congelato, fibrinogeno. Dopo aver
documentato la diagnosi la terapia è basata sull’acido retinoico (all-trans-retinoic acid,
ATRA), che induce la differenziazione delle cellule leucemiche, in associazione a
chemioterapia con antracicline.
Uno studio pilota del Gruppo Italiano per lo studio delle Malattie Ematologiche Maligne
dell’Adulto (GIMEMA) ha utilizzato un protocollo basato sull’associazione di ATRA ed
idarubicina (protocollo “AIDA”) che comprende una fase di induzione della remissione
completa (ATRA e idarubicina), una fase di consolidamento con vari cicli chemioterapici
(idarubicina e Ara-C; Mitoxantrone ed etoposide; idarubicina, Ara-C e tioguanina).
I risultati dello studio hanno evidenziato il conseguimento della remissione completa nel
90% dei casi con risoluzione della coagulopatia in 7-10 gg ed una sopravvivenza globale
dell’85%.
La terapia con ATRA può presentare alcuni effetti collaterali. Tra i più gravi, ricordiamo
l’iperleucocitosi, conseguenza della maturazione dei promielociti e la sindrome da ATRA
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Bersagli molecolari nella terapia delle leucemie acute
Traslocazioni cromosomiche sono presenti nel 40% circa dei pazienti affetti da leucemia
mieloide acuta (LAM). Sono stati riportati due tipi di traslocazioni: quelle che attivano una
particolare tirosina chinasi e quelle che modificano la struttura cromatinica, attivando un
complesso che reprime la trascrizione. Il restante 30-50% dei pazienti può invece
presentare una mutazione puntiforme di un gene che codifica per un recettore ad attività
tirosina chinasica o di un gene che codifica per una proteina coinvolta nei processi di
trasduzione del segnale. Una terapia molecolare corretta dovrebbe quindi indirizzarsi
verso tali bersagli.
Tirosine chinasi
Attivazione. Può essere determinata da una traslocazione cromosomica o da una
mutazione genica. Una leucemia caratteristicamente associata ad una traslocazione
cromosomica che comporta l’attivazione di una specifica tirosina chinasi è la leucemia
mieloide cronica Ph1 positiva. Altre traslocazioni che causano l’attivazione costitutiva di
una tirosina chinasi sono state riportate nelle sindromi ipereosinofile.
Nel 50% delle LAM l’attivazione di una chinasi può essere determinata da una mutazione
genica. Il 37% dei pazienti presenta una duplicazione (“internal tandem duplication”, ITD)
del gene Flt3, che codifica per un recettore transmembrana ad attività tirosina chinasica.
Il recettore, codificato da un gene Flt3 normale, si lega al proprio ligando, si dimerizza e
libera la propria attività tirosina chinasica. Quando invece il gene Flt3 presenta una ITD, il
recettore tende a dimerizzare spontaneamente in assenza del ligando e si ha
un’attivazione costitutiva della chinasi. Il 7% dei pazienti con LAM presenta anche un
altro tipo di mutazione a carico del gene Flt3. Si tratta di una mutazione puntiforme che
colpisce l’acido aspartico in posizione 835, contenuto in una regione che svolge una
funzione di controllo sull’attività chinasica del recettore. Pertanto una mutazione in questa
sede elimina tale regolazione e induce l’attivazione della chinasi.
Il 10% circa dei pazienti con LAM può presentare una mutazione puntiforme a carico del
gene c-KIT, che codifica per un altro recettore ad attività chinasica. Le mutazioni che
colpiscono questo gene sono simili a quelle riportate per Flt3 e causano l’attivazione
costitutiva della chinasi.
Terapia molecolare. L’Imatinib mesilato (Glivec) è una molecola ad attività anti-tirosina
chinasica. Tale azione viene svolta perché l’imatinib compete con l’ATP per il legame alla
regione ad attività tirosina chinasica del gene di fusione BCR-ABL, prodotto dalla t(9;22)
e marcatore specifico della LMC Ph1 positiva. Vari studi hanno dimostrato l’efficacia del
Glivec nei pazienti con tale tipo di leucemia. Il Glivec svolge la sua azione inibitoria
anche nei confronti di altre chinasi coinvolte nelle sindromi ipereosinofile e nei confronti
del gene c-KIT normale o colpito da un particolare tipo di mutazione. Il Glivec non ha però
alcuna efficacia sulle mutazioni di Flt3. Pertanto per i pazienti con LAM con mutazione di
Flt3 sono state ricercate e sviluppate nuove molecole ad attività anti-tirosina chinasica
(PKC412). Studi investigativi diretti a saggiare l’efficacia terapeutica di tali molecole sono
tuttora in corso. E’ stato comunque dimostrato che tali inibitori se somministrati da soli
sono capaci di indurre un miglioramento delle condizioni cliniche del 20% dei pazienti con
LAM con mutazione di Flt3 resistente agli usuali protocolli di chemioterapia.
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Alterazioni della struttura cromatinica
Traslocazioni cromosomiche. Traslocazioni cromosomiche strettamente correlate ad uno
specifico citotipo FAB di LAM attivano un complesso proteico che reprime la trascrizione
di specifici geni bersaglio. Una traslocazione che agisce attraverso questo meccanismo è
la t(15;17), caratteristicamente associata alla leucemia acuta promielocitica. La
traslocazione determina il riarrangiamento del gene PML, mappato in 15q22, con il gene
RARA, che codifica per il recettore alfa dell’acido retinoico, mappato in 17q21. Il gene
chimerico RARA-PML, formatosi sul cromosoma 17, attiva un complesso che è formato
da due repressori della trascrizione e da una deacetilasi istonica. Tale complesso reprime
la trascrizione di geni bersaglio importanti per la differenziazione della cellula mieloide. La
traslocazione determina quindi un blocco differenziativo. Quest’ultimo viene superato
somministrando al paziente acido all trans retinico (ATRA), a dosi superiori rispetto a
quelle fisiologiche. L’ATRA ripristina la trascrizione dei geni bersaglio eliminando il
legame tra RARA-PML e complesso repressorio.
Il gene RARA, oltre che con PML, può riarrangiarsi con altri geni, tra questi bisogna
ricordare PLZF. Quest’ultimo, mappato sul cromosoma 11 alla banda q23, si riarrangia
con RARA nella traslocazione t(11;17). I pazienti con questa traslocazione presentano
una LAM resistente all’ATRA. La resistenza è determinata dal fatto che il gene di fusione
PLZF-RARA presenta due regioni di legame al già citato complesso di repressione della
trascrizione: una fornita da PLZF e l’altra fornita da RARA.
Terapia molecolare. Dati sperimentali ottenuti da modelli murini e dati aneddotici ottenuti
in pochi pazienti con LAM resistente all’ATRA indicano che la resistenza all’ATRA può
essere superata somministrando ATRA ed inbitori delle deacetilazione degli istoni. Questi
ultimi agiscono sulla deacetilasi istonica che partecipa al già citato complesso
repressorio. Gli istoni sono proteine che insieme al DNA formano il nucleosoma, subunità
fondamentale della cromatina. La trascrizione del nucleosoma dipende dal grado di
acetilazione degli istoni. In caso di deacetilazione il nucleosoma è contratto e si ha un
blocco della trascrizione mentre nel caso di un’acetilazione degli istoni il nucleosoma è
rilasciato ed è favorita la trascrizione. Gli inibitori della deacetilasi degli istoni bloccando
tale enzima dovrebbero ripristinare la trascrizione di geni bersaglio e reindurre la
differenziazione cellulare. Basandosi su questo razionale e considerando che il
complesso repressorio sopra riportato è attivato non solo nei pazienti con LAM-M3 ma
anche in quelli con altri citotipi, pazienti con malattia resistente alla chemioterapia sono
stati avviati a protocolli di terapia investigativa basati sull’impiego di inibitori delle
deacetilasi degli istoni.
Inibitori della traduzione del segnale
Mutazioni. Quelle più frequenti hanno come bersaglio il gene RAS. Questo gene codifica
per una proteina legata alla membrana citoplasmatica e dotata di attività GTPasica. La
proteina RAS, che è in grado di formare un legame con GDP e GTP, cicla tra uno stato
attivo (legata a GTP) e uno stato inattivo (legata a GTP). Inoltre per essere attivata la
proteina deve essere legata alla membrana cellulare. Questo legame è indotto da una
modificazione della proteina a livello della sua porzione lipidica, processo che va sotto il
nome di prenilazione. Quest’ultima avviene per azione di due enzimi la farnesil- e la
geranilgeranil-transferasi. Le mutazioni puntiformi di RAS, che hanno un’incidenza del
20%, colpiscono i codoni 12, 13 e 61 e mantengono RAS nella sua forma attiva legata a
GTP.
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Terapia molecolare. La prenilazione di RAS può essere bloccata utilizzando inibitori della
farnesilazione (Zarnestra). Si ritiene così di bloccare il legame di RAS alla membrana
cellulare e la sua conseguente attivazione. Gli inibitori della farnesilazione potrebbero
avere un ampio impiego nelle LAM, inducendo un arresto della crescita cellulare e
l’apoptosi. Nonostante i numerosi studi sperimentali il meccanismo d’azione di queste
molecole è tuttora da definire. Siccome la risposta agli inibitori della farnesilazione non
correla con lo stato di RAS, si ritiene che essi agiscano impedendo la farnesilazione di
altre proteine che a loro volta svolgono un ruolo cruciale in vari processi cellulari.
Comunque sia, studi in vitro hanno dimostrato che gli inibitori della farnesilazione
potrebbero essere efficacemente impiegati nella LMC Ph1 positiva resistente alla terapia
con STI e nelle leucemia acuta linfoblastica Ph1 positiva. Inoltre i pochi studi investigativi
sino ad ora condotti nei pazienti con LAM resistente a vari protocolli di chemioterapia
hanno dimostrato una risposta clinica, che consisteva in una remissione parziale nel 32%
dei casi.
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25. Leucemia linfatica (o linfoblastica) acuta
Definizione
La leucemia acuta linfoblastica è una malattia clonale dei progenitori linfoidi caratterizzata
da proliferazione incontrollata ed arresto della maturazione, con accumulo di cellule
immature (blasti) nel midollo osseo e soppressione dell’emopoiesi normale.
Epidemiologia
L’incidenza globale è di circa 2 casi ogni 100.000 persone per anno. Rappresenta la
neoplasia più comune dell’infanzia (76% delle leucemie del bambino). E’ meno frequente
nell’età adulta, costituendo il 24% dei casi complessivi di leucemie.
Patogenesi
Sono stati individuati fattori di rischio per lo sviluppo della leucemia acuta linfoblastica.
Tra i fattori ambientali riveste un ruolo importante l’esposizione a radiazioni ionizzanti,
benzene, farmaci chemioterapici e pesticidi. Inoltre si ritiene che possano avere un ruolo
patogenetico alcune infezioni virali, in particolare HTLV-1 e EBV. Infine, è noto che
nell’ambito di alcune malattie congenite (sindrome di Down, immunodeficenza congenita
o acquisita, anemia di Fanconi, sindrome di Bloom, atassia teleangectasia) esista una
maggiore incidenza di leucemie acute linfoblastiche.
Alterazioni cromosomiche sono riscontrabili nel 68-85% dei casi. Alcune ricorrono con
maggiore frequenza: si tratta in primo luogo di aberrazioni numeriche (ipodiploidia, che
occorre nel 4-8% dei casi; e iperdiploidida che è presente nel 15-30% dei soggetti) e
aberrazioni strutturali, in particolare traslocazioni cromosomiche [t(9;22) con la presenaza
del cromosoma Ph’ nell’11-29% dei casi; t(4;11) nel 3-4% dei casi; t(8;14) nel 5% dei
casi; t(1;19) nel 2-3% dei casi]. Fatta eccezione per il cariotipo iperdiploide, tutte le altre
alterazioni cariotipiche descritte (in particolare la presenza del cromosoma Philadelphia)
sono associate a malattia biologicamente aggressiva e a prognosi sfavorevole.
Classificazione
Le leucemie acute linfoblastiche possono essere classificate dal punto di vista
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I blasti leucemici possono essere anche caratterizzati sulla base dell’espressione di
marcatori di superficie mediante l’analisi immunofenotipica. Sulla base dell’espressione di
antigeni CD vengono distinti i seguenti sottottipi:
Sottotipo
CD
Frequenza
Caratteristiche cliniche
Origine B cellulare (CD19; CD22; CD79a; cIg; sIg)
Pre-pre B
11%
HLA-DR+, TdT+,
CD19+ CD10-
Bambini (5%), Adulti (11%); leucocitosi,
interessamento SNC; prognosi sfavorevole
Pre-B
common
51%
HLA-DR+, TdT+,
CD10+, CD19+
Bambini (63%), Adulti (52%); leucopenia;
prognosi favorevole
Pre-B
10%
HLA-DR+, TdT+,
CD10±, IgMcyto+
Bambini (16%), Adulti (9%); leucocitosi
B maturo
4%
HLA-DR+, CD10±,
CD19+, Ig k/ +
Bambini (3%), Adulti (4%); leucocitosi,
interessamento SNC e addominale e
renale; prognosi attualmente migliorata
Origine T cellulare (CD7; CD3; TcR)
Pre-T
7%
T maturo
17 %
TdT+, CD3cyto+, CD7+ Bambini (1%), Adulti (6%); predominanza
maschile; leucocitosi, malattia
extramidollare; prognosi sfavorevole
TdT+, CD2+, CD3+
Bambini (12%), Adulti (18%);
predominanza maschile; leucocitosi,
malattia extramidollare
Quadro clinico
La maggior parte dei pazienti ricorre al medico per manifestazioni che sono
l’espressione dell’insufficienza midollare: pallore, astenia, affaticabilità, palpitazione
(anemia), petecchie, ecchimosi, emorragie cutaneo-mucose (piastrinopenia) e infezioni
(leucocitosi con granulocitopenia).
Fra i segni clinici più frequentemente apprezzabili (50% circa dei pazienti) sono da
annoverare le linfoadenomegalie splenomegalia e l’epatomegalia, legate all’infiltrazione
leucemica. Nel 15% circa dei casi è presente un impegno mediastinico con sintmi ad
esso correlati (tosse stizzosa, dispnea, versamento pleurico).
Un quadro clinico particolare è relativo alla localizzazione testicolare negli individui di
sesso maschile e ovarica nelle pazienti di sesso femminile, che sono relativamente rare
in fase di esordio della malattia, ma che assume una particolare rilevanza nelle recidive.
Infine, nell’ambito delle leucemie linfoblastiche si osserva il coinvolgimento del sistema
nervoso centrale (meningosi leucemica con segni di ipertensione endocranica quali
vomito, cefalea, rigidità nucale; disturbi oculari quali fotofobia e diplopia; disturbi
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Senza una adeguata profilassi tuttavia, ben il 50-75% dei pazienti sviluppa una recidiva di
malattia meningea.
Diagnosi
L’inquadramento diagnostico della leucemia acuta linfoblastica prevede l’esame
emocromocitometrico che dimostra generalmente anemia, piastrinopenia e
leucocitosi/leucopenia; la valutazione microscopica dello striscio di sangue periferico, una
valutazione della coagulazione e della funzionalità cardiaca, renale, ed epatica, ed il
mieloaspirato per valutazione morfologica, analisi cromosomica e fenotipo immunologico.
Prognosi
Alcuni fattori condizionano più significativamente la prognosi della leucemia acuta
linfoblastica. Sono rappresentati essenzialmente dall’età e dalle cartteristiche biologiche
della malttia (presenza di leucocitosi, fenotipo immunmologico e alterazioni
citogenetiche). La combinazione di questi elementi fornisce il rischio correlato alla
malattia ematologica.
Fattori prognostici nella leucemia linfoblastica acuta
Fattori
Alto rischio
Rischio standard
Cariotipo
t(9;22), t(1;19)
Iperdiploidia
t(4;11), ipodiploidia
Immunofenotipo
Età:
LAL pre-T
LAL-Common
LAL pro-B
LAL-T
bambini
< 6 mesi
1- 9 anni
adulti
> 35 anni
9
< 35 anni
Leucociti
> 30 x 10 /L
< 30 x 109/L
Tempo per RC
> 4 settimane
< 4 settimane
Terapia
La leucemia linfoblastica acuta è una delle emopatie maligne per le quali è stto raggiunto
un significativo migliortamento terapeutico negli ultimi anni.
La terapia della leucemia acuta linfoblastica prevede una fase di supporto con
idratazione, alcalinizzazione delle urine, antiuricemici (allopurinolo) e uricosurici, terapia
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invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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La terapia di induzione ha lo scopo di ridurre le cellule leucemiche al di sotto del 5% delle
cellule midollari: l’ottenimento di tale risultato configura la situazione definita remissione
completa ematologica. Classicamente è condotta con una combinazione di fgarmaci che
include vincristina, prednisone e antracicline (daunoblastina, adriblastina, idarubicina); è
comune associare questa triade di farmaci all’uso di L-asparaginasi.
La profilassi meningea è indispensabile, dal momento che i farmaci della terapia di
induzione convenzionale non superano la barriera ematoencefalica (santuario
immunologico). Deve seguire immediatamente l’ottenimento della remissione completa;
se non viene eseguita vi è un rischio ricaduta meningea superiore al 40% entro i 2 anni.
Lo schema classico di profilassi meningea prevede l’utilizzazione di radioterapia craniale
e di methotrexate intratecale; il principale effetto collaterale è costituito dalla
neurotossicità da radioterapia.
Altre modalità di profilassi meningea di pari efficacaia prevedono l’uso di methotrexate
intratecale abbinato o meno ad Ara-C soministrato a tempi prestabiliti durante l’induzione,
il consolidamento ed il mantenimento. Se la profilassi meningea viene eseguita
correttamente, la probabilità di una recidiva di malattia al sistema nervoso centrale è
ridotta al 10%.
La terapia di consolidamento della remissione: ha la finalità di eliminare la malattia
minima residua (non evidenziabile morfologicamente) che persiste al momento
dell’ottenimento della remissione completa e che rappresenta la causa delle ricadute.
Viene eseguita utilizzando più farmaci non cross-resistenti (mitoxantrone ciclofosfamide
Ara-C VP-16)
Infine la terapia di mantenimento viene generalmente eseguita con 6-mercaptopurina per
os e methotrexate i.v., più reinduzioni periodiche con vincristina e prednisone. Il periodo
totale di durata della tarpia di mantenimento negli attuali protocolli di terapia è di circa due
anni.
I protocolli attualmente impiegati consentono di ottenere percentuali di remissione
completa superiori al 95% nel bambino, dell’80% circa nell’adulto. La sopravvivenza a 5
anni nei bambini superiore 60%, mentre negli adulti è di circa il 20-30%.
Il trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche è indicato con età inferiore a 55
anni che dispongano di un donatore compatibile familiare o non consanguineo. La
procedura è gravata da una transplant-related mortality del 20-40%, mentre la
sopravvivenza libera da malattia è del 40-60%.
Dall’analisi dei risultati ottenuti nelle diverse categorie di rischio con il trapianto allogenico
di cellule staminali emopoietiche e con la sola chemioterapia (vedi tabella) emerge come
il trapianto sia effettivamente vantaggioso in termini di remisioni di lunga durata nel
gruppo ad alto rischio, mentre i risultati siano comparabili all’utilizzo della sola
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Categoria di rischio
Trapianto allogenico
Chemioterapia
Globale
46%
31%
Alto rischio
44%
11%
Rischio standard
49%
43%
Leucemia-linfoma di Burkitt
La leucemia-linfoma di Burkitt è più frequente nei bambini e nei giovani adulti. Se ne
distinguono una forma endemica (africana) strettamente correlata all’infezionede EBV ed
una forma sporadica (americana) raramente associata all’infezione da EBV. Una terza
variante è associata all’infezione da HIV.
Ha un fenotipo B maturo (CD34-, TdT-, CD10-, CD19+, CD79 +), con espressione delle
immunoglobuline di superficie (restrizione monotipica per k o ) e assenza delle
immunoglobuline citoplasmatiche.
I linfoblasti hanno medie dimensioni, nucleo convoluto e citoplasma riccamente basofilo
ricco di vacuoli contenenti sostanze lipidiche. In genere sono presenti 2-3 nucleoli in
regione periferica. Numerosissime sono le figure mitotiche. Frammisti ai linfoblasti si
osservano molti macrofagi di grosse dimensioni e citoplasma chiaro che donano al
preparato istologico uil tipico aspetto a “cielo stellato”.
Dal punto di vista genetico il linfoma di Burkitt è caratterizzato da traslocazioni
cromosomiche che coinvolgono l’oncogene c-myc che mappa sul cromosoma 8 ed i geni
delle immunoglobuline (cromosomi 2, 14 e 22).
Caratteristiche citogenetiche e molecolari
Traslocazione
Frequenza
Geni coinvolti
Oncogene
Conseguenza
alterato
funzionale
t(8;14)
75%
MYC; IgH
MYC
t(8;22)
16%
MYC; IgL
MYC
t(2;8)
8%
IgK; MYC
MYC
deregolazione
espressione
deregolazione
espressione
deregolazione
espressione
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Presentazione clinica
Nelle forme endemiche coinvolge caratteristicamente le ossa facciali, mentre nelle aree
non endemiche colpisce linfonodi, midollo osseo, ovaio, mammella rene. Il
coinvolgimento midollare (leucemico) rappresenta un afttore prognostico negativo. La
tabella seguente illustra le principali sedi di localizzazione della malattia.
Localizzazione
Leucemia-linfoma
in HIV-pos
7-18%
70-90%
Raro
25-30%
Mediastino
Midollo osseo
<5%
20%
<5%
33%
Sistema nervoso centrale
Linfoadenomegalie
20%
20%
42%
raro
Mascella-mandibola
Addome
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26. Linfoma di Hodgkin
Il linfoma di Hodgkin è una malattia linfoproliferativa caratterizzata dal punto di vista
istopatologico dalla presenza di una minoranza di cellule neoplastiche (cellule di Reed
Sternberg, cellule di Hodgkin), di derivazione linfocitaria, per lo più di linea B, inserite in
un “background” di cellule infiammatorie. La derivazione linfocitaria è certa ed ha indotto
a sostituire i vecchi termini di “malattia di Hodgkin”, “morbo di Hodgkin”, con la dizione di
“linfoma di Hodgkin”
Sotto il termine di linfoma di Hodgkin (LH) sono comprese due entità nosologiche: il
linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria nodulare, ed il linfoma di Hodgkin
classico.
Epidemiologia
L’incidenza del linfoma di Hodgkin è pari a 2-3 casi ogni 100.000 abitanti per anno ed il
rapporto maschi/femmine è pari a 1,5:1. Costituisce meno dell’1% di nuovi casi di tumore
negli USA. La curva dell’età di incidenza è bimodale, con un picco tra 15 e 30 anni ed
uno dopo i 60 anni. Il linfoma di Hodgkin rappresenta circa il 30% di tutti i linfomi.
Classificazione istologica del linfoma di Hodgkin (classificazione WHO, 1997)
La classificazione delle malattie linfoproliferative redatta dalla World Health Organization
(WHO) nel 1997 ha distinto due entità nell’ambito del linfoma di Hodgkin (Tabella 1), il
linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria nodulare ed il linfoma di Hodgkin classico,
che possiedono peculiari caratteristiche cliniche, morfologiche ed immunofenotipiche. Il
linfoma di Hodgkin classico comprende quattro sottotipi: sclerosi nodulare, cellularità
mista, ricco in linfociti, a deplezione linfocitaria. Questi sottotipi differiscono per clinica,
sedi di interessamento, morfologia, frequenza di infezione da EBV ma hanno in comune
un identico fenotipo della cellula neoplastica.
Tabella 1 – Classificazione istologica del linfoma di Hodgkin
________________________________________________
1. LH a predominanza linfocitaria nodulare;
2. LH classico:
a. sclerosi nodulare,
b. cellularità mista,
c. ricco in linfociti,
d. a deplezione linfocitaria.
___________________________________________________________
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Aspetti istopatologici del linfoma di Hodgkin
Linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria nodulare
La struttura dei linfonodi è nodulare. Sono tipiche le cellule “Reed Sternberg variants”
(nuclei vescicolosi, plurilobati, piccoli nucleoli) con aspetto “pop-corn”, che sono positive
per i marcatori B (CD20, CD79a) e producono immunoglobuline (Ig), mentre sono
negative per i marcatori tipici delle cellule Reed Sternberg classiche (CD30, CD15). Tali
cellule appaiono disperse entro un contesto di piccoli linfociti, istiociti e cellule epitelioidi.
Le cellule “pop-corn” dimostrano un riarrangiamento monoclonale dei geni delle
immunoglobuline. Le regioni variabili delle catene pesanti denotano mutazioni somatiche
“ongoing”, tipiche delle cellule B del centro germinativo. Si considera in genere come
precursore della neoplasia il centroblasto del centro germinativo. Vi è una costante
negatività per il virus di Epstein-Barr, a differenza del linfoma di Hodgkin classico.
Linfoma di Hodgkin classico
In tutti i sottotipi istologici sono presenti le cellule Reed-Sternberg, che presentano un
nucleo bilobato o due nuclei, un macronucleolo eosinofilo, cromatina dispersa ed un
ampio citoplasma lievemente basofilo. Le cellule di Hodgkin possiedono le stesse
caratteristiche ma sono mononucleate. Tali cellule esprimono tipicamente i marcatori
CD30 e CD15. Altro elemento caratteristico è la cellula “mummificata” (ampie dimensioni,
nucleo picnotico, citoplasma consensato). Il tipo di background cellulare varia con il
sottotipo istologico. La cellule Reed-Sternberg sono in grado di secernere citochine con
un pattern anomalo ed hanno i recettori delle stesse: ciò determina la presenza di una
ricca quota infiammatoria, di eosinofili e di fibroblasti.
Nella maggior parte dei casi le cellule Reed-Sternberg presentano riarragiamento per i
geni delle immunoglobuline, con mutazioni somatiche delle regioni variabili delle catene
pesanti, caratteristica delle cellule B dei centri germinativi. Si ipotizza quindi una
derivazione da tali cellule. Non vengono prodotte immunoglobuline, come nel linfoma di
Hodgkin a predominanza linfocitaria nodulare; ciò è dovuto ad un’inattivazione della
trascrizione, causata dal deficit di un fattore di trascrizione (ottamero dipendente, indicato
come Oct2). Normalmente le cellule B che hanno perso la capacità di produrre
immunoglobuline vanno incontro ad apoptosi. Questo non succede per cellule ReedSternberg, poichè la via apoptotica è bloccata.
E’ documentata una maggiore incidenza nei pazienti con pregressa mononucleosi
infettiva. Vi sono differenti percentuali di positività per EBV a seconda del sottotipo
istologico. Nei paesi in via di sviluppo e nei pazienti HIV, l’infezione da EBV raggiunge il
100%. Le cellule infettate esprimono le proteine virali LMP1 e EBNA-1, mentre sono
negative per EBNA-2: questo profilo è tipico di una infezione latente da EBV.
Linfoma di Hodgkin a sclerosi nodulare
I noduli sono circondati da bande di collagene birifrangente. Le cellule hanno nucleoli
piccoli e presentano retrazione del citoplasma rispetto al background circostante per cui
appaiono disposte entro una lacuna (“cellule lacunari”). È effettuabile un grading (1° e 2°)
in relazione al numero di cellule Reed-Sternberg.
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Linfoma di Hodgkin a cellularità mista
Le cellule Reed-Sternberg sono tipiche ed inserite in un “milieu” a composizione variabile:
eosinofili, neutrofili, plasmacellule, istiociti, cellule epitelioidi talora formanti granulomi. È il
sottotipo che esprime più frequentemente le proteine dell’EBV (LMP1 nel 75% dei casi).
Linfoma di Hodgkin ricco in linfociti
Il pattern è nodulare (più frequentemente) o diffuso. I noduli presentano residui di centri
germinativi eccentrici con cellule Reed-Sternberg disposte nelle zone mantellari espanse.
Per una diagnosi differenziale corretta rispetto al linfoma di Hodgkin a predominanza
linfocitaria nodulare è essenziale la positività per CD30 e CD15 delle cellule ReedSternberg.
Linfoma di Hodgkin a deplezione linfocitaria
Predominano le cellule Reed-Sternberg con aspetto sarcomatoso. Vi sono problemi di
diagnosi differenziale con i linfomi non-Hodgkin a grandi cellule anaplastiche CD30+. In
alcuni casi predomina la fibrosi con scarse cellule Reed-Sternberg. I soggetti HIV-positivi
presentano costantemente infezione da EBV.
