Storia dell’Aeronautica Aeronautica Militare Comando Generale delle Scuole DIVISIONE FORMAZIONE SOTTUFFICIALI E TRUPPA S.S.A.M. Caserta Storia dell’Aeronautica Militare Italiana 1 Storia dell’Aeronautica 2 Storia dell’Aeronautica ATTO DI APPROVAZIONE Approvo la pubblicazione dell’opera dal titolo: “Storia dell’Aeronautica Militare Italiana” Il Comandante la Div. Formazione Sottufficiali e Truppa - S.S.A.M. (Gen. Div. Salvatore LIVATINO) 3 Storia dell’Aeronautica 4 Storia dell’Aeronautica Lo stemma dell’Aeronautica Militare Lo stemma dell’Aeronautica Militare, sormontato dall’aquila turrita, simbolo dei piloti militari, racchiude i distintivi di quattro squadriglie che, durante la Prima Guerra Mondiale, si misero in luce per abilità, coraggio ed eroismo. Il “cavallo / leone alato con fiaccola” raffigura il distintivo dell’impavida 27ª Squadriglia Aeroplani, erede della 10ª Squadriglia Farman; fu protagonista, nel primo conflitto mondiale, di numerose missioni di ricognizione e di bombardamento. Il “quadrifoglio” riproduce il simbolo della 10ª Squadriglia da bombardamento Caproni, anch’essa impiegata in audaci azioni belliche durante la Grande Guerra. Il “grifo rampante” rappresenta l’insegna della 91ª Squadriglia da Caccia, nota come “Squadriglia degli Assi”, che ebbe tra le sue file eroi come Francesco Baracca, Piccio, Ruffo di Calabria e Ranza. Il celebre “leone di San Marco” fu adottato come emblema dalla 87ª Squadriglia Aeroplani, ribattezzata “La Serenissima”, in omaggio alla città di Venezia; è di questa squadriglia l’epico volo su Vienna al comando di Gabriele D’Annunzio. Accompagna lo stemma il cartiglio con il motto “Virtute Siderum Tenus” (con valore verso le stelle), che sintetizza il coraggio, la bravura ed il sacrificio di tutti gli Aviatori italiani. 5 Storia dell’Aeronautica Medaglie concesse alla Bandiera dell’Aeronautica Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare d’Italia Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia Medaglia d’Oro al Valor Militare Medaglia d’Oro al Valor Militare Medaglia d’Oro al Valor Aeronautico Medaglia d’Argento al Valor Militare Medaglia d’Argento al Valor Militare Medaglia d’Argento al Valor Militare Medaglia d’Argento al Valor Militare Medaglia d’Argento al Valor Militare Croce di Guerra al Valor Militare Medaglia d’Oro “Ai Benemeriti della Salute Pubblica” 6 Roma, 13 settembre 1991 Roma, 28 aprile 1937 Roma, 4 giugno 1936 Roma, 31 gennaio 1949 Roma, 12 marzo 1973 Roma, 5 giugno 1920 Roma, 8 ottobre 1920 Roma, 20 dicembre 1928 Roma, 3 ottobre 1929 Roma, 25 aprile 1932 Roma, 11 marzo 1926 Roma, 3 aprile 1981 Storia dell’Aeronautica I Capi di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare Gen. D.A. Pier Ruggero Piccio Gen. S.A. Armando Armani Gen. B.A. Giuseppe Valle Gen. D.A. Antonio Bosio Gen. S.A. Giuseppe Valle Gen. S.A. Francesco Pricolo Gen. S.A. Rino Corso Fougier Gen. D.A. Renato Sandalli Gen. D.A. Pietro Piacentini Gen. S.A. Mario Aimone Gen. S.A. Aldo Urbani Gen. S.A. Ferdinando Raffaelli Gen. S.A. Silvio Napoli Gen. S.A. Aldo REMONDINO Gen. S.A. Duilio FANALI Gen. S.A. Vincenzo LUCERTINI Gen. S.A. Dino CIARLO Gen. S.A. Alessandro METTIMANO Gen. S.A. Lamberto BARTOLUCCI Gen. S.A. Basilio COTTONE Gen. S.A. Franco PISANO Gen. S.A. Stelio NARDINI 1 gennaio 1926 - 6 febbraio 1927 10 febbraio 1927 - 13 ottobre 1928 22 febbraio 1930 - 23 novembre 1933 23 novembre 1933 - 22 marzo 1934 22 marzo 1934 - 10 novembre 1939 10 novembre 1939 - 15 novembre 1941 15 novembre 1941 - 26 luglio 1943 27 luglio 1943 - 18 giugno 1944 19 giugno 1944 - 11 dicembre 1944 13 dicembre 1944 - 25 febbraio 1951 25 febbraio 1951 - 10 novembre 1954 10 novembre 1954 - 1 febbraio 1958 1 febbraio 1958 - 1 settembre 1961 1 settembre 1961 - 28 febbraio 1968 28 febbraio 1968 - 31 ottobre 1971 1 novembre 1971 - 27 febbraio 1974 27 febbraio 1974 - 19 giugno 1977 20 giugno 1977 - 1 aprile 1980 2 aprile 1980 - 12 ottobre 1983 19 ottobre 1983 - 17 settembre 1986 18 settembre 1986 - 15 aprile 1990 16 aprile 1990 - 24 marzo 1993 Gen. S.A. Adelchi PILLININI Gen. S.A. Mario ARPINO Gen. S.A. Andrea FORNASIERO Gen. S.A. Sandro FERRACUT Gen. S.A. Leonardo TRICARICO Gen. S.A. Vincenzo CAMPORINI Gen. S.A. Daniele TEI Gen. S.A. Giuseppe BERNARDIS Gen. S.A. Pasquale PREZIOSA 25 marzo 1993 - 3 giugno 1995 4 giugno 1995 - 5 febbraio 1999 5 febbraio 1999 - 3 agosto 2001 3 agosto 2001 - 4 agosto 2004 5 agosto 2004 - 19 settembre 2006 20 settembre 2006 - 29 gennaio 2008 29 gennaio 2008 - 25 febbraio 2010 25 febbraio 2010 - 24 febbraio 2013 25 febbraio 2013 7 Storia dell’Aeronautica 8 Storia dell’Aeronautica Capitolo I Dagli aerostieri alla vigilia del primo conflitto mondiale Dai palloni all’affermazione del più pesante I l 28 marzo 1923 fu fondata l’Aeronautica Militare come forza armata autonoma. Le sue origini risalgono, però, a qualche decennio prima quando, sullo scenario del potenziale bellico nazionale, fa il suo primo e ancor timido ingresso una nuova specialità il cui sviluppo è legato, almeno per il momento, al “più leggero dell’aria”, a quei palloni, cioè, grazie ai quali arditi aeronautici avevano conquistato il cielo. Siamo nel 1884 per l’esattezza e, agli ordini del tenente Alessandro Pecori Giraldi, viene costituito a Roma dapprima al Forte Tiburtino, quindi alla caserma di Castel Sant’Angelo un Servizio aeronautico che, nel gennaio dell’anno successivo diventa Sezione aerostatica del 3° Reggimento del genio, il cui parco comprende due palloni da 550 metri cubi, l’ “Africo” e il “Torricelli”, un generatore di idrogeno e un verricello a vapore per la manovra del cavo di ascensione. Un inizio davvero modesto per quella che sarà la futura arma azzurra! Nell’estate di tre anni dopo la Sezione, grazie alla prima legge dello Stato relativa alla nuova specialità, viene assorbita, insieme a tutti gli altri servizi speciali del genio, dalla Compagnia specialisti, che ha subito modo di dimostrare sul campo le proprie capacità partecipando alla spedizione del generale Asinari di San Marzano, nei possedimenti italiani sul Mar Rosso, con tre aerostati - il “Serrati”, il “Volta” e il “Lana” - che vengono impiegati in ascensioni frenate di ricognizione. Per la prima volta nella storia fa la sua comparsa quello che sarà poi il colore della forza armata: una nappina azzurro cobalto viene infatti adottata come distintivo di specialità e va a fregiare il copricapo del personale assegnato alla Compagnia che, nel 1889, subisce un ulteriore aggiustamento ordinativo diventando Brigata mista del genio, articolata in una Compagnia treno per il trasporto dei materiali in dotazione e una Compagnia specialisti. Uno dei tre aerostieri utilizzati nei posseQuest’ultima si impone nell’estate del 1894 9 dimenti italiani del Mar Rosso Storia dell’Aeronautica agli onori della cronaca con la prima ascensione libera di un pallone militare di costruzione italiana, il “Generale Durand de la Penne”, compiuta dal capitano Maurizio Moris e dal tenente Cesare Dal Fabbro i quali, più animati da grande coraggio che sorretti da specifica preparazione, si levano in volo dalla piazza d’armi ai Prati di Castello (nei pressi dell’attuale piazza Mazzini in Roma) per discendere poi, fortunatamente senza incidenti, a qualche chilometro dalla capitale. Altri, in questi primi tentativi, saranno meno fortunati: la prima vittima è un geniere di vent’anni, Oreste Vacca, che il 15 giugno 1899 precipita su una riva del Tevere dopo essere rimasto aggrappato ad una delle funi di vincolo di un pallone strappato dal vento; la seconda il capitano Arnaldo Ulivelli il cui pallone prende fuoco in volo, il 7 giugno 1907, dopo essere stato colpito da un fulmine. Nel novembre del 1894 il Ministero della Guerra decide di riunire in un unico reparto tutti i servizi di aeronautica: nasce così la Brigata specialisti che nel 1909 diventerà autonoma. I primi voli liberi con pallone, se da una parte avevano fatto già ampiamente intravedere le grandi potenzialità del nuovo mezzo, dall’altro ne avevano anche evidenziato tutti i limiti, soprattutto in applicazioni militari, derivanti dal fatto che la loro traslazione orizzontale era affidata esclusivamente ai Maurizio Mario Moris venti. La necessità di dotarli di un sistema autonomo di navigazione rappresenta dunque, agli inizi del secolo, il maggior problema tecnico alla cui soluzione vengono rivolti studi e ricerche che vedono seriamente impegnati anche gli uomini della Brigata. Questi sforzi si concretizzano nella realizzazione del primo dirigibile militare italiano, l’N.1, ideato, progettato e costruito dai capitani Gaetano Arturo Crocco e Ottavio Ricaldoni. Questo semirigido - di 2.500 m3, rivestito di seta verniciata esternamente in alluminio, lungo 63 metri e con un diametro di 10 alla sezione maestra - effettua durante il mese di ottobre del 1908 quindici uscite, condotto in volo dagli stessi costruttori. Gli esperimenti si concludono proprio l’ultimo giorno del mese con il volo Vigna di ValleAnguillara-Roma e ritorno, per un totale di 80 chilometri percorsi in un’ora e trentacinque minuti. Per la prima volta nella storia un dirigibile vola, a 500 metri di quota, sulla 10 capitale del Regno; un giornale l’indomani titolerà: “Da Bracciano al Quirinale in 32 Storia dell’Aeronautica minuti”. Esattamente un anno dopo l’N.1 bis parte da Vigna di Valle ed effettua, in 14 ore di volo senza scalo, una crociera di 470 chilometri nel corso della quale vengono sorvolate Napoli e Roma. Ma il progresso ormai incalza e, accanto agli studi sul “più leggero” e alle relative realizzazioni dovute nel nostro Paese ad uomini geniali come Almerigo da Schio, Enrico Forlanini (noto anche per aver legato il suo nome all’ideazione dell’elicottero), Domenico Piccoli o Celestino Usuelli, tanto per citarne alcuni, il nuovo secolo vede schiudersi un nuovo, decisivo capitolo nella storia del volo. Il dirigibile N. 1 in volo su Roma Il 17 dicembre 1903 un velivolo a motore realizzato da due fratelli, Orville e Wilbur Wright, si alza a tre metri da terra sulla spiaggia di Kitty Hawk e compie per dodici secondi un volo di trentasei metri. . . “troppo modesto - dirà poi lo stesso Orville - se paragonato a quello degli uccelli, ma pur tuttavia il primo nella storia del mondo”. La grande impresa è compiuta e, ovviamente enorme è lo scalpore che essa suscita ovunque. Gli Stati Uniti per primi, ma anche il Vecchio Continente grazie soprattutto alla Francia, iniziano la costruzione delle nuove macchine volanti. In Italia ci si limita all’acquisto da parte del Club degli aviatori del velivolo Wright n. 4 - costruito in Francia e 11 Storia dell’Aeronautica capace di una velocità di 58 chilometri l’ora con un carico utile di 120 chilogrammi - che è in assoluto la prima macchina “più pesante” in linea nel nostro esercito. Su di esso lo stesso Wilbur compie, il 15 aprile 1909, il primo di una lunga serie di voli Il primo volo dei fratelli Orville e Wilbur Wright a Kitty Hawk circondato dall’entusiasmo di una folla enorme convenuta per l’occasione sull’aeroporto romano di Centocelle. Ben presto, però, anche nel nostro Paese sorgono le prime case costruttrici, certamente con strutture e metodologie ancora artigianali, ma che di fatto aprono la strada a quella che, di lì a pochi anni, diventerà una vera e propria industria aeronautica. Nascono così, nel 1909, il triplano di Aristide Faccioli sul quale, particolare curioso, il pilota manovra stando in piedi; il primo biplano Caproni, dell’anno successivo, capostipite di una gloriosa serie di velivoli; i motori Anzani a raffreddamento ad aria, uno dei quali viene montato sul Blériot con il quale il celebre costruttore compie la prima traversata della Manica; le costruzioni aeronautiche di Franz Miller, di Mario Cobianchi, di tanti altri, noti e meno noti, la cui opera contribuirà comunque al progresso dell’aviazione. Insieme alle prime macchine, ecco anche i primi piloti italiani regolarmente brevettati: il sottotenente di vascello Mario Calderara, brevetto di pilota di aeroplano n. 1, conseguito il 12 settembre 1909 “per acclamazione” durante il 1° Circuito aereo internazionale di Brescia, e il tenente del genio Umberto Savoia, n. 2, entrambi addestrati da Wilbur Wright durante la sua permanenza romana. Il 1910 rappresenta un anno decisivo per le sorti della nuova specialità e segna storicamente il primo atto ufficiale del riconoscimento della validità dell’aeroplano come mezzo operativo e, quindi, della nascita dell’aviazione militare. 12 Storia dell’Aeronautica Si organizza a Centocelle la prima Scuola militare di aviazione; le nascenti forze aeree vengono riordinate e potenziate con la costituzione, agli ordini di Maurizio Moris, ora tenente colonnello, del Battaglione specialisti autonomo del genio nel quale viene inserita la nuova Sezione aviazione, con sede a Torino, che viene posta sotto il comando del tenente colonnello Vittorio Cordero di Montezemolo; il Parlamento, soprattutto, ratifica ufficialmente l’importanza dell’aviazione approvando uno stanziamento, cospicuo per l’epoca, di 10 milioni di lire per la costruzione di nove dirigibili, l’acquisto di 10 aeroplani e il pagamento delle indennità speciali spettanti a tutto il personale del settore. Una materia, quest’ultima, che sarà più compiutamente disciplinata l’anno successivo con il Regio Decreto n. 1265 del 25 settembre. Alla sua costituzione il Battaglione può contare su una forza di otto piloti e altrettanti veli- Il primo aereo usato in Libia fu il Farman del Cap. Piazza (al centro sopra l’aereo) voli - tre Farman e cinque Blériot tutti dislocati a Centocelle - che rappresentano, insieme a due dirigibili e ad alcuni aerostati, tutta la nostra forza aerea. La quale, peraltro, ha ben presto la possibilità di dimostrare ancora una volta sul campo le sue capacità. Nel settembre del 1911 scoppia infatti il conflitto italo-turco per il possesso della Libia, dove, insieme a tre dirigibili ed alcuni aerostati, viene inviata una flottiglia di aeroplani di cinque piloti effettivi e sei di riserva, una trentina tra graduati e uomini di truppa e nove aerei - tre Nieuport, due Blériot, due Etrich e due Farman - tutti con motore 13 Storia dell’Aeronautica da 50 HP. Questa esperienza, durata poco più di un anno, ha assunto particolare rilevanza nella storia dell’aeronautica, non solo italiana, in quanto ha costituito il primo caso al mondo di impiego bellico del “più pesante dell’aria”. Da allora nomi come quello di Piazza, Gavotti o Moizo, tanto per limitarci ai più noti, sono Il campo di Centocelle nel 1923 ormai legati storicamente alla prima missione di ricognizione strategica, al primo bombardamento, al primo volo di guerra notturno, alla prima missione di aerocooperazione o alla prima concezione dell’aviazione da caccia. Tutto ciò, più di ogni teoria, convince le autorità di governo che è ormai impensabile trascurare la nuova specialità e gli atti ordinativi si susseguono per razionalizzarne e potenziarne l’organizzazione. Il Regio Decreto 25 febbraio 1912 n. 182 istituisce a Vigna di Valle la prima unità di quello che diventerà il Servizio meteorologico dell’aeronautica: la Regia Stazione aerologica principale. Con la legge 27 giugno 1912 n. 698 viene istituita, nell’ambito del Ministero della Guerra un’organizzazione aeronautica che - attraverso un Ufficio d’ispezione dei servizi aeronautici - si articola sul preesistente Battaglione specialisti di Roma (al quale viene affidato l’impiego esclusivo di dirigibili e palloni), un Battaglione aviatori con sede a Torino e uno Stabilimento costruzioni ed esperienze, sempre nella capitale, alle cui dipendenze 14 viene posto il Cantiere sperimentale di Vigna di Valle. Storia dell’Aeronautica Contemporaneamente prende il via un programma di potenziamento che prevede - entro la primavera del 1913 - la costruzione di dieci dirigibili e la costituzione di dieci squadriglie con 150 aeroplani. Anche l’idroaviazione trova intanto applicazione in campo militare. Dopo i riusciti esperimenti di Guidoni, Crocco e Ginocchio, che avevano dato risultati concreti intorno al 1911, nell’ottobre dell’anno successivo viene costituita a Venezia la Sezione idroaeroplani, prima nell’ambito del Regio Esercito, poi, l’anno successivo, in quello della Marina. Nel cominciare a porre concretamente le basi della sua organizzazione aeronautica militare, negli stessi anni l’Italia è anche il primo paese, e per lungo tempo l’unico, nel quale si sviluppa, grazie a Giulio Douhet, una vera e propria dottrina del potere aereo e del suo impiego nel campo strategico, una dottrina che fa del “dominio dell’aria” la chiave di volta decisiva per il conseguimento della vittoria finale in un conflitto moderno. Il 1915, alla vigilia del nostro intervento in guerra, vede intanto configurarsi con maggior chiarezza un’organizzazione aeronautica sempre più staccata dall’Arma del genio. Il Regio Decreto del 7 gennaio di quell’anno, poi convertito in legge nel 1917, istituisce infatti il Corpo aeronautico militare - dipendente dal Ministero della Guerra e articolato fondamentalmente su due Comandi, quattro Battaglioni, uno Stabilimento costruzioni aeronautiche, una Direzione tecnica dell’aviazione militare e un Istituto centrale aeronautico - il quale, insieme all’Ispettorato sommergibili e aviazione che vedrà ufficialmente la luce l’anno successivo nell’ambito dello Stato Maggiore Marina, rappresenta il quadro di tutta la forza aerea nazionale al momento in cui i colpi di pistola sparati a Sarajevo danno inizio a una terribile guerra. 15 Storia dell’Aeronautica 16 Storia dell’Aeronautica Capitolo II La Grande Guerra e l’intervento M algrado la preziosa esperienza acquisita durante la Campagna di Libia e i successivi tentativi di dare una più organica e funzionale definizione alla nuova arma, lo scoppio della Grande Guerra nell’agosto del 1914 trova comunque le nostre forze aeree del tutto impreparate, scarse di mezzi e di infrastrutture e senza un adeguato supporto di un’industria di settore, la cui capacità produttiva complessiva è ancora limitata a pochissime macchine all’anno. Neppure i mesi che trascorrono tra l’inizio delle ostilità e l’intervento italiano sono sufficienti per modificare sostanzialmente questa situazione. Il 24 maggio 1915, dunque, il nostro Paese si presenta sul teatro di guerra con una forza aerea di 15 squadriglie di aeroplani, di cui solo 12 mobilitate - 6 su Blériot, 4 su Nieuport e 2 su Maurice Farman - oltre a 3 dirigibili: il P.4 (messo a disposizione, della Marina), l’M.1 e il P.5. A questi mezzi, facenti parte dell’aeronautica dell’Esercito, si aggiungono quelli della Marina comprendenti 15 idrovolanti - 5 Curtiss, 4 Borel, 4 Albatros e 2 Bréguet - e due dirigibili: l’M.2 “Città di Ferrara” e il V.1 “Città di Jesi”. Un totale di un’ottantina tra aeroplani e idrovolanti, tutti di costruzione straniera, a fronte dei 1.150 velivoli della Francia, ad esempio, o dei 764 della Germania. I piloti di aeroplano sono circa 130, di cui solo una cinquantina ai reparti mobilitati; gli specialisti, tra motoristi e montatori, poche unità di più; gli ufficiali osservatori una ventina. L’attività dei nostri reparti aerei inizia fin dal primo giorno di guerra con ricognizioni fotografiche nella zona di Podgora effettuate dal tenente pilota Gaetano Coniglio e dal tenente Andrea De Brani, appartenente quest’ultimo ad una specialità, l’osservazione, nata fin dal 1911 alla Scuola di Aviano dopo il positivo giudizio espresso dallo Stato Maggiore sulla prima partecipazione del mezzo aereo alle Grandi manovre dell’Esercito. Il 25 maggio la prima azione di guerra vera e propria: cinque velivoli del 3° Gruppo effettuano con esito positivo il bombardamento dei cantieri di Monfalcone. In questa prima fase, comunque, l’attività della nostra aviazione è piuttosto limitata, soprattutto se confrontata con quella svolta dagli austriaci, il cui livello di organizzazione e di addestramento è sensibilmente superiore al nostro. In aggiunta a ciò, si fa ben presto sentire l’usura della guerra: già nel mese di agosto, dopo solo tre mesi, la consistenza dell’aeronautica dell’Esercito si riduce a otto squadriglie di aeroplani, con i Blériot praticamente scomparsi dalla scena. 17 Storia dell’Aeronautica Nei mesi immediatamente successivi, grazie anche agli aiuti francesi e ad una più funzionale strutturazione dell’industria del settore, vengono acquisiti mezzi più moderni e in numero tale da consentire di organizzare quattordici squadriglie da bombardamento e ricognizione. L’entrata in linea dei nuovi trimotori Caproni appositamente realizzati per il bombardamento e la costituzione della prima squadriglia da caccia segnano per la nostra aviazione un ulteriore e decisivo salto di qualità. La nuova specialità deve comunque segnare il passo fino alla primavera successiva, soprattutto a causa della difficoltà di installare armi efficaci sui velivoli. Nel 1915 i piloti sono ancora armati con una pistola, sia pure a tiro rapido, la cui utilizzazione è evidentemente limitata all’eventualità di atterraggio Il trimotore Caproni in territorio nemico. La situazione migliora decisamente con l’entrata in linea del Nieuport “Bebè”, un monoposto costruito in Italia dalla Macchi, lo stesso con il quale, il 7 aprile 1916, il maggiore Francesco Baracca ottiene la prima vittoria della caccia italiana abbattendo un Brandenburg austriaco nel cielo di Medeuzza. Quando sarà a sua volta abbattuto sul Montello le vittorie di questo “asso” ammonteranno a 34. Nei quattro anni del conflitto le forze aeree svolgono un ruolo determinante per la Il Nieuport “Bebè” vittoria finale. Le operazioni si sviluppano in varie forme: dall’osservazione al bombardamento, dall’appoggio alle forze di superficie all’attacco, anche con razzi, a palloni drachen. La fantasia popolare, comunque, si appropria soprattutto delle imprese dei cacciatori, romanticamente visti come la moderna versione degli antichi eroi cavallereschi. Nella battaglia del Piave del giugno del 1918 l’impiego della massa da caccia e di quella da bombardamento rappresenta l’elemento determinante del ripiegamento del nemico che aveva sferrato l’ultima offensiva. Il 9 agosto dello stesso anno dieci SVA dell’87ª Squadriglia nota come “La Serenis18 sima” compiono un’impresa senza precedenti volando su Vienna sulla quale lancia- Storia dell’Aeronautica no manifestini tricolore con un messaggio di Gabriele D’Annunzio. Il 24 ottobre comincia la battaglia di Vittorio Veneto dove, a fronte di un’aviazione austriaca ormai allo sbando, tutte le specialità dell’aeroLa “Serenissima” al ritorno dal volo su Vienna; da sinistra: Granzarolo, Allegri, nautica italiana Locatelli, Palli, D’Annunzio, Massoni, Finzi e Censi (manca il Ten. Sarti, costretto partecipano attiad atterrare per guasto al motore a Wiener Neustadt) vamente all’ultima lotta prima della vittoria. Al momento dell’armistizio, il 4 novembre 1918, le forze aeree del nostro Paese comprendono: 70 squadriglie di aeroplani e 5 dirigibili dell’Esercito; 45 squadriglie tra idrovolanti e aeroplani e 15 dirigibili della Marina. Complessivamente i velivoli in linea sui fronti italiano, francese e greco-albanese sono 1.758 più 26 dirigibili. Malgrado tutto lo sforzo industriale era stato imponente: nel corso della guerra erano stati costruiti 11.986 velivoli e prodotti 23.979 motori, 39.783 eliche, 7.700 mitragliatrici, 512.400 bombe d’aereo e 10.644 metri quadrati di lastre fotografiche. Le scuole di volo - 31 dell’Esercito e 4 della Marina - avevano fornito ai reparti 5.100 piloti (fra cui circa 500 allievi per il servizio aereo degli Stati Uniti, detti anche i “foggiani” dalla scuola dove erano stati addestrati sui Caproni), 500 osservatori, 100 mitraglieri e 5.000 specialisti. Al nome di Baracca si erano ben presto afPier Ruggero Piccio fiancati quelli di Scaroni, Piccio, Baracchini, 19 Storia dell’Aeronautica Ruffo di Calabria e Ranza, tanto per citare l’inizio di un albo d’oro che, a fine conflitto, raggiunge le 43 unità se ci limitiamo a conteggiare solo gli aviatori accreditati di almeno cinque aerei abbattuti, duecento invece i protagonisti di un nuUfficiali americani sul campo di Foggia Nord davanti ad un biplano Firman MF14; mero inferiore di al centro della foto, con la bustina, si riconosce Fiorello La Guardia, futuro sindaco di New York vittorie. Gli aviatori caduti in voli di guerra, in incidenti di volo o in addestramento erano stati 1.784. Il riconoscimento del valore dimostrato sul campo dagli appartenenti alla nostra aviazione si concretizza con la concessione di 24 medaglie d’oro al valor militare, più una ad un ufficiale del Corpo aereo americano, di 1.890 d’argento e di 1.312 di bronzo; il Corpo aeronautico militare italiano viene decorato della Croce di cavaliere dell’Ordine militare di Savoia e di due medaglie d’argento al v.m.. 20 Storia dell’Aeronautica Capitolo III Il dopoguerra e la nascita della Regia Aeronautica L e esigenze belliche avevano avuto senza dubbio l’effetto di accelerare lo sviluppo della nuova arma aerea, del suo impiego - sia pure nella contrapposizione dottrinaria tra aviazione d’assalto, di cui era sostenitore Amedeo Mecozzi, e aviazione strategica, propugnata già da tempo dal Douhet - e, più in generale, del progresso tecnico del materiale di volo e dell’aeroplano. A fronte di questi fermenti positivi, però la situazione economica della Nazione appare gravemente compromessa dai quarantuno mesi di conflitto. Il che - unitamente alla mancanza di una reale volontà politica in favore dell’aviazione, relegata a rango subalterno da un Esercito e una Marina che, non dimentichiamo, erano ancora le uniche a esistere come forze armate indipendenti - provoca una vera e propria smobilitazione che, se fa segnare delle battute d’arresto, non può però fermare il cammino di quella che è ormai considerata l’arma del futuro. Non a caso, anche in questo periodo di crisi, gli aviatori sono comunque i protagonisti di imprese importanti e significative. Già nei primi mesi del 1919 una missione militare italiana parte per l’Argentina. Di essa fanno parte Antonio Locatelli e Luigi De Riseis. Il 2 luglio Locatelli decolla con uno SVA da Buenos Aires diretto in Cile: un’improvvisa tempesta scoppiata sulla Cordigliera delle Ande, sulle quali due mesi prima era caduto il pilota argentino Matienzo, rende impossibile questo primo tentativo. L’impresa riesce il 30 luglio e viene ripetuta il 5 agosto sul percorso inverso dallo stesso Locatelli che copre i 1.500 chilometri di distanza in sette ore e mezzo. Nel volo di andata, sul punto approssimativo dove era caduto Matienzo, Locatelli lascia cadere una corona di fiori e una pergamena con le firme di tutte le donne italiane di Mendoza. De Riseis, dal canto suo, parte il 2 agosto da Rio Lujan, nei dintorni di Buenos Aires, e, risalendo il Rio della Plata, raggiunge Asunciòn, percorrendo la rotta inversa quattro giorni dopo. Il 12 maggio dello stesso anno, intanto, Mario Stoppani e Giuseppe Grassa partono da Torino con uno SVA 5 e uno SVA 9 e, in quattro ore, raggiungono Barcellona in tempo per l’inaugurazione dell’Esposizione mondiale aeronautica. Dopo alcune esibizioni acrobatiche nella stessa città catalana e a Madrid, Stoppani rientra in Italia con un volo senza scalo di 1.900 chilometri che si conclude sull’aeroporto di Centocelle. L’opinione pubblica seguiva con grande interesse queste “gesta” delle quali venivano 21 Storia dell’Aeronautica colti soprattutto gli aspetti di affermazione individuale e quelli tecnico-sportivi. Senza dubbio, però, l’impresa che più d’ogni altra colpì la fantasia della gente e che fu vista a livello di cultura popolare come una versione aggiornata del viaggio di Marco Polo, fu il volo Roma-Tokio. Un’impresa incredibile per l’epoca in cui si svolse e che, più concretamente, ha costituito il primo esempio pratico delle enormi possibilità dell’aeroplano e del suo impiego come moderno vettore di pace e di progresso tra i popoli. Tra il gennaio e il febbraio del 1920, dunque, quattro trimotori Caproni partono isolatamente senza peraltro riuscire ad andare più in là dell’Asia Minore dove vengono bloccati da incidenti di vario genere. Nel marzo decollano ancora, questa volta in formaMario Stoppani zione, cinque SVA agli ordini del capitano Mario Gordesco. Anche questo tentativo non ha fortuna: l’ultimo dei cinque velivoli subisce un incidente irreparabile a Calcutta. Contro ogni previsione il successo arride invece ad altri due piloti, Francesco Ferrarin e Guido Masiero, che il 14 febbraio erano decollati da Centocelle su due SVA con a bordo due giovani motoristi, Gino Cappannini e Roberto Maretto. Partiti in aggiunta alla missione ufficiale, con alle spalle appena sette giorni di tempo per organizzare il volo, con un “bagaglio” individuale che, come avrebbe poi scritto lo stesso Ferrarin, comprende “due chilogrammi di zucchero, una bottiglia di acqua di colonia, una camicia e un paio di mutande”, i due arrivano in coppia fino ad Adalia per poi proseguire separatamente verso Tokio che raggiungono insieme il 31 maggio e dove sono oggetto di eccezionali festeggiamenti che si protraggono per quarantadue giorni. In tre mesi e mezzo di viaggio i due hanno percorso circa 18.000 chilometri per complessive 112 ore di volo alla media di circa 160 km/h. I due SVA, reduci dalla Grande Guerra, e sommariamente revisionati, erano dotati solo di strumenti per il controllo del motore: un contagiri, un termometro della temperatura dell’acqua, un manometro della pressione dell’olio e un indicatore del livello del carburante. Per la navigazione Ferrarin, che era stato il solo ad arrivare con lo stesso SVA con cui era partito, si era servito di una piccola bussola prelevata da un caccia inglese Sopwith e 22 di alcune pagine strappate da un atlante. Per il pilotaggio nessuno strumento, nem- Storia dell’Aeronautica meno l’indicatore di velocità. I tempi per dare alla nuova arma quell’autonomia fino ad oggi mancatale si rivelano a questo punto maturi, se non sul piano strettamente militare, non vedendo l’Esercito e la Marina di buon occhio il sorgere di una terza forza armata che avrebbe esercitato la sua competenza su quella componente aerea che esse avevano sempre impiegato in proprio, certamente su quello politico, i cui maggiori esponenti avevano invece colto già da tempo le grandi possibilità offerte dalla carica di novità, modernità, progresso tecnico e tensione spirituale che circondava il mondo dell’aviazione. Il 24 gennaio 1923 viene istituito il Commissariato per l’aeronautica; il 28 marzo la Regia Aeronautica e, pochi mesi dopo, l’Accademia Aeronautica. Il 4 novembre, quinto anniversario della vittoria, la nuova forza armata riceve, nelle mani del suo primo Comandante generale, l’asso e medaglia d’oro Pier Ruggero Piccio, la bandiera di guerra. Il 30 agosto 1925 il Commissariato diventa Ministero. 23 Storia dell’Aeronautica 24 Storia dell’Aeronautica Capitolo IV La Regia Aeronautica tra primati e trasvolate La costituzione della Regia Aeronautica in forza armata autonoma dà un nuovo impulso allo sviluppo dell’aviazione italiana che si ripropone ben presto all’attenzione del mondo con altre imprese eccezionali. Nel 1925 Francesco De Pinedo e il motorista Ernesto Campanelli volano per 370 ore su tre continenti, percorrendo con l’idrovolante S.16ter “Gennariello”, 55.000 chilometri da Sesto Calende a Melbourne, a Tokio fino a Roma. Sempre De Pinedo, questa volta con Carlo Del Prete e con il motorista Carlo Zacchetti, compie nel L’idrovolante “Gennariello” in una stampa dell’epoca 1927, a bordo dell’S.55 “Santa Maria”, una crociera di 46.700 chilometri sul percorso ElmasPorto Natal-Rio de Janeiro-Buenos Aires-Asunciòn-New York-Terranova-Lisbona-Roma. L’anno 1926 vede invece protagonista il dirigibile nella prima trasvolata del Polo Nord. L’iniziativa è ideata contemporaneamente dal celebre esploratore Roald Amundsen e dal colonnello Umberto Nobile, direttore dello Stabilimento aeronautico di Roma. Amundsen, dopo aver tentato invano di raggiungere il Polo con degli aerei, aveva infatti rivolto la sua attenzione al più leggero dell’aria sollecitando l’Aero Club norvegese ad ac- 25 Storia dell’Aeronautica quistare un dirigibile. La scelta era caduta sull’ N.1 costruito in Italia da Nobile che viene acquistato grazie ai finanziamenti forniti da un amico dello stesso Amundsen, Lincoln Ellsworth. La preparazione tecnica dell’impresa e l’allestimento delle basi lungo il percorso vengono fatte dal governo italiano: l’avventura ha inizio. Il dirigibile, battezzato “Norge”, parte il 10 aprile Il dirigibile “Italia” sorvola il Duomo di Milano 1926 da Ciampino agli ordini di Nobile. Giunto in Norvegia, e presi a bordo Amundsen ed Ellsworth alla Baia del Re, alle 9,50 dell’11 maggio parte per l’ultima tappa della trasvolata polare. Il giorno dopo, alle 1,30, sorvola il Polo Nord sul quale vengono lanciate tre bandiere: quella italiana, la norvegese e, in onore del finanziatore dell’impresa, l’americana. 