STUDI SULLA
TRANSUMANZA E L’ALPEGGIO
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ALPI MARITTIME: ALLA RICERCA DELLE
TRANSUMANZE PERDUTE
di Andrea Lamberti e Walter Nesti
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri”
(I Pastori)
PREMESSA
Il verso di G. D’Annunzio, esprime quanto la pastorizia abbia impregnato ed accompagnato la
dinamica evolutiva della nostra società nel corso dei tempi, e, non solo fornendo essenziali materie
prime (lana, latte, carne); e questo, sino agli albori del secolo scorso, quando lo sviluppo industriale
e due conflitti, in successione, ne hanno condizionato e ridotto le caratteristiche millenarie.
Le Alpi marittime e liguri (queste ultime spesso incluse nel termine che le precede) costituiscono la parte sud-occidentale della catena e sono state, sino a tempi recenti, luoghi di intensa attività
pastorale e di allevamento. Nella parte più settentrionale dell’area considerata troviamo le transumanze tra la valle Stura e la Piana della Crau, alle spalle di Marsiglia. Nella sua parte centrale la
preponderante presenza della cultura brigasca: da Briga, in valle Roia, anticamente denominata
capitale dei pastori per il gran numero di ovini e di addetti che censiva, e, poi, gli allevatori provenienti dalla pianura cuneese e le
corte transumanze dei pastori ormeaschi (in senso lato). Nella parte più meridionale, le transumanze di ovini dal Monregalese verso il Ponente savonese.
A ritroso, nel tempo, la lunga, intensa, variegata, catena di avvenimenti legati alla storia della
pastorizia nel Medioevo, che giace ancora in gran parte sepolta negli archivi, e poi, ancora, le impronte della romanità, per giungere, infine, al santuario dei popoli pastori della più lontana preistoria, alle pendici del Monte Bego, (Valle Roia), istoriate da 40.000 incisioni rupestri.
Lo sviluppo economico-turistico della costa della Liguria di Ponente, nel secondo dopoguerra del
secolo scorso, è stato l’origine di un flusso migratorio che ha determinato l’abbandono dei versanti
e dei paesi del suo entroterra, e così rapido e massivo da recidere drasticamente i collegamenti col
passato. E’ faticoso, in oggi, riconoscere i tratti culturali della società dei padri. Sulla stessa costa e
nel suo immediato retroterra si conservano ancora segni e memorie di attività pastorali, ma che
ormai sono prive di un significato contestuale: caselle, recinti, antichi ricordi di vita vissuta, terreni
con vegetazione post-culturale; memorie e segni che si sbiadiscono sempre più.
E’ da queste riflessioni che ha tratto origine l’attività del L.A.S.A. (Laboratorio di Antropologia
Storica e Sociale delle Alpi Marittime): raccogliere e documentare nel territorio delle Marittime,
cerniera tra mondo alpino e mondo mediterraneo, quelle testimonianze che l’attuale società supertecnologica, ma estremamente superficiale, dimentica e cancella ogni giorno di più; ma rappresentano il senso ed il significato del rapporto uomo- territorio: il collegamento con le “radici”.
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INTRODUZIONE
Il presente lavoro vengono esposti risultati di una parte delle ricerche in corso sull’argomento della pastorizia transumante in un settore delle Alpi Liguri. In questa sede desideriamo associare
al nostro lavoro i colleghi ed amici E. Boccaleri, P.L. Massajoli, C. Lanteri e M. Bianco che con puntuali e corpose indagini hanno indagato ed operano nel documentare i vari aspetti dell’etnia alpina
locale: dalla vita di comunità allo specifico dell’abbigliamento e degli idiomi. L’occasione serve,
altresì, per citare l’attività della Comunità Brigasca, che edita la rivista “Â Vastera”, nonché l’esistenza sul territorio dei musei di Pigna, Caprauna, Ormea, e oltre, a ricordare una serie di iniziative
sorte in Mendatica e Montegrosso Pian Latte ed altre che stanno sorgendo in Garessio, che evidenziano, tutte, una presa di coscienza del proprio passato e delle proprie radici, non solo nello spirito
della tradizione, ma “germi” di una ripresa economica del settore pastorale.
Le Alpi Marittime iniziano al Colle della Maddalena (Valle Stura – Piemonte - CN) e terminano al
Colle di Tenda, dispiegandosi in gran parte in territorio francese. Dal Colle di Tenda (1870 metri, V.
Roia, Francia e V. Vermenagna, CN - Piemonte) iniziano le Alpi Liguri che terminano al Colle di Cadibona, ieri, oggi, Colle della Bocchetta di Altare (459 m. V. Letimbro - SV), e, da dove si fanno
iniziare gli Appennini. Hanno un fronte settentrionale che gravita sulla pianura piemontese, mentre,
quello meridionale affonda le sue radici nel Mediterraneo. La loro estensione raggiunge i 3500 Km2.
La Liguria, per quanto sopra espresso, a ragion veduta, può quindi essere considerata una regione
alpina. Le Alpi Liguri sono in gran parte calcaree e meno elevate delle Marittime e per la loro posi-
Fig. 1 — Schema delle Alpi Liguri con le località citate nel testo
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zione geografica e, storia
geologica recente (glaciazioni
quaternarie), sono ricche di
peculiari endemismi biologici.
