I ribelli della Presa § 3 | Archivio Iconografico del Verbano C...
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Archivio Iconografico del Verbano Cusio
Ossola
I ribelli della Presa § 3
Per leggere la prima parte del racconto cliccare qui:
I ribelli della Presa § 1
Per leggere la seconda parte del racconto cliccare qui:
I ribelli della Presa § 2
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Ritorno della brigata Stefanoni a Gignese dopo la liberazione. A sinistra
Piergiovanni De Gasperi, cugino di Mariuccia Andreani, il comandante
Renato Boeri e, a destra, Giancarlo Castelnuovo
di Mariuccia Andreani
L’Archivio Iconografico del Verbano Cusio Ossola pubblica qui una lunga testimonianza inedita
di Mariuccia Andreani, giovanissima staffetta, classe 1929, che racconta l’esperienza della sua
famiglia con i partigiani del Mottarone. Si tratta di uno scritto molto importante perché
ricostruisce una parte poco conosciuta della resistenza nel Nord Italia. Per facilitarne la lettura è
stata divisa in tre parti: cliccare qui per leggere la seconda parte e qui per leggere la seconda.
La storia, che si svolge a Gignese, nell’Alto Vergante, inizia l’8 Settembre 1943 e si conclude il 25
Aprile del 1945. In quel paese, il padre di Mariuccia, Desiderio Andreani era custode della Presa,
una piccola diga nascosta in una valletta a due chilometri dal borgo, che assicurava acqua alla
centrale idroelettrica. Proprio in quel luogo Derio nascose gli uomini della missione Apricot –
Salem di Enzo Boeri (di cui abbiamo raccontato la prima parte qui: La Resistenza vien dal cielo.
“Radio Salem”, la missione dei fratelli Boeri sul Mottarone) e, in seguito, ospitò diversi partigiani
della brigata Stefanoni, comandata dal fratello di Enzo, Renato Boeri. La Presa era l’unico luogo
sicuro dotato di elettricità, elemento fondamentale per trasmettere ogni giorno i bollettini alla
base alleata di Brindisi. Da quel momento Radio Salem, collegata con Milano attraverso una rete
di staffette, diventa la radio ufficiale del Corpo Volontari della Libertà.
Mariuccia, figlia del custode della Presa, aveva allora 14 anni. Era incaricata, all’inizio, di
trasportare le batterie dalla Presa all’Alpe Formica e di reperire i viveri per i partigiani. Il
racconto, pieno di avvenimenti drammatici e colpi di scena, fa rivivere al lettore quei due anni
difficili sul Lago Maggiore, visti con gli occhi di una ragazza determinata e coraggiosa.
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Gignese, Cesarina Iacazzi e Angelo Molinari, i nonni di Mariuccia
Andreani, fotografati nel giorno del loro venticinquesimo anniversario di
matrimonio. Avevano avuto sei figli: Maria, nata nel 1907; Angela nata il
16 Ottobre 1908 e sposata con Desiderio Andreani e madre di Fernanda,
Pierangelo e Mariuccia; Giustina, nata il 1° Dicembre del 1911, sposata
con Albino De Gasperi e madre di Piergiovanni; Maurizio, nato nel 1916;
Marta, nata nel 1919 e madre di Maurizio; Derina, l’ultima, nata nel 1922.
Archivio Bianca Maria Molinari e Maurizio Potenza
Nel febbraio 1945, succese un avvenimento che mi toccò personalmente. Io, che ormai avevo
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quasi sedici anni, come tutte le mattine, mi recai in paese. Arrivata a casa di mia nonna, salii in
camera e trovai mia zia Derina Molinari, col viso sconvolto, che tremava dalla paura. Riuscì solo a
dirmi: “I fascisti sono in paese, e mi cercano!“. Con lei, c’era una ragazza che era corsa ad
avvertirla. Quando guardai fuori dalla finestra, vidi dei fascisti che erano saliti sul promontorio
della chiesa, da dove si dominava bene la casa, mentre altri si erano avvicinati al cancello.
La chiesa parrocchiale di Gignese dedicata a San Maurizio. La casa della
nonna Cesarina è proprio davanti all’edificio religioso. Nel febbraio del
1945 i fascisti, imbeccati da una spia, si appostarono sul muretto e
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irruppero nell’abitazone, alla ricerca della figlia minore Derina
Ad ogni ragazza che passava, chiedevano i documenti, poi la facevano entrare nel giardinetto. La
ragazza che era con mia zia scese in cortile, e, naturalmente, fu controllata e messa con le altre.
Dissi a mia zia di cercare di nascondersi in qualche posto, che io avrei fatto il mio possibile per
trattenerli. Si mise su un piccolo balconcino e si tirò la persiana contro il corpo. Io andai incontro
ai fascisti, così calma che riuscii persino a sorridere. A comandare i fascisti, c’erano due tenenti.
Uno dei due ufficiali mi chiese chi ero e se Derina Molinari abitava lì.