26 Storia dell’Aeronautica Il 14 alle 7,30 il “Norge” approda a Teller, in Alaska, dopo aver percorso 5.300 chilometri in 70 ore e 40 minuti. Trascorrono due anni e Nobile è pronto con un nuovo dirigibile, gemello del primo, che viene chiamato “Italia”. La nuova spedizione è composta da quattordici italiani, un cecoslovacco e uno svedese. Il 15 aprile 1928 il dirigibile condotto da Nobile parte da Milano e, dopo un viaggio fortunoso, raggiunge la Baia del Re. Il 24 maggio alle 0,20 il Polo è raggiunto ancora una volta. Durante il viaggio di ritorno, dopo 131 ore di navigazione, la tragedia: il dirigibile perde improvvisamente quota e urta violentemente contro la banchisa. Dei sedici uomini a bordo uno muore nell’urto, nove sono sbalzati sui ghiacci e sei vengono trascinati via dall’aeronave ormai squarciata: di questi ultimi non si saprà più nulla. I superstiti, al riparo della celebre “tenda rossa”, resisteranno sul pack fino a quando la generosa corsa contro il tempo per salvarli, nella quale perdono la vita alcuni uomini tra i quali lo stesso Amundsen, non si concluderà felicemente. I naufraghi sono avvistati da Umberto Maddalena, Nobile viene portato in salvo dal primo aereo che riesce a prendere terra, quello dello svedese Lundborg, gli altri dal rompighiaccio sovietico “Krassin”. L’avventura polare chiude definitivamente il discorso, nel nostro Paese, del “più leggero”, forse solo con un piccolo anticipo sui tempi. Nel frattempo in Italia - dove nel 1927 era stato costituito a Guidonia un Centro studi ed esperienze dotato di sofisticati laboratori di ricerca e di apparecchiature d’avanguardia - si va facendo strada il progetto di effettuare lunghi raid con un numero consistente di aerei. Nascono così le crociere collettive, di cui si fa energico sostenitore Italo Balbo, Ministro dell’Aeronautica. Il primo esperimento di navigazione aerea di massa viene compiuto dal 26 maggio al 2 giugno del 1928 nel Mediterraneo occidentale con una brigata e due stormi per un totale di 61 tra S.59bis ed S.55 sul percorso di 2.804 chilometri da Orbetello alla penisola iberica e ritorno. Un anno dopo dal 5 al 19 giugno, trentacinque S.55 volano per 4.667 chilometri effettuando la crociera del Mediterraneo orientale sul percorso Taranto-Atene-lstanbulVarna-Odessa-Costanza con rientro ad Orbetello, un idroscalo che l’anno successivo vedrà nascere la Scuola di navigazione aerea d’alto mare e i preparativi per la prima traversata in formazione dell’Atlantico dall’Italia al Brasile. Dopo un’accurata e capillare organizzazione la mattina del 17 dicembre 1930 alle 6,45, quattordici idrovolanti S.55A due dei quali attrezzati ad officina, decollano da Orbetello, agli ordini di Italo Balbo. Il 15 gennaio 1931, dopo aver toccato Cartagena, Kenitra, Villa Cisneros, Bolama e poi, attraverso l’Atlantico, Porto Natal e Bahia, in 61 ore e mezzo di volo per 10.350 chilometri, la crociera si conclude a Rio de Janeiro sollevando l’entusiasmo di tutto il mondo e, più concretamente, aprendo di fatto la strada alle linee regolari tra i due continenti e ponendo le basi per un serio 27 Storia dell’Aeronautica addestramento collettivo moderno. Il successo della prima Crociera atlantica e il prestigio che da essa deriva all’ancor giovane Aeronautica, consente di mettere in piedi un progetto analogo con cui celebrare degnamente il decennale della forza armata: la traversata dell’Atlantico fino agli Stati Uniti in occasione dell’Esposizione internazionale di Chicago e dell’inaugurazione del monumento a Cristoforo Colombo. La preparazione tecnica, l’organizzazione logistica, l’approntamento delle basi di appoggio, tutto viene previsto e organizzato con una cura, se possibile, ancora maggiore dell’esperienza precedente. Sempre agli ordini di Balbo, il 1° luglio 1933 otto squadriglie di ventiquattro S.55X, versione potenziata dell’ormai celebre idrovolante, decollano da Orbetello e, dopo varie tappe, raggiungono New York il giorno 19 in un clima di incredibile entusiasmo che ha il suo epilogo nella trionfale sfilata per Broadway. Se le crociere di massa hanno segnato il passaggio dal periodo romantico dell’aviazione, dove tutto o quasi era affidato all’iniziativa del singolo, a quello “moderno”, fatto soprattutto di organizzazione e programmazione seria e meticolosa, non per questo esse hanno impedito che nello stesso periodo altri primati e imprese individuali arricchissero il già blasonato albo d’oro della Regia Aeronautica. Nel 1928 Ferrarin e Del Prete avevano volato dall’Italia al Brasile con un idrovolante S.64, percorrendo 7.666 chilometri in 58 ore L’arrivo a New York del 19 luglio 1933 e 34 minuti e battendo i pri28 mati mondiali di durata e distanza in circuito chiuso. Gli stessi, dopo appena un Storia dell’Aeronautica mese, erano partiti da Montecelio e, dopo 51 ore di volo, senza scalo, avevano raggiunto in 7.188 chilometri Touros sulle coste del Brasile. I due primati erano stati migliorati due anni dopo da Maddalena e da Fausto Cecconi che con un S.64bis avevano percorso 8.188 chilometri in 67 ore e 13 minuti. Nel 1934 il pilota Renato Donati conquista il primato di altezza raggiungendo i 14.433 metri, oltre mille in più del record precedente detenuto dal francese Lemonine. Per l’impresa viene opportunamente adattato un velivolo Ca.113 trasformandolo per le alte quote e dotandolo anche di un impianto di erogazione automatica di ossigeno. Dopo mesi di duro lavoro e di severo allenamento, Donati decide di tentare la mattina dell’11 aprile. Preparato l’aereo e indossata la tuta termoelettrica, alle 11,38 egli decolla. Secondo i calcoli la quota massima sarebbe stata raggiunta intorno a mezzogiorno; in realtà l’aereo inizia a scendere solo alle 12,45. Dopo un brusco atterraggio l’aereo, invece di fermarsi, comincia a girare su se stesso con Donati che, Renato Donati svenuto al momento di toccare terra, non è in condizioni di agire sui comandi. L’intervento sollecito dei meccanici evita più gravi conseguenze. Il pilota, ripresi i sensi, apprende di aver battuto il primato. Il 7 maggio 1937 il colonnello Mario Pezzi, comandante del Reparto alta quota costituito a Guidonia, raggiunge i 15.655 metri d’altezza e poi, dopo essere stato superato dall’inglese Adams, ritenta l’impresa il 22 ottobre dell’anno successivo su uno speciale Ca.161bis dotato di un motore Piaggio a doppio compressore e di una cabina stagna, antesignana delle moderne cabine pressurizzate. I 17.083 metri raggiunti costituiscono ancor oggi un primato imbattuto per velivoli con motore a pistoni. Nel 1937, intanto, l’equipaggio formato da Cupini e Paradisi su S.79 vince la gara Istres-Damasco-Parigi. Un anno dopo Roma è collegata con Rio de Janeiro da tre S.79 della famosa Squadriglia dei “sorci verdi” in 24 ore e 20 minuti di volo con una sola tappa intermedia a Dakar. Un susseguirsi, insomma, di imprese tra le quali la più singolare resta quella compiuta nel 1933 da Tito Falconi che vola da Saint Louis a Chicago in tre ore, sei minuti e trentasei secondi... a testa in giù. In una decina d’anni la Regia Aeronautica in competizione con le altre nazioni industrialmente progredite, aveva guadagnato oltre cento primati in varie categorie. Alla vigilia dell’entrata in guerra, nel 1939, essa - sugli 84 primati previsti dalla Federazione aeronautica internazionale - ne deteneva ben 33, contro i 15 della Germania, 12 della Francia, 11 degli Stati Uniti, 7 dell’Unione Sovietica, 3 del Giappone, 2 dell’In29 ghilterra e 1 della Cecoslovacchia. Storia dell’Aeronautica Le crociere, i raid, i primati avevano prodotto effetti considerevoli, sia sul piano interno che all’estero, in termini di prestigio e di crescita tecnico-organizzativa, ma avevano anche evidenziato limiti che la mancanza di un dibattito interno serio e spregiudicato impedì di cogliere. Al di là di ogni altra considerazione, l’affermazione dell’Aeronautica come nuova forza armata “alla pari” delle altre due, non costituì un elemento unificante della nostra politica militare, ma, in luogo di un’auspicabile maggior cooperazione tra le tre componenti, accentuò di fatto la tendenza isolazionistica di ognuna di esse. 30 Storia dell’Aeronautica Capitolo V L’Aeronautica tra i due conflitti mondiali D opo la conclusione della Prima Guerra Mondiale, l’Italia fu impegnata nelle operazioni per la riconquista della Libia, che iniziarono nel 1922 e si conclusero solo dieci anni dopo. La repressione della resistenza interna attuata attraverso la guerriglia fu infatti più lunga ed estenuante del previsto, e il ruolo della Regia Aeronautica si rivelò determinante soprattutto per l’appoggio che essa fornì alle truppe di superficie. Alle operazioni parteciparono praticamente soltanto bombardieri e ricognitori in quanto, non esistendo aviazione avversaria, non furono impiegati reparti da caccia. Gli aerei utilizzati furono, all’inizio, quelli residuati dalla Grande Guerra e, successivamente, i Ro.1, i Ca.73 e i Ca.101. Erano passati solo tre anni quando il governo fascista, approfittando con estremo tempismo della crisi del sistema di equilibri europei determinata dal ritorno della Germania nazista ad una politica di potenza, decise di giocare la carta del “posto al sole”: un modo per consolidare il potere e rispondere, come soluzione alla depressione in atto, a quelle aspettative che lo stesso regime aveva ingenerato nelle masse popolari. Iniziò così nel 1935, cogliendo a pretesto un presunto attacco ad un presidio italiano, la campagna di Etiopia, uno dei pochi territori africani non ancora colonizzato. L’obiettivo era importante e grande fu quindi lo sforzo organizzativo e logistico. Solo per consentire una funzionale operatività delle forze aeree furono costruiti 83 nuovi aeroporti: 29 in Eritrea e 54 in Somalia. La proporzione delle forze, la diversa qualità degli armamenti, l’assenza di un’aviazione contrapposta, la decisione del Negus, soprattutto, di affrontare il nemico in campo aperto piuttosto che ricorrere a forme di guerriglia, tutto ciò fece si che la La battaglia di Mau Cei, in Etiopia, raffigurata sulla Domenica del Corriere guerra si risolse molto più rapida- 31 Storia dell’Aeronautica mente del previsto: dopo soli sette mesi dalla dichiarazione di guerra, infatti, le truppe italiane entravano vittoriose ad Addis Abeba e “l’impero riappariva sui colli fatali di Roma”. La Regia Aeronautica aveva affrontato nella campagna una prova impegnativa, sia per le difficoltà ambientali e climatiche incontrate, sia per la vastità del territorio da controllare. Un ruolo essenziale nella condotta delle operazioni fu svolto dall’Aeronautica nel campo della ricognizione, del trasporto e dell’aerorifornimento. Ma non meno determinante fu, prima della caduta della capitale abissina e durante la successiva repressione della resistenza, l’impiego del mezzo aereo in campo tattico, contro truppe e postazioni avversarie, e in campo strategico, con bombardamenti di fortificazioni, ponti, vie di comunicazione e centri abitati. Inizialmente i reparti operanti furono equipaggiati con i Ro.1, Ca.97, Ca.101 e CR.20, ma ben presto questi aerei vennero sostituiti dai più moderni Ro.37 e Ca.111 per la ricognizione, mentre il bombardamento vennero utilizzati i monoplani Ca.133 ed S.81. Era appena terminata la campagna etiopica che un’altra occasione si presentò al governo italiano per estendere la sua influenza fuori dai patrii confini: dopo alcuni chiari segni premonitori, infatti era scoppiata in Spagna una durissima guerra civile che coinvolse ben presto alcune nazioni, tra le quali la nostra, e migliaia di volontari. Da una parte i democratici schierati a difesa di una Repubblica che, nelle lacerazioni interne e nel mancato Caproni 133 sul campo di Macallé sostegno delle grandi democrazie occidentali, sempre più prudenti quando nel gioco entrava la Germania, aveva visto esaurirsi in mille contraddizioni la spinta propulsiva per l’edificazione di una società nuova; dall’altra i generali, con a capo Franco, che contro questa Repubblica proponevano un progetto di restaurazione di stampo nazionalista e reazionario. A sostegno di questi ultimi si schierò l’Italia che, appena dodici giorni dopo il pronunciamento dei generali spagnoli, intervenne con nove trimotori S.81- inquadrati nel “Tercio”, la Legione straniera spagnola - che da Melilla assicurarono il potere aereo sufficiente per consentire lo sbarco delle truppe franchiste dal Marocco alla penisola iberica. Se nei primi mesi della guerra le forze aeree in campo non furono numerose, ben presto i contendenti vennero però riforniti di materiale moderno. La Regia Aeronautica partecipò ai 32 mesi del conflitto con 730 velivoli: bombardieri S.81, S.79 e Br.20, caccia CR.32 32 e Ro.41, assaltatori Ba.65, ricognitori Ro.37, idrovolante Cant.Z.506 e, sperimental- Storia dell’Aeronautica mente, anche i nuovi caccia monoplani G.50. Per l’esigenza “Operazioni militari in Spagna” furono effettuati oltre 8.500 voli di guerra e conferite agli aviatori 56 medaglie d’oro al valor militare, di cui due ad ufficiali spagnoli. CR 32 Senza entrare nel merito di un’analisi storico-politica delle vicende spagnole, l’utilizzazione dell’aviazione in questo teatro dette preziosi insegnamenti sull’impiego tecnico operativo del mezzo aereo, soprattutto in ordine alla vulnerabilità delle formazioni da bombardamento in assenza di protezione della caccia. Si era appena chiuso con la vittoria del franchismo il conflitto spagnolo, che l’Italia in armi era di nuovo sul piede della mobilitazione. Appena tre mesi dopo, infatti, il nostro governo decise, il 7 aprile 1939, di occupare militarmente un territorio, l’Albania, che dal 1927 era un protettorato italiano. Organizzata dal Ministero della Guerra, la spedizione, che altro non fu se non un velleitario tentativo di Mussolini per arginare la penetrazione tedesca nei Balcani, si concluse con estrema rapidità, grazie G 50 soprattutto alla mancanza di una seria opposizione avversaria, piuttosto che alla bontà di un’organizzazione che in realtà fu messa in piedi in maniera quanto meno affrettata e approssimativa. La Regia Aeronautica fu chiamata a partecipare con 261 aerei che, in una decina di giorni, effettuarono 1.800 ore di volo per azioni dimostrative, di spezzonamento e di protezione alle colonne terrestri, di ricognizione, aviosbarco e trasporto di personale e materiale. Se queste partecipazioni belliche avevano confermato il ruolo determinante ormai assunto in un conflitto moderno dall’aviazione sia in campo tattico, sia in quello strategico, e si erano rivelate come esperienze estremamente significative di impiego militare 33 Storia dell’Aeronautica del mezzo aereo, esito altrettanto positivo esse non ebbero per il nostro Paese sul piano più strettamente politico. A parte, ma non è poco, il logoramento praticamente senza soste a cui furono sottoposte le nostre forze armate e lo svuotamento delle casse dello Stato per le ingenti e sproporzionate risorse che queste campagne avevano assorbito, sottraendole a quello che avrebbe dovuto essere un normale e più realistico potenziamento, tali esperienze ingenerarono nell’opinione pubblica l’illusione di una potenza militare certamente superiore alla realtà e alle possibilità della Nazione, come gli eventi della 2ª Guerra Mondiale avrebbero presto messo impietosamente a nudo. 34 Storia dell’Aeronautica Capitolo VI Dallo scoppio della 2ª Guerra Mondiale alla Rinascita La Regia Aeronautica nella 2ª Guerra Mondiale I limiti di sviluppo di cui soffrirono nel loro complesso le forze armate italiane tra le due guerre mondiali non furono, fino ad un certo punto, un nostro fatto esclusivo. Mentre però negli altri paesi gli anni ‘35 e ‘36 segnarono, a fronte del profilarsi sempre più evidente del riarmo tedesco, la svolta decisiva per colmare i ritardi accumulati grazie a stanziamenti per la difesa di eccezionale portata, in Italia nello stesso periodo le risorse vennero invece assorbite da una politica di potenza a breve respiro che trovò in Etiopia e in Spagna le manifestazioni più rilevanti. Se a questi ritardi, reali soprattutto per l’Esercito e l’Aeronautica, si aggiungono poi gli altri elementi di debolezza strutturale del nostro potenziale, il quadro che ne deriva non è certo tale da spingere a condividere il troppo facile ottimismo di chi, all’epoca, vagheggiava una guerra di breve durata, al termine della quale sedersi al tavolo della pace dalla parte dei vincitori. Su questi elementi di debolezza e sul peso reale che essi ebbero, mancano ancor oggi studi adeguati e momenti di serio approfondimento critico, tutto essendo per lo più limitato alla ricostruzione di singoli avvenimenti che, presi anche nel loro insieme, sono però staccati da quel più ampio quadro di riferimento indispensabile per collegarli ed interpretarli correttamente. In tal modo tutto finisce quindi per trovare la sua ragione d’essere nella generica individuazione di responsabilità, di volta in volta attribuite all’incapacità della classe politica o all’inettitudine di quella militare, allo strapotere del nemico o addirittura all’accanirsi di un destino avverso. Anche se rilevante è il pericolo di cadere in schematizzazioni e generalizzazioni approssimative - un pericolo peraltro altrettanto facile quanto quello di affastellare acriticamente tutto il passato in quanto tale nell’esaltazione agiografica e indiscriminata della “tradizione” - non è però possibile non accennare, se non vogliamo fermarci ai singoli episodi o alle vicende puramente politiche, a quegli elementi che pesavano in negativo sul nostro paese alla fine degli anni 30: l’arretratezza tecnologica dell’industria nazionale, ad esempio, o la relativa capacità di mobilitazione da essa messa in atto, la mancanza di materie prime o, per converso, quella di una chiara dottrina militare, o ancora l’incapacità del regime di comporre con coerenza la sua volontà di perseguire un certo tipo di politica insieme con l’ovvia necessità di indirizzare a questo fine risorse ben più ampie di quanto avvenne. Si pensi, tanto per avere un più concreto riscon- 35 Storia dell’Aeronautica tro, che l’Italia liberale aveva destinato a spese belliche, nel periodo 1913-1919, il 76% delle uscite statali e il 38% del reddito nazionale lordo, contro il 20% e il 6% rispettivamente del periodo 1939-1940. Ma torniamo agli avvenimenti. Dopo un breve periodo di neutralità, dunque, il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra a fianco dell’alleato tedesco. Al momento della dichiarazione la Regia Aeronautica è ancora in fase di riorganizzazione. L’attività svolta negli anni precedenti, se da una parte era servita ad aumentare l’esperienza professionale dei suoi piloti e tecnici, dall’altra aveva provocato il logoramento e del personale e, soprattutto, del materiale di volo, peraltro depauperato dalle consistenti esportazioni imposte da ragioni valutarie. Complessivamente la forza armata può contare su 23 stormi da bombardamento terrestre armati con velivoli Br.20, Cant.Z.1007, S.79 ed S.81; 2 da bombardamento marittimo su Cant.Z.506; 6 stormi da caccia terrestre montati su Cr.42, G.50, MC.200 e CR.32; 1 stormo d’assalto su Ca.310; 2 gruppi da combattimento su Ba.88; una squadriglia da caccia marittima su Ro.43 e 44; 37 unità da osservazione aerea su Ca.311 e Ro.37 per l’Esercito e 19 da ricognizione su Cant.Z.501 per la Marina; 2 gruppi dell’aviazione coloniale e 2 squadriglie dell’aviazione sahariana su Ca.309. Un totale di 1.332 velivoli da bombardamento, 1.160 da caccia, combattimento e assalto, 497 per l’Esercito e 307 per la Marina, sparsi tra il territorio metropolitano, l’Albania, la Libia e le isole dell’Egeo. Gli aerei da trasporto, di ben 15 tipi diversi, sono 114 di cui 25 in Africa orientale, dove sono presenti MC 200 “Saetta” anche 323 aerei da bombardamento, caccia e ricognizione. L’Italia, insomma, dispone di oltre 3.000 velivoli, ma di questi soltanto 1.796 efficienti e di pronto impiego e per di più sparsi in uno scacchiere vastissimo praticamente dalle Alpi all’Equatore. Gli aerei più moderni sono, tra i bombardieri, gli S.79, i Br.20 e i Cant.Z.506, e, per la caccia, i G.50, gli MC.200 e i CR.42, tutti già operanti nella Guerra di Spagna ad eccezione degli ultimi due. Soltanto la caccia dispone di una certa aliquota di apparecchi di costruzione CR 42 “Falco” 36 metallica, mentre quelli da bombar- Storia dell’Aeronautica damento e da ricognizione sono a struttura mista o addirittura interamente in legno. Ma anche alcuni velivoli che le valutazioni nazionali danno per moderni hanno caratteristiche di volo e di armamento nettamente inferiori a quelle degli apparecchi tedeschi o britannici delle corrispondenti specialità. Un divario che molto spesso sarà riequilibrato solo dal coraggio e dalle capacità dei nostri equipaggi. Con queste forze - che durante trentanove mesi di durissima guerra verranno rifornite di oltre 8.000 macchine delle varie specialità, purtroppo insufficienti a colmare le perdite o a sostituire gli aerei sorpassati tecnicamente - la Regia Aeronautica entra in campo ancora una volta per far fronte con valore e tenacia ai compiti che le sono stati assegnati. Le difficoltà si rivelano presto enormi e i risultati condizionati oltre che dallo scarto tecnologico e dall’insufficienza delle risorse, anche dalle caratteristiche proprie del conflitto, e cioè dalla vastità dello scacchiere e dalle distanze delle fonti di rifornimento, dalle diversità ambientali e climatiche dei vari teatri operativi, dalla durata stessa della guerra. Secondo un copione che sembra ricalcare quello della Prima Guerra Mondiale, le operazioni hanno inizio il giorno successivo a quello della dichiarazione con voli di ricognizione prima e con azioni di bombardamento poi. A causa delle cattive condizioni meteorologiche sul fronte francese, infatti, si deve aspettare il giorno 13 per effettuare la prima operazione bellica vera e propria. Sono i Br.20 del 13° Stormo che durante la notte conducono un primo attacco su Tolone, poi ripetuto nella tarda mattinata. D 520 Dewoitine A quest’ultima azione partecipano anche i CR.42 del 3° e 53° Stormo che vengono duramente impegnati dai nuovi e ben armati Dewoitine. Dieci giorni dopo, comunque, le operazioni contro la Francia si concludono, in un clima che crede ancora alla guerra lampo, con la firma dell’armistizio: a quel punto le perdite dell’Aeronautica sono di 10 velivoli e 24 uomini. Contemporaneamente prendono avvio le operazioni in Africa settentrionale dove la Regia Aeronautica sarà duramente impegnata per lunghissimi mesi. Dopo un’avanzata che porta le nostre forze fino a Sidi el Barrani, la prima controffensiva inglese tra la fine del ‘40 e i primi mesi dell’anno successivo ci costringe al ripiegamento: già in questa fase la forza armata subisce pesanti perdite e un forte logoramento solo in parte compensati dall’arrivo di nuovi mezzi, tra cui lo Junker 87 “Picchiatello”, e del X Corpo aereo tedesco. In tal modo è possibile sferrare un’offensiva che si conclude di fronte a Tobruk, mentre i 37 Storia dell’Aeronautica nostri reparti in terra d’Africa iniziano a ricevere nell’aprile del ‘41 il primo aereo veramente competitivo, l’M.C.200 in linea fin dall’inizio delle ostilità. Alla seconda controffensiva degli inglesi nel novembre successivo, comunque, la situazione italiana in fatto di macchine è ancora fortemente carente, tanto da costringere anche all’impiego dei CR.42 come assaltaMC 202 “Folgore” tori con bombe alari da 50 e da 100 chili. Dall’Italia giungono intanto anche i primi M.C.202, veloci e manovrieri anche se dotati di un volume di fuoco giudicato ancora insufficiente, il cui contributo non è però tale da risolvere una situazione ormai compromessa. Gli inglesi insistono nell’avanzata, che si esaurisce a Sollum nei primi giorni del ‘42 e a farne le spese sono anche i “202”. Nel Mediterraneo i nostri bombardieri e aerosiluranti contrastano con successo l’azione della flotta inglese. Il conflitto intanto si allarga sempre più. Alla fine del 1940 hanno inizio le operazioni in Grecia dove i nostri velivoli sono subito impegnati a contrastare e contenere la pressione nemica ed aiutare la difficile resistenza delle truppe italiane. I nostri equipaggi sono sottoposti ad una continua e snervante attività soprattutto per far fronte alla superiorità del nemico. Il 19 aprile 1941 ha inizio l’offensiva italo-tedesca nella quale una forza aerea di circa 400 velivoli si rivela determinante. Il 22 ottobre 1940, intanto, due stormi da bombardamento su Br.20, uno stormo da caccia su CR.42 e G.50 e una squadriglia da ricognizione strategica su Cant.Z. 1007bis erano stati inviati in Belgio a costituire il Corpo aereo italiano. Lo scopo, dettato più da motivi di prestigio politico che da realistiche esigenze belliche, è quello di partecipare a fianco dei tedeschi all’attacco contro l’Inghilterra. La mancanza di addestramento degli equipaggi al volo strumentale (paradossalmente la Scuola di volo senza visibilità era stata sciolta proprio alla vigilia del conflitto!) e di idonee attrezzature radioelettriche abbreviano questa esperienza, tanto che nei primi giorni del gennaio successivo le nostre unità vengono richiamate e molti piloti inviati direttamente in Africa orientale, dove le nostre forze aeree conducono da tempo una battaglia a difesa delle nostre colonie, nella quale la distanza dalla madre patria accentua i già gravi problemi della nostra macchina logistica e rende estremamente difficoltosi i rifornimenti. In questo scacchiere vecchi velivoli come i Ca.133 e i CR.32, affiancati da pochi S.79, S.81 e CR.42, cercano di contrastare la superiorità di uomini e mezzi degli inglesi e la loro più efficiente organizzazione, che consente, malgrado il rinforzo di alcuni S.79 e di una cinquan38 tina di CR.42 trasportati in volo con degli S.82, l’occupazione dell’intero territorio. Storia dell’Aeronautica A questo punto tutta l’aviazione italiana in quel settore è distrutta; l’ultimo CR.42 ancora in grado di volare compie alla fine di novembre 1941 l’ultima missione decollando verso Gondar nei cui dintorni viene abbattuto. Rimasto senza aerei, il personale si organizza allora in Reparti azzurri che combattono accanto a quelli dell’Esercito. Un dato documentato che testimonia della capacità dei nostri piloti che con coraggio e valore si erano opposti in maniera durissima alla controffensiva inglese, sono i 140 aerei nemici abbattuti in volo e gli 80 distrutti al suolo. Malta, nel frattempo, viene incessantemente martellata dalla nostra aviazione in un crescendo di incursioni che alla fine indeboliranno e logoreranno le nostre possibilità offensive. Per nove mesi la flotta inglese non riesce a forzare il blocco aereo e l’isola giunge quasi al collasso, salvandosi dall’occupazione solo per i pesanti impegni imposti alle nostre forze dagli avvenimenti del Nord Africa. Quando nell’estate del 1941 viene deciso di mandare un Corpo di spedizione italiano in Russia, l’Aeronautica partecipa con due gruppi, forniti a più riprese di 51 M.C.200, 11 S.82, 3 Ca.133 e 32 Ca.312 a cui si aggiungono nel ‘42 altri M.C.200, e alcuni M.C.202 e Br.20. Dopo un ciclo molto duro, durante il quale il nemico peggiore era stato il micidiale inverno russo che aveva praticamente immobilizzato i nostri velivoli almeno fino a quando la proverbiale ingegnosità dei nostri specialisti non era riuscita ad inventare degli efficaci riscaldatori per i motori, nel gennaio del 1943 i reparti vengono richiamati in patria. Nel Mediterraneo la nostra aviazione aveva continuato gli attacchi ai convogli inglesi RE 2002 Ariete e in numerose e memorabili battaglie aveva inflitto loro perdite notevoli. Nella battaglia di mezzo giugno si erano salvate solo due navi mercantili. Dal 12 al 14 agosto si svolge una battaglia aeronavale, poi passata alla storia con il nome di battaglia di mezz’agosto, alla quale partecipano tutti i nostri aerosiluranti disponibili che riescono a colpire il convoglio e la scorta inglesi arrecando loro gravi danni. Nella prima metà del 1942 in Africa settentrionale le truppe italo-tedesche, conquistata la superiorità aerea grazie al determinante contributo dei “202” del 3° e del 4° Stormo, effettuano una travolgente avanzata fino ad El Alamein che, in un primo momento, sembra volgere a nostro favore le sorti della campagna africana. Questa speranza 39 Storia dell’Aeronautica viene subito vanificata dall’ennesima controffensiva inglese, nella quale gli alleati lanciano tutte le loro risorse. Ormai il destino della guerra appare segnato e a nulla serve che la nostra industria inizi a produrre macchine finalmente competitive, tanto più che la scarsità di mezzi e di materie prime non consente ancora quella produzione di serie che avrebbe forse fatto sentire il suo peso. Gli ultimi aerei ad entrare in linea sono gli M.C.205, i Re.2005 e i G.55, macchine veloci e ben armate che si affiancano ad altre come il Re.2002, il P.108 o il Cant.Z.1018 di più recente realizzazione. Le ultime battute contro l’ormai schiacciante superiorità dell’aviazione alleata, la nostra Aeronautica le gioca nei cieli della Tunisia prima e dell’Italia poi dopo lo sbarco alleato in Sicilia: anche in queste fasi i nostri reparti, pur nella ormai generale certezza di quello che sarà l’esito finale della guerra, si sacrificano in un’estrema quanto inutile resistenza, con un ardimento che riceverà anche il riconoscimento dello stesso nemico. 40 Storia dell’Aeronautica Capitolo VII L’Accademia Aeronautica da Livorno a Nisida S olo pochi mesi dopo la costituzione della Regia Aeronautica come forza armata indipendente e in anticipo su tutte le altre nazioni, nacque a Livorno l’Accademia Aeronautica che, sul piano organizzativo e didattico, si valse naturalmente dell’esperienza acquisita in questo settore dagli altri due istituti di formazione esistenti, quello dell’Esercito e quello della Marina, sia pure finalizzando programmi e materie a quegli aspetti ritenuti essenziali per l’esercizio della professione di ufficiale aviatore. La scelta di Livorno come prima sede provvisoria non fu casuale: a parte le garanzie offerte dall’antica e consolidata tradizione dell’istituto e dalla sua eccellente organizzazione, era infatti convinzione diffusa che le attività e le problematiche della Marina e dell’Aeronautica presentassero molte analogie e avessero molti punti in comune. La durata dei corsi fu stabilita fin dall’inizio in tre anni e, sempre dall’inizio, una delle L’Accademia di Livorno difficoltà più serie fu quella di reperire elementi idonei a svolgere le funzioni di insegnanti e di istruttori per le materie professionali senza penalizzare i reparti operativi: un problema, questo, che l’Accademia si sarebbe portato dietro fino ai giorni nostri. Il primo comandante del neonato istituto fu il capitano di vascello Giulio Valli, un ufficiale di Marina che aveva già esperienza di problemi aeronautici, essendo stato messo fin dal 1910 a disposizione di questa specialità nella quale, dopo aver preso parte alla Guerra di Libia, era stato tra l’altro comandante dell’Aviazione dell’alto Adriatico durante la 1ª Guerra Mondiale. Ad esso si affiancarono ben presto altri ufficiali come Mario Ranieri, Aldo Urbani, Mario Boschi o Francesco Pricolo che, con il grado di tenente colonnello fu il primo comandante in seconda dell’istituto. Il primo anno di corso era “di esperimento” nel senso che il comando si riservava di restituire alle famiglie quegli allievi che in questo periodo non avessero dato “affidamento di buona riuscita”. La posizione militare degli allievi si perfezionava quindi solo nel 2° anno, 41 Storia dell’Aeronautica all’atto del giuramento. Il volo, escluso come attività addestrativa durante i tre anni di corso, era limitato a dei voli di ambientamento che avevano il duplice scopo di consentire agli allievi di dimostrare la richiesta attitudine e di far conseguire loro, entro il periodo estivo tra il 2° e il 3° anno, il brevetto di “osservatore aereo”. Al termine del 3° anno, finalmente, l’allievo ormai sottotenente poteva iniziare le sospirate esercitazioni al pilotaggio. Al primo concorso svoltosi nell’ottobre del 1923 parteciparono 32 concorrenti, di essi 20 furono dichiarati vincitori e 18 completarono il primo anno dando vita al corso “Aquila”. Gli esami di ammissione al 2° anno determinarono però un’ulteriore selezione, per cui - allo scopo di integrare i 15 allievi superstiti - venne deciso di bandire per l’anno successivo un concorso straordinario che consentisse di ammettere direttamente alla 2a classe altri 9 allievi: in tal modo il corso “Aquila” divenne di 24 elementi che conseguirono tutti il grado di sottotenente. A questo primo nucleo si aggiunsero, nei primi tre anni dell’Accademia Aeronautica poi designati come “corsi fondatori”, i 36 sottotenenti del “Borea” e i 35 del “Centauro”, che portarono a 95 gli ufficiali in servizio permanente effettivo che l’istituto aveva prodotto per la forza armata e che furono inseriti nel ruolo combattenti il cui organico era all’epoca di 38 colonnelli, 70 ten. colonnelli, 134 maggiori, 420 capitani e 1.080 subalterni tra forza temporanea, complemento ed effettivi. Il 28 marzo 1926, terzo anniversario della costituzione della forza armata, l’Accademia ricevette la bandiera che il Re Vittorio Emanuele III consegnò, nel corso di una solenne cerimonia, al comandante dell’istituto, colonnello Giuseppe Valle, dalle cui mani il vessillo passò a quelle dell’allievo Fausto Cecconi, primo nella classifica di merito del corso “Aquila”. Con la consegna della bandiera fu sancito ufficialmente l’inizio della vita autonoma e indipendente dell’Accademia Aeronautica. Il 1926 ebbe particolare importanza anche per altri motivi. In quell’anno iniziarono alcuni corsi - il cui scopo era quello di integrare le “eventuali, non improbabili, deficienze di reclutamento” dei corsi normali - come quelli per ufficiali piloti di complemento e per sottufficiali piloti aspiranti alla nomina a sottotenente in servizio permanente, a quelli per sottufficiali di carriera per la nomina a sottotenente in s.p.e. del ruolo servizi. In quell’anno, soprattutto, l’Accademia lasciò Livorno per raggiungere la prima sede “indipendente” della sua storia. L’idea originaria di dotare il nuovo istituto di una propria sede non era infatti rimasta solo al livello di buoni propositi; si era analizzato il problema in tutti i suoi aspetti, cercando innanzitutto di individuare una località che garantisse condizioni meteorologiche tali da non penalizzare l’attività di volo, che fosse vicina ad una università e che possedesse un campo di aviazione. La scelta era caduta su Napoli e lì o, per essere più precisi, a Capodichino fu posta il 28 giugno 1926 la prima pietra del nuovo istituto. L’aumento del numero degli allievi in relazione alle capacità ricettive di Livorno non consentirono però di attendere la fine 42 dei lavori: sempre provvisoriamente almeno nelle intenzioni, il 15 ottobre, bandiera Storia dell’Aeronautica in testa, l’Accademia Aeronautica si trasferì ufficialmente a Caserta dove occupò l’ala occidentale della Reggia vanvitelliana, sommariamente adattata in tre mesi di lavoro alle nuove esigenze; il 10 dicembre, alla presenza del Sottosegretario per l’Aeronautica Italo Balbo, ebbe luogo La Reggia di Caserta l’inaugurazione; il 16 iniziarono regolarmente i corsi con gli allievi del “Drago” a far da pinguini. Quando, due anni dopo, l’edificio di Capodichino venne ultimato, ci si accorse della sua inadeguatezza e lo si destinò ad ospitare la meno impegnativa Scuola specialisti, mentre l’Accademia proseguì i suoi corsi nella sede di Caserta, un edificio la cui ristrutturazione funzionale avrebbe sempre presentato non pochi problemi, soprattutto in relazione ai vincoli imposti dalla Soprintendenza ai monumenti. Il trasferimento in terra campana portò non poche “novità” interne: fu rinnovato praticamente tutto La Scuola di volo a Capua nel 1928 il corpo docente, nel quale entrarono anche numerosi professori civili dell’Università e del Politecnico di Napoli, mentre per alcune materie fondamentali furono istituite con decreto apposite cattedre; si decise, in analogia con una tradizione dell’Accademia Navale, di conferire regolarmente la “sciabola d’oro” all’allievo classificatosi primo del proprio corso per tre anni consecutivi; l’Accademia, infine, poté finalmente disporre a Capua di una propria scuola di volo che le 43 avrebbe consentito di licenziare allievi già muniti del brevetto di pilota militare. Storia dell’Aeronautica La nuova Scuola di pilotaggio per gli allievi dell’Accademia Aeronautica, come fu chiamata, iniziò la sua attività l’8 agosto 1927 con 12 sottotenenti dell’ “Aquila”, provenienti dalla Scuola di Aviano (che era stata disciolta) e 36 del “Borea”. In ottobre ripresero l’istruzione iniziata a marzo gli allievi del “Drago” e in novembre cominciarono le lezioni quelli del corso “Eolo”, appena reclutati, mentre affluivano anche gli allievi ufficiali di complemento in possesso del brevetto conseguito presso scuole civili. Per far fronte a questo oneroso impegno la scuola disponeva di un organico di 7 ufficiali, 23 sottufficiali, di cui 8 piloti, e 121 militari di truppa, di cui 46 specialisti. Il materiale di volo, inizialmente limitato solo a quello proveniente da Aviano, comprendeva alla fine del 1927 cinquantasette velivoli: venticinque Breda A.4, quindici Ansaldo A.300/4 e dieci SVA di vario tipo, alcuni dei FIAT CR 1 quali ancora con le insegne della “Serenissima”, cinque SAML “Aviatik”, un Fiat CR.1 e un Ca.450 reduce anch’esso dalla Grande Guerra. Questa linea di volo subì negli anni successivi un notevole incremento e ammodernamento che conferì alla scuola una capacità produttiva non indifferente: dalle 3.000 ore del 1927 si era passati alle 9.000 del ‘30; tra il ‘27 e il ‘36 le ore volate per l’addestramento erano state in totale 73.000 e, nello stesso periodo, erano stati rilasciati 610 brevetti di aeroplano e 638 brevetti militari, mentre dall’Accademia erano usciti 524 ufficiali appartenenti a dieci corsi regolari: dopo l’ “Eolo” si erano infatti succeduti il “Falco”, il “Grifo”, l’ “Ibis”, il “Leone”, il “Marte”, il “Nibbio”, l’ “Orione” e il “Pegaso”. A metà degli anni 30 la politica di espansione voluta da Mussolini impose alle forze armate di adeguare la loro struttura a queste accresciute esigenze. Per far fronte a dei corsi sensibilmente più numerosi del passato, l’Aeronautica chiese ed ottenne la piena e totale disponibilità della Reggia di Caserta, prima occupata anche dalla Scuola della Guardia di Finanza e dall’Istituto tecnico commerciale, dove iniziarono imponenti lavori di edilizia e di restauro - alcuni dei quali ultimati nel 1941- che conferirono alla sede dell’Accademia un aspetto esteriore di grandiosità alla quale non corrispondeva però una adeguata efficienza istruzionale. Con il 1937 ebbero dunque inizio i corsi con un rilevante numero di allievi 303 del “Rex”, 266 dello “Sparviero”, 223 del “Turbine”, 236 dell’ “Urano”, 247 del “Vulcano”, 298 dello “Zodiaco” e 245 dell’ “Aquila” 2°, ultimo ad essere reclutato a Caserta - a 44 partire dai quali fu eliminato il 4° anno “di volo” in quanto gli allievi, grazie alle 70 Storia dell’Aeronautica ore volate mediamente nel triennio, uscivano al termine di esso con il grado di Sottotenente e con il brevetto di pilota militare in tasca. A questo punto essi venivano avviati alla scuola di specialità, almeno fino a quando le pressanti esigenze della guerra nel frattempo scoppiata non costrinsero a saltare anche questa fase e ad immettere direttamente in linea piloti certamente pieni di entusiasmo e di voglia di combattere, ma assolutamente privi dell’addestramento e dell’esperienza necessarie ad affrontare voli di guerra. La “prima linea”, insieme alla morte di tanti compagni di corso, significò per molti anche la scomparsa di alcune certezze, prima tra tutte quella dell’immancabile vittoria finale, nella quale essi avevano fermamente creduto non certo per un atto di fede ideologica inesistente per i più, quanto perchè nessuno aveva mai messo in discussione certe cose con il conforto di una accettabile conoscenza della realtà politica e sociale che li circondava: un aspetto, questo, che se era comune a tutta una generazione di giovani, o almeno alla grande maggioranza di essa, si presentava esasperato in questi che, per tre anni, avevano praticamente vissuto nel chiuso di un istituto che tra i suoi meriti non poteva certo vantare quello di aver sviluppato la coscienza critica degli allievi. E anche quando, insieme al dubbio per la vittoria, maturò la convinzione che si stesse combattendo una guerra non necessaria, né sentita dal popolo, la reazione di questi ufficiali nel sentirsi strumento di un inganno terribile fu sempre coerente con la loro formazione e con le migliori tradizioni dell’Aeronautica: continuarono a combattere fino alla fine perché questo era e restava il loro impegno d’onore, in nome del quale molti, troppi, andarono consapevolmente incontro ad una fine gloriosa quanto inutile. Gli avvenimenti del 25 luglio 1943 avevano intanto consigliato il trasferimento dell’Accademia da Caserta all’Istituto aeronautico di Forlì, dove gli allievi dello “Zodiaco” e dell’ “Aquila” 2° furono colti dalla notizia dell’armistizio alla quale reagirono - in una situazione in cui essi si sentirono anche abbandonati considerando che le prime e, peraltro, esigue forze tedesche arrivarono dentro la città solo il 12 mattina - analogamente a quanto più o meno fece la stragrande maggioranza dei reparti. Un ufficiale del quadro permanente, il tenente colonnello Tommaso Folinea, prese in consegna la bandiera che, seppellita in un astuccio nella località dove l’ufficiale aveva raggiunto la famiglia, dallo stesso fu poi portata a liberazione avvenuta a Brindisi, dove l’Accademia si era ricostituita fin dall’ottobre del 1943 intorno ai 52 allievi giunti alla spicciolata da Forlì e, ancora una volta, ospite della Marina Militare che colà aveva invece tempestivamente trasferito via mare tutti i suoi allievi e tutto il quadro permanente. Ricominciare non fu facile: da parte degli “aviatori” che, reduci dall’esperienza traumatizzante e dolorosa dell’8 settembre, stentavano a rientrare nei ritmi e nel clima di un istituto che seguitava ad andare avanti quasi come se niente fosse accaduto; dall’altra i “marinai” che tale esperienza avevano vissuto praticamente senza scosse e che godevano di un’organizzazione perfetta. L’anno ac- 45 Storia dell’Aeronautica L’Accademia di Pozzuoli cademico 1944-45 iniziò dunque con 45 allievi dell’ “Aquila” 2° promossi alla terza classe e 27 che, giunti a Brindisi successivamente, erano stati ammessi alla 2ª e inquadrati come corso “Borea” 2°. Con l’approssimarsi della fine della guerra, si pose il problema del reperimento di una nuova sede: escluso il ritorno alla Reggia di Caserta, occupata dal Quartier generale alleato, la scelta cadde sui locali del vecchio idroscalo di Nisida, dove l’Accademia sarebbe rimasta fino al 1961 prima di passare alla sede definitiva di Pozzuoli e dove si formarono ben 17 corsi dal “Centauro” allo “Zodiaco” 2°. All’inizio si dovettero superare difficoltà, disagi e problemi incredibili, ma grazie allo sforzo congiunto di tutto il personale, con in testa l’esempio e l’infaticabile azione del comandante dell’istituto, il tenente colonnello Paolo Salvatori, si riuscì a “ridecollare” animati soprattutto dalla fiducia nella ripresa e dalla voglia di ricostruire. 