Dal complesso del M. Marguareis (2651 m. - CN), la catena
si dirige a sud al M. Saccarello
(2199 m. – IM), la cima più
elevata della Liguria, da cui si
diramano le principali dorsali
secondarie, ancora dirette ad
est e a sud. Il territorio risulta
così inciso da una organica
struttura di valli principali,
che, in senso orario, ruotano
sull’asse montuoso Marguareis-Saccarello: valle Tanaro,
Arroscia, Impero, Argentina,
Nervia, Roia). Dalla costa si
risalgono facilmente i versanti
sino ai crinali più elevati.
Crinali che hanno costituito, e
parzialmente ancora costituiscono, aree vocate alla pastorizia e all’allevamento boviFig. 2 — Schema del versante ligure delle Alpi Marittime
no.
La pastorizia, “fame d’erba” o “economia del fieno”, a seconda degli autori e dell’ottica di studio, è in fondo un’esigenza nutritiva che ha condizionato il popolamento degli alti versanti sotto
forma di transumanza a lungo o corto raggio o di semplice fienagione, nel caso di sedi stabili relativamente vicine. Per questa esigenza, anche nei territori qui di seguito illustrati, quante dispute,
anche cruente, per il passaggio o per il possesso, nel corso dei secoli, ma anche momenti di comunanza e partecipazione nel consacrare rapporti culturali comuni.
Secondo ricerche archeobotaniche, l’antropizzazione in quota risale all’VIII sec. e con continuità
prosegue fino al XVI sec., favorito dal clima che ha preceduto la “piccola era glaciale”, salvo un
periodo di abbandono a cavallo del X sec. A tale fenomeno antropico espansivo hanno contemporaneamente contribuito situazioni socio-economiche e demografiche.
Nel seguito, affronteremo e descriveremo le transumanze che avvenivano e limitatamente esistono ancora, in un settore delle Alpi Liguri, quello interessato dalla valle Arroscia.
LA TRANSUMANZA IN VALLE ARROSCIA
La valle Arroscia, dalle pendici del Saccarello al mare, ha uno sviluppo di circa 50 Km; alla
sua testata esistono valloni e ripiani che, con altri contigui dell’alta V. Tanaro, delimitano un’area
denominata “Navette”, particolarmente utilizzata e frequentata nel periodo estivo dai pastori, con
sedi originarie nella parte medio-alta della valle (Cosio, Mendatica, Montegrosso Pian Latte, Pornas-
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sio), mentre lo svernamento
avveniva sulla costa tra Albenga e Diano Marina. In particolare il Bosco delle Navette, da cui il nome dell’area, è
iscritto nel registro nazionale
dei boschi da seme.
Le vie di transumanza ripercorrono itinerari secolari e di
tradizione familiare. I pascoli,
non superando di molto i 2000
metri, e relativamente vicini
al mare, godono di condizioni
ambientali meno severe di
quelle del resto dell’arco alpiFig. 3 — Sui pascoli estivi delle Alpi Liguri (Foto Macciò)
no. Nel passato i pascoli, secondo tradizione, erano frequentati da greggi di ovini, in maggioranza, e caprini, in numero assai ridotto.
Le note che seguono interessano un arco di tempo di 150 anni a partire a ritroso dal 1980. L’esame della pastorizia transumante nei suoi vari aspetti, aspetti che costituiscono altrettante linee
di ricerca tiene si basa largamente sul lavoro di E. Boccaleri (Boccalleri, 1998). Ne forniremo gli
elementi, in sintesi, dando una maggiore enfasi alle caselle che sono strutture assai diffuse sul versante marittimo delle Alpi Liguri.
STRUTTURE
INSEDIATIVE
I pastori transumanti, che ancora “ieri” frequentavano le sedi estive delle Navette, in alto Tanaro, e svernavano sulla costa, avevano residenza a Cosio, Pornassio, Mendatica e Montegrosso.
In alta quota utilizzavano
ricoveri elementari denominati gias: costruzioni, generalmente addossate al pendio, a
pianta rettangolare, in muri a
secco (5 x 3 x 2 m in altezza)
coperte da un tetto a due
spioventi, con orditura in legno e coperti di zolle erbose o
in frasche o lastre in pietra.
Nel fondo la parte notte in
tronchi d’albero affiancati ed
il focolare; sulle pareti qualche nicchia per gli oggetti
d‘uso. L’ingresso, aperto nel
lato minore, riparato da una
Fig. 4 — Vecchie “selle” alle pendici del M. Valcaira (val Tanaro)
porta in legno, ridotta rispet-
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to all’altezza dell’apertura. Accanto al gias, la vastera una superficie recintata da muretto basso in
pietre a secco, per la sosta notturna del gregge. Il termine vastera ha lo stesso significato ed uso in
tutta l’area meridionale delle Alpi Liguri. Il termine gias indica la capanna del pastore; nelle valli
piemontesi indica tutto il complesso costruzioni-pascolo. Oggi il termine gias è quasi scomparso
dalle parlate della valle, sostituito dal termine cabanna. Un segno dei tempi: le lamiere ondulate
vanno a sostituire le zolle di copertura, per la necessità di smontare e rimontare ad ogni stagione.
I pastori di Montegrosso, sui loro alpeggi abituali, avevano edificato una serie di casolari (tecci)
con un piano terra per il gregge ed un primo piano per l’abitazione. In oggi in gran parte diruti.
Nelle vicinanze dei gias e dei tecci non possono mancare le “selle”: costruzioni seminterrate con
dimensioni pressoché uguali a quelle dei gias con ingresso basso e riparato da una robusta porta in
legno, adibite alla conservazione dei prodotti caseari.
