Nella rubrica “metrika”, testi di Greta Rosso • Fiorella Vacirca • Dario Zilovich Nella rubrica “tuttestorie”, racconti di pubblicazione informativa del Servizio Giovani del Comune di Alessandria (Assessorato Politiche Giovanili e della Famiglia) - marzo/giugno 2007 - distribuzione gratuita 05/bellezza Marco Castelletti • Michela Granocchio Casimira Dolcenotte Città di Alessandria Assessorato Politiche Giovanili e della Famiglia metrika (poesia e simili) pag. 02 • Greta Rosso Universare pag. 02 • Dario Zilovich Le tue mani pag. 03 • Greta Rosso Racconto in forma di cinque righe pag. 03 • Fiorella Vacirca Lamento tuttestorie (racconti, sceneggiature, favole) pag. 04 • Marco Castelletti Neve nera pag. 06 • Michela Granocchio Ambrosia pag. 08 • Fiorella Vacirca L’orrida bellezza pag. 09 • Casimira Dolcenotte La morte di Venere Se sei un giovane scrittore, poeta, disegnatore, pittore, fotografo, drammaturgo, ecc. e hai voglia di far conoscere i tuoi lavori ai lettori della nostra rivista PUBBLICALI SU PENNEDOKA! Invia le tue opere, insieme a una breve presentazione biografico/artistica, via e-mail ([email protected]) o portali all’Informagiovani (via Alfieri, 2 - Alessandria - 0131.266079). Ti aspettiamo! Greta Rosso Universare il mio ciclope ha un occhio solo che piange sangue Le cose possono essere il peggior tradimento alle cose stesse Io stessa non so porre fine al mio turbolento malumore L'afa è un parallelepipedo dalle forme castranti Dire non so quanti metri cubi di idee strappa alla gente sotto forma di sudore. Dario Zilovich Le tue mani Poi cade il giorno con le sue ore che si infrangono per terra e infrangono la terra. Credo nelle intemperie che ci salvano da quei tristi programmi ingiustamente chiamati bellezza. Senza freddo le tue mani baciano toccando e prendono la quiete notte buio all'alba le carezze senza odore le tue mani d'aria nel mio bianco sogno sveglio abitano pelle difettosa le tue mani nelle mie quasi per pudore danno spazio nel silenzio le tue mani come rose nei miei giorni le conservo. Greta Rosso Racconto in forma di cinque righe Ne sapevo abbastanza di quelle donne che diventano più belle ogni giorno che passa: basta accarezzare loro la nuca e il capezzolo s’ispessisce. Quando venni a stare in città mi lasciai dietro una scia d'amanti. Ora arrivo a identificare la cosa chiamata amore con uno scambio di batteri. Fiorella Vacirca Lamento Il tempo si è preso la mia bellezza sconcia. Ha catturato con le sue unghie i petali rossi della mia giovinezza rosa. Il tempo si è preso la mia bellezza delicata. L'ha fatta cadere nei sogni di qualche poeta senza talento pur di rendermi immortale. La mia bellezza si è presa il tempo della solitudine, l'ha stretto fra le sue mani lunghe guardandolo rantolare immortale. Nasce l’”Anonima Artisti” Il Circolo Letterario Punto(di)verso cambia forma e nome. Ha deciso di diventare autonomo per crescere, per andare oltre. I suoi ragazzi vogliono farcela con le loro gambe. I cambiamenti iniziano dal nome: da Punto(di)verso si trasforma in Anonima Artisti. Giorni e orari degli incontri invece non cambiano, ci si trova ogni mercoledì dalle 17.30 alle 19.00 e ogni primo mercoledì del mese dalle 17.30 fino alle 22.30 al Punto Di, in via Parini 21 ad Alessandria. I giovani dell’Anonima Artisti aspettano che vi facciate sentire, che la vostra arte si unisca alla loro per andare oltre. Insieme. Per contatti: [email protected] • 347.8481295 Marco Castelletti Neve nera B ellezza, una parola come un petalo che scivolava con le sue dita sul viso sfatto, dalla fatica e dallo sporco, un sensazione di perdita che lentamente, senza alcuna fretta prendeva possesso di lei e del suo