Caratteristiche cliniche e circostanze della diagnosi
Il 60-80% dei casi di linfoma di Hodgkin si presenta con adenopatie cervicali. Nel 90% dei
casi la malattia è sopradiaframmatica con interessamento dei linfonodi cervicali,
sopraclaveari, mediastinici, degli ili polmonari ed ascellari. Nel 10% circa dei casi vi è una
presentazione mediastinica isolata. Raro è l’interessamento delle sedi extranodali, del
midollo osseo, del tratto gastroenterico e del sistema nervoso centrale
Le adenopatie in genere non sono dolenti, sono di consistenza duro-parenchimatosa,
non aderenti alle strutture vicine e spesso ben isolabili. Nei casi diagnosticati in fase
avanzata possono presentarsi come voluminosi "pacchetti" linfonodali a superficie
irregolare (adenopatie conglomerate)
Il 25-30% dei pazienti presenta all'esordio sintomi che sono definiti “sistemici”, che
comprendono febbre persistente o ricorrente con temperatura superiore a 38°C nel
mese precedente senza altre cause apparenti, un calo ponderale superiore al 10% del
peso corporeo negli ultimi sei mesi, sudorazioni notturne profuse nel mese precedente.
Tali sintomi sono anche definiti come sintomi “B”. La presenza di uno o più di questi
sintomi è rilevante dal punto di vista prognostico, e viene specificata, nella stadiazione
della malattia (vedi oltre), dalla presenza della lettera “B”, accanto all’indicazione dello
stadio clinico. Per contro, nel caso in cui questi sintomi non siano presenti, lo stadio
clinico sarà affiancato dalla lettera “A” (vedi oltre).
Un altro sintomo talvolta riferito dai pazienti con linfoma di Hodgkin è il prurito, che
tuttavia non è formalmente incluso tra i sintomi B.
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Diagnosi
La diagnosi di linfoma di Hodgkin deve essere necessariamente istologica mediante
biopsia di un intero linfonodo o di una sede extranodale interessata. In caso di più
stazioni interessate, è preferibile evitare i linfonodi inguinali, che sono più frequentemente
sede di processi infiammatori pregressi.
Esami ematologici ed ematochimici
In caso di malattia localizzata gli esami di laboratorio possono essere tutti nella norma o
alterati solo in modo modesto.
Negli stadi più avanzati (specie se vi sono sintomi B) possono comparire alterazioni di
laboratorio caratteristiche di uno stato infiammatorio: anemia da malattia cronica,
modesta leucocitosi neutrofila, eosinofilia, linfopenia, VES elevata, frazione 2 delle
sieroproteine aumentata, fibrinogeno elevato, fosfatasi alcalina aumentata, possibile
alterazione degli enzimi epatici, cupremia (livello sierico del rame) elevata, anergia alla
intradermoreazione alla tubercolinica (deficit dell’immunità cellulo-mediata).
Indagini radiologiche e scintigrafiche
Una fase essenziale del procedimento diagnostico è rappresentata dalle indagini di
imaging (radiografia, ecografia, TAC, etc...), che permettono di evidenziare l’eventuale
interessamento di stazioni linfonodali profonde e organi, non rilevabile all’esame obiettivo.
La radiografia standard del torace in 2 proiezioni (anteroposteriore e laterale) evidenzia
l’eventuale adenopatia mediastinica. Questa viene definita adenopatia "bulky" se di
diametro superiore ad un terzo del diametro toracico misurato all'altezza di T5-T6 o
superiore a 10 cm.
L’ecografia addominale è utile per l'esplorazione di fegato, milza, ilo epatico e splenico,
delle regioni peripancreatiche e delle altre stazioni linfonodali.
La TAC di torace e addome evidenzia adenopatie patologiche ilo-mediastiniche non
evidenziabili con la radiografia standard, localizzazioni parenchimali polmonari, spleniche
ed epatiche di tipo focale, adenopatie addominali dell'ilo splenico ed epatico,
lomboaortiche, iliache, mesenteriche.
La risonanza magnetica nucleare possiede un maggior potere di risoluzione rispetto alla
TAC, specie per la valutazione dei grossi vasi e del collo
La scintigrafia con Gallio67 è utile soprattutto per la valutazione di adenopatie residue
mediastiniche dopo terapia (nella cosiddetta fase di restaging), mentre, non aggiunge
informazioni utili rispetto alle indagini convenzionali (TAC) al momento della diagnosi. La
maggiore sensibilità di questa indagine è basata sul fatto che solo le masse costituite da
tessuto linfomatoso attivo captano il gallio, mentre il tessuto cicatriziale risulta non
captante.
LA PET (Positron Emission Tomography) con fluoro-deossiglucosio, è più accurata della
scintigrafia con gallio ed è in grado di evidenziare tessuto linfatico metabolicamente
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cicatriziale ed un’adenopatia,
radio/chemioterapia.
sede
di
malattia
attiva
persistente
dopo
la
Tra le tecniche di stadiazione ora non più usate, vale la pena di ricordare la linfografia
addominale per via bipedale che opacizza i linfonodi inguino-crurali, pelvici, iliaci comuni,
iliaci esterni, lombo-aortici, rivelando dimensioni e difetti di riempimento di tipo patologico.
Tale tecnica aveva il limite di non evidenziare i linfonodi dell'ilo epatico e splenico,
dell'asse celiaco e mesenterici. Era una tecnica di seconda linea, ora in disuso, superata
da nuove indagini strumentali di imaging. In passato era utilizzata anche la laparotomia
esplorativa con splenectomia (per l'esame istologico) e prelievi bioptici epatici e di
eventuali adenopatie addominali. Attualmente è abbandonata in favore di indagini meno
invasive (TAC, RM, Ecografia) e per il rischio derivante dalla splenectomia (sepsi da
batteri capsulati nei più giovani; rischio correlato alla piastrinosi post-splenectomia)
Diagnosi differenziale
La diagnosi differenziale del linfoma di Hodgkin deve considerare essenzialmente le
possibili cause di linfoadenomegalie, che comprendono infezioni, malattie
linfoproliferative (linfomi non Hodgkin), metastasi linfonodali di neoplasie non
ematologiche, sarcoidosi. La diagnosi differenziale deve essere basata sul quadro clinico,
sulle caratteristiche semeiologiche della linfoadenomegalia ed in ultima analisi,
sull’esame istologico.
Per quanto riguarda le caratteristiche cliniche, il linfoma di Hodgkin differisce dai linfomi
non-Hodgkin B per alcuni fattori. Il linfoma di Hodgkin ha maggiore incidenza nel
giovane/adulto, con origine preferenziale dai linfonodi latero-cervicali e progressione
prevedibile da una stazione linfonodale alla stazione contigua. I linfomi di Hodgkin hanno
scarsissima tendenza alla leucemizzazione ed eccellente risposta alla terapia nella
maggior parte dei casi.
Stadiazione
La stadiazione è la valutazione clinico-patologica dell'estensione della malattia alla
diagnosi. Si esegue mediante esame obiettivo, indagini strumentali e di laboratorio. Gli
esami radiologici per lo studio delle stazioni linfonodali mediastiniche e addominali sono
la radiografia standard del torace, l’ecografia addominale, e la TAC di collo, torace e
addome. La stadiazione viene completata con la biopsia osteomidollare per evidenziare
l’eventuale interessamento osseo, che è rara negli stadi iniziali, mentre diventa più
probabile se la malattia è avanzata e vi sono sintomi sistemici. Sono opzionali per la
stadiazione la laparoscopia e la biopsia epatica.
La stadiazione dei linfomi si basa sul sistema di stadiazione di Ann Arbor, basata sulla
localizzazione sovra- o sotto-diaframmatica e sul numero delle stazioni linfonodali
interessate, e sull’eventuale interessamento di organi o tessuti extranodali (Tabella 2).
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Tabella 2 - Sistema di stadiazione di Ann Arbor
I STADIO
Interessamento di una singola stazione linfonodale o di una singola struttura
linfonodale (quale milza, timo ed anello di Waldeyer)
II STADIO Interessamento di due o più stazioni linfonodali dallo stesso lato del
diaframma (il mediastino è considerato una singola sede, mentre i due ili
polmonari sono considerati sede separate: se entrambi gli ili sono
interessati, questo costituisce di per sé uno stadio II)
III STADIO Interessamento di stazioni linfonodali o di strutture linfonodali situate su
entrambi i lati del diaframma
III1
Interessamento sottodiaframmatico limitato a milza ed a linfonodi dell’ilo
splenico, del tronco celiaco e portali
III2
Interessamento sottodiaframmatico esteso a linfonodi paraaortici, iliaci o
mesenterici, oltre all’interessamento delle strutture di III1
IV STADIO Interessamento di sedi extranodali diverse da quelle designate come E,
oppure interessamento di almeno due sedi extranodali, oppure
interessamento del fegato o del midollo osseo
Nota: abbreviazioni per designare le sedi istologicamente interessate dalla malattia. N: linfonodo; E:
interessamento isolato di tessuto extralinfatico, con esclusione di fegato e midollo osseo; H: fegato; L:
polmone; M: midollo osseo; S: milza; P: pleura; O: osso; D: cute.
Come già accennato, lo stadio definito secondo la classificazione di Ann Arbor viene
affiancato dalla lettera “A” se non sono presenti i sintomi sistemici definiti in
precedenza, o dalla lettera “B” nel caso in cui siano presenti uno o più sintomi sistemici
(sintomi B, per l’appunto). Per esempio, un paziente che abbia un linfoma di Hodgkin in
stadio II e presenti calo ponderale (superiore al 10% del peso corporeo negli ultimi sei
mesi), avrà una malattia classificata in stadio II B, mentre un paziente che non presenti
alcun sintomo sistemico sarà in stadio II A.
Fattori prognostici
La prognosi dei pazienti con linfoma di Hodgkin è condizionata negativamente da alcuni
fattori, che possiamo schematicamente suddividere in fattori correlati alla massa
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Tabella 3 - Hasenclever Score
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
Albumina sierica < 4 g/dL
Emoglobina < 10,5 g/dL
Sesso maschile
Stadio IV
Età 45 anni
Leucociti 15000/ L
Linfociti < 600/ L o < 8% nella formula leucocitaria
I pazienti che non hanno nessuno dei fattori di rischio considerati, hanno una probabilità
che la malattia non progredisca dopo la terapia pari all’80% circa, mentre i pazienti con 5 o
più fattori hanno una probabilità del 40% circa.
Terapia
La terapia del linfoma di Hodgkin viene scelta sostanzialmente in base allo stadio clinico
ed alla presenza di sinotmi sistemici e fattori prognostici negativi.
Malattia localizzata (stadi I e II) senza fattori di rischio quali mediastino bulky, grosse
adenopatie, sintomi B
La terapia di scelta è la combinazione di chemioterapia e radioterapia sulle stazioni
linfonodali interessate (involved fields). Gli stadi iniziali laterocervicali alti potrebbero
essere trattati con la sola radioterapia. I campi di irradiazione per la radioterapia sono
principalmente il cosiddetto campo “a mantellina” che prevede l’irradiazione sulle regioni
linfonodali sopradiaframmatiche (laterocervicali-sopraclaveari, mediastiniche, ascellari
bilaterali) con schermatura di tiroide, polmone cuore, ed il cosiddetto campo “a Y
rovesciata”, che prevede radioterapia sui linfonodi paraortici, sulla milza, sui linfonodi iliaci
ed inguinali.
La tendenza attuale per tutti gli stadi iniziali è una chemioterapia limitata, seguita da una
nuova stadiazione della malattia (restaging) e da una radioterapia di consolidamento
sulle sedi iniziali di malattia. Lo schema di chemioterapia oggi utilizzato è il cosiddetto
ABVD (Doxorubicina, Bleomicina, Vinblastina, Dacarbazina), che è stato preferito allo
schema precedentemente utilizzato, il cosidetto MOPP (Mostarda azotata, Vincristina,
Procarbazina, Prednisone) in quanto più efficace, non gonadotossico e non mutageno
(non leucemie secondarie), mentre la MOPP è gonadotossica e mutagena, a causa della
presenza di farmaci alchilanti.
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esempio mediastino). Le remissioni sono tra il 75 ed il 90 %; la sopravvivenza libera da
recidiva è pari al 60-80 % a 5 anni.
Terapia di seconda linea per le recidive dopo chemioterapia
Nel caso in cui la malattia si ripresenti dopo un intervallo di tempo superiore a un anno
dal primo trattamento, generalmente può essere ripetuto il ciclo di chemioterapia
utilizzato in precedenza. Se tuttavia la recidiva di malattia avviene entro 12 mesi dal
primo trattamento, è generalmente indicato utilizzare schemi differenti, dal momento
che si può ragionevolmente ipotizzare che le cellule neoplastiche siano scarsamente
sensibili o resistenti agli agenti impiegati nella terapia iniziale.
In questi pazienti dopo la chemioterapia è inoltre indicato procedere alla mobilizzazione
ed alla raccolta di cellule staminali emopoietiche (che saranno criopreservate in azoto
liquido), al fine di procedere, dopo il conseguimento della remissione clinica, ad un
trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche (per gli aspetti clinico-biologici vedi
capitolo 41 “Trapianto di cellule staminali”). Il trapianto autologo ha la funzione di
“consolidare” lo stato di remissione ottenuto con la chemioterapia, consentendo di
ottenere percentuali di remissione clinica a lungo termine significativamente più elevate
della sola chemioterapia.
Sequele della chemioterapia e della radioterapia
Sia la radiocherapia che la chemioterapia sono gravate da vari effetti collaterali. La
radioterapia può essere complicata a breve termine da faringite, esofagite, disturbi del
gusto, nausea. Gli effetti collaterali a lungo termine comprendono fibrosi polmonare,
pericardite, cardiopatia, ipotiroidismo, neoplasia mammaria nell’irradiazione a mantellina,
e amenorrea nell’irradiazione sottodiaframmatica.
La soministrazione di chemioterapia è generalmente associata a nausea, vomito,
citopenia, oltre che da effetti tossici specifici dei singoli antiblastici. A lungo termine le
complicanze possono essere costituite da tossicità gonadica, nei protocolli con alchilanti
e procarbazina come il MOPP (ABVD è invece poco gonadotossico). Vanno inoltre
considerate tossicità polmonare (bleomicina), tossicità cardiaca (adriblastina), specie se
associata a radioterapia a dosi elevate (la dose cumulativa massima di adriblastina non
cardiotossica è pari a 450 mg/m2, compatibile con massimo 40 Gy RT mediastinica).
I pazienti trattati con radio/chemioterapia, in particolare con terapie combinate associanti
alchilanti e radioterapia estesa, hanno un aumentato rischio di sviluppare seconde neoplasie,
in particolare mielodisplasie, leucemie, linfomi non Hodgkin, tumori solidi (per tale motivo è
bene non somministrare la MOPP come terapia di prima linea).
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invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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27. Linfomi non Hodgkin
Introduzione
I linfomi non Hodgkin (LNH) costituiscono un gruppo eterogeneo di neoplasie linfoidi
caratterizzate dalla proliferazione clonale e dell’accumulo di elementi linfoidi neoplastici.
I vari tipi istologici presentano notevoli differenze nella presentazione clinica, nella storia
naturale e nella risposta alla terapia. I LNH possono originano da elementi linfoidi B o T
(LNH a cellule B, LNH a cellule T)
Come si presenta un paziente con linfoma non Hodgkin?
Il modo più comune con cui può presentarsi un paziente con linfoma è l’ingrandimento
progressivo e persistente di uno o più linfonodi superficiali (linfoadenomegalie superficiali)
(cervicali, ascellari, inguinali). I linfonodi dei linfomi di solito non sono dolenti alla
palpazione. Oltre che in una sede linfonodale superficiale il linfoma può esordire in sede
mediastinica o addominale, senza che i linfonodi superficiali siano ingranditi. In tal caso i
sintomi possono essere vaghi e la diagnosi può essere più tardiva. Oppure può insorgere
in sedi extra-linfonodali (tonsille, stomaco, intestino, cute, polmone, tiroide, testicolo)
sicché i sintomi saranno legati alla sede anatomica interessata. Naturalmente, non tutte
le linfoadenomegalie sono sospette per un linfoma. Fortunatamente, nella maggior parte
dei casi i linfonodi sono ingranditi per altri motivi.
L’adenopatia può essere accompagnata dai cosiddetti sintomi sistemici (febbricola o
anche punte di febbre alta, sudorazioni notturne profuse, calo di peso inspiegabile). In
alcuni casi di linfoma di Hodgkin vi può essere un prurito molto fastidioso e intrattabile
che deve far sospettare la malattia.
Nel caso più comune di una adenopatia superficiale, il medico curante o lo specialista
ematologo che visiterà il paziente, oltre a registrare i sintomi riferiti, ispezionerà tutte le
stazioni linfonodali superficiali e ricercherà un eventuale ingrandimento della milza
(splenomegalia) e del fegato (epatomegalia). Verranno quindi eseguiti esami del sangue
di routine ed una radiografia del torace.
Il passo successivo sarà la biopsia chirurgica del linfonodo (o di qualunque tessuto
sospetto), cioè l’asportazione del linfonodo da parte di un chirurgo per l’esame istologico
da parte del patologo. Questo è il primo e più importante accertamento diagnostico e
richiede particolare cura. Se il linfonodo (o la massa sospetta) è profondo si può anche
eseguire una agobiopsia. Questa darà origine a un piccolo frammento di tessuto, che può
orientare la diagnosi, ma spesso non consente una diagnosi precisa cosicchè sarà poi
necessario procedere alla biopsia chirurgica. Nel caso di linfonodi superficiali l’agobiopsia
è superflua e conviene sempre procedere all’asportazione dell’intero linfonodo. Il
linfonodo verrà inviato al patologo per l’esame istologico che verrà completato con lo
studio immunoistochimico e studi molecolari. Si otterrà quindi una diagnosi esatta sulla
natura della adenopatia e nel caso di linfoma verrà definito l’esatto tipo istologico, che è il
determinante principale della prognosi e che è indispensabile per fissare il tipo di terapia.
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Epidemiologia
L’incidenza dei linfomi non-Hodgkin è pari a 5-10 nuovi casi ogni 100.000 abitanti per
anno. Sono malattie in incremento negli ultimi 10 anni. Il 90% è di linea B, il 10% della
linea T.
Vi è una prevalenza di soggetti di sesso maschile. I LNH a basso grado presentano picco
di incidenza attorno ai 60 anni. Nei bambini prevalgono le forme ad alto grado, per il 50%
di linea T. Alcune forme sono endemiche: ad esempio il linfoma di Burkitt in Africa e
l’adult T-cell leukemia/linfoma (ATCLL) in Giappone e Carabi.
Patogenesi
Vari fattori sono stati associati alla patogenesi dei linfomi non-Hodgkin (Tabella 1). Questi
comprendono fattori ambientali, agenti patogeni (virus, batteri), condizioni di
immunodeficienza congenita ed acquisita.
Tabella 1 – Fattori associati alla patogenesi dei linfomi non-Hodgkin
Agenti virali
Virus di Epstein-Barr (EBV) (linfoma di Burkitt)
Human T-Lymphotropic Virus-1 (HTLV-1) (ATCLL)
Virus dell’epatite C (HCV)
Agenti batterici
Helicobacter pylori
Campylobacter jejuni
Chlamydia psittaci
Immunodeficienze congenite
Atassia-teleangectasia
Malattia di Wiskott-Aldrich
Agammaglobulinemia tipo Bruton
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Classificazioni
Il tipo istologico è il fattore prognostico principale dei linfomi non-Hodgkin. Quindi l'esatta
diagnosi istologica è un pre-requisito essenziale per decidere il programma terapeutico
più adatto per il paziente.
Le classificazioni istopatologiche più usate, sono la Kiel classification, la Working
Formulation (WF), la Revised European-American Lymphoma classification (REAL) e la
WHO classification.
Classificazione di Kiel
La definizione del tipo istologico contiene un riferimento all'immunofenotipo ed allo stadio
di differenziazione della linea linfoide a cui l'elemento neoplastico può essere attribuito
(ad esempio linfoma linfoplasmacitoide, linfoma immunoblastico, ecc.). Distingue i linfomi
non-Hodgkin a basso grado ed i linfomi ad alto grado di malignità.
Working Formulation
Si tratta di una classificazione operativa per uso clinico elaborata dal National Cancer
Institute ed è basata su criteri puramente morfologici (dimensioni cellulari piccole o
grandi, tipo di crescita difuso o follicolare). Distingue tre categorie principali di linfomi nonHodgkin (a basso, intermedio, ed alto grado di malignità), con diversa storia naturale,
prognosi, ed aspettativa di vita. La sopravvivenza mediana è di 7 anni per i linfomi nonHodgkin a basso grado (45% a 10 anni), 3 anni per quelli a grado intermedio (26% a 10
anni) ed 1 anno per quelli ad grado (23% a 10 anni).
Classificazione REAL
La classificazione REAL distingue i linfomi non-Hodgkin sulla base della linea cellulare (B
e T), e delle cellule di origine (precursori e cellule periferiche) (Tabella 2).
Tabella 2 – Principi della classificazione REAL dei linfomi non-Hodgkin
Linfomi di linea B
neoplasie dei precursori B
neoplasie delle cellule B periferiche
Linfomi di linea T
neoplasie dei precursori T
neoplasie delle cellule T periferiche
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Classificazione WHO
Nel 1997 la WHO ha proposto una nuova classificazione lievemente modificata rispetto
alla classificazione REAL (Tabella 3).
Tabella 3 – Classificazione WHO dei linfomi non-Hodgkin
NEOPLASIE DEI LINFOCITI B
Neoplasie dei precursori dei linfociti B
Leucemia/linfoma linfoblastico di derivazione dai precursori B
Neoplasie a cellule B mature
Leucemia linfatica cronica B/linfomi a piccoli linfociti B
Leucemia prolinfocitica B
Linfoma linfoplasmocitico
Linfoma splenico della zona marginale (con o senza linfociti villosi)
Linfoma extranodale della zona marginale del MALT (mucose associated lymphoid
tissue)
Linfoma nodale della zona marginale
Leucemia a tricoleucociti
Mieloma plasmacellulare/plasmocitoma
Linfoma mantellare
Linfoma follicolare
Linfoma a grandi cellule di tipo diffuso
Linfoma di Burkitt / leucemia di Burkitt
NEOPLASIE A CELLULE T/NK
Neoplasie dei precursori dei linfociti T
Leucemia/linfoma linfoblastico di derivazione dai precursori T
Neoplasie a cellule T/NK mature (periferiche)
Leucemia prolifocitica T
Leucemia ad LGL (large granular lymphocyte)
Leucemia a cellule NK
Leucemia/linfoma a cellule T dell’adulto (HTLV-1)
Linfoma extranodale a cellule T/NK di tipo nasale
Linfoma T enteroepatico
Linfoma T epatosplenico
Linfoma T sottocutaneo simil-panniculitico
Micosi fungoide / Sindrome di Sézary
Linfoma a grandi cellule anaplastiche, T/null primitivo sistemico
Linfoma a grandi cellule anaplastiche T/null primitivo della cute
Linfoma a cellule T periferiche, non altrimenti specificato
Linfoma T angioimmunoblastico
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A scopo clinico e terapeutico, i linfomi non Hodgkin vengono usualmente distinti in linfomi
indolenti, aggressivi ed altamente aggressivi.
Linfomi non-Hodgkin indolenti
Includono tutti i linfomi non-Hodgkin a basso grado ed i linfomi cutanei T. I linfomi
indolenti hanno un indice proliferativo basso, ed una storia naturale di parecchi anni.
Linfomi non-Hodgkin aggressivi
Comprendono il linfoma diffuso B a grandi cellule, il linfoma a grandi cellule anaplastiche,
i linfomi a cellule T periferiche. Hanno un indice proliferativo cellulare elevato; se non
trattati, i linfomi non-Hodgkin aggressivi hanno una storia naturale di alcuni mesi.
Linfomi non-Hodgkin altamente aggressivi
Includono il linfoma di Burkitt, il linfoma linfoblastico (B e T) e la leucemia/linfoma a
cellule T dell’adulto. Hanno un indice proliferativo cellulare molto elevato. Se non trattati,
hanno una storia naturale di settimane.
Meccanismi patogenetici molecolari dei linfomi
Nei disordini linfoproliferativi è spesso presente un’alterazione dei geni che controllano i
processi del ciclo e della crescita cellulare. In pratica si verifica un blocco del processo
apoptotico, cioè del processo di morte cellulare programmata, che avviene per tutti i cloni
linfoidi sviluppatisi nel nostro organismo non utili alle esigenze del nostro sistema
immunitario. La crescita incontrollata delle cellule linfoidi si verifica per abrogazione dei
meccanismi che normalmente regolano l’espressione di proto-oncogeni o per mancata
espressione di geni oncosoppressori. I meccanismi responsabili di un’alterata funzione
genica nei linfomi sono:
traslocazioni cromosomiche;
amplificazioni geniche;
mutazioni somatiche;
delezioni geniche.
Traslocazioni cromosomiche
Si tratta di riarrangiamenti cromosomici non casuali, che giustappongono i geni delle
immunoglobuline o del recettore della cellula T con numerosi altri geni. Questi ultimi
presentano un’alterata espressione perché perdono le proprie sequenze regolatorie e
vengono posti sotto il controllo di sequenze che regolano l’espressione dei geni
codificanti per le catene pesanti delle immunoglobuline o per il recettore della cellula T.
Tali traslocazioni, considerate patognomoniche dei disordini linfoproliferativi, sono
probabilmente causate da errori verificatisi durante il processo di ricombinazione
somatica dei geni delle immunoglobuline e del recettore della cellula T. Ciò sarebbe
confermato dal fatto che, nelle traslocazioni che coinvolgono i geni delle
immunoglobuline, a livello del punto di rottura situato a livello della regione ottenuta dalla
fusione della subunità D e la subunità J dei geni delle catene pesanti delle
immunoglobuline vengono aggiunti nucleotidi “random” indicati come “N” forse per azione
della stessa ligasi coinvolta nella ricombinazione V(D)J.
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dal fatto che l’espansione clonale si verificherebbe solo dopo che la cellula ha raggiunto
un certo grado di differenzazione. In contrasto con tale supposizione è l’osservazione che
nella maggioranza delle traslocazioni il punto di rottura cade nella regione di switch delle
catene pesanti. Tale dato fa ritenere che la traslocazione si svilupperebbe a livello del
centro germinativo.
Indipendentemente dallo stadio di differenzazione del B o T linfocita i riarrangiamenti
indicati tendono ad essere specificamente correlati con una particolare varietà istologica
di linfoma. E’ questo il caso delle traslocazioni che colpiscono i geni bcl-1, bcl-2 e bcl-6
coinvolti rispettivamente nei linfomi mantellari, follicolari e diffusi.
Oltre a tali traslocazioni bisogna però ricordare anche quelle che non coinvolgono i geni
codificanti le catene pesanti delle immunoglobuline o il recettore della cellula T. Tra
queste la più frequente è sicuramente la t(2;5)(p23;q35) associata a linfoma anaplastico.
Bcl-1. E’ riarrangiato nella traslocazione t(11;14)(q13;q32) che si osserva nel 70% dei
pazienti con linfoma mantellare. Sul piano molecolare si verifica la giustapposizione tra il
gene Bcl-1 e locus IgH. Nel 50% dei casi il punto di rottura all’interno di Bcl-1 cade in una
regione di 80-100kb definita come “Major breakpoint cluster region”, M-bcr. Nel 10-20%
dei casi cade nel locus della ciclica D1 (120kb 5’ rispetto a Bcl1). La traslocazione fa sì
che l’espressione del gene Bcl-1 venga aumentata perché quest’ultimo è posto sotto il
controllo della sequenza che promuove la trascrizione dei geni per le catene pesanti delle
immunoglobuline (“enhancer”). Il gene Bcl-1 appartiene alla famiglie delle cicline D1 e la
sua deregolazione impedisce la progressione del ciclo cellulare dalla fase G1 alla fase S,
contribuendo in tal modo allo sviluppo del linfoma.
Bcl-2. E’ riarrangiato nella traslocazione t(14;18)(q32;q21), presente nel 90% dei casi di
linfoma follicolare. Il punto di rottura sul cromosoma 14 cade all’interno della regione JH.
Il punto di rottura all’interno di Bcl-2, gene formato da tre esoni, può cadere in due distinte
regioni:
• nel 40-60% dei casi si trova localizzato nella porzione 3’ non trascritta di Bcl2 (M-bcr)
• nel 10-20% dei casi 20kb si trova a valle rispetto al precedente (m-bcr)
La traslocazione pone il gene Bcl-2 sotto l’azione di un “enhancer” delle catene pesanti
delle immunoglobuline. In tal modo la proteina Bcl-2 vede aumentare la sua espressione
e determina un blocco apoptotico in grado di garantire un vantaggio alle cellule affette.
Queste ultime sono in grado di differenziare in cellule B esprimenti IgM e IgD di
membrana. L’aumentata espressione di Bcl-2 è comunque da sola insufficiente a
determinare la trasformazione neoplastica.
