agathà s u l l ’ o n da delle emozioni SANT’AGATA DI MILITELLO nei testi di Stefano Brancatelli Francesco Zuccarello nelle foto di Paolo Barone saggio introduttivo di Camillo Filangeri 1 Questa pubblicazione è stata realizzata con il patrocinio di: AGATHà sull’onda delle emozioni Regione Siciliana Assessorato regionale Turismo, Sport e Spettacolo Dipartimento regionale del Turismo, dello Sport e dello Spettacolo Progetto e Coordinamento Francesco Zuccarello Testi Stefano Brancatelli Camillo Filangeri Benedetto Lupica Pippo Ricciardo Francesco Zuccarello Ente di diritto pubblico Comune di Sant’Agata di Militello Rotary Club Sant’Agata di Militello Foto Paolo Barone Contributi fotografici Ettore Colletto Nuccio Lo Castro Carlo Melloni Claudio Pinchi Angelo Restifo Elaborazione grafica Nino Carlo, Angelo Restifo Impaginazione Nino Carlo Stampa Arti Grafiche Zuccarello [email protected] Si ringraziano tutti coloro che, concedendo la loro immagine e il loro tempo, hanno favorito la realizzazione della presente opera. © 2010 - Zuccarello Editore Via Giove, 12 - Sant’Agata di Militello (ME) Proprietà artistica e letteraria riservata. é vietata qualsiasi riproduzione totale o parziale ai sensi della L. n. 633 del 22 aprile 1941, L. n. 159 del 22 maggio 1993, L. n. 248 del 18 agosto 2000 e successive modificazioni. Questo libro è composto in Bodoni; stampato su Garda GlossArt da 170 g/mq delle Cartiere del Garda; le segnature sono piegate a sedicesimo (formato rifilato 21x27 cm) con legatura a filo refe e brossura; la copertina è cartonata con impressione in oro e sovracoperta stampata su Garda GlossArt da 170 g/mq delle Cartiere del Garda con plastificazione lucida. 2 Presentazione Prima di perdere il controllo e di precipitare, prima che il panico prenda il sopravvento e questa corsa incessante, senza meta, ci lasci solamente il fiato corto; forse anche prima che la lotta primordiale sia, fra di noi, l’unico strumento di interazione, che l’unità si disintegri in egoismo e l’interesse deglutisca la civiltà; o peggio, prima che una generazione lasci l’altra alla deriva, senza maestri, nè buoni nè cattivi, malgrado tante cose da insegnare e molte di più da raccontare; prima che la noia si tramuti in accidia; prima che tutto scorra... Prima di tutto... la bellezza. E la conseguente meraviglia, il vero sentimento esiliato di quest’epoca concubina e meta-emozionale. Ratta e distratta. Ancora di più lo stupore. Per la verità, per lo studio, per la ricerca, per la scoperta, per guardare meglio ciò che ci circonda. Questo libro nasce così, da un moto dell’anima, dall’impellente bisogno di non accettare che sia stata detta (o scritta) l’ultima parola, dal ripudio della rassegnazione che tutto abbiamo visto e sentito; trova origine e motivazione dal «desiderio» (e se non viene dall’Alto allora da dove dovrebbe venire!) di continuare a parlare di cose conosciute e sconosciute, delle vecchie che, nonostante tutto, dicono e delle nuove che, tuttavia, iniziano a vagire. Trascinato dall’onda delle emozioni, ripercorre conoscenze, luoghi e volti che, visti con occhi nuovi e mente nuova, possono ancora comunicarci qualcosa. Non è facile dire se il paese di Sant’Agata sia cambiato in bene o in male. Certamente quel che può cambiare è il modo di comunicare la paesanità, ritrovare identità e senso di appartenenza e un po’ di gelosia per le «nostre cose», che sono - va detto con forza - «cose buone». Ecco il senso di questa pubblicazione e la ragione del titolo Agathà (ἀγαθὰ): un puro gioco di parole che rimanda al nome della nostra città, una traslitterazione dal greco, che permette di sintetizzare il significato di questo libro: τά ἀγαθά - le cose buone... di Sant’Agata. 3 Abbiamo cercato così di narrare la sua storia, provando a dare una spiegazione all’origine del borgo prima e del Comune autonomo poi. Ne abbiamo colto, imprimendoli nelle meravigliose foto di Paolo Barone, gli aspetti urbani e umani più significativi e caratteristici, soffermandoci su alcuni particolari senza particolarismi, nel difficile tentativo di essere più esaustivi possibile! Al concittadino, al turista o a chi, colto o semplicemente curioso, si troverà a Sant’Agata per svago o per lavoro, vogliamo offrire uno strumento interessante per suscitare o approfondire la conoscenza del paese, fiduciosi, fra l’altro, che questo lavoro possa costituire una base di partenza per una concreta rivalutazione dei nostri «beni», per il nostro «bene» e per il «bene comune». Non con vago ottimismo ma con certa speranza. Attendiamo l’alba, come sentinelle del mattino. Gli autori 4 Immagine ed emozione La diffusione delle fotocamere digitali, ormai capillare, ha sicuramente provocato una “rivoluzione sociale” nel rapporto tra fotografia, fotografo e fruitori. Macchine fotografiche sempre più compatte e miniaturizzate – spesso veri e propri gioielli del design rivolto ad un consumo di massa – per cogliere ogni attimo e situazione del nostro tempo, sono una presenza comune e un accessorio indispensabile per scandire (e fissare, quasi con effetti stroboscopici) il ritmo della vita e delle emozioni di ognuno. Addirittura trovandomi – per lavoro – in alcuni affollati concerti, mi è capitato di osservare come le stesse prime file di spettatori, in delirio per il sound della rock star di turno, ne seguissero la performance più attraverso il monitor dei telefonini puntati per catturarne immagini a ripetizione e filmati, che godendo dello spettacolo direttamente coi propri occhi. Una rivoluzione democratica? Il socialismo dell’immagine? L’emancipazione delle masse in vista del click universale che sbaraglierà le oligarchie dei fotografi professionisti? A me pare – ahimè – che si tratti, il più delle volte, di calcolata standardizzazione gestuale rivolta per un verso a corrispondere alle strategie di marketing dell’industria elettronica di settore e, per l’altro, a replicare la pervasività dei messaggi/modelli pubblicitari (sorridi come… – una posa da… velina – sembra una pubblicità – mi faccio il book – vuoi che ti faccio il book? ecc.). Ma allora la Fotografia? Poiché non mi ha mai appassionato la diatriba stantia su fotografia come un’arte alla pari della pittura o meno, continuo a scegliere/cercare/comporre i miei scatti con l’unica intenzione di produrre un’immagine in grado di raccontare qualcosa e trasmettere un’emozione a chi si troverà a guardarla. E siccome non so mai, a priori, chi – a parte l’eventuale committente verso il 5 quale sento un qualche obbligo, se non altro per guadagnarmi il compenso pattuito – guarderà le mie foto, mi sforzo di concentrare la mia attenzione su: - quanto importa agli altri ciò che mi sta incuriosendo? - come selezionare nel rettangolo del mirino l’essenza di un luogo/scena/ concetto/emozione che voglio rappresentare? - come fotografare cosa… nel suo aspetto migliore? Le regole alle quali mi attengo sono semplici, personali e per nulla vincolanti (es.: mai la facciata di un qualcosa in controluce – solo se mi serve la silhouette! – piuttosto luce radente del tardo pomeriggio, calda. Ma… se è nuvolo? Pazienza, aspettiamo un altro giorno!). Quindi... forse la fotografia non è altro che un mezzo, un semplice strumento per interpretare/raccontare qualcosa attraverso le lenti della propria soggettività. E, dunque, visto che la soggettività non è ancora un prodotto – nonostante gli innumerevoli interventi in tal senso della manipolazione sociale – di un qualche settore industriale, allora la fotografia non è comparabile in base alla strumentazione, più o meno specialistica, più o meno diffusa, da cui essa è prodotta: torna al centro, comunque, la persona/autore (che avrà tanto più da dire con le proprie immagini quanto più avrà assorbito/compreso/interpretato il quid inquadrato nel mirino). Il mestiere di fotografo – se è ancora fatto di passione, di intuizione, di fatica, di tenacia, di pazienza, di comprensione e di creatività nella ricerca delle soluzioni – non è in discussione. Io spero di aver compreso (o per lo meno sfiorato) l’anima di questo paese e della sua comunità, straordinaria come Francesco: il mio Virgilio se io fossi Dante, per come mi ha accompagnato e mi ha saputo guidare nella scoperta degli infiniti aspetti che fanno di questo luogo, Sant’Agata, uno fra i tanti ma, come tanti altri, un pianeta sconosciuto e magico da esplorare. Non ho curva pronunciata alcuna nel mio setto nasale per cui… escludo di potermi paragonare al divino Alighieri (e quindi, Francesco, mi spiace… rinuncia a sentirti Virgilio!). Paolo Barone 6 Foto panorama notturno 7 8 Presentazione Camillo Filangeri INTORNO A SANT’AGATA 9 FITALIA ZAPPULLA NASO MALVICINO PIETRA DI ROMA CRAPI CASTANIA MIRTO SAN MARCO FRAZZANÒ ACQUEDOLCI TORRE DEL LAURO NASO SALVATORE 1072 MILITELLO ALCARA CARONIA GALATI LONGI TORTORICI 1315 SAN FRATELLO 1847 1541 MANIACE 1567 1571 © Arti Grafiche Zuccarello - 2010 CAPIZZI CERAMI TROINA AL SIMETO / GIARRETTA • Siti con abitati permanenti - Torri e presidi costieri 10 AL SIMETO / GIARRETTA ALL’ALCANTARA KIDAS ROSMARINO INGANNO FURIANO CARONIA SANT'AGATA CAPO D'ORLANDO Considerazioni geostoriche N ella Sicilia settentrionale, ai piedi dei solenni dorsi costieri dei monti Nebrodi, verdeggianti anche di macchia mediterranea, l’insediamento urbano di Sant’Agata di Militello oggi è il centro abitato più cospicuo dell’area nebroidea, e per qualche tempo ne è stata avanzata l’ipotesi di farne un capoluogo provinciale. Di seguito ci si soffermerà sull’area che si estende dal versante nordoccidentale dell’Etna al Tirreno, al cui centro Sant’Agata mantiene ruoli privilegiati; area delimitata strumentalmente, e prospiciente la costa, tra i Capo d’Orlando e Cefalù. Qui fra oriente ed occidente, i siti che si susseguono rispondono a nomi, talvolta di antica intitolazione, talvolta più recente ove non innovativa, e che in molti casi ricordano vicende storiche del territorio isolano. Si riporta un elenco di quei siti su cui insistono abitati permanenti, abbinati a nomi meno conosciuti, ma che riprendono antiche intitolazioni superate dagli eventi o rinnovati da opportunità amministrative, o di recupero storico. Di fatto, puntualizzando che i nomi remoti od obsoleti sono posti in corsivo, lungo la costa si susseguono: Agatyirnum/Capo d’Orlando, Bastione/Piscìttina/Malvicino, Rocca di Caprileone, Pietra di Roma/Torrenova/Favara, Sant’Agata di Militello, Acquedolci, Torre del Lauro, Kalè actè/Marina di Caronia, Canneto, Santo Stefano di Camastra, Margi, Torremuzza, Calamione, Alesa/Marina di Tusa, Milianni, Pinnuti/Finale di Pollina, Sant’Ambrogio, Calura, Rocca di Cefalù; nell’entroterra che non supera la cresta nebroidea, si susseguono: Naso, Malò, Castanea/Castellumberto, Tortorici, ‘u Sarvaturi/San Salvatore, Galati, Longi, ‘u Crastu, L’Arcara/Alcara, Militello Rosmarino, Frazzanò, Mirto, Crapi/Caprileone, Alontion/Demenna/ San Marco, Apollonia/SantiFiladelli/San Fratello, Caronia, Liettu Santu, Amestratos/Mistretta, Reitano, Motta d’Affermo, Pettineo, Tusa, Rucca Basili/ Santo Mauro, Ypsigro/Castelbuono, Pollina. Tra le vicende del territorio dei Nebrodi, che per molti aspetti fanno parte della storia più nota, gli insediamenti costieri si attestano ad una colonizzazione raggiunta sulla scorta di esperienze tanto greche che cartaginesi. Se agli Acarnani ed al mitico Patron si può ricondurre la fondazione di Alontion eretta a vista dell’insediamento protostorico di Monte Scurzi, all’epopea di Ducezio, eroe indigeno del V secolo a.C., si riconduce la fondazione di Kalè Actè/Caronia, agli Arconidi di Erbita/Nicosia si deve quella di Alesa/Tusa nel 403 a.C.. Alontion, Kalè Actè ed Alesa sono città nel tempo romanizzate insieme ad Amestrata, Apollonia, o l’ipotizzata Agatirno al Capo d’Orlando, e per le quali caccia, pesca, allevamento ed agricoltura sono risorse primarie permanenti. Città dove gli abitanti mantengono vivi i concetti di polis e di chora, pertanto politicamente responsabili di gestire le risorse del proprio territorio, comprese le unità poderali, col tempo giuridicamente definite allodiali. In età romana, intorno al 263 a.C., viene tracciata la via Valeria, in seguito detta anche Pompea, strada che da Messana/Messina conduceva a Lilibeo/Marsala, di fatto l’attuale statale 113, la quale necessariamente doveva attraversare il sito dell’attuale Sant’Agata. Al tempo voluta per scopi militari, la strada, concettualmente diviene fondamento nella vita del nostro territorio, e questo da intendere quale supporto naturale per ogni attività umana, compresi collegamenti destinati agli scambi. Risorse, attività e scambi, sperimentati già prima dell’avvento di Roma, con la frequentazione di piste battute entro il compluvio dei corsi d’acqua, e questi ultimi, a loro volta, in grado di indicare in modo naturale le direzioni di scavalcamento delle giogaie che scandiscono le gibbosità del territorio. Scambi quindi strettamente connaturati alla 11 produttività del territorio, nella parte più interna dell’isola ripartito in massae, le grandi aziende terriere di età romana che sappiamo gestite anche con imprenditoria schiavista. Insieme di scelte connesse al potere centrale di Roma, e che faranno considerare l’intera Sicilia risorsa dello stato identificato col suo Impero; ciò che promuove condizioni di benessere estese all’intera regione isolana e che fa incentivare scambi lungo le vie marittime, e di conseguenza attracchi ed attrezzature portuali. Stato ed Impero divenuti omonimi e gradatamente coinvolti dal Cristianesimo in espansione, compresa la gestione delle massae. Età nodale per la Sicilia è certamente quella coincisa con l’epocale trasferimento della centralità imperiale da Roma a Bisanzio, la “Nuova Roma” ribattezzata Costantinopoli, centro eponimo di politica e cultura che ruota intorno agli imperatori costantinopolitani; fra costoro, qualcuno, esaltando la condizione di benessere dell’isola, la gestirà come patrimonio personale. Idea di benessere che non sfugge all’istinto predatorio di quanti, lungo i margini dell’impero e non trascurando la pirateria, avessero voluto approfittarne. Fra questi i Musulmani i quali, anche con azioni militari e spinta fideista, percorse le coste africane, pervengono in Sicilia nell’827 permanendovi circa trecento anni. Tuttavia l’influenza bizantina sopravviverà a lungo in Sicilia rimanendone, preziosa testimonianza del nostro territorio, un gran numero di insediamenti monastici; presenza monastica strettamente connaturata alle risorse del territorio, e quindi ai cespiti locali con cui sostentare i monasteri stessi, divenendo di fatto sedi di mantenimento per parecchie testimonianze sulla vita territoriale. Molti di quei cenobi, per il loro insistente riferirsi a Demenna, hanno fatto supporre e verificare, la dislocazione di questo prestigioso insediamento, citato almeno dal IX secolo d. C., nel sito stesso dell’antica Alontion. Sito che, insieme all’accertata etnia grecofona, alla maggiore concentrazione di boschi tuttora esistenti fra Longi, San Fratello, Caronia e Tardara possono essere stati eponimi geografici-ambientali della regione ad occidente di Messina, Val Demenna prospiciente il Tirreno. Demenna sito nebroideo che nel 1061 viene rinominato San Marco dai fratelli Hauteville, Roberto Guiscardo e Ruggero I Gran conte, conquistatori Normanni al loro giungere in Sicilia; sito, ancora, La Sicilia nella rappresentazione dell’antica carta romana della Tabula Peutingeriana 12 da considerare luogo e tappa strategica per il governo militare da loro instaurato. Qui rimane infatti la sede gestionale del governo isolano, dal 1101 mantenuto da Adelasia del Monferrato, terza moglie e vedova del Gran Conte e madre di Ruggero II; quest’ultimo è colui che nel 1130 sarà acclamato re di un regnum destinato a crescere nel confronto col Papato e l’Impero, permanendo uno dei più antichi stati europei sino all’avvento dell’utopia peninsulare geomassonica. Non è superfluo sottolineare il prestigio della cultura greca-bizantina, com’è noto fautrice e tramite della ricristianizzazione promossa dai Normanni e favorita in quei cenobi. Più nota l’autorevole sede abbaziale di San Filippo di Frazzanò, o Fragalà, detto anche di Demenna, centro di diffusione culturale sostenuta da una prestigiosa biblioteca. Diffusione in merito alla quale piace qui ricordare l’omileta, predicatore greco, Filagato da Cerami, quindi nato nel versante meridionale dei Nebrodi, presente ed attivo nelle corti dei re, Ruggero II e dei due Guglielmi, quindi alla vigilia delle scelte cruciali suggerite dalla politica dinastica per la trasmissione del regno dagli Hauteville agli Hohenstaufen. I Normanni, insieme al rinvigorimento del cristianesimo, favorito col ripristino di gerarchie sia religiose che militari, istaurano anche una milizia di stato altrettanto gerarchizzata; ambedue gerarchie sostenute economicamente con la ripartizione delle risorse territoriali ed i suoi cespiti. Per questi ultimi è giusto precisare come, allo stato attuale delle conoscenze, è sempre difficile, se non improbabile, localizzarli fisicamente, definirne dimensioni e consistenza, fidandosi delle citazioni narrative e degli strumenti quasi sempre giuridici-amministrativi, in cui vengono indicati allodi, tenimenti, feudi, variabili anche nel nome a motivo della conoscenza più o meno diretta, nonché linguistica, degli estensori delle citazioni e degli strumenti che ci sono pervenuti. Ambedue gerarchie, ancora, sono obbligate al mantenimento di un magnus exercitus composto da equites, milites, pedites e servientes, ciascuno sostenuto economicamente dall’insieme di quelle risorse; mentre tuttora, con più stretto riferimento al territorio nella sua interezza, permane vivo il dibattito circa la sopravvivenza di beni allodiali, e di demani compresi quelli regi; e questi da riferire a strutture fisiche. Un riepilogo schematico consente un inquadramento di massima, sull’assetto, in età normanna, degli abitati sopra menzionati che permangono nelle circondario presso Alontion/San Marco: -Naso, pertiene in parte all’abate/vescovo