La zia di Mauriuccia, Derina Molinari, era ricercata dai fascisti, che
volevano arrestarla. Si nascose su un terrazzino dietro una persiana nella
casa della nonna e si salvò. Archivio INSMLI
Risposi che ero la sua nipote e che, effettivamente, viveva in quella casa, che ero venuta appunto
per vederla, ma non l’avevo trovata e che, senz’altro, era già partita al lavoro. Vollero allora
vedere la mia carta d’identità. Se la passarono l’un l’altro per un pò, e quello dalla faccia più
crudele ripetè parecchie volte: “Andreani. Questo nome mi dice qualcosa“. Disse a due uomini di
tenermi d’occhio. Quelli si misero uno per parte, tenendo il loro moschetto puntato verso di me. Il
tenente diede allora l’ordine di perquisire la casa. Andarono su una decina di uomini. Per un pò
sentii i loro scarponi andare e venire, ma poi tornarono senza nessuno. Il tenente era furioso, disse
una frase, anzi, la ripetè più volte (lui disse un nome, ma, dopo tanti anni, preferisco non
ripeterlo): “Eppure, (quella persona) ci ha garantito che Derina Molinari stava qui, e che, a
quest’ora, l’avremmo trovata in casa!“. Quella frase, non potrò mai dimenticarla, mi è rimasta
impressa, e per sempre rimarrà in me perche quello che udii allora era troppo orrendo.
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I fascisti controllarono tutti i documenti delle donne presenti, anche quello
di Mariuccia e ripeterono che il nome Andreani gli diceva qualcosa. Due
di loro ordinarono alla ragazza di scortarli all’Alpino, dove la zia Derina
lavorava e Mariuccia diede, a caso, il nome di due ville
Allora, i tenenti, accompagnati dai loro sbirri, vennero verso di me. Uno era così furioso che, per
un attimo, pensai che mi avrebbe battuta. Perentorio, mi diede l’ordine di accompagnarli dove mia
zia era solita recarsi al lavoro. Diedi, a caso, due nomi di ville, all’Alpino. Una era l’ultima prima
di arrivare al Giardino Alpinia. Ci incamminammo. Alcuni fascisti rimasero su alla chiesa, altri
restarono nel giardinetto mentre una trentina di loro vennero con me, con due di loro che mi
tenevano sempre il fucile puntato contro. Così, se avessi fatto una mossa, o se fossero stati
attaccati dai partigiani, mi avrebbero certamente fatta fuori. Stranamente, ero calmissima. Vidi mia
nonna scendere il sentiero che conduce all’Alpino. Ci incrociammo, fingendo di non conoscerci.
Povera nonna! Io, in quel momento, pensavo ad una cosa: “Se quelli decidono di portarmi a
Stresa, dovrò riuscire a tacere, so troppe cose“. Purtroppo, conoscevo i metodi dei fascisti, che
torturavano fino alla morte, e speravo di morire in fretta senza parlare.
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Mariuccia e i due fascisti passarono davanti all’Albergo Alpino Fiorente,
che si trovava davanti alla fermata intemedia del trenino. Era stato
distrutto nel Luglio del 1944: i nazisti avevano visto dei partigiani fuggire
dall’hotel e arrestato il proprietario Dionigi Falciola. Gli avevano chiesto
una grossa somma per liberarlo ed avere salvo l’edificio, ma dopo aver
incassato i soldi, fecero saltare ugualmente l’albergo. Il signor Falciola
continuò comunque ad aiutare i partigiani
Quando arrivammo alla prima villa che avevo indicato, il tenente disse alla signora che era venuta
ad aprire che io ero la nipote di Derina Molinari e avevo detto che lavorava da loro. Immagino che
lei capì subito la situazione perchè disse pacatamente che, infatti, Derina lavorava da loro, ma che
erano tre giorni che non la si vedeva più. Così si ripartì verso l’altra villa. La cosa mi sembrava
quasi comica. Non mi sembrava vero di essere la protagonista di quella ridicola situazione.
Quando arrivammo all seconda casa, gli abitanti dissero come la signora di prima. Il tenente era
furente. Però non poteva neppure dire che avevo mentito. Io, allora dovevo giocare la commedia.
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Dissi: “Si vede che mia zia è scappata, se sono già tre giorni che non va a lavorare“. Il tenente,
comunque, mi guardava sempre con un aria cattiva. Pensai veramente che mi avrebbero portata
via. Di nuovo, disse: “Andreani. Questo nome, io l’ho già sentito“. Affermai che mio padre era un
onest’uomo e che non parlava mai di fascisti o ribelli. Lui allora : “Non venirmi a dire che
Andreani è un fascista!“. Cos’è che mi ispirò quella frase? Forse fu la Madonna, a cui ero tanto
devota: “Mio padre ha un’idea sola: ritornare a Roma!“. Il tenente cambiò espressione di colpo. Il
suo viso si illuminò come se gli avessi dato per certo che la guerra, l’avrebbero vinta loro. Dal tu,
passò al lei: “Grazie, signorina. Non sa come queste parole toccano il mio cuore! Io sono romano
ed è la frase più bella che poteva dirmi!“. Allora, fece segno ai due fascisti che tenevano l’arma
puntata di abbassarla ed incominciò a parlarmi come se fossi stata una sua grande amica. Era
molto sicuro di ritornare a Roma, coperto di gloria.