corpo ogni mattino, quando il sole si mostrava uccidendo la luna e la vita riprendeva ovunque, i suoi piccoli amici, che la ospitavano ormai da qualche anno si erano già levati dal letto e con passo cadenzato, da veri ometti andavano a lavorare in miniera, per portare a casa quel poco che bastava loro a vivere; si ammazzavano di lavoro, erano piccoli, gracili e per questo erano stati scelti come minatori, per andare dove gli altri non giungevano per scavare, scavare e scavare ancora; non erano ancora grandi e già sembravano dei vecchi ricurvi, le facce mai pulite e le braccia forti, i vestiti rattoppati e le mani callose ma lo sguardo rimaneva quello luminoso dei bambini, con la speranza che mai li abbandonava, di tornare la sera per un pasto caldo e per la loro “mammina” come ormai la chiamavano. Non sospettavano quello che lei sentiva, a volte pensava che direttamente non gli interessasse, una serva bastava e avanzava perché farsi problemi? Era inutile pensare a lei davvero, pensare che il suo volto candido, una volta invidiato da tutti era sfiorito e ora al suo posto un bianco malaticcio, di una che non usciva mai alla luce del sole per i troppi lavori da fare in casa, anche se la verità era un'altra..non poteva farsi vedere da nessuno così, troppa era la vergogna, quegli occhi che a volte le facevano paura eppure erano i suoi, quelle mani rugose di sapone e di fatica che così tanto la orripilavano, e quel corpo flaccido che ormai strabordava dappertutto, dai vestiti, dalle sedie come se l’esile figura di un tempo fosse stato solo un ricordo distorto. Ogni mattina si alzava, e intanto che gli uccellini festeggiavano il nuovo giorno lei malediceva la sua vita e la sua natura, ramazzava il pavimento e si mordeva le labbra screpolate, che una volta anche i più bei principi avrebbero solo sognato; preparava i pasti, cuciva le vecchie uniformi dei ragazzi con come compagno il fuoco del camino, che ad ogni scoppiettio attirava il suo sguardo, quasi a ricordarle la luce dei suoi occhi quando si aggirava per il villaggio, quando i cavalieri che passavano di li per recarsi al castello le gettavano baci d’amore o fiori; ora di quei giorni rimanevano solo i ricordi, appassiti come le rose d’aprile, assieme ai sogni di vivere alla corte come una vera principessa. La sera, quando i piccoli tornavano lei sorrideva loro, non poteva non farlo nel vedere quegli occhi sognanti, quei sorrisi pieni d’amore, incuranti della loro sporcizia o dei loro dolori, la cena era pronta e come piccoli avvoltoi si lanciavano, affamati come sempre per il duro lavoro che non dava pace, non dava luce. E lei li guardava, con un sorriso stanco sulle labbra insoddisfatte, loro erano felici così, non gli importava mangiare quel poco che potevano permettersi, vivere in quella casetta appena bastante per tutti e otto, non importava della fuliggine e dello sporco che ogni giorno immancabilmente tornava, rendendo ancora più tetra la sua esistenza, eppure ogni tanto capitava che la guardassero negli occhi per lunghi momenti..e lei distoglieva lo sguardo imbarazzata, conscia della sua bruttezza e di come era appassita rapidamente nel corpo e nell’anima. Ogni mattina sospirava lentamente alzandosi, chiedendosi cosa la spingesse ogni volta a lasciare le sue coperte per una giornata di fatiche e di lievi singhiozzi, le lacrime avevano ormai finito di scivolare, lasciando tracce di un percorso mai totalmente asciutto ai bordi degli occhi, tra la fuliggine e quelle rughe che segnavano il volto come una ragnatela senza fine; le gambe inferme si muovevano quasi da sole, nel ripercorrere ogni giorno gli stessi passi, le stesse azioni ripetute all’infinito con