Bcl-6. E’ un gene mappato a livello della banda q27 del cromosoma 3. Si ritiene che il
gene Bcl-6 sia un fattore trascrizionale necessario per la regolazione e differenzazione
della cellula B. Si tratta di un gene “promiscuo” trovandosi riarrangiato con numerosi
partners cromosomici. La traslocazione di Bcl-6 si osserva in circa il 40% dei casi di
linfoma diffuso a grandi cellule e nel 5-10% dei casi di linfoma follicolare. E’ stato
dimostrato che linfomi a grandi cellule apparentemente Bcl-6 negativi mostrano in realtà
una mutazione del gene in questione.
t(2;5)(p23;q35). Si tratta di un riarrangiamento cromosomico che non coinvolge i geni
delle immunoglobuline, presente nel 40-60% dei pazienti giovani con Linfoma Anaplastico
a fenotipo T o Null. La traslocazione determina la giustapposizione tra il gene ALK,
mappato sul cromosoma 2 alla banda p23 e il gene NPM (nuclefosmina), mappato sul
cromosoma 5 alla banda q35. Il punto di rottura all’interno di ALK cade all’interno di un
introne lungo 1935bp e all’interno di NPM nel quarto introne del gene. Come risultato
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della traslocazione il gene ALK (che codifica per una proteina dotata di attività
fosfochinasica, normalmente non è espressa nel tessuto linfoide sano) viene
sovraespresso.
Amplificazione genica
Si tratta di un processo che determina un’aumento dell’espressione dei geni che regolano
la proliferazione cellulare e che eventualmente provocano una chemioresistenza. Le
prove citogenetiche di un tale fenomeno consistono nel fatto che l’esame cromosomico
convenzionale dimostra talvolta la presenza di “double minutes” (doppi minuti) e di
“homogeneously staining regions (HSR)” (regioni colorate in modo omgeneo). FISH e
metodiche molecolari dimostrano che tali frammenti o regioni cromosomiche sono
espedienti che la cellula mette in atto per amplificare i geni Myc, Rel, Bcl-2
Mutazione somatica
La mutazione si sviluppa a livello dell’estremità 5’ della regione regolatoria dei geni Myc o
Bcl-2 o Bcl-6. Quest’ultimo è quello più frequentemente colpito da mutazione somatica a
livello di uno o di entrambi i suoi alleli e pertanto non necessita di essere coinvolto in una
traslocazione cromosomica con i geni delle catene pesanti delle immunoglobuline.
Siccome poi una mutazione di Bcl-6 può verificarsi durante la maturazione del B linfocito
a livello del centro germinativo, la mutazione stessa del gene indica l’origine del linfoma
dal centro germinativo.
Delezioni geniche
La perdita di eterozigosità è stata la metodica molecolare che ha dimostrato come alcune
regioni cromosomiche siano frequentemente delete nei linfomi non Hodgkin. Si tratta di
porzioni del genoma il cui conternuto genico è tuttora sconosciuto. La delezione delle
braccia lunghe dei cromosomi 6 e 7 si verificano in molti linfomi a basso grado di
malignità.
Caratteristiche cliniche generali
Linfomi non Hodgkin a basso grado o indolenti
La malattia è frequentemente diffusa fin dall'esordio: l’adenopatia è spesso
pluristazionale, è comune il riscontro di epato-splenomegalia, di interessamento
osteomidollare e leucemizzazione nel sangue periferico (presenza di cellule linfomatose
in circolo).
Linfomi aggressivi od ad alto grado
La malattia è più spesso localizzata, mono- o pauci-stazionale. La localizzazione
mediastinica, rara nei linfomi indolenti, è più frequente (ad esempio il linfoma linfoblastico
T ed il linfoma primitivo del mediastino a cellule B con sclerosi).
Il 20 % circa dei LNH ad alto grado sono primitivamente extranodali. Tutti gli organi
possono essere interessati; più tipicamente sono coinvolti lo stomaco, l’intestino, l’anello
di Waldeyer e la cute.
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Diagnosi e stadiazione
La diagnosi di linfoma non-Hodgkin viene formulata in ultima analisi sulla base dell’esame
istologico, eseguito sulla biopsia di un linfonodo e/o di altri tessuti interessati. In alcuni
casi si può ricorrere all’agobiopsia, che consente di eseguire un esame citologico, che
può orientare la diagnosi ma spesso non consente una diagnosi di precisione come
l’esame bioptico.
Il corretto inquadramento del paziente con linfoma non-Hodgkin deve includere oltre alla
biopsia linfonodale, anche una serie di accertamenti che consentano di definire
l’estensione della malattia (stadiazione) e di definire precisamente la prognosi.
La definizione di tutte le localizzazioni iniziali di malattia consente di poter ripetere gli
stessi esami al termine del trattamento (ristadiazione) e di definire con precisione la
risposta alla terapia (remissione completa, remissione parziale, non risposta,
progressione).
Per la stadiazione dei linfomi non-Hodgkin si adotta la classificazione in stadi di Ann
Arbor, originalmente ideata per il linfoma di Hodgkin.
La valutazione dell’estensione della malattia non può prescindere dall’esame fisico delle
stazioni linfonodali superficiali, della milza e del fegato. Gli esami utili alla valutazione
delle stazioni linfonodali profonde comprendono radiografia standard del torace, TAC del
torace, TAC (o ecografia) di addome e pelvi, scintigrafia con Gallio67, RNM (in casi
selezionati).
Si deve valutare un eventuale interessamento del midollo osseo mediante un
mieloaspirato, con studio immunofenotipo delle popolazioni linfocitarie e ricerca di
alterazioni cromosomiche o eventuali alterazioni geniche mediante tecniche di biologia
molecolare, e la biopsia osteomidollare.
Nel caso della leucemia linfatica cronica o di linfomi che interessino anche il sangue
periferico (leucemizzazione), lo studio immunofenotipico può essere anche eseguito su
sangue periferico.
Lo studio di eventuali localizzazioni extralinfonodali può richiedere gastroscopia con
biopsie multiple (linfoma gastrico), una valutazione otorinolaringoiatrica con esame
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NEOPLASIE DEI LINFOCITI B
Neoplasie a cellule B mature
Linfomi non Hodgkin B indolenti
Sono linfomi tipici dell'adulto con un’età mediana all’esordio di 50-60 anni. Vi è una
prevalenza del sesso maschile. I linfomi non Hodgkin indolenti a cellule B costituiscono
circa il 50% dei linfomi non Hodgkin (Tabella 4).
Tabella 4 - Linfomi non Hodgkin B indolenti
Linfoma linfocitico/Leucemia linfatica cronica-B
Linfoma linfoplasmocitoide
Linfoma mantellare
Linfoma follicolare
Linfoma della zona marginale:
extranodale (linfoma a basso grado tipo MALT)
nodale
splenico
Caratteristiche generali
Sono linfomi per lo più in stadio avanzato già alla diagnosi. Vi è interessamento
osteomidollare nel 50-60% circa dei casi (70% nel linfoma linfocitico); una
leucemizzazione è rilevabile all'esame morfologico nel 15-20% dei casi ed in percentuale
superiore se si studiano i linfociti del sangue periferico con metodi immunologici e
molecolari.
Sono linfomi a bassa aggressività e relativamente lunga sopravvivenza: l’aspettativa di
vita mediana è di 7-8 anni per i linfomi follicolari, ma solo 3,5 anni per i linfomi mantellari.
Nonostante la bassa malignità, la probabilità di guarigione è bassa. La curva di
sopravvivenza ha infatti una pendenza costante senza plateau, che indica un rischio di
ricaduta costante, a differenza dei linfomi ad alto grado che, pur essendo clinicamente più
aggressivi, hanno un indice proliferativo elevato che li rende più sensibili alla
chemioterapia e nei quali è possibile osservare la guarigione.
Fattori prognostici
Diverse variabili clinico-patologiche sono state dimostrate avere significato prognostico
negativo: l’età, lo stadio patologico avanzato, la presenza di sintomi B, la VES elevata,
l’aumento dell’LDH, una malattia bulky, l’aumento della 2-microglobulina,
l’interessamento osteomidollare e la leucemizzazione, una scarsa risposta alla terapia
iniziale.
L'International Prognostic Index (IPI) basato su età, stadio, LDH, numero di sedi
extranodali, ideato ed utilizzato per i linfomi non Hodgkin ad alto grado, può essere un
valido sistema predittivo di risposta e sopravvivenza anche nei linfomi non-Hodgkin
indolenti.
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Terapia
Trai i linfomi indolenti, si presenta negli stadi iniziali meno del 20% dei casi. La terapia
consiste in una chemioterapia limitata seguita da radioterapia sulle stazioni linfonodali
interessate a dosi superiori a 30 Gy. La guarigione è raggiunta nel 50% dei casi.
Negli stadi III e IV, la terapia è basata sulla chemioterapia, che può consistere in una
monochemioterapia con agenti alchilanti (clorambucile, ciclofosfamide) o con analoghi
purinici (fludarabina, cladribina), o in una polichemioterapia includente antracicline (uno
dei cicli chemioterapici più utilizzati è il ciclo CHOP, contenente Ciclofosfamide,
Adriblastina, Vincristina e Prednisone). I migliori risultati sono ottenuti con il ciclo CHOP,
che consente di ottenere remissioni complete o parziali nell’80% dei casi, con
sopravvivenza libera da malattia a 5 anni del 60%. Risposte analoghe sono ottenute con
gli analoghi purinici (Tabella 5).
Recentemente è stata introdotta nella pratica clinica l’immunochemioterapia con
anticorpi monoclonali anti-CD20 (antigene della linea B-linfocitaria), come agente
singolo o combinato alla chemioterapia.
Nei linfomi follicolari, in soggetti anziani asintomatici o con una patologia associata che
limita l’impiego della chemioterapia, può essere indicata la strategia "watch and wait", che
consiste nel seguire clinicamente il paziente senza sottoporlo a trattamento fino al
momento della progressione della malattia. I pazienti trattati solo alla progressione hanno
percentuali di risposta significativamente inferiori rispetto pazienti ai trattati alla diagnosi.
Tuttavia, la sopravvivenza globale nei due gruppi (pazienti trattati alla diagnosi e trattati
alla progressione) non è significativamente differente. Questo perchè anche i pazienti che
hanno una risposta completa alla chemioterapia vanno invariabilmente incontro alla
recidiva della malattia. Le remissioni complete sono generalmente solo cliniche
(scomparsa delle linfoadenomegalie), ma non “biologiche”: questo è ben documentato
dalle tecniche di biologia molecolare (PCR) per la ricerca della t(14;18) o del
riarrangiamento della catena pesante delle immunoglobuline, che mostrano la
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Linfoma a piccoli linfociti B
Costituisce circa il 2-3% dei linfomi non Hodgkin. È composto da piccoli linfociti con
nucleo rotondo regolare e struttura cromatinica compatta. Il citoplasma può mostrare
aspetti di differenziazione plasmocitaria.
L’analisi immunofenotipica mostra l’espressione delle immunoglobuline di superficie a
debole intensità, antigeni B (CD19, CD20, CD79a), CD5+, CD23+, CD43+, CD10-. La
positività per il CD23 lo distingue dal linfoma mantellare.
Ha una sopravvivenza mediana di 5-6 anni.
Linfoma linfoplasmacitoide
Costituisce circa il 2% dei linfomi non Hodgkin. È caratterizzato da una proliferazione
diffusa di piccoli linfociti, linfociti plasmacitoidi (elementi con nuclei da linfocito ma
abbondante citoplasma basofilo) e plasmacellule. Esprimono immunoglobuline di
superficie e citoplasmatiche di solito IgM, antigeni B-associati (CD19, CD20, CD22,
CD79a), mentre sono CD5 e CD10 negativi. La negatività per CD5 lo distingue dal
linfoma a piccoli linfociti/Leucemia linfatica cronica B. È un’entità istologica riconducibile
alla macroglobulinemia di Waldenström.
Ha una sopravvivenza mediana di 4-5 anni.
Linfoma mantellare
Costituisce il 5% dei linfomi non-Hodgkin. Le cellule neoplastiche derivano da una piccola
popolazione di cellule B CD5+ del mantello follicolare. Dal punto di vista
immunofenotipico mostrano forte espressione di Ig di superficie IgM e IgD, antigeni Bassociati (CD19, CD20), CD5+, CD10-, CD23-. La negatività per il CD23 distingue il
linfoma mantellare dal linfoma a piccoli linfociti e dalla leucemia linfatica cronica.
I
l linfoma è caratterizzato dalla traslocazione t(11;14) e dal punto di vista molecolare dal
riarrangiamento dell’oncogene bcl-1 (B-cell lymphoma 1): il locus bcl-1 sul cromosoma 11
si giustappone al locus delle catene pesante delle immunoglobuline sul cromosoma 14.
Ne consegue deregolazione del proto-oncogene (CCND1, PRAD1) che codifica per la
ciclina D1, proteina del ciclo cellulare. La sovraespressione della ciclina D1 determina
un’alterazione della transizione G1-S del ciclo cellulare con accumulo di cellule e sviluppo
del linfoma.
L’età mediana di presentazione è di 50-60 anni, con prevalenza del sesso maschile. La
presentazione e la storia clinica sono quelle tipiche dei linfomi indolenti ma la
sopravvivenza è inferiore. La presentazione avviene in stadio avanzato (III-IV stadio)
nella maggioranza dei casi con adenopatia generalizzata, splenomegalia e,
frequentemente, interessamento midollare. Tipica è la localizzazione gastrointestinale
multipla ("multiple lymphomatous polyposis" ). Vi è leucemizzazione nel 25-45% dei casi.
La sopravvivenza mediana è di circa 3 anni.
2006, Fondazione Ferrata Storti. Il contenuto di questa dispensa è fornito a titolo gratuito dalla Fondazione Ferrata Storti. Si
invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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Linfoma follicolare
Il linfoma follicolare costituisce il 20-25% dei LNH ed è il più frequente linfoma a cellule B
nei paesi occidentali.
È composto da cellule morfologicamente e immunofenotipicamente simili ai linfociti dei
normali centri germinativi, ossia piccoli centrociti, grandi centrociti, centroblasti, e
immunoblasti.
Nella Kiel classification è distinto in base alla percentuale di grandi cellule: follicular small
cleaved cell (meno del 20% di centroblasti, follicular mixed cells (centroblasti 20-50%),
follicular large cells (più del 50% di centroblasti).
La REAL classification distingue tre gradi citologici: grado I (predominantly small cell),
grado II (mixed small and large cell), grado III (predominantly large cells). Il pattern di
crescita può essere follicolare, oppure follicolare e diffuso.
Lo studio immunofenotipico mostra una forte espressione delle immunoglobuline di
superficie, positività per gli antigeni B-associati (CD19, CD20), CD5-, CD10+, CD23+/-,
CD43-. La negatività del CD5 lo distingue dal linfoma mantellare.
Dal punto di vista citogenetico e molecolare, il linfoma follicolare è caratterizzato dalla
traslocazione t(14;18), che sposta l’oncogene bcl-2 dal cromosoma 18 al cromosoma 14
accanto alla joining region del gene per le catene pesante delle immunoglobuline. La
conseguenza della traslocazione è il riarrangiamento molecolare bcl-2-JH: bcl-2 passa
sotto controllo trascrizionale di un potente regione enhancer del gene per le catene
pesanti. L’alterata regolazione trascrizionale del gene bcl-2 determina la produzione di alti
livelli della proteina bcl-2
La proteina bcl-2 è una proteina deputata ad L’iper-espressione di bcl-2 costituisce il
meccanismo fondamentale nella genesi dei linfomi follicolari, ed è responsabile della
intrinseca resistenza alla terapia e della inguaribilità del linfoma.
L’apoptosi è un processo essenziale per l’omeostasi tessutale (equilibrio tra produzione e
morte cellulare). Tale processo sotto controllo genico (geni regolatori): bcl-2 antiapopoptotico, p53 induttore di apoptosi.
Dal punto di vista biologico, l’iper-espressione della proteina bcl-2 comporta inibizione
dell’apoptosi (cioè della morte cellulare programmata), con conseguente accumulo di
cellule B clonali. Inoltre protegge la cellula neoplastica dall’effetto apoptotico dei citostatici
e della radioterapia e favorisce la riparazione dei danni del DNA, determinando la
sostanziale incurabilità dei linfomi follicolari
Dal punto di vista clinico si presenta in età medio-avanzata (età mediana 52 anni); solo il
7% dei pazienti ha un’età inferiore a 30 anni. In genere le condizioni generali del paziente
sono buone, sono rari i sintomi sistemici e la malattia bulky. Vi è di solito un’adenopatia
generalizzata e splenomegalia in oltre il 30%. L’interessamento osteomidollare è molto
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Il decorso clinico è indolente, senza rischio di morte nel breve termine. Tuttavia le curve
di sopravvivenza non presentano una fase di plateau: le recidive della malattia sono
continue, anche dopo molti anni. Il linfoma follicolare è all’inizio generalmente
chemiosensibile; poi diviene chemioresistente. La storia clinica non è significativamente
alterata dalla chemioterapia: infatti il linfoma è considerato non guaribile nella
maggioranza dei casi. La sopravvivenza mediana è di 8 anni.
La strategia terapeutica convenzionale per lo stadio avanzato, prevede sorveglianza
clinica (“watch and wait”) o mono-chemioterapia con alchilanti (clorambucile,
ciclofosfamide) specialmente per i pazienti anziani, oppure poli-chemioterapia con
antracicline (ciclo CHOP e derivati).
La risposta alla chemioterapia convenzionale con antracicline è completa nel 60-80%:
tale terapia determina un prolungamento della sopravvivenza libera da malattia superiore
rispetto alla mono-chemioterapia; tuttavia l’impatto sulla sopravvivenza è incerto ed ha
una scarsa influenza sulla tendenza continua alla recidiva. La malattia appare inguaribile
con la chemioterapia convenzionale.
Sono state recentemente introdotte nella pratica clinica nuove strategie terapeutiche,
che comprendono farmaci attivi sull’apoptosi (analoghi delle purine come fludarabina e
cladribina), chemioterapia ad alte dosi ed autotrapianto di cellule staminali autologhe
periferiche, anticorpi monoclonali anti-CD20 chimerici (murini-umani) (Rituximab,
disponibile per il trattamento dei linfomi follicolari ricaduti o resistenti, anticorpo
monoclonale anti-CD20 radioimmunoconiugato con Y90, anticorpo monoclonale antiCD20 radioimmunoconiugato I131.
L’antigene CD20 è un bersaglio razionale per l’immunoterapia dei linfomi non-Hodgkin
con anticorpi monoclonali: è espresso virtualmente da tutti i linfomi non-Hodgkin B, è
vitale per la proliferazione e sopravvivenza cellulare, non si internalizza o si modula al
contatto con l’anticorpo, è espresso solo dalle cellule B (non presente sulle cellule
staminali emopoietiche, sulle early pre-B e sulle plasmacellule).
Sono attualmente in studio terapie sperimentali, come la vaccinazione anti-idiotipo,
l’impiego di immunotossine, il trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche.
Lo sviluppo prevedibile è la combinazione di chemioterapia, immunoterapia con anticorpi
monoclonali, chemioterapia ad alte dosi con supporto di cellule staminali autologhe
(autotrapianto)
Di particolare utilità clinica e sperimentale sono le indagini molecolari per la valutazione
della malattia residua. La valutazione morfologica ed immunofenotipica è inadeguata
per valutare la malattia residua dopo la terapia. La ricerca del riarrangiamento di bcl-2
mediante PCR è una tecnica ad elevata sensibilità (è in grado di individuare una cellula
con il riarrangiamento su 100.000 cellule normali), e consente di identificare le cellule
bcl-2-positive nel sangue periferico e nel midollo, anche in pazienti con malattia minima
e stadio Iocalizzato. È utile per valutare il potere eradicante delle terapie (e quindi la
qualità della remissione): è stato infatti osservato che il raggiungimento della remissione
molecolare persistente si associa ad una più lunga sopravvivenza libera da malattia.
Pertanto la negatività molecolare è un end-point precoce su cui misurare l’efficacia delle
nuove terapie. Sia la chemioterapia intensiva con autotrapianto di cellule staminali che
l’immunoterapia con anticorpi monoclonali anti-CD20 possono dare la RC molecolare.
Il linfoma follicolare ha un rischio di trasformazione istologica in linfoma aggressivo (il
cosiddetto shift istologico) del 10 % a 5 anni, e del 40 % a 10 anni. Il tipo trasformazione
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può essere da follicolare a diffuso mist,o od a linfoma diffuso a grandi cellule. La clinica
della trasformazione istologica è caratterizzata dal rapido deterioramento delle condizioni
generali, dalla rapida crescita della neoplasia e dalla ridotta sensibilità alla chemioterapia.
Linfoma della zona marginale
Il linfoma della zona marginale extranodale è denominato linfoma a basso grado a cellule
B del MALT (Mucosa Associated Lymphoid Tissue) o Maltoma e può interessare
stomaco, ghiandole lacrimali, salivari, bronchi. I linfomi del MALT costituiscono circa il 7%
dei linfomi non-Hodgkin.
Molti pazienti hanno una storia di malattia autoimmune come la sindrome di Sjögren o di
una gastrite cronica da Helicobacter pylori. Lo stimolo antigenico cronico della infezione
da Helicobacter Pylori è considerata la causa principale del maltoma gastrico a basso
grado. L’eradicazione dell’ Helicobacter Pylori può far regredire il linfoma.
L’infezione da Helicobacter Pylori induce nello stomaco la formazione di tessuto linfoide
MALT. La stimolazione antigenica cronica del MALT sarebbe responsabile
dell’espansione clonale alla base del linfoma MALT a basso grado: infatti l’Helicobacter
pylori è presente nel 90 % dei preparati istologici di maltoma gastrico. Lo stimolo
proliferativo per le cellule neoplastiche B è verosimilmente fornito dalle cellule T infiltranti
il tumore La possibile regressione della neoplasia dopo eradicazione dell’ Helicobacter
pylori con terapia antibiotica è dovuta all’annullamento dello stimolo antigenico
I sintomi clinici di esordio sono simili a quelli di un carcinoma gastrico: dolori epigastrici,
dispepsia, emorragia. Hanno la tendenza a rimanere a lungo localizzati specie se a
basso grado. Per quanto riguarda la stadiazione, si considerano in stadio IE in caso di
interessamento solamente gastrico, in stadio IIE in caso di interessamento gastrico
associato a coinvolgimento dei linfonodi perigastrici
Gli accertamenti diagnostici devono comprendere una esofagostroduodenoscopica con
biopsie multiple e ricerca dell’Helicobacter pylori, immunoistochimica (dimostrazione della
restrizione monoclonale delle catene leggere delle immunoglobuline citoplasmatiche), e
biologia molecolare (PCR) per il riarrangiamento monoclonale per le catene pesanti delle
immunoglobuline.
La diagnosi differenziale è soprattutto essenziale tra i linfomi non-Hodgkin MALT a basso
grado e le iperplasie reattive. Nel 95% dei casi i linfomi gastrici primitivi sono a fenotipo
B; spesso multifocali. Si possono trovare linfomi non-Hodgkin a basso grado MALTassociati (30-40% dei casi), e linfomi non-Hodgkin ad alto grado (MALT-associati,
evoluzione di forme a basso grado con evidente componente residua a basso grado nel
20-30 % dei casi, non MALT-associati nel 30-40% dei casi)
Nei linfomi gastrici a basso grado, nelle forme superficiali localizzate alla mucosa
Helicobacter pylori-positive è impiegata l’eradicazione antibiotica; se non vi è risposta
viene impiegato il clorambucile. Se la malattia è più estesa si sceglie la resezione gastrica
seguita da chemioterapia. In caso di linfomi gastrici ad alto grado, la terapia di scelta è la
chemioterapia con o senza resezione gastrica.
Il linfoma della zona marginale extranodale ha una sopravvivenza mediana di circa 6
anni.
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Linfomi non Hodgkin B aggressivi ed altamente aggressivi
Questi linfomi includono il linfoma diffuso B a grandi cellule, il linfoma a grandi cellule
anaplastiche Ki-1 (CD30)-positivo (a cellule T e Null), il linfoma primitivo del mediastino
(timico) a cellule B ed i linfomi a cellule T periferiche. I linfomi altamente aggressivi sono il
linfoma di Burkitt ed il linfoma linfoblastico.
Sono più frequenti nel maschio; l’età mediana è nella sesta decade. Si presentano
localizzati nel 30-50% mentre sono extranodali primitivi nel 25-30%. A differenza dei
linfomi non Hodgkin B l’interessamento osteomidollare è infrequente (10-15% dei casi). I
sintomi sistemici sono presenti nel 15-20%. Il linfoma primitivo del mediastino a B-cellule
è un raro linfoma che deriva dalla trasformazione neoplastica di un piccolo subset di
cellule B timiche. È caratterizzato da massa mediastinica bulky, sindrome della vena
cava superiore, frequente infiltrazione degli organi contigui: prevale nel sesso femminile
di giovane età.
Per lo stadio clinico I e IE, in genere viene impiegata una terapia combinata (breve
chemioterapia, per es. 4 cicli CHOP, seguita da radioterapia sulla sede iniziale di
malattia).
Le risposte complete sono in alta percentuale e la sopravvivenza a 10 anni è del 50%
circa. Il fattore prognostico principale è costituito dall’età. Negli stadi clinici II, III, IV in
genere viene imipegata una chemioterapia di combinazione. Possono impiegata diversi
schemi: schema CHOP (protocollo di I generazione), ProMACE-CytaBOM (protocollo di II
generazione), MACOP-B, VACOP-B (protocolli di III generazione). I protocolli di II e III
generazione sono caratterizzati da un alto numero di farmaci (6 o più), da
somministrazioni alternate in rapida sequenza (settimanale) di più farmaci non crossresistenti, e dall'alternanza di agenti mielosoppressivi e non mielosoppressivi. Sono
caratterizzato dal concetto di "dose intensity" (quantità di farmaco somministrata per unità
di tempo). Le risposte complete sono del 70 - 80% e la sopravvivenza libera da malattia a
5 anni è del 50-60%.
Sono protocolli complessi, intensivi (durata 3 mesi), con tossicità ematologica ed
extraematologica; la mortalità per terapia è del 3-5 %.
L'impiego dei fattori di crescita (G-CSF e GM-CSF) consente di ridurre la durata della
neutropenia post-.chemioterapia e quindi di rispettare i tempi di somministrazione e le
dosi dei farmaci.
La combinazione dello schema CHOP con l’anticorpo monoclonale anti-CD20 Rituximab
si è dimostrata superiore alla sola CHOP, sia in termini di risposte sia in termini di
sopravvivenza libera da malattia.
Linfoma di Burkitt
È un linfoma ad elevata aggressività clinica, caratterizzato dalla traslocazione t(8;14) o
dalle varianti t(8;22) o t(2;8), traslocazioni che comportano la fusione dell'oncogene myc
sul cromosoma 8 con i geni per le catene pesanti (cromosoma 14) o leggere (cromosoma
2: catene kappa; cromosoma 22: catene lambda) delle immunoglobuline. La t(8;14)
conferisce un potere di crescita cellulare aggressivo.
È caratterizzato da piccole cellule non clivate e da cellule di medie dimensioni con
citoplasma basofilo e vacuoli citoplasmatici e nucleari. L’istologia ha un aspetto a cielo
stellato per la presenza di macrofagi. Vi è un’elevata percentuale di cellule in fase S. Il
fenotipo è B maturo (espressione delle immunoglobuline di superficie,
CD19+,CD20+,CD22+, CD79a+).
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È
più frequente nell'infanzia. Si presenta con masse "bulky" addominali e
mediastiniche. È possibile l’interessamento midollare e del sistema nervoso centrale.
Se ne distingue una forma cosidetta endemica, africana, ed una forma cosiddetta
sporadica, nei paesi occidentali.
È documentata l’associazione con il virus di Epstein-Barr (EBV) nei linfomi di Burkitt
endemici (africani), o nelle forme Burkitt-like (sporadiche o associate a AIDS). L'infezione
da EBV porta la comparsa dell'antigene EBNA (Epstein-Barr Nuclear Antigen), proteina
virale con proprietà oncogeniche.
Il sistema di stadiazione più utilizzato è quello secondo Murphy (Tabella 6).
Tabella 6 - Stadiazione secondo Murphy
Stadio I: una sola sede di malattia, nodale o extranodale, con l'esclusione di
mediastino e addome
Stadio II: due o più sedi dallo stesso lato del diaframma, oppure localizzazione
primaria resecabile al tratto gastroenterico
Stadio III: localizzazioni da ambedue i lati del diaframma, o localizzazione
intratoracica, o intraaddominale estesa non resecabile
Stadio IV: qualunque delle precedenti, associata a interessamento del SNC o del
midollo osseo
È in genere una malattia massiva con alta sensibilità ai farmaci: ciò determina il rischio di
"tumor lysis syndrome" (ipercalcemia per liberazione di potassio intracellulare fino
all'arresto cardiaco e nefropatia uratica).
Le precauzioni da adottare sono l’iperidratazione, l’alcalinizzazione, l’allopurinolo
(farmaco uricosurico). È importante il monitoraggio degli elettroliti e lo staging abbreviato
(le dimensioni della neoplasia possono raddoppiare nel giro di pochi giorni)
La prognosi è migliorata con l'impiego di poli-chemioterapia includente il metotrexate ad
alte dosi per via sistemica o il metotrexate per via intratecale.