A quanto sopra descritto, che è la generalità tipologica delle strutture in quota, si può aggiungere che venivano utilizzati ripari sotto grandi massi rocciosi, con muretti a secco di protezione e ripari in grotta (ciabot, arme). Altre testimonianze stanziali sono le vaste superfici di terreno, circolari, occupate da vegetazione nitrofila, che fanno riferimento ad aree usate per la stabulazione
all’aperto con recinto temporaneo (vaii). Nelle sedi invernali erano utilizzati stalle, fienili o vecchi
edifici dismessi, oppure caselle.
CASELLE
Strabone, filosofo e geografo greco, al tempo della conquista romana (II° sec. a.C.) descriveva
in questo modo i Liguri:
“ […] i più abitano sparsi in casali impiantati sopra le cime dei monti e difesi da terrapieni che dominano le gole delle valli, i pascoli e l’alveo dei torrenti. I loro tuguri sono fatti di pietre sovrapposte senza
malta, ma vi stanno di rado, aborrendo l’uso dei letti quasi fossero altrettanti sepolcri dei vivi […] ”.
Fig. 4 - Casella nella zona di M. Carmo – SV (Foto Chiesa A.)
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I “tuguri di pietre sovrapposte senza malta” richiamano alla mente le caselle, costruzioni rurali di origine molto antica e la cui caratteristica è la presenza di una copertura a volta, in aggetto, detta
anche a “tholos”. L’utilizzo di
questi ripari, costruiti in pietra a secco, risale a ben prima
della conquista romana. Indagini e scavi archeologici ne
attribuiscono l’origine e la
diffusione della tecnica a
pseudovolta, all’Età del Bronzo o epoca del megalitismo.
Questa tecnica ebbe ampia
espansione in tutto il bacino
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del Mediterraneo ed anche
lungo l’arco alpino, come ben
testimoniano strutture analoghe rinvenute in località anche
molto distanti tra loro: i nuraghi sardi, le caselle liguri, le
bories provenzali, le “casite”
istriane, i cavanéi del levante
genovese, i baitél delle Alpi
Orobiche per giungere al Salento (Puglia) e alla Grecia.
Tutte zone dove la pastorizia
era parte importante dell’economia locale dell’epoca.
Ritornando al tema, sono
molto diffuse nell’Imperiese
(area estiva dei pastori brigaFig. 5 — Casella, in veste invernale, al Colle del Melogno (Sv)
schi) e nell’Albenganese, si
presentano ancora in buon
numero verso est, sulle pendici di M. Carmo e del Colle del Melogno, dove un tempo erano presenti
vaste aree prative. Dal Finalese sino al Gruppo del Beigua (Varazze) sono praticamente assenti per
ricomparire nell’areale genovese di Pegli e sino all’entroterra di Lerici, territorio soggetto a fenomeni di transumanza dalla vicina val Trebbia,
sulle aree comuni di pascolo (comunaglie);
situazione che durò sino alla seconda metà del
XIX secolo, quando poi le aree vennero cedute
a privati ed utilizzate per lo sfalcio. Le caselle,
da ricovero per pastori, divennero riparo per
contadini durante la fienagione. Ancora più a
levante, si rinvengono nell’area spezzina.
Per quanto riguarda l’area Finalese, è ragionevole osservare che la conformazione geomorfologica del territorio offre innumerevoli
ripari naturali. La presenza di grotte (alcune
ampliate artificialmente), e ripari, permetteva
di ottenere ricoveri con semplici realizzazioni.
Nella regione del Beigua, anch’essa importante
area di pascolo, i rilevamenti indicano casette
a pianta rettangolare con tetto a una o due
falde. La costruzione delle strutture a “tholos”
non ha bisogno di armature di sostegno e non è
necessario contrastare spinte laterali. La pseudovolta della casella si ottiene con la successiva sovrapposizione, in cerchi concentrici, di
Fig. 6 — Grotta utilizzata come ricovero – V.le dei
file di pietre, aggettanti verso l’interno, di
Frassini – Finale L. (Sv)
pochi centimetri, sino ad ottenere, al colmo,
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una apertura che veniva chiusa con l’apposizione di una o
più grosse lastre, ottenendo in
tal modo una struttura che si
regge esclusivamente per gravità. E per impermeabilizzare,
la parte sommitale esterna
veniva ricoperta di terra e
pietrisco che, in breve tempo,
veniva colonizzata dall’erba.
Esternamente hanno un aspetto tronco-conico, cilindrico o a
cupola. Quelle a cupola, che
oggi appaiono in pietra a vista,
nel tempo hanno perso la copertura in materiale fine, per
dilavamento meteorico. Le
Fig.7 — Volta di una casella, vista dall’interno: cerchi concentrici di
più elementari e diffuse hanpietre in aggetto e lastra di chiusura (Foto Chiesa A.)
no un solo vano; sono normalmente prive di finestre e dotate di bassa apertura, che serve da porta e per dare un minimo di luce
all’interno. Alcune hanno delle piccole nicchie interne, con funzione porta oggetti. Non dimentichiamo la funzione di ricovero temporaneo e quindi del tutto prive di comodità.