a spingerla solo gli occhi sognanti di quei sette piccoli. Ogni sera, quando tornavano a casa i sette bambini erano affranti, desolati e distrutti per quanto fosse così misera la vita, costretti a lavorare senza aver mai vissuto la gioia di un gioco o di un semplice gesto di affetto o di comprensione da parte di adulti troppo impegnati con se stessi per badare ad altro; solo quando tornavano a casa e vedevano la loro meravigliosa, insostituibile mammina, sempre premurosa con loro, che li aiutava e li sosteneva quando necessario, vedevano la sua pelle bianca come la luna e le sue labbra che avrebbero attirato ogni principe della terra, vedevano il suo aggraziato corpo muoversi tra i fornelli; l’unica cosa che ogni tanto li preoccupava erano i suoi occhi, sempre tristi..ma quando loro la guardavano negli occhi lei sorrideva, quasi imbarazzata..evidentemente si rendeva conto della sua bellezza, tanto che a volte i piccoli si chiedevano come mai rimanesse ancora con loro, avevano sempre paura di perderla. Ogni mattina Biancaneve si alzava e andava allo specchio, si guardava e scuoteva la testa, gli occhi tristi vedevano una nuova ruga sul suo volto, una nuova imperfezione nel corpo: vedeva quello che voleva vedere, su di essa piangeva e si lamentava tutto il giorno fino a sera. Ogni giorno, intanto che la ragazza svolgeva le sue faccende di casa non risparmiando rimpianti e tristezza nello specchio un'altra forma, quella della regina, rideva della sua stregoneria. Michela Granocchio Ambrosia L a bellezza è una qualità, anzi è LA qualità che ci appaga l’animo e lo fa attraverso i sensi, divenuto oggetto di meritata e degna contemplazione. La bellezza è riferire, far parlare, ghenomena. Negli ultimi anni del 1700 Immanuel Kant scrisse nella “Critica al giudizio “che bello, che estetico è il giudizio di gusto...so…che cos’è la bellezza? Potremmo volgarmente approdare alla già sentita conclusione: - non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace Ed invece non penso che sia proprio così. Ci sono dei criteri, nel senso che la bellezza in quanto tale, un sentido, rientra in criteri più o meno standardizzati dalle religioni, dalle culture come dalle tradizioni e dalle politiche. Per fortuna nei tempi odierni i confini si stanno allargando…..tutto è molto più lecito, tollerato e free. Con l’aiuto del filosofo tedesco di cui sopra, facilitiamoci la risposta capovolgendo la domanda: la bellezza dov’è? Ad esempio ci sta benissimo nel Cyrano de Bergerac interpretato da Francesco Guccini Che “quando sta solo con il naso al piede dentro di lui continua a credere che il grande amore esiste continua ad amare senza peccato ama ma rimane triste“ La bellezza sta anche tutta in un piccolo bocciolo di rosa colto a metà gennaio. La bellezza è lì, tra i suoi piccoli petali rossi tempestati di goccioline minuscole che scendono dal cielo coperto di oggi, così fitte che poi alla fine sembrano rugiada! Siamo in un viale che conduce ad un castello dove noi abitanti siamo allergici alla diossina…e le rose continuano a sbocciare emanando anche aromi….speciali! La bellezza comporta la cognizione degli oggetti come aventi una certa armonia intrinseca con la Natura. La b è basata sul sentimento che suscita negli umani anche se la b umana è soltanto un aspetto dominante di una più grande ed incalcolabile b naturale. Per comprendere meglio ciò la Spica si mette un sottofondo musicale. Ratzmataz – Paolo Conte – La n° 16 e la 17 pure così inizia ad entrare in sintonia con i violini e tutti gli altri strumenti. 