46 Storia dell’Aeronautica Capitolo VIII L’armistizio e la Guerra di Liberazione I primi mesi del 1943 mostrano in tutta la loro evidenza i segni di una situazione nazionale irreversibilmente deteriorata. La perdita dell’Africa settentrionale e del controllo del Mediterraneo, la disfatta tedesca in Russia lasciano ormai l’Italia alla mercé degli alleati anglo-americani. A ciò si aggiunge, sul piano interno, un crescente e sempre più generalizzato malcontento popolare che si traduce anche in grandi scioperi nelle fabbriche del nord. Questi avvenimenti, dopo il crollo delle forze italiane in Sicilia e il timido tentativo di proporre ai tedeschi la possibilità di una pace separata, convincono i gruppi dirigenti italiani che l’unico modo per uscire dalla guerra, assicurandosi nel contempo la continuità senza traumi eccessivi della loro funzione egemonica, è quello di sacrificare Mussolini. Dopo i fatti del 25 luglio - quando l’Esercito viene chiamato per l’ultima volta a garantire l’ordine interno “turbato” dagli entusiasmi sollevati dalla notizia della caduta del fascismo - si arriva dunque alla firma dell’armistizio che Badoglio, capo del nuovo governo, partecipa alla Nazione in un messaggio, letto alla radio la sera dell’8 settembre, la cui ambiguità, peraltro non risolta da successivi e, soprattutto, tempestivi chiarimenti, pone la maggior parte dei combattenti in situazioni nelle quali di fronte allo sbandamento generale, alcuni hanno possibilità di scelta, altri meno. Coloro che, fatti prigionieri dai tedeschi, rifiutano di continuare a combattere al loro fianco, sono deportati nei campi di concentramento disseminati in Germania e in Polonia, i tristemente noti “lager”, e lì costretti a lavorare in condizioni igieniche e alimentari paurosamente insufficienti. E’, questo, uno degli aspetti forse meno conosciuti della resistenza che militari d’ogni ordine e grado hanno opposto ai tedeschi. Catturati in un momento di generale disorientamento, non di rado vittime delle false promesse dei comandi germanici, ma più spesso soccombenti di fronte a forze più decise e comunque in possesso di direttive chiare e precise, vengono in quei giorni internati dall’Italia, dalla Francia, dai Balcani, ben 599.158 tra sottufficiali e uomini di truppa e 14.033 ufficiali delle forze armate italiane. Considerati internati e non, come sarebbe giusto, prigionieri di guerra in modo da non poter invocare nemmeno l’applicazione delle garanzie giuridiche e internazionali che questa ultima condizione avrebbe comportato, essi affrontano con coraggio e dignità la scelta più difficile e le condizioni di vita più avvilenti che un essere umano possa sopportare, resistendo a lusinghe, promesse, intimidazioni, propaganda, alla realtà stessa della morte: di quel 98,7% di tutti gli internati militari che 47 furono coerenti a questa scelta, circa 40.000 non faranno ritorno in patria. Storia dell’Aeronautica Altri combattenti, tagliati fuori dai reparti regolari di appartenenza e impossibilitati a raggiungere quelli costituitisi al sud, sbandano all’interno del paese e, quando decidono di continuare a combattere, lo fanno entrando a far parte di formazioni partigiane. Altri, ancora, compiono la scelta opposta e vanno ad aderire alla Repubblica sociale italiana che nel frattempo Mussolini ha costituito nel nord Italia, nell’ambito della quale si costituisce anche un’aviazione composta da due gruppi da caccia, uno di aerosiluranti e due da trasporto oltre ad alcune squadriglie autonome. I caccia vengono impiegati in numerose azioni a difesa delle città del nord sottoposte alle massicce incursioni alleate. Gli aerosiluranti, in particolare, attaccano nel marzo del 1944 la flotta da sbarco alleata ad Anzio dove affondano sei unità; l’azione viene ripetuta il 10 aprile, mentre un mese dopo dieci S.79 volano fino a Gibilterra e, in un’azione di sorpresa, colano a picco quattro piroscafi. Al momento dell’ultima missione, il 5 gennaio 1945, i piloti caduti in combattimento per la R.S.I. saranno 146. Immediatamente dopo l’annuncio dell’armistizio, invece, interi reparti aerei e singoli velivoli scelgono, in leale osservanza delle clausole firmate, di affluire verso gli aeroporti del sud Italia già in mano agli alleati per continuare la guerra. Passano in tal modo le linee poco più di 200 velivoli, di cui circa la metà in reali condizioni di combattere, mentre una quarantina vengono abbattuti dai tedeschi durante il tentativo o vanno perduti per altre cause. Tra il settembre del ‘43 e il maggio successivo, circa 2.000 militari dell’Aeronautica, di cui 1.200 in volo, raggiungono Lecce, Palata, Canne, Biferno o Campo Vesuvio, una base insomma, da cui i velivoli della nuova Unità aerea riportano in volo, insieme alle gloriose insegne del “cavallino rampante” o del “gatto nero”, quella coccarda tricolore simbolo dell’Italia e delle origini stesse della forza armata. Al di là delle cifre, comunque, questa partecipazione assume significato e rilevanza grandissimi; segna storicamente l’esplicita frattura con un passato che è ripudiato e la volontà di partecipare, in una sorta di rifondato patto sociale tra forze armate e paese, alla lotta per il riscatto e la rinascita degli italiani. L’attività bellica dell’Aeronautica italiana inizia fin dalla mattina del 9 settembre quando due pattuglie di M.C.205 scortano alcune unità della nostra flotta da guerra in navigazione da La Spezia ai porti controllati dagli Alleati. Il giorno 11, durante il volo di trasferimento di un MC 205 48 reparto da bombar- Storia dell’Aeronautica damento dall’aeroporto di Perugia in Sardegna, la caccia tedesca attacca la nostra formazione dando luogo al primo combattimento aereo tra i due ex alleati. Il giorno 12, mentre aerei da caccia mitragliano colonne tedesche in ritirata nella penisola salentina, per la prima volta le coccarde tricolori appaiono nei cieli di alcune città italiane ancora occupate, sulle quali i nostri velivoli lasciano cadere manifestini, stabilendo in tal modo un concreto legame spirituale tra italiani uniti dalle stesse aspirazioni. Tra il settembre e l’ottobre del 1943 l’attività dei nostri velivoli prosegue intensa, soprattutto lungo le coste dell’Albania, della Grecia e della Jugoslavia. Il 13 ottobre la dichiarazione di guerra del governo italiano alla Germania sancisce lo stato di fatto determinatosi con l’armistizio e riconosce quindi ufficialmente quell’attività di guerra che era iniziata immediatamente dopo l’8 settembre. Per non correre il rischio di trovarsi di fronte ad altri reparti italiani, le nostre unità al sud vengono prevalentemente impiegate insieme alla Balcan Air Force oltre i confini, in attività offensive contro i tedeschi e difensive, di rifornimento, aviosbarco e trasporto a favore dei contingenti italiani e alleati impegnati, in situazioni spesso tragiche, nei Balcani e nelle isole ioniche. In questi mesi eccezionale si rivela il lavoro che riescono a compiere i tecnici e gli specialisti dell’Aeronautica. In una situazione in cui gli Alleati avevano di fatto requisito tutto ciò che poteva esser loro utile e i tedeschi si ritiravano verso nord lasciandosi alle spalle solo distruzione, il problema dell’efficienza della linea di volo era non solo gravissimo, ma condizione essenziale per poter continuare a combattere. In questo lavoro vengono fatti miracoli: si organizzano speciali squadre per riP 39 “Aircobra” cercare e recuperare tutto il materiale possibile che, debitamente accentrato e immagazzinato, consente non solo di sottoporre a revisione la quasi totalità dei velivoli in carico che, per il 90%, avevano superato il prescritto limite di ore di volo, ma anche di rimetterne in efficienza un numero tale da ripianare le perdite subite dai reparti operanti. Grazie a questi uomini l’Aeronautica italiana combatté a fianco degli anglo-americani utilizzando esclusivamente i propri mezzi fino alla metà di settembre del 1944, quando gli Alleati, nel dare atto agli aviatori italiani della lealtà, dell’entusiasmo e del valore dimostrati, potenziano il Raggruppamento caccia con l’assegnazione di alcuni P-39 “Aircobra” e “Spitfire” e i reparti da bombardamento con alcuni Martin “Baltimore”, un nome che avrebbe presto identificato uno 49 Storia dell’Aeronautica stormo.L’8 maggio 1945, con la resa incondizionata della Germania, hanno termine anche le operazioni belliche che l’Aeronautica italiana aveva condotto per venti mesi in disagiate condizioni materiali e supplendo alla scarsezza di mezzi e di macchine solo con le risorse umane e l’entusiasmo. In questo periodo l’aviazione da caccia aveva effettuato azioni di ricognizione offensiva in territorio balcanico, controllando e mitragliando gli impianti e le linee del traffico terrestre, marittimo e aereo del nemico. Sugli stessi obiettivi erano stati effettuati anche spezzonamenti e bombardamenti a tuffo. La caccia era stata inoltre impiegata in missioni di scorta diretta alle formazioni da bombardamento e da trasporto in zona di guerra, in crociere d’interdizione per facilitarne il compito e in ricognizioni meteorologiche lungo le rotte e sugli obiettivi bellici. La continuità e l’efficacia di queste missioni avevano facilitato la conquista da parte degli Alleati di alcune isole dalmate. Di particolare intensità e rendimento erano state le azioni compiute in appoggio alle unità dell’Esercito popolare di liberazione jugoslavo, durante lo sgombero da parte dei tedeschi dell’Albania, del Montenegro, della Dalmazia e di altre regioni della Jugoslavia. L’aviazione da bombardamento aveva effettuato azioni offensive in territorio balcanico lungo le linee di comunicazione e contro attrezzature portuali, impianti aeroportuali, centri logistici e concentramenti di truppe. Da parte sua, l’aviazione da trasporto aveva effettuato un’intensa attività rifornendo costantemente le truppe italiane della Divisione “Garibaldi” e le truppe partigiane del maresciallo Tito, sia lanciando, generalmente con missioni notturne, i materiali necessari a quelle truppe per resistere agli attacchi nemici e, quindi, per passare all’offensiva, sia con atterraggi su campi di fortuna in zone prossime a quelle controllate dai tedeschi. Quando queste azioni erano state richieste con carattere d’urgenza, gli equipaggi italiani le avevano portate a termine anche in pieno giorno e non di rado senza scorta, sfidando la reazione violenta della contraerea e della caccia nemica. Durante i voli di rientro questi velivoli avevano spesso lanciato manifestini sulle città jugoslave ed albanesi. Dalle stesse regioni intensissimo era stato anche il trasporto di militari e partigiani che, feriti o ammalati, non erano più in condizione di combattere. L’aviazione da trasporto aveva compiuto anche molte missioni sul territorio italiano ancora in mano dei tedeschi, soprattutto per il lancio di manifestini sui centri abitati e di paracadutisti incaricati di particolari azioni di sabotaggio o informative. Collegamenti giornalieri per il trasporto di persone, posta e materiali, erano stati inoltre attivati con la Sicilia, la Sardegna e l’Africa settentrionale. Meno appariscente, ma certamente non meno utile e rischiosa era stata l’attività svolta dagli idrovolanti nella scorta a convogli marittimi, nella caccia antisommergibile, nella vigilanza costiera, nel trasporto di personale, nella ricerca, soccorso e recupero di naufraghi o nel soccorso preventivo svolto sulle rotte dei velivoli alleati di ritorno da azioni bel50 liche. Alcuni dati statistici danno pur nella loro freddezza, la misura del valore con Storia dell’Aeronautica cui, i piloti, gli specialisti, gli avieri, tutto il personale insomma, avevano saputo compiere fino in fondo il proprio dovere. La bandiera dell’Aeronautica e quelle del 4°, 5° e 51° Stormo sono decorate con la medaglia d’oro al valor militare concessa per i cinque anni di guerra; lo Stormo “Baltimore” e quello notturno con la medaglia d’argento per l’attività svolta durante la Liberazione; lo Stormo trasporti con la croce di guerra al v.m. per lo stesso motivo. Per il ciclo di guerra 1940-43 due stormi, il 36° e il 46°, sono decorati di medaglia d’oro al v.m.; ventinove reparti di volo ricevono in totale 30 medaglie d’argento ed 1 di bronzo al v.m.. Alle 138 medaglie d’oro concesse ad appartenenti alla forza armata fino al settembre 1943 se ne aggiungono 26 per fatti d’arme compiuti nei venti mesi dopo l’8 settembre da militari dell’Aeronautica inquadrati in reparti regolari o in formazioni partigiane; 9 ricompense interalleate sono assegnate ai nostri aviatori nello stesso periodo. In cinque anni di guerra solo l’Aeronautica lascia sul campo oltre 9.000 morti e più di 3.500 dispersi. Terminata con questo pesante tributo di vite una guerra durata 59 mesi, l’Aeronautica italiana si presenta di fronte agli immensi problemi della ricostruzione con le “esigue unità”, come le definì in un famoso ordine del giorno del 22 febbraio 1945 il generale Aymone Cat, nuovo Capo di Stato Maggiore della forza armata. Esse sono in pratica le stesse che avevano fatto la Guerra di Liberazione, i reparti, cioè, riuniti fin dal 15 ottobre 1943 nell’Unità aerea e che ora, inseriti in un’organizzazione territoriale ancora in via di assestamento, rappresentano tutto il potenziale aeronautico della nazione: tre raggruppamenti comprendono rispettivamente il 4°, 5° e 51° Stormo per la caccia; gli Stormi “Baltimore” Notturno e Trasporti per i bombardieri; l’82°, 83°, 84° e 85° Gruppo per gli idro; tre servizi tecnici di raggruppamento provvedono infine ad assicurare l’efficienza dei reparti di volo. La ricostituzione delle forze aeree superstiti inizia con circa 200 velivoli efficienti, di cui la metà al sud o in Sardegna, gli altri sono quelli ancora impiegabili dei 246 che si erano sottratti in volo ai tedeschi raggiungendo l’Italia libera. 51 Storia dell’Aeronautica 52 Storia dell’Aeronautica Capitolo IX La Regia Aeronautica nella lotta clandestina L ’8 settembre 1943 sancì, insieme al passaggio dell’Italia dall’alleanza con la Germania alla cobelligeranza a fianco degli alleati, il momento di crisi morale più profondo vissuto dalle nostre forze armate nella storia della nazione. Una crisi, è bene precisarlo, che non riguardava certamente solo i militari, ma coinvolgeva ormai tutto e tutti, strutture civili dello stato e massa della popolazione. L’annuncio del concluso armistizio trovò le forze armate italiane e il paese in una situazione tutt’altro che felice: a sud la Sicilia e la Calabria meridionale erano ormai occupate dagli anglo-americani, mentre la restante parte della penisola era praticamente sotto il controllo dei tedeschi i quali, attuando un piano preordinato, avevano dislocato sul territorio italiano ingenti forze, la maggior parte delle quali fatte affluire subito dopo gli eventi del 25 luglio. Complessivamente, la sera dell’8 settembre erano presenti, dalle Alpi alla linea del fronte presidiata dagli alleati lungo il Garigliano e il Sangro, 17 divisioni tedesche, di cui 6 di fanteria, 9 corazzate e motocorazzate, 2 di paracadutisti, oltre ad una brigata di montagna, ad un consistente numero di unità speciali autonome, Il proclama della Liberazione del 10 settembre dislocate un po’ ovunque, ed un’altra divisio1943 viene affisso a Salerno ne che proprio in quei giorni veniva fatta affluire in Italia. Con tali forze i tedeschi - in attesa dell’atteggiamento e delle decisioni che avrebbe preso il nostro governo - erano in grado di sorvegliare da vicino non solo i movimenti delle truppe italiane, ma anche tutti i punti vitali della penisola, dalle principali vie di comunicazione ai ponti, dalla rete ferroviaria ai nodi stradali più importanti, dalle fabbriche agli edifici pubblici. Il nostro Esercito, dislocato con la maggior parte delle sue forze efficienti in teatri operativi esterni, non era immediatamente recuperabile per la difesa del territorio nazionale. D’altra parte le unità di stanza in patria si trovavano nelle condizioni peggiori per affrontare e sostenere una valida e prolungata resisten- 53 Storia dell’Aeronautica za, perché per lo più prive di mobilità, scarsamente armate e disseminate su vaste aree; Marina e Aeronautica non erano in condizioni migliori, con uomini e mezzi fortemente usurati dopo trentanove mesi di conflitto. In questa situazione arrivò dunque il messaggio di Badoglio che nella sua generica vaghezza colse i nostri combattenti impreparati, nella quasi totalità, ad affrontare adeguatamente i successivi avvenimenti, tranne forse per quanto riguarda la nostra flotta che, grazie a direttive precise e, soprattutto, sufficientemente tempestive, riuscì a riparare a Malta, sia pure pagando a caro prezzo il trasferimento delle unità di stanza nell’alto Tirreno. Gli altri, tutti gli altri, dovettero subire la forte pressione, quando non la brutale aggressione germanica, che in moltissimi casi tramuto la crisi morale in un vero e proprio sbandamento di notevoli proporzioni. Nel momento in cui la tradizionale “cieca obbedienza” agli ordini superiori veniva meno e l’altrettanto tradizionale depoliticizzazione non facilitava certo prese di coscienza individuali, i reparti adottarono comportamenti influenzati per lo più da fattori esterni, come l’atteggiamento dei tedeschi, la lontananza dall’Italia o la disponibilità di mezzi, che però, rispetto a una data situazione, furono abbastanza omogenei indipendentemente dall’arma di provenienza, la cui tradizione non esercitò evidentemente (ci si riferisce sempre alla media, non certo alle eccezioni) un peso determinante nelle scelte: aviatori senza aerei, marinai lasciati a terra, alpini, non si comportarono molto diversamente dalla fanteria. La viPrigionieri italiani in un lager nazista cinanza a casa o l’essere comunque in territorio amico favorirono meno la resistenza di quanto non accadde ai reparti stanziati all’estero, dove soluzioni individuali erano oggettivamente più difficili. Statistiche più o meno aggiornate parlano di un rovesciamento di fronte che costò - nel pieno rispetto del “prezzo” che Badoglio aveva dichiarato essere disposto a pagare più di 25.000 morti, in gran parte nelle isole greche, ed oltre 600.000 deportati, per 54 molti dei quali la fedeltà al giuramento prestato significò la morte nei lager nazisti, Storia dell’Aeronautica mentre alcune centinaia di migliaia di uomini sbandarono all’interno del paese. Tra questi non furono pochi quelli che - spinti in questa prima fase da sentimenti di ribellione contro gli invasori e contro ogni forma di oppressione della libertà, prima ancora che da chiari convincimenti d’ordine politico, poi forse emersi nei mesi successivi - rifiutarono la scelta più facile dell’imboscamento e continuarono a combattere andando ad ingrossare le file delle nascenti bande partigiane che iniziavano ad operare nell’Italia ancora occupata, oppure dando vita essi stessi a formazioni clandestine autonome che, tra la fine del ‘43 e la definitiva liberazione del paese, attuarono varie forme di resistenza, da quella armata condotta sulle montagne o in azioni di sabotaggio nelle città, a quella non meno preziosa nel campo della propaganda, dell’informazione o dell’assistenza. Sulla partecipazione dei militari alla lotta partigiana gli studi e la ricerca sono ancora oggi abbastanza carenti e frammentari. Al di là dell’analisi quantitativa di tale partecipazione, comunque, resta intatto tutto il valore della scelta di questi uomini; una scelta compiuta in sintonia con i più diffusi sentimenti ed aspirazioni popolari; una scelta per loro particolarmente difficile anche sotto il profilo umano e psicologico in quanto fatta al di fuori della tradizione militare e del tipo di obbedienza in cui, proprio in quanto militari, si erano formati; una scelta attraverso la quale essi accettavano ora sistemi di governo, di gerarchia e di combattimento diversi se non opposti a quelli tradizionali, in una logica dove nessuno poteva vantare precedenti se non quelli del rispetto e del prestigio guadagnati sul campo. A Roma, nel corso dei combattimenti che, fin dalle prime ore successive alla notizia dell’armistizio videro per la prima volta impegnati fianco a fianco reparti militari regolari e gruppi di privati cittadini spontaneamente accorsi a difendere la città dall’occupazione tedesca, gli uomini dell’Aeronautica furono impegnati nel vano tentativo di salvare aeroporti e postazioni della forza armata. Al Quadraro, all’Acqua Santa, alla Torraccia, a Centocelle soprattutto, si ebbero duri scontri tra truppe tedesche e il Battaglione dei paracadutisti arditi distruttori della Regia Aeronautica; un gruppo che, capitano Araldo De Angelis in testa, avrebbe presto dato vita insieme ad altri elementi della forza armata ad una banda che, affiliata alla “Cattapani”, avrebbe condotto a buon fine numerose azioni di guerriglia armata nella Capitale e nei Colli Albani.Ma dove la lotta raggiunse punte di particolare durezza fu a Monterotondo, dove l’Aeronautica ebbe i suoi primi caduti nella lotta di resistenza: il sergente Pietro Orlandini e gli avieri Pietro Sacca, Angelo Calabresi, Ignazio Trevisani e Dario Rufini. Fallito ogni tentativo di impedire l’occupazione di Roma, si determinò tra il personale dell’Aeronautica una netta scissione tra elementi che, fedeli al fascismo, si riconoscevano ora nella Repubblica sociale messa in piedi da Mussolini, e quanti al contrario non presero neppure in considerazione la possibilità di venir meno al giuramento prestato, malgrado non pochi, specie tra i più giovani, avessero dovuto superare la non facile crisi determinata dalle pressioni eserci- 55 Storia dell’Aeronautica tate da alcuni comandanti di reparto di grande prestigio e popolarità i quali, nel decidere di continuare la guerra a fianco dei tedeschi, cercarono di trascinare in questa scelta i loro gregari.A quel punto chi rimase a Roma - deluso anche nelle aspettative di veder arrivare in tempi brevi le truppe alleate, che invece erano bloccate di fronte alle difese germaniche immediatamente a sud di Cassino - si trovò a dover affrontare la reazione dei nazi-fascisti, dapprima affidata solo agli strumenti della propaganda, che ebbe il suo momento di maggior successo nel mistificante discorso programmatico pronunciato dal maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, ma ben presto all’azione meno indolore di una capillare organizzazione di polizia e di spie, alla quale più tardi si sarebbero aggiunti i tristemente noti torturatori della banda Koch.Gli elementi più attivi e preparati dell’Aeronautica pensarono allora di riunire in un’unica organizzazione militare clandestina quegli uomini che avevano già dato vita a cellule sorte più o meno spontaneamente nelle giornate successive all’8 settembre, non di rado sulla crisi dei primi atti isolati di ribellione che alcuni opposero alle imposizioni dei tedeschi o dei fascisti. Sorse così il Fronte clandestino dell’Aeronautica la cui direzione venne assunta dal generale Umberto Cappa e la cui organizzazione - poi incorporata nel Fronte militare clandestino della resistenza guidato dal colonnello Cordero di Montezemolo - ricalcava in piccolo gli schemi e i principi di quella militare tradizionale. Grazie all’iniziativa degli uomini del Fronte aeronautico era intanto sorto anche il Centro X, che avrebbe ben presto assicurato con continuità i collegamenti radio con il governo legittimo di Brindisi: il 14 settembre erano state infatti sottratte da un deposito militare alcune radio che, piazzate in diversi appartamenti di Roma, avevano iniziato a funzionare due giorni dopo, quando un SM.79, decollando in condizioni drammatiche dall’aeroporto dell’Urbe, era riuscito a riparare al sud dove aveva trasportato, insieme a preziosi documenti segreti, anche un rudimentale cifrario. Il Fronte aeronautico si strutturò dal punto di vista operativo in undici bande. Oltre alla già citata “Cattapani” (comandata dal generale d.a. Ulisse Longo) esse erano: la “Elena” (gen. d.a. Giuseppe Biffi), la “Zuccoli” (gen. b.a. Arnaldo Pasquali), la “Guerra” (gen. b.a. Giuseppe Barba), la “Federico” (col. pil. Angelo Federici), la “Asma” (col. g.a.r.i. Vittorio Ascoli Marchetti), la “Giovannotto” (magg. pil. Massimo Giovannozzi), la “Milano” (cap. pil. Natale Veronesi), la “Montanari” (magg. g.a.r.i. Domenico Montanari), la “Ferraris” (capitano motorista Pierino Ferraris) e la “Matricardi” (gen. S.A. Attilio Matricardi), tutte operanti per lo più nella Capitale e, in parte, nei Castelli e nelle zone della Tolfa e di Guidonia. Al momento della liberazione di Roma, nel giugno 1944, l’organizzazione del Fronte clandestino aeronautico poteva contare su una forza di circa 2.500 elementi, di cui però 56 solo 700 inquadrati in reparti di pronto impiego. Storia dell’Aeronautica Circa 650, di cui un terzo attivi, entrarono invece a far parte delle oltre trenta formazioni partigiane che in quel periodo operarono nella Capitale. Nei mesi successivi al settembre del ‘43 questi uomini assicurarono una preziosa attività: dall’assistenza anche finanziaria, al personale inquadrato, ai loro familiari, al controspionaggio, dalla produzione di documenti contraffatti alla raccolta e trasmissione di informazioni di interesse militare, dal corretto orientamento politico degli affiliati di fronte alla massiccia propaganda dei nazi-fascisti ai collegamenti con le organizzazioni partigiane del Nord, fino alla partecipazione a vere e proprie azioni di sabotaggio e di guerriglia. La difficoltà di adattare strutture e forme organizzative militari tradizionali alla specificità della lotta clandestina, la consuetudine al rapporto gerarchico e, insieme, la spesso assoluta incapacità di entrare nello spirito di un’attività che richiedeva soprattutto segretezza, isolamento, autodisciplina ed iniziativa individuale furono i limiti che il Fronte aeronautico, ma anche quello militare, pagò con un numero rilevante di elementi arrestati; di questi alcuni finirono a Regina Coeli, altri a Via Tasso, molti di essi conclusero il loro calvario alle Fosse Ardeatine dove i tedeschi, in rappresaglia dell’attentato compiuto dai gappisti a Via Rasella, assassinarono 335 persone tra le quali, oltre al col. Cordero di Montezemolo, anche i generali dell’Aeronautica Roberto Lordi e Sabato Martelli Castaldi. Il duro colpo subito alle Ardeatine rallentò ma non interruppe del tutto l’azione del Fronte aeronautico, che continuò sostanzialmente fino alla vigilia della liberazione di Roma, quando una serie di arresti decapitò l’organizzazione dei suoi quadri migliori. La resistenza attuata a Roma, come si può leggere anche nelle finalità istitutive che lo stesso Fronte aeronautico si pose come traguardo, si collocò come una continuazione del servizio militare regolare, quasi che le bande altro non fossero se non “reparti avanzati (...) venutasi improvvisamente a trovare, per le alterne vicende della guerra, in territorio occupato dal nemico. Non si tratta quindi - anche giuridicamente parlando - di una massa di militari sbandati, ma si era di fronte al fenomeno della costituzione di gruppi di uomini che, riunendosi intorno ai loro vecchi comandanti o ai capi di più alto prestigio, cercavano di rientrare nei reparti dell’Aeronautica, rinati nel Fronte clandestino”. Questa consapevolezza, quasi un voler rivendicare a tutti i costi la propria origine militare, fu comune anche a bande che operarono al di fuori del Fronte clandestino, nel centro e nel nord Italia, e fu propria anche di singoli elementi, non solo di carriera, che non mancarono mai, neppure di fronte alla morte, di ribadire la loro derivazione dalle forze armate e di ostentare con fierezza continuità col proprio passato militare. Ciò non impedì, ovviamente, che altri militari dell’Aeronautica entrassero nelle file della resistenza attiva con spirito diverso, vivendo cioè la lotta quasi come con- 57 Storia dell’Aeronautica trapposizione al servizio regolare, in forte polemica verso le istituzioni monarchiche compromesse col fascismo. Indipendentemente dalle motivazioni che determinarono queste scelte, gli elementi comuni a tutti questi uomini furono la presa di coscienza di una realtà politica e sociale fino ad allora sfuggita alla maggior parte di essi e la radicata aspirazione di costruire, sulle rovine di un passato ripudiato, un’Italia profondamente rinnovata. La nobiltà dei testamenti spirituali lasciati per le generazioni future da “aviatori” come Francesco Santoro, Aldo Di Loreto, Ugo Machieraldo, Italo Piccagli, Giordano Rossoni (e ci limitiamo a citare solo qualcuno di coloro che pagarono con la vita la loro scelta e il cui sacrificio ottenne il riconoIl Cap. Aldo Di Loreto, truciscimento della medaglia d’oro al valor militare per attività dato dai tedeschi per la sua partigiana), può idealmente sintetizzarsi nel messaggio che, attività partigiana con grande lucidità, malgrado le torture subite, il generale Martelli Castaldi scrisse sulla parete della cella di Via Tasso prima di essere condotto alle Fosse Ardeatine: “Quando il tuo corpo non sarà più, il tuo spirito sarà ancora più vivo nel ricordo di chi resta. Fà che possa essere sempre di esempio”. 58 Storia dell’Aeronautica Capitolo X Dal dopoguerra alla storia di oggi: nasce l’Aeronautica Militare L a 2ª Guerra Mondiale è appena cessata e l’Italia si trova a dover affrontare problemi di fondo essenziali per la vita e lo sviluppo del paese, che vanno dalla riparazione dei danni di guerra e la conseguente ripresa economica, alla restaurazione dell’attività amministrativa dello Stato e, soprattutto, al suo assetto sulla base dei nuovi principi di libertà e democrazia; dall’uscita dalle condizioni armistiziali e di occupazione militare per la ripresa di un autonomo ruolo internazionale, alla smobilitazione che, a parte le forze regolari, riguarda più di 200.000 combattenti del Corpo volontari della libertà (C.V.L.), senza voler considerare gli oltre 600.000 prigionieri di guerra che cominciavano a riaffluire nel paese. Disattese, soprattutto per il deciso intervento del Comando alleato, le varie risoluzioni governative per “l’immissione nelle unità dell’esercito regolare di forze partigiane e di quei militari, tratti dal C.V.L., che abbiano dato prova di capacità, di valore, di amor patrio nella lotta di liberazione nazionale” ci si appresta quindi a ricostituire quelle che saranno le forze armate della Repubblica italiana. Un’impresa, quest’ultima, che si trova prima di tutto a dover fare i conti con la necessità di “defascistizzare” le strutture e gli organi dello Stato. Dal Ministero della Guerra si pretende, in relazione alla delicatezza dell’apparato e delle sue funzioni, un’epurazione più capillare e scrupolosa di quella richiesta ad altre amministrazioni: nella relazione del 23 maggio 1944, in pieno Consiglio dei Ministri, il responsabile del Ministero della guerra, generale Taddeo Orlando, dà formale assicurazione di aver disposto l’invio in congedo per “motivi vari” - quindi, presumibilmente, anche quello di un passato compromesso col fascismo - di 34 generali e di 31 colonnelli, un numero che uno dei suoi successori, Jacini, avrebbe dichiarato circa un anno dopo essere di 688 generali e 83 colonnelli. Gli effetti di tali provvedimenti - contro i quali si levano, insieme a quelle interessate di chi ha qualcosa da temere, anche le voci di protesta di chi, in buona fede ma con scarsa “memoria storica”, è fautore della riconciliazione nazionale a tutti i costi - sarebbero stati comunque riequilibrati di lì a qualche anno dalla legge 23 febbraio 1952 n. 93 con la quale si sarebbe riconosciuto ad ogni effetto giuridico e di carriera il periodo prestato nella Repubblica sociale italiana. In questo quadro la Regia Aeronautica cerca, da parte sua, di ricostruire, intorno ai pochi mezzi e infrastrutture esistenti, una forza armata con un minimo di credibilità, in questo certamente non favorita, almeno nel periodo iniziale, dalla rigidità della Commissione alleata di controllo. Ciò non impedisce, comunque, di ottenere anche qualche parziale successo: nell’ottobre del 1945, grazie alla com- 59 Storia dell’Aeronautica plicità degli americani, vengono acquistati a prezzi di rottame i 120 Lockheed P-38 “Lightning” che erano stati concentrati a Marcianise nella prospettiva di un loro trasferimento, ormai inutile dopo la resa del GiappoP 38 “Lightning” ne, nel teatro operativo del Pacifico. Con questi bimotori viene riequipaggiato il 4° Stormo, mentre gli altri due reparti da caccia esistenti, il 5° e il 51°, ricevono gli “Spitfire” IX inglesi. Intanto anche il paese tenta faticosamente di uscire dalle macerie della guerra e di darsi un assetto istituzionale definitivo: la crisi del 2° governo Bonomi apertasi con la riunificazione del territorio nazionale dopo il 25 aprile del ‘45 si conclude dapprima con la formazione del governo Parri e, quindi, di quello De Gasperi, mentre viene insediata la Consulta nazionale, primo organo di collaborazione parlamentare dei partiti membri del Comitato di liberazione nazionale. Con questi progressi e con la scadenza, il 1° gennaio 1946, del regime di amministrazione militare al nord, nella primavera dello stesso anno vengono indette le prime elezioni amministrative, mentre il 2 giugno il popolo italiano, votando per la prima volta a suffragio universale, condanna la Monarchia all’esilio e afferma la propria volontà per la Repubblica eleggendo l’Assemblea costituente. Umberto II di Savoia parte a bordo di un quadrimotore militare SM.95, pilotato dal maggiore Mario Lizzani e dal tenente Luigi Gentile, con destinazione Lisbona. Come prima conseguenza diretta, la nascita della Repubblica comporta il cambio di denominazione delle varie istituzioni dello Stato: la Regia Aeronautica scompare dopo 23 anni per lasciare il posto all’Aeronautica Militare. Nel massimo istituto per la formazione dei quadri - l’Accademia, nel frattempo trasferita a Nisida - il cambiamento della forma istituzionale della nazione viene accolto senza turbamenti particolari, rendendo superflue quelle misure precauzionali predisposte dalle superiori autorità per fronteggiare eventuali disordini. Con una cerimonia interna, il 16 febbraio dell’anno successivo, gli allievi prestano il giuramento di fedeltà alla Repubblica e il 1° gennaio del ‘48 vengono informati dell’entrata in vigore della nuova Costituzione il cui testo non è però oggetto, né allora, né negli anni successivi, di particolare commento, malgrado la “questione militare” fosse direttamente ed inequivocabilmente affrontata da numerosi articoli. “L’ Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli - recita l’11° - e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; 60 promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Un articolo fon- Storia dell’Aeronautica damentale, che implicitamente delinea e caratterizza la politica estera, la struttura e la filosofia dello strumento militare e le possibilità di scelta internazionali, con il solo limite della pari dignità e della irrinunciabile finalità. L’art. 52, nell’affermazione che... “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”... e che... “L’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica” nel porre fine alla mai sopita controversia tra esercito di mestiere e coscrizione obbligatoria, dà una giusta prospettiva anche al fatto che lo spirito della Costituzione dovesse entrare non solo nei codici e nel regolamento di disciplina, ma anche nell’ordinamento. Si tratta, in definitiva, di un insieme di norme programmatiche e prescrittive che - insieme agli artt. 78, 87, 98 e 103 - riflettono le conquiste della collaborazione governativa del periodo della coalizione antifascista, parte delle quali avrebbero però segnato ben presto il passo nel clima nuovo che si sarebbe instaurato a partire dalla fine del 1947, un anno peraltro caratterizzato da due avvenimenti di eccezionale importanza per le forze armate. I tre Ministeri della Guerra, della Marina e dell’Aeronautica vengono raggruppati in un unico dicastero al cui vertice viene posto, il 2 febbraio, l’onorevole Luigi Gasparotto, che diventa così il Primo Ministro della difesa. Esattamente otto giorni dopo, a Parigi, viene firmato il Trattato di pace che conclude ufficialmente la nostra partecipazione alla 2ª Guerra Mondiale, imponendoci delle clausole che, almeno per il momento, fanno crollare l’illusione di quanti avevano sperato in una più comprensiva valutazione, da parte degli Alleati, del contributo offerto dal popolo italiano e dalle sue forze armate nella lotta di liberazione nazionale. All’Esercito viene imposto di non superare con i suoi effettivi globali, compresi quindi i Carabinieri e le guardie di frontiera, le 250.000 unità; il numero massimo di carri armati è di 200. La Marina vede ridursi drasticamente la propria forza a 67.000 tonnellate per le navi da combattimento e a poco più per il naviglio ausiliario: l’eccedenza - in pratica il 50% del dislocamento totale ancora esistente - viene consegnata agli Alleati in conto riparazioni di guerra e divisa tra URSS, Jugoslavia, Francia e Grecia. Limitative, ovviamente, sono anche le clausole che riguardano l’Aeronautica: 25.000 uomini per un massimo di 350 aerei, di cui solo 200 armati per il combattimento e la ricognizione. A farne le spese, in pratica, è però solamente il personale, una parte del quale viene smobilitato; per i mezzi - 486 velivoli in tutto, di cui solo 211 realmente in grado di volare e in gran parte di fabbricazione alleata - il problema della demolizione riguarda solo l’eccedenza di alcuni tipi, in particolare i grossi plurimotori SM.82 e G.12 e gli aerei da caccia. I primi sono salvati passandoli, equipaggi e tutto, sotto le insegne del Sovrano militare ordine di Malta che ne garantiranno giuridicamente