Un’altra immagine dell’Albergo Alpino Fiorente distrutto. Mariuccia era
riuscita con una frase inventata, e attribuita da lei al padre Desiderio, a
neutralizzare la ferocia dei due fascisti
Arrivammo così a casa di mia nonna. Le ragazze erano ancora lì. Il tenente diede l’odine di
lasciarle libere. Quindi entrò in casa, dove c’era mia nonna, le chiese dov’era sua figlia, e se
rientrava la sera. Mia nonna rispose che non sapeva dove si trovava, e che a volte rientrava, e a
volte no. Allora, il tenente la guardò con aria minacciosa e, perentorio, le disse: “Beh, al posto di
sua figlia, prenderemo lei in ostaggio“. A quelle parole tremai, non volevo vedere portar via la mia
nonna. Mi feci avanti, e gentilmente dissi: “Senta, prenda me al suo posto, mia nonna è molto
malata di cuore e vengo volentieri” (la malattia era una pura invenzione). In quel momento, avrei
fatto qualsiasi cosa, pur di non lasciarli prendere mia nonna. Ma ormai, avevo conquistato la
simpatia dell’ufficiale e questa mia offerta non fece che accrescere la sua fiducia in me. Mi prese
in disparte e mi disse piano: “Conto su di lei, qui c’è il mio numero di telefono. Appena ha notizie
di sua zia, me lo fa sapere. Me lo promette?“. “Naturalmente!“, promisi con un gran sorriso. Con
ambedue le mani, strinse la mia. Avevo quasi paura che mi baciasse. Così, all’una del pomeriggio,
finirono col andarsene.
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La foto della nonna di Mariuccia, Cesarina Iacazzi Molinari, nel tesserino
di “simpatizzante” della brigata P. Stefanoni, raggruppamento Divisione
A. Di Dio, Divisione Valtoce, Archivio INSMLI
Su questo episodio, c’è ancora un dettaglio da racontare: mentre i fascisti mi tenevano a bada con
le loro armi e i due tenenti erano in casa, passò di lì mia sorella che si stava recando al suo lavoro
in sartoria. La fermarono, le chiesero i documenti, poi la misero con le altre ragazze. I suoi occhi si
erano sbarrati, vedendomi là così, però facemmo finta di non conoscerci. Siccome non erano stati
gli stessi a consultare i documenti, non seppero che era mia sorella e quindi anche lei nipote di
Derina. Approfittando della sua buona conoscenza del luogo, riuscì a scappare senza farsi notare.
È certo che se l’avessero vista, le avrebbero sparato. Così potè correre alla Presa ad avvertire i
miei. Mia mamma – immagino la sua angoscia – volle correre giù a Gignese, ma, per fortuna,
glielo impedirono. Erano tutti preoccupati per me, conoscevano troppo bene il modo di fare dei
fascisti, e poi sapevo troppe cose. Stavano già studiando il modo di prendere un tedesco molto
importante per fare subito il cambio, quando sbucai dalla curva che conduceva alla Presa. “La
Mariuccia! Eccola!“. Corsero tutti verso di me e mi abbracciarono. Erano molto commossi, sui
loro visi c’era tanta gioia, ma anche qualche lacrima. Vollero sapere tutto, non finivano più di
farmelo ripetere. Ricordo bene il viso sorridente di Renato. Si sarebbe detto che facevo parte della
sua famiglia, e che era orgoglioso di me. Per quel giorno, ma solo quel giorno, mi sentii un eroina,
ma, più tardi, pensai che ero solo stata molto fortunata.
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I tesserini della settima brigata Stefanoni di Renato Boeri e Maria Cristina
Mariani Dameno. Renato (Milano il 15 Maggio 1922 – 20 Luglio 1994)
era il comandante della brigata. Maria Cristina, nata a Mlano il 19 Luglio
del 1924, si era unita alla Resistenza nel Vergante con il ruolo di staffetta.
Alla fine della guerra si sposarono nella chiesa della Madonna della Neve
all’Alpino. Renato si dedicò alla prefessione di neurologo e divenne un
pioniere della ricerca scientifica di fama internazionale. Maria Cristina,
nota come Cini Boeri, dopo essersi laureata al Politecnico di Milano e aver
collaborato con Gio Ponti e Marco Zanuso, aprì il suo studio di
architettura nel 1963. Renato e Cini sono i genitori di Sandro (Milano, 7
Settembre 1950) giornalista e già direttore di Focus; Stefano (25
Novembre 1956) architetto, urbanista e politico e Tito (Milano, 3 Agosto
1958), economista e presidente dell’Istituto Nazionale della Previdenza
Sociale
Il giorno seguente, una domenica, andai a messa, come sempre. Stavo salendo all’altare, quando
arrivò mio cugino Piergiovanni, trafelato: “Scappa Mariuccia! Ci sono i fascisti che ti cercano,
sono qui fuori!“. Fuggii dalla porticina posteriore della chiesa. La gente del paese è stata buona in
quell’occasione perchè nessuno si è mosso o ha detto una parola per farmi prendere. Ancora una
volta, devo ringraziarli tutti. Attraversai il ponticello che collega il terreno della chiesa alla strada,
e via di corsa! Non mi vergogno a dirlo, ma quel giorno ebbi veramente la fifa. Era la prima volta
che realizzavo cos’era la paura. Arrivai alla Presa e gridai: “Papà! Ci sono i fascisti, mi cercano!“.