di San Bartolomeo di Lipari, ed in parte ai Garres; -Castanea, sembra coincidere col monastero di Santa Maria di Mallimachi; -Tortorici, potrebbe essere appartenuta al monastero di San Nicola de la Fico; -Galati, pertiene ad Eleazaro figlio di Guglielmo Malabret, ma ne dispongono anche i Garres; -Longi, ricade nei boschi pertinenti all’abbazia di San Filippo; -Alcara, pertiene al vescovo di Messina, ma vi ricade il monastero di Santa Maria del Rogato; -Militello, forse ricade nelle pertinenze di San Marco; -Frazzanò, sede abitata dell’abbazia di San Filippo; -Mirto, casale che pertiene all’abbazia di San Filippo; -Crapi, casale che pertiene all’abbazia di San Filippo; - San Fratello, presso i resti di Apollonia, viene ripopolato da lombardi mediati da Adelasia. Per un quadro più concreto circa la consistenza delle risorse locali, riconsiderando l’area sopra delimitata, non può sottacersi la presenza della citata Cerami e di Messina, anche se ne ricadono al di fuori; Cerami, in quanto dal 1157 è pertinenza di Simone conte di Butera e Policastro, congiunto di Adelasia, protagonista nella politica di immigrazione lombarda dei Normanni; e Messina col suo 13 porto fra il 1194 ed il 1196 sono oggetto di privilegi accattivanti contemporaneamente al passaggio dinastico tra gli Hauteville e gli Hohenstaufen avvenuto intorno al 1196. Passaggio dinastico che consente di introdurre il secolo tredicesimo memorabile anche per le complesse responsabilità gestionali di una regione su cui incidono anche estese pertinenze delle sedi episcopali, rese più difficili per il dissidio fra l’imperatore Federico II ed il Papato. In tali frangenti Rosso Rosso da Messina è autorevole esponente di una famiglia che avrà estese responsabilità feudali nel nostro territorio; nel 1222 detiene Sperlinga, per imparentamento coi signori di Geraci, ed è in grado di concedere forti somme alla Corona in compenso di proventus omnes, redditus terre Aidoni. Corona per la cui successione contenderanno, da una parte Pietro d’Aragona, in quanto sposato con Costanza figlia ed erede di Manfredi Hohenstaufen, morto a Benevento nel 1266, e dall’altra la casa d’Anyou imposta dal Papa; ciò che nel 1282 scatenerà la prolungata guerra del vespro. Guerra combattuta, anche a seguito del 1283, data d’incoronazione di Pietro III col quale ha inizio la monarchia Aragonese di Sicilia, a sua volta impegnata, tra giugno 1295 e gennaio 1296, dal trattato di Anagni e dai colloquia di Palermo e Catania, anni in cui il figlio secondogenito di Pietro viene riconosciuto Federico III re di Sicilia. Nell’ambito dell’area già configurata, per il tempo intermedio fra il 1269 ed il 1283, offrono parziale, sintetico orientamento, anche politico, le notizie di pertinenza al demanio regio, tanto svevo che angioino, di taluni siti: -Cerami, oltre lo spartiacque nebroideo, ha un’azienda agricola ed il castello di Capizzi, già di Galvano Lancia congiunto di Manfredi, che pertengono al francese Pierre d’Auvergne; -San Marco ha un castello, “custoditur per consergium scutiferum non habentem terram in regno, ed il 6 maggio 1276 è visitato dal “pro- 14 visor castrorum. Durante il 1271 nell’ abitato vive il notaio Guglielmo Pandolfo, e le decime della chiesa sono percepite dal Canonico Graziano di Messina; nel 1273-1274, il monastero del SS. Salvatore percepisce redditi dalla gabella judeorum et tinturie. -San Fratello ha un castello “custoditur per Raymundum de Podio Riccardi castellanum, qui debet retinere in custodia ipsius castri ad expensas suas, ha 8 servientes, e debet recipere tantum a curia pro expensis per diem tarenos 1”; nel 1275, il castellano impedisce l’arcivescovo di Messina nei diritti sulla chiesa di San Pancrazio; il 7 maggio 1276 è visitato dal “provisor castrorum. -Caronia ha un castello il cui castellano è scutifer non habens terram, e 4 servientes”. In Sicilia la monarchia Aragonese, sin dai primi tempi, viene sostenuta da un seguito di parenti della casa regnante di esuli, militari, cortigiani e finanziatori i quali, avendo contribuito ad insediarla nell’isola, ottengono in cambio proventi e redditi del suo territorio; ad essa si debbono due Capitoli fondamentali per la futura conduzione dei feudi in Sicilia: “Si aliquem (1286)” relativo alla loro successione, e “Volentes (1296)” relativo all’alienazione. Quasi come conseguenza, all’interno dell’area configurata, nei primi decenni del secolo XIV: -A Messina Enrico Rosso, affermato in età angioina, poi Maestro Razionale, con testamento del 1315, dispone di beni a Messina, Taormina, Agrigento, servi, armenti e crediti anche a Firenze. -Naso con Capo d’Orlando è in potere di Blasco Alagona, imparentato con la casa regnante e personaggio nodale nella storia di Sicilia; -Galati e Longi, prima concesse a Riccardo Loria, poi vanno in potere dei Lancia; -San Marco e Militello, già concesse a Garsia Sancio de Esur, passano agli Aragona, parenti della casa regnante; -Alcara rimane in potere del Vescovo di Messina; -San Fratello, potenziale ricovero per ventimila capi di bestiame; intorno al 1350 è insidiata dai Rosso; -Cerami intorno al 1336 sembra che sia oggetto di attenzione di Enrico Rosso conte di Aidone. Tuttavia nello scacchiere internazionale l’indipendenza della Sicilia è fortemente condizionata dalla crescita delle famiglie baronali garanti, anche con comportamenti ricattatori verso la Corona, ottenendone in ricompensa ruoli di governo e contingenti territoriali. Intorno al 1377, si giunge a far suddividere il territorio isolano in aree sottoposte alla supremazia di poche famiglie, gli Alagona, i Chiaramonte, i Peralta, i Ventimiglia, di fatto quelle dei quattro vicari. Supremazia che non esita di fronte l’appropriazione di beni e proventi anche di chiese ed istituti religiosi. Ciò che induce a far trapiantare in Sicilia il ramo iberico degli Aragona, convenzionalmente detto dei Martini, giunti a Trapani il 22 marzo 1392. In precedenza, intorno al 1381, presso Martino d’Aragona duca di Montblanc, da tempo arbitro della politica aragonese, compreso l’ultimo trapianto in Sicilia, si era recato Enrico Rosso, persona non meno autorevole dei citati quattro Vicari, la cui famiglia rubei habuit cognomen et stella defert pallidam in sui armorum signum atque cognomen color cuius a rubeo magis discrepat et contrariatur. Intorno al 1414 i Martini daranno diritto a succedere alla casa di Castiglia la cui ultima esponente, Giovanna (1479 - 1555), trasmetterà i diritti sulla Sicilia al figlio, l’imperatore Carlo V (1500 - 1558) il cui regno, dove è assiomatico che non sia mai tramontato il sole, sarà governato da uno stuolo di funzionari militari e ministeriali. Fra questi si distingue Juan Gallego che diverrà signore di Militello e la cui discendenza allignerà fra queste contrade. 15 16 Francesco Zuccarello LINEAMENTI INTRODUTTIVI PER UNA STORIA DI SANT’AGATA DI MILITELLO TRA XV E XVIII SECOLO 17 Molti pozzi non funzionano più, ma le loro torri, di ferro arrugginito, si rizzano ancora verso il cielo, in un macabro avvertimento di ricchezza. Oriana Fallaci, I sette peccati di Hollywood 18 Alle origini di Sant’Agata, fra mito e storia C ome un po’ tutti i paesi della Sicilia, anche Sant’Agata ha origine nel mito che la vuole fondata da uno dei figli di Eolo, dio dei venti e signore delle Isole che portano il suo nome, trasferitosi da Lipari sulla “terraferma”. Durante il governo del territorio assegnatogli dai Sicani, fondò la cittadina alla quale impose il proprio nome, Agatocle, che poi si sarebbe mutato in Agata (sic!).1 E appartiene pure alla leggenda la storia secondo cui alcuni naviganti di Catania, sorpresi dalla tempesta, trovarono rifugio in questa spiaggia e, per sciogliere un voto di gratitudine verso la santa protettrice della loro città, portarono in seguito una statuetta di Sant’Agata, da cui poi la località avrebbe preso il nome.2 In realtà sembra che tale nome derivi da una chiesetta ubicata nella marina e di cui si sono perdute le tracce, ma che viene menzionata in un manoscritto inedito del XVI secolo3 in cui il viaggiatore, percorrendo il tratto di costa da Messina a Palermo, così appunta: «segue appresso [il fiume della Rosamarina] a ½ miglio la torre e fondago di Santa Agatta posseduta dall’Ill sr Barone di Militello[...] et li è una chiessa antica pur nominatta la chiessa di Santa Agatta».4 Sulle origini di questa “antica chiesa” nulla è stato mai scoperto, nè invero ricercato, a causa anche di numerosi interventi dell’uomo proprio in quel tratto di terra ai piedi dell’odierno castello. Resta comunque un dato importante che merita approfondimenti. E così, messo da parte il mito e continuando 1 Zappalà G., Promemoria: sviluppo demografico e costituzione del Comune di Sant’Agata di Militello, manoscritto s.d. 2 Ibidem. 3 Si tratta del manoscritto proveniente dalla Biblioteca di Girolamo Settimo, principe di Fitalia, conservato presso la Biblioteca della Società Siciliana di Storia Patria di Palermo. Per maggiori dettagli cfr. A. Palazzolo, 2008, Le torri di deputazione del Regno di Sicilia, ISSPE, Palermo. 4 Biblioteca Società di Storia Patria di Palermo. Manoscritto Fondo Fitalia I, C.21. a procedere cronologicamente con gli eventi legati alla presenza dell’uomo nel territorio santagatese in epoca antica, le notizie in nostro possesso sono, in verità, poche e incerte, anche per l’esigua quantità di studi specifici. Per quanto attiene al periodo greco-romano il territorio faceva parte, molto verosimilmente, della chora di Alontion (l’odierna San Marco) e forse in parte di quella della vicina Apollonia (l’odierna San Fratello). Non sembrano più sostenibili, invece, le numerose ipotesi storiche che hanno collocato in Sant’Agata l’antica Agatirno, citata da Plinio e Tolomeo; studi più precisi l’hanno inclusa nel territorio di Capo d’Orlando.5 Fra i tanti ritrovamenti riconducibili all’ampio periodo compreso fra il V secolo a. C. e i primi secoli dell’era cristiana, merita attenzione una tomba venuta alla luce nel 1902 in via S. Giuseppe sotto la travatura della linea ferrata Messina-Palermo. In occasione dei lavori per la costruzione dell’acquedotto comunale fu rinvenuta una lastra in marmo, che fungeva da copertura, con incisa un’epigrafe che ci restituì il nome del “primo” abitante di Sant’Agata fin ora conosciuto: CN(AEO) CANINIO ANICETO TERTIUS PATRI SUO FECIT (Terzio 5 Cfr. Spigo U. (a cura di), 2004, Archeologia a Capo d’Orlando, Milazzo, Redus Edizioni. Lapide sepolcrale di Caninio Aniceto 19 fece [costruire questo sepolcro] in onore di suo padre Gneo Caninio Aniceto). Gli scavi nelle vicinanze restituirono, inoltre, alcune tombe, ricavate nei pressi del percorso dell’attuale ferrovia, che costeggia la spiaggia, e che una volta doveva ricalcare l’antica via Valeria. Essa, scavalcando i fiumi Platanà e Chyda, si immetteva nel territorio di Sant’Agata per poi continuare verso Palermo attraversando contrada Piana e Pianetta.6 Intorno al IV-III sec. a. C., sorsero nella zona collinare medio-alta, ma soprattutto in pianura, stanziamenti umani legati alla pastorizia e alle attività agricole, le sole o le più importanti sotto il profilo economico di cui abbiamo qualche generica notizia. Per quel che riguarda l’età ellenistica (III-II sec. a.C.), ma anche il periodo successivo fino alle soglie del medioevo, i ritrovamenti, tutti considerati di scarso rilievo, riguardano tombe sparse un po’ ovunque, su cui non è stato fatto uno studio scientifico puntuale allo scopo di farci raccogliere ulteriori elementi di conoscenza.7 Dell’esistenza di gente molto ricca nel territorio di Alunzio durante il primo secolo a. C., per quella fascia litoranea in cui ricade oggi il paese di Sant’Agata, ci informa, anche se indirettamente, Cicerone nella sua opera contro Verre, ricordando la spoliazione delle città di Alunzio e della vicina Apollonia.8 Attraverso l’analisi di prove sia pure indirette, le gloriose esperienze bizantine, soffocate dalla forza inesorabile del tempo, nel caso di Sant’Agata, ci provengono dalla toponomastica delle contrade che delimitano il territorio. Esse portano tutte nomi di santi che ci consentono di ipotizzare che la più rilevante antropizzazione dei luoghi sia avvenuta in piena temperie cristiana.9 Restano comunque insediamenti isolati, distanti fra di loro e dalla costa. Fra i secoli VIII e X, nella tormentata epoca della conquista araba, la storia del territorio di 6 Bianco F., 1988, Il territorio di Sant’Agata Militello nell’antichità, Messina. 7 Ibidem, pg. 179. 8 Ibidem, pg. 179. 9 Ibidem, pg. 180. 20 Sant’Agata resta indeterminata e comunque legata alle vicende di Demenna (l’odierna San Marco d’Alunzio), sebbene non mancano le indicazioni e le descrizioni di attività economiche importanti. Di qualche secolo più tardi è la puntuale testimonianza di Idrisi10 a dire: «occorre Sant Marku, vasta rocca con avanzi di antichità, grande numero di colti, mercati, un bagno e copia di frutte e produzioni agrarie» e inoltre, dopo aver sottolineato la copiosa produzione della seta, aggiunge: «la spiaggia è bella. Quivi si costruiscono delle navi col legname [che si taglia] nelle montagne vicine».11 Dall’anonimato il territorio uscirà così in piena epoca normanna quando la sua storia si legherà a quella di Militello Rosmarino,12 di cui per diversi secoli rappresenterà la marina. Per parlare, quindi, di Sant’Agata di Militello ed addentrarci nella sua formazione come importante centro costiero, al di là della vera e propria 10 Idrisi fu medico e geografo arabo. Dopo aver viaggiato per il Mediterraneo giunse in Sicilia al tempo di Ruggero II e compose la geniale opera di descrizione dell’isola dal titolo Diletto per chi è appassionato per le peregrinazioni attraverso il mondo e contenuto nel più famoso Libro di Ruggero. 11 In Amari M., 1982, Biblioteca Arabo-sicula, Palermo. 12 Cfr. Lo Castro N., 1984, Militello Rosmarino, Messina, ed. Nebròs. Statua di Sant’Agata posta sull’omonimo arco in via Roma costituzione che avverrà nel 1840, è necessario intrecciare le sue vicende con la storia di Sicilia fra il XV e il XVII secolo. La sua origine ha molti punti in comune con altri luoghi della nostra meravigliosa isola, terra di molte dominazioni e tormentate vicende storiche: è la storia del lento e progressivo inurbamento della costa per lo svolgimento di tutte quelle attività commerciali e produttive che avevano bisogno, nei secoli dove non esistevano i treni o gli aerei o la corrente elettrica, dello sbocco sul mare e della vicinanza dei fiumi e di sorgenti d’acqua. «La conseguente umanizzazione si è riproposta, con alterne vicende, per quanto ha potuto essere incentivato dall’habitat boscoso, dalle più stimolanti offerte del mare, nonché dal bisogno crescente dello scambio dei prodotti di un entroterra che, degradando sopra brune colline, offriva pascoli e maggesi estesi sin alla remota costa meridionale».13 Nonostante anni turbolenti, la rivoluzione del Vespro, la separazione da Napoli, le spedizioni angioine e la definitiva conquista aragonese,14 la Sicilia conobbe un notevole dinamismo economico, demografico e sociale,15 realizzatosi grazie ad un processo di specializzazione e di integrazione regionale, che spinse l’accesso ai mercati e il commercio nel Mediterraneo, costituendo le basi per uno sviluppo di lungo periodo.16 Tutto ciò attenua l’immagine di terra di feudatari e latifondi seminati a grano che finì con l’oscurare l’altra Sicilia: quella dello zucchero, della seta, dell’allevamento, della vite e del vino, della pesca 13 Filangeri C., 1988, Dall’agorà al presbiterio, Palermo, Ila Palma. 14 Renda F., 2003, Storia della Sicilia da Federico III a Garibaldi, vol. 2, Palermo. 15 Epstein S.R., 1996, Potere e mercati in Sicilia, Torino, Einaudi. 16 Ligresti D., 2006, Sicilia aperta, Associazione Mediterranea, Palermo. «Più in generale si può osservare che tra inizio Quattrocento e fine Seicento il comparto produttivo dovette reggere l’urto di un incremento demografico che portò alla triplicazione della popolazione e servì una rete urbana tra le più dense di tutta l’Europa: la quota di popolazione residente in centri con più di 10.000 abitanti, che era del 26% nel 1505, balzò al 45% nel corso del secolo, senza che la crisi del secolo successivo e la colonizzazione interna riuscissero mai a trascinarla al di sotto del 30%, calo dovuto soprattutto dal tracollo messinese.». del tonno, del commercio dei panni, delle attività marine e portuali, cioè di tutta una serie di colture e attività specializzate che spiega tutto o gran parte dell’evoluzione urbana dell’isola.17 Una progressione storica che per alcuni secoli, «dal Tardo Antico all’Età Moderna, vede ridursi, fra l’altro, l’intera isola da piazzaforte o trampolino dell’Occidente, base avanzata della Cristianità, protesa a rintuzzare l’Islam nei paesi d’Africa e d’Asia, a quello di frontiera tra il mondo occidentale ed il vicino oriente, campo di razzia per gli aggressori barbareschi, meta desiderata per i turchi».18 Fino al secolo XVII, durante il quale si determina il gran moto della colonizzazione interna con la creazione di più di cento nuovi agglomerati urbani, fra cui proprio Sant’Agata, in una Sicilia che, via via nei secoli successivi, trasforma le antiche colture in nuove produzioni (agrumi) espandendo notevolmente le altre (vigneti, oliveti), pur restando man mano ai margini dell’Impero, che orienta i suoi interessi verso l’Atlantico e le Americhe. La storia di Sant’Agata si inserisce, così, a pieno titolo - per via del suo castello - in quel processo di «pietrificazione della ricchezza»19 che caratterizzò proprio i secoli XVI e XVII, nella corsa all’innalzamento delle difese degli interessi economici (tonnare, trappeti, arbitrii in genere, piantagioni) della costa siciliana, rappresentata da spiagge aperte o da cale frastagliate, che solo l’antico sistema di comunicazione dei fana poteva espletare. É, più semplicemente, la storia della marina del feudo di Militello Val Demone, dei suoi baroni, delle loro proprietà, più volte passate di mano, dei loro matrimoni e successioni ereditarie, dei loro interessi economici e dei loro «investimenti», fra alterne fortune e clamorosi insuccessi. 