Brescia 2012
“La debolezza piena”
evidenze e concezioni recenti in tema
di autismo e di intersoggettività
Francesco Barale, Marianna Boso e Stefania
Ucelli di Nemi
Università di Pavia
Laboratorio Autismo
Fondazione Genitori per l’Autismo, Cascina Rossago
“La Psicoanalisi non ha ragione di temere
gli attuali, formidabili progressi delle
neuroscienze. Anzi li attende con
curiosità ed impazienza, perché essi non
potranno che essere nuovi affinamenti e
porte di ingresso per le nostre concezioni,
necessariamente polifattoriali, di ogni
situazione psicopatologica”. (S. Lebovici)
…ma è veramente così?
…come sarebbe bello se le cose fossero
davvero così, come Lebovici
auspicava….
…purtroppo, nel caso dell’autismo (ma non
solo in esso) la faccenda è andata
diversamente
Ma, per capirci, è necessaria un po’ di
storia….
Kanner (1943) fu il primo clinico a
individuare e descrivere l’autismo. Le
sue descrizioni sono rimaste classiche ,
e tuttora valide.
Le descrizioni di Kanner furono seguite e
confermate da quelle di Asperger (1944)
La descrizione classica 1:
L’isolamento autistico (“I can’t reach
my baby !”, madre di Charles, caso 8°).
“Il disturbo fondamentale più evidente, patognomico, in
tutti questi bambini, è la loro incapacità a rapportarsi
in modo usuale alla gente e alle situazioni sin dai
primi momenti di vita…
vi è fin dall’inizio un estremo isolamento
autistico…hanno una buona relazione con gli
oggetti…la relazione con la gente è del tutto
differente…un profondo isolamento domina tutto il
comportamento…ma questo isolamento è molto
peculiare…
la cosa che più impressiona di Charles è la sua
inaccessibilità, il suo distacco. Cammina come
stesse nella sua ombra, vive in un mondo tutto suo,
dove non può essere raggiunto…” (Kanner 1943)
L’intuizione di Kanner
Sia Kanner che Asperger, da grandi clinici,
intuirono che l’isolamento autistico, questa
particolarissima evanescenza del sentimento
di essere collegato all’altro, è, appunto, molto
“peculiare”: qualcosa che solo
apparentemente e superficialmente è simile
ad un rifiuto del contatto umano; è qualcosa
di “originario” (Kanner ripete il termine più
volte), è un non riuscire ad essere sulla
stessa lunghezza d’onda degli altri, una sorta
di difficoltà di “sintonizzazione”.
La descrizione classica 2:
il desiderio di ripetitività
“Tutto il comportamento del bambino è
monotonamente ripetitivo quanto le sue
espressioni verbali…è governato da un
desiderio ansiosamente ossessivo di
conservare la ripetitività”
(Kanner 1943)
La “sameness”
Ripetitività autistica, routines,
ossessività.
L’insistenza ossessiva per la ripetitività si può
esprimere in modi molto diversi: come movimenti ed
espressioni stereotipiche, ma anche, nei casi più
high functioning, come routines sempre più
elaborate, spesso senza scopo apparente, o anche
come concentrazione su un campo ristretto di
interessi, nel quale magari il ragazzo autistico high
functioning raggiunge risultati straordinari…
La descrizione classica 3:
gli “isolotti di capacità”
“Il sorprendente vocabolario di questi bambini che
parlano, l’eccellente memoria per eventi accaduti
anni prima, la fenomenale memoria meccanica per
le poesie ed i nomi, il preciso ricordo di figure e
sequenze complesse, sono l’indizio di una buona
intelligenza” Kanner 1943) indussero Kanner ad
affermare che questi bambini avevano una buona
intelligenza .
L’ intuizione originaria di kanner
La geniale descrizione kanneriana individuava dunque tre
caratteristiche nucleari o “fondamentali”: l’isolamento, la
ripetitività ossessiva, gli isolotti di capacità.
Tra queste, “il disturbo più evidente, patognomico, presente fin
dall’inizio, è il profondo isolamento…l’incapacità dei bambini a
rapportarsi in modo usuale al mondo interumano sin dai primi
momenti di vita…La conclusione della descrizione, ben nota, fu:
“dobbiamo assumere che questi bambini siano venuti al
mondo con un’innata incapacità a formare il
consueto contatto affettivo con le persone, fornito
biologicamente, proprio come altri bambini vengono
al mondo con handicap fisici o intellettivi innati”
(Kanner, Disturbi autistici del contatto affettivo, Nervous Child,
1943)
Alcuni limiti delle descrizioni di
Kanner e Asperger
1)
2)
Ottimismo prognostico
La negazione di correlazioni con
condizioni mediche
La deriva psicogenetista ’50-’80
L’oscillazione psicopatologica ed eziopategenetica di
Kanner: l’isolamento da tratto essenziale diventa
fenomeno secondario, “chiusura” e “difesa”.