Ci nascondemmo, io, i partigiani e mio padre, nel nuovo nascondiglio trovato da mio padre, di cui
parlerò più avanti. Più tardi, ci avvertirono che i fascisti se n’erano andati, ma, da quel giorno stetti
più attenta, correvo ad avvertire e mi nascondevo anch’io, tutto questo grazie alla famosa spia che
voleva far catturare Derina Molinari.
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Settembre 1944, un aereo alleato in volo sul Monte Falò – Tre
Montagnette lancia un rifornimento di armi, viveri e divise per i partigiani.
Da Dario Lorenzini, Sovazza, al me pais
Da noi, i radiotelegrafisti erano continuamente in attività. Avevamo bisogno di armi, di viveri e di
vestiari. Si attendeva il lancio di tutto questo con molta ansia. Da noi, come da molti altri,
ascoltavamo la radio clandestina che, tutti i giorni, alla stessa ora, trasmetteva tutte le notizie
riguardo allo svolgersi della guerra e all’avanzata degli alleati. Per oi quel ascolto era ancora più
importante. Infatti, vi erano i tre minuti per i messaggi speciali. Ne ricordo qualcuno, come: “Il
pollo è arrosto“, “Giro d’Italia“, “Maurizio ha parlato“, “Navighiamo bene“, “Alla faccia del
piffero“, “La moglie Eleonora”. Quest’ultimo era destinato a noi: se veniva ripetuto per tre sere
consecutive, il lancio sarebbe effettuato la notte successiva
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Schema di un campo di lancio. L’aviolancio era regolato da precise regole:
due o tre giorni prima del lancio Radio Londra trasmetteva un messaggio
in codice. La notte prefissata i partigiani segnavano il campo dove
effettuare il lancio con dei fuochi, disposti a 100 metri di distanza l’uno
dall’altro e dislocati in modo da permettere all’aereo come soffiava il
vento e quindi come meglio fare il lancio. I fuochi venivano accesi
all’ultimo per non attirare i fascisti. Da Ricordi della Resistenza, 2004,
Comunità Montana Valle Ossola. Disegno di Santo “Tino” Vimercati
I lanci venivano effettuati nel modo seguente. Al piano detto Pisciola, vicino alla Presa, si
scavavano tre buche di circa due metri di diametro e profonde un metro. In ognuna di queste
veniva acceso un fuoco, mentre un partigiano si teneva a una ventina di metri e, con una torcia
elettrica, ripeteva in morse la lettera di riconoscimento. L’aereo rispondeva in morse il suo codice
di riconoscimento, sorvolando la zona a bassissima quota, e poi cominciava a lanciare. I
contenitori con armi erano frenati da paracadute, mentre vestiari e viveri erano buttati
direttamente, in pesanti bidoni. Questi, col fatto che non si sapeva mai dove andavano a finire,
mettevano una gran paura. Per il recupero dei lanci, si erano riuniti tutti i partigiani della zona del
Mottarone. Abbiamo lavorato per due notti e due giorni. Mia sorella ed io abbiamo piegato
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paracadute senza sosta, mentre mia mamma e mia zia Tina avevano un gran daffare a preparare da
mangiare per tutti i gruppi di partigiani. Fu un lavoro intenso, senza riposo, per tutti. Eravamo
sfiniti. Per fortuna, nei bidoni c’era di tutto, anche del buon caffè.
Nella foto le armi inviate ai partigiani dagli alleati
tramite aviolancio. I partigiani dovevano montarle e
nascondere tutto il rifornimento prima possibile. La
stoffa del paracadute veniva utilizzata per confezionare
camicie e sottane. Immagine tratta dal sito Aldo Icardi
Finalmente, alla soddisfazione generale, il materiale fu tutto nascosto in una lunga e profonda buca
appositamente scavata da mio padre nel cortile della Presa, coperto da grosse tele, anche loro
lanciate col resto. Infine, mio padre riempì la buca di terra e la coprì con molte fascine. Quei
rifornimenti rimasero lì pochissimo. Furono trasferiti in una vecchia galleria, i cui dintorni furono
minati. Più tardi, tutto venne trasportato a Nocco. C’erano armi di tutte le speci, fra le quali molte
non erano mai state viste fino ad allora. I partigiani dovettero imparare a montarle. Una volta
montate, mi chiamavano, si scendeva al fiume, e provavamo le armi sparando contro le rocce.
Imparai a usarle tutte con facilità, anche armi pesanti. Ma la cosa che non volli provare, era
lanciare bombe a mano. Un giorno, un partigiano mi diede una piccola pistola automatica. Ne fui
felice; la tenni come una cosa preziosa fino alla fine della guerra, quando dovetti consegnarla.
Peccato. Anche a Coiromonte, furono presi dei giovani della Brigata F. Abrami e furono portati ad
Arona. Erano stati denunciati da una spia.