17 Ligresti D., 2002, Dinamiche demografiche nella Sicilia Moderna, Milano, Franco Angeli. 18 Scarlata M., 1993, L’opera di Camilliani, Roma, IPZS, Roma. 19 Trasselli C., 1982, Da Ferdinando il Cattolico a Carlo V, Soveria Mannelli, Rubettino Editore. 21 La marina del feudo di Militello Valdemone: la sua trasformazione in epoca moderna P roprio quando la minaccia turca si fece più pressante e l’eco delle vittorie delle truppe ottomane lungo i Balcani si sarebbe diffusa rapidamente, accrescendo nel fragile immaginario collettivo dell’epoca i timori di nuove conquiste, Pietro Ponzio Rosso (o Rubeo),20 barone di Cerami, chiese nel 1481 licenza21 di costruire una torre nella marina del «feudo» di Militello Valdemone di cui è possessore dai suoi antichi predecessori. Già nel settembre del 1400 Enrico Rosso, dei conti di Aidone e barone di Cerami, aveva ottenuto la terra di Militello Valdemone, permutandola con Bernardo Cabrera a cui Re Martino l’aveva assegnata in virtù dei meriti e della fedeltà nei suoi confronti. Costui aveva, poi, venduto il territorio allo zio Damiano, che morendo senza figli, l’aveva trasmesso, nel 1455, al nipote Guglielmo Rosso, padre, appunto, di Pietro. Lo stato di Militello, una lingua di territorio esteso dal mare fino ai piedi della cima di Monte Soro, al tempo di Re Ferdinando il Cattolico, era costituito da cinque feudi: Pileci, Rantù o Ro’, Balistreri, Rigamo e la Marina. Se i primi erano ricoperti di boschi, con alberi di lecci, querce e sughereti, il feudo Marina offriva le sue plaghe per erbaggi, pascoli, per la coltura della vite. Proprio qui, su di un masso roccioso prospiciente il mare, nel gennaio del 1492,22 iniziava l’edificazione della «prima» torre che costituirà il nucleo originario del castello di Sant’Agata, dando vita ad 20 Marrone A., 2006, Repertorio della Feudalità Siciliana, Quaderni, Mediterranea ricerche storiche, Palermo. 21 ASPA, Protonotaro del Regno, vol. 101, f. 95v - 96r, anni 1481-82. 22 ASPA, Cancelleria 179, f. 330r. Questa è in realtà una seconda licenza. è probabile che Pietro Ponzio Rosso fu indotto a chiederne una seconda, ma con maggiori e precise richieste, poiché nel 1490 la zona fu interessata da un forte terremoto. Cfr. Lo Castro N., 1984, Militello Rosmarino, Ed. Nebros, Messina. 22 un caricatore costiero per lo scambio dei prodotti. Con licenza e facoltà di costruire magazzini e baglio e di apporvi i dovuti accorgimenti architettonici per consentire il posizionamento di armi, il barone di Cerami e Militello aderiva, così, alle istanze di protezione dei lavoratori agricoli che dovevano spesso abbandonare i coltivi, oggetto di razzie e depredazioni. Essi, ora, avrebbero potuto lavorare all’ombra di una difesa, depositare le merci in luogo protetto da solide mura, a vista dei segnali di pericolo che le guardie preposte - cavallari o torrari - avrebbero avuto cura di trasmettere per consentire loro di mettersi in salvo.23 Il commercio, alla luce di questa realtà storica, non era sicuro né incentivato da adeguate infrastrutture: la rete stradale era insufficiente e accidentata, costituita da trazzere, mulattiere e sentieri. La cosiddetta “via Consolare”, che collegava Palermo con Messina, obbligava nei periodi di piena a risalire le sponde dei torrenti per raggiungere i punti di attraversamento. La maggior parte dei traffici commerciali avveniva così via mare. La torre avrebbe difeso il territorio, il piccolo scaro o porticciolo dei pescatori della zona, ma anche la segheria per il taglio del legname proveniente dai boschi dell’entroterra. Questa antica attività, forse una delle prime ad essere svolta vicino al mare, costituiva la principale risorsa economica della marina ed era in stretta coniugazione con i territori più interni e con quelli limitrofi. Il bosco era la «vita»24 degli abitanti raccolti nei microcosmi25 delle alture dei Nebrodi, come di tutto il Valdemone; dava alimento all’uomo e agli animali, assicurava il pascolo estivo col suo sottobosco ricco di mirto, utile per la concia delle pelli; le famiglie contadine vi occupavano i tempi morti dei cicli agricoli. Era, appunto, fonte prima di legna per tutti gli usi domestici ed edili, nonché 23 Scarlata M., 2008, Le torri costiere siciliane fra descrizione storica e rappresentazione in disegno, in Le torri nei paesaggi costieri siciliani (secoli XIII-XIX), Regione Siciliana, Palermo. 24 Trasselli C., 1982, Da Ferdinando... cit., pag. 76. 25 Filangeri C., 1988, Dall’agorà al... cit., pag. 7. Licenza concessa al Barone di Cerami dal Vicerè nel 1492 per la costruzione dalla torre (Cancelleria 179) 23 Disegno dell’acquedotto oggetto della controversia per le acque del fiume Inganno, sec. XVI. (Arch. Fatta del Bosco, vol. 40) 24 per la costruzione di imbarcazioni. Ma in questo ultimo scorcio di secolo, nuove istanze economiche legate alla produzione dello zucchero si facevano prepotentemente avanti, determinando uno sfruttamento più intenso delle risorse boschive, oltre che a provocare progressivamente un mutamento nella geografia del feudo della Marina e dei territori circostanti. Nei territori limitrofi già nascevano i primi opifici, ossia i trappeti di Pietra di Roma26, Acquedolci, Malvicino (Naso), Caronia27 che in verità erano stati nei secoli passati luoghi di particolare ed intensa attività economica. Qualche anno dopo le precedenti richieste, nel giugno del 1494, il barone di Cerami chiese anche la possibilità di prelevare l’acqua del fiume Rosmarino, che divideva la contea di San Marco da Militello, senza pagare alcuna gabella,28 poiché ritenuta sufficiente per i bisogni di entrambi i feudi: l’approvvigionamento di questa vitale risorsa sarebbe servita ad irrigare il cannameleto della sua baronia. Se a dare avvio alla costruzione dei nuovi edifici, et quilli mergulari,29 fu Pietro Ponzio, la prosecuzione dei lavori è dovuta al figlio Enrico, in qualità di reggente e che in quel tempo risiedeva a Militello. A lui, che ottenne investitura nel 1505, che fu capitano d’armi a guerra di Mistretta, Capizzi e Motta d’Affermo, è attribuito il «fervore amministrativo»30 che determinò un significativo e imprevisto sviluppo urbano di Militello Valdemone e del suo vasto territorio. Dopo breve tempo nel 1508 il figlio Girolamo Rosso, divenuto barone, sposerà in prime nozze la 26 Mi riferisco alla grossa struttura «industriale» del secolo XV, di cui oggi non restano che poche tracce, maltrattati ruderi, nella piana di Torrenova, sotto la meno precisa indicazione di Fondaco. Per un maggior approfondimento si rimanda alla letteratura sull’argomento, vedi Filangeri C., 1988, Dall’agorà al presbiterio, Ila Palma, Palermo. 27 Bresc H., 1986, Un monde méditerranéen. Économie et société en Sicilie (1300-1450), Parigi-Roma-Palermo. 28 Palazzolo A., 2008, Le strutture produttive di canna da zucchero ad Acquedolci e Capo d’Orlando tra XV e XVI secolo, Palermo. 29 ASPA, Cancelleria 179, f. 330r. 30 Lo Castro N., 1984, Militello... cit., pg. 21. cugina Caterina Barresi, dei baroni di Pietraperzia, dalla quale non avrà figli; quindi, concluderà un altro importante matrimonio unendosi a Teodora Larcan, figlia del barone di San Fratello, Anton Giacomo Larcan, che possedeva, guarda caso, il trappeto di Acquedolci. Il cerchio sembra chiudersi, così, intorno ai grandi interessi che nel secolo d’oro dello zucchero31 saranno costituiti dalla produzione e dallo scambio di questa merce. Insieme ai tanti prodotti della fertile terra di Sicilia, lo zucchero, in particolar modo, catturerà l’interesse di imprenditori e di mercanti provenienti da tutte le sponde del mediterraneo. A cominciare dai Pisani, (di cui a Sant’Agata resta il toponimo Apesana),32 che nel XV secolo avevano il monopolio del sistema bancario siciliano33, per passare a genovesi veneziani e infine catalani, che creeranno, fra l’altro, un notevole tessuto commerciale e finanziario attraverso la mobilizzazione della ricchezza a favore della Corona e l’attività di prestito del denaro ad interesse.34 Ai Pisani si deve, infatti, il commercio e l’industria dello zucchero e i contatti della Sicilia con le Fiandre.35 È proprio nella prima metà del secolo XVI che questa importante attività comincia ad espandersi fino a ricoprire per tutto il secolo XVII un ruolo economico principale. Il figlio di Girolamo, Vincenzo Girolamo Ros31 Morreale A., 2006, Insula Dulcis, Napoli. è necessario sottolineare, visti i nuovi studi intorno all’industria zuccheriera siciliana, che lo zucchero costituiva, insieme alla seta, la merce a più alto valore aggiunto, come si direbbe in termini economici moderni, monopolio siciliano nell’Europa del tempo. Fin dagli inizi essa si delineò con caratteri di vera e propria impresa industriale, con tutte le sue conseguenze in termini di sviluppo di lavoro, di impiego di capitale e di profitti. Numerosi studi hanno sottolineato che gli utili si aggiravano intorno al 25%, decisamente notevoli per quei tempi. L’industria dello zucchero siciliano conobbe fasi alterne di crescita e declino dal XIV al XVII secolo, ma il 1500, che sarà la grande stagione, imprimerà nel territorio siciliano, ovvero anche nei singoli feudi, un inarrestabile cambiamento. 32 è corruzione del termine Pisana, correttamente riportato nelle carte dello Schmettau del 1720-21. 33 Trasselli C., 1981, Siciliani fra quattro e cinquecento, Intilla Editore, Messina. 34 Cfr. Ligresti D. 2006, Sicilia... op. cit. 35 Trasselli C., 1981, Siciliani fra... cit., pg. 117. 25 so, una volta succeduto al padre nel possesso della terra e sposato la cugina Isabella Larcan, nel 1535, forse in ristrettezze economiche, fu costretto a vendere, jus luendi36, la terra di Militello ad Antonio La Rocca,37 imprenditore e commerciante di Messina. Quella dei La Rocca era una feudalità di origine recente, formata da mercanti arricchiti, che nel secolo XVI si andava costituendo attraverso l’erosione dei feudi maggiori,38 e rappresenterà una pausa di circa quarant’anni nella gestione della terra di Militello. Ma i Rosso sono fortemente interessati a non perdere il possesso di questo territorio. E, infatti, da lì a breve per Militello sarebbe cominciata una nuova stagione. Nella città di Messina, il cui ruolo di piazzaforte dello Stretto la rende uno dei centri più importanti della Sicilia del ‘500, giunge, integrato a tanti impegni che lo legano a Carlo V, un funzionario dell’amministrazione finanziaria dell’Impero: Juan Gallego. In questi anni l’isola, scalo prezioso lungo le rotte internazionali ed avamposto delle truppe spagnole39 e Messina, in particolare, sono in subbuglio per l’allestimento della spedizione di Tripoli. Juan Gallego, di origini ispaniche e appartenente ad una nobile famiglia impegnata nella conquista del Messico, ricopre qui il ruolo di contador mayor, letteralmente contabile maggiore.40 Egli, per le sue complesse mansioni, risiedeva presso il Palazzo Reale, alla confluenza di strade che provenivano dalle aree cerealicole e, a ragione del suo ruolo, si trovava in contrasto con alcuni gentiluomini locali. In un suo privilegio, l’imperatore Carlo V ne celebrò le doti d’ingegno, le singolari virtù, nominandolo cavaliere «aurato» e nel 1540 anche castellano della città.41 Con l’intenzione, appunto, di consolidare la sua posizione personale, nel 1541, sposò Angela Rosso. 36 Formula giuridica che, all’atto della vendita, sancisce il diritto al riscatto del bene venduto. 37 ASPA, Arch. Trabia serie A556, f. 45. 38 Cfr. Trasselli C., 1982, Da Ferdinando... op. cit. 39 Filangeri C., 2003, I Teatini nella Storia della Sicilia, Roma. 40 Ibidem, pg. 226. 41 Castellano del San Salvatore in Messina. 26 Solo nove anni più tardi, nel 1550, in virtù di questo importante matrimonio, venne stipulato un contratto fra Teodora Larcan, la figlia Angela e Juan Gallego al fine di liberare lo stato di Militello dal potere dei La Rocca nel quale si convenne che, una volta riscattato il feudo, esso venisse donato al figlio Girolamo.42 Nel frattempo è barone di Militello Filippo La Rocca, nipote di Antonio, il quale non sta certo con le mani in mano, deciso più che mai a trarre benefici economici dalla sua terra. Nel 1557, con l’intento di riavviare nel suo feudo la piantagione di canna da zucchero, La Rocca litigò per l’utilizzo delle acque del fiume Inganno proprio col barone della vicina San Fratello, Vincenzo Larcan,43 che un anno prima aveva rimesso in funzione l’impianto di Acquedolci, improduttivo da circa 50 anni.44 Lo scopo principale era quello di avviare la produzione dello zucchero e per l’appunto nel 1558 si impegnò nell’acquisto di tutte le caldaie, in condizioni di funzionare, col barone Cottone, proprietario del trappeto di Fiumefreddo.45 Nel 1565, nella marina è anche attivo il fondaco che più volte viene dato in gabella ai mercanti o agricoltori della zona, ad uso di ristoro per le loro attività. Molti abitanti di Militello lavoravano per i trappeti da zucchero della zona o erano impiegati nelle attività collaterali alla produzione del prezioso alimento.46 Nel 1573, a seguito dell’avvenuto riscatto, grazie all’intervento di Girolamo del Carretto, la terra di Militello viene definitivamente ceduta a Girolamo Gallego, mentre i figli di Isabella Larcan, rimasta vedova del legittimo erede Vincenzo Rosso, ricevono in compenso i frutti della baronia di Cerami. Preso possesso di Militello, regolata un anno prima la situazione patrimoniale con la madre donna Angela ed approntata la dote di paraggio per la sorella, sposa di Ferdinando dell’Aquila, Girolamo 42 ASPA, Arch. Trabia serie A556, f. 77r. 43 Cancila O., 1983, Baroni e popolo nella Sicilia del grano, Palumbo Editore, Palermo. 44 Trasselli C., 1982, Da Ferdinando... cit., pg. 433. 45 Cancila O., 1983, Baroni e popolo... cit., pg. 73. 46 Cfr. Palazzolo A., 2008, Le strutture produttive di... op. cit. Disegno della prima torre del Castello di Sant’Agata - Tiburcio Spanoqui “Descripcion de las marinas de todo el Reino de Sicilia” 27 Gallego inizia una serie di attività produttive di particolare importanza, concentrando la sua attenzione sul «feudo» della Marina. Appena qualche anno dopo il suo insediamento, e precisamente nell’aprile del 1576, il territorio di Militello viene dato in arrendamento (ossia in affitto) al mercante catalano Girolamo Gener, che commercia in panni anche nella contea di Modica. Viene stabilita, quindi, una serie di accordi per regolamentare il possesso e gli interventi economici che egli potrà liberamente fare nel territorio e ciò che invece sarebbe rimasto di pura pertinenza del Barone.47 Avrà a disposizione i luoghi della Contura, con le sue sorgenti d’acqua, potrà sfruttare la gualchiera esistente, il paraturi di albaxi48, o impiantarne di nuove. Godrà del pieno possesso dei mulini, sfrutterà le risorse produttive del feudo. Risulta inoltre da questo atto,49 che Girolamo Gallego sia oramai deciso ad avviare l’estrazione dello zucchero,50 non riuscita a Filippo La Rocca, a causa della rivendita di Militello ai legittimi proprietari, per le cui spese di allestimento del trappeto era stato adeguatamente rimborsato.51 Riservandosi i terreni della Marina, regolamentando l’utilizzo delle acque e proibendo il pascolo ai cittadini della zona, il proprietario si preparava nuovamente ad impiantare il cannameleto. Nell’atto di arrendamento, perciò, teneva per sé il trappeto e la tonnara. Cresce, e si consolida, il ruolo rivestito dalla marina nell’economia di Militello. Ma ciò che più importa per la storia di Sant’Agata, il cui nome comincia a circolare nei documenti proprio da questo periodo in poi, è la possibilità data al mercante Gener di edificare una torre con baglio e magazzini accanto a quella già esistente.52 47 ASPA, FND, Notaio Occhipinti, vol. 3781. 48 La gualchiera è un edificio o macchina che, mossa per forza d’acqua, pesta e soda il panno. Cfr. Glossario in Bresc - Di Salvo, 2001, I mulini ad acqua in Sicilia, Ed. Epos, Palermo. 49 ASPA, FND, Notaio Occhipinti, vol. 3781. 50 Trasselli C., 1973, Lineamenti di una storia dello zucchero siciliano, ASSO, LXIX fasc. I, pg. 26 e passim. 51 ASPA, Arch. Trabia serie A556, f. 139r. 52 ASPA, FND, Notaio Occhipinti vol. 3781. 