l’autismo viene assimilato alla “schizofrenia
infantile”….i “genitori frigorifero”
B. Bettelheim: dai “genitori frigorifero” alla “fortezza
vuota”…
Sotto l’influenza della psicoanalisi e di studiosi famosi
come Bettelheim abbiamo quello che può essere
chiamata la deriva psicogenetista
Il paradigma generale
degli anni 50-80
Autismo come arresto dello sviluppo
psichico ad una fase a-oggettuale di
indifferenziazione e come gusciostrategia difensivi rispetto:
1) ambienti inadeguati e/o ostili
2) angosce catastrofiche interne
Il paradigma generale della
psicogenesi dell’autismo
L’idea dell’autismo come regressione-fissazione a una
presunta fisiologica fase autistica originaria è
implicita nel termine stesso “autismo”, coniato da E.
Bleuler per indicare uno dei fenomeni “fondamentali”
della schizofrenia.
I riferimenti espliciti entro cui la nozione bleuleriana di
autismo fin dall’inizio si colloca sono la Sexualtheorie
freudiana e l’ipotesi generale che gli stati
psicopatologici corrispondano a
regressioni/fissazioni a stadi primitivi dello sviluppo
(“autismo”= “autoerotismo”, cioè stadio preoggettuale)
Il modo in cui venne concettualizzato
l’autismo è dunque profondamente
radicato in alcuni assunti di base della
metapsicologia psicoanalitica e della
cosiddetta “psichiatria psicoanalitica”.
Anni 50’-80’.
Aspetti del paradigma psicogenetista
Sul piano clinico il modello psicogenetista pose automaticamente
una continuità tra la questione dell’autismo e
1. fenomeni da deprivazione relazionale o depressione
(riferimento tipico: i fenomeni di istituzionalizzazione precoce,
Spitz 1943)
2. fenomeni di ritiro psicologico per accudimenti o stili interattivi
inadeguati (riferimento tipico: la “depressione materna”)
3. diverse condotte di evitamento relazionale da disturbo nella
regolazione del dialogo sensomotorio madre-bambino,
ampiamente descritte anche nel lattante e riprodotte anche
sperimentalmente (riferimento tipico: “still face” ecc.) …
L’idea centrale del paradigma
psicogenetista, in effetti psicoanalitico,
pone la genesi dell’autismo nella
inadeguatezza delle «cure materne», cioè
in una relazione madre/bambino primaria e
inadeguata, che avrebbe generato ritardo
e alterazioni nello sviluppo.
Ciò malgrado……
… i grandi clinici continuassero ad indicare che nell’ autismo
c’era qualcosa di diverso rispetto a qualsiasi fenomeno di
‘chiusura’, ritiro o depressione….
“…osservando i bambini psicotici, non si può fare a meno di
pensare che l’eziologia primaria della psicosi infantile,
l’incapacità del bambino psicotico di utilizzare le cure
materne, elemento catalizzatore dell’omeostasi, è innata,
costituzionale e probabilmente ereditaria….” (M. Mahler
1968)
… una ricca letteratura mostra come nessuna deprivazione o
distorsione relazionale, neppure la più estrema, produceva
di per sé autismo (A. Freud, S. Dann 1951;W. Goldfarb
1945; Curtiss 1977; D. Skuse 1984…)
“è stupefacente la capacità del bambino sano …di
recuperare…di raccogliere anche l’ultima stilla della
stimolazione umana…di integrare, per sopravvivere
in qualche modo, anche il più misero sostituto di cure
materne…..
…esattamente all’opposto dei bambini autistici, i
bambini deprivati si aggrappano con tenacia, intensità
ed efficacia a qualunque misera goccia di apporto...”
(M. Mahler, 1968)
Anni ’70 – ’80: la crisi del modello
dell’autismo psicogeno.
Gli studi empirici
Lo sviluppo di studi empirici rigorosi oltre a documentare
l’importanza della vulnerabilità genetica (“l’autismo è, tra
tutte le condizioni psichiatriche, quella in cui la genetica
svolge il ruolo più importante”, Rutter 2001) accerta che:
1. La prevalenza dell’autismo non è maggiore nei ceti
intellettuali e/o in particolari sistemi di allevamento
2. Non c’è un particolare stile relazionale genitoriale alla base
dell’autismo
3. Nella storia e nelle famiglie reali delle persone autistiche
non è documentabile qualche cosa di specifico e di differente,
sul piano psicologico, rispetto a tutti i possibili gruppi controllo
(normali o con altre patologie)
Anni ’70-’80 gli studi empirici
dimostrano che
4. La patologia autistica è spesso precocissima
5. Si esprime nello stesso modo sia nelle relazioni con i
genitori che in quelle con qualunque altro caregiver
In conclusione, a partire dagli anni ‘70 si fa sempre
più strada nella comunità scientifica la convinzione
che, come aveva intuito originariamente Kanner,
l’autismo non sia la conseguenza di di una
deprivazione psicologica o sociale o di disturbate
relazioni ma sia esso stesso un radicale, originario
disturbo dei fondamenti della relazionalità umana
La crisi “interna”
del paradigma psicogenetista
… sono i presupposti stessi della concezione
tradizionale a franare, con gli sviluppi della
psicologia evolutiva.