Nel bambino le risposte complete sono dell’80-90% e la sopravvivenza libera da
malattia a 5 anni del 60-70%. Nell'adulto l’approccio terapeutico è complicato dal fatto
che il 25-30% dei linfomi di Burkitt insorgono in soggetti HIV-positivi.
NEOPLASIE A CELLULE T/NK
Neoplasie dei precursori dei linfociti T
Linfoma linfoblastico
Possiede caratteristiche cliniche, citologiche ed immunologiche simili alla leucemia acuta
linfoblastica T, da cui viene differenziata convenzionalmente per l'assenza di
interessamento del sangue periferico ed interessamento midollare inferiore al 25%. Vi è
prevalenza nel sesso maschile con età compresa fra 20 e 40 anni. In oltre il 50% vi è una
morfologia nucleare di tipo " convoluto"
Nel 90% dei casi ha fenotipo T di tipo (in circa 2/3 dei casi con origine dalla corticale
timico; in 1/3 dei casi dalla midollare timico), mentre le leucemie acute linfoblastiche T
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sono per lo più a fenotipo pre-timico. Il 10% possiede un fenotipo B (tipo leucemia acuta
linfoblastica common o pre-B)
Dal punto di vista clinico è caratterizzato in genere da una massa mediastinica (timica)
(65% dei casi). Si può presentare con una sindrome della vena cava superiore con
versamento pleurico e pericardico. Sono possibili masse addominali e l’interessamento
del SNC.
I pazienti vengono trattati con protocolli tipo LAL (comprendenti la profilassi meningea) e
non con i protocolli dei linfomi.
La prognosi è differente a seconda se basso o alto rischio. L’alto rischio è dato dallo
stadio IV con interessamento midollare o del SNC, dall’LDH elevato e dalla malattia
bulky. Le risposte complete sono dell’80% con sopravvivenza libera da malattia a 5 anni
del 50% (solo 20% nell'alto rischio).
Neoplasie a cellule T/NK mature (periferiche)
Malattia linfoproliferativa cronica ad LGL (large granular lymphocytes)
Il decorso è indolente con epatosplenomegalia, linfocitosi periferica con fenotipo
suppressor (CD8+). Gli elementi linfoidi hanno un grande citoplasma e granuli azzurrofili.
Il disordine è caratterizzato da anemia, neutropenia, infezioni ricorrenti ed alterazioni
autoimmuni.
Micosi fungoide e sindrome di Sézary
Sono linfomi cutanei dell'adulto ad andamento cronico strettamente correlati tra loro.
Entrambe le forme risultano dalla proliferazione clonale di elementi post-timici con
fenotipo T CD4+, CD8-.
La micosi fungoide è caratterizzata da un’infiltrazione cutanea da parte di cellule con
nucleo cerebriforme. Vi sono varie fasi con evoluzione della durata di anni dalle iniziali
alterazioni cutanee di tipo eritematoso-eczematoso, alla fase di placca, a quella tumorale.
Nella fase terminale è possibile interessamento viscerale.
La sindrome di Sézary è caratterizzata da un quadro di eritrodermia esfoliativa e
leucemizzazione (cellule di Sézary).
Linfoma a grandi cellule anaplastiche (ALCL)
È un linfoma T aggressivo; esso esprime il marker di attivazione CD30/Ki-1. Se ne
distingue una forma sistemica, linfonodale, con alta frequenza di localizzazioni
extranodali specie cutanee, ed una forma primitivamente cutanea. Il comportamento
clinico e la risposta alle cure è simile a quello degli altri linfomi aggressivi. .
Nell’eterogeneo gruppo dei linfomi a grandi cellule anaplastiche (ALCL) CD30+ è emersa
una entità clinico-patologica distinta il cosiddetto linfoma ALK+ caratterizzato dalla
espressione della proteina ALK (anaplastic lymphoma kinase), a fenotipo T/null. Si
associa alla traslocazione t(2;5). Può essere diagnosticato con un anticorpo monoclonale
diretto contro la porzione citoplasmatica della proteina ALK. Il 60% degli ALCL sono
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ALK+ e si presentano più spesso nel bambino e nel giovane adulto come un linfoma nonHodgkin aggressivo, frequentemente associato con localizzazioni extranodali specie
cutanee. La risposta alla chemioterapia intensiva è buona.
Leucemia/Linfoma a cellule T dell'adulto
È una neoplasia linfoide T correlata al virus HTLV-1: la zona di endemia è in Giappone e
nei Caraibi. Colpisce i maschi; l’esordio è acuto con iperleucocitosi, ipercalcemia, lesioni
osteolitiche, infiltrazione cutanea (noduli o eritrodermia), adenopatia periferica (a volte
isolata senza leucemizzazione). La morfologia cellulare è variabile (nucleo polilobato, a
trifoglio o quadrifoglio, indentato). È incostante il coinvolgimento midollare. Il fenotipo è di
tipo T maturo (post-timico).
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28. Leucemia linfatica cronica (LLC) ed altre malattie linfoproliferative croniche
Leucemia linfatica cronica (LLC)
È una malattia linfoproliferativa cronica di natura clonale. Interessa nel 95 % dei casi la
linea linfoide B (LLC-B) e nel 5 % la linea linfoide T (LLC-T).
Leucemia Linfatica Cronica B
Epidemiologia
L’incidenza della leucemia linfatica cronica è diversa nelle varie razze: è la più
frequente leucemia dell'adulto nel mondo occidentale (Europa e USA), costituendo da
sola circa il 30% del totale dei casi, mentre rappresenta solo il 3% delle leucemie
dell’adulto in Giappone (e in generale nelle razze orientali) e in Africa.
Questa patologia ha un picco di frequenza tra i 60 e i 70 anni, mentre è estremamente
rara prima dei 4o anni di età. Infine vi è una prevalenza nei soggetti di sesso maschile
(rapporto maschi/femmine 2:1).
Patogenesi
Le cellule patologiche sono costituite da linfociti di piccola taglia, di aspetto simile ai
linfociti normalmente presenti nella corona del follicolo linfatico, positivi per i marcatori di
linea B (CD19, CD20), per gli antigeni di membrana CD5 e CD23 e che esprimono
immunoglobuline di superficie a bassa densità (più frequentemente di tipo IgM) con
restrizione clonale per le catene leggere k o .
Recenti dati immunologici hanno contribuito a chiarire la natura della popolazione linfoide
responsabile della leucemia linfatica cronica.
Particolare importanza rivestono gli studi con tecnica di biologia molecolare
dell’ipermutazione somatica dei geni VH (regioni variabili dellecatene pesanti) delle
immunoglobuline, che è un evento che avviene tipicamente nel percorso maturativo del
linfocito B durante il passaggio attraverso il centro germinativo del follicolo linfatico. Essi
hanno dimostrato l’esistenza di due possibili forme di leucemia lionfatica cronica (figura
1): una prima forma deriverbbe da cellule “naive” pre-centro germinativo, che non
presentano quindi ipermutazione somatica dei geni VH delle immunoglobuline; l’altra
originerebbe da cellule B-memoria post-centro germinativo, in cui l’ipermutazione
somatica dei geni VH è presente.
Circa il 50-70% dei pazienti con leucemia linfatica cronica presentano iopermutazione
somatica nei geni delle regioni variabili delle catene pesanti delle immunoglobuline:
sono caratterizzati da una malattia che frequentemente esordisce negli stadi iniziali con
scarsa tendenza all’evoltuività e buona prognosi generale. Al contrario i soggetti con
geni IgVH non mutati spesso presentano uno stadio avanzato della amlattia, richiedono
un trattamento specifco e hanno una sopravvivenza ridotta.
Per queste ragioni la conoscenza dello stato mutazionale IgVH riveste un ruolo
importante nella determinazione delle caratteristiche biologiche della malattia: tuttavia,
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considerazioni hanno suggerito la ricerca di marcatori surrogato delo stato mutazionale
IgVH. L’espressione della molecola CD38, una proteina di membrana marcatore dello
stato di attivazione cellulare e con funzioni di trasduzione del segnale correla in alcuni
studi clinici in maniera abbastanza efficiente alla presenza di mutazioni IgVH. Più
recentemente l’analisi dell’espressione genica (DNA microarrays) ha mostrato che le
cellule di leucemia linfatica cronica presentano un profilo caratteristico in cui
l’espressione di un piccolo gruppo di proteine correla con lo stato mutazionale IgVH. Tra
esse desta particolare interesse la proteina ZAP-70, membro della famiglia delle Syk–
ZAP tirosin chinasi, che è normalmente espressa nelle cellule T e natural killer e svolge
un ruolo nell’iniziazione del segnale T cellulare: i pazienti che hanno almeno il 20%
delle cellule patologiche positive per ZAP-70 presentano una progressione di malattia
più rapida e una sopravvivenza ridotta rispetto ai pazineti con positività minore del 20%.
Anomalie cromosomiche clonali sono dimostrabili in circa il 40-50% dei pazienti con
leucemia linfatica cronica. Tale percentuale risulta significativamente aumentata qualora
si utilizzino le moderne tecniche di citogenetica molecolare (ibridazione in situ
fluorescente o FISH)
Una trisomia del comosoma 12 è rilevabile nel 20-25% dei casi. Si ignora a quale difetto
genetico possa associarsi, ma questa anomalia del cariotipo si associa a cattiva
prognosi. Delezioni del braccio lungo del cromosoma 13 risultano evidenzialbili nel 1015% dei pazienti e si associano per contro a prognosi favorevole. Altre anomalie di
rielevo, ciascuna descritta nel 5-10% dei casi riguardano le delezioni del braccio lungo
del cromosoma 6 e 11 (gene ATM dell’atassia telangectasia) e la delezione del braccio
corto del cromosoma 17 (proteina p53).
Quadro clinico all’esordio
In circa un terzo dei casi la diagnosi è posta in soggetti asintomatici in seguito ad esami di
routine che evidenzano una linfocitosi nel sangue periferico. In caso contrario la diagnosi
viene fatta a seguito di comparsa di linfonodi ingranditi, splenomegalia, anemia e/o
piastrinopenia. Più raramente la malattia si presenta con infezioni o sintomi sistemici
(febbre, calo ponderale, sudorazioni notturne).
I reperti fisici variano a seconda dello stadio della LLC: le organomegalie, assenti negli
stadi iniziali, sono presenti negli stadi intermedi ed avanzati; le linfoadenomegalie
pluristazionali, interessanti tutte le stazioni linfonodali superficiali, la splenomegalia di
vario grado e l'epatomegalia sono presenti negli stadi più avanzati.
I sintomi di insufficienza midollare per progressiva infiltrazione del midollo da parte di
linfociti clonali sono presenti negli stadi avanzati: pallore anemico, porpora da
piastrinopenia. Sono possibili anche sintomi correlati allo stato di immunodepressione
presente in questi pazienti (infezioni).
Diagnosi
La diagnosi di leucemia linfatica cronica si basa in prima istanza sul rilievo nel sangue
periferico di leucocitosi con linfocitosi assoluta (>10 x 109/L). Allo striscio di sangue
periferico l’80-95 % degli elementi nucleati sono costituiti da piccoli linfociti di aspetto
maturo con cromatina nucleare densa e sottile alone citoplasmatico. È tipica la presenza
di ombre nucleari (ombre di Gumprecht) derivanti dalla rottura dei linfociti della LLC per il
trauma dello striscio.
I valori di emoglobina e piastrine sono nella norma negli stadi iniziali mentre vi è anemia
normocromica-normocitica e piastrinopenia nelle fasi avanzate per insufficienza
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midollare; è possibile tuttavia che anemia e piastrinopenia si instaurino per la presenza di
autoanticorpi diretti contro antigeni eritrocitari e/o piastrinici.
È frequente (50-70% dei casi) una ipogammaglobulinemia di entità progressiva nel corso
della malattia. Nel 5-15% dei soggetti è presente una componente monoclonale
usualmente modesta.
L’aspirato midollare (citologia) mostra infiltrato linfoide costituito da piccoli linfociti:
l'infiltrato linfoide costituisce oltre il 30 % degli elementi midollari e spesso vi è completa
metaplasia linfatica midollare.
Particolare rilievo asumono i reperti della biopsia osteomidollare. L’infiltrato linfoide può
essere di tipo nodulare, interstiziale, o diffuso. La malattia esordisce con quadri infiltrativi
non diffusi e solo in fasi successive del decorso clinico si osservano quadri di tipo diffuso.
La forma diffusa è associata agli stadi clinici avanzati e rappresenta un fattore
prognostico negativo.
La biopsia linfonodale non è necessaria se il sangue periferico, il midollo e
l'immunofenotipo sono conclusivi. Se viene biopsiato, il linfonodo mostra un quadro
istologico monotono di piccoli linfociti.
I parametri necessari per la diagnosi di leucemia linfatica cronica sono riassunti nella
Tabella 1
Tabella 1 - Leucemia linfatica cronica: criteri diagnostici
-
linfocitosi assoluta periferica (con ombre di Gumprecht), superiore a 10 x 109/L
infiltrazione linfatica midollare 30%
fenotipo immunologico: markers di linea B (CD19+, CD20+), positività per CD5+ e
CD23+, espressione delle immunoglobuline di superficie a bassa densità,
monoclonalità o
Diagnosi differenziale:
La diagnosi differenziale deve essere posta essenzialmente con altre forme di patologie
linfoproliferative croniche e linfomi in fase leucemica.
La leucemia prolinfocitica è distinguibile per l’intensa espressione delle immunoglobuline
di superficie e per la positività per l’antigene di superficie FMC7. I linfomi non-Hodgkin in
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Score immunofenotipico per la diagnosi diffrerenziale della leucemie linfatica cronica
Score
Marcatore
1
0
Smlg
Bassa intensità
Elevata intensità
CD5
Positivo
Negativo
CD23
Positivo
Negativo
FMC7
Negativo
Positivo
CD22 or CD79b
Bassa intensità
Elevata intensità
Lo score nelle LLC deve essere >3, mentre nelle altre patologie linfoproliferative è <3.
Decorso clinico
Il decorso clinico e la sopravvivenza dei pazienti con leucemia linfatica cronica sono assai
variabili. Alcuni soggetti rimangono asintomatici per diversi anni e non richiedono alcun
trattamento specifico; altri pesentano un andamento clinico aggressivo a volte
scarsamente controllabile con la terapia.
Le principali complicanze nella storia anturale della malattia sono dovute all’insorgenza di
infezioni, manifestazioni autoimmunitarie e seconde neoplasie o all’evoluzione della
malattia in un quadro di leucemia prolifocitica o di sindrome di Richter.
Le infezioni sono soprattutto batteriche e più raramente virali (herpes simplex e zoster) e
sono dovute principalmente all’ipogammaglobulinemia ed in parte alla neutropenia ed alla
riduzione dell'immunità cellulo-mediata: rappresentano la maggior causa di morbidità e
mortalità nella leucemia linfatica cronica e costituiscono il 60% delle cause di morte.
I fenomeni autoimmuni insorgono per deficit dei meccanismi di controllo contro
l'emergenza di cloni diretti contro antigeni self. È possibile la positività del test di Coombs
diretto (autoimmunizzazione antieritrocitaria da autoanticorpi caldi) specialmente
frequente durante l'evoluzione: di conseguenza può presentarsi un’anemia emolitica
autoimmune. L'autoanticorpo è più spesso prodotto dalla cellule B normali residue più
che dai linfociti patologici. Sono segnalati casi di piastrinopenia autoimmune e di
eritroblastopenia pura su base autoimmune; l’associazione di anemia e piastrinopenia su
base autoimmune in corso di leucemia linfatica cronica configura la cosiddetta sindrome
di Evans.
La sindrome di Richter (la cui incidenza è pari al 3-10% dei soggetti con leucemia linfatica
cronica), si configura come una evoluzione verso un linfoma non-Hodgkin diffuso a grandi
cellule (immunoblastico) con rapida comparsa di sintomi sistemici, masse linfomatose
asimmetriche, latticodeidrogensi elevata. Il decadimento è rapido anche per la scarsa
sensibilità a terapie aggressive tipo linfoma. La sopravvivenza è di circa 6-8 mesi. Può
insorgere a livello linfonodale ma anche a livello midollare sotto forma di infiltrazione di
grandi cellule.
La trasformazione prolinfocitica avviene nel 5 % circa dei casi ed è caratterizzata da
masse linfomatose, splenomegalia progressiva, citopenia, comparsa di elementi di tipo
prolinfoicitico nel periferico e nel midollo e resistenza alla chemioterapia.
Infine, nei pazienti affetti da leucemia linfatica cronica risulta particolarmente elevata
l’incidenza di seconde neoplasie: non si tratta di neoplasie ematologiche ma di epiteliomi,
neoplasie polmonari e melanomi. L’aumentato rischio è connesso al deficit immunologico
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(ridotta immunosorveglianza antineoplastica) e forse favorito dalla chemioterapia con
alchilanti. La prognosi di questo tipo di complicanza è estremamente negativa.
Stadiazione e Prognosi
I fattori prognostici della leucemia linfatica cronica riassumono la storia naturale della
malattia (progressivo accumulo di linfociti neoplastici con aumento della massa tumorale,
progressiva invasione midollare, deterioramento della mielopoiesi). Essi dipendono dalla
massa tumorale (numero delle sedi linfoidi interessate, grado di infiltrazione midollare,
istologia osteomidollare diffusa, livelli serici di 2-microglobulina); dalle caratteristiche
biologiche dlla malattia (tempo di raddoppiamento dei linfociti, stato mutazionale geni VH
delle immunoglobuline, CD38, ZAP-70); dal grado di compromissione dell’emopoiesi
normale residua (livelli di emoglobina, piastrine, neutrofili, immunoglobuline) e infine dalle
caratteristiche del paziente (età avanzata, sesso maschile, cattivo performance status,
presenza di patologie associate).
Sulla base dei dati ematologici e di alcuni parametri clinici nel 1975, Rai e collaboratori
hanno proposto una classificazione della leucemia linfatica cronica in 5 stadi ognuno dei
quali corrisponde ad una prognosi differente, progressivamente peggiore all’aumentare
dello stadio. Successivamente nel 1980, Binet e collaboratori hanno elaborato un sistema
classificativo semplificato in 3 stadi clinici.
La classificazione della leucemia linfaica cronica secondo Rai e Binet è riportata nelle
tabelle 2 e 3.
Stadiazione di Rai
______________________________________________________________
Stadio 0
Stadio I
Stadio II
Stadio III
Stadio IV
Solo linfocitosi periferica con infiltrato midollare >30%
Linfocitosi + linfoadenomegalie
Linfocitosi + splenomegalia (+/- epatomegalia +/-adenopatia)
Linfocitosi + anemia (emoglobina inferiore a 11 g/dl)
Linfocitosi + piastrinopenia (piastrine inferiori a 100 x 109/L) con o
senza anemia o epato-splenomegalia
______________________________________________________________
Stadiazione di Rai modificata
_____________________________________________________________
Rischio
Stadi di Rai
% nuovi
Sopravvivenza
corrispondenti
casi
mediana
_____________________________________________________________
Basso
Stadio 0
30
> 10 anni
Intermedio
Stadi I + II
60
6-8 anni
Alto
Stadi III e IV
10
2 anni
_____________________________________________________________
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Stadiazione di Binet
_____________________________________________________________
Stadio A: Linfocitosi periferica e midollare con meno di tre aree linfoide
interessate*, non anemia o piastrinopenia
Stadio B: Idem con 3 o più aree linfoidi interessate*
Stadio C: Anemia (Hb < 10 g/dL) e/o piastrinopenia (<100 x 109/L)
_____________________________________________________________
* aree linfoidi = cervicali, ascellari, inguinali, milza, fegato.
Terapia
Il trattamento della leucemia linfatica cronica deve terenre conto dei fattori di rischio
presenti alla diagnosi.
I pazienti a basso rischio (Stadi iniziali: 0-1 di Rai, A di Binet) non devono essere trattati
con farmaci citostatici e sono candidati esclusivamente all’osservazione clinica. Un
eventuale trattamento specifico andrà intarpreso in caso di segni di progressione della
malattia ematologica.
I pazienti a rischio intermedio-alto (Stadi II -IV di Rai, B e C di Binet) sono candidati
all’impostazione di un trattamento specifico. Al di sopra dei 55 anni di età vengono
utilizzati farnaci come il Clorambucile (alchilante) in combinazione con corticosteroidi. Lo
scopo di questo tipo di terapia non è quello di eradicare la malattia bensì di ottenere il
controllo della leucocitosi, delle organomegalie, dell’anemia e della piastrinopenia.
Per i pazineti di età inferiore ai 55 anni il farmaco di scelta per il trattamento è la
fludarabina. È un analogo fluorinato dell'adenosina monofosfato, che agisce sull’apoptosi.
La risposta è dipendente dallo stadio e dalle terapie precedenti. Può dare remissioni
complete nel 30% nei pazienti non pretrattati (risposte complete + risposte parziali 70
%) e nel 10 % se pretrattati (risposte complete + risposte parziali 50 %). L’effetto
collaterale maggiore è la immunosoppressione con linfocitopenia CD4 prolungata
(sindrome da deplezione di CD4) con rischio di infezioni opportunistiche da agenti
inusuali come la Listeria monocytogenes e la Pneumocystis Carinii).
Il trapianto autologo di cellule staminali periferiche può essere eseguito come
consolidamento dopo una remissione ottenuta con fludarabina. Il trapianto di midollo
osseo allogenico è proponibile nei soggetti di giovane età con malattia avanzata che
dispongano di un donatore HLA identico.
Recentemente sono state utlizzate con promettente successo altre modalità di
trattamento con anticorpi monoclonali di derivazione murina o umanizzati. Rientra in
questa ultima categoria il Campath-1H, un anticorpo umanizzato anti CD52. l’epitopo
CD52 è espresso in oltre il 95% dei linfociti umani ed è il bersaglio della lisi mediata dal
complemento ad opera dell’anticorpo. I risultati preliminario sembrano mostrare una
notvole capacità di riduzione delle linfoadenopatie da parte di questo farmaco.
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Leucemia linfatica cronica T
Costituisce il 5% delle LLC (CD2+, CD3+, CD5+, antigeni dei linfociti T periferici). Sono
tipici gli infiltrati cutanei mentre la splenomegalia è presente nel 50% dei casi. È
riscontrabile un’ipergammaglobulinemia policlonale.
Ne esistono tre sottotipi:
a nuclei irregolari (T-helper, CD4+), con marcata leucocitosi, voluminose adenopatie,
interessamento del SNC
a grandi linfociti granulati (T-suppressor, CD8+), a prognosi migliore
tipo pleomorfo CD8+, a cattiva prognosi
Leucemia prolinfocitica
Si tratta di una malattia linfoproliferativa subacuta caratterizzata dalla proliferazione ed
accumulo di prolinfociti. Viene considerata una variante della leucemia linfatica cronica, di
cui è molto più rara. Colpisce di preferenza il sesso maschile (M/F 2:1) in età avanzata;
l’età mediana è attorno ai 65-70 anni. È in genere di linea B ma rari casi sono di linea T.
Clinicamente i pazienti presentano epatomegalia e splenomegalia spesso molto
voluminosa e insufficienza midollare di vario grado. Sono meno frequenti le
linfoadenomegalie soprattutto nelle sedi superficiali
Gli esami di laboratorio mostrano una marcata leucocitosi linfoide, spesso oltre 100 x
109/L, costituita per oltre il 55% (cut-off convenzionale) da prolinfociti (elementi linfoidi
un po’ più grandi del linfocito della leucemia linfatica cronica, con citoplasma
moderatamente basofilo e con unico nucleolo ben evidente). Una anemia e
piastrinopenia di grado moderato sono presenti nel 50 % dei casi.
Gli elementi patologici della leucemia prolinfocitica presentano dal punto di vista
immunologico intensa espressione delle immunoglobuline di superficie, positività per
FMC7, scarsa o nulla positività per CD5 e positività per i marcatori di linea B (CD19,
CD20, e CD22)
Diagnosi
I criteri diagnostici della leucemia prolinfocitica comprendono:
splenomegalia isolata, spesso massiva, senza adenopatia superficiale
epatomegalia
leucocitosi spesso di grado elevato 100 x 109
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Hairy cell leukemia (HCL), o leucemia a cellule capellute (tricoleucemia)
È una malattia linfoproliferativa cronica della linea B in cui l'elemento linfoide
proliferante è morfologicamente caratterizzato da sottili prolungamenti citoplasmatici
(hairy cells, tricoleucociti). Costituisce il 2 % delle leucemie dell'adulto. L’età mediana è
di 50 anni (rara sotto i 40) e colpisce prevalentemente i soggetti di sesso maschile
(rapporto maschi/femmine = 4:1).
Quadro clinico
L’insorgenza della malattia avviene di regola in maniera insidiosa e graduale,
comparendo dapprima sintomi aspecifici e solo in una fase successiva disturbi
direttamente correlabili alla malattia. Il rilievo obiettivo di più frequente osservazione (8590% dei casi) è rappresentato dalla splenomegalia (di vario grado, ma più spesso molto
voluminosa). Può essere presente, anche se meno frequentemente epatomegalia. In
genere sono assenti le adenomegalie delle stazioni superficiali, mentre con discreta
frequenza sono rivelabili nelle sedi profonde tramite esami radiologici.
Tra i sintomi legati alla pancitopenia (neutropenia, anemia, piastrinopenia, principalmente
da insufficienza midollare) gli episodi infettivi da granulocitopenia sono estremamente
importanti e spesso rivelatori della malattia.
Diagnosi
A livello del sangue periferico nei pazienti con hairy cell leucemia è presente
leucopenia (di solito meno di 3000 leucociti) con neutropenia (valore assoluto inferiore a
1000/mL) e monocitopenia spiccata. Sono presenti inoltre una anemia normocromica
normocitica e piasrtinopenia dovute a ridotta produzione, sequestro splenico e/o
emodiluizione
I tricoleucociti sono l'elemento patognomonico della malattia. All'esame microscopico
dello striscio di sangue periferico costituiscono dal 10% al 30% dei leucociti, hanno
citoplasma pallido, debolmente basofilo, con margini sfrangiati e lunghe e sottili
protrusioni citoplasmatiche (cellule capellute), nucleo rotondeggiante a cromatina fine.
Sono positivi alla reazione citochimica della fosfatasi acida, resistente alla inibizione
dell'acido tartarico (fosfatasi acida tartrato-resistente, isoenzima 5)
Dal punto di vista immunologico i tricoleucociti presentano un profilo caratteristico: sono
positivi per gli antigeni CD19, CD20 e CD22 (markers di linea B) e negativi per l’antigene
CD5. Esprimono inoltre il CD25 (recettore per l'interleukina 2), il CD11c (marker
monocitario) e l’ FMC7.
Il midollo spesso è difficilmente aspirabile per l’esame citologico in ragione della fibrosi
midollare (punctio sicca). La biopsia osteomidollare è essenziale per lo studio midollare
e la diagnosi. Vi è un infiltrato lasso da parte di elementi linfoidi (i tricoleucociti) che
appaiono meno fittamente stipati rispetto all'infiltrato di altre leucemie e linfomi, per
l'ampiezza del citoplasma. L’Infiltrato linfoide costituisce il 60-70% delle cellule midollari.
Vi è ipoplasia delle normali serie maturative e fibrosi reticolinica dimostrabile con
l'impregnazione argentica (causa della punctio sicca).A livello splenico, l’esame
istologico mostra una infiltrazione massiva della polpa rossa e dei seni da parte di
tricoleucociti.
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Terapia
L’orientamento terapeutico generale al momento attuale prevede la sola osservazione
senza terapia se non vi sono citopenia o infezioni. La presenza di una o di entrambe le
condizioni costituisce una indicazione al trattamento specifico.
L’impiego di interferone alfa (IFN) permette di ottenere percentuali di risposta (per lo più
parziali) nell’ 80-90% dei casi dopo un perido di trattamento di 6-12 mesi; tuttavia le
remissioni complete dopo trattamento prolongato sono presenti solo nel 20-30% dei
soggetti. La terapia di mantenimento a basse dosi a tempo indefinito prolunga la durata
della remissione.
Più recentemente la pentostatina, un analogo nucleosidico inibitore della adenosino
deaminasi ha dimostrato di poter ottenere risposte rapide nell'85% dei casi con una
elevata percentuale di risposte complete (60%) e con una efficacia anche in pazienti
resistenti alla terapia con interferone..
Il farmaco di ultimo impiego è la cladribina (2-Clorodeossiadenosina, 2-CDA), un
analogo purinico il cui utilizzo garantisce una alta percentuale di remissioni complete
(80%) con un solo ciclo di terapia: tali risposte sono di lunga durata e non necessitano di
nessuna terapia di mantenimento La cladribina sta sostituendo progressivamente
l'interferone e la pentostatina come terapia di prima linea nel trattamento della hairy cell
leukemia
L’esecuzione di splenectomia è indicata solo in caso di emergenza chirurgica (infarto
splenico) o grave citopenia refrattaria.