28 Tra due pani di zucchero: l’origine del borgo e le prime descrizioni D alle preziose informazioni tratte dalla Descripcion de las marinas de todo el Reino de Sicilia di Tiburzio Spanocchi, è semplice ritenere che sotto il potere di Girolamo Gallego si sia dato avvio alla costruzione della seconda torre e alla costruzione del bastione che la unisce alla prima del 1492. È durante il governo di Marcantonio Colonna (1577-1584) che viene promossa la notissima ricognizione delle coste siciliane, il cui obiettivo risulta essere quello di conoscere, «insieme alla consistenza geomorfologica del territorio, la dislocazione dei siti fortificati e la reale rispondenza fra le risorse produttive e i detentori dei relativi redditi fiscalmente responsabili nei riguardi del Governo impegnato nella imponente opera di fortificazione dell’isola».53 Nel 1578, l’ingegnere militare spagnolo Spannocchi, viaggiando da Ovest ad Est, descrisse così questo tratto di costa: «...Tutta questa marina sono vignali di diversi particolari dela terra di Melitello. Sarà molto a proposito della Torre di S.ta Gata e che viene in mezzo ala detta marina servirsene per torre di guardia e che risponderebbe con l’aqque dolci lontano circa miglia tre». Dalla descrizione, molto scarna ed essenziale, si evince che il territorio è coltivato per lo più a vigne e sulla marina insiste una sola torre; ma è da questa epoca che si cominciano ad avere informazioni più precise sulla consistenza dei luoghi. Quando nel luglio del 1583 l’architetto fiorentino, Camillo Camilliani, venne chiamato anche lui in Sicilia dallo stesso Viceré, per progettare un ulteriore sistema di tutela lungo le coste dell’isola per le stesse ragioni di cui sopra, lascerà una più 53 Filangeri C., 1999, La marina di Tusa, in Miscellanea Nebroidea, Ed. Rotary Club Sant’Agata Militello, pg. 78. Disegno del castello di Sant’Agata tratto dall’opera di Camillo Camilliani 29 Il trappeto siciliano. Illustrazione del trappeto e delle varie fasi della produzione di zucchero. Jan Van der Straat, Nova Reperta, 1584 esaustiva documentazione sullo stato delle piazzeforti costiere siciliane54. Nel suo lavoro, il Camilliani fornì anche un quadro completo delle ulteriori attività che si svolgevano lungo la marina. Nel secondo libro delle torri così appunta: partendosi da Pietra di Roma verso Ponente si trova un arbitrio d’una serra d’acqua lontano da Pietra di Roma miglia tre e due terzi; et questo luogo si domanda Santa Agata; et sì come nel suo disegno si vede è fabrica incomplita, et per il continuo trafico che v’è, et per essere ridotto di barche, tengo esser necessariissimo, ch’ella s’alzi et finiscano i due corpi con le sue difese che vi bisognano a talchè vi si possa far la guardia tanto necessaria sì per la rispondenza de’ segnali, come per sicurtà di detto trafico, et de’ vascelli, che vi si riducono per essere principalissimo passo, tanto più che con non molta spesa si può fare et ridurlo in fortezza. Et questo intorno a ciò basti.55 Di conseguenza, la costruzione di ciò che nel secolo successivo si avvierà a diventare il «castello» di Sant’Agata, è cominciata in questo quinquennio, a ragione del fatto che «la torre o la fortificazione sono ancora un centro organizzato per resistere a brevi assedi ed hanno anche la funzione di magazzino dei raccolti».56 Le decisioni dei Gallego non furono, però, accolte con gioia dagli abitanti della zona, visto che nel 1582 sorse un’accesa controversia tra il barone Girolamo e i componenti dell’Università di Militello,57 per regolamentare con chiari patti gli usi civici nei feudi del territorio che venivano a configgere con quelli del proprietario. Invero l’economia del territorio era ancora fortemente legata alla viticoltura, alla pastorizia ed 54 Camilliani C., 1584, Descrittione delle marine di tutto il regno di Sicilia con le guardie necessarie da cavallo e da piedi che vi si tengono, in Scarlata M., 1993, L’Opera di Camillo Camilliani, IPZS, Roma. 55 Scarlata M., 1993, L’opera... cit., pg. 462. 56 Trasselli C., 1982, Da Ferdinando... cit., pg. 270. 57 ASPA, Arch. Trabia serie A567, f. 569. 30 alle attività agricole per la produzione di olio, vino, formaggi, frutta, ortaggi, alla produzione della seta grezza. Nei «feudi» di Balistreri, Rantù, Rigamo, Pileci l’università di Militello aveva interessi soprattutto nello sfruttamento della legna morta e delle sorgenti d’acqua mentre nella Marina prioritario era l’utilizzo degli erbaggi e dei pascoli. Lungo il fiume Inganno lavoravano i mulini, vere e proprie centrali di energia e punti strategici dell’economia contadina.58 La piantagione di canna da zucchero dettava particolari condizioni e avrebbe contrastato e condizionato le libertà e i bisogni degli agricoltori. Ma nel 1600 Girolamo Gallego, che tra il 1594 e il 1596 era stato anche componente del Parlamento Siciliano, muore e Militello e la sua marina passano al figlio Vincenzo, unico erede maschio sopravvissuto ad una progenie di cinque figli. A Vincenzo Gallego, promotore insieme alla madre, donna Margherita Requesenz, dell’istituzione del convento domenicano a Militello, va riconosciuto il merito di aver “dato i natali” a Sant’Agata, 58 Ancora visibili sono i ruderi dei mulini di Presa Murata, Molino di Cusca e quello all’imbocco del torrente Inganno. di aver fatto, cioè, del feudo della marina un luogo importante e maggiormente abitato, in risposta ai patti stabiliti con l’Università per la costruzione di nuove abitazioni ai margini della «difisa» di Sant’Agata. Egli è più che mai deciso a riprendere l’attività lasciata incompleta dal padre Girolamo quando nel 1619 si pone di nuovo in contrasto con la baronia di San Fratello. Nell’aprile di quell’anno Vincenzo si scontra con Aldonza Larcan sempre per la gestione delle acque del fiume Inganno che venivano per la maggior parte utilizzate per irrigare il cannameleto di Acquedolci59 e di cui il Barone di Militello rivendi59 Trasselli C., 1973, Lineamenti di una storia dello zucchero siciliano, ASSO, LXIX fasc. I, pg. 26 e passim. Interessanti sono le considerazioni che il Trasselli fa nell’introduzione. «Per l’uomo non è facile rassegnarsi quando una vecchia fonte di ricchezza viene meno. Quando esse scompaiono, lasciando un vuoto nell’agricoltura di una regione, e la mancanza di produzione di zucchero si traduce in un impoverimento dei redditi, allora si cerca qualcuno o qualcosa che si possa indicare come causa efficiente di tanta perdita». Proprio alla ricerca di qualcosa di consistente per la storia del mio paese, mi sono imbattuto nella storia dell’industria dello zucchero, affascinante e coinvolgente, come mai mi era capitato. Nel cercare di capirne di più, si sono rese man mano più chiare 31 ca il possesso ed il pieno utilizzo in quanto alimentato da numerose e ricche favare e sorgenti delle sue proprietà:60 gli affluenti del vallone Torno, le acque di contrada Oliva, quelle di Spartà e del Vallone di Mastrangelo, le acque di Pattina. Che egli, alla fine, abbia realizzato nella Piana della marina61 la tanto agognata piantagione di cannameli, ci conforta il toponimo del torrente62 che prende nome proprio da questa pianta e che scorre ad ovest del castello. È anche ragionevole supporre che egli sia riuscito ad avviare, finalmente, il piccolo trappeto per l’estrazione dello zucchero.63 Oltretutto Vincenzo Gallego sposerà Francesca Giambruno, baronessa di Galbonogara, ove è attivo un opificio fra i più grandi della Sicilia; il suocero è, inoltre, proprietario delle terre di Partinico coltivate intensamente a cannamela. Di sicuro, stando dietro la sequenza delle sue mosse, si coglie che oramai la Marina di Militello sia diventata un luogo frequentato quando nel 1628 egli decide di costruire un nuovo edificio accanto alle torri avite, di meglio fortificare quello esistente, di far sì che a questa costruzione sia dato titolo di castro, oltreché definitivamente di nominarlo Sant’Agata.64 Vincenzo Gallego chiede, infatti, di proseguire l’opera presente «parietibus et turribus munire» cioè mediante una struttura «pro offenctione et defenctione ab inimicis nostrae sanctae fidei», per meglio difendere i lavoratori stabili o «transeunti» della marina, soggetti, come invero lo furono, alle sortite dei «mori».65 Le torri, dunque, generalmente accompagnate da bagli, magazzini, fondaci - in generale le strutle direttrici di sviluppo di Sant’Agata, che ha origine quasi esclusivamente nell’indotto creato da questa industria. 60 ASPA, Arch. Fatta del Bosco, vol. 38, f. 742r. 61 ASPA, Arch. Fatta del Bosco, vol. 38, f. 742r. 62 Vallone e contrada Cannamelata situata ad ovest dell’odierno abitato, che confluiscono nella Piana di Sant’Agata. 63 In Sicilia funziona di regola la coppia fissa trappeto-cannameleto, mentre raramente si trovano piantagioni indipendenti. Cfr. Morreale A., 2006, Insula dulcis, Napoli. 64 ASPA, Arch. Trabia serie A556, f. 215 e segg. 65 ASPA, Arch. Trabia serie A556, f. 218. 32 ture “castrensi” - rappresentano quello che al «di là di ogni riconoscimento tipologico»66 si definiscono un caricatore. L’esigenza di difendere i luoghi di produzione e di scambio delle merci, i trappeti, ossia gli impianti dove si produceva lo zucchero, le tonnare, i mulini o le piantagioni sta, invero, «all’origine d’una parte importante delle torri e dei castelli in Sicilia».67 Unitamente alla seta, la cui coltivazione è intensa nelle campagne di Militello, così come in tutto il Valdemone, lo zucchero costituiva la principale merce d’esportazione d’alta qualità e ad elevata intensità di capitale e di lavoro,68 ma soprattutto di alto rendimento69 ed i Gallego, con Vincenzo, una volta stabilizzato il potere nello stato di Militello, non mancarono di investire le loro risorse in questo vero e proprio business. Ma c’è di più: «lo zuccherificio, così come la coltura della canna da zucchero,70 a differenza di qualunque altra attività produttiva era il centro motore di una catena di altre attività»71: imponente soprattutto restava la fornitura di grandi quantità di legname per la cottura dello zucchero, il legno di suvaro scorchato, “strategica”, infine, la gestione dell’acqua, per irrigare le piantagioni e come forza motrice; la coltura della cannamela, il cui toponimo resterà fino ai nostri giorni, quasi ad ammonirci sulla sua rilevanza economica, comportava anche un’intensa concentrazione di lavoro. La presenza di questa vera e propria industria capitalistica,72 i cui effetti economici sono da ri66 Filangeri C., 1999, La marina di Tusa, cit., pg. 79. 67 Scarlata M., 1993, L’opera di..., cit., pg. 114. 68 Epstein S. R., 1996, Potere e mercati... cit., pg. 206. 69 Morreale A., 2006, Insula dulcis, Napoli. 70 Sulla differenza fra trappeto e cannameleto cfr. Trasselli C., 1982, Storia dello zucchero siciliano, Caltanissetta-Roma. «Dunque quella del trappeto era già un’attività distinta dalla cultura delle canne, come ancor oggi il frantoio è distinto dall’uliveto o come il mulino, pastificio e forno erano distinti dalla produzione granaria anche se appartengono alla medesima azienda». 71 Trasselli C., 1982, Storia... cit., pg. 122. Queste attività andavano dalla raccolta del concime in città, all’edilizia, alla lavorazione dell’argilla, alle arti della carpenteria e del cavapietre, a quella dei fabbri e dei calderai. 72 Morreale A., 2006, Insula dulcis, Napoli, ESI. marcare e su cui la storiografia economica si è poco soffermata, «diventerà causa efficiente di trasferimenti di popolazioni»73 e spiega in larga parte la formazione del nucleo originario della cittadina di Sant’Agata, che all’inizio del XVII secolo, cominciò a richiamare, verso il suo comprensorio, dalla vicina Militello e da altre parti di Sicilia, decine di lavoratori - contadini, maestri d’arti, mercanti - e di conseguenza le loro famiglie.74 Si può osare dire che Sant’Agata, ancora marina di Militello, si sia formata fra due pani di zucchero, all’ombra prima dei due grandi trappeti dei feudi limitrofi, Acquedolci e Pietra di Roma, ai quali forniva legname, poi essa stessa protagonista di questa speciale avventura. Non è difficilie ritenere che «il continuo trafico che v’è»75 a fine ‘500 rappresentasse bene la realtà locale della Marina e che oramai le attività economiche legate anche allo zuccherificio spingessero a rendere più stabile la popolazione. Infatti assieme alla licentia fabricandi,76 Vincenzo Gallego acquisirà, come d’uso in particolare nel Seicento spagnolo, il «mero e misto imperio», ossia la facoltà di esercitare la giustizia civile e penale anche per il «feudo» della Marina, oramai Sant’Agata. D’altra parte, con l’esercizio dei poteri giurisdizionali ad esso connesso, egli amplificava notevolmente il controllo sociale sul territorio, completando l’assoggettamento della popolazione già assicurato dall’organizzazione produttiva.77 Nel secolo XVII il logoro potere spagnolo, per far fronte agli ingenti debiti per le continue guerre della sua politica espansiva, decise di allentare le maglie amministrative concedendo, dietro «lauto» compenso la possibilità di creare nuovi insediamenti abitativi.78 73 Trasselli C., 1982, Storia... cit., pg. 123. 74 Per approfondire l’argomento cfr. Palazzolo A., 2009, Le strutture produttive... op. cit. 75 Camilliani C., Descrittione... op. cit. 76 ASPA, Arch. Trabia serie A556, f. 215r. 77 Cancila R., 2008, Merum et mixtum imperium nella Sicilia feudale, Palermo, Mediterranea Ricerche Storiche. 78 Renda F., 2003, Storia della Sicilia da Federico III a Gari- Il 25 Maggio 1628, Luigi Gallego, figlio di Vincenzo, ottenne, così, il titolo di primo «marchese» di Sant’Agata e di lì a poco avrebbe chiesto ed ottenuto la licentia populandi. Nel 1630, con la «pia facoltà di popolare Sant’Agata», arbitria ampliantur,79 a ragione dell’ingrandimento delle attività economiche, nei feudi Comun Grande, Comunello e la Marina,80 nei dintorni della fortezza, vocata di Santa Agatha, si poterono costruire nuove abitazioni ed insediare una ottantina di famiglie.81 All’opera di Luigi Gallego si devono la costruzione del nuovo complesso che solo più tardi si potrà «vedere» nel suo splendore e la prosecuzione delle redditizie attività produttive. Che gli interessi economici legati allo zuccherificio fossero ancora prioritari negli anni successivi, si rese palese col matrimonio che Luigi concluse con Anna Spatafora, marchesa di Roccella, altro luogo di notevole scambio commerciale e dove era presente un grande trappeto; inoltre egli riceveva in eredità dalla nonna Francesca la baronia di Galbonogara con le annesse attività agricole. Nel 1658 Luigi otterrà il titolo di «Principe di Militello» dal re Filippo IV, il sovrano dal quale un anno prima aveva ricevuto la Regia Confirma della licentia populandi. Nella seconda metà del XVII secolo nel Valdemone si era verificata una notevole ripresa economica. Militello era demograficamente cresciuta di alcune centinaia di abitanti che pagavano decime e censi ed anche la marina cominciava ad essere un luogo di scambi sempre più intensi. Quando nel 1662 Luigi Gallego muore, non lascia eredi. Il suo primogenito Vincenzo Domenico era morto un giorno prima del padre. I titoli di principe di Militello e marchese di Sant’Agata passarobaldi, vol. 2, Palermo. 79 Arbitrio o Arbitrium: impresa economica legata all’agricoltura e/o alla pesca (trappeto o tonnara). Cfr. Glossarietto in Scarlata M., L’opera di Camillo Camilliani, pg. 603. 80 ASPA, Protonotaro del Regno, Licentia populandi, vol. 548, f. 147v-149r. 81 Cfr. Lo Castro N., 1984, Militello... cit., pg. 27. 33 no al fratello Giuseppe. Nel 1665 il nuovo marchese di Sant’Agata e proprietario di Galbonogara darà in affitto questo trappeto, ereditato dalla madre, al sacerdote collesanese don Giovanni Filippo Rini82, che rinuncerà un anno dopo, segno oramai che lo zuccherificio cominciava ad entrare in crisi.83 Alla morte di Giuseppe sarà un altro Girolamo Gallego a divenire erede. Il 13 novembre 1678 don Girolamo Gallego morì per cui il titolo di Principe passò al nipote Vincenzo Gallego e Ventimiglia, figlio di Giuseppe e dopo costui, morto il 30 aprile 1693, al fratello Gaetano Gallego e Ventimiglia. 82 Termotto R., 2005, Una industria zuccheriera del cinquecento: Galbonogara, Palermo, Mediterranea Ricerche Storiche. 83 Lo zuccherificio e la coltivazione della canna da zucchero entreranno definitivamente in crisi a partire dalla seconda metà del Seicento. Le ragioni di questa crisi sono molteplici ed ancora oggi oggetto di studi; l’importazione di zucchero dalle Americhe fu tra i fattori più importanti nel determinare il declino di questa coltura. A tal riguardo e per una più ampia informazione cfr. Morreale A., 2006, Insula dulcis. op. cit. Il castello visto da nord-ovest in una foto della metà del secolo scorso 34 Attraverso il secolo dei lumi: l’istituzione della fiera, lo sviluppo del commercio I ndizio e conseguenza di scambi commerciali più vivaci, di aumento dei consumi ovvero di una generale crescita economica della Marina di Militello, fu l’istituzione della fiera. Questa pratica che fa perdere le sue origini nella notte dei tempi, costituiva senza dubbio un evento di significativa portata storica; era la “piazza affari” dell’evo moderno, momento di inizio e consuntivo di ogni stagione produttiva, incentivo di sviluppo e di promozione del territorio. Le fiere più antiche favorivano grandi flussi migratori e si svolgevano in occasione di pellegrinaggi religiosi presso santuari, abbazie, luoghi di culto. Già fra il 1497 e il 1522 in Sicilia furono istituite ben sedici fiere; fra di esse risultano San Fratello, Patti, Tindari.84 Ancora prima, già nel XII 84 Trasselli C., Da Ferdinando... cit., pg. 92 La fiera storica in una foto della prima metà del secolo scorso secolo, presso il monastero di San Filippo di Fragalà si svolgeva una delle fiere più antiche della Sicilia: era un nevralgico crocevia di viandanti, di monaci e di contadini.85 Fu proprio sotto la signoria del principe Gaetano Gallego che nella Marina, con privilegio del Tribunale del Real Patrimonio del 28 luglio 1700, si diede avvio alla fiera del bestiame.86 Essa si sarebbe svolta a partire dal 24 ottobre dello stesso anno, ma sembra, negli accenni contenuti nei documenti storici, che la richiesta fosse già stata inoltrata da diversi anni. Per la piccola comunità agricola e pastorale la fiera sarebbe diventata il naturale sbocco della sua economia, che sul limitare del XVII secolo era in decisa espansione. La fiera avrebbe rappresentato la più vasta esposizione di tutto quello che gli uomini dei Nebrodi coltivavano, producevano ed 85 Pirrotti S., 2008, Il Monastero di San Filippo di Fragalà (sec. XI-XV), Palermo, Officina di Studi Medievali. 86 Lo Castro N., 2001, La fiera storica di Sant’Agata Militello, supplemento al n. 6 di Paleokastro, FFG Editore. allevavano; di tutto ciò che l’artigianato locale creava nelle botteghe delle popolose contrade collinari o nei comuni limitrofi. Ma la data convenuta fu causa della controversia fra il barone di Militello e don Diego Joppolo Ventimiglia, duca di Sinagra e conte di Naso, poichè essa coincideva con quella di Capo d’Orlando. Dopo una serie di contrasti ed un acceso botta e risposta, al Principe Gallego venne data licenza per lo svolgimento della fiera nella Marina, dal 21 al 26 di settembre, in modo da evitare la coincidenza con quella orlandina. Ma essendosi verificata una notevole flessione di partecipanti, don Gaetano Gallego, appena tre anni dopo, chiese la revoca di quella sentenza, affinché una fiera “così celebre” non venisse annullata e di effettuarla nei giorni compresi fra il 16 e il 24 novembre di ogni anno e di pubblicizzarla opportunamente “per tutto il Regno”.87 La richiesta fu esaudita. In tal modo ogni contestazione venne sopita e la data proposta diventò definitiva. Il 87 Lo Castro N., La fiera storica... cit., pg. 4. 