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I dieci giovani partigiani freddati a Solcio, ammazzati il 24 Marzo 1945,
per rappresaglia dal capitano Stam in seguito all’uccisione di un soldato
tedesco davanti alla Villa Cavallini. Dopo l’esecuzione i tedeschi
lanciarono alcune bombe a mano sui cadaveri. Prima della fucilazione, nel
passaggio da Belgirate, dal camion tedesco era stata sparata una raffica di
mitra che aveva ucciso Cesare Simoncini di 25 anni, l’undicesima vittima,
mentre si stava infilando in un vicolo. Le vittime erano: i tre fratelli
Beltrami, Alfonso di 23 anni, Giovanni di 24, Cipriano di 31, tutti nati a
Valduggia e residenti a Orta San Giulio; Gian Mario Comina, 24 anni, nato
a Brescia e residente a Gignese; Giorgio Fagnoni, 17 anni, nato a Stresa e
residente a Gignese: Severino Gobbi, 18 anni, nato a Goito e residente a
Como; Tersilio Lilla, 20 anni, nato a Sovazza e lì residente; Pietro
Tondina, 18 anni, nato a Sovazza e residente e Gignese; Paolo Torlone, 23
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anni, nato a Cimamulera e residente a Gignese; Pietro Travaini, 17 anni,
nato a Dagnente e lì residente.
Dopo pochi giorni, il 24 marzo 1945, i tedeschi, per rappresaglia, li caricarono su un camion e li
portarono in riva al lago vicino a Solcio e li fucilarono. Fra i dieci fucilati c’erano Pietro e Giorgio
di Gignese e i tre fratelli Beltrami di Armeno. Erano tutti tanto giovani. Per due giorni, li
lasciarono là, così trucidati, impedendo chiunque di avvicinarsi. Poi lasciarono recuperare quei
poveri corpi dilaniati. La mamma dei tre giovanissimi fratelli, uno dei quali aveva solo quindici
anni, li caricò su un carretto a mano e lo trascinò, urlando di disperazione. Aveva già perso il
marito in guerra e un figlio in campo di deportazione, ed ora morivano i suoi tre soli figli rimasti.
Passò di paese in paese trascinando lei stessa il suo triste carico, mostrando a tutti i corpi straziati
dei tre giovani. Povera mamma! Il dolore l’aveva annientata. Erano tre vittime fra i nostri eroi, ma
erano davvero troppo giovani! Credo che in tutta l’Italia ci furono tanti giovani trucidati così, solo
per odio e vendetta. Quanto male mi fa, pensare a tutte quelle vittime. Mi viene persino la nausea e
vorrei smettere di scrivere.
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Pietro Tondina, 18 anni, nato a Sovazza e residente e Gignese, fucilato a
Solcio il 24 Marzo 1945
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Giorgio Fagnoni, 17 anni, nato a Stresa e residente a Gignese, fucilato a
Solcio il 24 Marzo 1945
Ma devo continuare, l’ho promesso a Tino, il nostro bravo partigiano. Bisogna scrivere, perchè i
giovani di domani e di oggi sappino che, se hanno un’Italia libera, la devono ai partigiani della
resistenza. È finita la dittatura ed ora sono liberi di muoversi ed esprimersi, senza correre il rischio
di venire arrestati. Torniamo all’epoca partigiana. Ora eravamo veramente in molti. Ogni giorno
arrivavano volti nuovi. Eravamo bene armati e anche bene organizzati. Naturalmente, i fascisti,
sentendo prossima la loro fine, diventavano sempre più feroci: ogni volta che prendevano un
partigiano, lo torturavano fino alla morte.
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Santo Vimercati detto “Tino”, Oreste Tozzi e un altro partigiano della
brigata Paolo Stefanoni nella zona di Sovazza, nell’Ottobre del 1944. Tino
Vimercati fu tra i fondatori del Museo della Resistenza “Alfredo Di Dio”
di Ornavasso e chiese a Mariuccia di scrivere la sua testimonianza.
Archivio Tino e Liliana Vimerccati
Fu importantissimo il ruolo delle staffette nella Resistenza. Erano uomini e
donne impegnati nel trasporto di documenti e informazioni. In alto a
sinistra Liliana Fossati Vimercati con l’amica Angela Sommaruga.
Archivio Tino e Liliana Vimerccati
Nella zona del Mottarone, si erano formati i comandi. Noi facevamo parte della brigata Stefanoni.
Ormai era un vero esercito. Venne anche l’ora che mio zio Bino lasciasse il paese, era ormai
troppo ricercato. Venne quindi alla Presa, con sua moglie e suo figlio. Arrivò pure Don Luciano,
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con sua sorella Marina, anche lei ricercata a Vezzo. Me lo ricordo bene, Don Luciano, buono e
generoso. L’ho persino visto togliersi le scarpe per darle a un partigiano che le aveva rotte. Ci fù di
grande aiuto, e anche di grande conforto in parecchi momenti. Arrivarono pure tre da Gattinara:
Giorgio, Gatto e Piero. Sono arrivati di notte, dopo aver percorso parecchi chilometri, a piedi e nel
buio. Non si sapeva dove metterli; dovettero dormire nella stalla. Avevamo gente dapertutto: sulla
cascina, in cucina ed in una camera.