Linfoma splenico con linfociti villosi
Si tratta di un particolare linfoma splenico leucemizzato che può simulare la hairy cell
leukemia e che va posta in diagnosi differenziale
L’esame obiettivo splenomegalia. È presente leucocitosi >10 x 109/L: gli elementi linfoidi
presentano citoplasma a contorno irregolare con villi sottili e brevi, concentrati ai poli
cellulari. Nel 60% dei casi si rileva una componente monoclonale serica IgM.
Il midollo, a diffrenza della Hairy cell leucemia è aspirabile e mostra un infiltrato linfoide
polimorfo. Dal punto di vista immunofenotipico, le cellule patologiche sono positive per
CD19, CD20, CD22, FMC7 ed esprimono immunoglobuline di superficie ad elevata
intensità. A differenza della leucemia linfatica cronica non presentano positività per CD5
e CD23; diversamente dalla Hairy cell leukemia, sono negative per CD25 e CD11c.
I casi di linfoma splenico a linfociti villosi non rispondono alla terapia con interferone.
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29. Gammapatie monoclonali
Le immunoglobuline
Le immunoglobuline (Ig) sono molecole che hanno la funzione di riconoscimento
specifico degli antigeni, sintetizzate dalle plasmacellule (linea B cellulare).
Le immunoglobuline sono costituite da quattro catene polipeptidiche, distinte in base al
peso molecolare in catene pesanti e catene leggere. Esistono cinque differenti catene
pesanti ( , , , , ), i cui geni sono mappati sul cromosoma 14, e due diverse catene
leggere ( , ), i geni che codificano per le quali sono mappati si cromosomi 2 ( ) e 22 ( ).
Le catene delle Ig sono costituite da una regione costante ed una regione variabile. La
regione variabile deriva dal riarrangiamento di tre diversi segmenti genici (V, D, J), ed è
responsabile del legame con l’antigene. Le Ig sono distinte in 5 classi, sulla base del tipo
di catena pesante: IgA (2 sottoclassi: 1, 2), IgD, IgE, IgG (4 sottoclassi: 1, 2, 3, 4), IgM.
Ogni plasmacellula esprime una sola immunoglobulina, costituita da 2 catene pesanti
identiche e 2 catene leggere identiche.
Le plasmacellule appartenenti ad un unico clone esprimono la stessa immunoglobulina.
Una proliferazione clonale di plasmacellule può essere osservata in presenza di uno
stimolo antigenico (proliferazione controllata di uno o più cloni) oppure in caso di
trasformazione neoplastica (proliferazione incontrollata).
In presenza di più cloni plasmacellulari secernenti immunoglobuline, la frazione delle
proteine sieriche appare come una banda ampia (quadro elettroforetico policlonale). Una
ipergammaglobulinemia policlonale si riscontra tipicamente nelle epatiti croniche, ed
anche nelle infezioni e infiammazioni croniche (malattie autoimmuni).
In presenza di una proliferazione clonale incontrollata all’elettroforesi delle siero-proteine
nella frazione sarà identificabile un picco alto e stretto costituito da immunoglobuline
strutturalmente identiche (componente monoclonale). Frequentemente in queste
condizioni si verifica uno sbilanciamento nella sintesi di catene pesanti e leggere, che può
determinare l’escrezione di catene leggere libere o di frammenti di catene pesanti. Si
definisce gammopatia monoclonale la comparsa nel siero o nelle urine di una
componente monoclonale, che può essere costituita da Ig complete (con catena leggera
o ), Ig incomplete ( o in associazione a catene leggere libere dello stesso tipo), solo
catene leggere libere o solo frammenti di catena pesanti.
La tecnica di laboratorio più semplice per lo studio delle immunoglobuline è l’elettroforesi
delle siero-proteine su acetato di cellulosa, nella quale le Ig migrano in regione 2 e . Il
dosaggio delle singole classi di immunoglobuline può essere ottenuto mediante
nefelometria. In alternativa, l’immunofissazione è una tecnica che combina l’elettroforesi
in gel di agarosio e l’immunodiffusione, utilizzando anticorpi diretti contro le regioni
costanti delle catene pesanti ( , , , , ) e leggere ( , ). Consente di tipizzare una
componente monoclonale (definizione della classe e della catena leggera) oppure di
individuarla nel caso in cui non sia di entità tale da alterare il profilo elettroforetico.
Le catene leggere eventualmente secrete in corso di gammopatia monoclonale superano
il filtro renale e sono evidenziabili nelle urine. La presenza di catene leggere nelle urine
viene definita proteinuria di Bence-Jones (BJ). Per evidenziare una proteinuria di BJ si
usava il test al calore: riscaldando progressivamente la provetta di urine a 60°C la BJ
precipita, ma si ridissolve tipicamente quando si raggiungono i 100°C. Il test al calore è
importante storicamente ma è poco sensibile; oggi si usano l’elettroforesi e
l’immunofissazione su urine concentrate delle 24 h.
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Classificazione delle gammopatie monoclonali
Gammopatie maligne
Neoplasie plasmacellulari:
- mieloma multiplo classico
- mieloma multiplo "smoldering"
- mieloma non secernente
- mieloma osteosclerotico
- leucemia plasmacellulare
- plasmocitoma solitario dell'osso
- plasmocitoma extramidollare
Malattie linfoproliferative:
- macroglobulinemia di waldenström
- linfomi non-Hodgkin (linfoplasmacitoide)
- leucemia linfatica cronica
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Mieloma Multiplo
Il mieloma multiplo è una malattia neoplastica a elettiva localizzazione nel midollo osseo,
caratterizzata da una proliferazione incontrollata di cellule linfoidi B (plasmacellule), con
infiltrazione plasmocitaria midollare, produzione di immunoglobuline strutturalmente
omogenee e spesso lesioni osteolitiche e/o insufficienza renale.
Epidemiologia
L’incidenza del mieloma multiplo è di 3-4 casi ogni 100.000 persone per anno. L’età
mediana alla diagnosi è di 60-70 anni, raramente insorge in soggetti di età inferore a 40
anni. Rappresenta circa il 15% di tutte le emopatie maligne.
Patogenesi
L’eziologia del mieloma multiplo è in gran parte sconosciuta. Alcuni fattori sembrerebbero
avere un ruolo nella patogenesi del mieloma multiplo. Infatti l’incidenza di queste forme
aumenta in maniera significativa nei soggetti esposti a radiazioni ionizzanti o a tossici
chimici. Si ammette inoltre che fattori genetici familiari (tuttora non identificati),
stimolazioni antigeniche croniche e infezioni virali (HHV-8), possano rappresentare
concause nell’insorgenza del mieloma multiplo.
Gli elementi mutati sono cellule staminali pre-B midollari che presentano riarrangiamento
dei geni delle Ig. Numerose citochine appaiono coinvolte nello sviluppo della malattia
mielomatosa. L’interleuchina 6 (IL-6) prodotta da cellule stromali (paracrina) e da cellule
mielomatose stesse (autocrina) è il principale fattore di crescita della popolazione
neoplastica. Il clone mielomatoso produce anche IL-1 e TNF- , citochine che attivano gli
osteoclasti (OAF, osteoclast activating factors), responsabili dei fenomeni di osteolisi
caratteristici della malattia.
La neoplasia presenta un accrescimento esponenziale (con un tempo di raddoppiamento
della massa inizialmente di 3-6 mesi), fino a raggiungere un plateau. Il clone deve
9
raggiungere una massa di 5 x 10 cellule prima di produrre una quantità di Ig tale da
essere evidente come picco monoclonale all’elettroforesi delle sieroproteine. La fase
preclinica della malattia varia in genere da 1 a 3 anni. Più raramente il mieloma multiplo si
presenta come evoluzione di un quadro di gammopatia monoclonale presente anche da
molti anni.
Alterazioni del cariotipo sono documentabili nel 30-50% delle cellule mielomatose
mediante citogenetica convenzionale (basso indice mitotico), mentre l’uso di tecniche di
ibridazione in situ (FISH) consente di rivelare aberrazioni cromosomiche sino al 90% dei
casi. Le principali alterazioni citogenetiche ricorrenti nel mieloma multiplo sono: la
monosomia del cromosoma 13 [o la delezione delle braccia lunghe, del(13)(q14)]
presente nel 20-80% dei casi e associata a sopravvivenza ridotta; le traslocazioni
t(11;14)(q13;q23) e t(4;14)(p16;q32) rilevabili nel 15-35% dei soggetti e ugulamente
associate a prognosi sfavorevole; infine la presenza di un cromosoma addizionale
add(14)(q32) rilevabile nel 45-00% dei casi, considerato un evento iniziale nella
trasformazione neoplastica delle cellule mielomatose.
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Classi immunochimiche del mieloma
Esistono diverse varianti del mieloma multiplo, definite in base alla tipologia delle Ig
secrete dalle cellule appartenenti al clone neoplastico (classi immunochimiche). Esse
sono riassunte nella tabella seguente:
frequenza relativa (%)
casi secernenti (%)
:
Ig G
65
60
2:1
Ig A
25
60
2:1
Catene leggere
10
100
2:1
Ig D
1
90
1:9
Non secernete
1
Classe
Quadro clinico
I sintomi e segni del mieloma multiplo possono essere riferiti alla sostituzione midollare
da parte delle cellule del clone neoplastico, all’aumentato riassorbimento osseo, alla
componente monoclonale e alla ridotta produzione delle normali Ig.
La sostituzione midollare può esprimersi con i sintomi clinici dell’anemia (pallore, astenia,
affaticabilità, palpitazione), della neutropenia (infezioni) e della piastrinopenia (petecchie,
ecchimosi, emorragie cutaneo-mucose). La genesi dell’anemia nel mieloma multiplo
risulta da un insieme di fattori oltre l’infiltrazione plasmacellulare del midollo (anemia delle
malattie croniche, insufficienza renale).
L’aumentato riassorbimento osseo è conseguenza dell’attivazione degli osteoclasti da
parte di osteoclast activating factors (OAF) prodotti dalle cellule mielomatose e da cellule
stromali in risposta all’invasione tumorale (IL-1, TNF- , IL-6): clinicamente si può
esprimere con dolori ossei, osteoporosi, osteolisi, fratture patologiche, compressioni
nervose e ipercalcemia (Ca++>12 mg/dl) da lisi ossea.
La presenza della componente monoclonale (in particolare se Ig M o Ig A) a livello del
siero può configurare la cosiddeta sindrome da iperviscosità, comprendente sintomi
neurologici (vertigini, cefalea), alterazione dell’emostasi per interferenza con fattori della
2006, Fondazione Ferrata Storti. Il contenuto di questa dispensa è fornito a titolo gratuito dalla Fondazione Ferrata Storti. Si
invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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Complicanze
Le principali complicanze che possono insorgere nel paziente affetto da mieloma mutiplo
sono di natura neurologica (sindrome ipercalcemica e neuropatia periferica) e renale.
Inoltre il possibile deposito di catene leggere a livello dei parenchimi configura quadri di
danno funzionale a livello degli organi interessati.
La sindrome ipercalcemica (Ca++ >15 mg/dl) si presenta con nausea, vomito, astenia
marcata, obnubilamento, coma, ipercalciuria con danno tubulare renale da aumentato
riassorbimanto del Ca++, precipitazione interstiziale (nefrocalcinosi), poliuria osmotica (da
eliminazione del Ca++ non riassorbito), grave disidratazione secondaria, insufficienza
renale acuta. In corso di crolli vertebrali può verificarsi la compressione di radici nervose
o del midollo spinale, con dolore radicolare e deficit sensitivo/motorio sino a quadri di
para/tetraplegia flaccida.
La causa principale di danno renale è costituita dalla proteinuria di Bence-Jones
(precipitazione intratubulare di catene leggere, e deposizione nella membrana basale di
tubuli e glomeruli renali).
In corso di mieloma multiplo si può osservare amiloidosi secondaria a deposito di catene
leggere nei parenchimi (amiloidosi AL), con organomegalie e danno funzionale:
epatosplenomegalia, macroglossia, nefropatia glomerulare con albuminuria e
insufficienza renale cronica, cardiomiopatia, turbe di conduzione e del ritmo, scompenso
congestizio, sindrome del tunnel carpale, lesione nervi periferici con neuropatia, sindrome
da malassorbimento per deposito intestinale. La diagnosi in questi casi viene formulata
su biopsia del grasso periombelicale o su biopsia rettale, con dimostrazione del deposito
di fibrille amiloidi (birifrangenza verde al microscopio a luce polarizzata dopo colorazione
al rosso congo)..
Diagnosi
L’esame emocromocitometrico può evidenziare anemia (normocromica, normocitica, da
insufficienza midollare e da emodiluizione), piatrinopenia (da insufficienza midollare); lo
striscio di sangue periferico può dimostrare impilamento delle emazie da disprotidemia.
Il mieloaspirato valuta la presenza di infiltrazione plasmacellulare
L’elettroforesi delle sieroproteine può dimostrare la presenza di una componente
monoclonale con riduzione delle Ig normali oppure una ipogammaglobulinemia (in caso di
mieloma
secernente
catene
leggere,
definito
anche
micromolecolare).
L’immunofissazione del siero consente poi di tipizzare la componete monoclonale;
l’immunofissazione delle urine può evidenziare proteinuria di Bence Jones.
Gli esami ematochimici devono includere calcemia, azotemia, creatininemia VES,
proteina C-reattiva, beta-2-microglobulina (i cui livelli serici sono correlati alla massa
tumorale). Gli esami radiologici (radiografia dello scheletro ed eventualmente risonanza
magnetica nucleare) possono evidenziare lesioni osteolitiche , fratture patologiche di
ossa lunghe e crolli vertebrali. È utile infine l’eventuale biopsia di lesioni ossee solitarie,
plasmocitomi extramidollari (se presenti).
Criteri diagnostici:
I criteri diagnostici per il mieloma multiplo sono divisi in maggiori e minori. Per formulare
la diagnosi è neccesario che siano presenti contemporaneamente 1 criterio maggiore e 1
criterio minore, oppure 3 criteri minori (due dei quali siano A e B).
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Criteri diagnostici per il mieloma multiplo
Criteri maggiori:
A) Diagnosi istologica di plasmocitoma alla biopsia dell’osso o di tessuti molliB)
Infiltrazione plasmacellulare midollare > 30%C) Componente monoclonale >3,5g/dl se
IgG, >2g/dl se IgA; proteinuria di BJ >1g/24h
Criteri minori:
A) Infiltrazione plasmacellulare midollare compresa tra 10 e 30%B) Componente
monoclonale <3,5g/dl se IgG, <2g/dl se IgA; proteinura di BJ <1g/24h.C) Lesioni
osteoliticheD) Soppressione delle Ig normali (IgG <600mg/dl, IgA <100mg/dl, IgM
<50mg/dl)
Stadiazione
La stadiazione del mieloma multiplo viene effettuata mediante il sistema di Durie e
Salmon, basato sulla detreminazione del tasso di emoglobina, calcemia, componente
monoclonale, quadro radiologico osseo e presenza o meno di insufficienza renale.
Mieloma multiplo: stadiazione di Durie e Salmon
Stadio I. Tutti i seguenti parametri:
emoglobina > 10g/dl
calcemia <12 mg/dl
osteolisi assenti o lesione litica solitaria
Ig G < 5g/dl,
Ig A < 3g/dl,
BJ urine < 4g/24h
Stadio II. Tutti i pazienti non in stadio I o III
Stadio III. Uno o più dei seguenti parametri:
emoglobina < 8,5g/dl
calcemia > 12 mg/dl
osteolisi multiple
Ig G > 7g/dl,
Ig A > 5g/dl,
BJ urine > 12g/24h
Ciascuno stadio viene sottoclassificato in A o B:
A: se creatinina inferiore a 2 mg/dl
B: se creatinina superiore a 2 mg/dl
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La stadiazione ha un valore prognostico: la sopravvivenza media dei pazienti in stadio IA
è di circa 60 mesi, mentre dei pazienti in stadio IIIB è di soli 14 mesi.
A completamento delle informazioni fornite dallo schema di Durie e Salomon, è
attualmente utile distinguere affiancare altri parametri prognostici legati alla massa
tumorale (beta-2-microglobulina), alla aggressività biologica della malattia (labeling index,
un indice di marcatura con timidina triziata delle plasmacellule midollari che è indicatore
di attività proliferativa) e di progressione (proteina C reattiva, proteina della fase acuta
prodotta dagli epatociti sotto lo stimolo della IL-6).
Varianti clinico-biologiche del mieloma
Forme localizzate
Forme sistemiche
1. Mieloma solitario dell’osso
1. Mieloma sintomatico
2. Mieloma extramidollare
2. Mieloma indolente
3. Mieloma smouldering
4. Mieloma osteosclerotico
5. Leucemia plasmacellulare
Mieloma solitario dell'osso
E’ un focolaio mielomatoso isolato in un segmento osseo, piu' frequente in vertebre e
coste, caratterizzato da aspirato midollare normale e solo raramente dalla presenza di
componente monoclonale nel siero. La terapia è radiante (4000 - 5000 cGy) con
possibilità di recidiva ossea isolata nel 25% dei casi. Il 60% dei soggetti evolve in
mieloma.
Mieloma extramidollare
Interessa più frequentemente le prime vie aeree (cavità nasali, rinofaringe, laringe) in
assenza di interessamento midollare. Circa il 20% dei casi evolve in mieloma.
Mieloma indolente e mieloma smouldering
Sono varianti cliniche che possono restare stabili per anni e non necessitano di terapia
fino alla progressione. I criteri diagnostici (e distintivi da MGUS) sono rappresentati da
una bassa massa neoplastica, da un basso labeling index, dall’assenza di lesioni ossee,
da una componente monoclonale < 7g/dl se Ig G e < 5g/dl se Ig A, da livelli di
emoglobina > 10g/dl, da normale funzione renale, infine da una plasmocitosi midollare
inferiore a 30%. Tipicamente i parametri clinici e biologici sono stabili nel tempo, con
lenta tendenza alla progressione.
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Mieloma osteosclerotico
Colpisce prevalentemente maschi, di eta' inferiore ai 50 anni. Descritto anche come
POEMS syndrome (Polineuropathy, Organomegaly, Endocrinopathy, Monoclonal
protein, Skin changes), è caratterizzato da: piccola componente monoclonale, ridotta
plasmacitosi midollare, lesioni osteosclerotiche, polineuropatia sensitivo-motoria
demielinizzante, deficit endocrino, ginecomastia, edemi, iperpigmentazione e sintomi a
patogensi autoimmune.
Leucemia plasmacellulare
Può essere primitiva, o evoluzione di mieloma (rara). E’ caratterizzata da plasmacellule
circolanti > 2x109/L; vi possono essere adenopatia, epatosplenomegalia. Contrariamente
al mieloma multiplo, esordisce preferenzialmente in età giovanile. La prognosi è severa
(sopravvivenza <1 anno nel 90% dei casi).
Terapia
L’approccio terapeutico varia a seconda dello stadio clincio della malattia e dell’età. Per i
pazienti con mieloma smoldering (o in stadio I con bassa attività proliferativa) è indicata la
sola osservazione; l’inizio del trattamento è indicato nel momento in cui si evidenziano
segni di progressione.
Nei pazienti di età superiore a 65 anni il trattamento consiste nella combinazione di
melphalan (alchilante), somministrato alla dose di 8 mg/m2/die per 4 gg, e prednisone alla
dose di 1-2 mg/kg/die negli stessi giorni, a cicli ripetuti a cadenza mensile per un minimo
di 6 mesi. La percentuale di risposta (che consiste nell’ottenimento di una fase di plateau
stabile) è di circa il 50-60%. La sopravvivenza mediana dei soggetti trattati in questo
modo è di circa 42 mesi.Nei soggetti di età inferiore a 65 anni, si ricorre a trattamenti più
intensivi che comprendono cicli di chemioterapia (vincristina, adriblastina, desametasone:
ciclo VAD; desametasone, ciclofosfamide, etoposide, cisplatino: ciclo DCEP) con
mobilizzazione di cellule staminali emopoietiche e trapianto autologo di cellule staminali
emopoietiche. Con questi regimi si otteniene una sopravvivenza libera da progressione
del 30% circa a 5 anni. Nei pazienti più giovani (<45 anni) con donatore compatibile è
indicato il trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche.Sono attualmente in corso
di sperimentazione clinica approcci terapeutici basati sul doppio trapianto autologo di
cellule staminali emopoietiche, sul trapiaianto allogenico con regime di condizionamento
non-mieloablativo e sulla talidomide, un farmaco anti-angiogenetico che si è dimostrato
efficace in circa la metà dei pazienti chemioresistenti. La talidomide è attualmente la
migliore terapia per i ricaduti dopo autologo e sono in corso studi con talidomide come
terapia di mantenimento post-autotrapianto. Problemi speciali sono rappresentati dal
trattamento delle lesioni scheletriche (che si basa sulla radioterapia locale, sull’uso di
busto ortopedico e sulla somministrazione di bifosfonati, farmaci che riducono l'attività
osteoclastica e inibiscono il riassorbimento osseo), delle complicanze neurologiche da
compressione del midollo spinale (decompressione chirurgica, radioterapia),
dell’Insufficienza renale (idratazione, compenso elettrolitico, dialisi), dell’ipercalcemia
(idratazione,
corticosteroidi,
bifosfonati)
della
sindrome
da
iperviscosità
(plasmaexchange) e dell’anemia (trasfusioni, eritropoietina).
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Gammapatie monoclonali di significato indeterminato (Monoclonal Gammopathy
of Undetermined Significance, MGUS)
E’ una proliferazione "controllata" di un clone plasmacellulare, caratterizzata dal riscontro
all'elettroforesi serica o urinaria di una componente immunoglobulinica monoclonale
(CM), in assenza di segni e sintomi di un processo immunoproliferativo sistemico
(mieloma mutiplo, malattia di Waldenstrom, amiloidosi o patologie associate).
Epidemiologia
Questa condizione si riscontra in circa l’1% degli adulti sani. L’incidenza aumenta
significativamente con l’età: è pari al 3-6% nei soggetti di età superiore a 70 anni e al 56% dopo gli 80 anni.
Patogenesi
Per spiegare la comparsa di una proliferazione clonale controllata di plasmacellule, sono
stati considerati un’alterazione (“invecchiamento”) dei sistemi T-linfocitari deputati al
controllo della proliferazione B linfocitaria, ed una stimolazione antigenica protratta; in
questo caso dopo una fase di restrizione della policlonalità ancora transitoria
subentrerebbe una fase di produzione monoclonale irreversibile (con possibile mutazione
di geni regolatori).
Sono state riscontrate anche MGUS biclonali (1-2%), che potrebbero originare da 2 cloni
distinti o da "cross switching" incompleto di un singolo clone. La frequenza delle classi Ig
è direttamente proporzionale alla loro concentrazione serica in condizioni normali: MGUS
IgG 75%, IgM 15%, IgA 10%; la catena leggera è di tipo in 2/3 dei casi.
La crescita controllata si traduce in stabilità clinica nella maggior parte dei casi.
L’evoluzione in mieloma multiplo è posibilie in una bassa percentuale di casi ed avviene
in un arco variabile di mesi ma più spesso anni.
Diagnosi
I criteri necessari per formulare la diagnosi di MGUS sono seguenti:
- componente monoclonale serica < 3,5g/dl se IgG, < 2g/dl se IgA, < 1g/dl se IgM
- Bence Jones urinaria assente o < 200 mg/24h
- assenza di lesioni ossee
- plasmocitosi midollare < 10%
- assenza di anemia
- normale funzione renale
- stabilità nel tempo della CM serica e della plasmocitosi midollare
- non depressione delle frazioni Ig non coinvolte
I criteri distintivi tra MGUS e mieloma multiplo dal punto di vista diagnostico e del decorso
clinico sono riassunti nella tabella seguente.
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Parametri
MGUS
Mieloma indolente
Mieloma
Decorso
stabile
stabile
progressivo
Osteolisi
assenti
assenti
frequenti
Ig G < 3.5
Ig G > 3.5
Ig G > 3,5
Ig A< 2
Ig A > 2
Ig A > 2
stabile
stabile
progressiva
normali
ridotte
ridotte
rara
frequente
frequente
plasmacitosi midollare
< 10 %
> 10 %
> 10 %
atipie citomorfologiche
assenti
presenti
presenti
labeling index
<1%
< 1%
>1%
ß2-microglobulina
< 3 mg/l
> 3mg/l
> 3 mg/l
anemia
assente
assente
presente
funzionalità renale
normale
normale
alterata
evoluzione in mieloma
multiplo
10 - 20%
50%
-
CM siero (g/dl)
Altre frazioni Ig
Bence-Jones
Prognosi
A 10 anni una percentuale di pazienti variabile dal 10 al 20% sviluppa malattie
immunoproliferative maligne, a 20 anni è trasformato in mieloma multiplo il 30% circa
delle MGUS. Più alta è la percentuale di trasformazione delle MGUS IgA. Nessun
parametro è predittivo di trasformazione; sono indici di trasformazione un rapido aumento
dell'infiltrato midollare e della componente monoclonale e la comparsa di atipie
morfologiche plasmacellulari.
Terapia
Non è indicato alcun trattamento specifico. Occorre monitorare periodicamente (circa
ogni 6 mesi) la CM, la plasmocitosi midollare, la beta-2 microglobulina. In caso di
sospetta progressione può essere utile eseguire un Rx scheletro per la ricerca di
eventuali osteolisi.
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Malattia di Waldenström
La malattia di Waldenström è una patologia clonale del sistema linfoide B caratterizzata
da proliferazione ed accumulo di elementi linfo-plasmocitoidi secernenti Ig strutturalmente
omogenee di tipo Ig M.
Epidemiologia
La malattia esordisce in età adulta (l’età mediana alla diagnosi è di 60-65 anni) e colpisce
prevalentemente il sesso maschile.
Quadro clinico
Le manifestazioni cliniche della malattia di Waldenström possono essere così
schematizzati in sintomi legati alla proliferazione neoplastica e sintomi legati alla
presenza nel siero di un eccesso di immunoglobuline IgM.
Il primo gruppo comprende anemia, epatosplenomegalia e linfadenomegalie. Per quanto
riaguarda l’eccesso di IgM nel siero, la sintomatologia deriva dalle caratteristiche
strutturali di queste immunoglobuline (elevate dimensioni e peso molecolare, forma
stechiometrica e tendenza alla polimerizzazione) che provocano un rallentamento del
flusso nel microcircolo e una conseguente sindrome da iperviscosità con cefalea,
vertigini, parestesie, sonnolenza (fino al coma) e manifestazioni oculari (anormalità del
visus, emorragie, essudati, congestione venosa). È possibile il riscontro in aggiunta di
una sindrome emorragica, per interferenza della IgM con le piastrine e i fattori della
coagulazione; di insufficienza cardiaca congestizia e di episodi infettivi. Il deposito di
catene leggere a livello tissutale (amiloidosi) avviene più frequentemente a livello renale
glomerulare e neurologico (neuropatie sensitivo-motorie, talora associate a
leucoencefalopatia multifocale).
L’esordio clinico è caratterizzato da astenia nel 50% dei casi, diatesi emorragica nel 40%,
sindrome da iperviscosità nel 25-30%, disturbi visivi nel 20%.
Complicanze
Macro-crioglobulinemia
E’ una condizione caratterizzata dall’associazione di malattia di Waldenström e
crioglobulinemia. Le manifestazioni classiche della malattia di Waldenström si associano
ad acrocianosi con sindrome di Raynaud, manifestazioni purpuriche ricorrenti agli arti
inferiori, fino alla formazione di ulcere trofiche malleolari.
Gli esami di laboratorio mostrano un criocrito aumentato (è generalmente superiore al
10%). In questi casi la IgM si comporta da crioglobulina (crioglobulinemia di tipo I).
In alcuni casi la IgM da sola è incapace di precipitare a freddo ma, essendo dotata di
spiccata attività reumatoide antigammaglobulinica, reagisce con le IgG circolanti
formando immunocomplessi IgM/IgG che crioprecipitano (macrocrioglobulinemia con
attività di fattore reumatoide: crioglobulinemia mista di tipo II).
Macro-crioagglutininemia
E’ una condizione in cui la componente monoclonale sierica si comporta da
crioagglutinina (attività autoanticorpale antieritrocitaria contro l'antigene eritrocitario I o i).
E’ caratterizzata da crisi emolitiche dopo esposizione al freddo e da crisi di acrocianosi
sino alla necrosi.
Neuropatia periferica demielinizzante
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Il decorso della malattia di Waldenström può essre complicato dall’insorgenza di
neuropatia periferica demielinizzante dovuta ad attività anticorpale della componente
monoclonale contro la Myelin Associated Glycoprotein (MAG) o contro le proteine
filamentose delle cellule di Schwann. Dal punto di vista clinico è caratterizzata da
parestesie agli arti, difficoltà alla deambulazione, polineuropatia motoria e sensoriale. La
diagnosi viene formulata con una biopsia del nervo surale.