35 Il territorio intorno a Sant’Agata nel disegno tratto dalla carta della Sicilia di Samuel von Schmettau (1720-1721) Principe aveva avuto ragione dei diritti, traendone notevoli vantaggi economici ad eccezione del pagamento delle gabelle doganali e dei regi donativi per le merci che transitavano dallo scaro. Importanti notizie su Sant’Agata intorno al 1715 sono fornite dall’atto di affitto con cui il principe Gallego, il 9 Giugno di quell’anno, cedeva la terra di Militello e la sua Marina.88 Troviamo così che Sant’Agata era divisa fra soprana e sottana, mentre il punto di riferimento restava la fortezza con le sue torri, il fondaco e i magazzini per le merci. Tante notizie si apprendono sull’economia del settecento santagatese essenzialmente legata all’agricoltura e alla produzione della seta che manteneva «per la sua abbondanza tutti i naturali».89 Ai piedi delle due torri erano presenti i mulini denominati “taglio dei boschi” e “doghana”. Restava prevalente l’attività della produzione di legname sia per usi civili e commerciali, per il feudo di Gal- bonogara, sia per la produzione di carbone e di legna morta e di cui i Gallego si riservavano la quantità bastevole alla costruzione di quattro carrozze. Ulteriori obblighi gravano sul principe di Militello e marchese di Sant’Agata: quello di consegnare le “tavole” per allestire le baracche per la fiera!90 Gli scambi e le produzioni si concentravano essenzialmente sulla viticultura, sulle produzioni pastorali: formaggi, olio, la coltivazione di alberi da frutto, fichi, gelsi, mentre dallo scaro del Castello giungevano i bastimenti con il frumento, la cui produzione interna non era certo sufficiente. Non mancava, inoltre, in questo primo scorcio di secolo, la parte di territorio riservata alla caccia. Un ulteriore elemento si trae da questo documento ed è quello dello spazio lasciato libero per il riposo della semina. La coltura della canna da zucchero continuava, invece, ad essere praticata nella vicina terra di Acquedolci, almeno fino al 1730, quando venne completamente abbandonata.91 88 ASPA, Arch. Trabia serie A556, f. 252r. 89 Cfr. Lo Castro N., La fiera... cit., pg. 7 e nota 36. 90 ASPA, Arch. Trabia serie A556, f. 252r e f. 257v. 91 Cancila O., 1993, Impresa, redditi, mercato nella Sicilia mo- 36 Sappiamo inoltre che gli introiti maggiori provenivano dai dazi della Secrezia a capo della quale, tra il 1734-1750 c’era don Giuseppe Calderoni.92 Nei registri, tenuti con puntualità e precisione, sono trascritte, anno per anno, le entrate (immisssioni) e le uscite (estrazioni) di ogni prodotto: il tipo di merci, la quantità, la provenienza, la destinazione, i proprietari delle imbarcazioni. La maggior quantità di beni soggetti a traffico di estrazione apparteneva al principe Giuseppe Gallego e alla principessa Melchiorra Gallego Moncada, all’abate don Ignazio Ricca, all’arciprete di Militello. Si scambiavano fichi secchi, formaggi, bestiame bovino da macello, grandi quantità di seta grezza e prodotti della lavorazione del legno. Il commercio di maggior consistenza veniva esercitato verso i centri di Palermo, Messina, Lipari, Trapani e Cefalù.93 Molte famiglie santagatesi erano proprietarie di imbarcazioni e svolgevano attività di trasporto di prodotti di largo consumo. Le importazioni riguardavano per lo più prodotti lavorati e consistevano in gioielli d’oro e argento, in drappi di seta pregiata, in panni di lana lavorata. Negli anni 1750-51 partirono da Sant’Agata, dirette a Palermo, 14 imbarcazioni cariche di pellame, olio, fichi, fusi, manici di legno e manufatti artigianali.94 Bisogna tuttavia segnalare che in quel torno di tempo, ossia fino alla metà inoltrata del XVIII secolo, una profonda crisi assediò Militello Valdemone e l’intera area geografica di cui faceva parte anche Sant’Agata. Tra il 1714 e i successivi censimenti del 1737 e del 1747 la popolazione subì una pesante flessione con un decremento di circa il 40%.95 C’è da dire che tutto il Valdemone subì il fenomeno di “destrutturazione” socio-economica a causa della scomparsa della fiorente industria delderna, Palermo, pag. 265. 92 Ardizzone Gullo G., 2004, Traffici per mare. La Secrezia di Sant’Agata di Militello in Valdemone, Paleokastro n. 15, FFG Editore. 93 Ibidem, pag. 38. 94 Ibidem, pag. 40. 95 Ligresti D., 1999, Un caso di ristrutturazione amministrativa nella Sicilia borbonica: la nascita di S. Agata Militello in A. Coco (a cura di), Le passioni dello storico. Studi in onore di Giuseppe Giarrizzo, Catania. lo zucchero e della crisi del comparto serico. Stando proprio ai riveli del 1747, Sant’Agata esisteva già come modesto villaggio con 18 fuochi dichiarati e 56 anime e 18 famiglie sparse nelle aree agricole, originarie prevalentemente di Militello. Nuclei abitativi, inoltre, erano già sorti nelle contrade di Vallone Posta, Carruba, Gaglio, Astasi, Gabella. Nella Marina, però, i capifamiglia erano tutti maschi, indice della vocazione squisitamente lavorativa di questi territori.96 Dopo la metà del Settecento, allorchè l’abate Vito Amico raccoglieva notizie sulle varie località siciliane che avrebbe poi pubblicato nel suo Lexicon Topographicon, il sito di Sant’Agata veniva definito: «Casale Massa, poichè intorno alla torre sorgono alcune casucce e una Chiesa con sacerdote», dove annualmente si tengono «magnifiche fiere, ogni anno in novembre con gran concorso del vicinato».97 Il 1° novembre 1755, in seguito alla morte di Giuseppe Gallego, il Principato di Militello passò nelle mani di Francesco Paolo Gallego e Monroy, il quale, nel marzo dell’anno successivo, nominò suo erede il figlio primogenito Giuseppe Gallego Naselli, già principe di Militello, che nell’agosto del 1777 ottenne anche il marchesato di Sant’Agata. Il suo nome sarebbe passato alla storia per avere abolito gli antichi usi civici, in vigore dal 1582, che nei secoli delle grandi colture “industriali” (o specializzate) avevano ben ragione di esistere; ora, invece, contribuiva a far incrinare i rapporti fra la città-madre e la Marina. Il baricentro degli interessi iniziava a spostarsi sempre più in direzione della costa, che nei tempi a venire si sarebbe mostrata più sicura ed economicamente più attraente e profittevole. L’istituzione della fiera a Sant’Agata, il trasferimento stesso di gruppi di famiglie da Militello verso il mare, la necessità di una nuova economia gravitavano ormai sul mare a tutto vantaggio della frazione che nel secolo successivo conobbe definitivo ed istituzionale riconoscimento. 96 Ibidem. 97 Amico V., Dizionario topografico della Sicilia, Palermo 1757, tradotto dal latino e annotato da Gioacchino Di Marzo, Palermo 1855 e 1856. 37 38 Stefano Brancatelli in cerca di autonomia: SANT’AGATA DI MILITELLO TRA OTTO E NOVECENTO 39 ...conoscere com’è la storia che vorticando dal profondo viene; immaginare anche quella che si farà nell’avvenire. Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio. 40 Troppo grande per esser frazione: Sant’Agata nella prima metà dell’Ottocento Ragionando (Militello) diceva (…): il Comune son io, e son Comune da Ruggiero creato, che perciò nacqui comune colla monarchia di Sicilia. Sant’Agata è una nascente popolazione, che ha ricevuto da me moto e calore, senza potere ancora giungere al suo pieno sviluppo politico – divisa da me è nulla – a me unita siccome quartiere, è cosa faciente parte di me Comune e perciò nel suo seno ha potuto ricevere le mie autorità comunali, il giudice di Militello, il sindaco di Militello, il decurionato di Militello, l’esattore di Militello, il ricevitore del Registro del Circondario di Militello e quant’altri sono impiegati giuridici finanziari ed amministrativi di un Capoluogo circondariale ch’io sono.1 C on questa finzione letteraria è la stessa città di Militello personificata a rivendicare i propri diritti presso il Governo rivoluzionario sorto in Sicilia a seguito dei moti del 1848: Sant’Agata, nel frattempo, era essa stessa divenuta centro e non più periferica frazione di un nuovo unico comune, che ambiva a mutare il suo nome da Militello Valdemone a Sant’Agata di Militello. Ma come potè avvenire tale emancipazione? Come una piccola frazione di pochi abitanti era potuta divenire uno dei centri più importanti del Valdemone? Come, in ultima analisi, Sant’Agata divenne comune autonomo? Per rispondere a queste domande occorre ripercorrerne la storia nel corso dell’Ottocento, secolo in cui le vicende civili ed ecclesiastiche si intrecciano sino a diventare un tutt’uno inscindibile cosicché non si possono comprendere le vicende sociopolitiche ed economiche se non congiuntamente a quelle ecclesiali, e viceversa. Agli inizi del 1800 e probabilmente per i pri- 1 Per Militello Valdemone, contro le usurpazioni che gli tenta di ordire Sant’Agata, Palermo 1848, pgg. 22-23. mi due decenni, il borgo marinaro di Sant’Agata doveva essere ben poca cosa: i Riveli di Militello Valdemone del 1811 attestano nella marina l’esistenza di un castello con carceri, magazzino e fortino, un fondaco con taverna e ospizio, un molino ad acqua, due case, una per il servizio del cappellano della Chiesa, l’altra per il fondacaro.2 I Riveli ci descrivono una situazione economica non certo florida3; nulla faceva presagire quanto sarebbe accaduto pochi decenni più tardi: la redditizia economia basata sulla coltivazione, sulla lavorazione e sull’indotto dell’industria delle canne da zucchero era oramai da tempo andata in malora in tutta la zona e la stessa fiera, pur attirando mercanti da tutto il Regno, era un’attività episodica (limitata a sei giorni all’anno) ed incapace di creare fermenti economici stabili; a conferma di ciò è la notizia che nel 1821 l’ultimo dei Gallego, don Giuseppe, sarà costretto a cedere tutti i feudi di sua proprietà (e con essi anche il castello) al Principe di Trabia e 2 In realtà i cappellani presenti all’epoca erano due: “primo cappellano” era Don Pietro Giammò, originario di Caprileone; “secondo cappellano” era don Vincenzo Faraci (senior), già nel 1807 cappellano della Real Chiesa di S. Domenico di Militello. Sotto gli Arcivescovi di Messina Garrasi e Trigona anche l’antica chiesa di S. Nicola, limitrofa al castello e di fondazione normanna, trovandosi diruta ed in stato di totale abbandono ed essendo di proprietà del principe, era stata abolita e le sue rendite attive erano state riversate alla chiesa della Marina, anch’essa di regio patronato. Nel 1810 coi benefici annessi, anche il sacerdote Vincenzo Faraci era stato obbligato a trasferirsi a Sant’Agata per esercitare il suo servizio di cappellano nella chiesetta del Castello. Nel 1812, infine, ai due sacerdoti ne venne affiancato un terzo, don Francesco Corpina, originario di San Marco. 3 Per un’approfondita analisi dei Riveli di Militello Valdemone si vedano i due interessanti saggi di Domenico Ligresti: Ligresti D., Dinamiche… op. cit., Milano 2002 e soprattutto Ligresti D., Un caso di ristrutturazione amministrativa nella Sicilia borbonica: la nascita di S. Agata Militello in Coco A. (a cura di), Le passioni dello storico. Studi in onore di Giuseppe Giarrizzo, Catania 1999. In realtà, però, eccetto il Rivelo del 1747 e sino all’autonomia, i dati ufficiali dei censimenti non consentono di seguire lo sviluppo dei due insediamenti in maniera separata; non condividiamo in tal senso l’analisi per cui, interpolando il dato certo del 1844, anno in cui si statuì la separazione trai due comuni con un rapporto di 2/5 e 3/5 rispettivamente per Militello e Sant’Agata, si considera verosimile conservare tale rapporto anche per gli anni precedenti, ipotizzando una popolazione per il nuovo borgo di 2.116 unità contro i 1.411 di Militello nell’anno 1831 e di un migliaio per Sant’Agata sui complessivi 2.526 nell’anno 1806. Il trend riportato risulta totalmente falsato ammettendo un incremento demografico non lineare nella prima metà dell’ottocento, come è avvenuto. 41 Scalia per ottenerne in cambio l’assolvimento dei molti debiti, oltre che un vitalizio con cui trascorrere gli ultimi giorni della sua esistenza a Napoli, ove si era trasferito. Se nel 1819 la popolazione di Militello era di 2.100 abitanti contro i soli 600 del borgo di Sant’Agata4 (ossia appena 250 fuochi), sotto i Lanza di Trabia la situazione dovette iniziare a conoscere un sostanziale cambiamento. Il sobborgo della Marina iniziò ad attuare una massiccia politica di urbanizzazione, richiamando dai paesi limitrofi parecchie famiglie che fissarono attorno al castello le loro abitazioni; il volto della contrada iniziava a prendere così una sua peculiare consistenza, non limitandosi più al solo castello e a qualche casupola accanto. Sino ad allora, infatti, al di fuori del Castello nella marina praticamente non vi erano costruzioni private, ma solo piccoli fabbricati posti attorno alla fortezza ed alcuni magazzini in prossimità della battigia (per la conservazione e l’imbarco delle derrate e delle merci) fatti costruire dal feudatario e concessi “a loghiero”, ossia in locazione. Gli interessi delle famiglie notabili di Militello iniziavano ad orientarsi verso la Marina ed il sobborgo si ingrandiva lungo la direttrice data dalla “Via dei Pioppi” (odierna via Roma) adiacente al castello, che costituiva anche l’ingresso dal mare. Analogamente a quanto avveniva in ambito civile, nei medesimi anni un radicale cambiamento interessava anche la comunità ecclesiale: nel 1822, alla morte dell’arcivescovo di Messina Trigona, papa Pio VII con un decreto concordato col governo borbonico e reso esecutivo il 6 luglio 1823, scorporava Militello – da cui amministrativamente ed ecclesiasticamente Sant’Agata dipendeva – ed altri ventidue comuni dall’Arcidiocesi di Messina, per annetterli all’accresciuta diocesi di Patti. A quel tempo, Sant’Agata annoverava già le 1.000 unità 4 Dato della statistica inserita nella collezione delle leggi (semestre 1 anno 1819) e desunto da un testo edito dalla “stamperia della Riforma, via Spedaletto dirimpetto Mezzojuso n. 41”, dal titolo Per Militello Valdemone, contro le usurpazioni che gli tenta di ordire Sant’Agata, Palermo 1848. 42 e necessitava di una più efficace azione pastorale; rimosso don Francesco Corpina, in assenza della convalida del Principe, la cura delle anime veniva temporaneamente affidata in qualità di cappellano ad un membro di una delle più illustri famiglie di Militello, il vicario foraneo don Pietro Pirrone. Ma in Sicilia, si sa, il transitorio diviene facilmente definitivo e nella Chiesa, in particolare, lo scorrere del tempo spesso si dilata, rallentando. Per oltre un decennio, e cioè sino al 1834, nella Chiesetta del Castello erano presenti così solo tre sacerdoti: l’ottuagenario don Pietro Pirrone, “l’anziano ed asmatico” don Vincenzo Faraci (senior) e don Giacomo Palazzolo. Se la comunità dal punto di vista economico e sociale tendeva ad aumentare, la cura pastorale risultava deficitaria per la penuria di preti ma anche per la trascuratezza posta in atto dall’arciprete di Militello. L’avvento della nuova diocesi, geograficamente più vicina, e di un nuovo vescovo, pastoralmente più attento alla cura del territorio (Mons. Nicolò Gatto anch’egli nominato nel 1823), dava così nuovo impulso alla vita del sobborgo della Marina. Nel 1824, in particolare, il Vescovo proponeva alle autorità civili ed ecclesiali di Militello di indire una missione popolare da affidare ai padri Liguorini (o Redentoristi), missione che doveva interessare Sant’Agata, oltre che San Marco, San Fratello ed Alcara. Il barone Biagio Faraci convocava nella casa del Real Giudice, il neo Sindaco Don Antonino Calderone, l’arciprete Vincenzo Manzo ed altre autorità del Comune di Militello, pianificando, anche economicamente, la missione. Questa, che veniva fissata per l’inizio del mese di gennaio, doveva svolgersi in forma pubblica nella Chiesetta del Castello e durare solo otto giorni con la presenza di due padri Liguorini provenienti da Palermo; veniva scartata l’ipotesi di anticiparla a dicembre, perché “mese di mercato alla marina”. La missione ebbe così svolgimento dal 6 sino al 13 gennaio 1825. Il grande successo riscosso indusse Mons. Gatto a chiederne il 5 marzo ed il Titolo 43 16 luglio 18255 al Consigliere della Segreteria di Stato per gli affari ecclesiastici l’estensione a tutti i rimanenti comuni aggregati nel 1822: la piccola Sant’Agata divenne così tra le comunità pilota del programma di riordino pastorale della “nuova” diocesi. Tale missione ebbe delle ripercussioni nella storia civile oltre che religiosa di Sant’Agata, a causa degli sviluppi sociali ed urbanistici che ne discesero: per la prima volta si riunì in vista di un’unica occasione - la missione popolare - ed in un unico luogo – la piccola chiesetta del Castello – l’accresciuta comunità di Sant’Agata, che iniziava così a prendere consapevolezza delle proprie potenzialità future ma anche delle insufficienze dell’unico ambiente collettivo posseduto nel presente. L’intera popolazione si trovò impegnata, con entusiasmo e fervore, nello slancio campanilistico di consolidare la propria identità, ipotizzando la costruzione di una nuova chiesa che fosse emblematicamente rappresentativa della nuova coesione sociale che il sobborgo iniziava a percepire. Lasciamo alle eloquenti parole dell’Arc. Zappalà (il primo vero e proprio “storico dilettante” di Sant’Agata, che un secolo dopo tali eventi sintetizzò in alcuni manoscritti tali fatti) il compito di attestare questa fragranza di novità che la popolazione del nascente comune dovette assaporare: Sviluppandosi sempre più la comunità sia per l’immigrazione di famiglie marinare per l’esportazione via mare del carbone che si produceva nei boschi del territorio, sia per altre famiglie che dai vicini paesi interni si trasferivano in questa per l’amenità del sito, in occasione di una Sacra Missione che tennero i Padri Redentoristi e che suscitò tanto risveglio di fede religiosa, si pensò alla costruzione di una nuova Chiesa da sorgere in un’area di proprietà di Padron d. Gaetano Ferrara e Giovanni Calderone e nel 1842 s’iniziarono i lavori. Progettista è stato l’architetto Leone Savoia, ingegnere Capo del Genio civile di Messina. Appaltatore dei lavori il sig. Giuseppe Cupitò. Capo mastro il Sig. Antonino Aiello di Patti. I lavori interni di 5 Cfr. Sirna P., Cronistoria della Pastorale catechistica dei Vescovi di Patti, Patti 1995, pg. 77. 