L’autismo non può più essere concepito come un
arresto o una regressione dello sviluppo a fasi
“autistiche”primitive, per insufficienze dell’ambiente
…perché appare sempre più chiaro, dagli sviluppi
della psicologia evolutiva, che nella crescita umana
non c’è alcuna fase autistica normale, non c’è
nessun “normale autismo del neonato” (Piaget).
Si fa strada con l’inizio degli anni 2000 l’idea di
un deficit delle basi neurologiche di quanto
viene denominato……
L’intersoggettività primaria
Fin dall’inizio il neonato umano è dotato di evidenti
“discovery procedures”(Meltzoff 2001), attraverso cui
esplora attivamente l’ambiente interumano
circostante… manifesta molteplici segnali di una
“innata intersoggettività” (Trevarthen 2001), di una
particolare attenzione spontanea ed originaria per gli
interlocutori viventi, di immediata recettività ai loro
stati soggettivi, di una sorta di elementare e
spontanea propensione alla mappatura
“se/altro”….un abbozzo embrionale di interesse al
“senso umano” delle esperienze…
L’intersoggettività primaria
Nell’intersoggettività primaria il bambino si impegna in
una fitta rete di scambi comunicativi….
scambi fin dall’inizio caratterizzati da un fenomeno
fondamentale: la “reciprocità”: “ciò che è percepito
non è solamente il comportamento dell’altro ma la
sua reciprocità al nostro…” (Neisser 1993)….
Numerosi studi dimostrano la particolare attenzione e
preferenza del neonato umano rispetto ai
comportamenti “congruent with me” e non solo
“contingent on me” (Meltzoff 1994)..
L’intersoggettività primaria denuncia la sua
presenza e al contempo la sua innatezza
attraverso …
I segnali precoci della reciprocità
Vi sono molti segni di questa reciprocità:
1)
2)
3)
4)
le “posture anticipatorie” e il “dialogo tonico” di J. De
Ajuriaguerra (1964)
le interazioni ritmiche con i care givers (Trevarthen, 1973),
vere “protoconversazioni”
l’ interesse precocissimo per i volti e la mimica materna
(Stern, 1985)
i fenomeni di attunement, di sintonizzazione e
sincronizzazione affettiva (Brazelton 1974, Tronick 1979,
Beebe 1982, Stern, 1985, Beebe e Lachmann 1988,
Trevarthen 2001 ecc….) nell’interazione, nel gioco, nelle
protoconversazioni….che testimoniano l’attivo interesse per
le intenzioni e la precoce capacità di modulazione degli stati
affettivi
La “grammatica universale”
dell’intersoggettività primaria….
…una estesissima letteratura ha mostrato la ricchezza
di questa intersoggettività primaria, individuandone
anche le “regole universali”, descrivendone i ritmi, la
prosodia, la musicalità, la fenomenologia “normale” e
le sue “normali” perturbazioni … ma mostrando
anche come la regolazione del contatto e la
modulazione affettiva-interattiva che in essa si
produce costituiscano veri “involucri proto-narrativi”
del sé e del mondo, “schemi” pre-cognitivi, struttura
profonda e sfondo implicito di ogni competenza
relazionale e collaborativa successiva….
L’intersoggettività primaria
L’evidenza nel neonato umano di questo “initial
psychosocial state”, biologicamente programmato,
carico di “purposeful intersubjectivity” (Trevarthen
2001)” si è fatta strada lentamente e faticosamente, tra
lo scetticismo generale: in psicoanalisi essa
confliggeva infatti sia con il modello pulsionale che con
l’idea di uno stato originario autistico; in psicologia
empirica, con il predominio di “una teoria
individualistica, costruttivistica e cognitiva”
(Trevarthen,2001).
L’imitazione primaria:
uno “starting point”?
La base innata delle competenze sociali è
documentata dai fenomeni di imitazione
primaria (Meltzoff 1977) . Presenti già a
poche ore dalla nascita, essi evidenziano la
capacità immediata di sperimentare e
“tradurre” la prospettiva corporea
dell’interlocutore nella propria: veri “schemi”,
o “preconcezioni”, della relazionalità. Non
dipendono dall’incontro con l’oggetto, ma
fondano la possibilità di quell’incontro.