18 come proseguo ottimale. Qualcuno mi dica che non è un chiaro esempio di una bellezza più grande ed incalcolabile…la dote innata, la potenza di suonare…in quali maniere poi, con quale enfasi! Ci appagano l’animo i musicisti…come oggi allo scendere del sole dopo un cielo absolutely terso. Siamo a fine gennaio… La b come armonia intrinseca alla Natura e partendo da questo concetto la Spica ed esempio non sente più il bisogno di cercare la b in foreste tropicali. A suo giudizio non esiste fiore che sia di un azzurro più sconcertante e bello di quello del rosmarino. È sempre una gioia per lei incontrare questo arbusto benedetto dal sole delle sponde mediterranee e non solo. Ammirarne le foglie lineari, verdi superiormente ed argentate nella parte inferiore ed i fiori azzurro pallido con striature bianche e lilla a 2 labbra che sembra cantino tutta la gioia del mondo! Il bello per Aristotele come per Platone sta nel “vero”, è il “vero” So… guardate un po’… il rosmarino c’è, esiste e si può anche toccare, annusare, mangiare e bere ! E in quel delle Cinque Terre – Liguria – i fiori quest’anno sono perenni lì a cantare la n° 15 di Ratzmataz e Considerate le sopra citate 2, numero 2, labbra mettiamoci come accompagnamento musicale “just like a woman” cantata da Bob Dylan Oppure “a black magic woman” di Santana che dice anche: ohie, como va? e la Spica risponde: a dire il vero c’è nebbia che non vedevo da 4 anni e mi piace un sacchissimo! Sarà tutto dovuto a questo contrasto incredibile dato dal lato sinistro di questo duomo dalla facciata ancora bianca…. Erano giusto passate 3 ore dal tramonto e la Spica era uscita dallo “splendido mondo dei colori”di una anche e non solo, a black magic woman quando tutto intorno alla fine era quasi più solo nebbia. Grazie ancora, grazie infinite per le tue incomparabili interpretazioni di prati, ricordi…ferite…vento! Con tutti i suoi giochi e rotondità che solo tu sai illuminare così…grazie anche agli smalti che solo Sigmund ti sapeva far arrivare. C’è una mediazione forte tra te e la Natura, e riesci a farci sentire assolutamente parte integrante solo osservando le tue opere piene di comparse come di micro personaggi. Come abbiamo visto che per Platone ed Aristotele il bello sta nel vero, nell’età più moderna Gianbattista Vico afferma un altro criterio secondo il quale il vero è il fatto, factum… so, quindi unificando i due criteri ricaviamo la forma occidentale (cioè la nostra) della bellezza che inevitabilmente cos’è? E’ l’arte.Il bello è nell’arte dove però il bello in se è absolutely chimerico. E Andrea? Si è perso… ma comunque, sicuro, continua a raccogliere violette… e che mani che aveva! Con dita lunghe, nervose, affusolate e piene di forme ben delineate che passano solo positive vibes ed anche simpatiche senonchè voluttuose tensioni…Andrea fa il musicista, è un musicista d’altronde con tratti somatici pure un po’ cromanion. Madre mia! Si dice in Estrema dura come in Catalunia y islas canarias tambiaen… per non tornare alla sua di mamma che si può ri-citare ora solo attraverso dei versi di Pablo Neruda trasportati però dal SUO vento… che fu anche aspro e come! Oppure rosso… e lì lasciamo parlare F.G.Lorca. Lasciamo che sia… Lasciamo che ognuno vada dove vuole andare e che ognuno invecchi come gli pare… Bello è l’oggetto quindi di un Piacere absolutely disinteressato e contemplativo. Concorso “Poeti Superflui” Invia il tuo componimento poetico “superfluo” (ma che sia “SUPERFLUO”) alla redazione di Pennedoka ([email protected]) entro il 31 maggio 2007. Le 5 poesie più superflue (surreali, grottesche, ironiche, assurde) verranno come minimo pubblicate sul numero di luglio di Pennedoka e, se riusciamo, anche premiate pubblicamente in maniera eclatante e rocambolesca. Un’esempio di poesia superflua dice più e