44 rifinimento furono eseguiti dai fratelli Benedetto e Basilio Alcuri. Ammirevole la prestazione d’opera da parte dei fedeli: nei giorni di domenica il popolo tutto, preceduto dal Barone Faraci che portava a spalla del materiale mentre tirava dietro il proprio cavallo bianco carico di pietrame, portava del materiale e poi nel recinto della Chiesa in costruzione ascoltava la S. Messa (…)6 Se sino ad oggi tale testimonianza poteva apparire un po’ naïf, e quindi priva di fondamento storico, a mo’ di fabuloso racconto di fondazione della Chiesa Madre di Sant’Agata, l’esame della corrispondenza col Vescovo del sacerdote Giacomo Palazzolo conferma quanto asserito dall’arc. Zappalà, anche se necessitano alcune correzioni dal punto di vista cronologico (in errori di tal tipo Zappalà cade sovente). Egli, infatti, nel suo racconto fonde due momenti, “l’inizio di fatto del 1825”7 in cui, a seguito della missione dei padri redentoristi, iniziarono i lavori di costruzione della Chiesa per presto interrompersi, e “l’inizio istituzionale” del 1842, in cui la costruzione venne continuata mediante un appalto affidato dalla pubblica amministrazione; il tutto (missione popolare e costruzione della chiesa) viene infine postdatato a quest’ultima data.8 Gli iniziati lavori della costruenda chiesa nel 1825 languivano a causa del poco interesse delle autorità civili ed ecclesiastiche, ambedue residenti a Militello, continuando a costringere nella piccola cappella del castello anche le celebrazioni più partecipate: il “cantiere aperto” della nuova chiesa, però, doveva rappresentare nella stessa urbani6 Zappalà G., Pro-memoria: Assistenza Religiosa ai primi abitanti della spiaggia “Sant’Agata” e poi del Comune di Militello, inedito s.d., pg. 2. 7 Il sacerdote relaziona al Vescovo nove anni dopo e riporta, invece di quella corretta del 1825, la data erronea del 1826, riconducibile invece alle missioni popolari che in quell’anno, dal 12 marzo al 15 aprile i padri tennero a Militello. 8 Lettera dell’8 dicembre 1834 in ASD Patti: «D. Giacomo Palazzolo di Sant’Agata, con la dovuta venerazione le rassegna che nel 1826 in occasione de’Santi esercizi de Vv. Pp. Liguorini, conoscendosi la necessità in quella sottocomune d’alzarsi una seconda chiesa con la voce delli stessi, riunito il popolo s’affatigò nel trasporto di pietra e calce in un punto ideato per il locale di fabrica della stessa». stica del piccolo agglomerato un segno materiale, scomodo e ben visibile, del malessere per il degrado in cui la marina versava, ed un testimone, silente ma eloquente, del desiderio di riscatto e di emancipazione. Nel 1830 Sant’Agata tentava presso il governo la strada dell’autonomia, con esito negativo per assenza dei presupposti necessari: le veniva concesso solo un ufficiale per ricevere gli atti dello Stato civile, cui nel 1838 veniva anche dato l’incarico di vigilare sull’annona. Sempre nel 1838 però la situazione cambiò repentinamente: In detto anno passò da quelle vie il focoso ed irascibile Duca di Laurenzana, ultimo dei luogotenenti fra noi (…). Arrivato quell’ottimo personaggio della casa dei Gaetani in Sant’Agata, nulla trovò provveduto e disposto intorno a trattamento ed alloggio, e sdegnando riflettere, che una municipalità non avvisata officialmente prima, né sulla via consolare esistendo, per essere alla portata di venir dalle precorrenti notizie instrutta di un arrivo così felice quanto la rappresentanza del proprio governo, non si potea tenere per insubordinata o manchevole se non avesse in buona forma ed in tutto officiato la rispettabilissima presenza di un Luogotenente generale, per altro, di colui che allora tiranno nostro sapeasi, ed oggi per nostra virtù è divenuto nemico nostro. Ma era un Laurenzana che arrivava in Sant’Agata (…) e vilmente tacendogli che il Barone Faraci da Sant’Agata era in quell’anno il Sindaco, per cui se di oscitanza o di poco rispetto avrebbasi dovuto in quell’azione notare, doveasi ai Santagatesi riferirne la colpa, pure: conservando essi in simile incontro un silenzio di gran malafede stizzirono il Duca contro di Militello e, torturandosi per trattarlo alla meglio possibile, ne impaniarono il cuore: sì, che Laurenzana non partì da Sant’Agata senza che avesse inoltrato al governo di Napoli un incendiario rapporto nel quale opinava che non volendosi ordinare una separazione dei municipii, fossero in Sant’Agata traslocate le autorità giudiziarie, finanziarie ed amministrative di Militello.9 9 Militello Valdemone, contro le usurpazioni che gli tenta di ordire Sant’Agata, Palermo 1848, pgg. 5-6. Nel testo sopra riportato, formulato dai notabili di Militello contro le pretese santagatesi, venivano addotte motivazioni contingenti, ossia la disposizione avversa di Onorato Gaetani10 (“duca di Laurenzana”e luogotenente generale di Sicilia per due anni a partire dal 1837) e la malafede dei politici ed affaristi di Sant’Agata. In realtà, nonostante l’acredine della suddetta relazione, la Sant’Agata del 1838 era già molto diversa da quella di pochi anni prima, rinvenendo nell’industria boschiva e nel commercio del carbone le sue attività più redditizie11 e divenendo strategicamente centrale nei rapporti tra l’entroterra e la capitale del Regno: Napoli. Ci ricorda infatti, l’arciprete Zappalà: Verso il 1836 una ditta “Guerra” da Napoli si portò in questa per utilizzare i boschi che esistevano rigogliosi nel territorio. Con disponibilità di mezzi e larghezza di vedute pensò di costruire una trazzera carreggiabile che dalla spiaggia si inerpicasse fino ai boschi (Strada oramai rotabile in parte asfaltata e che si noma “Guerra”) per il trasporto sia del legname da costruzione come del carbone – da inoltrare poi via mare. Quest’impresa richiamò in questa molte famiglie dei paesi etnei per lavorare il legname, carbonizzare e per i trasporti (famiglie Consolo, Parisi, Lo Paro, Zappalà); molte famiglie vennero da Cefalù: Di Paola, Ferrara, Prestianni, D’anna, Cirincione, Mangione, Sava. Altre da Trapani: Strazzera, Mancuso, Zichichi – per inoltrare via mare il legname come il carbone. S’iniziò così una vita industriale e commerciale che quasi non si prevedeva. Aumentata la popolazione cominciarono le proteste perché i naturali trovavano difficoltà ad andare a Militello per il disbrigo delle pratiche civili, specialmente per quanto interessava i Padroni di velieri che dovevano mettersi in regola sia per gli imbarchi sia per gli sbarchi. Così in data 22 agosto 1838 si inoltrò la prima istanza per l’emancipazione della frazione S. Agata. Da qui si stabilì una calda polemica tra i naturali di Militello e quelli 10 Onorato Gaetani dell’Aquila d’Aragona, 4° Principe di Piedimonte e 9° Duca di Laurenzana (19 novembre 1770 – Portici, 28 settembre 1857), divenne luogotenente generale di Sicilia nel 1837 e per due anni rappresentò nell’isola il capo dello Stato. Vedi Marrocco D., La luogotenenza del Duca di Laurenzana, in “Archivio storico di Terra di Lavoro” (1963). 11 ASPA Fondo Trabia serie A567. 45 di S. Agata. Botte e risposte anche a mezzo della stampa (…); dopo questa incresciosa polemica, riconosciute come giuste le aspirazioni di quelli di S. Agata, con decreto del 30 luglio 1839 si stabilì che dal 1 gennaio 1840 si trasferissero nel quartiere S. Agata tutti i funzionari amministrativi, giudiziari e finanziari del comune di Militello Prov. Di Messina, stabilendosi in questo comune un eletto. Così cominciò a funzionare in S. Agata il decurionato ed in mancanza di locali adatti le prime riunioni si tennero nella sacrestia della Chiesa del Carmine.12 Determinanti nel considerare legittime le istanze di emancipazione furono quindi le pressioni delle imprese commerciali che svolgevano le loro attività a Sant’Agata e che, prima di ogni imbarco dal caricatoio costiero, dovevano esibire un nulla-osta rilasciato dal Comune di Militello, con aggravio di tempo e di denaro in quanto la trazzera Sant’Agata – Militello non coincideva con il percorso usato per recarsi nell’entroterra (che dalla via dei Pioppi saliva verso Cavarretta per poi proseguire ver12 Zappalà G., Pro-memoria. Sviluppo demografico e costituzione del Comune Sant’Agata Militello, inedito s.d., pgg. 5-6. Sant’Agata ad inizio novecento: veduta dal mare 46 so Cesarò). Ingenti interessi economici indussero le famiglie di Militello Faraci, Bordonaro, Rizzo, Cupitò, Pirrone ed altre di paesi vicini e lontani, quali gli Zito di San Marco, Glorioso di Caltanissetta, Zingales di Longi, Mangione e Ferrara di Cefalù, Bertolino e Zichichi di Trapani, Cosentino di Mistretta, Trusso di Tortorici etc, a fissare la loro dimora principale a Sant’Agata, il che contribuì al processo di urbanizzazione ed accentuò il divario demografico con Militello. Sant’Agata divenne così il coacervo di interessi di una borghesia medio-alta e l’eterogeneità della composizione della popolazione era compensata dal crescente ruolo economico che garantiva un’unità di vedute e di intenti. “Case nuove” vennero così realizzate nell’area adibita un tempo a fiera, in prossimità del recinto della costruenda Chiesa e della strada per Cavarretta, secondo una maglia ortogonale propria di un paese che voleva mostrarsi moderno ed avanzato, creando il primo vero e proprio quartiere da contrapporre all’insediamento urbano che si snodava lungo la via dei Pioppi (ora via Roma) e che continuava lungo la via “Cavarretta” (in seguito deno- minata Strada di Pezzia, Alessi, Principe di Scalea, Regina Margherita ed oggi via Generale Liotta). Solo questo repentino fermento economico può spiegare la svolta del 1840, quando con il trasferimento delle funzioni amministrative, giudiziarie e finanziarie venne istituzionalizzata la primazia (di fatto già avvenuta) della frazione Sant’Agata sul vecchio centro Militello. Essendo la prima cresciuta talmente da superare in numero la comunità madre, occorreva un riscontro giuridico che ratificasse la nuova situazione, compito a cui assolse il decreto del 30 luglio 1839, con valore dal 1 gennaio 1840. Da questo momento il decurionato13 di Militello trasferì la sua sede a Sant’Agata (temporaneamente nella sacrestia della Chiesetta del Castello), anche se il primo sindaco Biagio Cerrito (che ricoprì il suo incarico dal 1840 al 1845) continuava a firmarsi ancora come sindaco di Militello, ove invece a fare le veci di sindaco era un “eletto particolare”. A questo punto, secondo le consuetudini del tempo, l’arciprete di Militello avrebbe dovuto trasferirsi nella nuova sede, in quanto l’autorità ecclesiastica non poteva non risiedere nel centro del 13 Ossia il corrispettivo del nostro consiglio comunale, con eletti secondo censo. Giusta la legge dell’8 dicembre 1816, il Regno delle Due Sicilie, composto da “domini al di qua e al di là del faro”, veniva diviso in 22 province (di cui sette in Sicilia, “al di là del faro”), ogni provincia in distretti, ogni distretto in circondari (Militello fu sede circondariale, ossia sede del Tribunale, dal 1819), ogni circondario in comuni. Ad essi corrispondeva una eguale amministrazione: provinciale, distrettuale, comunale. Ogni provincia aveva un Intendente, un Consiglio d’Intendenza ed un Consiglio provinciale; ogni distretto aveva un sottintendente ed un Consiglio distrettuale; ogni comune, suddiviso in tre classi giusta la rendita e la popolazione, aveva un decurionato, un sindaco e due eletti. Tali funzionari erano scelti dalla lista degli eleggibili: la loro nomina era riservata al Re per i comuni di prima classe e per quelli di seconda classe sede di sottintendenza o di tribunale; per gli altri comuni erano nominati dagli Intendenti su proposta dei decurionati. Il decurionato costituiva la rappresentanza comunale: nei comuni di terza classe non era in base al numero della popolazione, bensì fissato in numero di dieci (a volte otto). Il decurionato era presieduto dal sindaco o, in sua assenza, da uno degli eletti. Ordinariamente si riuniva la prima domenica di ogni mese. Il sindaco con il consiglio del decurionato e degli eletti aveva il compito di amministrare le rendite ed era anche ufficiale di stato civile e, ove non risiedeva il giudice di circondario, aveva pure le mansioni di polizia giudiziaria. Il primo dei due eletti era inoltre incaricato alla polizia urbana e rurale. In seguito le cariche divennero eleggibili. paese; data la sua riluttanza, il Comune chiedeva almeno la nomina di un nuovo cappellano curato, dopo la morte di don Pietro Pirrone e la breve parentesi di Don Giuseppe Campo. Nel 1841, dietro supplica dei Gentiluomini e dei Magistri di Sant’Agata, veniva proposto il nome di don Antonio Guglielmotta del clero di Militello; l’arciprete Sidoti, eletto pochi mesi prima, avvallava tale ipotesi, accordando ai santagatesi un cappellano “valido e probo” e, come da loro chiesto, non santagatese, al fine di incrementare lo sparuto numero di clero ivi presente. Ma il diritto di nomina del cappellano della chiesa del castello spettava ancora al principe di Trabia e quindi solo nel 1843, dietro ulteriori pressioni del sindaco di Militello, Biagio Cerrito, residente oramai a Sant’Agata, don Antonio Guglielmotta poteva diventare primo cappellano della Chiesa, con l’obbligo dell’amministrazione dei sacramenti e di un’unica messa da celebrare secondo l’intenzione del principe. Il neocappellano attestava al Vescovo in una lettera del 28 dicembre 1846 che in questa chiesa si fa in ogni sera la santa benedizione, si espone il Divinissimo in ogni primo lunedì del mese in suffragio delle anime sante del Purgatorio, tenendo adornato l’altare con diciotto lumi oltre ad una con sede perenne. Fo’ noto infine, che in questa chiesa si solennizzano varie feste, cioè all’ultimo venerdì di Marzo la festa del SS. Crocifisso, nella Settimana delle palme il Quarantore, nella prima domenica d’Agosto la festa del patriarca S. Giuseppe, e nell’ultima Domenica di Settembre quella di Maria SS. Addolorata. In tal modo, oltre la popolazione, anche il numero del clero cresceva, ma risultava sempre insufficiente sia in rapporto alla comunità presente sia soprattutto in rapporto alla comunità futura che si ambiva edificare. Nel 1847 i sacerdoti del clero di Sant’Agata Don Antonio Guglielmotta, don Giuseppe Vicari, don Vincenzo Vicari, don Carmelo Faraci, lamentando la trascuratezza nella continuazione dei 47 lavori della costruenda chiesa nuova, riportavano anche gli esiti di un atto decurionale del luglio di quell’anno col il quale, prendendo atto che l’arciprete di Militello non voleva trasferirsi nella nuova sede del centro del paese, si chiedeva al Vescovo lo smembramento della parrocchia in due, con la nomina di un parroco per la Marina.14 Sempre nel 1847 i due comuni sono di fatto (ma non di diritto) oramai autonomi ed il sindaco Salvatore Zito si firmava sindaco di Sant’Agata e non più di Militello. In questo graduale processo di emancipazione della marina sull’entroterra, Militello era così diventato, suo malgrado, oggetto di una locale “rivoluzione copernicana” che lo trasformava da centro del Comune in mera frazione di Sant’Agata. Il sindaco Zito lamentava al Vescovo la presenza nella sua comunità di solo quattro sacerdoti, che “in una piccola chiesa con una popolazione oltre i forestieri di quattromila anime non sono da tanto e sostenere e soddisfare i bisogni religiosi e sarebbe mestiere averne degli altri, onde mandar via tale disconvenienza”15 e continuava a chiedere l’istituzione di una nuova parrocchia. L’emancipazione, prima, e l’autonomia amministrativa dopo, non comporteranno però automaticamente la separazione ecclesiastica e tale situazione di stallo proseguirà per ancora un ventennio: dal luglio del 1850 a reggere la cura pastorale sarà sempre un luogotenente spirituale dell’arciprete di Militello, don Vincenzo Faraci, legato da rapporto di parentela all’arciprete Sidoti. I rapporti tra le due comunità di Militello e di Sant’Agata diventavano così sempre più tesi: da un lato la comunità madre rivendicava i fasti passati e mal soffriva il crescente prestigio della borgata, 14 I sacerdoti avallavano tale ipotesi ricordando la “divisione di fatto” per real decreto avvenuta tra i due comuni, la distanza di cinque miglia l’uno dall’altro e, elemento questo di maggior peso, il riferimento canonico ai dettami del Concilio di Trento circa l’incompatibilità di due benefici curati riuniti in una medesima persona. Vedi Corrispondenza del 1847, in ASD. 15 Corrispondenza del 22 Aprile 1847, in ASD. 48 dall’altro Sant’Agata, divenuta sede di tutti gli uffici municipali tendeva, quasi in un processo di ritorsione, a far vivere a Militello la marginalizzazione che pochi decenni prima aveva dovuto essa stessa subire. Di fronte alle rivendicazioni di Militello affinchè gli venissero restituite l’antica denominazione e le funzioni spostate a Sant’Agata nel 1830, Sant’Agata nel 1844 rispondeva con un progetto di divisione, redatto dal Sottintendente Panebianco ma non portato a termine, che confinava Militello nell’entroterra e lo destinava ad un fatale decadimento; così lamentavano i Militellesi: Figuratevi schiena di monte in faccia al mare, la quale sia divisa da un torrente che perpendicolare scenda alla marina; a sinistra è il feudo comunale di Militello detto Comunello, a destra l’altro feudo pure dello stesso comune, chiamato Scavallarazzo – Sul monte a sinistra, e perciò sulla superficie del feudo Comunello, alzasi il paese di Militello; sulla spiaggia a destra, e perciò sulla bassa estremità del feudo Scavallarazzo, è Sant’Agata – L’un punto abitato e l’altro distano tra loro cinque buone miglia. A misura poi che la giogaia del monte declina e le sue falde si appianano, havvi un pezzo di territorio che può dirsi un presepe tempestato ai casini: essi alzansi sopra luoghi