In alcuni casi sul vano d’ingresso veniva realizzato un sopraluce, con lo scopo di dare un minimo
di visibilità all’interno, nel caso che lo stesso venisse chiuso con un telo, raramente con una porta,
anche se in alcuni casi, tra le strutture ancora utilizzate sino agli anni ’40-’50, si notano delle cerniere destinate alla messa in sito di un battente in legno. Cerniere che venivano murate in cemento
a testimonianza di un uso relativamente recente della struttura.
L’ingresso, in presenza di acclività, veniva realizzato a valle ed in generale con esposizione a
sud. Le caselle sono di piccole dimensioni, ma non mancano esempi con proporzioni sopra la media
tali da poter ospitare dalle due alle quattro persone. Per accedere all’interno è necessario chinarsi:
Fig. 8 — Schema e sezione di una casella (Rilievo di E. Boccaleri)
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il vano della porta, formato da stipiti con blocchi dimensionati ed architrave in pietra, è basso e di superficie ridotta per mantenere la
temperatura interna. A tale proposito è stato
evidenziato che gli ingressi delle caselle delle
aree costiere e collinari hanno mediamente
una apertura maggiore rispetto a quelli delle
caselle a quote superiori. Il pavimento è in
terra battuta; solo in un caso si è riscontrato
una pavimentazione interna, sempre in pietra.
I muri perimetrali sono di spessore rilevante,
dai 60 agli 80 cm, talvolta 1 metro.
Le caselle hanno una pianta che può essere
circolare, in prevalenza, quadrata o rettangolare o absidata, mentre il loro profilo, mantenendo rigorosamente la struttura a cupola,
internamente può variare da quello troncoconico, a quello a cupola oppure con copertura
piana. Questa metodologia costruttiva le fa
apparire, a prima vista, tutte simili, ma nel
dettaglio si possono notare sopraluce, nicchie,
architravi diversi, con le variazioni dovute all’abilità ed all’estro del costruttore. E’ quindi
una architettura semplice, il cui mantenimento
è cura costante. Anno dopo anno si devono
Fig. 9 — Casella: dettaglio di architrave e arco di
constatare nuovi crolli. L’avanzare del bosco
scarico (M. Carmo – Sv)
ne sta fagocitando molte altre.
La connessione caselle-pastori transumanti
è abbastanza evidente in Liguria, se analizziamo la loro distribuzione territoriale; si ritiene che il
loro numero sia aumentato a partire dal XVI sec. per lo sfruttamento delle risorse boschive e agricole. Si può ancora ipotizzare
che la loro tecnica di costruzione fosse portata in dote,
proprio dai pastori transumanti, che avevano necessità di
costruirsi dei ripari per la loro
permanenza, utilizzando il più
semplice, comune ed immediato materiale da costruzione reperibile: la pietra.
Le caselle, ancor oggi
esistenti, possono aver origine
settecentesca nella più favorevole ed estesa ipotesi. E’
oltremodo difficile attribuire
Fig.10 — Pecore e casella (M. Acuto – Sv)
date poiché si riutilizzavano
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le stesse pietre e, nei documenti d’archivio,
non c’è alcun riferimento ad esse. E’ ragionevole supporre che cessassero la funzione di
abitazione permanente, presumibilmente, intorno al Medioevo, per divenire strutture di
servizio, destinate a dare riparo temporaneo. I
terreni coltivati erano sovente distanti dai villaggi, ed in caso di cattivo tempo costituivano
riparo così per la fienagione come per i pastori
che vi sostavano durante i trasferimenti.
Un’altra tipologia di caselle, in origine non
legate alla pastorizia, ma al mondo contadino,
è quella denominata “di sottofascia”, ricavata
cioè all’interno del corpo del terrazzamento,
intuendone l’esistenza dall’ingresso ricavato
nello stesso muro di sostegno. Durante la costruzione della fascia, preventivamente, si
realizzava il “ricovero” con la tecnica a pseudovolta, da utilizzare come deposito o come
riparo in caso di pioggia. Per ovvie ragioni sono
di ridotte dimensioni ed in rari casi l’ampiezza
della zona utile veniva estesa all’esterno. Una
maggiore cura era rivolta all’impermeabilizzazione della struttura, essendo coperta dal terreno di riporto ad uso agricolo. Come detto, in
origine non legate alla pastorizia, ma utilizzaFig. 11 — Casella sottofascia (Finale Ligure – Sv)
te, durante il periodo di permanenza invernale
anche dai pastori.
Venendo a mancare la mano dell’uomo, con frequenti ed efficaci interventi, il degrado delle
strutture è ormai irreversibile, e non solo per “l’edilizia rurale”, ma anche per il reticolo delle mulattiere, dei muri a secco o delle semplici “cunette”, per convogliare le acque piovane ed evitare
dissesti idrogeologici. La manutenzione delle opere era una costante quotidiana.
Le note che precedono sono la sintesi di uno studio e di una contemporanea ricerca di campagna
in atto, estesa ad un vasto territorio, il Ponente ligure. Esso ha lo scopo di censire le caselle, soprattutto, e le altre strutture rurali, focalizzandosi in un primo momento nel Ponente savonese.
Tale ricerca trae spunto e collaborazione con il “Progetto Terre Alte” del C.A.I. L’obiettivo è la
catalogazione e la conoscenza delle testimonianze dell’opera dell’uomo nei territori ormai non più
frequentati e vissuti, in modo continuativo. Ad oggi circa 200 strutture (caselle) da quelle integre a
quelle in rovina, formano un primo nucleo di una “banca dati” in via di organizzazione.