Diagnosi
Gli esami da eseguire per un corretto inquadramento di un paziente con malattia di
Waldenström comprendo l’esame emocromocitometrico, che può evidenziare anemia
iporigenerativa e da emodiluizione, il mieloaspirato che dimostra un’infiltrazione variabile
ad opera di elementi linfoidi, con elementi linfoidi che hanno caratteristiche intermedie tra
il piccolo linfocito e la plasmacellula (inclusioni PAS+ intracitoplasmatiche ed
intranucleari) e con incremento delle mastcellule (importante nella diagnosi differenziale
con LNH e mielomi).
La VES è elevata, l’elettroforesi delle sieroproteine e l’immunofissazione sierica
dimostrano una ipergammaglobulinemia monoclonale IgM (> 2 g/dl), di tipo in 2/3 dei
casi. L’immunofissazione delle urine evidenzia proteinuria di Bence Jones nel 10-30% dei
casi. Le alterazioni dell’adesività piastrinica possono causare un allungamento del tempo
di sanguinamento.
L’analisi istopatologica della biopsia linfonodale dimostra un quadro di immmunocitoma
con espansione nella maggior parte dei casi di una popolazione clonale B linfocitaria con
Ig di superficie IgM o IgM- IgD.
Diagnosi differenziale
La malattia di Waldenström devve essere posta in diagnosi differenziale conil linfoma
non-Hodgkin con componente monoclonale IgM, con la leucemia linfatica cronica con
componente monoclonale IgM, con la malattia cronica da crioagglutinine e con le
MGUS a componente monoclonale IgM (queste ultime presentano IgM < 2g/dl; assenza
di anemia e di organomegalie, non sintomi sistemici, quota linfo-plasmacellulare
midollare nella norma o solo modestamente aumentata).
Prognosi
La sopravvivenza mediana dei pazienti affetti da malattia di Waldenström è di 5 anni.
Esistono forme "smouldering", attenuate, a lunga sopravvivenza. Le cause di morte più
frequenti sono la sindrome da iperviscosità, complicanze emorragiche, insufficienza
renale ed amiloidosi, complicanze infettive, trasformazione in linfoma non-Hodgkin ad alto
grado di malignità, trasformazione leucemica (rara)..
Terapia
La terapia ha lo scopo di correggere l'iperviscosità e di bloccare la proliferazione
neoplastica. Per il primo scopo il trattramento di scelta è costituito dalla plasmaferesi. Il
controllo sulla proliferazione è ottenuto generalmente con l’impiego di agenti alchilanti
(clorambucil, ciclofosfamide abbinati corticosteroidi, polichemioterapia tipo linfoma nei
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Amiloidosi
Si tratta di un complesso di patologie caratterizzate da deposizione tessutale di proteine
(sostanza amiloide) che hanno in comune la struttura chimico-fisica fibrillare (a ß foglietti
incrociati), l’aspetto microscopico ialino-amorfo, la birifrangenza verde-mela dopo
colorazione con Rosso Congo, mentre differiscono per alcuni caratteri biochimici.
Patogenesi
Il processo di amiloidogenesi, in tutte le varie condizioni, prevede una adeguata sorgente
di precursori amiloidogenetici (precursori proteici delle fibrille) che può derivare a) da
aumentata sintesi (SAA, catene leggere), b) da sintesi costituitiva (transtiretina non
mutante), c) da sintesi di mutanti (ATTR), d) da un alterato microambiente (alterazione
delle membrane basali con interazione con la proteina amiloidogenetica e conferimento
della struttura fibrillare alla stessa) e, e) da degradazione incompleta del precursore
amiloidogenico da parte del sistema monocito-macrofagico.
Alcune componenti biochimiche comuni si trovano associate alla proteina fibrillare
specifica in tutti i tipi di amiloidosi come la componente P (derivante da una normale
proteina circolante, presente anche nelle membrane basali) e altre componenti delle
membrane basali come laminina, collagene di tipo IV, eparansolfati, apoliproteina E.
L’amiloide si deposita in sede extracellulare lungo le membrane basali sub-endoteliali
degli organi, riproducendo quindi la rete vasculo-stromale dell’organo interessato e
alterandone la funzione o per atrofia delle cellule o per alterata funzione delle membrane
basali.
Classificazione
In base alle caratteristiche chimico-cliniche, si distinguono forme sistemiche e localizzate.
Amiloidosi sistemiche
Amiloidosi in discrasie immunocitiche
La proteina amiloidogenetica è costituita da catene leggere (Amyloid Light: AL) delle
immunogllobuline. Nella maggior parte dei casi (circa il 75%), si tratta di catene leggere di
tipo .
Si realizza nel 5-15% dei casi di mieloma multiplo e, più frequentemente, in corso di
discrasie plasmacellulari senza evidenza di mieloma. Interessa preferenzilamnete cuore,
apparato gastro-intestinale, sistema nervoso centrale, rene, cute, lingua (macroglossia).
Amiloidosi reattiva sistemica
È caratterizzata dal deposito della proteina AA (Amyloid Associated), derivante da un
precursore sierico (SAA) prodotto dal fegato in corso di malattie infiammatorie croniche
(artite reumatoide, spondilite anchilosante, morbo di Crohn, retto-colite ulcerosa), di
neoplasie (carcinoma renale, LH) o di febbre mediterranea familiare (polisierositi
recidivanti). Interessa prevalentemente è rene, fegato, milza, linfonodi, surreni, tiroide
Amiloidosi associata a emodialisi
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Amiloidosi eredo-familiare
È carattrizzata da deposizione, lungo i nervi periferici, di transtiretina (vettore di ormoni
tiroidei e di retinolo) mutante (ATTR)
Amiloidosi senile
È caratterizzta da deposizione sistemica, con particolare interessamento cardiaco di
transtiretina non mutante.
Amiloidosi localizzate
Amiloidosi endocrine
Le proteine amilodogenetiche sono costituite da ormoni polipeptidici o da precursori (es.
pro-calcitonina nel carcinoma midollare della tiroide; polipeptide dell’amiloidosi insulare in
corso di diabete mellito tipo II; fattore natriuretico atriale nell’amiloidosi atriale)
Amiloidosi senile cerebrale
la proteina amiloidogenetica è la ß-amiloide (Aß). Nella malattia di Alzheimer si deposita
nelle placche cerebrali e nei vasi encefalici.
Amiloidosi AL
Epidemiologia
L’amiloidosi AL rappresenta la forma più comune di amiloidosi sistemica nel mondo
occidentale. L’incidenza è di circa 0.5-1 caso per 100.000 persone per anno. L’età
mediana alla diagnosi è di circa 60 anni. Accompagna nel 5-15% dei casi un mieloma
multiplo mentre nella restante percentuale non vi è evidenza di mieloma multiplo (solo
gammopatia monoclonale senza massiva infiltrazione midollare di plasmacellule e senza
lesioni scheletriche).
Esordio clinico
Il paziente affetto da amilodosi AL si rivolge al medico per sintomi correlati agli organi
coinvolti. Va sottolineato che il sospetto diagnostico di amilodosi va posto per ogni
paziente affetto da gammopatia monoclonale non asintomatico.
Infatti il quadro clinico dell’amiloidosi puo’ essere caratterizzato anche da una
sintomatologia aspecifica quali l’astenia e l’affaticabilità. In altri casi i sintomi ed i segni
di presentazione sono riferibili a danno d’organo: cuore (insufficienza congestizia,
aritmie, cardiomiopatia restrittiva), rene (sindrome nefrosica, insufficienza renale),
apparato gastro-intestinale (macroglossia, epatomegalia, malassorbimento), sistema
nervoso (neuropatia autonomica con alterazioni della motilità intestinale, ipotensione
ortostatica; neuropatia sensoriale), cute (porpora, noduli, papule), apparato muscoloscheletrico (sindrome del tunnel carpale, miopatia).
Diagnosi
La diagnosi è basata sulla biopsia (grasso periombelicale, gengiva, retto, rene; midollo
osseo nella AL), con dimostrazione della birifrangenza e identificazione del tipo di
amiloide mediante immuniostochimica.
2006, Fondazione Ferrata Storti. Il contenuto di questa dispensa è fornito a titolo gratuito dalla Fondazione Ferrata Storti. Si
invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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Prognosi
La prognosi dell’amiloidosi è severa. La sopravvivenza mediana dei pazienti con
amiloidosi AL è di 1-3 anni dalla diagnosi.
Terapia
L’obiettivo della terapia consiste nella riduzione del “pool” dei precursori, nell’inibizione
della formazione del nucleo iniziale di amiloidosi, nell’inibizione della interazione con la
membrana basale e nell’accelerata rimozione di amiloide.
Il trattamento iniziale prevede generalmente corticosteroidi ad alte dosi (desametasone).
Nei pazienti di età inferiore a 65 anni sono indicati trattamenti più intensificati che
prevedono la raccolta di cellule staminali emopoietiche ed il trapianto autologo di cellule
staminali periferiche .
E’ attualmente in fase di sperimentazione clinica un derivato della doxorubicina (4’-iodo4’-desosssidoxorubicina), che ha dimostrato un’elevata affinità per le fibrille di amiloide e
ne accelera la rimozione.
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30. Disordini non neoplastici dei granulociti e dei monociti
Definizione
Si tratta di condizioni cliniche caratterizzate o da una riduzione della quantità di neutrofili
e/o monociti nel sangue periferico per ridotta produzione o aumentata distruzione
(granulocitopenie), oppure da alterazioni qualitative consistenti in difetti funzionali,
strutturali o metabolici a carico dei neutrofili (granulocitopatie) o dei monociti
(tesaurismosi).
Granulocitopenie
Definizione
Il termine si applica a condizioni cliniche caratterizzate da un valore di neutrofili nel
sangue periferico pari o inferiore a 2x109/l. Il termine di agranulocitosi si riserva invece a
condizioni più severe caratterizzate da un numero di neutrofili uguale o inferiore a
0.5x109/l.
Patogenesi
Si distinguono forme congenite e forme acquisite. Le granulocitopenie congenite sono
condizioni rare e vengono distinte, in base al decorso clinico, in costanti o cicliche. Le
forme acquisite, più frequenti, possono essere dovute a:
mancata o ridotta produzione di granulociti ad opera di disordini oncoematologici,
agenti citotossici, altri farmaci (cloramfenicolo), reazioni immunitarie, virus;
distruzione dei granulociti circolanti con meccanismi immunitari specifici o non
specifici innescati da virus, farmaci, ecc;
marginazione e sequestro di granulociti per splenomegalia o in corso di epatopatia
cronica
Circostanze della diagnosi e decorso clinico
L’espressione clinica della granulocitopenia è rappresentata dal rischio di contrarre
infezioni, elevato in caso di granulocitopenia è severa (PMN<0.5x109/l) e prolungata.
Nella forme acquisite da difetto di produzione, come i disordini oncoematologici (leucemie
acute, mielodisplasie, etc.), l’anemia aplastica o l’ipoplasia midollare post-chemioterapia,
la granulocitopenia è generalmente associata a riduzione degli eritrociti e delle piastrine
(pancitopenia), ed il quadro clinico è caratterizzato, oltre che dall’eventuale presenza di
infezione, dai sintomi e segni dell’anemia e della piastrinopenia.
Nelle forme acquisite da farmaci, la granulocitopenia è invece generalmente selettiva,
cioè senza coinvolgimento delle altre cellule ematiche.
Diagnosi
L’esame emocromocitometrico mostra una riduzione del valore dei neutrofili, isolata
oppure associata ad una riduzione consensuale degli eritrociti e delle piastrine.
L’esecuzione di un mieloaspirato è essenziale per un corretto inquadramento della
granulocitopenia: è essenziale escludere che essa sia espressione di una leucemia. E’
necessario eseguire indagini volte a stabilire l’esistenza di un’infezione o di una
epatopatia cronica o di un processo autoimmune.
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Terapia
La correzione della neutropenia dipende dalla sua patogenesi. Le forme immuni possono
essere corrette con corticosteroidi. Altre sono corrette con la somministrazione di fattori di
crescita come il G-CSF e il GM-CSF. La terapia delle infezioni richiede la
somministrazione di antibiotici e/o antimicotici.
Granulocitopatie
Si tratta di condizioni clinico-ematologiche caratterizzate da difetti morfologici (anomalia di
Pelger-Huet, malattia di Chediak-Higashi, anomalia di May-Hegglin) o da difetti funzionali
(malattia granulomatosa cronica, deficit di mieloperossidasi) del granulocito.
Malattia di Chediak-Higashi
E’ una condizione patologica caratterizzata dalla presenza di granulopoiesi inefficace
dimostrata da un’iperplasia granuloblastica a livello midollare con granulocitopenia
periferica. I neutrofili presentano granulazioni perossidasi positive dovute alla fusione di
granulazioni azzurrofile e granuli specifici.
Patogenesi
E’ una malattia congenita a trasmissione autosomica recessiva a penetranza variabile
con ridotta risposta allo stimolo chemotattico e mancata attivazione degli enzimi
lisosomiali.
Quadro clinico
Il quadro clinico è principalmente caratterizzato da aumentata suscettibilità alle infezioni,
e da diatesi emorragica dovuta a difetto dell’aggregazione piastrinica In un alta
percentuale di casi nel corso della malattia si osserva comparsa di epatosplenomegalia.
Diagnosi
La diagnosi si basa sull’evidenza di granulociti neutrofili con granulazioni giganti
perossidasi e Sudan positive e PAS negative. Il lisozima è elevato.
Terapia
Non esiste una terapia specifica, ma solo un trattamento di controllo delle infezioni. Nei
casi più gravi può essere indicato un trapianto allogenico di cellule staminali
emopoietiche.
Malattia granulomatosa cronica
E’ una condizione patologica caratterizzata da infezioni ricorrenti per mancata produzione
di anioni superossido e perossido di idrogeno (mancanza dell’esplosione ossidativa) che
sono responsabili dell’azione di killing dei fagociti.
Patogenesi
Una forma ad eredità diaginica (maschi affetti, femmine portatrici) è dovuta alla
mancanza di citocromo b 558, responsabile della produzione di superossido a partire da
NADPH.
Una forma a eredità autosomica è causata dalla mancanza di un’altra proteina citosolica,
responsabile della produzione di superossido.
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Quadro clinico
Il quadro clinico è dominato da infezioni ricorrenti, di gravità variabile, localizzate
soprattutto a livello di cute e polmoni e sostenute da microorganismi catalasi positivi, in
particolare Stafilococco Aureo (50% dei casi), ma anche da funghi e da agenti
opportunistici.
Diagnosi
La diagnosi viene formulata mediante dimostrazione della mancanza dei processi di
esplosione ossidativa mediante test al Nitroblu di Tetrazolio (NBT): nei casi patologici non
si osserva il cambiamento cromatico (da giallo a porpora) del NBT per assenza
dell’anione superossido che determina normalmente la riduzione del NBT stesso.
Terapia
La terapia è principalmente basata sull’impiego di fattori di crescita (G-CSF e GM-CSF)
per ridurre il rischio infettivo. Recentemente è stato applicato il trapianto allogenico di
cellule staminali emopoietiche.
Tesaurismosi
Sono condizioni ereditarie dovute ad un deficit quantitativo o quantitativo degli enzimi che
consentono un rapido catabolismo di sfingolipidi e sfingomieline (costituiti da ceramide e
da zuccheri) con conseguente accumulo di tali composti a livello di vari tessuti. Il danno si
sviluppa in alcuni casi a carico del sistema nervoso centrale, in altri gli effetti patologici
riguardano i monociti-macrofagi che accumulano glicolipidi, infiltrando e danneggiando il
midollo osseo, il fegato, la milza e i linfonodi (malattie di Gaucher e di Nieman-Pick).
Leucocitosi
Il termine leucocitosi definisce un aumento dei leucociti al di sopra di 11 x 109/L. La
leucocitosi è più frequentemente sostenuta da un incremento dei neutrofili circolanti, ma
sono possibili leucocitosi con predominanza di uno dei vari tipi di globuli bianchi circolanti.
Leucocitosi neutrofila (neutrofilia)
Un incremento dei neutrofili circolanti maggiore di 7.5 x109/l è una delle più frequenti
anomalie riscontrate al conteggio dei globuli bianchi e all'osservazione dello striscio di
sangue periferico. Si può osservare in condizioni fisiologiche come esercizio fisico, stress,
in seguito all’uso di alcuni farmaci (adrenalina, corticosteroidi), oppure associata a
malattie infettive (batteri, miceti), infiammatorie (malattie autoimmuni, neoplasie,
ipersensibilità, ischemia acuta).
Dal punto di vista clinico generalmente la neutrofilia è associata ad un quadro clinicolaboratoristico che ne suggerisce l’interpretazione diagnostica (infezioni, neoplasie, infarto
del miocardio, malattie autoimmuni). La conferma diagnostica si avrà dalla remissione
della neutrofilia con la risoluzione della malattia di base. Meno frequentemente risulta un
riscontro occasionale in presenza di un quadro clinico non definito o di non immediata
interpretazione.
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Il procedimento diagnostico deve primariamente differenziare la neutrofilia reattiva dalla
neutrofilia da malattie mieloproliferative croniche (leucemia mieloide cronica,
trombocitemia essenziale, policitemia vera, mielofibrosi idiopatica).
La presenza in circolo di elementi immaturi della serie mieloide (mieloblasti, promielociti,
mielociti, metamielociti), è un segno suggestivo di malattia mieloproliferativa. Bisogna
però sottolineare che si può osservare, raramente, anche in condizioni reattive: la
reazione leucemoide e lo screzio granulo-eritroblastico.
Reazione leucemoide
La reazione leucemoide è una leucocitosi benigna caratterizzata dalla presenza di cellule
immature (blasti, promielociti, mielociti) nel sangue periferico. Benchè la maggior parte
delle reazioni leucemoidi siano sostenute da incremento di granulociti, possono
riscontrarsi reazioni linfocitarie. La maggioranza di queste reazioni si associa a infezioni.
Reazione leucoeritroblastica o screzio granuloeritroblastico
Questa condizione è caratterizzata dalla presenza nel sangue periferico di eritroblasti e di
cellule immature della serie bianca. Essa è di più frequente riscontro in corso di
alterazioni della architettura midollare legate ad infiltrazione midollare.
Leucocitosi eosinofila
Si definisce eosinofilia un numero degli eosinofili circolanti superiore a 0.45 x109/L. si può
riscontrare in corso di ipersensibilità (rinite allergica, asma, dermatite atopica, farmaci),
malattie autoimmuni (connettiviti sistemiche), infezioni (soprattutto parassitarie, ma anche
scarlattina, tubercolosi, aspergillosi), linfomi (linfoma di Hodgkin, linfomi a cellule T).
Queste forme reattive devono essere differenziate dalla eosinofilia che si osserva in
corso di malattie mieloproliferative croniche (principalmente la leucemia mieloide cronica).
La presenza di eosinofilia superiore a 1.5x109/L per almeno 6 mesi, in assenza di cause
di eosinofilia reattiva, associata a sintomi e segni di danno d’organo mediato da eosinofili
(cuore, polmone, sistema nervoso centrale e periferico, cute), definisce la cosidetta
Sindrome ipereosinofila (Hypereosinophilic Syndrome, HES), per una trattazione più
approfondita della quale rimandiamo allo specifico capitolo.
Leucocitosi basofila
Si definisce basofilia un aumento del numero assoluto di basofili superiore a 0.08x109/L.
Bisogna primariamente precisare che l’aumento isolato dei granulociti basofili non
determina aumento del numero assoluto di leucociti, e dunque leucocitosi. Tuttavia, per
quanto un aumento isolato dei basofili possa essere osservato in alcune condizioni non
neoplastiche (ipersensibilità, artrite reumatoide), la causa più frequente di basofilia sono
le malattie mieloproliferative croniche, ed in particolare la leucemia mieloide cronica, che
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Monocitosi
Si definisce monocitosi un numero di monociti superiore a 1.0 x109/L. Può essere
espressione di infezioni (tubercolosi, brucellosi, malaria), malattie infiammatorie
(sarcoidosi, malattia granulomatosa cronica), oppure essere segno di leucemia
mielomonocitica cronica (LMMC). Il procedimento diagnostico di una monocitosi deve
primariamente indagare le possibili cause di monocitosi reattiva. La diagnosi di leucemie
mielomonocitica cronica (per una trattazione dettagliata della quale si rimanda al capito
sulle sindromi mielodisplastiche e i disordini mielodisplastici/mieloproliferativi), in assenza
di alterazioni citogenetiche o midollari, che suggeriscano un processo neoplastico, è
essenzialmente una diagnosi per esclusione.
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31. Fisiopatologia dell’emostasi
Per emostasi si definisce il complesso di eventi fisiologici finalizzati all’arresto delle
emorragie. Il sistema emostatico è costituito dal vaso sanguigno e dalla parete vascolare,
dalle piastrine ed altre cellule ematiche, e da alcune proteine plasmatiche (fattori della
coagulazione, proteine regolatorie della coagulazione).
Nel processo emostatico si distinuguono due fasi distinte, ma strettamente collegate fra
loro: l’emostasi primaria, (cronologicamente più precoce) che consiste nella
vasocostrizione e nella formazione del tappo piastrinico; e l’emostasi secondaria (più
tardiva), che consiste nell’attivazione della coagulazione e nella formazione del reticolo di
fibrina.
Emostasi primaria
Nell’ambito dell’emostasi primaria è possibile individuare diverse fasi: la vasocostrizione
locale, finalizzata a ridurre il flusso e la perdita di sangue a livello dei vasi colpiti,
l’adesione delle piastrine alle fibre di collagene del subendotelio vascolare, l’attivazione
delle piastrine con reazione di rilascio del contenuto dei granuli piastrinici e infine
l’aggregazione piastrinica
Adesione piastrinica
L’adesione piastrinica è mediata dall’interazione tra il collagene ed il recettore Gp Ia-IIa
sulla membrana piastrinica. La stabilizzazione di questa interazione è operata dal Fattore
von Willebrand (vWF), che si lega al recettore piastrinico Gp Ib-IX (CD42a,b) e da altre
adesine (fibronectina, trombospondina).
Attivazione e reazione di rilascio dei granuli piastrinici
L’interazione delle piastrine con il collagene e con diverse sostanze liberate in seguito al
danno vascolare (ADP) induce un processo di attivazione, con alterazioni morfologiche,
strutturali e biochimiche. Se lo stimolo è sufficientemente forte, questi processi
conducono alla reazione di rilascio dei granuli densi con secrezione di ADP, ATP,
serotonina. L’ADP induce a sua volta il rilascio degli -granuli, che contengono proteine
di adesione (fibrinogeno, fibronectina, vWF, trombospondina, vitronectina), modulatori di
crescita (PDGF, TGF- ), fattori della coagulazione. Le sostanze rilasciate stimolano
l’aggregazione piastrinica che diventa irreversibile.
L’attivazione e la secrezione delle piastrine sono finemente regolate (Figura 1). Il legame
di sostanze agoniste (collagene, trombina) ai recettori di superficie delle piastrine attiva
enzimi di membrana (fosfolipasi C e A2) che catalizzano la liberazione di acido
arachidonico dai fosfolipidi di membrana. Un enzima differente (ciclossigenasi, inibito
dall’acido acetilsalicilico e da altri farmaci infiammatori non steroidei) media la formazione
di trombossano A2 dall’acido arachidonico. L’inibizione della sintesi del tromossano A2
rappresenta la base dell’azione di alcuni farmci antiaggreganti.
Un meccanismo omeostatico molto efficiente controlla la velocità e l’entità dell’attivazione
piastrinica. Il trombossano A2 , prodotto dall’acido arachidonico delle piastrine, aumenta
l’attività della fosfolipasi C che a sua volta stimola l’attivazione e la secrezione piastrinica.
Al contrario, la prostaciclina (PGI2), prodotto dell’acido arachidonico delle cellule
endoteliali, inibisce l’attivazione piastrinica.
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Aggregazione piastrinica
L’interazione piastrinica (aggregazione) è mediata principalmente dal fibrinogeno, che si
lega al recettore piastrinico Gp IIb-IIIa (CD41). Nelle fasi iniziali l’aggregazione piastrinica
è reversibile; in seguito alla reazione di rilascio il processo diventa irreversibile.
sub e nd o t e lio
F
VIII
FvW
FvW
FvW
GpIB
P
TERAPIA ANTIAGGREGANTE
PIASTRINICA CON ASPIRINA
(ACIDO ACELTILSALICILICO)
- prevenzione del re-infarto e della
vasculopatia cerebrale.
- bassi dosaggi (75-125 mg) inibiscono la
produzione del tromboxano, ma non della
prostaciclina
AGENTE
AGGREGANTE
AGENTE
Anti-AGGREGANTE
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Emostasi secondaria
L’emostasi secondaria è il complesso delle eazioni enzimatiche finalizzate alla
trasformazione del fibrinogeno plasmatico in fibrina (reticolo di fibrina o tappo
emostatico). Consiste nell’attivazione della cascata della coagulazione, degli inibitori
fisiologici della coagulazione e della fibrinolisi.
Coagulazione
I fattori della coagulazione sono pro-enzimi inattivi in condizioni basali. Vengono attivati in
modo sequenziale in un complesso di reazioni enzimatiche finalizzate a generare
trombina ed a trasformare il fibrinogeno plasmatico in fibrina (cascata coagulativa).
Dal punto di vista bichimico i fattori della coagulazione nella forma inattiva sono proenzini
asingola catena. La loro attivazione avviene mediante un taglio proteolitico parziale, e la
forma attiva è composta da due catene peptidiche, una catena pesante e una catena
leggera, unite tra loro da ponti disolfuro (S-S). Nel sito catalitico (sito attivo) di ciascun
enzima è contenuto l’aminoacido serina, da cui il nome di proteasi seriniche.
Alcuni fattori della coagulazione sono caratterizzati da un dominio ricco in acido carbossiglutammico, che ha la funzione di legare ioni calcio (Ca++). L’ acido carbossiglutammico è ottenuto mediante una reazione di carbossilazione dell’acido
glutammico vitamina K-dipendente. Tali fattori sono definiti vitamina-K dipendenti e sono
il fattore II (protrombina), il fattore VII, il fattore IX, e il fattore X. Anche le proteine C e S
(inibitori della coagulazione) sono vitamina K-dipendenti.
Convenzionalmente si distinguono: una via intrinseca o fase di contatto, una via
estrinseca o tissutale e una via comune e finale.
Nella via intrinseca, tre proteine plasmatiche (il fattore XII o Hageman, il chininogeno ad
elevato peso molecolare (HMWK) e la precallicreina), formano un complesso con il
collagene vascolare subendoteliale; dopo il legame con HMWK il fattore XII viene
trasformato in proteasi attiva che catalizza l’attivazione della precallicreina e del fattore
XI. La callicreina (forma attivata) accelera a sua volta la conversione del fattore IX e del
fattore VIII in forma attivata.
La via estrinseca (fattore VII, fattore tissutale e calcio) rappresenta un secondo sistema
per avviare la coagulazione. Si forma un complesso tra fattore VII, calcio e fattore
tissutae, una lipoproteina ubiquitaria presente nella membrana cellulare ed esposta
dopo una lesione cellulare.
Nella via comune e finale della coagulazione (che comprende il fattore X, fattore V, la
trombina, il fibrinogeno e il fattore XIII), il fattore X è attivato dalle proteasi gnerate nelle
reazioni precedenti (via inrinseca ed estrinseca). Il fattore X attivato nella tappa finale
converte la protrombina in trombina in presenza di fattore V, calcio e fosfolipidi. La
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intervengono nel processo di cross-linking (mediato dal fattore XIII) che genera strutture
di fibrina insolubili.
Inibitori fisiologici della coagulazione
Gli inibitori della coagulazione sono la proteina C, la proteina S e l’antitrombina.
La proteina C viene attivata da un complesso costituito dalla trombomodulina (proteina di
membrana delle cellule endoteliali) e dalla trombina. La proteina C attivata si lega alla
proteina S: il complesso degrada i fattori V e VIII attivati.
L’antitrombina III è un’ 2-globulina che si lega all’eparina ed inattiva i fattori vitamina Kdipendenti ad eccezione del fattore VII (principalmente la trombina ed il fattore Xa).
Fibrinolisi
La fibrinolisi è il sistema deputato alla degradazione del fibrinogeno e della fibrina. La
proteina principale è il plasminogeno che viene attivato a plasmina per intervento
dell’urochinasi o dell’attivatore tessutale del plasminogeno (tPA). Il sistema è inibito
dall’ 2-antiplasmina e dagli inibitori dell’attivatore del plasminogeno (PAI).
La degradazione del fibrinogeno dà origine a diversi peptidi (FDP): frammento X, Y, D, E;
dalla degradazione della fibrina orgina il D-dimero, costituito da 2 frammenti D uniti da
legame isopeptidico covalente (catalizzato dal fattore XIIIa).