l’intoccabilità fino a quando l’Italia non entrerà nella NATO e i velivoli si fregeranno nuovamente delle coccarde tricolori; gli altri grazie ad un complicato giro di vendite a paesi del Sud America e del Medio Oriente. Alla mancanza di mezzi e di infrastrutture e al timore - comune in quel periodo a tutti 61 Storia dell’Aeronautica i quadri militari - di non poter garantire, nelle condizioni imposte dal Trattato, la difesa del paese dopo l’ormai imminente ritiro delle truppe d’occupazione anglo-americane, si prospetta per i responsabili dell’Aeronautica Militare un ulteriore pericolo: quello della perdita della propria autonomia a fronte dell’affermarsi del vecchio e, per la verità, mai abbandonato progetto di tornare alle origini ricostituendo un’aviazione per l’esercito e una per la marina. La polemica trova larga eco nella stampa specializzata e dà luogo ad un acceso dibattito - che non di rado vede serie argomentazioni dottrinali frammiste a più o meno velate accuse di filofascismo rivolte all’Aeronautica prebellica oppure a rinfacciamenti di responsabilità per mancata cooperazione aeroterrestre o aeronavale - di cui restano tracce vive ed interessanti nelle pagine della Rivista Aeronautica che, nata nel 1925, dal 1945 aveva ripreso le pubblicazioni sotto l’egida dell’Associazione culturale aeronautica. Ma il 1947 è anche l’anno che vede i reparti dell’A.M. distribuirsi su tutto il territorio nazionale, ormai progressivamente liberato dal regime di occupazione alleata. Il grosso dei plurimotori terrestri viene attestato nei dintorni di Roma: lo Stormo “Baltimore”, montato ancora sugli omonimi M-187, tra Guidonia e, unica eccezione “settentrionale”, Linate; il “Notturno” con gli SM.82 sempre a Guidonia e lo Stormo “Trasporti” a Centocelle con i G.12 e gli SM.73, 75 e 79. A quest’ultimo reparto viene affidata l’organizzazione di un servizio di “corrieri aerei militari” che assicura i collegamenti tra Roma e il resto del territorio nazionale. Più articolata la dislocazione dei reparti da caccia: il 4° Stormo, su P-38, si trasferisce da Lecce a CapodiSpitfire chino, dove resterà qualche anno; il 5° - con il 101° e 102° Gruppo montati su “Spitfire” IX e l’8° per il momento ancora con gli MC.205 in attesa dell’ormai imminente unificazione della linea sui caccia inglesi dapprima ad Orio al Serio e poi, dal ‘49, a Vicenza; il 51° dapprima a Vicenza con due dei suoi tre gruppi - il 20° e il 21°, entrambi su “Spit” - e quindi a Treviso a raggiungere il 155°; a sud resta solo l’8° Stormo “caccia”, ricostituito il 1° novembre 1948 a Bari Palese e armato con i “Lightning”. Gli idrovolanti ancora disponibili vengono divisi tra quattro gruppi l’82°, 83°, 84° e 85° - le cui squadriglie, montate sui superstiti 9 Cant.Z.506, 6 Fiat RS.14 ed un unico Cant.Z.501, sono dislocate tra Vigna di Valle, Taranto, Brindisi, Venezia, Agusta ed Elmas e quindi inserite nell’organizzazione operativa del Soccorso aereo, istituito nel ‘46 con compiti dapprima limitati all’area nazionale, ma ben presto allargati per effetto 62 dell’adesione dell’Italia all’ICAO, l’agenzia per l’aviazione civile costituitasi fin dal Storia dell’Aeronautica ‘44 nell’ambito delle Nazioni Unite. Intanto procede anche l’ammodernamento della linea, soprattutto grazie alla cessione di velivoli da parte degli Stati Uniti. Arrivano così, sempre a partire dal 1947, un centinaio di monomotori Stinson L-5 “Sentinel” per le scuole di primo periodo seguiti, alla fine del ‘48, da circa duecento North T - 6 in volo American T-6 “Texan”, sul quale generazioni di piloti otterranno il brevetto d’aeroplano fino a quando il pesante biposto non sarà sostituito dall’MB.326. In questo stesso periodo l’Aeronautica Militare riesce ad acquisire anche i primi di quella che, alla fine, sarà una dozzina tra C-47 e C-53, mentre nel ‘49 i primi di oltre centoventi bimotori Beechcraft C-45 “Expediter” - ma da noi si chiameranno semplicemente “Beech” - iniziano la loro lunga vita nella forza armata, durata fin oltre la metà degli anni 70, andando inizialmente ad equipaggiare il 36° e il 46° Stormo, nel frattempo ricostituiti rispettivamente a Guidonia e Centocelle. Per i collegamenti entrano in linea una ventina di Fairchild UC-61 “Forwarder”, per lo più impiegati con il Reparto volo Stato Maggiore e con i C.A.V., mentre più o meno un numero doppio di Curtiss SB2C-5 “Helldiver” verrà impiegato, sia pure con notevole spirito di adattamento, nella lotta antisommergibile fino a quando non sarà possibile, nel’ 53, sostituire questo tipo di aereo con i più efficaci, anche se non completamente ottimizzati, bimotori C- 45 Lockheed PV-2 “Harpoon”. In questi primi anni del dopoguerra si cerca di ridare impulso anche ad altri settori: nel ‘46 viene istituito un nucleo di studi e ricerche di medicina aeronautica che nel 1951 si sarebbe trasformato nell’attuale Centro; con l’anno accademico 1948-49 la Scuola di guerra aerea riprende i suoi corsi di aggiornamento professionale per capitani e tenenti colonnelli, trasferendosi quindi nella sede definitiva di Firenze. Anche l’industria aeronautica nazionale inizia la sua pur lenta ripresa. Nascono cosi, tra gli altri, l’MB.308, prima collaborazione di una lunga e prestigiosa serie di aerei della Macchi “firmati” da Ermanno 63 Storia dell’Aeronautica Barzocchi, e l’S.7 della SAI Ambrosini, mentre la Fiat, e qui l’altro nome del binomio e Giuseppe Gabrielli, produce, insieme al G.59 derivato dal G.55, l’addestratore a posti in tandem G.46. Un altro addestratore, questa volta a posti affiancati, esce invece dalla Piaggio: è il P.148, che sarà largamente impiegato nella selezione al volo e nel 1° periodo. Dalla stessa ditta esce anche un piccolo anfibio a cinque posti, il P.136 poi assegnato al Soccorso aereo prevalentemente con funzioni addestrative. Dal canto suo la Breda riesce nel ‘48 a finire il suo quadrimotore metallico B.Z.308 grazie all’arrivo dei motori inglesi Bristol “Centaurus” 568, la cui ritardata consegna è solo uno dei motivi del mancato successo di questo peraltro pregevole “gigante”. L’unico esemplare, passato sotto le insegne del Reparto volo S.M., sarà demolito nel ‘54 in Somalia a seguito di un non grave incidente che la mancanza di parti di ricambio rivelerà però decisivo. 64 Storia dell’Aeronautica Capitolo XI Con la N.A.T.O. arrivano gli aviogetti S e è vero che con la Conferenza di Yalta nel febbraio del 1945 i tre “grandi” avevano affrontato in linea generale il futuro assetto internazionale del dopoguerra, è anche vero che la genericità degli accordi presi in Crimea era stata tale che non necessariamente le cose sarebbero poi andate come andarono, se a Yalta non fosse poi seguita tutta una serie di atti che teorizzarono dapprima, e tradussero in comportamenti concreti poi, le grandi tensioni e gli ormai insanabili contrasti che, fin dalle ultime battute della guerra, si erano aperti tra USA e Gran Bretagna da una parte e URSS dall’altra. Quanto su questo abbiano influito elementi come la successione a Roosevelt - fautore di un progetto di ricostruzione europea basato sull’indolore riconversione all’economia di pace dell’industria americana - del più radicale Truman, autore di una dottrina tutta volta al “contenimento globale del comunismo”; quanto il monopolio atomico detenuto, almeno nei primi anni, dagli USA; quanto gli interessi coloniali di cui erano ancora portatori Gran Bretagna e Francia, o quanto la decisa e manifesta volontà dell’URSS di garantirsi le nuove frontiere occidentali e di organizzarsi un’espansione della propria sfera d’influenza con un occhio molto attento ai “movimenti di liberazione” dei paesi del Terzo mondo, è terreno di discussione e problema ancora aperto, così come aperta resta ancor oggi la rincorsa, che iniziò allora, tra Est e Ovest per potenziare, di volta in volta a livello sempre più alto, “lo scudo e la lancia”, in una gara che, se dovesse concretizzarsi in una reale prova di forza, avrebbe ormai solo dei vinti. Al di là delle singole responsabilità, comunque, quello che è certo è che, a questo punto, l’unità tra le nazioni che avevano costituito la coalizione antihitleriana appare ormai rotta, e ciò si traduce subito nella cristallizzazione delle rispettive sfere d’influenza, o dei blocchi se si vuole, coincidenti con le regioni geografiche occupate dai rispettivi eserciti: a coloro che dagli esiti della guerra avevano tratto le speranze per un mondo nuovo, ordinato all’insegna del progresso e della giustizia nella libertà, si risponde con la “guerra fredda”. Un periodo triste e infausto che a concetti come solidarietà, cooperazione e distensione oppone la logica del “muro contro muro”, del sospetto e dell’integralismo più irrazionale. Un “clima” che non tarda a far sentire i suoi effetti anche in Italia (compresa nella sfera d’influenza alleata e, più precisamente, americana, specie dopo la sconfitta elettorale di Churchill) dove la crisi del governo di unità nazionale, il progressivo e sempre più stretto avvicinamento tra il partito cattolico e Stati Uniti, la formazione del 4° governo De 65 Storia dell’Aeronautica Gasperi che esclude per la prima volta la partecipazione delle sinistre, la firma del Trattato di amicizia italo-americano, il successo elettorale del partito di governo, sono alcuni dei passi che precedono e portano all’adesione dell’Italia al Patto atlantico, che il nostro paese firma il 4 aprile 1949 e che viene ratificato il 1° agosto successivo, dopo un dibattito parlamentare teso a dimostrare l’impossibilità finanziaria di sostenere la scelta della neutralità armata, e la “vaga e pericolosa illusione” costituita invece da quella disarmata. Il clima di guerra fredda e la ventata di “maccartismo” importata dagli USA esasperano in questo periodo le relazioni sociali, non solo all’interno del Ministero della Difesa, ma anche nel confronto, che non di rado diventa contrapposizione, tra società militare e società civile. E’ un fatto che in questo periodo - e malgrado il nostro paese avesse delegato alla NATO gran parte della propria sovranità in materia di politica estera, di difesa e militare - la suscettibilità militarista e nazionalista giunge a livelli perlomeno inconsueti: ogni accenno critico alla gestione delle forze armate è di fatto equiparato ad una sorta di alto tradimento. E se ai dipendenti della Difesa che vengono individuati come simpatizzanti di quei partiti di sinistra che in Parlamento e nel paese conducevano da tempo una dura battaglia contro l’adesione italiana al Patto atlantico, si risponde con misure repressive fino al licenziamento, agli incauti autori di libri o di film giudicati lesivi per le forze armate e ai primi segni della profonda frattura determinatasi nella coscienza spirituale del paese, le obiezioni di coscienza, la risposta è delegata ai tribunali di fronte ai quali si è immancabilmente trascinati. In questo clima e in questo periodo la Rivista Aeronautica, ancora sotto l’egida dell’Associazione culturale aeronautica - vede prima la destituzione del suo direttore, il generale Amedeo Mecozzi, reo di accenti giudicati troppo polemici verso la dottrina della “rappresaglia massiccia” teorizzata dagli USA in caso di attacco nucleare, e poi il suo rientro nella più tranquilla gestione ministeriale diretta. E’ indubbio comunque che, sul piano della ricostruzione, l’adesione dell’Italia alla North Atlantic Treaty Organization significa immediati benefici per il nostro paese che, da nemico a cobelligerante, è ora assurto al rango di alleato autentico. Ciò consente, tra l’altro, un rafforzamento militare altrimenti impossibile in un periodo in cui il disavanzo di cassa per esercizio finanziario si aggira attorno agli 850 miliardi di lire e, soprattutto, nel quale la maggior parte delle risorse sono prioritariamente destinate alla ricostruzione del paese. A ciò provvedono in maniera massiccia gli Stati Uniti con forniture a prezzi di favore o addirittura gratuite nell’ambito dei programmi di assistenza che, nel campo militare, si estrinsecano sotto due forme principali - l’OSP, Off-Shore Procurement, e l’M-DAP, Mutual Defence Assistence Program - mentre i limiti fissati dal Trattato di pace - che saranno formalmente dichiarati superati nel settembre del ‘51- in tema di armamento pesante vengono aggirati con forniture “end-use agreements”. Una situazione di 66 cui beneficia ben presto anche l’Aeronautica Militare. La linea di volo dei caccia è Storia dell’Aeronautica la prima a veder concretizzati, verso gli ultimi mesi del 1950, i positivi effetti della nuova collocazione internazionale dell’Italia: gli ormai vecchi e superati “Spitfire” e “Lightning” vengono sostituiti dai North American P-51D “Mustang” e dai Republic P-47D “Thunder-bolt”. I primi vengono destinati ad equipaggiare l’intera linea del 3° e del 4° Stormo, entrambi basati a Capodichino, e due gruppi :l’8°, che si stacca dal 56° Stormo per andare a ricostituire il 2°, e il 155° che ridà vita al 60° Stormo. I secondi North American P- 51D “Mustang” sono invece avviati ai restanti gruppi del 5° e del 51° Stormo che, in tal modo e sia pure con non poche difficoltà di adattamento da parte dei piloti, diventano “caccia bombardieri”.Il 5° il 6° e il 51° Stormo saranno i primi reparti italiani a passare di li a poco sotto la 56a TAF (Tactical Air Force), l’organismo integrato della NATO costituito a Vicenza alle dipendenze di Airsouth (Comando forze aeree del sud Europa), dal quale sarebbe derivata pochi anni dopo la 5a ATAF (Allied Tactical Air Force).I tempi sono a questo punto maturi per l’arrivo dei primi aviogetti, per aver i quali, peraltro, erano stati intrapresi già da tempo i passi opportuni. Svanita per il momento la possibilità di ottenere la collaborazione degli Stati Uniti, già impegnati in Estremo Oriente in qualcosa di più consistente della guerra fredda, l’accordo viene raggiunto con la Gran Bretagna con la quale l’Italia vanta un credito di 80 milioni di sterline pagabili solo con prodotti industriali, parte dei quali entrano nel nostro paese sotto forma di De Havilland DH 100 “Vampire”, di cui viene concessa anche la produzione su licenza. Il primo reparto ad essere equipaggiato col nuovo monoreattore è il 4° Stormo - subito seguito dal 60° - i cui “Mustang” vengono versati alle scuole di volo di 8° periodo dove sarebbero stati usati per allenamento e collegamento. L’ultimo reparto a transitare sul “Vampiro”, come fu subito chiamato, sarà il 2° Stormo nel 1956. L’adesione italiana al Patto atlantico comincia intanto a produrre i suoi frutti anche dal versante americano: nel 1952 arrivano a Brindisi - via mare e perfettamente “coconizzati” - i primi degli oltre 250 Republic F-84G “Thunderjet”, ceduti praticamente gratis all’Aeronautica Militare insieme alla licenza di produrre alcune parti del velivolo e di revisionarne il gruppo motopropulsore. Con questo nuovo aereo, tra il 1953 e il 1954, la 5a Aerobrigata si sposta da Vicenza a Villafranca, la 51a nella sede definitiva di Istrana e la 6a in quella di Ghedi, mentre in seno al 3° Stormo, ancor prima della trasformazione in 3a 67 DH 100 “Vampire” Storia dell’Aeronautica Aerobrigata “ricognizione tattica”, viene istituita una Sezione fotografica equipaggiata con RF-84G, versione da ricognizione ottenuta grazie all’installazione di macchine da ripresa nella tanica alare sinistra del velivolo. Erede di una specialità che - nata a Campoformido agli inizi degli anni 30 grazie a Rino Corso Fougier - nel periodo precedente la 2a Guerra Mondiale aveva dato alla Regia Aeronautica non pochi allori, legati a uomini - e ricordiamo solo qualche nome - come Neri, Reglieri, Zotti, Moscatelli, Remondino, Molinari, Brambilla e Botto, anche l’acrobazia aerea collettiva ricomincia a muovere i primi passi: nel luglio del ‘52 quattro “Vampire” del 4° Stormo si esibiscono in Belgio. A questa prima formazione ne seguiranno presto altre - questa volta “ufficializzate” da un nome e fornite a rotazione dai vari reparti - come i “Getti tonanti” della 5a Aerobrigata nel ‘53 e le “Tigri bianche” della 51a nel ‘55, entrambe su F-84G; quella del “Cavallino rampante” della 4a nel ‘57 su F-86E e, l’anno successivo, i “Diavoli rossi” della 5a e i “Lanceri neri” della 2a, rispettivamente su Le Frecce Tricolori F-84F ed F-86E; ancora i “Getti tonanti”, questa volta su F-84F, nel 1959 a chiudere definitivamente la tradizione della rotazione. Nel ‘60 verrà infatti costituito a Rivolto il 313° Gruppo “addestramento acrobatico” che, come Pattuglia acrobatica nazionale, inizierà da quell’anno a rappresentare ufficialmente la forza armata in tutte le manifestazioni. A questo punto due parole per spiegare le ragioni della progressiva trasformazione degli stormi in aerobrigate. Una delle prime conseguenze, sul piano organizzativo interno, della costituzione di un’alleanza integrata come quella della NATO, era stata la necessità, 68 per le forze armate in genere, ma per quelle aeree in particolare, di omogeneizzare Storia dell’Aeronautica strutture e metodologie. I mutamenti più vistosi, come abbiamo accennato, si ebbero in relazione ai reparti di volo che, secondo i nuovi canoni della NATO, avrebbero dovuto trasferirsi, in caso di emergenza, da una parte all’altra dell’Alleanza, in breve tempo e senza che ciò penalizzasse anche minimamente il reparto sotto il profilo operativo, tecnico e logistico. Il reparto, cioè, doveva possedere in pratica la massima autonomia, in grado di assicurargli la totale indipendenza dalla base sulla quale, in Italia o all’estero, esso andava a rischierarsi. Le basi furono quindi trasformate per accogliere nello spazio di poche ore un reparto aereo al completo e per far fronte adeguatamente alle offese, anche N.B.C., che potessero essere arrecate loro. Le aerobrigate si articolarono su un Reparto volo con tre gruppi di circa 25 velivoli ciascuno, uno ERT (Efficienza, rifornimenti e trasporti), uno SOG (Servizi operativi generali) e un GEV (Gruppo efficienza velivoli) che, inserito nel Reparto volo, rispondeva ai più recenti concetti sulla manutenzione. Ma torniamo agli avvenimenti di cui è protagonista in quei primi anni 50 la nostra Aeronautica, la cui “rinascita” prosegue ora a ritmo più sostenuto. Nel 1953 la linea dei “trasporti” riceve i primi di oltre 40 Fairchild C-119G “Flying Boxcar”, i famosi “vagoni volanti”, che vengono assegnati al 46° Stormo di Ciampino, che di lì a poco si sarebbe trasferito nella sede definitiva di Pisa diventando 46a Aerobrigata “trasporti medi”. Dopo una vita operativa a dir poco prestigiosa l’ultimo C-119 avrebbe volato il 24 gennaio 1979, mentre una versione “EC” per la guerra elettronica avrebbe trovato posto agli inizi degli anni 80 nel Museo storico dell’Aeronautica Militare a Vigna di Valle, dopo un tipo di impiego perlomeno G 59 originale presso il 14° Stormo. Il progressivo ammodernamento di tutta la linea di volo impone intanto di rivedere, soprattutto considerando l’introduzione di velivoli a getto, anche tutta l’organizzazione delle scuole di volo. Passati i primi anni dell’immediato dopoguerra, in cui si imparava a volare praticamente su tutti i tipi di velivoli esistenti o, perlomeno, disponibili, con l’arrivo dei primi aiuti alleati e con la ripresa dell’attività produttiva delle nostre industrie, si ha ben presto la possibilità di razionalizzare le varie fasi istruzionali per il conseguimento del brevetto di pilota militare volando dapprima con gli L-5 e poi con i Macchi M-416 per il primo periodo, con i G.46 e i T-6 per il secondo e utilizzando i nuovi G.59 nel terzo, si arriva - dopo la breve esperienza del Nucleo addestrativo su “Vampire” costituito ad Amendola al 1952 quando cominciano ad affluire i Lockheed T-33A (alla fine saranno circa un 69 Storia dell’Aeronautica centinaio contando anche i monoposto RT-33A), con i quali è possibile organizzare le scuole di volo in maniera tale che ognuna sia “specializzata” in una fase particolare e ben definita dell’iter addestrativo. A Lecce la Scuola volo basico iniziale, ad Amendola quella per il volo basico avanzato su aviogetti e a Latina per quello su plurimotori, a Grottaglie la Scuola centrale per gli istruttori di volo, ad Alghero la Scuola velivoli leggeri e a Frosinone infine - ma siamo già nel 1955 - quella per la produzione di tutti i piloti di elicottero, anche di quelli appartenenti ad altre forze armate. Proprio F 86 K nel ‘55 la capacità operativa dell’Aeronautica Militare compie un notevole salto di qualità: dagli U.S.A. arrivano, “off shore”, i primi North American F-86K “Sabre”, monoreattori con ala a freccia, carrello a triciclo retrattile, velocità massima di poco oltre i 1.000 chilometri orari, ma soprattuto la capacità di operare “ogni tempo”. Con essi viene ricostituito uno stormo dalle grandi tradizioni, il 1°, che assume la denominazione fino ad allora nuova di C.O.T. (Caccia Ogni Tempo), mentre l’anno successivo due aerobrigate “intercettori diurni”, la 4ª, nel frattempo trasferitasi da Capodichino a Pratica di Mare, e la 2ª con i suoi tre gruppi ancora divisi tra Ghedi e Cameri, compiono la transizione sul “Sabre Mk4”, versione prodotta in Canada dell’F-86E. Con l’operazione F-86, al salto di qualità della capacità operativa della forza armata, si accompagnò quello della nostra industria, in quanto nel “pacchetto” era compresa anche la produzione su licenza in Italia di tutti i velivoli destinati al settore europeo. Ciò senza nulla voler togliere a quanto, in materia di aviogetti, la nostra industria era andata intanto maturando, acquisendo una sua autonoma capacità di produzione che, se all’inizio non fu confortata da alcun successo commerciale, ciò fu dovuto soprattutto alla evidente ed inevitabile mancanza di competitività del prodotto made in Italy, in un periodo in cui i costi di favore, spesso del tutto simbolici, degli aviogetti provenienti dagli Stati Unti mettevano fuori gioco qualsiasi progetto europeo. Nel 1951, comunque, dalla collaborazione Fiat-Gabrielli era nato e aveva compiuto il primo volo il G.80, primo aereo italiano con turbogetto che, costruito in pochi esemplari, sarebbe stato seguito tre anni dopo da una versione migliorata e potenziata, il G.82, i cui sei esemplari sarebbero stati assegnati dapprima alla Scuola di Amendola e quindi al Reparto sperimentale di volo a Pratica di Mare. Nel ‘52 era apparso, questa volta per il binomio Caproni-Frati, un altro e più dimen70 sionato aviogetto, l’F.5, mentre dalla collaborazione tra la SAI Ambrosini e l’Aerfer Storia dell’Aeronautica prendeva consistenza il progetto Stefanutti per il primo caccia italiano con ala a freccia, di cui furono realizzati due prototipi, il “Sagittario” 2 e l’ “Ariete”. La loro successiva versione supersonica, il “Leone”, fu abbandonata a livello di costruzione di prototipo in parte per gli elevati costi che avrebbe comportato il suo sviluppo, ma soprattutto perché i fondi ad esso destinati furono impiegati per la produzione su licenza dei missili “Hawk” destinati all’Esercito: una contropartita all’installazione dei Nike, ma anche una grande occasione perduta per realizzare in Italia un velivolo dalle prestazioni eccezionali. Intanto, tra la primavera del 1956 e l’inizio del ‘57, la linea di volo della 5ª, 6ª e 51ª Aerobrigata - in pratica i tre reparti assegnati in ambito NATO a quella che ora è diventata la 5a ATAF, al cui vertice è posto un ufficiale generale dell’A.M. - vengono ammodernate con un nuovo caccia-bombardiere con ala a freccia il Republic F-84F “Thunder-streak”, a cui fa subito seguito la versione “RF” da ricognizione tattica “Thunderflash” che va ad equipaggiare la 3ª Aerobrigata. A questo punto, a distanza di poco più di dieci anni dal disastroso esito della 2a Guerra Mondiale, l’Aeronautica Militare appare completamente rigenerata e perfettamente inserita nell’alleanza occidentale. All’ammodernamento delle sue linee caccia e trasporti, alla riorganizzazione dei settori logistici, tecnici e operativi, alla ripresa di tutto il settore istruzionale - anche le scuole specialisti avevano da tempo ripreso a funzionare a Caserta dal 1948 e a Macerata dal ‘52 - si era accompagnata infatti anche la nascita della componente elicotteristica della forza armata, mentre era continuata l’opera di ammodernamento di altre specialità come il Soccorso aereo e gli antisom. La linea elicotteri - dotata agli inizi di macchine di produzione americana come il Bell 47D1, il Westland - Sikorsky S-510 l’S-55, ma ben presto degli AB.47G-2 costruiti su licenza dall’Agusta - viene concentrata nel ‘53 sull’aeroporto dell’Urbe dove si costituisce la prima unità montata esclusivamente su “ala rotante”, il Reparto addestramento elicotteri, cui è devoluta anche l’attività operativa. Negli anni successivi i suoi due gruppi - il 208°, “duecentottimo” com’è scritto sul distintivo, e il 209° - daranno vita rispettivamente alla Scuola di Frosinone e al 31° Stormo elicotteri di Pratica di Mare, dove gli elicotteri resteranno anche quando quest’ultimo reparto assorbirà la componente ad ala fissa del disciolto Reparto volo Stato Maggiore di Ciampino. A partire dal 1957 anche la linea SAR può vantare delle novità: arrivano infatti gli anfibi Grumman HU-16A “Albatross”, la cui immissione consentirà di lì a qualche anno di ristrutturare razionalmente tutto il servizio, articolandolo sul Comando trasporti e soccorso aereo e sul 15° Stormo, entrambi a Ciampino, e sui Centri di coordinamento di Milano Linate e Grottaglie, soprattutto dopo che l’entrata in linea di un elicottero - il monoturbina AB.204, dal ‘60 prodotto su licenza dall’Agusta avrebbe assicurato a questa 71 Storia dell’Aeronautica specialità una più elevata flessibilità d’intervento e una maggiore capacità operativa. Ai reparti antisom erano invece arrivati i bimotori Grumman S2F-1 “Tracker”, un aereo che, prima di essere soppiantato dal più moderno Breguet 1150 “Atlantic”, avrebbe dato eccellenti risultati e consentito di riorganizzare la specialità negli attuali 30° e 41° Stormo che, alle dipendenze di Marinavia - l’Ispettorato dell’aviazione per la marina costituito nel 1950 - volano sul Mediterraneo con equipaggi forniti, al 50%, dall’Aeronautica e dalla Marina Militare. Tutto ciò rappresentava però solo la parte più appariscente di tutto il lavoro di affinamento e di riorganizzazione che in questi anni aveva investito le nostre forze armate. Un’intensa attività legislativa aveva consentito di iniziare a mettere ordine, anche se spesso in modo parziale e frammentario, nel campo del personale, con provvedimenti sulle promozioni, le carriere, le retribuzioni, gli organici. Di pari passo con la necessità di armonizzare lo strumento militare e di adeguarlo continuamente al progresso tecnico e alle esigenze che andavano man mano maturando, numerosi enti e comandi si erano col tempo costituiti, spesso con struttura interforze. Nel ‘49 era stato istituito il Centro alti studi militari; l’anno successivo il Consiglio supremo di difesa che, concepito come organo per l’esame dei problemi generali e per assicurare la supervisione politica sulla difesa, in realtà si era ben presto ridotto ad attribuzioni formali per lo più limitate alla ratifica di decisioni tecniche prese altrove; nel ‘51 veniva costituita la Scuola di aerocooperazione, mentre il Consiglio superiore delle forze armate veniva unificato; nello stesso anno nasceva la DAT, Comando difesa aerea territoriale, con alcuni reparti contraerei dell’Esercito, tutti i gruppi intercettori dell’AeroMB 326 nautica e, nel suo, ambito, un Centro a Borgo Piave, dove sarebbe stato addestrato tutto il personale tecnico e operativo assegnato a questa nascente specialità; nel ‘54, insieme all’Istituto stati maggiori interforze, anche la Scuola ABC: nel ‘56 il poligono sperimentale di Salto di Quirra, interforze anche se assegnato all’A.M. per la gestione, con due aree di lancio a Capo S. Lorenzo e Perdasdefogu. Protagoniste due delle massime ditte aeronautiche italiane, la Fiat e la Macchi, questo periodo si chiude con due eventi aeronautici di grande importanza e significato per il nostro paese: dalle capacità di progettazione, sviluppo e produzione dei nostri tecnici e delle nostre maestranze, decollano due progetti di velivolo a getto di elevate prestazioni, 72 il G.91 e l’MB.326, i cui primi voli risalgono rispettivamente al 9 agosto 1956 e al 10 Storia dell’Aeronautica dicembre 1957. Con essi si apre l’era più recente e moderna della storia dell’Aeronautica Militare, con un rapporto diverso e una più ottimizzata rispondenza tra esigenze operative della forza armata e capacità a tutti i livelli dell’industria aeronautica nazionale a monte di essa. Un colloquio tra due settori che si rileverà indispensabile per programmare direttrici di sviluppo e di potenziamento dello strumento militare e dello stesso apparato industriale, in armonia con i necessari indirizzi di programmazione politica ed economica. Tutto ciò si svolgeva sullo sfondo di un’Europa dove sempre più tesi si erano andati sviluppando rapporti est-ovest. L’entrata della Germania occidentale nella NATO il 5 maggio del 1955, la costituzione del Patto di Varsavia nove giorni dopo. La decisione della NATO di dotarsi di un armamento atomico (primo passo verso l’integrazione delle forze strategiche, con la conseguente rinuncia degli stati membri alla sovranità militare) sette mesi dopo, sono il chiaro segno della progressiva e sempre più insanabile frattura fra i due blocchi in questo periodo, una situazione che non sarebbe certo migliorata in quello successivo che vide, tra l’altro le gravi tensioni determinate dai fatti d’Ungheria e di Suez. E quando, nell’ottobre del ‘57, il lancio dello “Sputnik” avrebbe da una parte dimostrato la capacità sovietica nel campo dei vettori balistici intercontinentali, e dall’altra messo in crisi la validità del concetto di “deterrente atomico” degli Stati Uniti, non ancora in possesso di ICBM, la soluzione fu quella di installare in Europa, sotto la bandiera della NATO, dei missili americani a medio raggio (IRBM): insieme alla Turchia, l’Italia è l’altro paese dell’Alleanza che dichiara la propria disponibilità. E mentre in seno all’Esercito viene costituita una brigata con missili Il missile Nike Hercules terra-terra tattici a testata nucleare del tipo “Honest John”, l’Aeronautica Militare riceve da una parte i missili terra-aria del tipo Nike nelle versioni “Ajax” ed “Hercules” - con i quali arma nel 1959 la 1ª Ae- 73 Storia dell’Aeronautica robrigata che, cedendo i suoi F-86K alla 51ª, si trasforma cosi in “intercettori teleguidati” - e dall’altra quelli strategici a medio raggio “Jupiter C” con i quali viene ricostituita a Gioia del Colle la 86ª Aerobrigata che assume la denominazione di “Interdizione strategica”. Quasi a compensare l’accresciuto potenziale dell’Aeronautica, più o meno nello stesso periodo nascono ufficialmente sia la componente elicotteristica della Marina, sia l’Aviazione leggera dell’Esercito, il che rappresenta per i piloti dell’A.M. un ulteriore motivo di polemica in un momento in cui essi traversavano una “crisi di identità” senza precedenti di fronte alla prospettiva di un futuro nel quale non era azzardato prevedere, come ebbe a dire il Capo di Stato Maggiore dell’A.M. generale Silvio Napoli ad una cerimonia a Nisida, che il missile avrebbe sostituito l’aeroplano pilotato e che i futuri ufficiali piloti avrebbero svolto i loro compiti nelle profondità dei bunker delle centrali di lancio. Questa “missilite”, come qualcuno ebbe a chiamarla, ha però anche risvolti positivi: l’allora colonnello Broglio inizia una serie di studi sui vettori che lo porteranno di lì a qualche anno a realizzare, con personale per la maggior parte proveniente dalla forza armata, un programma di ricerche nello spazio, il San Marco, con satelliti messi in orbita dall’omonimo poligono attrezzato su due piattaforme ancorate al largo del golfo di Mombasa. 74 Storia dell’Aeronautica Capitolo XII Dal G 91 alla storia più recente C oncepito in base al requisito NATO “Light Weight Strike Fighter”, il G.91 viene dichiarato vincitore del concorso per il caccia tattico-leggero che avrebbe dovuto equipaggiare le forze aeree dei paesi dell’Alleanza: siamo agli inizi del 1958 e del velivolo italiano - che in realtà verrà adottato solo dalla Luftwaffe, oltre che dall’Aeronauti ca Militare - sono stati già prodotti 27 esemplari di preserie, 20 dei quali, modificati e alleggeriti nella versione “PAN”, equipaggeranno a partire dalla fine del ‘63 il 313° Gruppo “addestramento acrobatico di Rivolto”, noto anche come “Frecce tricolori”. La lunga valutazione operativa del nuovo caccia, che ha assunto la denominazione di G.91 R dopo che il musetto è stato ridisegnato per consentire l’alloggiamento di macchine fotografiche, si conclude nel ‘64 quando, grazie anche alla ormai avviata produzione di serie, il 10 ottobre è possibile armare esclusivamente con questo velivolo il ricostituito 2° Stormo, che da allora opera a Treviso S. Angelo nella specialità “caccia tattici ricognitori leggeri”. Al 2° seguirà, il 10 settembre 1967, il 32° Stormo CBR, in posizione quadro dal ‘43, che successivamente passerà allo sviluppo bimotore del “R”, il G.91 Y, in linea a Brindisi dal ‘74 e a Cervia, con l’8°, fin dal 1970. La terza versione del G.91, il “T” biposto da addestramento, che aveva volato la prima volta a Caselle nel maggio del ‘60 e del ‘64 cominciava ad affluire alla Scuola di Amendola: è questo il periodo in cui tutto l’iter addestrativo viene svolto per la prima volta dalla fine della guerra su macchine tutte italiane. A Lecce l’MB.326, nato dal binomio Macchi-Barzocchi, è destinato ad un notevole successo di mercato, un biposto che, concepito per essere impiegato fin dalle fasi iniziali dell’adI G 91 nella livrea delle Frecce Tricolori destramento, aveva consentito 75 Storia dell’Aeronautica dal ‘62 di inaugurare l’era del jet ab initio. Ad Amendola il G.91T in sostituzione, a partire dai corsi del 1965, degli ormai vetusti T-33A. A Latina i Piaggio P.166 che, nati per il supporto logistico ai rischieramenti dei G.91, furono impiegati in tutt’altre mansioni, tra cui, appunto, quelle addestrative. A Frosinone gli AB.47G e “J” e gli AB.204B, elicotteri di concezione americana, ma ormai costruiti in Italia su licenza. A questi si sarebbe in seguito aggiunto il SIAI SF.260, nel ‘76, quando per una questione di costi si sarebbe riportato parte dell’addestramento iniziale sui velivoli ad elica, e il Macchi MB.339 che, agli inizi degli anni ‘80, avrebbe rinnovato e la linea della Pattuglia acrobatica nazionale e quella di Lecce, MB 339 in sostituzione del “326”. Ma facciamo un passo indietro e torniamo al 1960 quando l’Aeronautica, finiti ormai gli invii gratuiti di materiale in conto MDAP, si trova di fronte alla necessità di provvedere al rinnovo della linea da combattimento, praticamente tutta basata su velivoli della classe ‘80, se si eccettuano i G.91 R. La scelta - che deve tener conto, insieme alle esigenze d’impiego operativo, anche delle disponibilità di bilancio e del “ritorno” che, in termini di lavoro e di tecnologia, deve comportare l’operazione - cade, sulla scia di quanto avevano già deciso Belgio, Germania e Olanda, sulla versione polivalente del caccia bisonico della Lockheed F-104 “Starfighter”,l’F-104G, di cui i quattro paesi riuniti nel Consorzio NASMO (NATO Starfighter Management Organization) con sede a Coblenza si assicurano la produzione per 200 esemplari, di cui 125 all’Aeronautica Militare, 50 alla Luftwaffe e 25 all’Air Force olandese. Ancora una volta la 4ª Aerobrigata, dal ‘60 nella base definitiva di Grosseto, può vantare un primato: il suo 9° Gruppo è il primo italiano a ricevere il “cacciatore di stelle” nel marzo del ‘63 e ad essere “combat ready” sul velivolo l’anno dopo, quando anche il 1° lascia i “Sabre” per l’F-104G; nel ‘65 l’Aerobrigata completa la transizione sul nuovo bisonico con il quale supera le prime 5000 ore nello stesso anno, sempre a Grosseto, si costituisce il 20° Gruppo “addestramento operativo” dotato di TF-104G, versione biposto dello “Starfighter”, e di un simulatore per il passaggio dei piloti sul nuovo velivolo che, nel giro di pochi anni, avrebbe equipaggiato nelle due varianti “G” e “S” tutta la linea da combattimento della forza 76 armata, tra cui la 3ª Aerobrigata che dal ‘70 avrebbe cominciato a ricevere gli RF- Storia dell’Aeronautica 104G, i ricostituiti 50° e 53° Stormo, nonché quel 9° Stormo “Francesco Baracca” che nasce a Grazzanise nel ‘63 quando il 10° Gruppo, e con esso la famosa 91ª Squadriglia già dell’Eroe del Montello, si stacca non senza polemiche dal 4° Stormo. La versione “S” a cui si è accennato è la variante più moderna del “G” e ne rappresenta di fatto il successore. Infatti, quando a metà degli anni ‘60 l’Aeronautica si pone il problema di rinnovare la linea caccia, in parte ancora su F-84F e F-86K, tra le varie e non sempre “economiche” soluzioni possibili viene scelta quella di sviluppare, secondo specifiche imposte dallo stesso Stato Maggiore, una versione più aggiornata dell’F104G. Le modifiche interessano s o p r a t t u tF 104 S to il gruppo propulsore, con una potenza maggiorata di circa 1.000 CV, e l’avionica, il cui ammodernamento è indispensabile per poter impiegare, insieme ai missili a raggi infrarossi “Sidewinder” della precedente serie, anche quelli a guida radar “Sparrow” costruiti su licenza dalla Selenia. Il “pacchetto” contrattato con la Lockheed prevede una spesa di 225 miliardi per 165 aerei da produrre in Italia, con quote lavoro che riguardano la costruzione dell’intera cellula e circa il 50% degli accessori, dell’avionica e del motore, oltre a una parte delle attrezzature di supporto: il 30 dicembre 1968 il primo F-104S italiano vola per la prima volta a Caselle; entro la fine dell’anno successivo il 22° Gruppo del 51° Stormo è il primo reparto dell’Aeronautica Militare ad essere armato col nuovo “Starfighter”. Dagli stabilimenti dell’Aeritalia - il nuovo gruppo industriale che, costituitosi nel 1969 con sede a Napoli e con partecipazione paritetica Fiat-Finmeccanica, concentrava in se gli impianti e le attività, esclusi i motori, della Divisione Aviazione della Fiat, dell’Aerfer e della Salmoiraghi - sarebbero usciti alla fine 205 F-104S. Del sostituto di questo “sistema d’arma” - che secondo le previsioni resterà in linea fino al 1995 grazie ad ulteriori ammodernamenti dell’avionica - lo Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare ha reso noto di recente le specifiche, consentendo in tal modo che tutto il lavoro di ricerca delle ditte italiane interessate al progetto possa essere programmato con sufficiente anticipo e, soprattutto, fina77 lizzato alle reali esigenze della forza armata. Storia dell’Aeronautica Nel corso degli anni ‘60 proseguono intanto anche gli aggiustamenti ordinativi e organizzativi. Nel 1961 la forza armata razionalizza la sua struttura periferica sostituendo le quattro Zone aeree territoriali con tre Regioni aeree, i cui comandi sono posti a Milano, Roma e Bari e due Settori aerei, uno per la Sardegna e uno per la Sicilia. Nel ‘64 la Commissione nominata nel 1948 per studiare e compilare il primo regolamento di disciplina unificato per tutte le forze armate conclude i suoi lavori e presenta un progetto - che sarà esecutivo l’anno successivo - con il quale ci si sforza, non sempre con successo, di adeguare le regole della disciplina militare ai profondi mutamenti istituzionali e sociali del paese. Nel ‘66 una serie di provvedimenti legislativi ristrutturano completamente l’organizzazione centrale del Ministero della difesa che viene articolato su due aree: una tecnico-amministrativa facente capo ad un unico Segretario generale e una tecnico-operativa con al vertice il Capo di S.M. della difesa. Da quello dell’Aeronautica dipendono direttamente, tra gli altri tre comandi centrali (Difesa aerea, Scuole e Trasporti e Soccorso aereo), due ispettorati (Logistico e Telecomunicazioni e assistenza al volo) e un ufficio (Marinavia). Tra gli avvenimenti che caratterizzano la storia dell’Aeronautica in questi anni, va ricordato quello relativo alla tragedia di Kindu. In una delle tante missioni compiute per conto dell’O.N.U., due C-119 della Sezione Congo della 46ª Aerobrigata decollano da Kamina nel Kasai orientale per Kindu - un nome ben presto tristemente noto in tutto il mondo trasportando due autoblindo destinate al contingente malese che, sempre sotto le insegne delle Nazioni Unite, opera in quella zona. Qui, mentre sono a mensa, i tredici aviatori cinque ufficiali, tra cui un medico, e otto sottufficiali - vengono catturati da una banda di militari dell’Armata nazionale congolese e trascinati nella prigione di Kindu, dove sono barbaramente trucidati. Il senso di umanità di un graduato della locale polizia, che - sfidando la rappresaglia dei militari che avevano ordinato di gettare nel fiume i resti mutilati degli aviatori italiani - provvede alla loro sepoltura, consentirà di lì a qualche mese di riesumarne i corpi, oggi nel Sacrario della 46ª a Pisa. Con gli anni 70 le vicende di cui è protagonista la forza armata diventano ormai cronaca. La linea di volo del Reparto volo Stato Maggiore - ancora sui vecchi CV.440 e DC.6 - viene ammodernata dapprima con i nuovi bimotori della Piaggio, i PD.808, poi con due DC.9 acquistati nel ‘74 dalla Presidenza dei Consiglio dei ministri, quindi con due elicotteri “trasporti speciali” SH-3D, quando il reparto diventerà 31° Stormo. Altri PD.808 vengono assegnati dal ‘72 a Pratica di Mare e impiegati nel controllo delle radioassistenze, dapprima presso il Centro “radiomisure”, poi presso il neocostituito 14° Stormo, che di questo executive utilizzerà anche la versione “GE” guerra elettronica. 