LE
VIE DI TRANSUMANZA
Il percorso della transumanza riassume due esigenze funzionali: agibilità e minima distanza tra
le residenze e le sedi stagionali. Tracciati ottimali, sempre gli stessi e, con certezza, da secoli. Da
Diano Marina a Laigueglia esistono mulattiere che lungo i crinali risalgono a Pizzo d’Evigno, sosta
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Fig. 12 — I percorsi della transumanza
intermedia di transumanza, dove esistono, in parte integre, numerose caselle. Si prosegue per il
passo del Ginestro, il crinale di Monte Mucchio di Pietre sino al colle di S. Bernardo, Passo della
Teglia e Passo della Mezzaluna, per l’Alpe di Rezzo ed il Monte Monega sino al colle di Garezzo. Da
questo valico ai villaggi di origine dei pastori oppure la Madonna del Fronté e il Colle di S. Bernardo
di Mendatica. Toponimi che sono disposti sul crinale di testata della valle Impero e quindi in successione sul crinale sinistro della valle Argentina. Da lì numerose vie agli alpeggi di Pian Zerbiglione,
fascia Pornassina, Madonna della Neve, Val Rosciana. Oggi sono frequentati solo gli ultimi due siti.
Un altro itinerario, ancora seguito dai pastori: da Leca, frazione di Albenga, si risale la strada
provinciale sino a Cisano, poi raggiunge il Colle dello Scravaion e Bardineto (sede intermedia) per
poi seguire l’alta Via dei Monti liguri sino al passo di Prale, scendere a Cantarana, per Ponte di Nava, Viozene, Upega e infine Madonna della Neve.
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ABBIGLIAMENTO
L’abbigliamento del pastore, oggi, non è più quello di un tempo; funzionale, sì, ma
“globalizzato”. La caratteristica comune rimane il grande ombrello per il sole e per la pioggia. Di
seguito alcuni cenni estratti dalle ricerche di C. Lanteri.
Nel documento fotografico che risale agli anni 1880, nei due personaggi seduti (di Verdeggia o di
Realdo) si notano le tipiche caratteristiche dell’antico costume maschile. Nell’ordine: camicia di
tela e maglia di lana bianca naturale e follata: pantaloni di stamegna, tradizionale tessuto di lana e
canapa, follato, lunghi appena sotto il ginocchio ed allacciati con un nastro; calze di lana; cappello
di feltro per l’uno e berretta per l’altro a calza (bréta), tradizionale, per metà di colore rosso e
metà nero, arrotolata in modo da lasciare fuoriuscire, in alto, la parte rossa rispetto a quella nera.
Ai piedi pesanti scarponi chiodati, a volte con suola di legno. Non mancava poi l’ampia mantella
e nella tasca un coltello a serramanico, generalmente di tipo vernantino (da Vernante) o frabosano
(da Frabosa).
“SAPERI”
E
“SAPORI”
Il percorso da Montegrosso e Mendatica agli alpeggi era occasione di trasmissione di cultura
concreta, reale e di tradizioni. Ai più piccoli si
raccontavano antiche leggende, ballate, filastrocche. Ai più grandicelli i “saperi” sull’ambiente naturale e fisico in funzione delle risorse e dei pericoli. Le donne insegnavano alle
ragazze a raccogliere e conservare piante aromatiche ed officinali ed il loro utilizzo.
La cucina, da ricerche effettuate nell’area
di Mendatica, era basata essenzialmente su
latticini, farinacei, ortaggi, patate, aglio, porri, rape ed erbe spontanee, la cosiddetta
“cucina bianca”. L’olio era un bene prezioso
(pur se a contatto di “boschi” di ulivi), una
sorta di medicina, da usare con parsimonia (cuü truncu); la dose si otteneva intingendo un
rametto nella bottiglia.
L’alimentazione era basata su piatti unici e
rapidi nella preparazione: Streppa e caccia-là,
pezzi di pasta strappati ed appiattiti con le
dita, in acqua bollente, con foglie di cavolo,
rape e patate; Sugéli, gnocchetti di farina e
acqua conditi con una salsa a base di brussu e
soffritto di aglio e porro; Turle, grossi ravioli di
patate e menta conditi con panna di latte,
aglio, porro, nocciole tostate; Brodo di erbe
amare.
Fig. 12 — Immagine di pastori tratta dalla rivista
“A Vastera” N. 37 – 2005
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Fig. 13 — Uliveto in valle Arroscia… mancano le pecore
DAGLI
ARCHIVI
Nell’archivio del Comune di Zuccarello (SV), sito in bassa Valle Neva affluente dell’Arroscia in
sponda sinistra, esiste una serie di documenti relativi all’anno 1822 e sino all’anno 1880 che riportano interessanti e puntuali informazioni circa la gestione della pastorizia. Ne citiamo alcuni elementi
in sintesi: tassa sulle bestie lanute; determinazione del numero delle pecore – tassa per capra e
pecora . luoghi di pascolo – danni e vantaggi delle capre – delimitazione dei percorsi – multe – mandrie pecore e concimazione – numero di capi per pascolo – termini temporali di sosta – proroga per
nevicate in quota.
In un documento oltre ai cognomi di tre pastori, tipici delle località di provenienza ancora oggi
(Carnino e Viozene) e il loro numero di capi, si legge che ufficializzavano la scrittura toccandola
corporalmente e siglandola con croce ( - 30 xbre 1823 -). In un’area del territorio di Zuccarello,
definita da tali documenti, sono ancora esistenti i muretti bassi in pietra a secco di delimitazione
dei recinti.