meglio di qualsiasi spiegazione: Annoio callisti coibento galassie mentre padiglioni auricolari colmi di strudel inneggiano al boiler che il nostro astigiano sentimento frullando sottosegretari infiamma i canili dell’anima. Il ventre tuo protocollato fomenta diverticoli tortura caldarroste mentre ottenebrati cacciatorpedinieri ingaggiano canaste rifuggendo pinnacole. Osa Ugo in me. Fiorella Vacirca (Anonima Artisti) L’orrida bellezza “Tu non sai cosa voglia dire per una donna non essere bella. Per noi la bellezza è tutto. Non vivendo che per essere amate, e non potendolo essere che alla condizione di essere avvenenti, l’esistenza di una donna brutta diventa la più terribile, la più angosciosa di tutte le torture.” (Fosca) L a Bellezza può essere noiosa. Credo che sia stato questo il pensiero dello scrittore nostrano Iginio Ugo Tarchetti quando decise di scrivere il romanzo “Fosca”. Tarchetti nasce a San Salvatore Monferrato, provincia di Alessandria, nel 1841. Diventa ufficiale nel commissariato militare, posto che abbandona nel 1865 dopo aver redatto degli scritti contro l'organizzazione militare ed in generale contro qualsiasi istituzione fondata sull'autorità. È ben presto riconosciuto come uno degli esponenti maggiori della Scapigliatura milanese, movimento di protesta e di polemica come espressione di disagio e d'insofferenza. Tarchetti, come i suoi compagni scapigliati, si dimostra insofferente, sregolato e ribelle alle convenzioni sociali, assumendo posizioni anticonformiste contro l'ipocrisia, il perbenismo e il falso pudore borghese. La sua notevole produzione letteraria si condensò in un breve arco di anni, dalla sua prima raccolta pubblicata nel 1865 al suo ultimo scritto, ”Fosca”, romanzo lasciato incompiuto a causa della morte di tisi e tifo sopraggiunta nel 1869, e terminato dall’amico Salvatore Farina. Il romanzo viene ispirato dalla donna che Tarchetti incontrò nel novembre del 1865 a Parma, Carolina: epilettica, di una bellezza non esattamente gradevole, con la quale intrattenne una relazione, causa non estranea alle dimissioni dall’esercito. La trama della “Fosca” è piuttosto semplice e autobiografica: Giorgio, il protagonista, comincia una carriera militare lontano da casa, lasciando nell’attesa la moglie Clara (bella, pacifica, di carattere dolce e mite), innamorandosi poi di Fosca, cugina di un suo superiore. Fosca è una donna arcigna, malata, epilettica, con un carattere nervoso e isterico, ha un amore fine per la cultura ed un aspetto esteriore alquanto discutibile: gli zigomi e le ossa delle tempie sono spaventosamente sporgenti, il pallore del volto contrasta con i capelli d’ebano, folti e lucentissimi, gli occhi grandi, nerissimi e vividi. Giorgio inizialmente pare disgustato da lei, ma giorno dopo giorno se ne innamora perdutamente. Cos’è che lo spinge verso di lei? È una pura attrazione oppure c’è qualcosa di più? L’amore fra i due diventa presto morboso, insostenibile e grave come un macigno: il macigno dell’ossessione di Fosca per un’altra bellezza. Quella della malattia, della morte. La bellezza disperata, imperfetta. Orrida. È da questa concezione di morbosità legata al diverso che comincia la caduta libera del protagonista. Una caduta a folle velocità verso l’oscuro, verso il buio, verso la bellezza di Fosca, che lo imprigiona definitivamente nella scena notturna, quando il suo corpo scheletrico lo avvinghia come se volesse trascinarlo con sé nella tomba. Fosca e la bellezza: due entità che sembra non abbiano nulla in comune, ma che si dimostrano complici delle ossessioni nella vita di ogni giorno di ciascuno di noi. La Bellezza “diversa” (come la sua gemella dai canoni estetici