78 Nello stesso anno arrivano a Pisa i primi C-130H “Hercules” che consentono di Storia dell’Aeronautica iniziare il rinnovo della linea, ancora tutta sui C-119, che si concluderà alla fine degli anni 70 quando gli ultimi “vagoni volanti” lasceranno il posto all’ultimo velivolo firmato da Gabrielli, il G.222 prodotto dall’Aeritalia. Nel ‘73, mentre gli antisom transitano sull’ “Atlantic”, l’Aeronautica compie il primo mezzo secolo di vita e la sua bandiera viene insignita, nel corso della manifestazione aerea che, a Pratica di Mare, conclude il programma delle celebrazioni, della medaglia d’oro al valore aeronautico. Due anni dopo l’Aeronautica Militare e le altre forze armate sfilano a Bologna in occasione del trentennale della Guerra di liberazione: è stato da poco abolito il divieto, in vigore dall’agosto del ‘48, che formazioni militari e rappresentanze delle associazioni combattentistiche partigiane possano partecipare fianco a fianco a cerimonie ufficiali. Nel ‘78 l’entrata in linea del grosso e affidabile biturbina anfibio HH3F prodotto dall’Agusta consente l’ultima ristrutturazione del SAR i cui mezzi vengono schierati su dieci basi in modo da coprire organiAB 212 camente tutto il territorio nazionale. Tra Viterbo e Pratica di Mare, infine, vengono costituite delle unità di paracadutisti dell’A.M. che, eredi delle tradizioni che il nostro paese e la stessa forza armata possono vantare in questa specialità, daranno ben presto vita alla formazione dei “Falchi blu”. Nel 1979, preludio alla definitiva radiazione del “204”, arriva anche uno degli ultimi nati in casa Agusta, l’AB.212. Nell’arco di quegli anni nella situazione politica nuova che era andata maturando e che, almeno per qualche tempo, avrebbe consentito ai maggiori partiti dell’arco costituzionale di esaminare e affrontare i problemi del paese in un clima di grande collaborazione e solidarietà, due provvedimenti sono rivelatori anche della diversa attenzione con cui la classe politica italiana guarda alle forze armate e alle istanze che, dai vertici e dalla base, muovono da esse: un finanziamento straordinario per l’ammodernamento dei mezzi 79 Storia dell’Aeronautica - che per l’Aeronautica Militare sarà di 1.265 miliardi in dieci anni - e l’approvazione delle “Norme di principio sulla disciplina militare”. Nel 1974 l’Aeronautica pubblica un suo “libro bianco”, il cui scopo è quello di informare e sensibilizzare il mondo politico e l’opinione pubblica sulla difficile situazione in cui versa la forza armata in ordine allo stato dei suoi mezzi e quindi alla sua credibilità. In particolare il “libro” tende a mettere in luce il fatto che dal bilancio annuale - detratte le spese per il personale, circa il 60%, e quelle per il funzionamento degli enti e dei reparti, un altro 25-30% - rimane per ammodernamento una quota intorno al 10-15% assolutamente insufficiente. Adottati al suo interno quei provvedimenti in grado di assicurare delle economie - sviluppati poi in un vero e proprio programma di ristrutturazione che, tra l’altro, prevede di eliminare i Settori aerei e di ridurre i Comandi operativi di regione a due, gli stormi a 20 con 40 gruppi di volo e le basi aeree principali a 20 - quello che si mette in luce è che tutto ciò non è però sufficiente se non interverrà... “l’emanazione di un provvedimento legislativo che preveda uno stanziamento straordinario di fondi, tale da consentire l’acquisizione di un minimo di mezzi per assicurare all’Aeronautica Militare un significato come entità operativa”. Ciò favorirà nel contempo lo sviluppo dell’industria aerospaziale italiana che rischierebbe di andare verso l’esaurimento qualora non fosse alimentata dall’Aeronautica Militare”. Il relativo disegno, trasformato in Legge n. 38 approvata il 16 febbraio 1977, avrebbe consentito di sviluppare programmi come quello per il nuovo radar per la difesa aerea “Argos 10”, per il sistema missilistico “Spada”, per il successore dell’F-104S, per l’addestratore MB.339 e per il “Tornado”, il nuovo velivolo polivalente ad altissime prestazioni nato dal programma trinazionale tra Italia, Germania e Gran Bretagna, che, a partire dal maggio 1983, ha armato successivamente tre Gruppi dell’Aeronautica Militare, il 154° e 155° del 6° Stormo e il 156° del 36°. La legge 11 luglio 1978, più nota come “legge dei principi”, è invece la risposta del Parlamento alle istanze di quanti avevano reclamato dapprima solo migliori condizioni di vita, ma ben presto, nella generale crescita della coscienza civile del paese, una più stretta aderenza al dettato costituzionale; le novità non sono poche, ne di poco conto. Nel ridisegnare i compiti delle forze armate è lo stesso concetto di disciplina, nel separare il militare dal cittadino nel senso di considerare limitativo di alcuni diritti solo il momento del servizio, nel vietare espressamente la schedatura a fini di discriminazione politica, nel prevedere organi di rappresentanza elettivi con funzioni propositive in numerosi campi di interesse, nel garantire di fronte alla Costituzione la funzione istituzionale delle forze armate e la loro estraneità, in quanto tali, alle competizioni politiche, nel fare tutto ciò ed altro la legge fa emergere la figura di un militare nuovo, più consapevole e partecipe 80 dell’organizzazione di cui fa parte, più cosciente del suo impegno verso la Repubbli- Storia dell’Aeronautica ca, più gratificato da una chiarezza di diritti prima sconosciuta. Un militare che rifiuta un ruolo marginale e passivo per assumere quello di protagonista responsabilmente disponibile ad assolvere i propri doveri, ma anche fermamente risoluto a battersi per i propri diritti. Non recepire la “cultura” che sottende a questa legge e non cercare, tutti insieme, di favorirne lo sviluppo e la corretta attuazione è la sfida che viene posta a tutti i livelli per il prossimo futuro: non raccoglierla o peggio, cercare di distorcerla, significa avere esattamente il contrario di tutto ciò. Dal punto di vista operativo, l’entrata in linea dei caccia-bombardieri “Tornado”, se da una parte ha consentito un notevole salto di qualità nelle capacità complessive dell’Aeronautica Militare, dall’altro ha però risolto solo parzialmente il problema di mantenere il livello di forze richiesto. Infatti, dei sistemi d’arma costituenti la linea da combattimento agli inizi degli anni 80, solo gli F.104S, nel ruolo di intercettori ognitempo, hanno avuto la possibilità di mantenere fino ad oggi una soddisfacente validità operativa. Il relativo “up dating”, denominato ASA (Aggiornamento Sistema d’Arma), ha Tornado consentito l’acquisizione di capacità “look-down” e “shootdown” ed è stato gestito dall’Aeritalia (oggi Alenia) nei suoi stabilimenti di Caselle. Nel frattempo un ulteriore passo per il rinnovamento della linea di volo ha fatto scaturire il requisito militare per un velivolo caccia-bombardiere ricognitore leggero, denominato AMX, che è stato sviluppato per l’Aeronautica Militare Italiana e per la Força Aerea Brasileira dall’Aeritalia, dall’Aermacchi e dall’Embrear. Il prototipo monoposto ha compiuto il primo volo il 15 maggio 1984 ed il biposto, destinato alla linea addestrativa, il 14 marzo 1990. Le prime consegne dell’AMX all’Aeronautica Militare, dove viene impiegato in operazioni di appoggio ravvicinato, aerocooperazione, ricognizione tattica, contraviazione ed interdizione, sono iniziate il 30 maggio 1989. Più o meno un anno dopo, esattamente il 26 maggio 1990, anche la linea di volo del 72° Stormo di Frosinone si è arricchita di una nuova macchina, l’elicottero monoturbina NH-500E, che nella misura di 50 esemplari ha sostituito i “leggendari” Agusta 81 Storia dell’Aeronautica Bell AB 47G-2, in servizio per oltre trent’anni. Ma lo sforzo della Forza Armata per darsi una struttura ed una organizzazione credibile e continuamente adeguata ai crescenti impegni che le sono richiesti non finisce qui. Se è infatti indubbio che l’Aeronautica del futuro ha bisogno di uomini sempre più seriamente e profondamente motivati, è anche vero che la sfida posta dall’era in cui viviamo, sia pure in uno scenario internazionale ormai completamente nuovo rispetto agli anni della guerra fredda, impone sempre più programmi lungimiranti di ammodernamento e di potenziamento dei mezzi: dall’Air Command and Control System per la rete Radar della difesa aerea, all’acquisizione di velivoli AWACS per l’avvistamento precoce della minaccia portata alle bassissime quote; dal Patriot, che rinnoverà la linea degli intercettori teleguidati ai programmi Helios e Sicral, che ipotizzano fin d’ora un’Aeronautica Militare in proiezione spaziale. Un discorso a parte merita il programma EFA per il quale proprio la nuova realtà geopolitica ha di recente prodotto problemi inattesi. Caccia monoposto, estremamente maneggevole e con spiccate doti STOL, l’EFA è stato sviluppato a seguito della decisione, presa, nel dicembre del 1983, dai Capi di Stato Maggiore delle aeronautiche di Germania Federale, Gran Bretagna, Italia, Spagna e Francia, che però, nel luglio 1985, si ritirò. Le quote di partecipazione furono allora così ripartite: Germania Federale e Gran Bretagna 33% ciascuna, Italia 21%, Spagna 13%. Ma alla luce del mutato quadro strateAMX in volo gico, i quattro partner hanno stabilito di rivedere i requisiti operativi che sono alla base del progetto. Attualmente il programma, denominato EF 2000, prevede la realizzazione di 607 esemplari (250 per la Gran Bretagna, 140 per la Germania, 130 per l’Italia e 87 per la Spagna). 82 Nonostante i momenti difficili che talvolta hanno addirittura messo in forse il pro- Storia dell’Aeronautica seguimento del programma, si è riusciti a superare tutti gli ostacoli e giungere alla realizzazione ed alla presentazione in volo dei primi due prototipi. La revisione dei requisiti operativi, che consentirà anche una congrua riduzione del costo del velivolo, creerà, però problemi operativi alla forza armata, che dovrà estendere la vita dell’attuale linea caccia intercettori (vecchia ormai di trent’anni) fino alla fine del secolo, con profondi dubbi sulle possibilità di mantenere un’accettabile capacità di interdizione. In tale contesto, non proprio del tutto positivo, l’Aeronautica Militare, cui compete la difesa dello spazio aereo, si è dovuta porre necessariamente l’obiettivo di sfruttare al massimo la sinergie dei sistemi radar, di aerorifornimento, di intercettazione, di appoggio ravvicinato, di ricognizione e per il trasporto tattico, applicando i principi generali di difesa prontamente reattiva e avanzata. Il tutto coordinato da un attendibile ed efficace sistema di comunicazioni, comando e controllo. In questo quadro l’acquisizione delle aerocisterne B.707 T/T e del “Tornado” ECR (Electronic Combat Reconaissance) consentirà di ampliare sempre più la capacità operativa della Forza Armata. Un sistema così concepito deve anche contenere, come in realtà contiene, le predisposizioni atte a trasformarlo in un Sistema allargato di difesa aerospaziale (SADA), per contrastare Eurofighter 2000 la potenziale minaccia di missili nemici, sfruttando i diversi tipi di sensori satellitari od altre innovazioni che la tecnologia possa mettere a disposizione, nello spazio o a terra. La dimostrazione dell’efficacia della preparazione della Forza Armata è stata, poi, confermata in pieno nell’intervento italiano nel “conflitto del golfo”, che, sotto l’egida dell’O.N.U., ha visto la nostra aviazione operare all’altezza delle sue migliori tradizioni, al fianco delle più prestigiose forze aeree del mondo. In un’ottica globale, che tenga conto di tutte le incertezze legate al nuovo assetto storico-politico dell’Europa e del Mediterraneo, è opportuno sottolineare, infine, 83 Storia dell’Aeronautica che l’ammodernamento dei mezzi per mantenere adeguati livelli di sicurezza anche nel futuro prossimo venturo, oltre che necessario, richiederà investimenti di rilievo, che l’Italia ha programmato di utilizzare non per mandare un messaggio offensivo, ma per far conoscere senza equivoci la volontà di veder difesa la propria sovranità e garantito il proprio diritto per un civile, ordinato e democratico progresso. Ed anche tra mille difficoltà, è proprio nella direzione di questo rinnovamento che la forza armata di oggi, nel contesto del nuovo “modello di difesa” e compatibilmente con le risorse nazionali, intende muoversi ed agire: per conservare anche negli anni 2000 la capacità di mantenere liberi e sicuri i nostri cieli. 84 Storia dell’Aeronautica Luigi Romersa La storia meravigliosa degli Aviatori Italiani tratta da ”Il Giornale” per gentile concessione dell’Autore agli Allievi della Divisione Formazione Sottufficiali e Truppa S. S. A. M. di Caserta 85 Storia dell’Aeronautica 86 Storia dell’Aeronautica Silenzio, si vola I l 28 marzo scorso l’Aeronautica Militare Italiana ha compiuto settantacinque anni di vita come Arma indipendente. In quella ricorrenza, rievocata con manifestazioni aviatorie d’ogni genere, compresa una ”Giornata dell’Ala” che ha richiamato all’Aeroporto di Pratica di Mare, intitolato all’asso Mario De Bernardi, oltre 600.000 persone, scrissi che, più che celebrarne la nascita, intendevo mettere insieme una serie di ricordi e chiamare il tutto ”Storia meravigliosa degli aviatori italiani”. Una storia che per la verità debuttò prima di quel marzo 1923, esattamente nel maggio 1908, con un avvenimento che i giornali dell’epoca definirono straordinario. Nel cielo di Roma, anzi, a metà strada fra il selciato della Piazza d’Armi, più o meno l’attuale quartiere Mazzini, e il cielo vero e proprio, fece la sua timida e stentata comparsa una ”macchina volante”, la quale, fra lo stuIl manifesto che annunciava il volo di Délagrange pore generale, dopo numerosi tentativi, fra vibrazioni, scricchiolii e sussulti, si sollevò a poco più di un paio di metri da terra. L’eccezionalità dello spettacolo venne annunciata con enormi manifesti gialli che, per la prima volta, non riguardavano balli in costume, opere liriche al Teatro Costanzi, concorsi ippici a Tor di Quinto o gare alla Capannelle e nemmeno sagre popolari in Trastevere. Dicevano soltanto: ”Délagrange volerà!”. Una specie di annuncio in codice di una faccenda che, specie in una città come Roma, dove angeli e demoni vivevano a contatto di gomito, e soltanto a loro ed agli uccelli era consentito volare, sapeva di magia. L’Urbe di quell’epoca era più o meno la stessa che mezzo secolo prima aveva descritto Stendhal: vasta, cioè, ed angusta insieme, un pò pigra ed oziosa, con una gran cornice di orti e di vigne. Alla popolazione i manifesti dicevano poco o nulla, in quanto per la maggioranza il signor Délagrange era un illustre sconosciuto. Chi ne aveva sentito parlare o letto, invece, lo considerava un matto che s’era fatto banditore di stregonerie con le quali pretendeva di carpire agli uccelli il segreto del volo. A conti fatti, però, data la stretta parentela che esisteva fra maghi ed aviatori, l’idea di vedere da vicino un uomo che saliva nel cielo di Roma, 87 Storia dell’Aeronautica dominio incontrastato di cupole, campanili e rondoni, indusse molti a cedere alla curiosità e ad accorrere al Campo di Marte, convinti di assistere ad un avvenimento che s’annunciava miracoloso. È vero che in America, a Kitty Hawk, nella Carolina del Nord, il 17 dicembre del 1903, con un ”mezzo più pesante dell’aria” i fratelli Orville e Wilbur Wright, specialisti in riparazioni di biciclette, erano riusciti a dare uno spettacolo di ”levitazione” della durata di 12 secondi, seguendo una traiettoria orizzontale, che fu il primo vero volo nella storia del mondo, ma l’America restava sempre il paese delle ”americanate” e fra gli Stati Uniti e l’Europa c’era di mezzo l’Oceano, che contribuiva a dare ad ogni fatto, anche il più serio, i toni di una bellissima favola. Il grande Leon Délagrange arrivò a Roma con la scorta di un certo Clovis Thouvenot, ingegnere presso la fabbrica di aeroplani Voisin, il quale aveva l’incarico, con pinze, chiodi e filo di ferro, di incerottare l’aereo ogni volta che gli succedeva, e accadeva spesso, un incidente. L’attesa, in città, diventò febbrile. Finalmente, dopo numerosi rinvii a causa del cattivo tempo, la mattina del 24 agosto, domenica, al primo manifesto ne seguì un secondo: “Oggi si vola!”. Una folla mai vista si riversò in Piazza d’Armi per assistere al rito dell’aria celebrato dall’aviatore con vistosa solennità. Il Campo di Marte era diventato un parco di divertimenti, in cui soprattutto i venditori di lupini facevano affari d’oro. Pioveva fitto e sottile, ma nonostante la pioggia le signore indossavano abiti lunghi, stivaletti alla caviglia e cappelli inghirlandati di piume e di veli. In mezzo al campo, vicino alla sua macchina tutta fili e tralicci, con alucce trasparenti come ali di mosca, Leon Délagrange si accinge a volare recitava la parte di conquistatore del cielo. Quando s’accinse a decollare nella piazza si fece un silenzio di chiesa. I presenti alzarono istintivamente gli occhi verso il cielo per afferrare i particolari dell’imminente prodigio, ma Délagrange era sempre inchiodato a terra e non riusciva a staccarsi di un palmo dal prato. La tensione del pubblico si ruppe d’incanto. Al gran brusio seguì una lunga salva di 88 fischi, mescolati a pittoresche invettive all’indirizzo dei vivi e dei morti dell’aviatore Storia dell’Aeronautica francese. Al primo tentativo, clamorosamente fallito, seguì un secondo e, come Dio volle, il 30 agosto, alla presenza del Re, il pilota riuscì a compiere sette volte il giro della piazza a tre metri dal suolo. Volò esattamente per tredici minuti e venticinque secondi, durante i quali percorse 12 chilometri e 750 metri. Fu il primato europeo di distanza per aeroplani! Dopo i fischi della settimana prima i romani, generosi e sensibili, salutarono Délagrange con uno scroscio di applausi. A Roma si susseguivano giornate che, in fatto di esibizioni aviatorie, si potrebbero chiamare ”della fantasia” e la città, con i suoi crepuscoli estivi, sfolgoranti di porpora, contribuiva a dare ad ogni avvenimento un tocco di magia e di sogno. Anche se molti si ostinavano a considerare l’accoppiamento uomo - aeroplano impossibile e contro natura, l’Urbe ebbe subito un Club di patiti dell’aria di cui facevano parte i personaggi più fosforescenti della nobiltà romana: i principi Scipione Borghese, Filippo Doria, Ludovico Potenziani e Giovanni Torlonia, il conte Enrico Sanmartino, l’ingegner Oscar Sinigaglia e l’onorevole Sidney Sonnino, i quali, per finanziare il sodalizio, versarono a fondo perduto la somma di quattromila lire. Centocelle fu il primo campo d’aviazione preso in affitto dai pionieri romani, alla testa dei quali figurava il maggiore Mario Moris, capo della sezione aeronautica del Genio. A divulgare le ansie e le speranze dei neofiti del volo provvedeva la rivista ”L’Aviatore Italiano”, presente nelle edicole a 20 centesimi la copia. Per dissipare i dubbi sull’aeroplano e cancellare il ricordo delle poco fortunate esibizioni di Délagrange, venne ingaggiato Wilbur Wright, il quale arrivò nella Capitale con la sua straordinaria macchina e per dare lezioni di pilotaggio a due allievi designati d’accordo con le autorità militari: l’ufficiale di Marina Mario Caldera ed il tenente del Genio Umberto Savoia, i quali divennero i primi due piloti italiani. Wright entusiasmò i romani e difatti, per la sua prima esibizione a Centocelle, furono fatti preparativi grandiosi. La gente cominciò ad affluire all’aerodromo all’alba di quel 14 aprile, con tutti i mezzi, auto, carrozze, carri agricoli e biciclette. Fu una specie di scampagnata fuori porta, con l’aria che profumava di vino e di porchetta arrostita. L’aviatore americano, con quel suo profilo di uccello, in maniche di camicia e bretelle, si dava da fare nell’hangar, fino a che non si decise a 89 Umberto Savoia Storia dell’Aeronautica dare il via al grande evento. Al cenno di una bandiera, l’aereo scivolò sul binario e balzò in aria, prendendo via via quota in direzione della campagna. Sullo sfondo delle nubi dorate, Foto autografata da Wilbur Wright durante il suo soggiorno romano pareva un ornamento del cielo. La folla lo seguiva entusiasta. Fu un trionfo! Durante il soggiorno romano del pilota di Dayton, volarono numerosi personaggi italiani: l’onorevole Sidney Sonnino, i principi Borghese e Doria e la contessa Macchi di Cellere, che fu la prima donna passeggero su un velivolo azionato a motore. L’aereo, ormai, faceva proseliti dovunque ed i nomi degli aviatori erano sulla bocca di tutti. Il circuito aereo di Brescia portò l’aeroplano sul piano internazionale. Al raduno si iscrissero i più famosi piloti del mondo; quattordici concorrenti, fra i quali facevano spicco il coraggioso Cobianchi, lo sfortunato e tenace Faccioli, ideatore di un triplano che volò nel 1909, Mario Calderara, Cagna, Anzani, il prestigioso Glenn Curtis, Blériot, trasvolatore della Manica, Leblanc ed il tenente Leonino da Zara. Per l’occasione, le Poste coniarono un timbro commemorativo, che fu il primo del genere in Italia. Le gare iniziarono il giorno 8 settembre sulla piana di Montichiari, che era un campo con alberi sparsi e molta gramigna. Gli aeroplani, parcheggiati sotto gli alberi, con i motori che scaldavano come stufe, parevano grandi mosconi. Per vedere i piloti e gli aerei, inaspettato, era arrivato a Brescia 90 anche il Re. Alla gara era presente, in paglietta, cravatta a farfalla e canna da passeg- Storia dell’Aeronautica gio, Gabriele D’Annunzio, che fin da allora si sentiva votato al volo. Il giorno 11, a bordo del velivolo di Glenn Curtis, il poeta ebbe anzi il battesimo dell’aria, durato 8 minuti. Fra le donne, volò l’indiavolata attrice Dina Galli. Alla manifestazione di Brescia seguì il circuito aereo di Milano, durante il quale venne inaugurato il campo di volo di Taliedo. Era il 1910. La gara, dotata di consistenti premi, prevedeva prove d’altezza, velocità, distanza ed una traversata delle Alpi, considerate un ostacolo carico di mistero ed in grado di mettere soggezione come l’oceano. Allo scavalcamento delle Alpi non si iscrisse alcun italiano; chi provò, accostatosi ai monti, preso da terrore, invertì la rotta. Il 23 settembre 1910, partì lo svizzero Geo Chavez. Salì fin dentro le nubi e ricomparve alto su Domodossola, ma in atterraggio precipitò da 25 metri e si fracassò insieme con la sua fragile macchina. Morì in ospedale, con gli occhi rimasti aperti, affamati di vita e di cielo. D’Annunzio, per il fatto di aver volato con Curtiss, al Lirico di Milano, dopo aver incitato gli italiani a prendere dimestichezza con il volo, disse: ”Con l’aereo nasce la proprietà verticale. La frontiera invade le nuvole!”. A Roma, a Centocelle, l’attività diventava sempre più intensa; fra gli spettatori più assidui c’erano il Re e Margherita di Savoia, primi, come diceva la stampa, a valutare l’importanza dell’Aeronautica e a favorirne lo sviluppo in Italia. Il parco macchine, finito in disarmo il vecchio velivolo di Wright, comprendeva un Farman comperato in Francia, un Sommer, due altri Farman costruiti in Italia e cinque Blériot. I pochi inventori italiani lavoravano in proprio dentro officine che erano stambugi e costruivano aerei alla maniera artigiana, con pochi calcoli tecnici e molto estro. Il nome di maggiore importanza fu senza dubbio quello dell’ingegner Giovanni Caproni, che, appena laureato al Politecnico di Monaco di Baviera, si dedicò alla creazione di macchine volanti con spirito missionario. Il primo viaggio aereo fu tentato, in Italia, dal tenente Di Savoia il 30 giugno 1910, seguendo l’itinerario Roma - Lago di Bracciano, dove il pilota, precisava la relazione del volo, ”scese senza denunciare un filo di stanchezza”. Venti giorni dopo però, il cielo volle una vittima, il tenente Vivaldi Pasqua, precipitato per noie al motore, nei pressi della ferrovia Roma - Civitavecchia. Poco dopo Saglietti, un altro della pattuglia degli ”Assi”, raggiungendo gli 800 metri di quota, conquistò il record italiano di altezza, toccando, si disse, una zona di cielo inesplorato. A poco a poco, Roma fece l’abitudine agli aerei ed ai piloti, diventati di casa, come le rondini, fra i cornicioni della Capitale. Un giorno, verso le cinque e mezzo del pomeriggio del 26 settembre 1910, con il proposito di dare spettacolo, decollò da Centocelle il tenente Gavotti. Sorvolò la 91 Storia dell’Aeronautica cupola di San Pietro, il Quirinale, rasentò la bandiera del Palazzo Reale e indugiò sulla Stazione Termini. Il passaggio del velivolo bloccò il traffico e la folla entusiasta si riversò in strada. L’indomani il pilota ricevette i complimenti dei colleghi e del proprio superiore, insieme con una punizione di cinque giorni d’arresti, così motivata: ”Al suo dodicesimo giorno di scuola, compiva sulla città un meraviglioso volo in aeroplano all’altezza di circa mille metri .....”. Una punizione che era un encomio ed un brevetto dato in anticipo ..... 92 Storia dell’Aeronautica Si collauda l’arma del futuro N el settembre del 1911, scoppiata la guerra con la Turchia, le operazioni in Libia misero presto in evidenza l’importanza bellica dell’Aviazione. All’inizio delle ostilità le imprese degli aviatori destavano, in genere, curiosità nelle masse, ma diffidenza negli alti comandi militari. A quell’epoca non esistevano ”aerovie”, radiofari e neppure collegamenti radiofonici; i piloti andavano a naso, orientandosi sui campanili, sulle cupole, sui fiumi o sulle strade ferrate. In occasione, per esempio, del raid Bologna - Venezia - Bologna, lungo il percorso furono organizzati dei punti di segnalazione a mezzo di fumate e a Ferrara il compito di accendere falò orientativi toccò ad un ragazzo dalla testa piena di fantasie che si chiamava Italo Balbo. Il raid fu la prova del fuoco per la guerra; sull’abilità dei piloti nulla da dire, soltanto mancavano le macchine e le poche esistenti tenenvano il cielo a fatica. I bilanci militari erano magri, ma il Paese, che nel suo complesso aveva più sensibilità dei governanti, reclamava un’Aviazione forte, aviatori ed aeroplani. In quella circostanza, quale portavoce dell’opinione pubblica, il presidente dell’Aeroclub di Padova, il pilota Leonino da Zara lanciò la proposta di una sottoscrizione nazionale per dare “Ali all’Italia”. Il primo a sottoscrivere fu il Re, che diede centomila lire; seguirono la Regina madre, aviatrice ad honorem, il Ministero degli Esteri, la Guardia di Finanza, le Ferrovie, diversi Comuni eccetera. Il 28 settembre 1911, con un dispaccio riservatissimo, lo S. M. ordinò l’approntamento di un flottiglia di aeroplani da mettere a disposizione del “Corpo d’Armata mobilitato per l’oltremare”. La situazione di Tripoli era motivo di discussione da oltre un anno, tanto che la città africana era diventata oggetto di una canzone popolare che rimase fra le più spontanee e patetiche dei tempi di guerra. La mobilitazione della “flottiglia aerea” non mutò però la mentalità degli Stati Maggiori, i quali erano sempre in dubbio se impiegare i velivoli che fino ad allora erano stati usati soltanto per manifestazioni sportive. L’intervento del T. Col. Cordero di Montezemolo mise a tacere ogni discussione e l’Esercito assegnò cinque piloti alla flottiglia mobilitata: Piazza, quale comandante, Riccardo Moizo, Leopoldo De Rada, Ugo De Rossi e il sottotenente di complemento Giulio Gavotti. Altri sei piloti vennero aggregati al gruppo, come riserve. Le macchine erano in tutto nove, due Blériot, tre Nieuport, due Farman e due Etrich. La partenza degli aviatori da Napoli fu salutata, al porto, dal lancio di fiori e dallo sventolio di numerose bandiere. Tripoli era stata conquistata dai marinai al comando del Capitano di vascello Umberto Cagni, il cinque ottobre, mentre dieci giorni dopo, arrivarono nel porto della città libica i tre piroscafi con a bordo gli aviatori e gli aeroplani. La notizia dell’occupazione di Tripoli e dell’arrivo dei primi contingenti 93 Storia dell’Aeronautica dei piloti, provocò, in Italia, l’effetto di una scarica elettrica; lo stesso successe a bordo del piroscafo “Bisagno” che riportò a “casa”, in Libia, coloro che s’erano rifugiati a Malta, quando, prima di attraccare, dalla nave carica di profughi fu vista sventolare sulla torre del forte tripolino e su una duna della spiaggia di Gargaresch una bandiera tricolore. Il primo campo di volo fu allestito a Tripoli, nei pressi del cimitero degli israeliti, una spianata con poche palme, chiamata dagli ebrei “il letto dell’agonia”. Il sito era calvo e bollente; oltre ai velivoli, erano stati portati in Libia alcuni aerostati e due dirigibili, a bordo dei quali volavano, come osservatori, due capitani di S.M., Pietro Maravigna ed Ettore Bastico. La rettifica del fronte a Sciara Sciat, in seguito a un’improvvisa offensiva dei Turchi, provocò il panico in città e il diffondersi di voci, una più allarmanti dell’altra, sulle intenzioni del nemico. A giudizio del Generale Caneva, i soli che potevano dare informazioni precise erano gli aviatori, ma da Roma, dove si riteneva che i voli in Africa fossero pericolosi durante il giorno a causa dei “vuoti d’aria”, gli fu consigliato di essere cauto e di autorizzare a volare soltanto prima dell’alba e dopo il tramonto. Nè Caneva nè i piloti fecero, però, caso all’avvertimento del ministro che, digiuno di problemi aeronautici, s’era limitato a ripetere, come un altoparlante, un consiglio avuto da generali francesi.Il 23 ottobre, presenti gli addetti militari stranieri accreditati presso il comando del generale Caneva, il capitano Piazza partì per il suo primo volo di guerra. La ricognizione, durata 55 minuti, fornì notizie preziose alle quali se ne aggiunsero altre, altrettanto importanti il giorno dopo, in seguito ad un raid di Moizo sugli accampamenti nemici di Azizia, situati ad un centinaio di chilometri da Tripoli. Da quel giorno, i piloti volarono ininterrottamente per tutto il periodo della campagna. La comparsa degli aerei provocò sbigottimento fra i beduini, che però, sotto la guida dei Turchi, si ripresero, organizzarono la difesa contraerea e passarono all’attacco il giorno 27 ottobre. La battaglia durò violenta dall’alba fino a mezzogiorno e si concluse con la totale disfatta del nemico. In appoggio al nucleo aviatori venne mobilitata la squadriglia di Bengasi, che partì da Napoli l’8 novembre. Anche i piloti civili domandarono di essere inviati in Libia. Su iniziativa della rivista “La Stampa Sportiva” di Torino, si formarono due altre flottiglie, una destinata a Derna, l’altra a Tobruk. La guerra fece sentire in Patria la necessità di creare un forte nucleo di aviatori senza ricorrere, come avveniva in passato, alle scuole estere. Fu così creato il primo corso di pilotaggio con 21 allievi suddivisi fra le scuole militari di Aviano, Cascina Malpensa e Pordenone e quelle civili di Gallarate e di Pisa. La guerra nel deserto era tutt’altro che facile; la capacità dei beduini di mimetizzarsi, era sorprendente. Dopo numerosi voli, sia Moizo sia Piazza decisero di documentare con fotografie le loro preziose ricognizioni, ma il fatto che fece più scalpore fu l’attacco dall’alto del campo turco, compiuto dal tenente Gavotti con bombe poco più grandi di 94 un’arancia, del peso di circa due chilogrammi. Il pilota, giunto sull’oasi di Ain Zara, Storia dell’Aeronautica lasciò cadere in mezzo all’accampamento nemico quattro bombette “Cipelli” che misero lo scompiglio fra i soldati e gli armenti. Fu il primo bombardamento aereo e, come tale, se ne occuparono largamente la stampa interna e quella estera. D’Annunzio celebrò l’avvenimento paragonando gli aviatori a “semidei che avevano rubato al cielo il sacro fuoco”. Preoccupato per le reazioni suscitate in campo internazionale, Giolitti, presidente del Consiglio, telegrafò al generale Caneva per chiedere spiegazioni, dato che la Turchia insisteva a dire che ad Ain Zara era stato colpito un ospedale. La risposta di Caneva fu immediata, niente ospedale, perché inesistente, ma solo I primi bombardamenti in Libia celebrati sulla copertitruppe e apprestamenti militari. La strana della Domenica del Corriere da per azioni dall’aria era ormai aperta. Al bombardamento di Gavotti ne seguì un secondo, di Moizo, con ordigni di nuovo tipo, costituiti da un cilindro metallico con un congegno ad elica che ne garantiva la caduta verticale. Ad un tratto si sparse la notizia che i Turchi avrebbero inviato in Africa alcuni aeroplani; i nostri aviatori se lo augurarono, ma in realtà di velivoli nemici in Libia non si vide nemmeno l’ombra. Ormai, i dubbi e lo scetticismo nei confronti dei piloti erano finiti. Bombardamento e ricognizione erano già specialità dell’Aeronautica Militare; mancava la caccia, che era la maniera di combattere più congeniale al carattere ed all’ardimento degli italiani. Le novità, comunque, non erano finite. Il 4 marzo del 1912, approfittando di una notte di luna piena, Piazza e Gavotti fecero infatti una prova di volo notturno della durata di mezz’ora. Per orientarsi, i due aviatori tennero d’occhio i lumi della città e le sue case che spiccavano bianche come di giorno. L’oasi era una macchia nera e il deserto pareva rappezzato d’ombre. Il 25 agosto, l’aviazione ebbe il suo primo caduto, il Sottotenente di Cavalleria Piero Manzini, il cui aereo, per via di una folata di vento, sbandò e precipitò in mare quasi davanti al campo. Anche nel settore cirenaico, gli aviatori fecero prodigi. Il Times di Londra, che aveva mandato a Tripoli un suo corrispondente, dopo i successi di Moizo, di Gavotti e di Piazza, scrisse: ”Nessuno può aver osservato l’opera compiuta dagli aeroplani in Libia senza 95 Storia dell’Aeronautica sentirsi profondamente impressionato per il coraggio e l’abilità dei piloti e senza persuadersi del valore pratico dell’aviazione in tempo di guerra ... I voli compiuti dal Capitano Moizo e dal Tenente Gavotti fino a Garian e a Tarhuna rimarranno memorabili ...”. Il Central News, gli fece eco: “... Quello che io vidi nel deserto di Tripoli mi ha persuaso che bisogna creare una grande flotta inglese ...”