IL “CICLO”
DEL PASTORE TRANSUMANTE
Il giorno e l’anno del pastore sono cadenzati da precise necessità ed incombenze.
Il ciclo annuale inizia in dicembre sulla costa, o immediato entroterra, sino a maggio, tra vigneti, oliveti, boschi o campi coltivati: sorveglianza, mungitura, lavorazione latte, nascita agnelli in
gennaio e maggio. Ad aprile o maggio la tosatura. In maggio, ritorno al paese di origine con viaggio
di uno o due giorni; sosta di un mese, con lavori agricoli. Nella seconda metà di giugno avvio ai pascoli estivi. In settembre, il clima si raffredda e si ritorna al paese di residenza, ivi seconda tosatura
e lavori agricoli; le pecore non hanno latte. A novembre partenza per le sedi invernali e si chiude il
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Fig. 14 — Pascoli sui monti dell’Albenganese
ciclo. La giornata è così suddivisa: sveglia alle cinque – prima mungitura, riordino e poi pascolo del
gregge (h. 9 – 17) poi mungitura e lavorazione latte (h. 19 – 21), quindi un po’ di riposo e poi in
“braccio a Morfeo” (h. 23).
AUSILI
Non c’è gregge senza pastore, non c’è pastore senza cane. Il cane è il suo miglior collaboratore; ben addestrato al fischio e alla voce, riordina, recupera e ritorna; è la sua lunga mano. E’ un
operatore fedele e poco oneroso. I cani scelti sono incroci o puri, di varia provenienza, ma appartenenti a razze specificatamente addestrate, come il pastore Bergamasco.
Non manca l’asino o il mulo per il trasporto degli strumenti ed attrezzi necessari. L’asino percorre sentieri impervi con carichi notevoli, paziente si accontenta di foraggio povero, paglia, erbe
secche, dure, spinose. Sa riconoscere il padrone e ricorda il cammino percorso. Quando l’attività si
svolge a quote elevate, viene utilizzato il mulo, che può essere anche impiegato nei lavori agricoli.
Con l’apertura di strade rotabili sono scomparsi a favore dei mezzi motorizzati.
“PRODOTTI”
Il gregge è generalmente composto di ovini e qualche capra. La pecora abbisogna di cure e
di attenzioni continue, diuturne; le pecore dei nostri pascoli appartengono alla razza Brigasca, pregiata per la carne e per il latte. Allevata da secoli dai pastori brigaschi, ma esistono anche citazioni
per la Frabosana e la Garessina. La loro pelle viene raramente conciata.
La lana ottenuta è grossolana, con una resa annua di poco inferiore al kg per capo. Era venduta
sui mercati della valle Arroscia a grossisti biellesi che stabilivano il prezzo. Oggi non è più un introito; parte data ai privati, usata per materassi, parte interrata o come concime.
La carne è fornita dagli agnelli 2 o 3 per anno e per pecora; i maschi, alcuni, scelti per la riproduzione e lana e gli altri per la carne, le femmine, alcune, per la riproduzione e lana e le altre vendute dopo 3/4 mesi. Fra questi pastori vige un’usanza che merita descrivere. Quando le pecore vengono date in affitto, norme particolari regolamentano i diritti di proprietà dei nati, in funzione del
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tempo di nascita. Se le pecore
partoriscono l’agnello, il proprietario ha diritto a 1 solo
capo su cinque tra quelli nati
entro la croce di maggio.
Spettano tutti al proprietario
quelli nati dopo la croce di
maggio. Questa data corrisponde al 3 maggio celebrato
dalla Chiesa Cattolica come
“Invenzione della santa Croce”.
Nel caso di mancata nascita di agnelli, durante il periodo di affitto, il proprietario è
Fig. 15 — Pecore ed agnelli al pascolo
tenuto a pagare il cosiddetto
“svernamento” al fittavolo
(spese per lo svernamento del
gregge). Il latte munto per circa sette mesi (1 litro al giorno per capo in media), forniva il formaggio (la toma) e poi il bruss derivato dalla ricotta. Circa 1 kg di formaggio ogni 5,5 litri e 0,5 di ricotta o di bruss. E’ un latte ad alta percentuale di caseina. Il formaggio ricercato per il sapore ed il
potere nutritivo e facile digeribilità. Collocato presso i grossisti della valle, al prezzo da loro stabilito, in estate e nella stagione invernale presso il Centro urbano più vicino. Lo stallatico è considerato un concime pregiato per le sue caratteristiche fisiche e chimiche, ricco di sali di potassio e fosforo e azoto; è un ottimo rigeneratore di terreni sfruttati da frumento, segale, orzo e avena e per il
pastore compensa gli affitti per i pascoli in quota, sulla costa e nei campi che coltiva.
Sulla costa il pastore disponeva la stabulazione notturna in un oliveto, concordando l’area col
proprietario e predisponendo attorno ad essa un recinto di pali e corde dove introdurre il gregge per
la notte. L’operazione si ripeteva per altre porzioni di terreno per le notti seguenti. Al mattino successivo il proprietario provvedeva a terminare l’operazione rivoltando il terreno concimato.