Valutazione dell’emostasi
I principali tests di laboratorio per la valutazione dell’emostasi sono indicati nell’elenco
seguente:
conteggio delle piastrine (100-400 x 109/L)
EMOSTASI
tempo di stillicidio o di emorragia (tecnica di Ivy: < 7 min)
APTT, tempo di tromboplastina parziale attivata (25-36”)
PT, tempo di protrombina (tempo di Quick) (11-14”, 70-120%, INR 0,9-1,2)
fibrinogeno (150-350 mg/dL)
FDP (< 10 µg/dL)
FASE
D-dimero (valori normali inferiori a 500 ng/ml)
EMOSTASI
SECONDARIA
Manifestazioni cliniche dei disordini dell’emostasi primaria e secondaria
Manifestazioni cliniche
Emostasi primaria
Emostasi secondaria
Tempo di insorgenza dopo
trauma
Immediata
Ritardata (ore o giorni)
Sede delle emorragie
Superficiale (cute,
mucose)
Profonda (articolazioni,
muscoli)
Reperti obiettivi
Petecchie, ecchimosi
Ematomi
Trattamento
Misure locali
Terapia sistemica
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32. Trombosi venosa profonda ed embolia polmonare
Fattori di rischio trombofilico
Fattori genetici
Sono stati individuati alcuni fattori genetici che predispongono all’insorgenza di trombosi
venosa profonda. Essi sono costituiti dal Deficit di antitrobina III, dal fattore V Leiden,
dalla mutazione G20210A della protrobina, dal deficit di proteina C e S, e
dall’iperomocisteinemia.
Il deficit di antitrombina III è un difetto piuttosto comune: la forma lieve (condizione
eterozigote) ha una prevalenza di 1:2000 individui. I livelli di normalità dell’antitrombina
III plasmatica sono compresi da da 5 a 15 mg/L (50 - 150 %). Il quadro clinico è
caratterizzato da aumenatto rischio di trombosi venose. La diagnosi è basata sul
dosaggio dell’attività dell’ATIII. Nei soggetti con deficit è necessario evitare altri fattori di
rischio trombotici (fumo, estro-progestinici etc).
Il fattore V Leiden è caratterizzato da una mutazione missense G1691 A che causa la
sostituzione di una arginina in glutamina alla posizione 506. La posizione 506 è nel sito di
clivaggio del fattore V e la sostituzione dell’acido glutammico con l’arginina rende il fattore
V meno attaccabile e meno inattivabile da parte della proteina C attivata.
Dal punto di vista clinico è caratterizzato da un aumentato rischio di trombosi venosa
profonda, che negli eterozigoti è di 7-8 volte superiore al normale, mentre negli omozigoti
di 40-80 volte il normale. Alcuni fattori di rischio possono aumentare il rischio di trombosi:
pillola estro-progestinica, fumo, lunghi viaggi aerei, allettamento, piccola chirurgia.
La diagnosi viene formulata mediante il test della proteina C attivata, che consiste
nell’aggiunta di proteina C attivata ad un campione di plasma per un test APTT: la
risposta normale è un allungamento dell’APTT.
La variante G20210A della protrombina è un esempio di patologia della traduzione
dell’mRNA. La mutazione G20210 A interessa la regione 3’ non tradotta del gene, che
determina verosimilmente maggior stabilità e traduzione dell’mRNA. Questo comporta
una protrombinemia ai limiti superiori della norma (superiore alla media) con rischio
aumentato di complicanze trombotiche venose ed arteriose.
Infine tra le condizioni ereditarie rare di predisposizione alla trombosi vanno menzionate il
deficit di proteina C e di proteina S della coagulazione e l’iperomocisteinemia.
Quest’ultima è sostenuta più frequentemente da un deficit di 5,10-metilen-tetraidrofolato
reduttasi, enzima coinvolto nella sintesi del 5-metilen-tetraidrofolato, cofattore della
trasformazione dell’omocisteina in metionina. E’ un fattore di rischio allo sviluppo di
trombosi venose e arteriose.
Fattori acquisiti
Le condizioni acquisite di predisposizione alla trombosi comprendono situazioni di tipo
carenziali attraverso il meccanismo della moderata iperomocisteinemia: la carenza di
vitamina B12, la carenza di acido folico, la carenza di vitamina B6.
Di questo gruppo di disordini fa parte inoltre la sindrome da anticorpi antifosfolipidi E’ una
condizione patologica caratterizzata dalla comparsa di anticorpi anticardiolipina,
anticoagulante tipo lupus, che insorge in soggetti con lupus erythematosus o altra
condizione autoimmune. Dal punto di vista clinico questa sindrome è caratterizzata da
complicanze trombotiche venose ed arteriose, con frequente anamnesi di aborti ripetuti,
piastrinopenia ed allungamento dell’aPTT (per inibizione dei complessi fosfolipidici
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necessari per l’attivazione dei fattori V, X, II, da cui la definizione di “anticoagulante”
assegnata all’anticorpo tipo lupus). La diagnosi si basa sulla ricerca degli anticorpi
antifosfolipidi. Nei soggetti asintomatici è necessaria la prevenzione di eventuali fattori di
rischio trombotico aggiuntivi, oltre che il trattamento della malattia di base.
Trombosi venosa profonda
Definizione
La trombosi venosa profonda è una trombosi che interessa una delle seguenti vene del
distretto circolatorio profondo: iliaca, femorale, poplitea.
Patogenesi
Sono stati individuati diversi fattori predisponenti allo sviluppo di trombosi venosa
profonda, che possiamo così schematizzare:
difetti genetici (deficit di antitrombina III, fattore V Leiden, variante G20210A della
protrombina, deficit di proteina C, deficit di proteina S, iperomocisteinemia);
carenza di folati e/o di vit B12 ed iperomocisteinemia secondaria;
farmaci (estrogeni)
agenti chimici (fumo);
interventi chirurgico che comporta prolungata immobilizzazione a letto (ortopedico,
ginecologico, urologico, etc);
traumi (frattura di bacino, femore, tibia);
immobilizzazione per malattia (infarto, etc);
neoplasia (carcinomi);
malattie autoimmunitarie (anticorpi antifosfolipidi), malattie mieloproliferative, EPN
Quadro clinico
La trombosi venosa profonda si presenta generalmente con arrossamento, edema,
dolorabilità unilaterale di un arto. Se compare cianosi locale si delinea il quadro della
phlegmasia cerulea dolens; se prevale il pallore da edema marcato si ha il quadro di
phlegmasia alba dolens.
Diagnosi
La diagnosi è basata oltre che sul quadro clinico, sull’eco-doppler dei vasi venosi profondi
e sul dosaggio del D-dimero plasmatico, prodotto di degradazione della fibrina dovuto
all’azione della plasmina.
Terapia
Il trattamento della trombosi venosa profonda è basato sull’uso di anticoagulanti: eparina
sodica endovena (il cui dosaggio viene modulato in base all’aPTT), oppure eparina a
basso peso molecolare sottocute (dosata sul peso corporeo), e dicumarinici (con
dosaggio modulato sulla base del tempo di Quick, INR).
Lo schema di trattamento prevede alla diagnosi l’impiego di eparina a basso peso
molecolare sottocute associata a dicumarinico. Quindi, quando l’INR è stabilmente tra 2 e
3, l’ eparina viene sospesa ed il trattamento viene proseguito con il solo dicumarinico.
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Complicanze
Una complicanza temibile della trombosi venosa profonda è l’embolia polmonare. Dal
punto di vista clinico l’emoblia polmonare massiva si manifesta con dolore toracico,
tachipnea, tachicardia, cianosi. La diagnosi è basata sulla scintigrafia polmonare con
doppio mezzo di contrasto o TAC spirale. La terapia prevede l’impiego di anticoagulanti o
in caso di embolia polmonare massiva agenti trombolitici (streptochinasi, urochinasi, tPA).
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33. Piastrine, piastrinosi e piastrinopenia
Piastrine: distribuzione ed omeostasi
Circa 2/3 delle piastrine si trova in circolo, dove hanno una vita media di 7-10 giorni; i
valori normali sono compresi tra 100 e 400 x 109/L. Il restante 1/3 delle piastrine si trova
nella milza (pool splenico).
La produzione di piastrine è regolata principalmente dalla trombopoietina (TPO), una
proteina del peso molecolare di 31-35 kD, il gene che codifica per la quale è mappato alla
regione 3q26-28. Il recettore per la trombopoietina è codificato dal gene c-mpl
(myeloproliferative leukemia), espresso sulle cellule cellule staminali emopoietiche CD34
positive.
La trombopoietina è prodotta principalmente dal fegato e in misura minore dal rene. La
produzione di TPO è costante; il livello di ormone in circolo sembra essere regolato dal
legame della proteina alle piastrine. In caso di piastrinopenia, si riduce la quota legata alle
piastrine ed aumenta la concentrazione di TPO libera; in caso di piastrinosi aumenta la
massa piastrinica (e conseguentemente la quota di ormone ad essa legata), e si riduce la
concentrazione plasmatica di TPO. La trombopoietina stimola in vitro la crescita di CFUMK e megacariociti.
Hematopoietic growth factor production:
Constitutive synthesis and variable
consumption
TPO
k
TPO
producing
cell
Piastrinosi o trombocitosi
Si definisce piastrinosi o trombocitosi una condizione patologica caratterizzate da un
numero di piastrine superiore a 400x109/l. Dal punto di vista patogenetico si distinguono:
trombocitosi secondarie:
- infiammazione sistemica (infezioni,neoplasie) (TPO proteina di fase acuta, IL-6 e IL11 agiscono come fattori di crescita e differenziazione dei megacariociti)
- carenza di ferro
- splenectomia
- emorragia acuta
- interventi chirurgicic e traumi
- parto
trombocitosi primitive:
- malattie mieloproliferative (trombocitemia essenziale, policitemia vera, leucemia
mieloide cronica, mielofibrosi idiopatica)
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Piastrinopenia o trombocitopenia
Si definisce piastrinopenia o trombocitopenia una condizione patologica caratterizzata da
un numero di piastrine inferiore a 100 x 109/L (100-150 x 109/L: valori borderline).
Dal punto di vista patogenetico possiamo distinguere piastrinopenia da:
deficitaria produzione piastrinica (aplasia midollare, anemie megaloblastiche, sindromi
mielodisplastiche, leucemie acute, infiltrazione midollare)
sequestro splenico (epatopatia cronica)
piastrinopenie da aumentata distruzione piastrinica (porpora idiopatica
trombocitopenica, coagulazione intravascolare disseminata, porpora trombotica
trombocitopenica, infezione da HIV, altre condizioni più rare)
farmaci
Un ridotto conteggio piastrinico può essere sostenuto inoltre da un artefatto di laboratorio.
Gli strumenti automatici contano le piastrine in base al volume cellulare (metodo
impedenzometrico); la formazione di aggregati piastrinici (o di piastrine giganti) può
determinare una pseudopiastrinopenia.
La causa più frequente è l’aggregazione piastrinica sostenuta da autoanticorpi
antipiastrine che legano l’antigene solo in presenza di EDTA (l’anticogulante
normalmente utilizzato per l’esame emocromocitometrico). La valutazione della curva di
distribuzione del volume piastrinico (oggi fornita dalla maggior parte dei contaglobuli
automatici) consente di sospettare questa evenienza.
Porpora trombocitopenica idiopatica (morbo di Werlhof)
Definizione
La porpora trombocitopenica idiopatica è una piastrinopenia acquisita primitiva
caratterizzata da distruzione piastrinica su base immunologica sostenuta da anticorpi
diretti contro antigeni associati alle piastrine.
Epidemiologia
È la più frequente delle malattie emorragiche. Colpisce prevalentemente soggetti di età
giovane, tra i 20 e i 40 anni, con netta prevalenza per il sesso femminile (rapporto
maschi/femmine = 3:1).
Patogenesi
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Nel bambino l’insorgenza di porpora trombocitopenica idiopatica è secondaria infezioni
virali; il decorso è acuto e nella maggior parte dei casi è autolimitante: il 60% dei casi
guarisce in 6 settimane, il 90% entro 6 mesi.
Nell’adulto la forma acuta è meno frequente; più tipicamente il decorso è cronico, con
netta prevalenza del sesso femminile.
Diagnosi:
Il corretto inquadramento del paziente con morbo di Werlhof comprende l’aspirato
midollare, che dimostra un aumentato numero di megacariociti (tentativo di
compensazione dell’aumentata distruzione periferica); la ricerca di anticorpi antinucleo ed
anti-DNA per escludere che la piastrinopenia sia espressione di lupus erytematosus
sistemico o di altra condizione autoimmune ed il test per HIV, responsabile di
piastrinopenia da aumentata distruzione periferica.
Terapia
La terapia della porpora trombocitopenica idiopatica prevede l’impiego di cortisone
(prednisone:1 mg/kg/die per 4-6 settimane).
Nei pazienti non responsivi al cortisone, o nei soggetti che non mantengono la risposta
clinica con la riduzione della posologia dello steroide, la terapia di seconda linea consiste
nella splenectomia.
Nei pazienti non responsivi con valori piastrinici superiori a 20 x 109/L è indicata la sola
osservazione; in caso contrario si ricorre a terapia immunosoppressiva (ciclofosfamide,
azatioprina). La terapia trasfusionale è indicata soltanto in caso di emorragia grave;
alternativamente è possibile impiegare Ig endovena ad alte dosi (400 mg/kg/die).
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34. Porpora trombotica trombocitopenica (sindrome di Moschowitz)
Patogenesi
Il fattore di von Willebrand è sintetizzato dai megacariociti e dalle cellule endoteliali in
forma di multimero ad alto peso molecolare, ma nel plasma si trova in forma di multimeri
con peso molecolare compreso tra 500 e 10.000 kD.
Un importante meccanismo di depolimerizazione dei multimeri più grandi è la proteolisi
da parte di proteasi presenti nel plasma, appartenenti alla famiglia di metalloproteinasi
ADAMTS (a disintegrin and metalloproteinase with thrombospondin type I motif) (Blood,
15 September 2001, Vol. 98, No. 6, pp. 1662-1666).
cellula endoteliale
multimeri di Fattore von Willebrand ad elevato peso molecolare ( > 106 kD)
(depolimerasi ADAMTS13)
fattore von Willebrand di peso molecolare normale (centinaia di migliaia)
Fisiopatologia
Recentemente sono state evidenziate in famiglie con PTT congenita mutazioni a carico
del gene ADAMTS13 mappato sul cromosoma 9q34. Questo suggerisce che la proteolisi
fisiologica del vWF e/o di altri substrati di ADAMTS13 è necessaria per la normale
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Quadro clinico
Il paziente "tipico" è un giovane adulto che va dal medico per comparsa di:
febbre (98% dei casi)
anemia emolitica intravascolare (96% dei casi)
manifestazioni emorragiche con piastrinopenia (96% dei casi)
manifestazioni neurologiche (obnubilamento del sensorio o delirio, cefalea, paralisi di
nervi cranici, emiparesi, afasia, disturbi visivi, convulsioni, coma) (92% dei casi)
segni di insufficienza renale (88 % dei casi)
ittero (42%)
Diagnosi
Gli esami di laboratorio in un paziente con porpora trombotica trombocitopenica
dimostrano:
anemia (7-8 g/dl) con reticolocitosi
schistociti (eritrociti frammentati) allo striscio di sangue periferico
segni di emolisi intravascolare (iperbilirubinemia indiretta, aumento dell’LDH, riduzione
dell’aptoglobina, emosiderinuria)
piastrinopenia (10-30 x 109/L)
insufficienza renale
test della coagulazione nella norma o borderline
Terapia
Il trattamento della porpora trombotica trombocitopenica è la plasmaferesi che consente
di rimuove i multimeri di FvW ad alto peso molecolare.
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35. Malattia di von Willebrand
Patogenesi
La malattia è stata descritta per la prima volta da Erik von Willebrand, un medico
finlandese, nel 1926. (von Willebrand EA. Hereditar pseudohemofili. Fin Laekaresaellsk
Hand 1926; 68:87-112).
Oggi sono noti diversi sottotipi di malattia di von Willebrand, causati da varie mutazioni
del gene del fattore von Willebrand (FvW). Tali mutazioni sono state registrate in un
database consultabile online (http://mmg2.im.med.umich.edu/vWF/).
La classificazione genetico-clinica della malattia di von Willebrand distingue tre forme: il
tipo 1, caratterizzato da un deficit quantitativo parziale del FvW, con trasmissione
autosomica dominante; il tipo 2, nel quale si osserva un deficit qualitativo del FvW,
trasmesso come carattere autosomico dominante, ed il tipo 3, caratterizzato dall’assenza
pressoché completa del FvW, a trasmissione autosomica semidominante.
Malattia di von Willebrand tipo I
Epidemiologia
Il tipo 1 rappresenta circa il 70% dei casi di malattia di von Willebrand. La malattia
presenta un ampio spettro di severità clinica; conseguentemente una corretta stima della
prevalenza nella popolazione non è agevole, e varia in funzione dei parametri diagnostici
utilizzati. Una stima plausibile della prevalenza nella popolazione può essere considerata
da 1:800 a 1:1.000.
Patogenesi
La malattia è caratterizzata da deficit quantitativo parziale del fattore di von Willebrand,
che si trasmette come carattere autosomico dominante.
Quadro clinico
Il paziente si presenta con manifestazioni emorragiche a livello dei tessuti superficiali
(cute e mucose). Il quadro clinico può essere caratterizzato da epistassi, anche tale da
sostenere anemia emorragica, porpora cutaneo-mucosa, meno-metrorragie, che
rappresentano il sintomo principale nelle donne, prolungato sanguinamento dopo ferite
lievi cutanee o mucose, facile sanguinamento del cavo orale in seguito a piccoli traumi,
gravi emorragie dopo avulsioni dentarie, o interventi chirurgici quali tonsillectomia o
adenoidectomia, emorragie gastrointestinali (più raramente).
Diagnosi
Le indagini di laboratorio dimostrano un allungamento del tempo di stillicidio, un
allungamento dell’aPTT causato da una diminuita attività del fattore VIII, per il quale il
fattore von Willebrand funge da carrier, una diminuita concentrazione plasmatica di
FvWAg (intervallo di normalità da 5 a 15 mg/L), una diminuita attività di cofattore della
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ristocetina, che si evidenzia con una riduzione dell’agglutinazione e dell’aggregazione
piastrinica dopo aggiunta di risotcetina. Queste alterazioni si associano ad una normale
distribuzione dei multimeri del fattore di von Willebrand all'elettroforesi in SDS-agarosio.
Terapia
Il trattamento della malattia di von Willebrand di tipo I è basato sull’impiego di
crioprecipitato plasmatico contenente fattore VIII e fattore di von Willebrand, e sull’uso di
1-desamino-8-D-arginina vasopressina (DDAVP), che induce rilascio di fattore di von
Willebrand da parte delle cellule endoteliali.
Malattia di von Willebrand tipo II
Patogenesi
La malattia è caratterizzata da deficit qualitativo del FvW. Si identificano principalmente 4
sottotipi: IIA, IIB, IIM, IIN.
Tipo IIA.
Varie mutazioni del gene riducono la capacità del fattore di von Willebrand di formare
multimeri o accelerano la degradazione dei multimeri ad alto peso molecolare. Ne
consegue una ridotta adesione delle piastrine al subendotelio con manifestazioni
emorragiche. La trasmissione è autosomica dominante.
La concentrazione di FvWAg e di FVIII sono normali o ridotte, mentre l’attività del FvW
come cofattore della ristocetina è marcatamente ridotta; l'elettroforesi in SDS-agarosio
dimostra alterata distribuzione dei multimeri del FvW.
Tipo IIB
Mutazioni del gene aumentano l'affinità dei multimeri ad elevato peso molecolare del
FvW per il recettore piastrinico GpIb: i complessi piastrine-FvW vengono rapidamente
rimossi dai macrofagi. La trasmissione è autosomica dominante. Dal punto di vista clinico
si osserva una ridotta concentrazione di FvWAg, una alterata distribuzione dei multimeri
all'elettroforesi in SDS-agarosio e piastrinopenia.
Tipo IIM
Comprende varianti caratterizzate da una riduzione dell’affinità per il recettore piastrinico
GpIb. LA trasmissione è autosomica dominante. Si osserva normale distribuzione dei
multimeri all'elettroforesi in SDS-agarosio.
Tipo IIN
Questa variante è caratterizzata da mutazioni del gene che riducono l’affinità del FvW per
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Malattia di von Willebrand di tipo piastrinico
La malattia di von Willebrand di tipo piastrinico o pseudo-von Willebrand è un disordine
delle piastrine caratterizzato da mutazione del gene che codifica per il recettore del FvW,
GpIb, che comporta un’aumentata affinità per il FvW. Dal punto di vista fenotipico il
quadro è simile alla malattia di von Willebrand tipo IIB: si osserva ridotta concentrazione
di FvWAg, alterata distribuzione dei multimeri all'elettroforesi in SDS-agarosio,
piastrinopenia. Il tipo piastrinico può essere distinto dal tipo IIB mediante aggiunta di
crioprecipitato umano normale alle piastrine del paziente: nella malattia di tipo piastrinico
il crioprecipitato induce aggregazione; viceversa nella malattia di tipo IIB questo non
avviene.
Malattia di von Willebrand tipo III
La prevalenza della malattia di von Willebrand tipo III è di circa 1:1.000.000. E’
caratterizzata da assenza pressoché completa del FvW: i pazienti sono omozigoti o
doppi eterozigoti per mutazioni responsabili della malattia di von Willebrand di tipo I.
Le manifestazioni cliniche sono costituite da gravi emorragie cutaneo-mucose, e da
occasionali emartri ed ematomi muscolari per carenza di F VIII. Gli esami di laboratorio
mostrano livelli di FvWAg quasi indosabili e riduzione del F VIII.
Malattia di von Willebrand acquisita
Sono note forme di malattia di von Willebrand acquisite. Sono riconosciuti due differenti
meccanismi patogenetici: la presenza di autoanticorpi anti-FvW che può essere
riscontrata nel corso di patologie autoimmuni (LES) e il consumo di multimeri di FvW da
parte di cellule neoplastiche (macroglobulinemia di Waldenstrom ed altri linfomi, tumore
di Wilms).
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36. Emofilia A
Definizione
L’emofilia è una malattia ereditaria dovuta ad una produzione deficitaria o nulla di fattore
VIII della coagulazione, ed avente quale base molecolare una lesione (mutazioni
puntiformi, delezioni, etc.) del gene corrispondente.
Epidemiologia
La prevalenza dell’emofilia A è di 1 maschio su 5.000-10.000 e di 1 femmina su 25.000100.000. La trasmissione del difetto è di tipo recessivo legato al sesso (figura 1).
Figura 1 – Albero genealogico esemplificativo di trasmissione dell’emofilia
XY
XY
XY
XX
¶
XX
¶
XY
XY
¶
XX
XX
¶
XX
¶
XY
¶
XX
XY
Patogenesi
Il fattore VIII è prodotto prevalentemente dagli epatociti. E’ un cofattore della
coagulazione, che accelera l’attivazione del fattore X da parte del fattore IXa.
Il gene del Fattore VIII è mappato sul cromosoma Xq28; è uno dei più grandi geni umani:
186 kb, 26 esoni; l’RNA messaggero misura 9 kb, la proteina ha un peso molecolare di
300 kD. E’ espresso soprattutto nel fegato, in misura minore in cellule ematiche.
Nel 55% dei casi gravi la lesione del gene consiste in una mutazione puntiforme (223
descritte finora) o in una delezione (78 descritte finora).
Secondo l’ipotesi di Haldane, nella malattia legata al cromosoma X, un terzo di
cromosomi X patologici sono nei maschi, e due terzi nelle femmine. Se la malattia è
grave, o comunque limitante la capacità di procreare, la frequenza di cromosomi X
patologici nella popolazione dovrebbe diminuire.
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La frequenza dell’emofilia A invece non tende a ridursi, e questo si verifica se
intervengono di mutazioni geniche “de novo”. In effetti, il 20% dei casi di emofilia A (40%
dei casi gravi) non ha un’anamnesi familiare positiva per emofilia.
La mutazione de novo consiste nell’inversione dell’introne 22 del gene del fattore VIII, che
determina ricombinazione genetica intracromosomica fra sequenze dell’introne 22 e
sequenze omologhe situate al di fuori del gene, all’estremità telomerica del cromosoma X
(Figura 2). Il gene riarrangiato codifica per un fattore VIII troncato (22/26 esoni), instabile
e rapidamente degradato.
Figura 2 - Inversione dell’introne 22 del gene del fattore VIII.
Te
1
22
22
Te
22
1
Le inversioni originano pressoché esclusivamente nelle meiosi maschili, in quanto
l’appaiamento fra cromosoma X e cromosoma Y non è ottimale per un’ampia zona di
non omologia.
XY
XY
XX
XY
XX
¶
XX
¶
XY
XY
XY
¶
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Quadro clinico
La gravità delle manifestazioni emorragiche dell’emofilia A può essere prevista con una
certa accuratezza determinando l’attività residua di Fattore VIII.
Nel caso in cui l’attività sia inferiore al 2% l’emofilia si definisce grave. In questa categoria
rientra circa il 50% dei casi. Se l’attività residua di Fattore VIII è pari al 2-5% si osserva
un quadro di emofilia moderata, che interessa circa il 15% degli emofilici. In presenza di
un’attività di Fattore VIII del 6-30% il quadro clinico si definisce lieve (circa il 35% degli
pazienti rientra in questa categoria).
Le manifestazioni cliniche di emofilia sono principalmente rappresentate da emorragie
profonde, articolari, muscolari e delle cavità corporee, che si verificano a distanza di ore o
giorni dal trauma.
Nei soggetti con emofilia grave, generalmente le prime emorragie compaiono tra i 12 e 18
mesi. Le complicanze emorragiche del neonato (ematoma cefalico, emorragia dopo
circoncisione) non sono frequenti. Questi pazienti vanno incontro mediamente a 20-30
episodi all’anno di emorragie spontanee o dopo traumi minori.
Nei soggetti con forma moderata le prime manifestazioni sono riscontrabili a 2-5 anni di
età, mentre i pazienti con emofilia lieve generalmente sanguinano eccessivamente solo
dopo traumi o interventi chirurgici.
Il decorso clinico del paziente emofilico può essere complicato dalla formazione di
raccolte di sangue parzialmente coagulato (pseudotumori), da un danno articolare
progressivo fino all’anchilosi, come conseguenza di emartri ripetuti, da necrosi
muscolare, e da danni ischemici a carico di nervi periferici (nervo femorale)
Diagnosi
Gli esami di laboratorio sono caratterizzati da un allungamento del PTT. Il dosaggio del
fattore VIII dimostra una riduzione variabile dell’attività (% dell’attività di un plasma
normale di controllo - valori normali: 50-150%).
Mediante amplificazione con polymerase chain reaction e sequenza del DNA è possibile
ottenere la definizione del difetto genico.
Terapia
La terapia dell’emofilia A è basata sulla prevenzione e sul trattamento precoce delle
manifestazioni emorragiche, mediante somministrazione di fattore VIII.
A partire dagli anni Settanta, la disponibilità di concentrati plasmatici di fattori della
coagulazione ha permesso il controllo precoce delle emorragie, nonché la riduzione e la
prevenzione delle complicanze della malattia. Tuttavia, questi concentrati plasmatici
risultarono invariabilmente contaminati da HBV, HCV ed HIV.
Per ovviare a questa temibile complicanza, sono stati introdotti liofilizzati di concentrati di
Fattore VIII inattivati al calore, e, più recentemente, il Fattore VIII ricombinante.
Una unità di Fattore VIII per Kg di peso corporeo, pari al F VIII presente in 1 ml di plasma,
aumenta del 2% l’attività del Fattore VIII. Il controllo di complicanze emorragiche lievi può
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210
Una delle maggiori problematiche nel trattamento dell’emofilia è lo sviluppo di inibitori del
Fattore VIII (tipicamente anticorpi IgG), che neutralizzano l’effetto della terapia sostitutiva.
In presenza di un basso titolo di anticorpi inibenti, la terapia del paziente che ha
sviluppato inibitori consiste nell’aumentare la dose di FVIII fino alla saturazione dei siti di
legame degli anticorpi inibitori. In presenza di un alto titolo anticorpale, si può ricorrere
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37. Coagulopatie acquisite
Nella pratica clinica le coagulopatie acquisite sono condizioni più frequenti di quelle
congenite. Da queste ultime si differenziano anche per il fatto che in genere sono
implicati deficit multipli di fattori della coagulazione.
I disordini di più frequente osservazione sono le manifestazioni emorragiche in corso di
epatopatia, le emorragie da carenza di vitamina K o da sovradosaggio di farmaci
anticoagulanti e la coagulazione intravascolare disseminata.