marittimi e di delizia scelti a bella posta dai proprietari Militellesi per ivi in certe stagioni dell’anno traervi più comoda ed agiata la vita. Recatosi il gran Sottindentente Panebianco su quella topografia, dà mano all’opera e, notomista valente, recide di un colpo di biffa la parte bassa di ambo i feudi, che unitamente ai deliziosi casini assegna tutta a Sant’Agata – La doppia parte della montagna la concede a Militello. E così nella divisione tentano i Santagatesi di portare a fine il gran colpo di stato quello cioè di confinare tra i boschi Militello, Comune che fino a ieri possedea deliziosissima una marina e, tanto estesa, quanto possono essere estesi due feudi di sua proprietà che dai monti al mare discendono. Gridarono con piena gola avverso questo infame progetto di divisione i Militellesi, e il Governo infamissimo di allora, che le voci dell’oppresso mai non udiva, questa volta l’intese, e, dietro parere della consulta nel 22 settembre 1847 rifiutò la sua approvazione al progetto divisorio di Panebianco.16 16 Per Militello Valdemone contro le usurpazioni che gli tenta di ordire Sant’Agata, Palermo 1848, pgg. 9-10. Il 1848, anno emblematico di rivoluzioni in tutta Europa e nello stesso Regno di Napoli, fu invece segnato a Sant’Agata soprattutto da controversie tra le due comunità. La tensione raggiunse il suo apice durante la festa del comune patrono San Biagio: il 20 agosto 1848 il magistrato municipale di Sant’Agata informava il Vescovo che gli accresciuti contrasti tra le due comunità non consentivano la partecipazione dei santagatesi alla festa del patrono che si svolgeva a Militello senza il pericolo di risse e disordini; per tal motivo chiedeva, senza esito, che venissero consentiti tali festeggiamenti anche a Sant’Agata.17 Militello, inoltre, vantando una secolare e rinomata tradizione in ambito forense, tentò anche la strada giuridica per far valere i propri diritti. Mediante un’interpellanza parlamentare del 1848 a firma dei notabili della città, tentò di sfruttare la particolare situazione storica in corso: il 25 marzo, a seguito dei moti, si era insediato un governo rivoluzionario che aveva dichiarato indipendente 17 Vedi Corrispondenza del 20 Agosto 1848, in ASD. l’isola e decaduta la dinastia borbonica e Ferdinando II.18 Ma anche Sant’Agata non fu da meno: conformemente alle libertà conquistate, la legge del 26 maggio 1848 stabiliva in tutto il Regno l’organizzazione in municipi ed istituiva nelle forme di elezioni i consigli civici ed i magistrati municipali ed i Santagatesi ne approfittarono per ribadire come Militello fosse solo una sezione del Comune di Sant’Agata. Elessero quindi immediatamente a Sant’Agata un Consiglio civico ed un magistrato municipale. I Militellesi contrariati convocarono a Militello nuove elezioni per il 10 ed il 12 giugno, disertate dai santagatesi. Forti della presenza del Parroco, dell’anziano del comitato e di un Notaio, i Militellesi riuniti in Chiesa Madre con 116 schede elessero quaranta di loro come consiglieri civici. Altra disputa riguardò le pretese di divisione territoriale. Il 10 dicembre 1842 era stato dato riscontro anche nelle nostre zone all’esecuzione 18 Il sovrano era denominato popolarmente “Re Bomba”, per la propensione a sedare nel sangue le insurrezioni liberali. Sant’Agata: veduta aerea da settentrione 49 delle leggi abolitive della feudalità,19 giungendo ad una conciliazione per la promiscuità dei beni tra il principe di Trabia ed il Comune di MilitelloSant’Agata, approvata con Sovrano Rescritto del 29 aprile 1843. Nel 1848 i Militellesi obiettavano che le rendite prodotte dallo scioglimento dei diritti promiscui appartenevano ad entrambe le comunità, non avendo alcun fondamento giuridico la pretesa santagatese di doverli dividere in ragione della popolazione: Per la pertinenza è a sapersi: che il valore ottenuto colla liquidazione dei diritti promiscui o per dir meglio i feudi comunali (Comunello, Scavallarazzo e Pileci) non furono a Militello e a Sant’Agata concessi perché gli abitanti del Comune e della Borgata aveano per più di trent’anni raccolto sulle proprietà baronali erbe o lumache, nel qual caso i santagatesi avrebbero conferito nell’atto di liquidazione un diritto proprio che ne avesse cresciuto il quantitativo dei fondi assegnabili; poiché allora tali diritti avrebbersi dovuto strasattare in ragione diretta della popolazione esercente le servitù; ma i diritti per cui si ebber quei feudi furono diritti antichissimi di condominio. Così, per esempio: se le terre si seminavano apparteneva al Barone il terraggio; restando incolte, l’era dei singoli – degli alberi boschivi apparteneva al Duca il frutto, ma erano essi dei Militellesi in quanto a legno per carbone ed altri usi -. Tali diritti si liquidavano in ragione del valore dei fondi sui quali erano esercitati, non mai in ragione dei singoli che venivano ad esercitare. Tali diritti erano antichissimi, e quasi nati coll’investitura dei feudi, non potevano esser valori acquistati dai santagatesi nei quarant’anni corsi dalla lor fondazione alla emanata legge sulla promiscuità.20 19 Sino alla privatizzazione della terra, con l’emanazione delle leggi eversive sulla feudalità e la divisione dei demani, in Sicilia vigeva un regime strettamente feudale, con terre possedute o dalla chiesa o dai comuni, raramente da privati cittadini (“terre de’ particolari”): a questi veniva data solo l’enfiteusi, concedendo ad uno “la ghianda”, ad un altro il “diritto di legnare”, a chi il “terratico”, a chi “l’erbatico”, per cui i fondi erano posseduti, secondo i diversi prodotti, da molti proprietari e di fatto da nessuno. Tale sistema iniziò ad essere smantellato con la Prammatica XXIV emanata il 23 febbraio 1792, ma soprattutto con la legge promulgata da Giuseppe Napoleone il 2 agosto 1806 ed ora con la legge ferdinandea. 20 Per Militello Valdemone, op. cit., pgg. 28-29. 50 Oltre al modo di dividere i beni comunali “per capi” (“in capita”, ossia per abitanti) e non “per censo” (“in stirpes”, e cioè in ragione della proprietà), veniva inoltre contestato il rapporto effettivo di popolazione tra le due comunità: I feudi di cui è parola si ottennero per la legge del quarantuno e colle basi in essa stabilite. Il diritto dunque alla ripartizione si ebbe in quell’anno, e perciò secondo lo stato di censimento e le relazioni comunali degli assegnatori in quel tempo. Ma nel 1841 altro documento statistico non regolava le cifre delle due corporazioni che quello del 1819, in cui di duemila e cento anime si componea Militello, e di sole seicento Sant’Agata, dunque, stando pure alla inetta divisione per capi, toccherebbe ai Militellesi più rendita assai di quel che credono e sperano i nostri avversari, i quali tengonsi forti alla cifra magicamente uscita dal taccuino di Panebianco, simile a palla che esca dal vuoto sacco di un giocoliere. Costui, diviso prima a sua posta il territorio, calcolò poscia come appartenenti a Sant’Agata i numerosi abitanti delle deliziose campagne di Militello, e quindi opinò che due terzi di proprietà dovesse darsi al sobborgo ed un terzo al Comune; divisione che fece ridere ad Liguoro medesimo (e quando dicesi de Liguoro è quanto basta per ricordare la violenza e l’ingiustizia personificata). Eppure: colui formalizzatosi dal calcolare di Panebianco, rapportò di doversi quei fondi comunali dividere in tre quinte per Sant’Agata e due per Militello; ma questa non lasciava di essere divisione proposta da un De Liguoro, né lascia di contenere l’apertissima ingiuria che, a scapito dei veri ed antichi padroni, diasi proprietà a gente collettizia e di fresco venuta in Sant’Agata, la quale è certamente in numero più esorbitante de’ primi fondatori Militellesi.21 L’abilità dialettica dei Militellesi conduceva nel ragionamento ad una suddivisione delle terre nettamente a favore del centro montano, risalendo al lontano censimento del 1819. Lo svolgersi della storia seguente fu però avverso ai Militellesi: il Parlamento cui si erano rivolti ed il governo rivoluzionario ebbero infatti durata breve, dato che col decreto di Gaeta del 28 febbraio 1849, Ferdinando II di Borbone riprendeva possesso della Sicilia per poi sciogliere il Parlamento. 21 Per Militello Valdemone, op. cit., pg. 30. 51 Ritornato sul trono, Ferdinando rilanciava l’antico progetto della realizzazione della strada rotabile Palermo-Messina per le Marine: il 5 aprile 1852 veniva anche proposto un nuovo progetto stradale lungo miglia 38 (con l’ipotesi di un lungo tunnel) da Sant’Agata sino a Bronte, ma soprattutto veniva approvato il nuovo piano stradale da Gioiosa verso Tusa; l’appalto di quest’ultima tratta veniva affidato all’imprenditore napoletano D. Filippo Vita. Negli anni 1856-1857 si lavorava ai tratti per Capo d’Orlando, da Pietra di Roma a Sant’Agata e da Santo Stefano a Finale.22 Nel frattempo, la popolazione di Sant’Agata continuava ad aumentare: altro flusso immigratorio, dopo quello conseguente al citato avvio di rapporti economici con la ditta Guerra del 1836, aveva avuto inizio a seguito del tragico evento dell’alluvione del 1851 che aveva parzialmente distrutto l’abitato di Longi: il 28 giugno del 1854 il decurionato di 22 Cfr. Cucinotta S., Sicilia e Siciliani dalle riforme borboniche al rivolgimento piemontese, Ed. Siciliane, Messina 1996, pag. 327. Sant’Agata: veduta aerea del centro urbano 52 Sant’Agata offrì la possibilità agli sfollati di trasferirsi nel feudo della Marina.23 Si giunse quindi all’autonomia: si badi bene, però, non di Sant’Agata da Militello (come spesso si dice) ma di Militello da Sant’Agata. Il crescente malessere condusse i naturali di Militello a richiedere la separazione, che fu sancita a partire dal 1 gennaio 1857, con un rapporto di popolazione di 4.000 unità per Sant’Agata contro i 1.700 per Militello ed una divisione di territorio nettamente vantaggiosa per Sant’Agata (tre quinti contro due quinti); la divisione dei debiti e crediti fu fatta dal Barone don Gioacchino Galvagni Pisani ed i due comuni presero il nome rispettivamente di Sant’Agata di Militello e Militello Rosmarino, “dalle piante che germogliano sul greto del torrente che sarebbe l’antico Ghida”24. 23 Riguardo alla data del tragico evento, a parziale correzione di quella erronea del manoscritto di Zappalà che la individua nel 1854, si confronti: Lazzara F., San Leone protettore di Longi, Messina 1994, pgg. 69-71. 24 Zappalà G., Sviluppo demografico…, op. cit., pg 7. Dopo l’autonomia, una città da costruire: Sant’Agata nella seconda metà dell’Ottocento A vvenuta la separazione, il Comune di Sant’Agata non poteva più vantare il riferimento ad una storia secolare e l’ostentazione di importanti opere d’arte: si iniziò a dotare, pertanto, di referenze urbanistiche, architettoniche ed artistiche che gli consentissero di essere annoverato tra i Comuni più moderni ed avanzati dell’isola. Il legame con Palermo per la presenza del principe di Trabia dovette favorire i contatti con la più dotata bottega di scultori dell’epoca, quella dei Bagnasco: in quegli anni fu commissionato a Salvatore, il più valente della famiglia nell’arte scultorea, il gruppo statuario di San Giuseppe col Bambino (i cui argenti sono datati 1859) con l’intento di collocarlo nella Chiesa nuova a lui dedicata, una volta completata. Il simulacro veniva posizionato in maniera “provvisoria” nella Chiesetta del Castello. In ambito pittorico si allacciarono rapporti con l’ambiente artistico del Patanìa: ad un suo allievo, Antonio D’Antonj (1811-1868), venne commissionata la pala di San Biagio del 1862, collocata nella Chiesetta del Castello, mentre ad un altro, Francesco Nachera di Patti (1813-1881), la pala della Madonna del Carmelo del 1863, collocata nella novella Chiesa Madre; nell’arco di pochi anni la Chiesa locale si dotava così di tre opere raffiguranti e celebranti l’antico patrono, il nuovo e la titolare della nuova parrocchia. L’opera architettonica pubblica di maggior spessore ultimata in questo periodo fu ovviamente la stessa Chiesa Madre, sin dall’inizio dedicata a San Giuseppe: se nel 1861 la Chiesa era ancora in costruzione, secondo il progetto dell’ingegnere messinese Leone Savoja (1814-1885) e la realizzazione delle rifiniture interne nei pilastri e negli ornati dello stuccatore Beccalli, nel 1867 la struttura era oramai conclusa, tanto che si poteva celebrare messa agli altari laterali in attesa della con- clusione dei lavori per la risistemazione dell’altare principale. Gli altari seicenteschi delle cappelle laterali (ci attesta sempre Mons. Zappalà25) erano precedenti alla realizzazione della chiesa in quanto donati dal barone Anca, “cittadino benemerito”, dopo essere stati prelevati a Palermo da una chiesa in demolizione; l’altare principale, invece, era stato donato da don Placido Lanza, conte di Sommatino. Urbanisticamente, infine, l’ultimazione della Chiesa Madre dettò di fatto le regole per la realizzazione di isolati secondo maglie ortogonali sino a giungere ad est alla via Pioppi-Cavarretta e con la realizzazione a Nord della via San Giuseppe. L’attraversamento della Strada Statale qualche decennio prima aveva inoltre condizionato il tessuto urbanistico, rendendo l’incrocio con via San Giuseppe il nodo principale del centro e l’asse prospettico verso la facciata monumentale della costruenda Chiesa. Nel 1884 il Comune provvedeva alla sistemazione e pavimentazione dell’antica via Alessi, affidandone la progettazione esecutiva all’ing. Emanuele Rumore. Il tessuto urbano, inoltre, si modificava totalmente allorché le famiglie benestanti di Sant’Agata, iniziarono a gareggiare nel costruire sfarzosi palazzi dalle ricercate forme neoclassiche nei prospetti per poi arricchirli con rifiniture interne secondo la moda liberty imperante nel novecento: lungo le principali arterie del paese e vicino ad abitazioni seriali di minor elevazione, si imponevano così i palazzi Faraci in via Marina (ora Roma) ed in via Medici, i palazzi Zito in via San Giuseppe angolo via Medici ed in piazza duomo, Cancemi, D’Amico e Cardinale, Ciuppa in via Medici, Gentile e Cupitò, Rizzo in largo Garibaldi, Gullotti in via Medici e Bordonaro. In contrada Giancola, un tempo denominata ficara a mare, la famiglia Ciuppa commissionerà all’ingegnere Emanuele Rumore la costruzione di un villino secondo i canoni neoromantici, mentre la progettazione della tomba di famiglia era stata affidata all’illustre architetto 25 Zappalà G., Assistenza religiosa…, op. cit., pg 3. 53 Ernesto Basile. Artefice della realizzazione o rimodulazione dei prospetti di importanti palazzi fu soprattutto l’ingegnere Francesco Fontana (18451933) che, dopo aver sposato Anna Zito, si era trasferito a Sant’Agata. Tra il 1885 ed il 1895 il passaggio della linea ferrata, coll’attraversamento del centro abitato, comportò la demolizione di diversi edifici di pertinenza del castello, di fortificazioni e di un mulino idraulico di proprietà del principe di Trabia. Una richiesta di modifica al progetto originario venne avanzata dal Consiglio comunale il 18 novembre 1885, con esiti negativi, per cui nel 1895 il tratto ferroviario venne inaugurato e, con esso, anche la stazione che risultava essere il più importante scalo ferroviario tra Messina e Palermo. Infine, la città iniziò ad espandersi rapidamente verso oriente, superando la barriera orografica data dal torrente Guarnera e rinvenendo nell’ampia via Campidoglio un altro asse viario di ingresso dal mare che, ben presto, oscurò quello sino ad allora primario dato dalla via Roma. Anche in tale via vennero costruiti edifici di una certa importanza e mole, quali quelli di Bianco e di Liotta. Sul versante ecclesiastico, le leggi eversive dello stato unitario (in particolare la legge del 7 luglio 1866 che statuiva la soppressione delle corporazioni religiose ed il conseguente incameramento dei beni) non ebbero particolari risvolti negativi per la chiesa di Sant’Agata a causa dell’assenza di religiosi; paradossalmente, anzi, essendo una chiesa nascente ne trasse beneficio: il 17 dicembre del 1867 veniva dotata di suppellettili provenienti dalla chiesa San Francesco di Militello, per disposizione del Governo nazionale che ne aveva incamerato i beni immobili. Ma è soprattutto in termini di clero che essa ebbe i maggiori vantaggi: i frati e monaci sclaustrati, per evitare l’arresto o la riduzione allo stato laicale, dovettero infatti optare per la secolarizzazione ed entrarono nella comunìa dei preti diocesani. Ai sacerdoti diocesani Vincenzo Faraci, Vincenzo Vicari (che copriva anche l’incarico di consigliere comunale, in aperta violazione al non 54 éxpedit di Pio IX), Giuseppe Vicari e Salvatore Collura si aggiunsero gli ex cappuccini Vincenzo Sancetta, Luigi Regalbuto, Biagio Gumina. L’anno dopo ne incrementarono il numero anche i novelli sacerdoti santagatesi provenienti dal Seminario di Patti: Pasquale Serra, Ignazio Mangione, Carmelo Sancetta e Nunzio Fichera. Il 1867 fu un anno particolarmente difficile per tutta la zona, colpita prima da carestia e poi da colera (l’evento si ripeterà nuovamente vent’anni dopo). Questo fu anche l’anno in cui all’autonomia civile si aggiungeva quella ecclesiastica: Sant’Agata era oramai comune autonomo ed aveva di fatto un clero autonomo da Militello. Per rispetto dell’arciprete Sidoti, l’ordinario ecclesiastico aveva deciso di non intervenire giuridicamente con la separazione delle parrocchie; dopo la sua morte era però giunto il tempo di risolvere il problema della giurisdizione ecclesiastica del nuovo comune e si decise lo smembramento della Chiesa di Sant’Agata da quella del vecchio centro. Vincenzo Faraci, già dal 1851 luogotenente dell’arc. Sidoti per la Chiesa di Sant’Agata e paladino dell’autonomia ecclesiastica, ne diventava economo spirituale. A novembre l’editto di smembramento veniva affisso alla porta della Chiesa nuova, tra il tripudio del popolo santagatese in festa; veniva concessa la celebrazione nella chiesa nuova della messa festiva, mentre quella mattutina giornaliera doveva perdurare nella Chiesetta del Castello. In essa il primo cappellano Antonio Guglielmotta, morto nel 1868, veniva sostituito dal Sac. Carmelo Faraci, coadiuvato dal sac. Francesco Sacco. Il 19 marzo 1868 il simulacro del Patriarca San Giuseppe usciva solennemente dalla Chiesetta del Castello per essere condotto in processione e custodito nel suo nuovo altare della Chiesa Madre; un anno dopo nascerà la sua confraternita, composta dai Maestri del paese, cui si aggiungerà, l’anno dopo ancora, quella del Santissimo Sacramento ad opera dei braccianti agricoli. Realizzata la Chiesa nuova ed istituita la parrocchia, col titolo di “San Giuseppe e Maria Ss. del Carmelo”, rimaneva solo di risolvere la questione della nomina del novello arciprete. Il caparbio oppositore dello stato unitario, mons. Celesia, vescovo di Patti, l’anno precedente aveva scritto una Protesta al Ministro Guardasigilli contro il decreto del 12/07/1864 che proibiva la nomina di economi, curati o vicari spirituali senza il placet regio; ma tal protesta, mera protesta si limitava ad essere e tale consuetudine rimase anche con il nuovo governo. In particolare a Sant’Agata a far difficoltà nel 1868 non doveva essere il nome di Faraci, concordemente scelto tra autorità civile ed ecclesiastica ed apprezzato da tutti per la strenue difesa dell’autonomia ecclesiale e civile del nuovo centro. Il ritardo era dovuto al fatto che il sindaco di Sant’Agata, Ferdinando Pirrone (in carica dal 1866 al 1869) si opponeva alla determina della congrua così come alla scelta del quaresimalista.26 Alla fine il sindaco dovette cedere ed il 29 maggio del 1869 l’economo spirituale Vincenzo Faraci prendeva possesso della chiesa di Sant’Agata, in qualità di novello arciprete. L’uno agosto, prima domenica del mese, come era consuetudine di allora, egli poteva celebrare nella nuova chiesa i solenni festeggiamenti in onore del titolare San Giuseppe. Fra le prime realizzazioni del suo ministero, con contratto datato 18 marzo 1870, egli dotava la chiesa di un organo a canne della ditta di Pietro La Grassa. Mentre Sant’Agata si attrezzava di un luogo capace di contenere le assemblee a carattere religioso e di istituzioni sociali partecipative, quali le confraternite, la separazione in atto nel nuovo Stato, tra comunità civile e religiosa, condusse all’ideazione di un contraltare laico per espletare le funzioni di ritrovo dei notabili appassionati di politica ed interessati alla vita cittadina: il “Casino di Compagnia”27 nato nel 1860, e denominato nel 26 A tal compito il sindaco era solito ottemperare e vi provvederà sino all’ottobre del 1870, allorchè il Consiglio comunale deciderà di togliere tale voce dal bilancio. 