LAVORO
NEI CAMPI
Nelle sedi di residenza e negli alpeggi stagionali il pastore provvedeva a coltivare appezzamenti
per il fabbisogno famigliare; l’eventuale eccedenza costituiva un inatteso introito. I prodotti ricavati generalmente erano patate, ortaggi comuni, ma in passato grano, segale, miglio, lenticchie.
I pastori di Montegrosso coltivavano la segale e il grano in quota e quindi le pecore dovevano
trasferirsi ancora più in alto, tanto da non consentire il ritorno giornaliero. In questo caso le greggi
restavano per i mesi più caldi, attorno ai 2000 m. ed il pastore usufruiva dei gias o di vecchie caserme abbandonate. Per facilitare varie attività venivano riuniti da due a quattro greggi, guidate da un
solo pastore.
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STUDI SULLA
IL
TRANSUMANZA E L’ALPEGGIO
1
PASTORE: OPERATORE
ECO-NOMICO
Sino alla seconda metà del
secolo scorso l’attività del
pastore transumante non era
solo dedicata alla cura del
gregge, ma anche ad altre,
complementari: la coltivazione dei terreni, l’utilizzazione
dei boschi e varie pratiche
artigianali.
Fare il pastore era una
scelta in gran parte condizionata dall’assetto familiare e
Fig. 16 — Itinerario pastorale nell’entroterra di Arnasco (Sv)
che presupponeva una esigenza di vita libera nella natura
con un lavoro gestito in proprio; unico condizionamento la collocazione dei prodotti. La cura del
gregge non consisteva solo nell’ottenere latte e carne. La sorveglianza al pascolo interessava la
maggior parte della giornata: esigeva continue attenzioni verso possibili deviazioni dai percorsi,
dagli sconfinamenti, oltre a tenere unito il gregge, osservare il comportamento dei singoli capi per
le malattie, le gravidanze, prevenire e difenderlo dagli attacchi dell’aquila reale agli agnelli, come
ricordano gli anziani, o a quelli del lupo, coi cani di giorno, o coi fuochi di notte. Lupo che oggi è
ritornato a far danni, come dimostrano cronache recenti.
Il pastore possedeva nozioni empiriche di veterinaria, farmacologia, meteorologia oltre a una
buona salute e predisposizione alla fatica, dotato di un agile intuito per fronteggiare varie tecniche
operative; il tutto con un orario di lavoro variabile, ma lungo.
Il pericolo era sempre dietro l’angolo. Una roccia, incisa al margine del bosco delle Navette,
rimanda ai posteri questa scritta:
“restò qui morto da un fulmine il 5.8.1899 Calvin Sebastiano Antonio a Tenda nato
il 5.5.1883 [sedici anni]”
Fig. 17 — Gregge sulla spiaggia di Finale Ligure SV (fine ‘800)
16
Il pastore, e quindi il
gregge, sono legati alla ricerca dell’erba. Un nomadismo
“economico” mirato alla ricerca di condizioni ambientali
ottimali che, per tale ragione,
gli fanno ottenere il massimo
rendimento nei prodotti. La
pecora col suo modo di brucare e la concimazione distribuita è un ruminante che non
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solo mantiene il pascolo ma lo migliora. Come è stato dimostrato con studi ed esperienze.
CONCLUSIONI
Al termine di queste brevi note sui vari aspetti della transumanza in un settore delimitato
delle Alpi Liguri, possiamo trarne alcune considerazioni. La pastorizia transumante non si discosta
molto dai modelli esistenti in altre aree alpine. La differenza più evidente è nella lunghezza dei
percorsi. Le vie di transumanza e le aree di pascolo sono fisse da tempi immemori. In una ideale
continuità i menhir di S. Lorenzo di Rezzo (1600 m.) e quello nei pressi del lago Ratavolaira (2171
m.) di Carnino, ci rimandano alle culture megalitiche ed ai loro stretti collegamenti con M. Bego.
Agli inizi del secolo scorso (1900) i pastori, in Alta Valle Arroscia, erano centinaia, nel 1950 decine, oggi poche unità (solo 1 in Albenga). Nel secondo dopoguerra le condizioni di reddito e di lavoro
non più confrontabili con altre occupazioni hanno condizionato l’abbandono dei pascoli, componente del più generale abbandono delle attività rurali dell’entroterra, verso i miraggi (in allora) economici delle aree costiere. L’abbandono dei pascoli accelera il degrado verso gerbidi improduttivi, col
corollario della degradazione della viabilità, dei sistemi di drenaggio abbandonati. Smottamenti,
frane contribuiscono a rendere ormai abituali i disastri alluvionali sulla costa. Per cui si assiste a
enormi interventi e spese per facilitarne il defluire, dimenticando il semplice concetto: il mare si
salva in montagna.
La transumanza può contribuire a mantenere in equilibrio ecologico le realtà ambientali della
costa e della montagna in quota. Non incrementare la pastorizia transumante significa sprecare
risorse non utilizzabili altrimenti. L’ovino è un animale rustico che può essere allevato in terreni in
cui le colture pregiate sarebbero impossibili e dove il bovino non può accedere. Interventi sulle risorse foraggere per migliorarle e incrementarle, potrebbero costituire una fonte di reddito a disposizione di chi ancora sopravvive in montagna. Nei tempi sacri al mito industriale (anni ’70) l’Unione
Fig. 18 — Pascoli sovrastanti la pianura di Albenga, sullo sfondo l’isola Gallinara (Sv)
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STUDI SULLA
TRANSUMANZA E L’ALPEGGIO
1
Camere di Commercio Ligure aveva pubblicato un libro sui pascoli: migliaia e migliaia di ettari. Inoltre ricerche bioclimatiche confermano la predisposizione dei pascoli a foraggiere pregiate e produttive. Non mancano gli strumenti legislativi per programmazioni mirate, anche a lungo termine, in
vari settori di intervento, ma la volontà e la determinazione, purtroppo, non si possono creare per
legge. C’è solo da sperare che quei germi di ripresa, che si scorgono nelle comunità locali, non vadano dispersi.