ben definiti) è la bestia che incanta, affascina e cattura senza lasciare sopravvissuti. È la prigione dei sensi e delle percezioni che vengono alterate dalla scoperta di una possibile verità: la Bellezza è una bugia che scompare, se non viene guardata. Casimira Dolcenotte La morte di venere N on sarebbe tornato. La bellezza, al suo passaggio, l’aveva rapito con sé. Ci fu un tempo in cui i manifesti segni della sua presenza sul mio viso lo avevano attratto per una fuggevole eternità inquieta e distratta. Presto, gli anni erano esplosi a fuoco lento sui connotati, implacabili, a sentenziare una sola parola: abbandono. La città salutò il primo dei vespri a lungo attesi. Accadde che Maggio e la Notte si incontrarono al culmine della volta zaffiro per trentuno volte, trentuno parti di Bellezza rara e preziosa come eclissi di sole. E, non potendo sostenere la presenza reciproca, Maggio si rifugiò oltre il coprifuoco del reale e la Notte cominciò a fumare alle sue porte, in attesa della resa finale. Vi era qualcosa di anomalo. Forse perché la luce si insinuava in maniera inusuale in un porticato che non sarebbe dovuto esistere, per poi spiovere a cielo aperto in riva a un incrocio che contava tre vie deserte. Ma non era la tredicesima ora che le campane rintoccavano lugubri a creare percorsi dal nulla o a deformare l’abitato. Era la Bellezza a sfigurare il paesaggio urbano nel più affascinante degli artifici, a catechizzarlo in anomalie che al risveglio si sarebbe scordata; la Bellezza che si aggirava con anima inquieta per le strade desuete. I suoi giorni erano centellinati dalla breve e alterna fusione dei due elementi essenziali alla sua esistenza concreta. Maggio e la Notte l’avevano partorita nella loro esplosione; e, mutatisi da creatori a muti discepoli al suo cospetto, l’avrebbero infine annegata nell’ultima alba prima della piena estate. La Notte quasi si scioglieva negli occhi di Maggio che parevano palpitare al pari delle stelle. Più oltre, il tepore era quasi insostenibile nella sua dolcezza; il blu intenso si sgranava nella mano tesa, pronta a cogliere ogni sentore della sera preludio all’estate. Poter passare indisturbati in quella lucentezza tenue – pensò la Bellezza – come sotto a un lenzuolo carezzevole, palpabile a pelle nuda… e una staf- filata d’estate la colpì all’improvviso in pieno petto e la fece sanguinare. Mortale alle narici, il profumo dei tigli dilagò in lei, pietra miliare olfattiva che non l’avrebbe mai più abbandonata, l’avrebbe fatta sentire per sempre parte di se stessa come se in quel solo momento dell’anno la sua vita fosse possibile. Seppe così che Maggio era l’inizio e la fine di tutto, il mese più crudele nello splendore primigenio, come di fanciulla colta nel pieno del suo incanto e il cielo sopra, in una piega amara e consapevole. Poiché la Bellezza non durava che lo spazio di una partita a biliardo stesa a notte sulla volta celeste, cinta dalle stecche del tempo, e il mondo sopra a dormirci aspettando che gli altri rientrino – gli altri chi? – come un bambino che di soppiatto rimane vestito nel letto, le calze ai piedi, in trepidante attesa dei grandi. “Notte, sfiorirai prima del tuo ultimo battito di ciglia” sentenziò Maggio. Ma il destino dei tre era ugualmente segnato. Tuttavia vagheggiavo l’immobilità del tempo quando il tempo, tutto era contro di me e la bellezza che sfumava. Mi ritrovai nelle abitudini consunte, ripassate come una preghiera d’anestesia: sedermi quieta sul balcone, come anni fa alla fine del giorno e della scuola o lungo le vigne toscane sulla piccola seggiola, sotto i tramonti dei sette anni. Ad aspettare per sempre i suoi passi di rientro che non saranno.