27 Dall’atto di deposito dello Statuto del Circolo Dante Alighieri del Notaio A. Buono in data 27 Giugno 1993, risulterebbe, 1868 “Circolo dei Nobili” sino a divenire nel 1910 “Circolo Dante Alighieri”. Esso sin dall’inizio era riservato a galantuomini e civili, così come i tanti “casini di Compagnia” che erano sorti praticamente ovunque. Quello di Sant’Agata però non dovette soffrire più di tanto le traversie politiche dell’ondata rivoluzionaria concomitante al passaggio di Garibaldi e posta in atto dalle masse contadine contro i “cappeddi”, così come era avvenuta il 13 maggio 1860 a Mistretta, dove il Casino dei Nobili era stato devastato, ed in maniera ancora più eclatante nella vicina Alcara li Fusi con l’eccidio di 11 notabili il 17 maggio dello stesso anno28. Lo stato di diffusa opulenza della neonata comunità di Sant’Agata avrà certo influito nello smorzare le tensioni sociali e a limitare le rivendicazioni dei ceti meno abbienti. Quando nel 1882 l’arciprete Faraci venne privato dell’ufficio di parroco dal Vescovo Mons. Maragioglio, al suo posto fu nominato economo il sac. Carmelo Sancetta. Ben presto, però, a causa di contrasti locali, questi venne rimosso ed eletto canonico della Cattedrale di Patti. Il 5 settembre 1883, rinunciato a tal beneficio, venne nominato arciprete di Sant’Agata, comunità che già contava quasi seimila anime. Dopo le prime difficoltà riscontrate, determinate soprattutto da questioni politiche e l’avversione di alcuni membri del clero locale, legati al precedente parroco, Sancetta riuscì a farsi amare dalla comunità santagatese, la quale ancor oggi ne trasmette l’esemplare ricordo per la probità di vita e l’eloquenza nella predicazione. D’altronde, già il suo predecessore nel 1871 aveva profetizzato che egli avrebbe raccolto “frutti ubertosi per la sua intelligenza e per l’ottimo ed esemplare metodo di vita, se non perfetto, assai desiderabile nei sacerdoti”29 ed i parroci delle maggiori cattedrali e chiese d’Italia ne avevano attestato le capacità oratorie dimostrate nei “pergami” dai quali continuò a predicare per moltissimi forse per un refuso, la denominazione di “Casino di Campagna”. 28 Cfr. Cucinotta S., Sicilia e..., op. cit., pag. 105. 29 In ASD, Corrispondenza, 13 marzo 1871. 55 anni. Mons. Sancetta resse la parrocchia sino alla sua morte, avvenuta il 24 settembre 1916; arricchì la chiesa madre di numerose opere: nel 1887 commissionò a Rosario Bagnasco il simulacro della Vergine Ss.ma Immacolata, il 20 luglio 1897 a Firenze la pala della Madonna di Pompei, opera di P. Rossi, nel 1899 al pittore cappuccino P. Antonio Balsamo da Motta Sant’Anastasia (1858-1923) vissuto nel convento di Sant’Antonio a Patti, la pala di Santa Lucia e la madre che invocano Sant’Agata, nel 1906 a G. Barchitta di Scordia il dipinto della Pietà. Sempre sotto il governo pastorale di Sancetta tra il 1894 ed il 1902 venne realizzata la maestosa ed originale torre campanaria (bocciata l’idea dell’esecuzione di due campanili) su progetto e direzione dei lavori dell’architetto romano Odoardo Pennazzi, che si era trasferito a Sant’Agata con la sua famiglia; questi venne pure incaricato della realizzazione della torre dell’orologio del castello negli anni 1911-1913, mentre non venne mai realizzato un suo progetto per la facciata della Chiesa. In quegli anni, e cioè tra il 1888 ed il 1892 la città inoltre si dotò di un impianto di pubblica illuminazione e dell’acquedotto comunale. Interno della Chiesa Madre 56 Troppo piccola per esser capoluogo di provincia: Sant’Agata nei primi anni del Novecento I l nuovo secolo iniziava con un’immane prova che colpiva la comunità santagatese. Il comune nel 1910 contava 7.644 abitanti, di cui 5.634 nel centro cittadino, mentre i rimanenti vivevano sparsi per le campagne e nelle varie borgate, alcune anche di grandi dimensioni. Il territorio santagatese era circondato dall’acqua: a nord il mar Tirreno con l’anfiteatro naturale dato dalle isole Eolie, ad est ed ad ovest l’allora rigogliosi fiumi (ora torrenti) Rosmarino e Inganno, a sud il laghetto di Spartà (oramai di sparute dimensioni) insieme ad altri laghetti minori, situati in una grande conca alle falde del monte Furci, sotto le rocce di Priola. In contrada Terreforti, a duecento metri di distanza da Torrecandele, vi era inoltre un grande stagno, con folta vegetazione di canne e di giunchi. Oltre i due fiumi posti a confine del territorio comunale, diversi torrenti scorrevano all’interno del centro abitato, tra cui il torrente Posta, il torrente Guarnera ed il torrente Cannamelata. Le acque dei fiumi venivano derivate per l’innaffiamento degli agrumi, coltura predominante, mediante tutta una serie di canali che rendeva Sant’Agata una “città sull’acqua”30. Le caratteristiche orografiche ed idrografiche, che costituivano la fortuna del paese, divennero però ben presto motivo di allarme e di disgrazia; era oramai lontano il ricordo delle morti per colera della seconda metà dell’ottocento allorché, nell’anno 1907 apparve lo spettro di una calamità ancor più micidiale: la malaria, il cui vettore di diffusione erano le zanzare malariche che deponevano le loro uova nelle acque stagnanti. La cultura irrigua degli agrumi favoriva il dif- 30 Solo negli anni trenta e quaranta, a seguito del rifacimento della preesistente rete viaria, tali canali furono in parte ricoperti. 57 fondersi della malattia e la moltiplicazione degli anofeli, allorché le vasche, nei momenti di inattività, non venivano adeguatamente svuotate e ripulite. Il fenomeno dovette raggiungere una grande portata se nel 1907 furono segnalati ben 97 casi di malattia, permanendo tale situazione anche negli anni successivi. Meritoria fu l’opera di ricerca e di profilassi del dott. Giuseppe Liotta che negli anni 1908-1910 insediò a Torrecandele un ambulatorio per incarico del prof. Gabbi, accertando la diagnosi delle febbri malariche e distribuendo gratuitamente il chinino di stato31; se nessuna zona del territorio comunale si poteva considerare immune dalla possibilità di inoculamento della malattia, Torrecandele, a causa della presenza dello stagno di Terreforti, risultava la zona più colpita, tanto da poter far dire al medico che “tutti, indistintamente, hanno la malaria in atto, o l’hanno avuta, e che tutti coloro che vi arrivano, pagano il loro tributo alla malattia”. Le ondate malariche si reiterarono comunque diverse volte ancora negli anni successivi. Alle calamità naturali si aggiunse il dramma delle conseguenze della “grande guerra” che accentuò ulteriormente le condizioni di povertà ed abbandono di un meridione sempre più arretrato e lasciato a se stesso. Alla crisi economica determinata dall’esplosione del prezzo del grano si aggiunse quella sociale che sfociò in numerose manifestazioni popolari con l’occupazione delle terre ad opera di contadini reduci dal conflitto. Nel “biennio rosso” (1919-1920) anche a Sant’Agata si verificò tale fenomeno che riguardò i feudi di Rigamo e di Pileci. A seguito di queste rivendicazioni nacque, al pari di diversi centri della Sicilia, una cooperativa agricola denominata “La Terra”, che però seppe sfruttare solo parzialmente i ben 150 ettari di terreno avuti in enfiteusi dal Comune.32 31 Della meritoria opera del dott. Giuseppe Liotta ci è pervenuto un interessante studio da lui operato e pubblicato: vedi Liotta G., La malaria in S. Agata di Militello (Limiti, cause, mezzi per combatterla), Palermo 1915. 32 Cfr. Giallombardo L., Storia politica ed amministrativa di 58 Altro annoso problema in quegli anni era quello dell’analfabetismo: sotto l’aspetto scolastico, se dal 1852 a Sant’Agata vi era una scuola primaria ed una secondaria con un precettore eletto dal Real governo33, nella prima metà del secolo il risveglio culturale fu sostenuto soprattutto dall’arrivo delle Figlie di Maria Ausiliatrice il 9 gennaio 1915 e, vent’anni dopo, da quello dei Padri Salesiani il 24 novembre del 1935 (che vi rimasero sino al 1977). Grazie all’opera meritoria delle sorelle Caterina e Giulia Zito, che chiamarono in loco i religiosi e dotarono entrambe le opere di beni immobili e benefici, la gioventù maschile e femminile trovò gli spazi fisici e l’accompagnamento spirituale per la propria formazione scolastica, ricreativa e culturale. Nel giugno del 1932 venne iniziata la costruzione dell’istituto Sacro Cuore, conclusa nel 1935, anno in cui venne inaugurato il nuovo edificio e per la prima volta celebrata la festa di San Giovanni Bosco. Gli istituti delle Figlie di Maria Ausiliatrice e dei Salesiani accoglievano entrambi i locali delle scuole medie, oltre che diverse sale, una cappella ed un teatro; la scuola dei Salesiani, riservata ai soli ragazzi, era anche collegata ad una sezione del ginnasio. Come si evince da una donazione elargita un decennio dopo, nel 1947, la sig. Caterina Zito “mossa da vivi sentimenti di bontà verso la gioventù e specialmente per quella più bisognosa, e per dare a questa l’assistenza nella più lata forma non solo religiosa e morale, ma anche intellettuale e materiale” fondava l’istituto ecclesiastico “Sacro Cuore”.34 Altri istituti paritari furono il Magistrale fondato dal prof. Benedetto Virzì nel 1930 ed il Liceo classico gestito da padre Fortunato Messina. Il Liceo Scientifico, anch’esso voluto dal preside Virzì Sant’Agata Militello, in Sant’Agata Militello centocinquanta anni di Autonomia Amministrativa, 2007. Cfr. anche: Bottari S., Problemi e aspetti di storia dei Nebrodi, Messina 1999, pg. 243. 33 Ovviamente, secondo la consuetudine dell’epoca l’istruzione scolastica pur se gestita dallo Stato, era affidata a sacerdoti; nel caso specifico: Don Vincenzo Faraci per l’istruzione primaria e Don Carmelo Faraci per quella secondaria. Vedi Corrispondenza del 3 marzo 1852, in ASD. 34 Atto notarile del 5 luglio 1947, Notaio Giuseppe Manzo. (insieme ad altre scuole in tanti centri dell’isola), sarebbe sorto solo nel 1963 e presto sostituito in quello stesso anno da una sezione statale del Seguenza di Messina. Nel 1925 il prof. Domenico Di Paola, chirurgo santagatese, realizzò in via Campidoglio nei pressi del passaggio a livello la Clinica Salus. Nel 1929 ad opera dei fratelli Zuccarello nacque la Tipografia Progresso. Nel 1931 Ninì Aliberti in via Cosenz nei pressi della stazione ferroviaria realizzò la “Fabbrica del ghiaccio”. Per iniziativa di Giovanni Brucato fu realizzata una delle prime sale cinematografiche sorte nella provincia, denominata “Il pidocchietto”, affiancato ben presto dal teatro all’aperto e dal più celebre Cine Teatro Aurora, anch’esso ad opera dello stesso Aliberti.35 Sant’Agata diventava così sempre più polo di attrazione culturale, commerciale ed amministrativa dei paesi del circondario. Con il Regio decreto del 28 gennaio 1929 di Vittorio Emanuele III veniva sancita l’unificazione dei comuni di Sant’Agata, San Marco e Militello Rosmarino, al fine di frenare il progressivo abbandono dei borghi montani. Il nuovo comune prendeva nome e capoluogo “Sant’Agata di Militello”. La decisione suscitò però aspre polemiche, sino a degenerare in disordini pubblici da parte dei Militellesi e degli Aluntini. I politici santagatesi, e soprattutto l’on. Giuseppe Gentile ed il commissario prefettizio dott. Vittorio Ravot, furono accusati di mire espansioniste al fine di creare la cosiddetta “Grande Sant’Agata”, nel sogno di farla ambire a capoluogo di provincia. Il punto più alto della polemica fu raggiunto allorché il 16 aprile 1929 un gruppo di aluntini occuparono i locali del Palazzo Comunale aggredendo il commissario prefettizio. Dopo tre anni di dure polemiche e contrapposizioni politiche, con legge n. 1775 del 22 dicembre 193236 venne ratificata la fine del progetto che sancì lo smembramento delle tre comunità ed il ripristino dei comuni autonomi. Lo scoppio del secondo conflitto mondiale arrestò il processo di sviluppo economico e sociale di Sant’Agata. La liberazione dalle truppe tedesche 35 Parisi R., Ripasso di Memoria, Sant’Agata Militello 1997. 36 Archivio privato Fam. Bianco, anni 1922-46. Sant’Agata: veduta aerea da oriente 59 avvenne nell’agosto del 1943 allorché le armate alleate, guidate dal gen. Patton, vi sbarcarono con l’intento di accerchiare i nemici attestati nelle colline di S. Fratello, per poi sbaragliarle a Brolo e costringerle a ripiegare verso Messina e nel continente. Il dopoguerra fu caratterizzato da grandi fermenti sociali, economici, culturali: nel 1959 la cittadina contava già una popolazione di 10.915 abitanti e si dotava di diverse grandi opere grazie ai numerosi finanziamenti pubblici: tra essi l’ospedale, la scuola statale elementare Luigi Capuana, il lungomare, le Case popolari e la ristrutturazione urbanistica di diverse piazze e vie del paese. In quegli stessi anni anche il Banco di Sicilia sceglieva Sant’Agata come sede della nuova filiale. Tra gli artefici di questa ripresa fu Annibale Bianco: se durante il regime egli, per contrapporsi al politico concorrente Giuseppe Gentile, ideatore del progetto di unificazione dei comuni, era stato uno strenue difensore dell’autonomia degli aluntini, ora che era lui sindaco (1956-1960) proponeva la costituzione di un Consorzio di Comuni nella zona occidentale della provincia di Messina. Il decreto legislativo del Presidente della Regione del 29 ottobre 1955 prevedeva la possibilità di creare dei consorzi che, di fatto, rappresentavano delle province regionali distinte da quelle statali già esistenti: la “provincia regionale”, o consorzio, infatti, non aveva le stesse esigenze delle province statali e non occorreva che il capoluogo ospitasse tutti gli uffici di Stato che si affiancano alle Prefetture. La legge imponeva che la circoscrizione superasse, con un margine di sicurezza, i minimi congiunti di 150.000 abitanti e di 26 comuni. La delibera del Consiglio Comunale di Sant’Agata Militello, datata primo febbraio 1959 alla presenza dei sindaci di altri quattordici centri, gettava le basi per la costituzione della nuova provincia, comprensiva di trentatré comuni da Tusa a Piraino e a sud sino ai territori di Capizzi e Cesarò per una popolazione complessiva di 162.871 abitanti (secondo il censimento del 1951). 60 L’iniziativa alla fine naufragò, non riscuotendo il consenso unanime degli altri centri, in disaccordo soprattutto nella scelta del capoluogo: determinante fu anche l’opposizione della città di Patti, non rientrante nel progetto primitivo e che riuscì a far retrocedere dalla scelta diversi comuni costituendi, proponendo un consorzio alternativo molto più esteso ad oriente e idoneo a favorire la sua scelta come capoluogo. La stessa definizione dei confini del consorzio creò inoltre problemi, a causa della contrapposizione tra le amministrazioni di diversa coloritura alla ricerca di meri vantaggi partitici.37 In effetti, aldilà delle legittime istanze dei comuni interessati, il progetto aveva una sua ragion d’essere. Per la sua posizione geografica e per la condizione raggiunta in poco meno di un secolo Sant’Agata, costituiva, ieri come oggi, uno dei pochi centri in tutta la zona capace di fare il giusto salto di qualità. Inoltre, poteva risultare particolarmente innovativa l’idea di un consorzio di comuni così da rilanciare l’economia e da candidarsi, magari in solido con i maggiori centri vicini, come pretendente naturale a capoluogo della provincia dei Nebrodi. Ieri come oggi, oggi come allora... 37 Archivio privato Fam. Bianco, anni 1956-62.