. Entrata in lizza con notevole ritardo rispetto alla Francia ed agli Stati Uniti che detenevano già numerosi primati ed avevano un’industria aeronautica di prim’ordine, l’Italia riuscì a guadagnare il tempo perduto e ad imporsi con i suoi uomini all’attenzione del mondo. Era appena finita la campagna di Libia e non era ancora ultimata la smobilitazione dei reparti, che già s’annunciava un’altra guerra su altri fronti, in nuovi cieli. Il romanzo degli aviatori italiani s’arricchiva di un nuovo capitolo. Nonostante, comunque, le prove fornite durante la campagna africana, e gli avvertimenti profetici del Maggiore Giulio Dohuet, il quale sosteneva “che il nuovo mezzo, che andava ogni giorno perfezionandosi, doveva certamente apportare una grande influenza sulla guerra avvenire”, quando scoppiò il conflitto mondiale, fra tutti i Paesi belligeranti, l’Italia era quella che possedeva il minor numero d’aeroplani. In tutto, 14 squadriglie, con 90 piloti, 13 sezioni aerostatiche, 3 dirigibili e 3 idrovolanti. Gli apparecchi erano tutti di fabbricazione straniera, Newport, Farman, Blériot, e Voisin; macchine vecchie e stagionate, paragonabili a certe donne d’età che, ben restaurate, viste da lontano, riescono ancora ad ingannare. Nessuno dei nostri velivoli era armato; lo erano invece i piloti, i quali, semmai si fossero scontrati in aria con il nemico, non avrebbero potuto far altro che sparargli addosso con la pistola, il moschetto e il grosso revolver Mauser che avevano in dotazione dentro una custodia di legno. Nelle norme del “servizio di guerra” la Bibbia dell’arte militare alla quale si rifacevano di continuo gli alti comandi, era sancito che gli aerei, insieme con la Cavalleria ed i Ciclisti, dovevano provvedere ad esplorare il terreno davanti alle truppe combattenti e questo indicava perché gli aviatori erano stati messi in sottordine ai “cavalieri” ed ai bersaglieri in bicicletta. Il 23 maggio del 1915, l’industria aeronautica nazionale disponeva di un capitale di 300.000 lire ed impianti per circa mezzo milione; una miseria, rispetto al patrimonio delle altre nazioni belligeranti che puntavano invece sull’aviazione come mezzo risolutivo della guerra. Soldi elargiti con la lesina, miseria di materiale e mentalità dei comandi erano le tre tare che impedivano all’aviazione italiana di quegli anni di proseguire con successo sulla strada indicata dagli aviatori che si erano battuti in Libia. Contro l’atteggiamento di vecchi generali, i piloti, ansiosi di emulare i colleghi francesi, protestavano come potevano. I loro promemoria finivano sistematicamente nei cestini; le loro richieste erano trombe che suonavano nel deserto. 96 Storia dell’Aeronautica Gli eroi celesti della Grande Guerra S oltanto sotto la pioggia delle granate aeree cadute su Udine, Brescia, Verona, Venezia e Milano, il Comando supremo si decise a tenere conto dell’esistenza dei “soldati” dell’aria ed in modo speciale dei Baracca, dei Ruffo di Calabria, dei Salomone, dei Piccio, dei Dell’Oro, dei D’Annunzio, degli Scaroni, degli Ancillotto, dei Casagrande, eccetera. Sebbene impiegati a lungo come osservatori d’alta quota per la difesa del cielo di Udine, sede dell’Alto Comando Militare, in fatto di tecniche e di audacia, i nostri piloti non avevano nulla da invidiare ai migliori assi francesi, austriaci e tedeschi, che la facevano da padroni dappertutto. La conferma la diede Pier Ruggero Piccio, allorché giunsero dalla Francia un capitano ed un tenente per istruire i nostri sull’impiego dei razzi anti “draken”. La storia dei “palloni frenati” che, simili a mostruose lumache, gli Austriaci adoperavano per il controllo dei tiri d’artiglieria, era una faccenda che i piloti italiani non riuscivano a digerire. Più volte si erano alzati per abbatterli, ma i loro proiettili entravano in quella specie di ventre di Buddha del draken senza lasciare ombra di ferita. Ci voleva un’arma nuova che arrivò dalla Francia, dentro casse lunghe e strette, sulle quali erano stampigliate teste di morto. Alla domanda di Pier Ruggero Piccio se si trattasse di comuni razzi, l’ufficiale francese negò con una scrollata di testa ed in tono piuttosto seccato. L’indomani fu fissata una lezione pratica alla quale, però, stranamente mancò Piccio. Ad un tratto, si sentì il rumore di un velivolo in decollo; tutti credevano che si trattasse del pilota francese venuto apposta per un attacco dimostrativo. L’aereo puntò il draken e fece fuoco; dai fianchi della fusoliera partirono quattro saette ed il pallone si spappolò in fiamme. L’istruttore francese era gongolante; magnificava l’eleganza della guida ed il sangue freddo del pilota, ma non fu poca la sua meraviglia quando s’accorse che l’attacco era stato sferrato dal capitano Piccio. Passato qualche tempo, un altro aviatore diventò famoso per le sue cacce ai draken, Giannino Ancillotto, il quale, poco più che un ragazzo e per i pochi peli di barba, dai veneti veniva chiamato Nane. La crisi dei primi momenti era ormai superata; le fabbriche producevano velivoli di qualità e le scuole inviavano al fronte piloti freschi, preparati con scrupolo e tecnica 97 Storia dell’Aeronautica raffinata. Presso le nostre scuole furono istruiti anche 450 piloti americani di cui 40 rimasero in Italia per creare squadriglie di bombardamento, mentre gli altri vennero mandati sul fronte francese. Nonostante la ripresa, improvvisa e sconcertante scoppiò però la crisi di Caporetto. Furono giornate buie e viscide. I soldati, che di solito hanno mille cose da dire, non dicevano più nulla. Stavano rintanati nelle trincee, rabbrividendo per il freddo, mentre sulle loro teste il cannone tuonava dall’alba a notte inoltrata. Ogni giorno, come una beffa, in direzione di Rustignè si alzava un pallone austriaco il quale faceva da osservatore alle batterie nemiche che, da Oderzo a San Donà di Piave e Motta di Livenza, sparavano alle forze superstiti attestate nei fossi, trasformati in trincea. La terra tremava dappertutto. Era il terremoto organizzato dall’uomo. I Comandi chiedevano che il draken venisse abbattuto, ma nonostante gli interventi, sembrava invulnerabile. Quel vescicone giallognolo riempiva di paura e terrorizzava i soldati come un fantasma. Qualcuno suggerì di farlo abbattere da Giannino Ancillotto, che s’era guadagnato ormai la fama di asso, poiché era stato lui che aveva scovato il sito da dove tirava la “Gran Berta”, Ancillotto dopo l’abbattimento del draken di cui si notano ancora i lembi di pelle appesi al Nieuport con proiettili che sembravano meteoriti. L’attacco fu un capolavoro d’ardimento. Il draken dondolava in aria, protetto da tre caccia austriaci. Per sfuggire ai “guardiani” e sfruttare la sorpresa, Nane decise di attaccare a volo quasi radente e passare in mezzo alle fucilate. Quando fu nei pressi del pallone, l’ae98 rostato gli sembrò ancora più grande. Storia dell’Aeronautica Nel timore che i razzi potessero fallire, Giannino Ancillotto a venti metri di distanza fece partire le saette, ma ne seguì la scia con l’aereo, penetrando nel ventre del draken che era diventato un rogo e crepitava come un fuoco di fascine. E il pilota? Il fatto miracoloso fu che il piccolo, fragile Nieuport uscì dal braciere con le ali sconquassate ed avvolte da brandelli del pallone. Giannino aveva le palpebre strinate, i capelli inceneriti e le mani piene di ustioni. I cacciatori nemici gli furono subito addosso; lui provò il motore. Funzionava a singhiozzo. Cabrò alla disperata per guadagnare quota, poi puntò il muso verso terra e, come Dio volle, riuscì a raggiungere il campo. Il pezzo di pelle più grande del draken di Rustignè fu regalato a Emanuele Filiberto, duca d’Aosta, il quale se ne fece un impermeabile che i soldati battezzarono “modello Ancillotto”. Nane, comunque, ebbe un altro merito: applicò al suo velivolo due potenti riflettori e, con successo, nel cielo di Treviso, abbattendo in una sola volta due apparecchi nemici, cominciò la caccia notturna. Ormai, sull’efficacia dei duelli aerei anche gli ultimi dubbi erano spariti. Un altro che premeva per accordare maggior credito all’aviazione, era Gabriele D’Annunzio, il quale tempestava Cadorna, che gli era amico, di promemoria per attacchi a Vienna ed alla piazzaforte di Pola, dato che ormai erano entrati in linea i “Caproni” da 450 cavalli che fino alla fine delle ostilità furono i migliori bombardieri della guerra. Gli atti di valore dell’Aeronautica si ripetevano uno dietro l’altro e di giorno in giorno saltava fuori un nuovo eroe. Il 13 ottobre 1916 fu la giornata del capitano Ercole Ercole, comandante di una formazione di Caproni, decollati per attaccare Durazzo. L’apparecchio di Ercole, colpito da un caccia nemico che uccise due dei tre uomini dell’equipaggio, fu costretto ad atterrare in territorio avverso ed Ercole, con eccezionale bravura, con i due morti a bordo, riuscì a fargli posare le ruote in un prato. L’avventura del pilota si tramutò presto in traL’impresa del Cap. Ercole illustrata gedia; seppellì i due caduti, si difese da un enerda Beltrame gumeno che voleva ammazzarlo e, sebbene con un braccio lacerato, riuscì a sopravvivere ed a fatica raggiunse le linee italiane. Si 99 Storia dell’Aeronautica guadagnò la medaglia d’oro. Nel settore della caccia, era in ascesa il mito di Baracca e di Ruffo, mentre presso l’aviazione di Marina, circondate da gran segreto, erano in preparazione le imprese di Eugenio Casagrande e dei “missionari del Piave”. D’Annunzio insisteva di continuo con Cadorna per realizzare ciò che era stato sempre il suo sogno: l’incursione su Vienna. La notizia che a Lubiana s’era insediato il Comando Supremo austriaco e che in città aveva il suo Quartier Generale il principe ereditario, Arciduca Carlo Giuseppe, suggerì ai piloti di base alla Comina di compiere un’incursione di sorpresa sul centro nemico. A causa della nebbia un primo tentativo andò a vuoto, ma la notte successiva l’azione venne ripetuta con sei Caproni, contro i quali s’avventarono i Fokker austriaci, veloci e bene armati. In coda al gruppo dei bombardieri italiani volava il capitano Oreste Salomone, preso di mira da due caccia nemici spuntati al di sopra delle nubi; cominciò la musica delle mitragliatrici. Le prime raffiche furono micidiali: Salomone venne ferito alla testa, il colonnello Il Cap. Oreste Salomone, prima Medaglia d’Oro al Valor Militare dell’Aeronautica 100 Barbieri fu colpito a morte, mentre il capitano Bailo tentò di far fuoco contro gli aerei avversari, ma non fece in tempo a tirare neppure un colpo, falciato mortalmente Storia dell’Aeronautica si accasciò di lato, per far scudo al pilota. Salomone stringeva i comandi con gli occhi annebbiati dal sangue, a malapena riusciva a vedere l’altimetro. I Fokker per sei volte attaccarono il Caproni che, nonostante le condizioni disperate del pilota, continuava a tenere il cielo. Gli austriaci svolazzavano intorno al bombardiere ed insistevano perché si arrendesse, ma Salomone non si diede per vinto. Con un’ultima miracolosa planata, il Caproni riuscì a toccare terra. A commento del fatto, che procurò all’aviazione la prima medaglia d’oro al valor militare, Gabriele D’Annunzio disse che Oreste Salomone, con “un fiato di forza che gli avevano dato gli angeli del cielo s’era riportato a casa l’ala e la soma”. Cominciarono anche i successi di Francesco Baracca. Il suo primo aereo austriaco abbattuto venne esposto ad Udine e gli udinesi, per vederlo, pagarono il biglietto d’ingresso, il cui costo di una lira, andò a beneficio della Croce Rossa. Il combattimento avvenne nel cielo di Palmanova e vi partecipò l’intera 7ª squadriglia da caccia, che, dopo qualche mese, mutò il numero distintivo in 91ª e venne battezzata, per i suoi successi, la “squadriglia degli assi”. Il velivolo abbattuto da Baracca era un Aviatik che, colpito da una scarica di trenta colpi, precipitò a picco. Il pilota era un cadetto viennese di ventiquattro anni, con una faccia da bambino smarrito, ferito alla testa. “Ho parlato a lungo con lui - raccontò Baracca in una lettera ai familiari - e gli ho stretto la mano facendogli coraggio. Ne aveva bisogno, era molto avvilito. A bordo c’era l’osservatore suo amico, in fin di vita”. Per vedere l’aereo accorsero colonnelli e generali. Stentavano a convincersi che il velivolo Francesco Baracca austriaco fosse stato tirato giù da un altro aeroplano e non da un cannone. La vittoria di Baracca provocò un miracolo. Alla prima ne seguirono diverse altre e la sua tattica fu battezzata dagli aviatori “la tecnica dei trenta colpi”. In oltre cento e più combattimenti, l’asso del Cavallino Rampante conquistò 101 Lo Spad di Francesco Baracca Storia dell’Aeronautica 34 vittorie che costituirono il record della guerra. Fra i piloti, il senso della cavalleria era sviluppato al punto che spesso i cacciatori risparmiavano l’avversario quando si accorgevano che era in difficoltà per guasti meccanici o perché Un gruppo di aviatori durante la Prima Guerra Mondiale avevano esaurito le munizioni. Quando poi accadeva che un aviatore veniva abbattuto, il vincitore del duello ricompariva sul campo nemico e, mediante un piccolo paracadute, lasciava cadere gli oggetti personali del pilota sconfitto e l’indicazione del cimitero in cui, con gli onori militari, era stato sepolto. A quei tempi, gli aviatori, pur non indossando un’uniforme particolare, si distinguevano a distanza, poiché avevano un’aria tutta loro e una maniera non comune di muoversi, di raccontare, di gesticolare; in più, gli occhi di chi volava erano limpidi ed acuti come gli occhi dei rapaci d’alta quota. L’aereo che ormai dominava i cieli era il Caproni, una macchina poderosa con tre motori, capace di lunghi tragitti, solida, sicura e bene armata. I nomi che tornavano più di frequente nelle cronache della guerra aerea erano quelli di Baracca, di Ruffo di Calabria, di Silvio Scaroni, di Pier Ruggero Piccio, di Flavio Baracchini, di Gabriele D’Annunzio, di Ferruccio Ranza eccetera. Del pilota Arturo dell’Oro, nato in Sud America da genitori italiani ed accorso in Italia appena scoppiato il conflitto, i bollettini italiani parlarono una volta sola, ma fu sufficiente quella citazione per fare del giovane aviatore un personaggio da leggenda. Incontrato un Albatros austriaco e inceppatoglisi la mitragliatrice, gli si avventò contro e lo speronò sul fianco; le ali si aggrovigliarono, per un istante i due aeroplani proseguirono avviticchiati, poi si staccarono e, avvolti da una vampa, precipitarono sui monti che 102 intanto s’erano coperti da una cappa temporalesca. Il ragazzo si era finalmente in- Storia dell’Aeronautica contrato con il destino ed aveva mantenuto la promessa fatta da tempo: ebbe la medaglia d’oro. Fulco Ruffo di Calabria, settimo duca di Guardialombarda, figurava tra i piloti più citati. Ruffo era un tipo che, anche fisicamente, pareva fatto per volare: alto, magro, nero di capelli, con i lineamenti un pò aspri e gli occhi scuri e vivaci, nell’insieme faceva pensare ad uno di quegli uccelli che hanno le pupille smerigliate a forza di fissare il sole. Quando scoppiò la guerra, era in procinto di partire per l’Africa; mandò all’aria il viaggio, si arruolò in Cavalleria, ma subito fece domanda di essere trasferito a Mirafiori per diventare pilota. Ebbe il battesimo del fuoco il 25 agosto 1916: si scontrò con un Albatros che abbattè nei pressi del villaggio di Fulco Ruffo di Calabria Merna. Fu uno scontro lungo, duro, insistente, che si svolse a quattromila metri d’altezza. A poco a poco, le vittorie di Ruffo diventarono 18 e le medaglie 4, fra cui una d’oro. Un combattimento di cui si parlò a lungo e di cui rese testimonianza addirittura Vittorio Emanuele III, accorso con la macchina fotografica per ritrarre il velivolo abbattuto, fu quello che Ruffo sostenne nel cielo di Udine. L’osservatore dell’Albatros, il tenente polacco Carlo Siemienski, venne ferito gravemente e Ruffo rimase accanto al suo letto per una notte intera. Quando gli allungò la mano Siemienski gli disse: “Peccato, era una giornata in cui il cielo era tanto chiaro e tanto luminoso. Ci si vedeva così bene!”. Dopo due giorni, l’ufficiale polacco era fuori pericolo e Ruffo l’invitò a scrivere una lettera per la madre. “Andrò io a portarla - disse - stia certo che arriverà!”. Picchiò infatti sul campo nemico e lanciò il messaggio. Dopo uno spettacolare volo dimostrativo su Trieste, D’Annunzio insisteva con Cadorna per l’incursione sulla capitale austriaca. Confidò i segreti di quel volo anche 103 Lo Spad di Fulco Ruffo di Calabria Storia dell’Aeronautica a Baracca, e quando questi gli chiese come si sarebbe comportato se Roma glielo avesse proibito, il poeta rispose: “Andrò lo stesso, caro Francesco, per me il volo su Vienna non è più un sogno, ma una pagina già scritta!”. L’azione venne rinviata. Era già in vista l’inverno; in trincea i soldati battevano i denti e maledivano il fango. Anche la luna era sparita, le notti erano lunghe e buie, e sul fronte si addensava la tempesta di Caporetto .... Gabriele D’Annunzio 104 Storia dell’Aeronautica I missionari del Piave S tanco di aspettare le decisioni del Comando Supremo, Gabriele D’Annunzio ruppe gli indugi e, con una squadriglia di Caproni definita “formidabile” dal Bollettino di Guerra del 5 ottobre 1917, attaccò la base navale di Cattaro. L’azione lasciò gli austriaci sbigottiti: si trattava in fatti dei primi bombardamenti a tappeto, compiuti con un numero di aerei che allora sembrava imponente, ma che al giorno d’oggi, data l’esperienza dell’ultima guerra, non farebbe impressione ad alcuno. Dopo Cattaro fu la volta di Pola, dove stava rintanata quasi tutta la flotta austriaca. Partirono 36 aeroplani, 20 dei quali arrivarono sull’obiettivo. Il cielo di Pola era screziato dalle vampate degli Shrapnels e sciabolato dalla luce delle fotoelettriche. Sul porto e sui depositi militari caddero 8 tonnellate di bombe. Per ritorsione, gli austriaci bombardarono Venezia, dove distrussero un idrovolante nella rimessa, incendiarono un cotonificio ed affondarono un sommergibile. Indignato, D’Annunzio tornò con i suoi Caproni sia a Pola che a Cattaro, e si dichiarò entusiasta delle due azioni; nel rapporto che fece ai comandi, fra l’altro scrisse: “Avvistando la costa nemica, ciascuno di noi ebbe un’emozione misteriosa, che non dimenticherò mai”. Dopo la terza incursione, i piloti dell’intera squadriglia si strinsero intorno al Comandante per festeggiarlo. Ad un tratto uno di essi gridò: “Urrah!”. Il poeta impose il silenzio e ribattè: “Non vi pare che questo grido barbarico mal si addica a bocche italiane?”. Nessuno fiatò. “D’ora in avanti - proseguì - il vostro grido sarà alalà, che era il grido con cui Achille aizzava i cavalli alla battaglia. Il barbarico «hip» sarà sostituito dalla dolce e sonora esclamazione latina «Eja»”. Lanciò il nuovo grido e fece segno che voleva dire ancora qualcosa. “Ripeteremo il nostro grido ogni qualvolta, a Pola, saranno lanciate le bombe. Ogni equipaggio, prima di riprendere la via del ritorno, lancerà il suo grido tra i fuochi di sbarramento”. Nell’autunno del 1917, alla vigilia della ritirata di Caporetto, che fu improvvisa come una decisione del destino, gli “assi” avevano già realizzato un considerevole numero di vittorie: Baracca 19, Ruffo 13, Piccio ed Olivari 12, Ranza 7. Il fronte si sfasciò in 24 ore. Le prime voci del disastro arrivarono da Cividale, insieme con la pioggia ed una tramontana che arrotava le ossa. I fanti tornavano indietro dal fronte, provati, scarniti, con le scarpe incrostate di fango, avvolti in mantelloni zuppi di pioggia. Ormai, per tutti, la sola preoccupazione erano gli austriaci che, a stare alle voci, erano dovunque. Le strade erano piene d’ombre e di parole confuse. Mescolati alle truppe, ripiegavano i civili, a piedi, con i carretti, in bicicletta, spingendo avanti le vacche perché gli austriaci trovassero le stalle vuote. Il temporale era diventato tempesta, le strade erano torrenti di fango. Le squadriglie avanzate sgomberarono in fretta i campi a ridosso della Terza e della Seconda Armata. Baracca fece smontare il suo velivolo, lo caricò su un camion e si mise in cammino 105 Storia dell’Aeronautica per raggiungere il campo di Santa Caterina che, per gli aviatori, era la prima tappa del ripiegamento. Le notizie dal fronte erano disastrose. La sosta degli aviatori a Santa Caterina durò una giornata. Pioveva sempre, il cielo prometteva soltanto disgrazie. Il sito del campo d’aviazione era già trincea. Baracca partì per ultimo; gli hangar erano in fiamme. Partì in mezzo alla pioggia e puntò verso il nemico che scendeva in direzione di Udine. Mitragliò gli austriaci fino all’ultima cartuccia, mentre i suoi “cavalleggeri” compivano una carica disperata ed inutile. Nei giorni in cui la catastrofe minacciava di travolgere tutto il fronte, l’aviazione fu instancabile. I piloti erano in aria dal mattino alla sera. Due altri aviatori, oltre ai soliti, s’erano fatti un nome: Silvio Scaroni e Giorgio Michetti, due ragazzi solitari e scontrosi, che in volo facevano coppia fissa, combattevano insieme, pronti a darsi una mano ogni volta che uno dei due ne aveva bisogno. Durante la ritirata si persero però di vista, ma si ritrovarono alla Comina, dove Scaroni era rimasto con Baracca, Ruffo di Calabria, Piccio, Ranza, Minoli, Cerruti, Cabruna, Locatelli e Lanza di Tradia. Michetti era lacero, affamato, giunto a piedi da Campoformido, digiuno da due giorni.Il 26 dicembre ci fu la famosa battaglia aerea di Treviso, alla quale parteciparono cacciatori italiani ed artiglierie antiaeree italiane ed inglesi. Era una giornata fredda e nebbiosa; trenta bombardieri nemici, scortati da una cinquantina di caccia, comparvero sull’aeroporto. Dopo le prime bombe, il campo era diventato un prato di fuoco, diversi velivoli decollarono tra le fiamme: la vera lotta cominciò sul Piave e per il nemico si risolse in un disastro. Accanto ai caccia ed ai bombardieri, in maniera meno vistosa, ma egualmente efficace ed eroica, operavano i dirigibili, i quali ebbero il loro uomo di punta nel tenente genovese Giuseppe Castruccio, cui il Re concesse personalmente la medaglia d’oro al valor militare. Il 1917, l’anno delle disgrazie era per fortuna alla fine. Nel 1918 l’aviazione dominava ormai i cieli della battaglia. Un documento segreto del nemico diceva ai nostri aviatori che “erano audaci, temerari, risoluti, con eccezionale spirito offensivo”. In previsione dello scontro risolutivo, l’aviazione riorganizzò il proprio servizio informazioni e mandò uomini al di là del fronte, portati da piloti le cui imprese entrarono nel mito. Eugenio Casagrande, aviatore di marina, diventò l’asso di quei voli, di leggenda che nessun pilota alleato o nemico, riuscì mai ad eguagliare. Gli informatori vennero chiamati “missionari del Piave”; le missioni furono 15, una più avventurosa dell’altra, e vennero compiute con un minuscolo idrovolante, battezzato “Comme vene, vene”, nome suggerito da una canzone cantata dal comico Pasquariello. Con quella specie di libellula, Casagrande ammarava nelle notti di luna nei laghetti alpini, depositava i missionari e, alla stessa maniera, dopo una o due settimane, tornava a riprenderli. Per i voli oltre il Piave quello straordinario pilota ebbe la medaglia d’oro ed il titolo di conte di Villaviera, perché quella fu l’impresa più audace. Nella medesima estate delle missioni, Silvio Scaroni 106 aumentò il bottino delle proprie vittorie, con combattimenti rimasti epici. Intanto Storia dell’Aeronautica era maturato anche il tempo per il famoso volo su Vienna, progettato da D’Annunzio con due bombardieri Caproni, preparati di nascosto ad Aviano. L’industria aeronautica nazionale aveva sfornato, nel frattempo, un nuovo aeroplano: lo Sva, leggero e veloce come nessuno. Con quel velivolo, dotato di larga autonomia, era possibile bombardare Lubiana, Monaco di Baviera, Vienna e Budapest. I dirigenti dell’Ansaldo, Pio e Mario Perrone, affascinati dal piano del poeta, avevano costruito l’apparecchio all’insaputa del Sottosegretario per l’aviazione. Ai primi di agosto del 1918, il comando supremo autorizzò finalmente il raid tanto sospirato. Prima del decollo D’Annunzio, che aveva come pilota Natale Palli, riunì i suoi e, prima di parlare, fissò i piloti uno per uno con l’occhio che “non era sottovetro”. Disse: “Nessuno di voi si arresterà se non con l’ultimo battito del motore ... Se non arriverò a Vienna, io non tornerò indietro. Natale Palli, Antonio Locatelli, Gino Allegri, Aldo Finzi, Piero Massoni, ciascuno di voi mi guardi nella pupilla e mi dia la mano. Bene, è detto, è fatto. I motori sono in moto, bisogna andare. Io vi assicuro che arriveremo anche attraverso l’inferno!”. Oltre ai piloti nominati, c’erano Censi, Granzarolo, Sarti, Ferrarin, Masperone e Contratti. In tutto 11. L’alba del 9 agosto si alzò con un velo di foschia. In testa alla formazione c’era il velivolo di D’Annunzio, affiancato dagli aerei di Locatelli e di Allegri, il proverbiale “fra Ginepro”. Sul Piave, per incidenti meccanici, tre dovettero rientrare; gli otto superstiti giunsero sull’obiettivo alle 9,20 e, abbassatosi agli 800 metri, lasciarono cadere sulla città una pioggia di messaggi che dicevano: “Non siamo venuti se non per la gloria dell’arditezza, non siamo venuti se non per la prova di quel che potremo osare e fare quando vorremo, nell’ora che sceglieremo ...”. Due mesi prima del volo su Vienna, mentre tutto il fronte era in movimento, sul Montello, durante il mitragliamento delle trincee nemiche, moriva Francesco Baracca. L’ultima pagina del suo diario, trovato per caso, recava la data del 15 giugno 1918. C’erano annotate due vittorie, conseguite nella medesima giornata. Poco dopo la scomparsa di Baracca ebbe termine il dramma che per quattro anni aveva insanguinato e devastato l’Europa. Il cacciatore del cavallino rampante rimase un simbolo; ogni pilota di caccia ne raccolse l’eredità e triplicò il proprio valore dando vita a combattimenti che ancora oggi si raccontano e si leggono come leggende. Quando nel novembre del 1918 venne firmato l’armistizio, l’Italia disponeva di 1.020 aeroplani da ricognizione, 135 da bombardamento e 528 da caccia. Gli avversari ci distrussero 128 aerei, noi abbattemmo 634 apparecchi austriaci ai quali se ne devono aggiungere altri 129, abbattuti dai piloti di Marina. Gli aviatori ebbero 22 medaglie d’oro al valor militare, 1.800 d’argento e più di 1.400 di bronzo. Cifre senza dubbio più che consistenti per indurre le autorità a conservare intatto un simile patrimonio di uomini e di macchine. Purtroppo, però, dopo la Grande Guerra successe ciò che era accaduto dopo la campagna di Libia: l’euforia del successo indusse i comandi dell’Esercito a “smobilitare in fretta ed a liberarsi senza indugio del peso morto di velivoli ed aviatori”.Qualcuno disse, anzi: “sono 107 Storia dell’Aeronautica stati scavezzacolli in guerra e lo saranno anche in pace. Inadatti alla disciplina delle Forze Armate”. Gli aerei furono gettati sul mercato dei ferri vecchi a 300 lire l’uno ed altrettanto, o poco più, presero gli aviatori come benservito. “Fu il nostro brutto quarto d’ora, - disse un giorno Umberto Maddalena - un quarto d’ora che purtroppo durò alcuni anni. La folla, che per noi aveva spasimato, nell’illusione di aver trovato la pace perpetua, voltò la schiena agli aerei ed ai piloti. Eppure ci aveva chiamato «arcangeli» e ci aveva collocati su troni di nuvole, in mezzo al cielo che era sempre stato il regno delle fantasie e dei sogni ...”. Dagli altri Paesi, in special modo dalla Francia, dall’Inghilterra e dalla stessa Germania vinta, veniva invece la dimostrazione di quanto fossero assurde le idee che avevano messo radici in Italia. Dal 1919 al 1920, allorché D’Annunzio, in segno di protesta, se ne andò a Fiume, per misura precauzionale le autorità militari sospesero i voli ed ordinarono il sequestro dei magneti dei motori. I primi che arrivarono a Fiume con il loro idrovolante furono Eugenio Casagrande e Federico Guazzetti, i quali costituirono il nucleo dell’Aviazione fiumana. Chi non potè partire con l’aeroplano, mise l’uniforme in valigia e se ne andò col treno. Mentre in Francia erano sorte 22 compagnie aeree che gestivano linee interne ed internazionali, la Germania aveva 15 linee passeggeri e l’Inghilterra e gli Stati Uniti impiegavano sempre più l’aeroplano, l’Italia, in fatto di aviazione, era tornata all’anno zero, e toccò ai privati prendere l’iniziativa di organizzare voli e competizioni per “riscaldare” l’ambiente e richiamare l’attenzione del pubblico sull’importanza dell’aeroplano, uscito ormai dal periodo critico dell’adolescenza. D’accordo con il pilota nipponico Shimoi, D’Annunzio, nel marzo del 1919, ideò una spedizione aerea pacifica con un prodigioso volo da Roma a Tokio. Al viaggio dovevano partecipare 11 aerei, fra Caproni e Sva, pilotati tutti da assi di guerra e da aviatori che avevano partecipato all’impresa di Vienna. Intanto era stata mandata in Argentina una missione aeronautica militare a scopo di propaganda e d’amicizia, di cui facevano parte Antonio Locatelli e Luigi De Riseis. Locatelli, con il suo Sva, tentò il volo fino in Cile con il proposito di scavalcare le Ande, le quali, per la loro altezza, conservavano il mistero e l’attrattiva dei monti inesplorati. Due mesi prima del nostro aviatore aveva tentato lo stesso raid il pilota argentino Matienzo, ma cadde in uno dei punti più desolati della cordigliera, confermando l’inviolabilità della zona e rinverdendo una leggenda tramandata dai montanari andini; un altro aviatore, un certo tenente Bello, era sparito come se la sua fragile macchina si fosse polverizzata in cielo. Locatelli ritentò e riuscì. Intanto in Italia era in preparazione il volo Roma - Tokio, mentre negli ambienti aeronautici si cominciava a parlare di un giovane aviatore, Arturo Ferrarin, il quale, oltre ad appartenere alla razza dei “nati con le ali”, insieme ad altri piloti, fra cui De Bernardi, mediante la Coppa Schneider, si apprestava a dare l’assalto alla velocità. 108 Storia dell’Aeronautica I grandi solisti dei raid C ome tanti altri aviatori in quel dopoguerra senza avvenire, Arturo Ferrarin si spostava da un Paese all’altro, in occasione di fiere e di esposizioni internazionali, per esibirsi in voli che ricordavano le “sagre aeree” dei pionieri dell’aria. A Parigi, dov’era ospite del colonnello Piccio, Arturo seppe del volo Roma - Tokio e disse di essere ben lieto di partecipare a quella crociera. Come compagno si scelse Masiero ed insieme i due studiarono la rotta su un vecchio atlante sottratto al ministero; Masiero, come motorista, si prese Maretto; Ferrarin, Gino Capannini. Come bagaglio sia l’uno che l’altro avevano due chili di zucchero, una bottiglia di acqua di colonia, una camicia di ricambio ed un paio di mutande. La partenza avvenne il 14 febbraio 1920. Al campo, a salutare Arturo Ferrarin, c’erano soltanto i suoi due fratelli, la madre del motorista e l’ambasciatore del Giappone. Il volo di Ferrarin e di Masiero fu caratterizzato da una serie di avventure che spesso misero a repentaglio la vita degli aviatori. A Smirne, per esempio, atterrarono un ippodromo, mentre il passaggio dalle fredde temperature dell’Anatolia ai caldi torridi del deserto ridusse la resistenza delle macchine, stagionate e piene di reumatismi. A quei tempi tutto l’Oriente era una vampa di ribellioni e di guerre e spesso dalle colline morte della steppa partivano schioppettate che si sfiocchettavano intorno agli aerei. A Bagdad Ferrarin non potè scendere sul campo perché c’era una partita di football e difatti, per cercarsi un corridoio, dovette passare sulla gente diverse volte allo scopo di chiedere spazio. Masiero, intanto, proseguiva il viaggio per conto suo. Dopo altre vicissitudini, fra cui una specie di arresto da parte di indigeni armati, Ferrarin arrivò a Bangkok, che l’accolse con le sue cupole d’oro che nel crepuscolo sembravano candelieri accesi. Temporali e monsoni ostacolavano di continuo il volo ed in certe località come Foochow il velivolo di Arturo Ferrarin fece l’impressione di un miracolo sceso dal cielo, giacché era la prima volta che ne arrivava uno. A mano a mano che si avvicinava la meta, le manifestazioni in onore del pilota diventavano trionfali. A Pechino, nel saluto di benvenuto, il primo ministro parlò perfino di Marco Polo e di Scipione Borghese che, in auto, 13 anni prima aveva compiuto il viaggio leggendario dalla Cina a Parigi. A Tokio sia Ferrarin che Masiero, i quali si erano ricongiunti a Shangai, ebbero 42 109 Storia dell’Aeronautica giorni di festeggiamenti; furono ricevuti a corte e, nel parco di Ibja ascoltarono un inno all’Italia, cantato da 20.000 studenti, sull’aria lenta e solenne di un canto di chiesa. Il raid si era concluso con un volo di 18.000 chilometri, compiuti in 109 ore. Il 27 marzo 1921, a Milano, promossa dalla Gazzetta dell’Aviazione, ci fu una grande adunata, nel corso della quale i partecipanti domandarono al governo di creare un sottosegretariato dell’Aria e di occuparsi con maggiore sensibilità dei problemi degli aviatori. A conclusione di molte polemiche e per mettere fine a molte attese, il 24 gennaio del 1923 venne creato l’Alto Commissariato per l’Aeronautica con due direzioni generali: l’una civile, con alla testa Arturo Mercati e l’altra militare, diretta dal Arturo Ferrarin con il tradizionale kimogenerale Riccardo Moizo. no durante i festeggiamenti a Tokio Mercati era un pioniere ed un missionario dell’aviazione, un uomo che sapeva dire “andiamo” e “non andate”, che aveva preso il brevetto di pilota a 42 anni, quando i capelli si fanno grigi e la vita, divenuta più preziosa, si spende con maggiore cautela. Moizo, a sua volta, s’era battuto fino allo spasimo, appoggiando le iniziative di coloro che non volevano e non potevano rinunciare al volo. Il suo nome era legato alle prime ricognizioni fotografiche con l’aeroplano durante la guerra di Libia. Due mesi dopo, il 28 marzo, nacque la Regia Aeronautica, arma indipendente alla stregua della Marina e dell’Esercito. Per gli aviatori, costretti a vivere a lungo più nel passato che nel presente, fu il ritorno alla vita. I motivi che indussero il governo a compiere questo passo, sollecitato del resto da ogni passo, vennero esposti da Mussolini al Parlamento durante una seduta in cui le tribune erano piene di ex aviatori: Francia, America, Inghilterra, Germania, Russia, Spagna e Jugoslavia erano già diventate potenze aeree. La ricostituzione in casa italiana fu rapida e si svolse in un clima di particolare en110 tusiasmo. Storia dell’Aeronautica Furono momenti magici. Si ripeterono i miracoli dell’inizio del secolo quando l’Italia, entrata per ultima nelle competizioni aviatorie, in breve tempo superò i maestri, imponendosi all’ammirazione del mondo. Allora fu necessario preparare i piloti; ora i piloti c’erano, collaudati in guerra, ansiosi di dimostrare che anche nei voli di pace non erano secondi a nessuno. Il primo successo del periodo nuovo fu il volo di 55.000 chilometri compiuto da Francesco De Pinedo con il piccolo idrovolante battezzato “Gennariello”, dato che San Gennaro era il protettore di Napoli e dei naviganti. Il volo era più lungo di 12.000 chilometri di un giro intorno al mondo compiuto da piloti americani; 40.000 chilometri del tragitto si svolgevano lungo le coste, 8.000 su mare aperto e 7.000 circa su terraferma. Il raid si realizzò su rotta Siria, India, Australia e ritorno. Fino all’ultimo l’impresa fu criticata ed avversata dalla stampa, la quale sosteneva che con una macchina così vecchia e minuscola l’aviatore, accompagnato dal motorista Ernesto Capannelli, si accingeva ad una brutta figura. In aggiunta, quando De Pinedo si recò a Londra per un accordo con la Shell, a proposito dei rifornimenti, il Ministro dell’Aria inglese, scuotendo la testa, gli disse che due piloti britannici, tornati di recente dall’India, avevano detto che a loro avviso tentare il volo con un idrovolante era una pazzia. Francesco non si scoraggiò, anche se sapeva che dall’Italia all’Australia avrebbe dovuto fare i conti con i monsoni dell’Asia che da maggio a settembre flagellavano i Paesi dell’Estremo Oriente, con i venti dell’Australia che soffiavano impetuosi dall’estate all’autunno, con gli alisei dell’Arcipelago della Sonda e con le piogge furiose del Bengala. A Karachi, infatti, dove non erano mai arrivati idrovolanti, la comparsa del “Gennariello” fece sensazione; la gente ne parlò a lungo come di un mostro. Nonostante tempeste tropicali che scortecciavano la terra, piogge di sabbia che arrossavano il cielo e caldo di fornace che rendeva difficili i decolli in specchi d’acqua a temperature di bollore, De Pinedo arrivò a Melbourne il 9 giugno accolto da centomila persone in delirio, dopo 150 ore di volo e 23.500 chilometri percorsi; da Melbourne, successivamente, in diciotto giorni, giunse in Italia e, alle tre del pomeriggio del 7 novembre 1925, scese nel Tevere, all’altezza di Ponte Margherita, e venne inghiottito dalla folla festante, ammassata lungo le rive del fiume. Il 1925 fu l’anno di De Pinedo. Il 1926, invece, fu l’anno di De Bernardi, che vinse la Coppa Schneider di velocità a Hampton, nella baia di Norfolk, in Virginia, ad un tiro di schioppo dalla base aerea di Langley che, trent’anni dopo, doveva diventare la scuola per gli aviatori che si lanciavano alla 111 conquista dello spazio, Luna compresa. Storia dell’Aeronautica Per merito di quella prestigiosa Coppa, in poco più di dieci anni la velocità degli aerei passò dai timidi 73 chilometri orari del primo vincitore, il francese Maurice Prévost, ai 374 chilometri l’ora dell’americano James Doolittle, che nel 1925 si aggiudicò la sesta edizione della difficile corsa. Data la struttura delle macchine che avevano perduto la forma di uccelli in volo, come si vedono sulla seta e sulle porcellane cinesi, i giornali parlavano addirittura di “proiettili” pilotati e di sfide al destino. In quell’atmosfera di attesa e fantasia, il 23 ottobre 1926 arrivarono a New York, con il transatlantico “Conte Rosso” i piloti, i tecnici, i meccanici e gli idrovolanti per la settima Coppa Schneider. C’erano De Bernardi, Bacula, Guasconi e Ferrarin, ricevuti al porto dall’addetto aeronautico che era il famoso asso di guerra, medaglia d’oro, Silvio Scaroni. Dopo le prove dei nostri piloti, i giornali americani avvertirono gli aviatori statunitensi di prepararsi a dovere perché “gli italiani - scrissero - sono gente con la quale non si può scherzare”. In effetti, vinse alla grande De Bernardi, il quale, non contento del successo nella corsa, quattro giorni dopo battè il record mondiale di velocità ad oltre 400 chilometri l’ora. Mister Keys, presidente della Curtiss che aveva fornito le tre macchine americane per la gara, inviò a Scaroni un telegramma che diceva: “Il vostro è il risultato più notevole ottenuto da qualunque nazione dalla guerra in poi. Ciò che avete realizzato in un anno in fatto di motori e di aeroplani vi dà motivo di essere giustamente orgogliosi”. La rivista “Aeroplan”, che in fatto di aviazione aveva la stessa autorevolezza del Times nel campo della politica, scrisse fra l’altro: “I progressi degli Italiani sono davvero un miracolo!”