Giustina Molinari era la moglie di Albino De Gasperi e madre di
Piergiovanni, che all’epoca dei fatti qui raccontati era un bambino.
Archivio INSMLI
Lo zio di Mariuccia, Albino De Gasperi detto “Bino”, marito di Giustina
Molinari era stato sempre antifascista e fu il primo a ospitare a casa sua,
nel centro di Gignese, il partigiani. Si allontanò nell’Aprile del ’45 da
Gignese perché era ricercato. In alto il suo tesserino. Archivio INSMLI
Una notte, stava per spuntare l’alba, mio papà e mio zio non riuscivano a dormire, si sentivano
molto nervosi. Decisero quindi di uscire a fare una perlustrazione. Fu quell’idea a salvarci tutti.
Videro dalla cappelletta di via Nova, ancora giù nella valle, una lunga fila di tedeschi che salivano,
decisi. In un attimo, lo zio e papà furono alla Presa e diedero l’allarme. Tutti gli uomini fuggirono
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verso le vaschette, dove salirono un piccolo dirupo. Là vi era una roccia con una fessura molto
stretta, ma abbastanza lunga e alta, nascosta da un grosso albero. Vi si entrava con molta fatica e
bisognava starci in piedi e stretti.
La fessura nella montagna, appena sopra la Presa, dove si nascosero Derio
Andreani e i partigiani
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La vista del nascondiglio dal basso
Nel frattempo, noi non perdemmo un istante. Facemmo scomparire tutto ciò che avrebbe potuto
sembrare sospetto, mettemmo i materassi l’uno sopra l’altro, rimovemmo il fieno e le foglie, poi
tornammo a letto. I tedeschi, quel giorno, avevano messo delle scarpe felpate (quella volta, i
Gignesini non li avevano neppure sentiti passare nel paese). Eravamo da pochissimo coricate e
non li sentimmo neanche salire le scale ma vedemmo soltanto un braccio grigioverde aprire
bruscamente la porta della camera. Per la prima volta, ebbi veramente paura. Sentii un brivido
scendermi giù nella schiena, mi sedetti sul letto e, mi sembra, urlai. In un attimo, la camera fu
piena. Noi si tremava, per noi, ma ci chiedevamo anche se avevano visto gli uomini fuggire. Ad un
tratto, la paura si fece ancora più intensa: davanti a me si trovava un tedesco che era stato tenuto in
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custodia da zio Bino, poi anche da Settimo. Mi conosceva perfettamente: ero io a portare tutti i
giorni il pane da loro. Mi guardò, strizzò un occhio, come per dire “stai tranquilla“, poi mi
accarezzò una guancia e disse: “Ciao Bambolina!” (mi chiamavano tanti così). Aveva certamente
riconosciuto anche mia zia ed avrebbe potuto farci prendere facilmente, ma non parlò. Non tutti i
tedeschi erano cattivi. Quello non era un S.S. ma soltanto un soldato e un autista.
La zona delle vaschette, sopra la Presa. Lì intorno i tedeschi perlustrarono
senza successo
Ci alzammo tutte, infilandoci un vestito. Chiesero a mia zia chi era. Lei disse che era una sfollata e
che si trovava lì perchè la sua casa a Milano era stata bombardata. Quando le chiesero dov’era suo
marito, rispose che, dopo i bombardamenti, non ne aveva più avuto notizie. Domandarono a mia
mamma dove si trovava mio padre. Disse che era in servizio, a controllare la linea elettrica. Poi
vedemmo una colonna di soldati dirigersi difilati verso le vaschette. Senza dir niente, pensammo
tutte la stessa cosa: li hanno visti! Non so quanto durò questo, ma so che salii in camera di mia
mamma, dove si trovava un ritratto della Madonna, e la pregai tanto. Da dietro le persiane vidi i
militari tornare, soli, portando solamente qualche paracadute. I nostri uomini erano dunque salvi!
Così, se ne andarono.
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Il 6 Marzo del 1944 i tedeschi giunsero a Gignese con le scarpe felpate e si
recarono all’alba a casa di Settimo Tabarini, che riuscì a fuggire.
Custodiva tre partigiani che dormivano nella “grà”, la soffitta tutta in
legno dove si mettevano a seccare le castagne. I tre furono catturati e
portati a Albergo Beau Rivage di Baveno, quartier generale di Stamm. La
casa di Settimo Tabarini venne distrutta e incendiata. In alto una foto di
Gignese del 1954 in cui si vede Casa Verdaglio sinistrata, fatta saltare
nell’agosto del 1944 dai tedeschi per rappresaglia
Seppimo più tardi che, prima di venire da noi, erano passati dal Settimo. Erano andati direttamente
alla “grà“, dove erano nascosti i partigiani “Sandro” e “Barigia”, i quali si trovarono senza scampo
e dovettero arrendersi. Poi i tedeschi avevano case, si può supporre che ci fu qualcuno a
denunciarci. I partigiani catturati erano Sandro Ribolzi, Giuseppe Barigelletti e Raimondo
Lucchini. Guidati da una spia il 6 Marzo 1945 i tedeschi irrompono nella casa del partigiano
Settimo Tabarini, dove in un rifugio ritenuto sicuro, ci sono Raimondo Lucchini detto “Mondo”,
Giuseppe Barigelletti e Sandro Ribolzi (ammalato); Settimo è riuscito a fuggire, ma il rifugio non
ha “uscita di sicurezza” ed i tre vengono catturati. La casa di Settimo venne distrutta e
incendiata. I tre partigiani vengono portati a Baveno nell’alloggio di Stamm. Sottoposti a
interrogatori vengono più volte duramente percossi e tenuti ammanettati (NdR).