Epatopatia
In corso di epatopatia, il difetto coagulativo ha generalmente una patogenesi
multifattoriale, che coinvolge una ridotta sintesi di fattori della coagulazione ed una
deficitaria clearance di fattori della coagulazione attivati. Questa situazione può essere
inoltre complicata dall’insorgenza di coagulazione intravascolare disseminata (DIC),
favorita dal deficit di inibitori della coagulazione (antitrombina III, proteina C e proteina S)
e di fattori del sistema fibrinolitico (plasminogeno e inibitori). Il deficit dell’emostasi può
essere inoltre aggravato dalla presenza di piastrinopenia da ipersplenismo. I pazienti
epatopatici sono per questo esposti a complicanze emorragiche, le più frequenti delle
quali sono le emorragie da rottura di varici esofagee o da gastropatia ipertensiva. In caso
di rottura di varici l’intervento terapeutico deve essere indirizzato a correggere
l’ipovolemia e la carenza di fattori della coagulazione mediante concentrati eritrocitari e
plasma fresco congelato, ridurre l'ipertensione portale mediante somministrazione di
octreotide (analogo della somatostatina) ed arrestare localmente l’emorragia: sclerosi
delle varici mediante esofago-gastroscopia o posizionamento di sonda di Blackmore.
Carenza di fattori vitamina K-dipendenti
Alcuni fattori della coagulazione sono caratterizzati da un dominio ricco in acido carbossiglutammico, che ha la funzione di legare Ca++, sintetizzato mediante una
reazione di carbossilazione dell’acido glutammico vitamina K-dipendente. Tali fattori,
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invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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In alcune condizioni vi è un elevato rischio di sviluppare una coagulopatia da deficit di
vitamina K. Queste comprendono la nascita ed in particolare la prematurità, il
malassorbimento (sprue, celiachia), l’ostruzione biliare (interferenza con l’assorbimento di
vitamine liposolubili) ed il sovradosaggio di farmaci anticoagulanti.
Un deficit di vitamina K si riscontra nel neonato anche in condizioni fisiologiche. Tuttavia
non è generalmente tale da determinare diatesi emorragica. In ogni caso, è indicato
eseguire nei primi giorni di vita, in tutti i neonati, profilassi con vitamina K (1-2 mg per os).
In condizioni di prematurità, il deficit di vitamina K è più grave, a causa dell’immaturità
degli epatociti e della deficitaria sintesi di vitamina K a livello intestinale, e si manifesta
con la malattia emorragica del neonato, caratterizzata dal 2°-3° giorno di vita da
emorragie cutaneo-mucose. In questi casi la somministrazione endovenosa di vitamina K
determina una rapido incremento dei fattori della coagulazione vitamina K-dipedenti.
Alcuni composti farmacologici (dicumarinici) agiscono come antagonisti della vitamina K
ed hanno pertanto attività anticoagulante. Il più importante antagonista della vitamina K
è la warfarina sodica, che inibisce la -carbossilazione delle proteine. Il farmaco non ha
immediato effetto anticoagulante, ma richiede generalmente 4-5 giorni di
somministrazione. In alcuni pazienti che iniziano il trattamento anticoagulante con
antagonisti della vitamina K si può instaurare un deficit transitorio di proteina C
(anch’essa vitamina K-dipendente) prima che si abbassi il livello dei fattori della
coagulazione vitamina K-dipendenti, con comparsa di lesioni simili a quelle del deficit di
proteina C (trombosi superficiali con lesioni necrotiche della cute). Il sovradosaggio di
farmaci anticoagulanti antagonisti della vitamina K comporta un deficit marcato dei fattori
II, VII, IX e X, con manifestazioni variabili da soffusioni emorragiche della cutanee a gravi
emorragie interne. In questi casi la terapia è basata sulla sospensione immediata del
farmaco anticoagulante e sulla somministrazione di vitamina K.
Coagulazione intravascolare disseminata
La coagulazione intravascolare disseminata è una condizione patologica a decorso
variabile, da acuto a cronico, caratterizzata da generazione eccessiva e non regolata di
trombina con consumo dei fattori della coagulazione.
Patogenesi
La coagulazione intravascolare disseminata è associata a diversi disordini, come sepsi,
prevalentemente da Gram -, gravi sindromi ostetriche (abruptio placentae, ritenzione
della placenta, morte intrauterina del feto, eclampsia, embolia di liquido amniotico),
neoplasie metastatizzate (adenocarcinoma gastrico producente mucina), leucemia acuta
promielocitica, danno tissutale esteso (ustioni, necrosi, traumi, interventi chirurgici),
danno endoteliale (aneurisma dell'aorta, vasculiti, malformazioni vascolari quali la
sindrome di Kasabach-Merritt).
Tutte queste condizioni determiano l’attivazione impropria della cascata della
coagulazione con eccessiva generazione di trombina e formazione di depositi di fibrina e
di microtrombi nel microcircolo (Figura 1). Il risultato è un progressivo consumo di fattori
della coagulazione e di piastrine, ed una intensa fibrinolisi, che determinano l’insorgenza
di manifestazioni emorragiche. Soltanto raramente il processo si associa a manifestazioni
ischemiche da occlusione arteriosa.
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Nei casi più gravi, con diffuso interessamento del microcircolo, si osserva emolisi
meccanica, con formazione di schistociti (globuli rossi frammentati) e comparsa di segni
di laboratorio di anemia emolitica intravascolare.
Circostanze della diagnosi
Nei pazienti con neoplasia metastatica, la coagulazione intravascolare disseminata è
generalmente caratterizzata dalla presenza di segni di laboratorio, senza manifestazioni
cliniche (siamo cioè di fronte ad un fenomeno subclinico).
Nei pazienti con sepsi o nelle donne con complicanze ostetriche, il processo è invece
generalmente associato a manifestazioni emorragiche cutaneo-mucose ed in
corrispondenza di incisioni chirurgiche ed accessi venosi. In rari casi, il quadro clinico può
essere dominato dall’insorgenza di complicanze trombotiche, che coinvolgono
principalmente i distretti apicali, con acrocianosi e necrosi ischemica.
Esami di laboratorio
Le indagini per la diagnosi e la valutazione del paziente con coagulazione intravascolare
disseminata comprendono l’esame emocromocitometrico, lo striscio di sangue periferico,
i test di screening della coagulazione (protrombinemia, tempo di Quick, aPTT), il
dosaggio del fibrinogeno e degli FDP.
Tipicamente si osserva un allungamento del tempo di Quick (INR) e dell’aPTT, un
aumento degli FDP, ed una diminuzione del fibrinogeno, che peraltro ha un significato
prognostico importante in quanto correla con l'entità delle manifestazioni emorragiche.
Si potranno inoltre osservare piastrinopenia, anemia emolitica intravascolare (quindi con
conteggio reticolocitario adeguato per il grado di anemia, ipebilirubinemia indiretta,
aumento dell’LDH, riduzione dell’aptoglobina, emosiderinuria ed emoglobinuria) e la
presenza di schistociti (eritrociti frammentati) nello striscio di sangue periferico.
Terapia
La terapia della coagulazione intravascolare disseminata prevede primariamente il
trattamento della causa, laddove possibile, associato a somministrazione di plasma
fresco congelato e trasfusioni piastriniche. L’eparina è indicata soltanto quando
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38. I gruppi sanguingi
I gruppi sanguigni sono sistemi di antigeni presenti sulla superficie dei globuli rossi e di
altre cellule ma anche nelle secrezioni esterne come saliva e latte. Si conoscono 19
gruppi sanguigni; fra questi prenderemo in considerazione maggiore i due principali, vale
a dire il sistema ABO e il sistema Rh e faremo un accenno ad alcuni dei gruppi minori :
sistema P, sistema I, sistema MNSsU, sistema di Lewis.
Sistema ABO
I geni che codificano per il sistema ABO sono mappati sul cromosoma 9 e codificano per
una glicosil-transferasi che inserisce uno zucchero su una struttura preformata, definita
sostanza H, che si trova sulla superficie degli eritrociti. I geni in questione sono tre: il
gene A, il gene B e il gene 0. S possono, pertanto, verificare le seguenti combinazioni:
A/A, A/0, B/B, B/0,0/0, A/B. I geni A e B sono codominanti mentre sono dominanti sul
gene 0. I geni A e B differiscono in poche paia di basi che risultano in differenti
aminoacidi, mentre una singola delezione di un paio di basi è presente nel gene 0, che
non codifica per alcuna transferasi.
Le strutture glucidiche che si trovano sulle emazie e determinano il sistema AB0 si
trovano anche su altri elementi figurati come le piastrine, su cellule di altri tessuti e
vengono rilasciati in forma libera e in alcune secrezioni (ad esempio salivari). I soggetti
che presentano queste sostanze nelle secrezioni sono meno esposti ad alcune infezioni.
Nel siero di ogni individuo sono presenti anticorpi, soprattutto IgM definiti “isoagglutinine”
rivolte verso i gruppi estranei. Esse sono definite “innate” o “naturali”, vengono cioè
sintetizzate anche in assenza di una esposizione ad eritrociti di gruppo diverso,
probabilmente in risposta ad antigeni ambientali cross-reagenti, e danno reazione
emolitica verso gli eritrociti di gruppi ABO differenti. Gli individui con gruppo sanguigno A
posseggono l’antigene A e gli anticorpi anti-B; quelli con gruppo sanguigno AB
posseggono entrambi gli antigeni A e B e nessun anticorpo; quelli con gruppo sanguigno
B hanno l’antigene B e gli anticorpi anti A; quelli di gruppo sanguigno 0 nessun antigene
ed entrambi gli anticorpi, anti-A e anti-B (Tabella 1).
Gli appartenenti al gruppo 0 sono considerati donatori universali perché possono donare
i globuli rossi a soggetti di qualsiasi gruppo, ma possono riceverli solo da individui di
gruppo 0; gli appartenenti al gruppo A possono donare il sangue solo a soggetti di gruppo
A e a quelli di gruppo AB, e ricevere sangue da soggetti di gruppo A o 0; gli appartenenti
al gruppo B possono donare il sangue a soggetti di gruppo B ed a quelli di gruppo A, e
ricevere sangue dal gruppo B o 0; gli appartenenti al gruppo AB sono detti riceventi
universali perché possono ricevere sangue da qualsiasi gruppo ma donarlo solo a
soggetti di gruppo AB.
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Tabella 1 – Sistema ABO ed isoemoagglutinine naturali
Fenotipo
Enzima codificato
Monosaccaride
Isoagglutinine
aggiunto alla sostanza
H
A1
A2
acetil-D galattosamintransferasi Galattosammina
Anti-B
B
Anti-A
AB
3-D-galattosiltransferasi
Galattosio
acetil-D galattosamintransferasi Galattosammina
3-D-galattosiltransferasi
Galattosio
-
O
-
Anti-B, anti-A
-
Sistema Rh
Il sistema Rh è un complesso di antigeni proteici codificato da una serie di geni (C, D, E)
mappati sul cromosoma 1. Per ogni locus ci sono due alleli:c/C; d/D; e/E. Se il genotipo
Rh di un individuo contiene almeno uno degli antigeni C, D, E, l’individuo è Rh positivo;
solo gli individui con genotipo cde/cde sono Rh negativi. L’antigene più immunogenico del
sistema Rh è l’antigene D: per questo nella pratica clinica gli individui vengono classificati
come Rh positivi se esprimono l’antigene D ed Rh negativi se non lo esprimono, ma è
possibile che si formino anticorpi contro c,C, E ed e mentre non esistono anticorpi anti-d.
Oltre che nel caso di trasfusioni l’importanza del gruppo Rh è implicata anche nella
reazione emolitica del neonato, per una trattazione approfondita della quale si rimanda al
capito sulle anemie emolitiche immunologiche.
Sistema di Lewis
I geni di questo sistema codificano per una fucosil-transferasi che catalizza la formazione
di due antigeni oligosaccaridici: Lea e Leb . Questi antigeni non sono parte integrante
della membrana degli eritrociti, ma sono antigeni solubili che possono essere presenti nei
fluidi e nelle secrezioni corporee. Gli anticorpi rivolti verso gli antigeni Le sono IgM, quindi
non possono causare reazioni emolitiche nel neonato e raramente sostengono reazioni
emolitiche da trasfusione.
Sistema Kell
Il sistema Kell è costituito da 3 sets di antigeni (K/k, Kpa/Kpb, Jsa/Jsb) codificati da geni
mappati sul cromosoma 7. E’ molto importante in medicina trasfusionale, dal momento
che anticorpi diretti contro questi antigeni, generalmente IgG, sono frequentemente
responsabili di allo-immunizzazione.
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Sistema I
Esistono due genotipi differenti che realizzano due fenotipi: gli individui “I” possiedono un
enzima che ramifica le strutture glucidiche del sistema ABO sui globuli rossi; gli individui
“i” non possiedono l’enzima.
La maggior parte degli adulti ha il fenotipo I e possiede anticorpi IgM anti-i. Queste IgM
non danno né reazione emolitica nel neonato né nelle trasfusioni.
Sistema P
Ha importanza solo nei soggetti che possiedono questo antigene e contraggono la
sifilide. L’agente sifilitico è infatti in grado di stimolare la formazione di immunoglobuline
che si legano agli antigeni P sui globuli rossi determinando, a basse temperature,
emoglobinuria parossistica a frigore (vedi capitolo sulle anemie emolitiche
immunologiche).
Sistema MNSs
Gli antigeni MN e Ss si trovano su due gliproteine di membrana (glicoforina A e B) e
stimolano la formazione di anticorpi rispettivamente IgM e IgG. Ig anti S si sviluppano in
seguito a trasfusioni ripetute o dopo gravidanza.
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39. Terapia trasfusionale
Norme da osservare per i vari tipi di prelievo
Per il prelievo di sangue intero devono essere prelevati 450 ml per singola donazione ed
il numero di donazioni annuo non deve essere superiore a quattro con un intervallo
minimo, fra due donazioni, non inferiore a novanta giorni. L’età del donatore deve essere
compresa tra 18 e 65 anni e il peso non inferiore ai 50 kg.
Il prelievo di plasma (plasmaferesi produttiva) non può superare i 650 ml per singola
donazione, 1,5 litri al mese e 10 litri l’anno. I requisiti richiesti per il donatore sono gli
stessi per le trasfusioni di sangue intero.
La donazione di piastrine (piastrinoaferesi) richiede gli stessi requisiti per l’idoneità alla
donazione di sangue intero, con un numero di piastrine non inferiore a 150.000/ l.
La leucoaferesi (donazioni di leucociti) richiede gli stessi requisiti di sopra ma i leucociti
non devono essere inferiori a 6000/ l.
Preparati per le trasfusioni
Sangue intero
Viene utilizzato per ripristinare la volemia e per aumentare il trasporto di O2 nei soggetti
che hanno avuto un’emorragia acuta con perdite di sangue superiori al 25%.
Globuli rossi concentrati (GRC)
Vengono impiegati per aumentare il trasporto di O2 nei soggetti anemici. I limiti per
l’indicazione alla trasfusione sono valori Hb uguali o inferiori a 7 g/dl se il paziente è
normovolemico ed è in grado di aumentare la gittata cardiaca. Soggetti con quadro clinico
più severo,soprattutto se anziani, possono richiedere trasfusioni anche a livelli più elevati
di Hb. Normalmente una concentrazione di Hb superiore a 10 g/dl non richiede
trasfusione.
Un’unità di emazia concentrate aumenta la concentrazione emoglobinica di 1 g/dl e
l’ematocrito del 3%.
I rischi della trasfusione di emazie concentrate sono quelli legati alla trasmissione di
malattie infettive e alla formazione di alloanticorpi, clinicamente significativi contro
antigeni eritrocitari assenti nel ricevente.
Particolari tipi di globuli rossi concentrati sono i seguenti:
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GRC irradiati sono utilizzate per prevenire la malattia del trapianto verso l’ospite (vedi
oltre). Le emazie vengono irradiate con una dose >20 Gray. A causa dell’insulto da
radiazione, le unità di GRC raddoppiano il loro contenuto di potassio; questo deve
essere tenuto presente nella terapia trasfusionale in neonatologia.
Piastrine
Sono indicate per i pazienti con deplezione di questi elementi figurati. L’indicazione alla
somministrazione di questo preparato è una concentrazione piastrinica tra 10.000 e
20.000 unità/ l. Se si deve praticare un intervento invasivo, il limite accettabile di
concentrazione piastrinica deve essere almeno di 50.000/ l.
Per valutare l’efficacia della somministrazione piastrinica si utilizza la formula:
CCI =
n. piastrine post-trasfusione – n. piastrine pre-trasfusione
n. piastrine trasfuse x 1011
x superficie corporea
Si ritiene accettabile la trasfusione se il CCI è > 7,5 x 109/l dopo un’ora e > 4,5 x 109/l
dopo 18-24 ore.
In caso non si raggiungano questi parametri il paziente viene considerato refrattario alla
trasfusione.
Se il paziente refrattario presenta anticorpi anti-HLA dovrà essere trasfuso con piastrine
HLA compatibili.
Qualora la causa di refrattarietà sia l’alloimunizzazione il CCI sarà basso già a partire
dalla prima ora; le altre cause di refrattarietà (splenomegalia, febbre, CID, infezioni) fanno
scendere il CCI solo nelle 24 ore.
I concentrati piastrinici possono essere leucodepleti mediante filtrazione per prevenire
l’alloimmunizzazione
Plasma Fresco Congelato (PFC)
Viene utilizzato per fornire proteine, fattori della coagulazione ed albumina. E’ indicato per
la correzione di coagulopatie (ad es. inversione rapida dell’effetto dei dicumarolici,
coagulazione intravascolare disseminata.)
Crioprecipitato
Fornisce alcuni fattori della coagulazione come il fattore VIII, il fibrinogeno ed il fattore di
von Willebrand. Trova indicazione nei pazienti sensibili al sovraccarico di circolo.
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Reazioni trasfusionali
Nonostante gli innumerevoli benefici, le trasfusioni di emocomponenti possono dar luogo
a importanti complicanze, che vengono classificate in due gruppi principali:
1. reazioni di tipo non immune
2. reazioni di tipo immune
Reazioni di tipo non immune
Si possono manifestare:
durante la terapia infusionale
shock settico da contaminazione batterica massiva (ormai raro dato l’utilizzo di
materiale monouso)
scompenso cardiaco congestizio
dopo la terapia infusionale
infezioni batteriche o virali (epatite virali, AIDS, CMV, toxoplasmosi, malaria…)
emosiderosi
ipocalcemia
Reazioni di tipo immune
Comprendono:
sindrome brivido-ipertermia - dovuta alla presenza di leucoagglutinine acquisite per
immunizzazione precedente del paziente.
porpora trombocitopenica post-trasfusionale
reazioni allergiche: orticaria, prurito, asma
reazioni emolitiche trasfusionali
Reazioni emolitiche trasfusionali
Oggi piuttosto rare, sono provocate dall’infusione di sangue immunologicamente
incompatibile. Possono comportare:
distruzione dei GR del donatore
distruzione dei GR del ricevente
Distruzione dei GR del donatore
Nel caso di errore di tipizzazione del gruppo o scambio di sacche, l’emolisi può essere
provocata da anticorpi naturali verso il sistema ABO. Questi anticorpi sono IgM, possono
fissare il complemento e danno emolisi intravascolare. Immediatamente dopo l’inizio della
trasfuzione il paziente riferisce: cefalea, dolori lombari, nausea, vomito, palpitazioni,
tachipnea, brividi, ipotensione, febbre.
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Sono presenti tutti i segni di emolisi intravascolare:
- diminuzione aptoglobina
- emoglobinuria
- ittero (entro 12 ore)
Il rischio più grave è quello di shock irreversibile con insufficienza renale acuta da necrosi
tubulare.
Nel caso di paziente politrasfusi, l’emolisi può essere provocata da anticorpi dovuti a
precedenti immunizzazioni e diretti soprattutto contro il sistema Rh, Kell, Duffy e Kids.
Questi anticorpi sono IgG e danno emolisi extravascolare.
Il paziente manifesta nausea, brividi, febbre. Il rischio di shock e insufficienza renale è
raro.
In entrambi i casi la gravità della reazione dipende dalla quantità di GR trasfusi e dal titolo
anticorpale.
Distruzione dei GR del ricevente
E’ un’evenienza molto rara che si verifica qualora sangue di gruppo O contenente
anticorpi anti-A o anti-B a titolo elevato (1:200/300), venga trasfuso ad un paziente di
gruppo A o B.
In alcuni casi la reazione di emolisi può risultare ritardata (da 3 a 15 gg dopo la
trasfusione) e manifestarsi con ittero e riduzione dell’emoglobina.
Ciò si verifica soprattutto in pazienti già precedentemente immunizzati (trasfusioni,
gravidanze…) con anticorpi a titolo molto basso, non accertabili con le comuni tecniche.
Terapia
Il sospetto di incidente trasfusionale impone:
sospensione immediata della trasfusione
in caso di reazione allergica:
antistaminici
antipiretici
corticosteroidi
in caso di CID:
eparina
infusione di fattori plasmatici della coagulazione, ATIII, piastrine,
fibrinogeno
provvedimenti da adottare in caso di shock o insufficienza renale acuta.
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40. Trapianto di cellule staminali
Trapianto autologo
Il razionale di tale procedura terapeutica è basato su due dimostrazioni cliniche:
un aumento delle dosi di farmaci antiblastici o delle dosi di radioterapia si correla in
modo significativo ad un aumento delle risposte cliniche (effetto dose-risposta)
il principale fattore che limita le dosi di chemioterapia antiblastica è rappresentato
dalla tossicità midollare dei farmaci impiegati.
Da queste premesse si comprende come un paziente con una neoplasia chemioradiosensibile sia un potenziale candidato al trapianto autologo. Quest’ultimo consente di
somministrare al paziente farmaci citotossici ad un dosaggio sovramassimale (regime di
condizionamento) e di ripristinare la normale emopoiesi del paziente con la reinfusione
delle proprie cellule staminali precedentemente raccolte e conservate.
Sorgenti di cellule staminali emopoietiche
Espianto di midollo osseo in anestesia generale: aspirazioni multiple a livello delle spine
iliache postero-superiori. Dose di cellule da prelevare per garantire il ripristino
dell’emopoiesi: 2.0X108 per kilogrammo di peso del paziente.
Raccolta di cellule staminali periferiche: procedura introdotta in anni recenti e basata sulla
dimostrazione che il numero di cellule staminali CD34+ presenti nel sangue periferico è
irrilevante in condizioni di basali, ma aumenta significativamente nelle fase di ripresa
midollare dopo chemioterapia o dopo somministrazione di G-CSF alla dose di 10
g/kg/die per 5 giorni circa. Usualmente per la raccolta il paziente riceve una
chemioterapia intensiva utile per il controllo della sua neoplasia e a distanza di
quarantotto ore dal termine della chemioterapia il G-CSF. Il valore delle cellule CD34+
viene determinato giornalmente con l’impiego di un citofluorimetro e quando il valore
assoluto di cellule CD34+ è superiore a 20/ l viene eseguita la prima leucaferesi,
utilizzando per la raccolta un adatto separatore cellulare. Il numero di leucaferesi cui
viene sottoposto il paziente per ottenere la dose necessaria di cellule staminali varia da 1
a 3. La dose di cellule staminali adeguata per garantire il ripristino dell’emopoiesi è di
4.0X106 cellule CD34+ per kilogrammo di peso del paziente
“Purging” in vitro
Si tratta di una procedura di decontaminazione che viene talvolta eseguita poiché la
sospensione di cellule staminali raccolte potrebbe contenere cellule neoplastiche
eventualmente in grado di determinare una possibile recidiva della malattia. I mezzi
impiegati a tale scopo sono fisici (elutriazione, fototerapia), chimici (incubazione in vitro
con alchilanti o antracicline) ed immunologici (anticorpi monoclinali, anti-CD20,
immunotossine, biglie magnetiche).
Conservazione
Le cellule CD34+ prelevate possono essere mantenute a +4°C (conservazione in fase
liquida) e infuse entro 24-40 ore o conservate a -195°C in azoto liquido (cellule
criopreservate). Il trapianto con cellule conservate sarà possibile quando si utilizza un
regime di condizionamento la cui azione citotossica è concentrata in un breve lasso di
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tempo, mentre il trapianto con cellule criopreservate consente l’esecuzione di un regime
di condizionamento di più lunga durata.
Indicazioni
Nella strategia terapeutica di neoplasie ematologiche e di alcuni tumori solidi chemioradiosensibili.
Trapianto allogenico
Procedura terapeutica che ha come finalità la completa sostituzione dell’emopoiesi del
paziente con quella di un donatore sano compatibile.
Ricerca del donatore
Il donatore viene scelto in base all’identità assoluta con il ricevente per gli antigeni del
sistema HLA, il principale sistema di istocompatibilità. La probabilità di ritrovare un
donatore HLA identico all’interno della fratria è pari al 25% (donatore familiare). Pertanto
solo la minor parte dei pazienti potrà usufruire di un donatore familiare compatibile
mentre la maggior parte non avrà donatori familiari. Per superare questo ostacolo si
possono ricercare donatori non consanguinei nelle banche di midollo osseo. Per la
tipizzazione HLA di un donatore non consanguineo oggi non viene più impiegato il
metodo sierologico (mediante anticorpi), ma la tipizzazione è genomica. Grazie a questa
metodica, che consente di ottenere una maggior identità immunologica tra ricevente e
donatore, attualmente i risultati ottenibili con il trapianto da donatore non consanguineo
sono decisamente migliorati.
Scopi del regime di condizionamento
Il regime di condizionamento al trapianto ha principalmente due funzioni:
eliminazione delle cellule emopoietiche del ricevente
immunosoppressione del ricevente
Per conseguire questi obiettivi è necessario ricorrere a combinazioni radiochemioterapiche intensive; le più utilizzate prevedono l’associazione di irradiazione
corporea totale (total body irradiation, TBI) e ciclofosfamide (TBI-CY) oppure busulfano e
ciclofosfamide (BU-CY). L’intensità di questi regimi di condizionamentola comporta danni
tossici a livello di vari organi (fegato e tratto gastroenterico soprattutto) e importanti
complicanze infettive dovute all’agranulocitosi e all’immunosoppressione.
Eliminazione delle cellule staminali del ricevente (con ottenimento di una chimera
completa). Questo obiettivo non sempre viene raggiunto; infatti si ha talora la persistenza
delle cellule staminali dell’ospite accanto a quelle del donatore (chimera incompleta o
mista). In alcuni condizioni (Talassemia e Leucemia Mieloide Cronica) la presenza di una
chimera mista non comporta una sicura ripresa della malattia, in altre (Leucemie Acute)
precorre costantemente una recidiva di malattia.
Immunosoppressione del ricevente. Il successo del trapianto allogenico è determinato dal
superamento di una doppia barriera immunologia. Il paziente sottoposto a trapianto
allogenico non riceve solo cellule staminali ma anche cellule immunocompetenti attive dal
donatore. Pertanto oltre alla possibilità del rigetto, causato dall’inefficace
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immunosoppressione del ricevente ad opera di un regime di condizionamento non
sufficientemente immunosoppressivo (Host-versus-graft reaction), si può verificare una
ben più temibile complicanza che va sotto il termine di malattia da trapianto verso l’ospite
(Graft versus Host Disease, GvHD). La GvHD è causata dalla capacità dei linfociti T del
donatore di riconoscere gli antigeni minori di istocompatibilità non correlati al sistema
HLA, presenti sulle cellule del ricevente. Si ha pertanto la proliferazione dei T linfociti
dell’ospite che svolgono un’azione citotossica nei confronti dei tessuti del ricevente. Se
tale reazione immunologia si sviluppa nei primi cento giorni dal trapianto si parla di GvHD
acuta. Quest’ultima, di grado variabile sino a severo, ha come bersagli la cute, l’intestino
e il fegato. La GvHD acuta può con il tempo trasformarsi in una forma cronica, anche se
quest’ultima può svilupparsi non preceduta da una graft acuta. La GvHD cronica ha una
genesi più complessa.
Lo sviluppo di una GvHD sia acuta che cronica comporta per il paziente una maggiore
immunosoppressione, esponendolo a gravi rischi infettivi. Può anche portare a morte il
paziente. Tuttavia la presenza di GvHD, specie se di grado modesto, può avere un effetto
positivo sul controllo della malattia onco-ematologica, associandosi ad una minore
incidenza di recidive. Ciò è causato dalla reazione alloimmune che sta alla base della
GvHD e che si esplica anche nei confronti delle cellule leucemiche eventualmente
residue nel ricevente (Graft-versus-leukemia, GvL).
Sorgente di cellule staminali
Le cellule staminali emopoietiche possono essere prelevate da midollo osseo mediante
espianto di midollo osseo in anestesia generale, sangue periferico dopo
somministrazione di fattore di crescita (G-CSF) e sangue di cordone ombelicale.
Indicazioni
Il trapianto allogenico è indicato per alcuni gravi malattie ematologiche non neoplastiche
(ad es.: talassemia major, immunodeficienze congenite, ecc.) e per tutti i disordini oncoematologici.
Trapianto singenico
2006, Fondazione Ferrata Storti. Il contenuto di questa dispensa è fornito a titolo gratuito dalla Fondazione Ferrata Storti. Si
invitano le persone interessate a considerare la possibilità di una elargizione liberale alla FFS, c/c 33739, BRE, Pavia.
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