Dove non specificato, le foto sono degli Autori.
RINGRAZIAMENTI
Si ringrazia E. Lazzaro per le traduzioni e G. Vicino per l’aiuto negli elaborati grafici.
RIASSUNTO
L’attrazione dello sviluppo economico della costa della Liguria di Ponente, nel secondo dopoguerra del secolo
scorso, è stato motivo di abbandono della tradizionale economia agro-pastorale del retroterra collinare e montuoso.
La stessa costa ed il suo immediato entroterra sono ricchi di segni e memorie di pastorizia transumante, ma ormai
privi di un significato contestuale. La pastorizia, diffusa in tutte le Alpi Marittime, affonda le sue origini nel santuario preistorico di M. Bego (V. Roja, Francia). In questa sede affrontiamo il fenomeno della transumanza in un settore
delle Alpi Liguri, che sono l’estremo più occidentale delle Marittime. Un cammino pastorale collegava gli alti crinali
delle Valli Arroscia e Tanaro col tratto costiero compreso tra Albenga (SV) e Diano Marina (IM). In un arco temporale
che copre gli ultimi 150 anni, sono descritte le strutture sul territorio (gias, selle, vastere, caselle), il ciclo di lavoro
annuale e giornaliero, le produzioni, l’economia, la funzione del pastore.
ABSTRACT
The Maritime Alps: in search of lost transhumance Abstract: The attraction exercised by the economic development of the coast of Western Liguria in the second half of the last century has been the cause for the abandoning of the traditional agro-pastoral economy of the hilly and mountainous hinterland. The coast itself and its direct
hinterland are rich in signs and memories of transhumant stock-raising. The stock-raising which was spread all over
the Maritime Alps has its origins in the prehistoric sanctuary of Mt Bego (Roja Valley, France). Here we are dealing
with the transhumance phenomenon in an area of the Ligurian Alps which is the most Western part of the Maritime Alps. Then pastoral route connected the high ridges of the Arroscia and Tanaro Valleys with the costal area
between Albenga (SV) and Diano Marina (IM). The structures of the territory (gias, selle, vastere, caselle), the
yearly and daily work, the productions, the economy, the function of the shepherd are described over a spell of
time covering the last 150 years.
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ZUSAMMENFAßUNG
Die Meeresalpen: auf der Suche nach den verlorenen immer wechselnden Weidenplätzen: Die Attraktion der
wirtschaflichen Entwicklung der ligurischen Westküste nach dem Zweiten Weltkrieg in letzen Jahrhundert hatte zur
Folge, daß die tradizionale Oekonomic der Vienzucht und der Landwirdschaft im hügeligen und bergigen Hinterland
weitgehend aufgegeben wurde. In diesem Küstengebiet und ihrem Hinterland findet man noch zahlreiche Zeichen
und Erinnerungen an die vielen alten, immer wechselnden Weideplätze, heute ohne Bedeutung: Die Viehzucht,
einst überall imm Alpengebiet verbreiter , hat ihren Ursprung im prehistorischen Heiligtum des Berges Bego (V.
Roja, Frankreich). Hier findet man das Phänomen der immer wechselnden Weideplätze in einem Sektor der
ligurischen Alpen, die die östlichsten der Meeresalpen sind. Ein Hirtenpfad verband die Berggipfel des Arroscia-und
des Tanarotales
mit der Küstenebene, worin Albenga (SV) und Diano Marina (IM) inbegriffen sind. In einer
Zeitspanne, die die letzten 150 Jahre beinhaltet, sind die Strukturen des Gebietes (gias, selle, vastere, caselle)
beschrieben, der Rhythmus der Tages-und Jahresarbeit, die Produkte der Landwirtschaft und die Funktion des
Schäfers.
RÉSUMÉ
Alpes Maritimes: à la recherche des transhumances perdues:L’attraction exercée par ledéveloppement
économique de la côte de la Ligurie Occidentale, dans la seconde moitié du siècles dernier, a causé l’abandon de
l’économie traditionaelle agropastorale de l’arrière-pays de colline et montueux. La côte même et son hinterland
tout proche sont riches d’indications et souvenirs d’élevage transhumant. L’élevage, courant dans toutes les Alpes
Maritimes, a ses origines dans le sanctuaire préhistorique de M. Bego (V. Roja, France). Ici nous abordons le
phénomène de transhumance dans un secteur des Alpes de Ligurie, qui forment la partie la plus occidentale des
Maritimes. Un chemin pastoral reliait les hautes arêtes des Vallées Arroscia et Tanaro avec le morceau côtier
compris entre Albenga (SV) et Diano Marina (IM). Au cours d’une période qui couvre les derniers 150 années, on
décrit les structures sur le territoire (gias, selle, vastere, caselle), le cycle de travail annuel et journalier, les
productions, l’économie, la fonctionm du pasteur.
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ALPI MARITTIME: ALLA RICERCA DELLE TRANSUMANZE