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Giuseppe Barigelletti, detto “Barigia”, del battaglione Bariselli fu
catturato a Gignese durante il rastrellamento del 6 Marzo 1945. Fu tenuto
prigioniero a Baveno e poi usato come scudo umano dal capitano Stamm
nella sua fuga con la famosa “Colonna Stamm”
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Marino Ribolzi capo del C.L.N di Baveno. Arrestato dai tedeschi nel
febbraio del 1945, dovette subire anche la cattura del figlio “Sandro”
che fu preso a Gignese a casa di Settimo Tabarini il 6 Marzo del 1945
mentre era ammalato e imprigionato a Baveno
I tre disperano di salvarsi e Barigelletti scrive dei messaggi sul retro del dei dischetti di carta
degli interruttori della luce. In carcere c’è anche il partigiano “Billi” della brigata Stefanoni, che
riesce a far uscire una lettera per Renato Boeri. Quando il Capitano Stamm si trovò costretto a
scappare con la sua famosa “Colonna Stamm” prese oltre cento partigiani, tra cui Barigelletti,
Lucchini, Ribolzi e “Billi” e si fece scudo, ammanettandoli a due a due e distribuendoli sui
camion della colonna in ritirata. Per fortuna dopo questa terribile vicenda i tre amici tornarono
liberi e Barigelletti recuperò i tre dischetti (N.d.R.).
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Raimondo Lucchini di Stresa, il terzo partigiano che fu arrestato a
Gignese il 6 Marzo 1945
I dischetti di carta degli interruttori della luce su cui il partigiano Pino
Barigelleti, nel periodo in cui era tenuto prigioniero da Stamm, lasciò i
messaggi “W l’Italia libera” e “La vita per l’Italia“
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Ora i fascisti si facevano vedere sempre meno. Avevano paura perchè la zona era piena di
partigiani. Vennero con noi alla Presa anche tre collaboratori tedeschi, accompagnati dai
partigiani. Un giorno, il 24 aprile ’45, i partigiani catturarono tre militari dell’esercito tedesco, con
un ufficiale delle S.S. I tre soldati vennero portati alla Presa, ma non vedemmo il comandante. Lo
portarono subito alla vasca di scarico, dove lo fucilarono (loro dicevano “mandarlo in Svizzera
senza scarpe“). Ho poi saputo che si trattava di un criminale di guerra, il tenente Gunther,
vice-comandante del Presidio di Meina, corresponsabile dell’eccidio degli ebrei. Così, era
cominciata la storia con tre fuggiaschi inglesi, e si chiude il capitolo con tre prigionieri tedeschi.
Nella foto, del 25 Aprile 1945, si vedono i tre tedeschi che furono fatti
prigionieri con il tenente Gunther il 24 Aprile a Stresa. I tre, in basso da
destra a sinistra, sono invece i tedeschi che collaboravano con i partigiani.
Il tenente Gunther era già stato fucilato e seppellito alla Presa
Intanto, c’è una grande agitazione generale. I tedeschi preparano la ritirata e sparano su tutti,
bruciano case e cascine, fanno saltare i ponti, sparano col cannone. Con un obice, fanno saltar via
un dito della mano leggermente alzata della statua di San Carlo Borromeo, ad Arona. Anche noi,
siamo tutti eccitati. Scendiamo a Stresa, dove tutti ci accolgono come eroi (anche quelli che non ci
possono vedere). L’albergo Borromeo viene messo a nostra disposizione. Si prepara la Calata al
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Piano. Il 27 aprile, ci rechiamo a Milano. Non c’è più il ponte di Sesto Calende e dobbiamo
traghettare. Siamo sulla macchina con Don Luciano, io, zia Tina, Marina, mia sorella e l’autista.
Mariuccia Andreani raggiunse Milano il 27 Aprile del 1945 insieme a sua
sorella Fernanda, la zia Giustina De Gasperi, Don Luciano e sua sorella
Marina. Arrivati al Ticino furono costretti a traghettare la macchina su una
chiatta: ìl ponte di ferro che collegava Castelletto a Sesto Calende era stato
definitivamente distrutto dal 57° Stormo Bombardieri dell’aviazione
americana il 3 Ottobre del 1944. Foto gentilmente fornita da Associazione
Pro Sesto Calende, foto Archivio Angelo Veronesi, dal libro Cesare
Tamborini, I ponti sul Ticino a Sesto Calende, 2002
Arriviamo a Milano, dove i fascisti ci sparano da una finestra. Siamo fortunati, nessuno è ferito,
ma il tetto della vettura è tutto forato dalle pallottole. Arriviamo alla caserma Baggio, già piena di
partigiani venuti da tutte le parti. Siamo tutti commossi. A me sembra un sogno. In un angolo, ci
sono i prigionieri tedeschi. Forse sarò sentimentale, ma ora, cosi indifesi, mi fanno pena. Mi
avvicino a Franz, un partigiano della nostra brigata: “Ti prego, nel nome della libertà per cui
abbiamo lottato, non fate come loro, non fate loro del male!”. E Franz dice: “Hai ragione“.