. Sempre nel 1926, che in fatto di successi fu ritenuto un anno eccezionale, ci fu un altro avvenimento di grande risonanza mondiale. Con un dirigibile dall’ossatura fragile e slanciata, l’aviatore Umberto Nobile sorvolò il Polo Nord dopo un viaggio pieno di emozioni che, iniziato a Roma nel mese di aprile, si concluse in maggio nelle tundre dell’Alaska. Gli assalti all’inferno bianco, o al deserto di ghiaccio, come allora venivano chiamate le regioni polari, erano cominciati con il volo in pallone di Andrè ed erano continuati, dal 1906, per oltre dieci anni con intermezzi di sciagure e di insuccessi che facevano pensare ad una spietata vendetta della natura. Il 29 marzo ci fu il battesimo del dirigibile, chiamato “Norge” perché comperato dall’Aero Club di Norvegia; il 10 aprile Nobile, insieme con Amundsen, diede ordine di mollare gli ormeggi e mise l’aeronave in rotta per il nord. L’11 maggio, con partenza dalla Baia del Re, il Norge compì l’ultima tappa sorvolando il pack, che, come i deserti di sabbia, si difendeva con la monotonia, la distanza e, qua 112 e là, con le stravaganze provocate dall’acqua e dal vento. Storia dell’Aeronautica Una stampa dell’epoca che ricorda l’impresa di Umberto Nobile Il 12 maggio, all’una e trenta, caddero sul tetto del mondo tre bandiere: l’italiana, la norvegese e l’americana. In quell’anno un nuovo, prestigioso personaggio fu messo alla testa della Regia Aeronautica: Italo Balbo, il quale, per essere all’altezza del compito, come prima cosa decise di prendere il brevetto di pilota. Convinto dell’importanza e del futuro dell’aereo, decise di creare un’Aviazione in grado di competere con quelle dei Paesi ritenuti all’avanguardia del volo. “Prima di tutto - diceva spesso Balbo ai suoi collaboratori - bisogna formare una coscienza aviatoria in questo nostro Paese, dove gli aeroplani sono ancora macchine misteriose ed ostili. Bisogna che l’idea dell’aereo entri nella testa dei giovani”. A poco a poco questa “coscienza aeronautica” si diffuse: i giovani che domandavano di entrare all’Accademia di Caserta erano sempre più numerosi e gli aviatori, anche se freschi di tradizioni, cominciavano a contendere ai marinai quel prestigio d’arma che la Marina difendeva a denti stretti. Ciononostante, e per naturale mancanza di quadri, dato che l’opera di ricostruzione era appena agli inizi, l’Aviazione puntava ancora, come in passato, sugli assi, i quali, con le loro imprese isolate, davano fosforescenza alla specialità. De Bernardi, Nobile, De Pinedo e Ferrarin erano i solisti del momento, che s’affiancavano degnamente ai numerosi piloti stranieri lanciati ormai alla conquista dell’Oceano Atlantico, l’altra barriera che, con il Polo Nord, pareva innalzata dalla natura per contrastare le audacie dell’uomo. Fin dal 1913, infatti, un giornale inglese, il Daily Mail, aveva messo a disposizione la 113 Storia dell’Aeronautica somma di 150.000 lire per l’aviatore che fosse riuscito a superare l’oceano dagli Stati Uniti all’Europa, o viceversa. Più di recente l’offerta era stata rinnovata da un ricco albergatore di New York, un certo Raimondo Orteg, il quale, depositando 25.000 dollari, messi in palio per la traversata, disse: “Avrei potuto offrire anche il doppio, tanto il pazzo che farà un volo del genere non è ancora nato!”. 114 Storia dell’Aeronautica L’epoca delle trasvolate D i anno in anno il passo della storia dell’Aviazione Italiana si faceva più rapido ed i suoi successi destavano sempre maggior interesse a livello mondiale. Il 1927 cominciò con De Pinedo alla ribalta per la seconda volta. Dopo il raid di 55.000 chilometri, compiuto con il fragile e minuscolo “Gennariello”, il navigatore solitario progettò un nuovo viaggio lungo rotte non ancora battute dall’aereo. Il volo, studiato da De Pinedo con lo scrupolo e la minuzia che gli erano abituali, era all’incirca di 120.000 chilometri e comprendeva, nei disegni iniziali, le traversate del Nord Atlantico, del’Oceano Indiano e del Sud Pacifico. In altre parole, tre oceani e cinque continenti: un’avventura, si potrebbe dire, verso l’eternità. La prima difficoltà fu il velivolo; a De Pinedo occorreva un idrovolante che avesse un’autonomia di almeno 3.500 chilometri e, a quell’epoca, purtroppo, una macchina del genere non esisteva ancora. Fu necessario allora ripiegare su un progetto meno vasto per adattare la crociera alle possibilità dell’aereo. Nell’agosto del 1926 il pilota ne parlò con Mussolini e d’accordo decisero di limitare il viaggio alla doppia traversata dell’Atlantico e ad una visita capillare alle numerose colonie italiane esistenti nelle due Americhe. L’idrovolante prescelto fu il Savoia Marchetti S.55, un aereo di forma assolutamente nuova, destinato a far parlare di sé per la sua robustezza e la sua eccezionale stabilità. L’S.55 era stato progettato fin dal 1922 come idro d’alto mare lancia siluri, ed aveva compiuto il primo volo l’anno seguente. La sua architettura, inusitata, fu definita addirittura stramba; i buongustai dell’estetica aviatoria insorsero contro l’aereo e contro l’ingegnere Marchetti che l’aveva ideato, per via della fusoliera che non arrivava alla coda, come negli uccelli, e perché il motore era in aria e non racchiuso nel “petto”, come voleva la tradizione. Il velivolo, sistematicamente attaccato e ripudiato, morì, ma rinacque nel 1926. Il 30 gennaio 1927, a Sesto Calende, nei cantieri dove vennero costruiti i più famosi idrovolanti del mondo, ci fu la cerimonia del battesimo della macchina destinata a De Pinedo, la quale, in omaggio a Cristoforo Colombo e per via del tragitto della crociera, venne chiamata “Santa Maria”. Carlo Del Prete in qualità di secondo pilota e Vitale Zacchetti come motorista completavano l’equipaggio. 115 Storia dell’Aeronautica Prima della partenza, da ogni località d’Italia arrivarono a casa dell’aviatore amuleti di ogni genere, fra cui, a detta dello stesso De Pinedo, tanti ferri di cavallo da ferrare un intero squadrone di cavalleria. Dopo il trasferimento da Sesto Calende ad Elmas, in Sardegna, il 13 febbraio, domenica, il “Santa Maria” prese il volo puntando su Gibilterra, dove trovò pioggia e vento. Sulle coste del Marocco, invece, incontrò le solite tempeste di sabbia che rendevano il cielo compatto e lo trasformavano in un braciere. Tappa a Villa Cisneros e rifornimento. De Pinedo fu ospite in un fortino che pareva costruito su misura per un drappello di Legione Straniera. Accanto al forte c’erano due velivoli incappottati. “E quelli?” domandò De Pinedo, incuriosito. “Sono della Compagnia Latecoere, che vola fino a Dakar, unico legame con il mondo civile. Giorni fa uno, il terzo, per un guasto al motore, è stato costretto a scendere. I mori, gente poco raccomandabile, hanno pigliato il pilota e l’hanno ucciso”. E, dopo un attimo di silenzio: “Se dovete scendere, preferite il mare, in terra è pericoloso!”. Erano i guai che potevano capitare a piloti che, come De Pinedo, si erano assunti il ruolo di esploratori volanti e di missionari dell’aeroplano. Dopo alcuni cambiamenti di rotta, per via della temperatura torrida, nella notte dal 21 al 22 febbraio il “Santa Maria” affrontò l’Atlantico, inghiottito da furibondi temporali equatoriali. Dovunque c’era clamore di tuoni ed il cielo veniva squarciato da lampi che accendevano fra le nubi luci di miracolo. Porto Natal fu l’approdo al termine del lungo volo sull’oceano. Sosta a Pernambuco, la cosiddetta “Venezia brasiliana”, poi lo spettacolo indimenticabile dell’arrivo a Rio de Janeiro, dove pareva che anche la natura si fosse vestita a festa per ricevere gli aviatori di cui si parlava dappertutto nel mondo. De Pinedo, Del Prete e Zacchetti raggiunsero l’albergo portati a spalla, navigando su un mare di teste. Altra tappa, Buenos Aires, poi l’America del Nord; era la prima volta che un aereo straniero arrivava in volo negli Stati Uniti. Un incidente sul lago Roosevelt sembrò bloccare l’avventura e l’entusiasmante galoppata dei piloti italiani. De Pinedo, infatti, raccontò che quando giunse al lago e vide che l’acqua intorno al velivolo era tutta una vampa, sentì il bruciore delle fiamme sulla sua carne. “Il Santa Maria - disse - era una torcia. Si udirono due scoppi, poi le vampe cessarono e, al posto del fuoco, rimase una nube nera galleggiante sull’acqua. Un ragazzo, dopo aver attizzato la sigaretta, aveva gettato nel lago il fiammifero acceso. Era stato fatto da poco il rifornimento e sull’acqua era rimasto un velo di benzina. Il giorno dopo trovammo il colpevole: un certo John Thomason, di 17 anni, che faceva il barcaiolo. Il Governo degli Stati Uniti mi offrì un suo velivolo per proseguire il viaggio, ma rifiutai. Era un raid italiano, e doveva concludersi con una macchina italiana ”. 116 Dopo la visita alla Casa Bianca per l’incontro con il Presidente Coolidge, l’8 maggio Storia dell’Aeronautica 1926 De Pinedo iniziò il viaggio di ritorno, che si concluse ad Ostia il 16 giugno. Con le 279 ore di volo del “Santa Maria”, era cominciata la serie delle grandi trasvolate intercontinentali, mai realizzate prima di allora. Erano i giorni in cui francesi ed americani tentavano a ripetizione l’assalto dell’Atlantico; molti di essi scomparvero in mare; l’aviatrice Ruth Elder si salvò per l’intervento di un piroscafo, mentre altri, come il tenente portoghese de Beires, il capitano francese Saint Romain ed il tenente Mourejres sparirono come se insieme con le loro macchine si fossero dissolte in cielo. La sorte fu invece favorevole a Lindbergh ed al nostro De Pinedo, ma il loro successo non tolse nulla alla mirabile prova d’ardimento dei più sfortunati. Mentre il navigatore solitario concludeva la sua eccezionale impresa, gli aviatori dell’alta velocità si preparavano per la settima Coppa Schneider, che si doveva Il rogo del S. Maria sul Lago Roosevelt disputare a Venezia il 25 settembre 1927. Per gli allenamenti erano stati scelti De Bernardi, Bacula, Ferrarin, Guasconi, Guazzetti e Borra, che durante le prove morì in un incidente di volo. La gara fu vinta dall’inglese Webster, il quale, a bordo di un “Supermarine 5” toccò i 433 chilometri orari, mentre De Bernardi e Ferrarin vennero eliminati per guasti meccanici. Balbo, presente a Venezia, aveva un diavolo per capello; per consolarsi, la sera della sconfitta chiamò De Bernardi e gli disse che appena pronti i motori, a tutti i costi, tentasse di battere il record mondiale di velocità appartenente al britannico vincitore della Coppa. La Domenica del Corriere che illustra l’impresa di Mario De Bernardi Alcuni mesi dopo, il pilota dei miracoli, Ma- 117 Storia dell’Aeronautica rio De Bernardi, volatore nelle cui mani anche la macchina più nervosa diventava docile e mansueta, viaggiò a 512 chilometri orari, vale a dire 70 chilometri più veloce del “Supermarine” di Webster. In seguito a questo clamoroso successo, per coordinare l’addestramento dei velocisti, Italo Balbo decise di creare il Reparto d’Alta Velocità, con piloti scelti, la direzione del quale venne affidata al colonnello Mario Bernasconi, e la cui sede fu stabilita nella cittadina di Desenzano sul Garda. Il corso dei velocisti cominciò nell’aprile del 1928 con 20 piloti che non dovevano superare i 30 anni. I primi allievi che si “laurearono” in velocità, furono i capitani Motta e Canevari, i tenenti Monti, Cadringer e Maggi, il maresciallo Dal Molin ed i sergenti maggiori Agello, Huber e Gallone. A Roma, intanto, non soddisfatto della sua prima impresa, a due anni di distanza dal riuscito volo del “Norge”, Umberto Nobile preparava una seconda spedizione polare con un dirigibile gemello del primo. L’equipaggio comprendeva 16 italiani e 2 stranieri, uno dei quali svedese e l’altro cecoslovacco. Di ritorno da un viaggio in Giappone, nel 1927, Nobile, durante un colloquio con Mussolini, presente Italo Balbo, aveva esposto a grandi linee il suo progetto, che comprendeva, oltre alla traversata del Polo, l’esplorazione di numerose regioni ancora sconosciute. Mussolini l’aveva ascoltato con attenzione, poi, sotto l’impulso di un vago presentimento, gli aveva detto: “Forse sarebbe meglio non andare una seconda volta incontro al destino. Riconosco, però, l’importanza scientifica del volo. Ne riparleremo la prossima settimana ...”. Non ne riparlarono più. Nobile partì e dopo un lungo viaggio di trasferimento, attraversò l’Europa tormentata da bufere di pioggia, di vento e di neve, arrivò alla Baia del Re, che era l’anticamera di tutte le spedizioni glaciali. Dalla King’s Bay, l’aeronave “Italia” raggiunse il Polo e lo sorvolò alle 00.20 del 24 maggio 1928. All’1.20 il comandante lanciò sul pack la croce donatagli da Pio XI e la bandiera nazionale. All’atto di consegnargli la croce, il Papa aveva detto a Nobile: “Come tutte le croci, naturalmente, sarà pesante ...”. Alla 131ª ora di volo, sulla via del ritorno, in prossimità della base il destino si ribellò e successe la catastrofe. Il cielo si prese l’aeronave, gli esploratori diventarono naufraghi. La notizia della tragedia dell’”Italia” entrò in ogni casa come l’annuncio di una sciagura familiare. Dopo l’ultimo messaggio degli esploratori polari, era cominciato il silenzio che, in circostanze del genere, è l’avvertimento delle disgrazie. Trascorse due ore sul Polo, riuscito inutile il tentativo di scendere sui ghiacci, tartassato dal vento, il dirigibile aveva iniziato il viaggio di ritorno. 118 C’era foschia; un ciclone avanzava da distanze infinite, trascinandosi dietro valan- Storia dell’Aeronautica ghe di nubi. La marcia proseguiva a fatica, tanto che fu necessario ricorrere anche al terzo motore. Trascorse cinquanta ore di navigazione dalla partenza dalla Baia del Re, quando gli orologi di bordo segnavano le 10.00 e l’aeronave navigava a 300 metri di quota, di colpo l’involucro cedette a poppa ed il gas fuggì dalle camere, provocando l’immediato appesantimento del dirigibile. “Navigavamo sulla stima.- raccontò poi uno dei superstiti, l’ammiraglio Mariano - Lo Spitzbergen era vicino; fra lo spiraglio che s’era aperto nelle nubi si vedeva il sole. Data la quota, ritirata l’antenna radio, non fu possibile lanciare alcun messaggio alla nave “Città di Milano”. I ghiacci ci venivano incontro a velocità folle. Mi svegliai nelle neve. Con me, oltre al generale Nobile, erano stati scodellati sul pack tutti quelli che si trovavano nella navicella. Vicino al motore poppiero, fracassato, c’era il cadavere di Pomella. Avevo gli occhi incollati in alto; la scena che vidi mi mozzò il fiato. Spinto dal vento, l’involucro dopo l’urto contro i ghiacci, filava via verso le nubi. Da uno squarcio della tela vidi Arduini aggrappato alle travature interne, aveva la faccia smarrita. Gli altri, Lago, Alessandrini, Caratti, Ciocca e Pontremoli forse dormivano ancora, avvolti nei sacchi a pelo. Mezz’ora dopo il disastro, lontano, sulla linea dell’orizzonte, s’alzò una lunga colonna di fumo ...”. Da poco era terminata una grande crociera aerea nel Mediterraneo occidentale, al comando di Italo Balbo, organizzata e diretta, per la parte tecnica, da Francesco De Pinedo. 61 idrovolanti del tipo S.59 bis, partiti dalla laguna di Orbetello la mattina del 27 maggio 1928, dopo aver toccato Elmas, Pollenza, Los Alcazares, Alfaques e Berre, presso Marsiglia, avevano fatto ritorno in Italia il 2 giugno con un volo la cui importanza era stata sottolineata in ogni Paese. Era la prima volta, infatti, che un così gran numero di aeroplani prendevano il cielo e s’avventuravano lungo una rotta che, per la sua estensione, 2.804 chilometri, e per le sue mutevoli condizioni ambientali, richiedeva dai piloti e dalle macchine, capacità e resistenza fuori dal comune. La crociera, fra l’altro, rivelò un De Pinedo diverso da quello ormai conosciuto e celebre in tutto il mondo. “Francesco - disse infatti Balbo - non è più soltanto un grande recordman, vincitore delle più ardimentose imprese aeree, ma anche un capo di masse volanti, un generale d’Aeronautica nel più ampio significato della parola! ...”. Lontano, intanto, continuava sempre più affannosa la ricerca dei superstiti del disastro del dirigibile “Italia”. La “tenda rossa”sembrava introvabile ed a renderla più introvabile concorreva il silenzio dei naufraghi. Il Polo, con i suoi misteri impenetrabili, s’era preso una tragica rivincita, innalzando un muro di fitta nebbia fra la zona di partenza degli aerei di soccorso e la banchisa 119 Storia dell’Aeronautica dove alcuni uomini aspettavano di essere uccisi dal gelo. Era la morte bianca, come la chiamavano gli esploratori, già toccata ad Andrè e a Scott! 120 Storia dell’Aeronautica A cavallo dell’Oceano M entre si intensificavano le ricerche dei naufraghi della spedizione polare dell’”Italia”, a Roma era in piena preparazione un volo che doveva assicurare all’Aeronautica italiana un nuovo primato, quello in circuito chiuso, preludio di un raid di 7.000 chilometri, con inclusa una trasvolata atlantica come quella di Lindbergh, compiuta l’anno avanti. Protagonisti designati dell’una e dell’altra impresa, gli assi Arturo Ferrarin e Carlo Del Prete. L’incontro fra i due aviatori avvenne al Grand Hotel di Roma durante il banchetto ufficiale per il ritorno del “Santa Maria” di Francesco De Pinedo. In materia di viaggi aerei, Del Prete aveva le sue idee e le sue fantasie, influenzato forse dalle teorie del “maestro Francesco”, come chiamava De Pinedo, e dal fatto che a quei tempi gli idrovolanti erano le macchine più resistenti e sicure; sognava, in effetti, di compiere un periplo dell’Africa con un idrovolante e raccontò i suoi programmi all’amico Ferrarin il quale, a sua volta, ne parlò con Mussolini, in linea di massima perfettamente d’accordo. I due piloti puntavano però su due macchine diverse, Del Prete sul Dornier Wal, con motore Isotta Fraschini, e Ferrarin su un altro aeroplano, dato che il Dornier, a suo giudizio, era una macchina troppo pesante. Lindbergh, nel frattempo, aveva attraversato l’Atlantico con un volo che, per le sue caratteristiche di follia aveva offuscato la fama di tutti i raids precedenti. L’ambiente aeronautico era giustamente a rumore e l’ingegnere Marchetti, che fino ad allora aveva costruito macchine di grande prestigio, disse esplicitamente che si sentiva in grado di fabbricare un velivolo capace di emulare l’impresa dell’aviatore americano. Fu così che nacque l’idea di una nuova trasvolata atlantica da realizzare a tamburo battente, come risposta all’exploit del “pazzo volante”. Ferrarin si decise a tentare il volo per il Sud America anche perché la Camera di Commercio di San Paolo aveva offerto un premio per l’apparecchio che, munito di motore italiano, fosse riuscito a compiere in un’unica tappa, il tragitto da Roma alla costa brasiliana. La partenza fu decisa fra gennaio e febbraio perché il freddo avrebbe facilitato il “distacco” dell’aereo ma i lavori della pista si protrassero fino ad aprile, cosicché i due piloti dovettero iniziare la loro impresa in condizioni di tempo sfavorevole e non potevano perciò raggiungere Rio de Janeiro, com’era nei loro progetti. Gli allenamenti furono lunghi e severi; Ferrarin diceva, scherzando, che aveva acquistato la vista crepuscolare dei gatti e, difatti, era così abituato al buio, che una sera se ne andò in aereo da Roma a Milano in frac, per partecipare ad una festa da ballo alla quale era stato invitato anche il Principe di Piemonte. L’aereo del raid, per la sua struttura tutt’altro che ortodossa, era un azzardo ed una sfida alla tradizione. Aveva l’aspetto di un’ala volante. Guidoni, appena lo 121 Storia dell’Aeronautica vide, disse che con qualche modifica alla cabina (l’aveva infatti tozza e stretta) sarebbe potuto diventare un ottimo bombardiere a lungo raggio. Finalmente arrivò anche la luna ed il 31 maggio, poco dopo le cinque del mattino, avvenne la la partenza da una zona compresa fra Anzio e Civitavecchia. L’aereo si mosse lentamente: era carico da scoppiare e tendeva a sbandare. Si staccò a cento metri dalla fine della pista. Il record che, in attesa del balzo transoceanico, Del Prete e Ferrarin si accingevano a battere, apparteneva agli americani Haldeman e Stinson, i quali avevano volato ininterrottamente per 53 ore e 37 minuti. Le prime ore furono le più lunghe. Ferrarin e Del Prete pilotavano a turno, ma il sonno era quasi impossibile, poiché il rumore del motore avrebbe svegliato un morto. Per di più, accanto al lettino passavano i tubi del radiatore, che bruciavano come tubi di stufa. Il volo terminò il 2 giugno, dopo 58 ore, 43 minuti e 26 secondi; in tutto, i due piloti avevano percorso 7.666 chilometri e 617 metri, alla velocità media di 139 chilometri orari. Quando scesero dall’aereo, sia l’uno che l’altro erano sordi ed avevano le gambe ripiegate come le stecche di un metro tascabile. Grande record, ma l’eco mondiale provocata dalla tragedia di Nobile non tendeva ad attenuarsi. I superstiti erano vivi? Fra gli aviatori giunti in soccorso c’erano Umberto Maddalena ed il maggiore Pier Luigi Penzo, il quale, durante il viaggio di ritorno dallo Spitzbergen, precipitò nella valle del Rodano. Con Penzo, le vittime degli ardimentosi accorsi alla ricerca della Tenda Rossa salirono a 7 e fra loro ci fu anche Ronald Amundsen che, dopo il volo riuscito del “Norge”, pago dei successi conseguiti, aveva dichiarato conclusa la sua attività di esploratore polare. Mette obbligo a questo punto citare un episodio che riguarda direttamente Italo Balbo, allora Capo dell’Aviazione, e Umberto Nobile, comandante della sfortunata spedizione artica. Non so se favorita dallo stesso Nobile oppure messa in giro dai suoi sostenitori, molti anni dopo saltò fuori la voce che, per motivi di gelosia, Balbo avrebbe intralciato le opere di soccorso con il proposito di demolire il presunto rivale. Una lettera di Italo Balbo, però, in data 12 giugno 1928, indirizzata a Mussolini ed il cui contenuto non fu mai pubblicato, rivela quale fosse il pensiero del Quadrumviro ed i propositi della vicenda polare. La lettera inizia con informazioni riguardanti la sua partenza per Marina di Pisa per assistere ai preparativi di decollo di un Donnier, fissato all’alba del giorno seguente. I piloti prescelti erano Penzo ed il tenente Crosio. Ad un certo punto la lettera al Duce diceva: “Mi permetto poi di richiamare la tua attenzione sul problema della divulgazione delle notizie. In questi giorni a Roma c’è stata la ridda delle edizioni speciali che montano il disastro. Le persone serie approvano pienamente l’atteggiamento del Ministero e dicono che se Nobile avesse ascoltato Te e gli organi ufficiali dell’Aeronautica non ci troveremmo in questi guai. Se Tu credi che un gesto sia opportuno anche come diversivo per l’attenzione del pubblico, io sono prontissimo a sostituire il secondo pilota ed a partire domattina con Penzo per la Baia del Re ... D’altra 122 parte, credo che la mia presenza allo Spitzbergen non sarebbe inutile...”. Mussolini vietò a Storia dell’Aeronautica Balbo di andare, e l’aereo del povero Penzo cadde durante il viaggio di ritorno; nel disastro morirono i due piloti. Proprio in quei giorni era stato annunciato che la Tenda Rossa aveva stabilito un contatto con la nave “Città di Milano”, ancorata nella Baia del Re. Per le ricerche accorse anche Maddalena. Il suo fu un volo particolarmente difficile; nebbia e piovaschi non davano tregua; attraversò la Lapponia, mai sorvolata prima di allora e navigò per lungo tratto alla cieca, in un cielo bianco come il latte. Il primo tentativo di raggiungere la King’s Bay andò a vuoto. Maddalena però non cedette e ritentò qualche giorno dopo. Nella stessa circostanza era partito anche il Latham 47 pilotato dall’asso francese Guilbaud, con a bordo Amundsen. L’aereo scomparve, forse si inabissò nel Mare di Barents, ma forse per rispetto alla leggenda del grande esploratore, il solo che raggiunse entrambi i Poli, se lo inghiottì il cielo, per trasformarlo in uno di quei fantastici mostri alati che popolano le storie degli eschimesi del Grande Nord. Volo dopo volo, Maddalena, che si era ripromesso di non tornare indietro se non avesse trovato i naufraghi, ebbe il premio che si meritava: “Li sorvolai una prima volta senza vederli - riferì - ma con l’aiuto di Dio finalmente scorsi la Tenda Rossa”.La tragedia artica era finalmente giunta all’amen. Tolta l’incresciosa vicenda polare, il 1928 fu un anno di successi. In primo luogo l’Italia era alla testa di tutti i Paesi per la produzione di aeroplani le cui qualità abbassarono drasticamente le cifre degli incidenti. Il generale americano Mitchell disse che, nell’Aviazione, l’Italia era la meglio attrezzata di tutte le nazioni del mondo. Conquistato il primato di distanza in circuito chiuso, Ferrarin e Del Prete puntarono ad un altro record, di gran lunga più impegnativo, raggiungere, cioè, con un volo senza scalo, le coste del Brasile e battere così i primati precedenti appartenenti a Lindbergh, Chamberlin, Byrd e Brema. La partenza avvenne il 3 luglio 1928 da Montecelio. L’aereo, saturo di carburante, s’alzò a fatica e mise la prua in direzione del mare. Foschie, temporali, ribollire di nubi, di tuoni e di fulmini e, di tanto in tanto, timide apparizioni della luna, accompagnarono l’impresa che soltanto due piloti come Ferrarin e Del Prete potevano portare a compimento. Date le condizioni meteo, i due aviatori dovettero più volte cambiare rotta; ad un dato momento, diradatasi la nebbia, puntarono su Porto Natal seguendo i binari di una ferrovia che, però, ad un certo punto scomparvero per via di un tunnel. Essendo il carburante quasi alla fine, si imponeva l’atterraggio al più presto. “Cercavo un prato qualsiasi - scrisse Ferrarin nella sua relazione - ma nessuno sembrava adatto per posarvi le ruote. Fra l’altro l’aereo era pesante e, a scendere su un terreno poco solido, c’era da metterselo in testa. Ripassammo su Natal, la gente ci salutava sventolando lenzuoli. Volevo atterrare sulla spiaggia, ma Del Prete mi sconsigliò. Il vento ci sballottava senza pietà. A 150 metri da terra il motore ingoiò l’ultimo sorso di benzina. Finimmo su uno spiazzo pieno di dune, molle e viscido. Pioveva sempre a dirotto. Del Prete ed io ci guardammo, ci abbracciammo e baciammo la terra. Ci ospitò il prete. Domandò: «Da dove venite?». «Da Roma!» risposi. «Roma, la città del Papa?» ed andò a gri- 123 Storia dell’Aeronautica darlo alla folla come un miracolo”. Il giornale americano Chicago Daily Tribune, a commento dell’impresa, pubblicò una curiosa vignetta: Ferrarin in tenuta di volo con in mano tre grosse medaglie, una per il record di durata, una per quello di velocità ed una terza per il primato di distanza. Prima della partenza per l’Italia era stato deciso che Ferrarin e Del Prete avrebbero fatto un giro di propaganda nelle città del Brasile, ma l’incidente dell’atterraggio a Touros lo rese impossibile. Comunque, per tenere alta l’eco della trasvolata, con un vecchio idrovolante spedito in fretta da Buenos Aires, lo show venne organizzato lo stesso, ma durante il volo di prova la macchina andò in pezzi e Del Prete si fracassò le gambe. Ferrarin se la cavò con la rottura di due costole; per Del Prete fu necessaria l’amputazione di una gamba. Dopo l’operazione Carlino, come lo chiamavano i compagni di volo, peggiorò rapidamente. La febbre gli divorò l’ultimo filo di vita. Morì senza un lamento, sereno come un angelo. In ventidue anni l’Aviazione mondiale aveva compiuto quattro grandi traversate: quella della Manica con Bleriot, nel 1909, quella del Mediterraneo, con Garros, nel 1913, quella dell’Atlantico settentrionale con Lindbergh, nel 1927 ed infine quella dell’Atlantico meridionale nel 1928 con Ferrarin e Del Prete. Nel giugno del 1929 venne organizzata un’altra crociera di massa nel Mediterraneo orientale e nel Mar Nero, con apparecchi da bombardamento marittimo. Lo studio dell’impresa durò tutto l’inverno del 1928 e verso la primavera uomini e macchine erano a punto in maniera perfetta. Si trattava di 35 velivoli S.55 che dovevano percorrere un tragitto di 4.667 chilometri, sorvolando quattro mari. Gli aerei, con alla testa Balbo, De Pinedo e Pellegrini partirono da Taranto all’alba del 5 giugno diretti ad Atene, fecero ritorno in Patria, ammarando nel Mar Piccolo il giorno 17 e proseguendo poi per Orbetello, dove giunsero il giorno 19. Dopo l’esito positivo delle due crociere mediterranee, Balbo, che aveva una testa fervida di grandi progetti, si mise a lavorare attorno ad un piano, meditato fin dal 1928, quando cioè, insieme ad alcuni industriali ed ufficiali d’Aeronautica si era recato in America per il congresso internazionale dell’Aviazione. Il suo sogno era di compiere un volo in massa sopra l’Atlantico. 124 Storia dell’Aeronautica La centuria alata D urante la permanenza negli Stati Uniti per il Congresso internazionale dell’Aviazione, Balbo aveva avuto incontri di grande interesse con i più famosi aviatori del Nuovo Mondo. Aveva visto Lindbergh, che era l’eroe nazionale americano ed aveva discusso a lungo con Lovell, il quale, in compagnia di Smith e di Arnold, aveva volato da Londra a New York sulla rotta delle Orcadi, dell’Islanda, della Groenlandia e del Labrador. Un giorno, a Chicago, mentre dall’alto di un grattacielo, insieme ad un amico, ammirava la città e la baia che sembrava disegnata col compasso, Balbo disse: “Non sarebbe forse una cosa magnifica arrivare a Chicago in volo? Mi pare di vederla, una squadriglia che arriva in formazione di là - ed indicò il mare aperto - e ammara in questo splendido specchio d’acqua ...”. Dopo un attimo aggiunse: “Non una squadriglia, magari due, tre; uno stormo intero!”. Durante il viaggio di ritorno con il “Conte Grande” in compagnia dell’inseparabile Cagna, Balbo si mise a studiare le carte nautiche e a discutere di scali e di rotte come se l’impresa fosse già stata decisa. In realtà nella sua testa, mai sazia di pensieri grandiosi, il piano era già pronto. Appena a Roma, cominciò infatti ad esaminare direttamente tutti i problemi della crociera. In primo luogo occorreva il mezzo tecnico per l’impresa e, sebbene l’industria di allora avesse sfornato macchine eccezionali, non aveva ancora prodotto un velivolo in grado di superare una traversata tanto rischiosa. Mancava inoltre il personale addestrato alle lunghe navigazioni e fu per sopperire a tale mancanza che Balbo creò ad Orbetello la Scuola di Alta Navigazione,e sul tipo di quella che esisteva a Desenzano per l’alta velocità. Naturalmente volare a gruppi, per tappe lunghe e difficili significava moltiplicare i rischi, ma Italo soltanto così concepiva la crociera: un grande volo d’insieme, frutto di abilità ed anche di disciplina. La sua idea fissa era che l’aviazione, liberata ormai dal complesso delle “prime donne” doveva fornire piloti capaci di affrontare qualsiasi cimento, preparati alla perfezione per il volo veloce, per quello acrobatico e per quello, più impegnativo, sulle lunghe distanze. Il 1º gennaio 1930 cominciò il lavoro per organizzare il raid che prevedeva la trasvolata dell’Atlantico del Sud, da Bolama, nella Guinea, a Porto Natal, nel Brasile. Per i piloti fu istituito un sistema di vita conventuale. I 64 aviatori prescelti s’addestravano in gran segreto ed il Governo smentiva sistematicamente tutte le indiscrezioni che apparivano sulla stampa estera a proposito dell’impresa. 125 Storia dell’Aeronautica Cagna, intanto, venne mandato a Bolama con un S55 per eseguire esperimenti di decollo nella baia e per provare i motori nei climi caldi ed umidi. Il volo risultava di 10.400 chilometri; la partenza fu fissata per il 17 dicembre. La mattina del decollo, il cielo aveva il colore del fumo. Nel silenzio dell’alba, il suono della tromba che salutò l’alzabandiera parve il segnale di una carica. In realtà era il segnale dell’attacco all’Oceano. Fino a Bolama tutto filò tranquillo; a Bolama, gli “Atlantici” trovarono un tempo proibitivo. Il cielo era basso, l’aria afosa, scossa da piovaschi rabbiosi. Per arrivare sull’altra sponda dell’Atlantico con un filo di luce, bisognava partire dalle coste della Guinea in piena notte e un decollo in simili condizioni, più che temerario, era considerato pazzesco. Dopo un paio di rinvii a causa del tempo Balbo decise di partire nella notte fra il 5 ed il 6 gennaio 1931. La luna, nonostante avvisaglie di miglioramenti meteorologici, si ostinava a non uscire. Le navi d’appoggio dell’ammiraglio Bucci avevano già salpato da Bolama dove, in rada, era rimasta soltanto la nave “Alice”, che assicurava il ponte radio con Roma e con gli aerei in volo. Il decollo delle squadriglie avvenne verso l’1.30 del 6 gennaio; al momento della partenza, il velivolo del capitano Boer andò distrutto e l’incidente rimase un mistero. L’idro di Recagno, invece, ricadde subito dopo il distacco ed uno degli scafi si sfasciò. Nella formazione mancava anche l’apparecchio di Valle, ma si trattò di un semplice ritardo nel decollo, dovuto al sovraccarico di benzina. Valle ne scaricò una parte, partì e, al termine di un veloce inseguimento, riuscì a raggiungere il gruppo. In volo erano rimasti pertanto 11 aerei che procedevano a tutta andatura. Dopo le 18 ore trascorse sull’Oceano nudo, nella luce svaporata dell’ultimo crepuscolo, gli aviatori atlantici videro la vegetazione accigliata e prepotente delle coste brasiliane e le luci di Porto Natal. L’accoglienza superò ogni aspettativa e l’impresa sbalordì il mondo. L’Atlantico, infatti, nella fantasia popolare, era pressappoco come la Sfinge, uno degli enigmi dell’universo. Fu tanto l’entusiasmo degli Italiani che perfino i fuorusciti dell’associazione “Leale Oberdan” invitarono Balbo ad un banchetto, ed uno di essi, durante il pranzo alzò il bicchiere e gli disse: “Se in Italia sono tutti come te, riferisci a Mussolini che anche noi siamo diventati fascisti!”. Non era ancora terminato il raid in Brasile che il Quadrumviro ne sognava un altro più grandioso, un giro, cioè, attorno al mondo che però non fu possibile per via dell’improvviso scoppio della guerra cino - giapponese. “Caduta la prospettiva di compiere il giro del mondo disse Italo ai suoi collaboratori - faremo il volo Roma - Chicago, in maniera da arrivare 126 in America per l’Esposizione Universale e per lo scoprimento del Monumento a Cristoforo Co- Storia dell’Aeronautica lombo”. In quegli anni, fino al 1938, la perdita e la riconquista di un record erano fatti, per così dire, all’ordine del giorno. La competizione era serrata in tutti i campi, velocità, distanza, autonomia, carico, altezza eccetera. Maddalena e Cecconi strapparono ai francesi il primato di distanza in circuito chiuso, già posseduto da Ferrarin e Del Prete; Antonini, collaudatore della Caproni, conquistò il record d’altezza e durata con un carico di 10.000 chili, mentre il 12 gennaio 1933 sul campo di Centocelle, il capitano Raffaele Colacicchi volò rovesciato per 41 minuti e 37 secondi, migliorando di oltre 27 minuti il singolare primato appartenente al francese Detroyat. Colacicchi, com’era d’altronde consuetudine fra “cacciatori di primati”, dovette cedere il record allorché venne attaccato dal tenente Bocola, della squadriglia acrobatica del colonnello Fougier, il quale, a sua volta, si trovò costretto a passare lo scettro al pari grado tenente Tito Falconi che, trovandosi a Los Angeles, strappò il record ben due volte, battendo l’americano Burcham, anche se questi usava l’aereo come un acrobata del circo usa il trapezio, volando a testa in giù per 3 ore, 6 minuti e 39 secondi. Conclusa la Coppa Schneider con la vittoria definitiva degli inglesi a Calshot, a Desenzano i velocisti si preparavano per riconquistare il primato mondiale di velocità, portato dal pilota britannico Stainford a 655 chilometri orari. Balbo, che in un suo libro aveva scritto, fra l’altro, che “l’arma azzurra è fatta di galoppate verso l’impossibile”, teneva in maniera particolare a questo record. L’uomo designato dal colonnello Bernasconi per il tentativo fu il sottufficiale Francesco Agello. Il 10 aprile 1933 fu la grande giornata. Agello, dopo aver fiutato l’aria per oltre una settimana, concluso un giro di ricognizione lungo il percorso, disse: “Si può andare. Sono pronto! ...”. Taciturno com’era, sotto la spinta dell’emozione, aveva detto un paio di parole in più. Dopo un lento flottaggio, l’idrocorsa Macchi Castoldi M72 si staccò dall’acqua come una saetta. Ad ogni passaggio il pilota forzava l’andatura e, senza difficoltà, raggiunse i 682,403 chilometri orari, che l’anno seguente portò a 709,205 stabilendo un record rimasto imbattuto fino all’avvento dei reattori. A Roma, intanto, si parlava con insistenza di una nuova grande crociera, ma nessuno conosceva in realtà i veri progetti di Italo Balbo. Si sapeva che “pizzo di ferro”, così veniva chiamato Balbo Francesco Agello per via di un pappafico aguzzo e spavaldo, 127 Storia dell’Aeronautica faceva sogni che rasentavano l’assurdo, ma soltanto pochissimi collaboratori conoscevano con esattezza che cosa bolliva nella sua testa. L’aereo prescelto per il raid fu lo stesso della crociera precedente, l’S55, ma con qualche ritocco che gli aveva permesso di aumentare l’autonomia di circa 1.000 chilometri e la velocità di 50 chilometri orari. Gli equipaggi furono selezionati con criteri nuovi; di proposito Italo escluse gli assi e volle piloti in possesso di normali qualità che si richiedevano a tutti gli ufficiali del ruolo naviganti. Fra i 200 convocati ne furono scelti 100, i quali iniziarono la preparazione tecnica sotto la guida di Maddalena, adottando, fra l’altro, la novità del volo a tendina, o volo alla cieca. Purtroppo, durante la fase iniziale venne a mancare Umberto Maddalena, che cadde nel cielo di Pisa, con l’inseparabile Cecconi, mentre volava con un aereo costruito apposta per battere il primato di distanza in linea retta. Nel comando scuola, lo sostituì il generale Pellegrini. A conclusione dei preparativi, Balbo disse: “Tentiamo di andare in America con un gruppo di 24 idrovolanti. Ho detto di proposito tentiamo, perché mi rendo conto delle numerose difficoltà. Se le condizioni meteorologiche saranno proibitive, anziché forzare la sorte e compiere follie, volteremo le prue e torneremo in Italia. La nostra non è un’impresa da pazzi, è un volo studiato, calcolato ed organizzato con criteri assolutamente realistici”. La centuria alata partì nella notte fra il 30 giugno ed il 1 luglio 1933 dalla solita laguna di Orbetello. Quella mattina anche il Papa volle far sentire la sua paterna parola: “Sono partiti - esclamò - per una missione di pace. Possa Iddio benedire i loro sforzi ed assisterli durante il viaggio”. Il decollo avvenne alle 5.39; in testa volava la squadriglia di Italo Balbo. Di tappa in tappa i 24 apparecchi puntarono su Shediac, una località di circa 1.000 anime, che però il giorno dell’arrivo degli atlantici divennero 30.000, accorse da ogni angolo del Canada. Il 15 luglio 1933, dopo due settimane dalla partenza dall’Italia, la formazione giunse in vista di Chicago. Erano le sei del pomeriggio; il sole aveva il colore e l’intensità della fiamma. La discesa nel Lago Michigan fu una manovra compiuta con una tecnica da manuale. Sulle rive del Michigan c’erano 1.500.000 persone, gli Italiani d’America erano felici ed orgogliosi. Il ricevimento ufficiale avvenne allo Stadio “Soldier Field”. Il Presidente Roosevelt inviò un telegramma che diceva: “Vi prego esprimere al generale Balbo ed agli intrepidi suoi compagni la mia grande ammirazione e le mie sentite congratulazioni per il trionfale successo del volo transatlantico. La loro impresa, caratterizzata da un’accurata preparazione scientifica, segna un passo importante 128 nel progresso della conquista dell’aria. Siano i nostri benvenuti.”. Storia dell’Aeronautica Il Cardinale Mundelein, Arcivescovo di Chicago, lesse il messaggio del Cardinale Eugenio Pacelli, Segretario di Stato, trasmesso a nome del Pontefice: “Vogliate portare al generale Balbo e compagni con le congratulazioni del Santo Padre e la sua benedizione, mentre egli prega che si estenda al felice ritorno dei trasvolatori il divino aiuto da essi fin dalla partenza invocato”. La 7ª Strada venne battezzata, e lo è tuttora, “Balbo Avenue”, mentre l’America, per celebrare l’impresa che i giornali ad una voce definirono “la più spettacolosa compiuta in tempo di pace”, decretò un “Balbo’s day” che per il senso storico dell’avvenimento, doveva accoppiarsi La parata in onore dei trasvolatori italiani nel 1933 alla giornata dedicata a Cristoforo Colombo. Per non essere di meno di Chicago, New York concesse agli aviatori il celebre e tradizionale trionfo su quella specie di pittoresco palcoscenico che è Broadway. Dalle finestre pioveva, sul lento corteo delle macchine, una pioggia di coriandoli, di volantini e di stelle filanti. Balbo ebbe le chiavi della città e gli Indiani, imponendogli una superba raggiera di piume, lo nominarono “Aquila Volante”. Anche il Times di Londra si unì al coro di elogi dei giornali americani. A firma del Commodoro dell’aria J. A. Chamier, scrisse: “Signori, voi annunciate il fortunato volo di 24 idrovolanti attraverso l’Atlantico settentrionale su una tappa di 1.500 miglia. È opportuno ricordare ai nostri lettori che noi non potremmo radunare 24 idrovolanti mettendo a contributo le formazioni di tutto l’Impero e che è pure dubbio che anche 4 idrovolanti siano oggi in grado di effettuare un volo senza scalo di 1.500 miglia. Questa posizione non è certo soddisfacente per la prima potenza marittima del mondo”. Il 25 luglio ebbe inizio il viaggio di ritorno, comprendente una seconda traversata 129 dell’oceano, che si concluse a Roma il 12 agosto del 1933. Storia dell’Aeronautica Il giorno dell’arrivo la Capitale si svegliò in festa. La folla con tutti i mezzi disponibili si incamminò ad Ostia, dove nel pomeriggio erano attesi gli atlantici. Era un caldo, sanguigno tramonto romano, il cui colore ricordava le tinte di miracolo della vetrata di S. Pietro con la discesa dello Spirito Santo. Ad un tratto in lontananza si vide la sagoma di un velivolo, poi ne spuntò un secondo, poi un terzo, e via via tutti gli altri fino a che il cielo ne fu pieno. Ci fu l’abbraccio di Mussolini, l’apoteosi sulla via imperiale, sotto l’Arco di Costantino e per Italo Balbo la nomina a Maresciallo dell’Aria. Quella della centuria alata fu l’ultima impresa eroica sull’Atlantico; ormai anche l’Oceano non aveva più segreti e l’arte del volo, a sua volta, aveva perduto l’affascinante carattere di arte magica. 130 Storia dell’Aeronautica Piloti di guerra D opo i trionfi dell’estate, il grave lutto dell’autunno 1933. Il 2 settembre, infatti, sul campo municipale di Floyd Bennet, nei pressi di New York, mentre tentava di partire per un volo senza scalo dall’America a Bagdad, morì Francesco De Pinedo, l’asso dei viaggi solitari attraverso i cieli di tutto il mondo. La sciagura fu fulminea. Quel giorno a Floyd Bennet l’aria era calda e densa. Alle sette precise De Pinedo diede motore e lanciò il suo Bellanca, zeppo di benzina, sulla lunga pista di cemento. Dopo aver rullato per oltre un chilometro senza riuscire a sollevarsi, verso il limite del corridoio d’involo, nei pressi di una cancellata che si trovava davanti alla palazzina del comando, l’aereo sbandò paurosamente ed uscì nel prato, dirigendosi verso un gruppo di spettatori impietriti dalla paura. Il pilota, con una brusca manovra, tentò di richiamarlo, ma il velivolo sbandò di nuovo e andò ad investire la cancellata. Fu come l’esplosione di una bomba. Con uno sforzo disperato De Pinedo tentò di lanciarsi dall’apparecchio divenuto un falò, ma non riuscì a superare il muro di fuoco. Lo trovarono a pochi metri dalla macchina, carbonizzato. Chi lo vide pochi giorni prima della sciagura, raccontò che Francesco aveva il presentimento della disgrazia e tale sensazione gli si leggeva sul viso, diventato cupo ed ombroso. L’Italia incassò la ferale notizia giunta dall’America e tornò presto ad entusiasmarsi per i nuovi, clamorosi primati conquistati dai suoi aviatori. Coppe e trofei non si contavano più. A Montecelio, nei dintorni di Roma, era sorto una specie di politecnico del volo dove, fra formule e motori, in un ambiente di magia, venivano preparati gli uomini e gli aerei per la conquista dei grandi record. Più che un laboratorio per lo studio dei problemi del momento, il centro di Montecelio, che a ricordo del generale Guidoni, morto durante la prova di un paracadute, venne poi battezzato Guidonia, date le sue modernissime attrezzature, fra cui una galleria aerodinamica come non ne esistevano al mondo, poteva considerarsi l’Università del futuro. In altre parole, il centro spaziale degli anni Trenta. A Guidonia, sul tipo di quella di Desenzano per l’alta velocità, era nata una scuola per l’alta quota, poiché fra i primati da conquistare c’era, per l’appunto, quello di altezza, difeso con particolare accanimento dai francesi. Nella prova si cimentarono due eccezionali piloti, prima Renato Donati, avvezzo alle scalate della stratosfera, poi, tre anni dopo, Mario Pezzi. Donati aveva cominciato gli allenamenti ai primi di gennaio e praticamente viveva a Guidonia e dormiva accanto all’hangar in attesa che il tempo mettesse giudizio ed arrivasse la tanto attesa schiarita. La mattina dell’11 aprile finalmente il vento si portò via le nubi e l’aria diventò chiara e trasparente. Il prato di Montecelio, ancora nero di pioggia, odorava di primavera; fra l’erba erano spuntati i ranuncoli. Salito a bordo del Caproni 113, costruito apposta, chiuso 131 Storia dell’Aeronautica nella tuta termoelettrica, il pilota attendeva che i meccanici sistemassero nella carlinga le provviste di ossigeno, vale a dire il “pasto” per il volo. Appena partito, l’aereo si impennò e puntò in alto, in direzione di Tivoli. Più che salire, il Caproni si arrampicava, annaspando nell’aria con le sue “zampe” scarne. Rispuntò in una chiazza d’azzurro alle 12,45; scendeva adagio, dondolando in maniera irregolare. Quando toccò il prato, rimbalzò e, anziché rullare normalmente, cominciò a girare su se stesso, come privo di guida. In effetti, il pilota era svenuto e con una gamba irrigidita premeva sui pedali. Le prime parole che disse, appena si riprese, furono senza senso. Aveva gli occhi fissi e smorti: era sbronzo d’ossigeno fino ai capelli. Era salito a 14.433 metri, battendo di 772 metri il primato del francese Lemoin. In 25 anni, dai 453 metri di Latham, il record d’altezza era stato portato nella stratosfera. Mentre a Desenzano, alla scuola d’alta velocità, Francesco Agello, rimandando da un mese all’altro il proprio matrimonio, si preparava per l’assalto definitivo al primato di velocità conquistato il 23 ottobre ad una media di 709,202 chilometri orari, anche una donna, la marchesa Carina Negrone, una bella ragazza bruna di 24 anni, dagli occhi accesi e vivaci, con il naso sottile e la bocca ben cesellata, il 20 giugno del 1935, ai comandi di un aereo speciale, a Montecelio, si aggiudicò il record mondiale di altezza, superando i 12.000 metri e togliendolo alla “scalanubi” del momento, la francese Marisa Hilz. Quattro mesi dopo l’impresa di Carina Negrone scoppiò la guerra con l’Etiopia. L’Aeronautica attraversava un periodo di crisi poiché gran parte del materiale di volo era in via di sostituzione o di rinnovamento. Molti aerei erano ormai alle soglie della vecchiaia; per via di un lungo, onorevole stato di servizio, erano diventati macchine dal fiato corto e dalla resistenza limitata, specie in previsione di un conflitto duro e per la mancanza di basi; in Eritrea, infatti, fu necessario costruire 29 aeroporti ed in Somalia ben 54, con relativo materiale, indispensabile per il funzionamento di un apparato di volo di circa 500 aeroplani. Secondo i critici militari, la campagna etiopica doveva essere lunga ed aspra; la guerra durò invece sei mesi ed il merito di tale rapidità fu per l’ottanta per cento dell’Aeronautica, la quale, dal primo all’ultimo giorno del conflitto, tenne sotto controllo i movimenti dell’avversario, ne attaccò e disperse i reparti e provvide, con estenuanti e metodici voli di ricognizione, a risolvere il mistero dell’Etiopia, paese quasi sconosciuto. I protagonisti furono uomini e macchine, ma mentre il nome degli uomini, per mancanza di combattimenti impetuosi venne talvolta dimenticato, quello degli aerei rimase sempre vivo e presente: Caproni 133, i nuovi trimotori S 81, i veloci Ca 111, Ro 37 ed i caccia CR 20. In sette mesi, i 500 aerei che parteciparono alla guerra etiopica fecero 7500 voli e tennero il cielo per oltre 41.000 ore. I bombardieri portarono a termine 637 missioni, spesso a quote minime, impiegando oltre le bombe, le mitragliatrici di bordo, mentre la ricognizione svolse 1.710 operazioni tattiche e 132 762 esplorazioni lontane, volando per circa 3.000 ore. In Etiopia, l’insidia era dap- Storia dell’Aeronautica Caproni 133 sul campo di Macallè in Etiopia pertutto: gli occhi degli osservatori e dei piloti si perdevano fra montagne e vallate che erano abissi. Spesso non si notavano tracce di uomini, né segni di accampamenti, eppure gli uomini c’erano, spesso numerosi come le termiti, nascosti nelle boscaglie o nelle crepe del terreno. Il caldo creava sbarramenti pericolosi e rendeva oltremodo difficili i decolli; i voli sulla Dancalia furono una sofferenza per i piloti e per gli aerei. Non esisteva zona più selvaggia e deprimente in tutta l’Afri- ca. I monti erano franati ai bordi della pianura come per effetto di un cataclisma; la terra era calda, arroventata. Chi si avventurava sulla Dancalia, in caso di avaria metteva in bilancio tre ipotesi, due delle quali senza via di scampo. Cadere cioè in sulle montagne e finire in mano agli abissini CR 20 che sgozzavano senza pietà, o precipitare nella piana salata e morire lessato dal sole e divorato dalla sete. Chi invece aveva con sé la fortuna poteva atterrare alla bell’e meglio nella zona del Birù dove si trovavano alcuni capisaldi italiani e salvarsi. Ma il pericolo dei razziatori Uollo - galla era comune a tutti e tre i posti, giacché gli Uollo - galla erano quei guerrieri che non potevano prendere moglie se prima non avevano ucciso un certo numero di nemici, di cui portavano al collo ambiziosi trofei. Nella storia della guerra etiopica restano memorabili i bombardamenti in massa compiuti a Mai Mescix, Abbi Addi, Quoram, Amba Alagi, Dessié, Neghelli, Giggiga, Harrar, Sessabaneh e Gorrahei, ed anche il rifornimento in volo, quando si profilò urgente la necessità di bombardare Neghelli, dove Ras Destà aveva concentrato un forte esercito con il quale si proponeva di aggirare alle spalle lo schieramento italiano e di marciare su Mogadiscio. Data la difficoltà della missione, Graziani radunò gli aviatori e disse loro: “So che chiedo l’impossibile, ma ve lo chiedo lo stesso ... I consiglieri europei hanno detto a Ras Destà che non ce la faremo. A voi l’ultima parola! ...”. Fu compiuta qualche prova, che fallì; alcuni piloti si offersero come volontari suicidi, ma, proprio mentre veniva esaminata quel- 133 Storia dell’Aeronautica la generosa offerta, gli specialisti, con una trovata geniale, fornirono al Comando la chiave del successo. Si trattava di un grosso imbuto di metallo con uno strano tubo a doppio gomito che avrebbe permesso, con riserve di bordo, di rifornire i Caproni durante il volo. La trovata ebbe del miracoloso. L’azione venne organizzata nel corso della notte. Gli equipaggi furono ridotti a tre persone, per lasciare posto alle bombe, agli spezzoni ed alla benzina; 15 Caproni presero il cielo e con il favore del vento arrivarono in anticipo sull’obiettivo. I bersagli si trasformarono ben presto in roghi. Nei cieli d’Etiopia non ci furono i Baracca, i Ruffo, i Piccio, gli Scaroni, i Dell’Oro, gli Ancillotto, ma La conquista dell’Amba Alagi cionostante la guerra volle i suoi morti celebrata sulla Domenica del Corriere e pretese molti sacrifici. Alcuni aviatori, come Minniti e Locatelli, sostennero a terra, accanto ai loro velivoli, il combattimento che gli era stato negato in cielo. Minniti, infatti, partito da Gorrahei per una ricognizione su Dagabur, caduto in territorio nemico, si difese con l’arma dell’aereo fino all’ultimo colpo. Ridotto come San Sebastiano per le numerose ferite, venne decapitato. La sua testa, conficcata in cima ad una picca, fu portata in giro da un villaggio all’altro come una bandiera di vittoria. Locatelli, asso della prima guerra mondiale, medaglia d’oro, volatore su Vienna e trasvolatore delle Ande all’epoca dell’Aviazione eroica, morì nell’eccidio di Lekempti il 26 giugno del 1936, mentre con il generale Magliocco ed altri ufficiali si recava a ricevere la sottomissione di un capo indigeno. Il cielo era ancora caldo per la guerra etiopica che in Spagna cominciò un rivoluzione che, in breve tempo, si tramutò in conflitto internazionale. Si può dire che la rivoluzione spagnola fu iniziata in aereo poiché furono per l’appunto 12 trimotori italiani da bombardamento che, al comando del tenente colonnello Ruggero Bonomi, aiutante di volo di De Pinedo, attaccarono le navi repubblicane a Gibilterra e protessero lo sbarco ad Algeciras delle prime truppe franchiste provenienti dal Marocco. Partito da Elmas, in Sardegna, Bonomi arrivò a Melilla con nove aerei, degli equipaggi facevano parte ufficiali del Reparto d’alta quota, Ettore Muti, ufficiale di complemento, 134 ed il giornalista aviatore spagnolo Bolin. I velivoli erano stati richiesti da Franco per Storia dell’Aeronautica bilanciare l’arrivo in zona rossa di 13 bombardieri Potez 54, inviati via mare, da Marsiglia e di altri 12 apparecchi, giunti in volo con equipaggi francesi. Come in una storia cinematografica, gli aviatori italiani si arruolarono nel “Tercio”, che era la Legione Straniera spagnola, e presero nomi di battaglia, scelti a caso. Dalla parte di Franco c’erano i bombardieri, ma mancava la caccia ed era come dire che c’era il martello ma mancava il manico. I primi dodici CR 32, con altrettanti piloti ed otto specialisti, arrivarono dall’Italia il 14 agosto 1936 e si sistemarono a Siviglia. La presenza di velivoli francesi sembrò dare al tempo una spinta all’indietro; i voli ed i duelli parevano quelli della vecchia guerra mondiale, i nomi delle macchine erano pressappoco gli stessi ed identici, per ardimento, parevano i piloti. Fu in quei giorni che i “mori” di Franco battezzarono i nostri velivoli “Cucarachas”, vale a dire grossi scarafaggi neri con le ali. Come all’epoca lontana dei combattimenti nel cielo del Carso, del Montello e della Bainsizza, anche in Spagna si cominciò a parlare di assi. Il tenente Adriano Mantelli, di Parma, che combatteva sotto il nome di Arrighi, diventò l’uomo, anzi il Baracca del momento. Il 10 novembre conseguì la prima vittoria contro un Nieuport; sei giorni dopo vinse il secondo duello, poi il terzo, il quarto ed il quinto, che fu una clamorosa doppietta contro due bombardieri del tipo Potez 54. Un giorno, in assenza del comandante di reparto, toccò a Mantelli presentare al Caudillo il gruppo degli italiani. Quando Franco espresse l’intenzione di elargire premi in denaro ai più valorosi, Mantelli ribattè: “Mi General, nosotros estamos aqui para luchar al comunismo, y no por hacer plata (siamo qui per lottare contro il comunismo e non per guadagnare denaro)!” Un altro pilota di cui le cronache della guerra spagnola si occuparono a lungo fu il cacciatore Ernesto Botto, il leggendario “gamba di ferro”. La storia di Botto cominciò un giorno in cui gli aviatori legionari erano in caccia libera, alla ricerca di prede nel gran pascolo delle alte quote. La comparsa dei caccia nemici diede luogo ad un carosello indemoniato. All’improvviso Botto sentì una forte esplosione nel pozzetto di pilotaggio e si trovò in vite. Il dolore era inaudito, davanti agli occhi aveva il buio. L’aereo filava verso terra come attirato da una calamita. Botto, quando si riebbe, diede un’occhiata in basso e vide che la gamba destra non era più sulla pedaliera: una pallottola esplosiva gli aveva frantumato l’arto. Raccolse il piede reciso e lo mise sul seggiolino; al posto del piede legò una correggia con la quale potè azionare il timone e rimettere il velivolo in assetto di volo... Scavalcò l’Ebro e puntò sul campo di Sanjurjo; era senza freni, un proiettile gli aveva spezzato i tiranti e bucato il ruotino di coda. Di vivo, il pilota aveva soltanto gli occhi, sbarrati e lustri, il fiato gli stringeva la radice della gola. Lo salvarono all’ospedale di Saragozza; nel suo stato di servizio aveva 123 voli di guerra, una medaglia d’oro al valor militare e venti velivoli nemici abbattuti. Uno degli episodi più clamorosi della guerra aerea in Spagna fu quello che accadde nell’isola di Majorca, protagonista il maggiore pilota Luigi Gallo. Sull’isola era sbarcato un presidio 135 Storia dell’Aeronautica repubblicano. Durante la notte, prima dei repubblicani, nel porto di Palma era giunto un piroscafo italiano con a bordo alcuni apparecchi da caccia, che vennero montati prima dell’alba. Appena uno di essi fu pronto, Gallo partì e, da solo, nel giro di neanche un’ora, mise fuori combattimento tutti gli aeroplani nemici. Il conflitto spagnolo durò 32 mesi; la guerra aerea finì il 5 febbraio 1939, allorché il gruppo “Asso di Bastoni” piombò sul campo di Villajvilga, nei pressi della frontiera francese, e distrusse gli ultimi 28 aerei repubblicani. Storia semplice, vera, senza abuso d’incenso.... 136 Storia dell’Aeronautica Un sogno morto in guerra C ontinua la storia del volo, con distribuzione di sogni e nostalgie. Era ancora in atto la guerra civile spagnola ed in Italia continuavano, a ritmo sempre più serrato, i successi degli uomini da record. Inghilterra e Francia superarono il primato d’altezza di Donati, raggiungendo i 15.000 metri di quota che a quell’epoca era considerata il soffitto del cielo. A ristabilire la situazione il 7 maggio del 1937 entrò in scena il colonnello Mario Pezzi il quale, con un Caproni 161 raggiunse i 15.655 metri, vale a dire che volò 432 metri più in alto di Swain, che era il recordman del momento. Seguì una corsa, basata anch’essa sulla velocità; un volo dall’Italia al Brasile, compiuto in due tappe con tre aerei terrestri S79. Alla gara parteciparono il colonnello Biseo, i capitani Paradisi, Moscatelli e Castellani ed i tenenti Mancinelli e Bruno Mussolini. Il volo, che comprendeva il passaggio di un mare, di un deserto e di un oceano, ebbe per tappe Dakar e Rio ed iniziò da Guidonia il 24 gennaio del 1938. Gli aerei erano stati battezzati “Sorci verdi”, che in altre parole significava mirabilia. Il raid non fu né facile, né liscio: vento e tempeste di sabbia prima, nubi e raffiche di pioggia dopo, misero a dura prova uomini e macchine. Come di consueto, l’oceano offrì ai piloti il suo caratteristico odore di tempesta ed un tempo infernale. Due dei tre velivoli, con un balzo solo da Dakar atterrarono a Rio, mentre il terzo, quello di Moscatelli, fu costretto ascendere a Natal per avarie ad un motore. 300.000 persone in festa accolsero a Rio de Janeiro i nostri aviatori i cui nomi si aggiunsero a quelli dei grandi trasvolatori, fra cui facevano spicco Balbo, Ferrarin, Del Prete, De Pinedo, eccetera. Intanto i venti di guer137 Il volo Italia - Brasile in un disegno di A. Beltrame Storia dell’Aeronautica ra si facevano più forti ed il 10 giugno 1940 scoppiò la guerra. La situazione della nostra Aeronautica era la seguente: 1.796 aerei di pronto impiego, 554 destinati a vario uso, 520 efficienti presso le ditte, 426 in riparazione; in tutto, 3.296 macchine, con una disponibilità di oltre 6.000 piloti. La lotta si profilò subito durissima; gli aviatori l’affrontarono dovunque con uno spirito particolare, facendo ricorso alla loro esperienza ed alla loro raffinata qualità di volatori. Era la quinta guerra combattuta in appena 30 anni. Si lottava dai deserti d’Africa alle steppe di Russia. Italo Balbo che, dopo la trionfale crociera del Nord Atlantico e la promozione a Maresciallo dell’Aria, aveva lasciato il comando diretto dell’Aeronautica, si trovava in Libia, in qualità di Governatore della Quarta Sponda, dove le forze aeree consistevano in tre stormi da bombardamento, tre gruppi da caccia ed uno d’assalto; in tutto, 250 apparecchi, di cui un terzo inefficienti. Il Quadrumviro non nascose ad alcuno le difficoltà della posta in gioco: lo disse a parole chiare a Palazzo Venezia. Da soldato valoroso e leale accettò il peso e la responsabilità del comando. Fu il primo caduto famoso dopo solo 18 giorni di attività bellica. Al ritorno da una puntata al fronte, nel cielo di Tobruk, martellata di continuo dalle bombe inglesi, successe la tragedia. Quel giorno, il 28 giugno del 1940, in seguito all’attacco di nove bimotori Blenheim, l’allarme fu più lungo del solito e talmente improvviso che la contraerea non ebbe neppure il tempo di sparare. Subito dopo l’aria fu scossa dal rumore di aerei che si avvicinavano. A terra tutti erano convinti che fossero altri Blenheim per un secondo pestaggio. Il sole era forte e l’aria tremula per il calore. Qualcuno gridò che gli apparecchi erano i nostri, altri insistettero invece che erano inglesi. Partirono comunque alcuni colpi. Uno dei velivoli, che era poi quello di Balbo, sorvolato il porto, si mise in planata. Le armi di Tobruk sparavano ormai tutte. Alle prime salve, toccato nei serbatoi, l’aereo del Maresciallo s’incendiò. Dapprima si inclinò a sinistra, poi fece un’impennata che forse l’ultimo sussulto, dopo di che precipitò sul bordo del ciglione ed esplose. Nel cielo, per un istante, rimase una scia di fuoco, lunga, profonda, come una ferita dai bordi rossi di sangue. La guerra era ancora alle prime battute quando nell’ambiente aeronautico si sparse la notizia che a Milano, sul campo di Taliedo, era stato collaudato un velivolo le cui caratteristiche si potevano definire rivoluzionarie. Come fosse il nuovo aereo, costruito dal geniale ingegnere trentino Caproni, su progetto dell’ingegnere Secondo Campini, di preciso non lo sapeva nessuno. Le voci erano che si trattava di una macchina senz’elica, ad ala bassa, con in corpo un meccanismo a turbina che forniva la spinta per il decollo ed il volo. Gli studi e la fabbricazione della nuova macchina erano avvenuti in gran segreto; una volta terminato, il misterioso aeroplano, costruito in un capannone nascosto in mezzo alla brughiera, fu portato fuori dell’hangar, affidato 138 a quel mago di Mario De Bernardi ed il 30 novembre 1941 volò da Milano a Roma, Storia dell’Aeronautica ma si trattò di un volo che fu una specie di canto del cigno, poiché la macchina, che a quei tempi aveva del prodigioso, si fermò allo stadio di prototipo. Gli aviatori erano ormai impegnati in maniera dura su tutti i fronti. Nella lontana Africa Orientale i combattimenti diventarono presto drammatici, disperati. In seguito alla lontananza dalla madrepatria, per le difficoltà dei rifornimenti, in Etiopia si combatté fino al totale esaurimento dei mezzi aerei. Allo scoppio delle ostilità, in Africa Orientale Italiana c’erano 192 velivoli efficienti; 73 si trovavano in riparazione. Dopo gli iniziali successi italiani sui quali, per la verità, Amedeo di Savoia, duca d’Aosta e Viceré d’Etiopia, non si fece mai soverchie illusioni, apparve chiaro che la sorte dell’Impero era irrimediabilmente segnata. In realtà, in Abissinia, i velivoli erano come la proverbiale Araba Fenice: ad opera dei miracoli dei meccanici, rinascevano dalle loro ceneri e ricuciti, rabberciati, rattoppati alla bell’e meglio, riprendevano il cielo e si battevano alla disperata, suscitando la meraviglia del nemico, che disponeva di aerei moderni, veloci e molto armati. In Africa Orientale sorse un nuovo Baracca, il tenente Mario Visintini, che abbattè da solo 16 aeroplani inglesi e concorse alla distruzione di altri 32. Visintini era conosciuto come il “cacciatore scientifico”; per lui infatti il duello in aria era un’opera d’arte, un lavoro di cesello. Un giorno, al termine di un’azione, vide l’aereo dell’amico Rappi che, colpito da terra, scendeva sbilenco in territorio nemico. Senza esitare gli atterrò accanto, si tolse il paracadute, sistemò Rappi sul seggiolino, gli si mise sulle ginocchia ed alla meglio riuscì a decollare ed a tornarsene al campo di Barentù. Scaricato il compagno, si rifornì di benzina e volò di nuovo sul luogo dell’incidente. Accanto all’apparecchio danneggiato c’erano tre autoblindo inglesi. Picchiò deciso, le mise in fuga, poi, con due raffiche, appiccò il fuoco al velivolo. Durante la battaglia di Cheren il cacciatore scientifico fu instancabile. L’11 febbraio 1941, insieme con due gregari, sostenne uno scontro furibondo con tre Hurricane; fu una lotta impari. I due gregari, sforacchiati e malconci, dovettero atterrare nella zona di Sabarguma. Visintini li seguì e, dopo un rapido ritorno al campo per rifornirsi, ripartì per ricercarli. Era una giornata di vento ed il cielo era una maglia di nubi. Nessuno volava, in quella giornata, all’infuori di lui, neppure i corvi e gli avvoltoi. All’improvviso l’aereo andò a cozzare contro la montagna di Nefasit che, nel buio del temporale, pareva una matassa di nubi. Sull’Amba Alagi, come per un gioco del destino, si era conclusa la tragedia di un altro aviatore, Amedeo di Savoia, duca d’Aosta. Sull’Africa Orientale cadde così il silenzio dei ricordi dolorosi e lontani. Sugli altri fronti la lotta era all’ultimo sangue. L’isola di Malta, la Grecia, Rodi, la Libia e la Russia divoravano uomini e macchine come fornaci. Nel Mediterraneo la 139 Storia dell’Aeronautica scorta ai convogli, il bombardamento e l’aerosiluramento assorbivano gran parte dell’attività aerea. I ricognitori, gli sgobboni dell’aria, erano sempre sotto pressione; Malta era un vulcano di fuoco. Ogni volo su Malta era un’avventura da raccontare, oppure una croce da aggiungere alle tante che indicavano i sacrifici degli aviatori. Martellata dai bombardieri ed attaccata sugli aeroporti dai cacciatori, l’isola stava per esalare l’ultimo respiro. Lo scrisse in chiari termini nel suo diario il Maresciallo dell’Aria inglese, Sir Hugh Lloyd: “Sull’isola incombeva lo spettro della fame e della resa obbligata per mancanza di materiali. La data prevista per la fame era ferragosto, la data per la resa molto prima ....”. La fame c’era, ma non ci fu resa, poiché la vittoria di Rommel in Egitto, tanto folgorante quanto inutile, assorbì tutte le forze aeree che stringevano d’assedio la rocca maltese. Fino al 1942 il Mediterraneo fu per gli inglesi un mare difficile, pericoloso, ed in certi periodi, del tutto vietato. A Gorizia era nata la specialità degli aerosiluranti con la creazione di una prima squadriglia, la 278, che per il fatto di essere formata da soli 4 aerei venne battezzata dei “quattro gatti”. In quei giorni si parlava degli aerosiluranti come di piloti suicidi; ammiragli e generali, infatti, sostenevano che nessuno sarebbe mai riuscito ad avvicinarsi alle navi nemiche quel tanto che occorreva per un lancio efficace. Al nucleo che si formò a Capodichino fu destinato il giovane pilota Giuseppe Cimicchi, un ragazzo alto, magro, tutto nervi, con certi occhi da gatto che parevano fatti apposta per volare nel buio. L’aereo scelto per i siluramenti fu l’S79, modello 1936, quello che Lindbergh, durante la sua visita in Italia nel 1937, definì il “migliore bombardiere del mondo”. La prima grande azione di attacco con siluro dall’aria venne compiuta il 2 aprile 1941, contro un convoglio inglese proveniente da Alessandria, il quale venne letteralmente decimato anche con l’intervento dei bombardieri di quel diavolo volante che era Ettore Muti. Ormai di guerra lampo non parlava più nessuno. Malta chiedeva disperatamente aiuto. Il 27 settembre 1941 un altro convoglio di proporzioni gigantesche, scortato da una portaerei e da una nave da battaglia, la “Nelson”, da vari incrociatori e da una dozzina di cacciatorpediniere, mosse da Gibilterra per soccorrere l’isola. Appena individuata quella gran covata di navi, la formazione al comando del colonnello Seidl si preparò per l’assalto. I piroscafi, per evitare i siluri, cominciarono a manovrare a zig- zag. Il fuoco di sbarramento della flotta inglese era tremendo: il cielo era divenuto un vulcano. Dalla portaerei si era alzata la caccia nemica. Nel pieno della battaglia il sergente pilota Luigi Valotti, per richiamare su di sé l’attenzione delle artiglierie navali e facilitare quindi il compito degli aerosiluranti, cominciò a fare acrobazie sul naviglio britannico. I marinai inglesi rimasero sbalorditi. La sua esibizione durò sei minuti, dopo di che il minuscolo Cr 42 venne abbattuto e non riuscì a rimettersi da una picchiata. Un’impresa 140 che senza dubbio varca i confini dell’eroismo ed entra nel regno della leggenda. Storia dell’Aeronautica La “Nelson”, silurata da Buri, rimase fuori servizio per sei mesi. Di quell’azione, il tenente di vascello inglese Patrick M. Archdale che, a quell’epoca era imbarcato sulla corazzata, disse: “Devo dichiarare che il coraggio e la decisione del pilota italiano meritano la più alta considerazione. Data la brevissima distanza, dalla centrale di tiro antiaereo, potei guardare direttamente dentro l’apparecchio e vederne il viso. Io penso che ognuno sperò che un uomo così valoroso potesse sopravvivere per combattere ancora”. Anche gli aerosiluranti avevano ormai i loro assi: Peppino Cimicchi, G. Cesare Graziani, Buscaglia, Di Bella, Greco, Erasi, Rovelli, Marino Marini, Bertuzzi, Buri, Faggioni, eccetera. Con lo sbarco degli Americani in Algeria, la lotta diventò senza scampo: gli attacchi si ridussero a scatti di rabbia. Durante l’ultima resistenza in Africa rifulse il sacrificio eroico dei piloti del “Sas” addetto al trasporto di uomini e materiali. Date le difficoltà di passaggio in quella specie di corridoio di fuoco che era diventato il canale di Sicilia, veniva concessa la medaglia d’argento al valore a chi compiva dieci voli dall’isola alla Tunisia. Ci provarono tutti, perché allora la medaglia d’argento era un premio che valeva anche la vita, ma non ci riuscì nessuno, all’infuori di un pilota modenese, Fulvio Setti, che ne fece venti, uno più rischioso ed avventuroso dell’altro. Quando ormai la guerra era prossima alla fine, ci fu un ultimo, leggendario sussulto di vitalità: l’attacco alla base fortificata di Gibilterra. Poi tornarono i giorni neri, quelli del settembre 1943. Nessuno sbandamento, però, tra gli aviatori, i quali continuarono a combattere, chi al Nord chi al Sud, con la Rsi oppure a fianco degli ex nemici. Ci furono piloti eroici, giovani ed anziani sia da una parte che dall’altra: Adriano Visconti, Buscaglia, Erasi, Faggioni, Graziani, Marini, eccetera. Gli aviatori del Nord parlavano di quelli del Sud, e viceversa non come nemici o combattenti dell’altra trincea, poiché gli uni e gli altri avevano in comune il patrimonio degli stessi valori; dice una leggenda che quando muore un pilota in cielo si accende una nuova stella. È per questo che chi è o fu aviatore è di un mondo troppo vasto e sublime per sottostare alle piccole, meschine miserie degli uomini nati senza ali. E la storia meravigliosa pertanto continua.... 141 Storia dell’Aeronautica 142 Storia dell’Aeronautica INDICE Lo stemma dell’Aeronautica Militare.......................................................................... pag. 5 Medaglie concesse alla Bandiera dell’Aeronautica Militare.................................................6 I Capi di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare............................................................. 7 Capitolo I . ...............................................................................................................................9 Dagli aerostieri alla vigilia del primo conflitto mondiale Dai palloni all’affermazione del più pesante Capitolo II...............................................................................................................................17 La Grande Guerra e l’intervento Capitolo III.............................................................................................................................21 Il dopoguerra e la nascita della Regia Aeronautica Capitolo IV..............................................................................................................................25 La Regia Aeronautica tra primati e trasvolate Capitolo V................................................................................................................................31 L’Aeronautica tra i due conflitti mondiali Capitolo VI..............................................................................................................................35 Dallo scoppio della 2ª Guerra Mondiale alla Rinascita La Regia Aeronautica nella 2ª Guerra Mondiale Capitolo VII........................................................................................................................... 41 L’Accademia Aeronautica da Livorno a Nisida Capitolo VIII......................................................................................................................... 47 L’armistizio e la Guerra di liberazione 143 Storia dell’Aeronautica Capitolo IX..............................................................................................................................53 La Regia Aeronautica nella lotta clandestina Capitolo X............................................................................................................................... 59 Dal dopoguerra alla storia di oggi: nasce l’Aeronautica Militare Capitolo XI............................................................................................................................. 65 Con la N.A.T.O. arrivano gli aviogetti Capitolo XII............................................................................................................................75 Dal G 91 alla storia più recente La storia meravigliosa degli Aviatori Italiani Silenzio, si vola....................................................................................................................... 87 Si collauda l’arma del futuro.................................................................................................. 93 Gli eroi celesti della Grande Guerra.................................................................................... 97 I missionari del Piave........................................................................................................... 105 I grandi solisti dei raid.........................................................................................................109 L’epoca delle trasvolate......................................................................................................... 115 A cavallo dell’Oceano............................................................................................................ 121 La centuria alata.................................................................................................................... 125 Piloti di guerra....................................................................................................................... 131 Un sogno morto in guerra..................................................................................................... 137 144 Storia dell’Aeronautica Realizzato presso la Tipografia della Divisione Formazione Sottufficiali e Truppa S.S.A.M. di Caserta edizione 2003 ristampa 2011 145