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La caserma Principe Eugenio di Savoia a Baggio era stata occupata dai
partigiani il 25 Aprile. Nella foto soldati inglesi raggiungono la caserma
con il tram n. 2. Foto di Imperial World Museum, © IWM
Non-Commercial Licence (Demobilisation of the British Army)
La prima notte, Marina, mia sorella ed io la passiamo in caserma, ma poi Don Luciano, che non
trova la cosa conveniente per tre giovani come noi, ci porta da una famiglia di sua conoscenza,
dove siamo molto bene accolte. Vi passeremo cinque giorni, prima dell’arrivo degli americani. In
piazza Loreto, hanno appeso il cadavere di Mussolini per i piedi. È una cosa che mi ripugna e non
voglio andare a vederlo. Un giorno, mentre la nostra Divisione, la “Valtoce”, rientra da
un’operazione fatta in provincia di Milano e si trova in Via Dante, gli sparano addosso da diverse
finestre. I partigiani rispondono al fuoco poi entrano nelle case, dove arrestano diversi fascisti.
Mio fratello è stato colpito di striscio e ci sono 15 altri partigiani feriti. Siamo stati fortunati,
avrebbero potuto esserci molti morti.
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La divisione Valtoce sfila a Milano liberata, in via Dante. La fotografia è
stata scattata pochi attimi prima che i fascisti sparassero dalle finestre,
ferendo alcuni partigiani esultanti
Durante tutto questo, noi, nella nostra euforia, avevamo lasciato mia mamma a casa, da sola, per
cinque giorni e cinque lunghe notti. Come abbiamo potuto essere così incoscienti per andarcene,
lasciandola lì, sola in una casa così sperduta, con gente armata un pò dapertutto nella montagna?
Ora solo realizzo il nostro egoismo e la crudeltà della nostra azione. Chiunque avrebbe voluto
vendicarsi avrebbe potuto allora farle del male. Lei era là, sola ed indifesa. Perchè nessuno ha
pensato a lei?
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La mamma di Mariuccia, Angela Molinari Andreani, ritratta nella stalla
con due caprette
Quando ci penso, mi prende una pena immensa e un grande rimorso. Allora, nel silenzio di questo
foglio, le chiedo perdono. A lei deve andare la riconoscenza dei partigiani del Mottarone perchè in
lei hanno sempre trovato dolcezza e bontà. E quanta paura ha avuto, povera mamma! Per finire,
c’è la sfilata a Gignese, dove siamo molto fieri e tanto applauditi. Hanno preso i due tenenti che mi
avevano tenuta in ostaggio. Saranno fucilati dopo qualche giorno.
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Le staffette della brigata Stefanoni sfilano a Stresa liberata. Da sinistra:
Mariuccia Andreani. Ester Molinari, Lina Colombatti e Maria Pagani
Per scaricare il pdf dell’ultima parte cliccare qui:
Per leggere la prima parte del racconto cliccare qui: I ribelli della Presa § 1
Per leggere la seconda parte del racconto cliccare qui: I ribelli della Presa § 2
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Il Mottarone: ritratto in cartolina
diaporama
Published in:
I ribelli della Presa
on 22 giupmTue, 02 Jun 2015 16:00:09 +00001522015 2011 at 9.41 Lascia un commento
Modifica
Tags: "Billi", "Bimarck", "Giorgio" Migliari, "Topolino", 10 Settembre, 11 Dicembre 1944, 13
Giugno 1944, 17 Marzo 1944, 1944, 20 Novembre 1944, 24 Marzo 1944, 25 Aprile 1945, 30.000
Lire, 8 Settembre 1943, abiti, abiti femminili, acceso un fuoco, accumulatori, aerei, Aereo, Airola,
Albergo Alpino Fiorente, albergo Bellavista, Albergo Due Riviere, Albino De Gasperi, Aldo, Aldo
Buffa, Aldo Campanella, Aldo Casanova, Aldo Icardi, alfabeto Morse, Alfonso Beltrami, Alla
faccia del pifffero, alleata dei partigiani, alleati, Alpe Formica, Alpino, Alpino Fiorente, Alto
Vergante, amercano, Angela Molinari, Angiolina Molinari, Angiulin Motta, Antifascista, appiccare
fuoco, Archivio del Verbano Cusio Ossola, Archivio Iconografico del Verbano Cusio Ossola,
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Bino De Gasperi, bio, biscott, biscotti, Bismarck, bombardato, bombe, bombe a mano, Bondione,
borghesi, borgo, borsetta, botola, Brigata Abrami, Brigata F. Abrami, Brigata P. Stefanoni, Brigata
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