Meltzoff, A. N. & Moore, M.K (1977).
Imitation of facial and manual gestures by human neonates.
Science, 198. 75-78
Significato dirompente dei lavori di
Meltzoff….
…I dati di Meltzoff e coll. contraddicono in modo così
radicale tante “idées reçues” che a lungo sono stati
messi in dubbio…salvo poi essere confermati da
numerosi altri laboratori…e dare origine a numerose
discussioni sulla natura di queste capacità imitative
evidentemente innate…sui meccanismi che la
sostengono, sul loro rapporto con il generale
fenomeno biologico della “mimicry”, largamente
diffuso in molte specie….anche inferiori….
Una delle cose più sorprendente degli esperimenti di
Meltzoff era che i neonati potevano imitare
movimenti del viso utilizzando parti corporee
(proprie) cui non avevano mai avuto accesso visivo.
Traducevano “immediatamente” un imput visivo in un
comportamento motorio simile. Meltzoff chiama
questo fenomeno “mapping attivo intermodale”.
Questa capacità sembra svolgere un ruolo basale
nello sviluppo dell’intelligenza sociale, costituendo un
primitivo spazio noi-centrico in cui la prospettiva
corporea dell’interlocutore è immediatamente
“tradotta” in quella propria…
.. Meltzoff dimostrò peraltro che questa “incredibile”
capacità era correlata ad altre precocissime
capacità di integrazione multimodale: neonati di 3
settimane sono in grado di identificare visivamente
ciucciotti che avevano precedentemente tenuto in
bocca senza poterli vedere…ciò che era stato
precedentemente esperito come differente dal punto
di vista tattile viene ora riconosciuto anche
visivamente differente..
A poco a poco, è sul fondamento di questa
“intersoggettività” (o meglio “intercorporeità”)
primaria che si organizza una “evidenza naturale”
del mondo interumano….
… in uno strato dell’intenzionalità fungente, in una una
“pre-comprensione” della socialità che è prima di
qualsiasi “social cognition” in senso stretto…ma
anche di qualsiasi fantasia, conscia o
inconscia….proiezione o introiezione…o
rappresentazione di “contenuti psichici”, “desideri”,
“intenzioni”….e anche di ogni chiara distinzione di
soggetto e oggetto…
Dall’intersoggetività primaria
all’intersoggettività secondaria
…siamo qui ancora, evidentemente, in una
dimensione di “weness” o del “esserecon”(Stern 1985)….che certamente non è
“autistica”, ma comunque è di relativa
indifferenziazione e di confusione dei limiti tra
se e non-se, di “bi-dimensionalità psichica” (o
di “identificazione adesiva”)….
Dall’intersoggetività primaria
all’intersoggettività secondaria
il passaggio da questa intersoggettività affettiva molto
primitiva all’ intersoggettività secondaria è
complesso, implica l’ “invenzione dell’altro”, cioè
della differenza (e separatezza) tra sé e altro, una
progressiva costruzione del sentimento di “agentività
e della distinzione tra passività e attività, interno e
esterno, un transito dai fenomeni imitativi “a
specchio” (“indifferenti al chi”) ad una imitazione
“secondaria” e intenzionale ….con una
componente cognitiva e rappresentativa sempre
maggiore…
Dall’intersoggetività primaria
all’intersoggettività secondaria
…questo cammino di progressiva differenziazione (tra se e ciò
che è altro, tra interno ed esterno), riconoscimento e
rappresentabilità è ovviamente modulato e facilitato
dall’incontro con l’oggetto, dal tipo di “saturazione” delle
“preconcezioni”, (capacità di contenimento, di reverie, di
introduzione di una “terziarietà” ecc.) che esso consente….
Ma vi sono comunque sempre maggiori evidenze che,
nell’autismo, ciò che è alterato è proprio questa matrice
biologica originaria dell’intersoggettività….…e che è questa
alterazione dell’intersoggettività primaria ciò che rende
difficile il transito tra essa e l’intersoggettività secondaria
Dalla “fortezza vuota”
alla “debolezza piena”
Questa alterazione si esprime nella
fenomenologia preclinica dell’autismo:
insufficienza nel contatto visivo, mimico, negli
scambi imitativi, nel dialogo tonico e
sensomotorio, nell’anticipazione posturomotrice,
nell’ attenzione e nella risposta alla voce
familiare….successivamente, nell’attenzione
condivisa, nel gesto protodichiarativo (ma qui
siamo già nell’area dell’intersoggettività
secondaria …)
Dalla “fortezza vuota”
alla “debolezza piena”
Possiamo dunque pensare l’autismo come una particolare
forma di esistenza che si costruisce intorno ad alcune
difficoltà iniziali nella costituzione di una
“evidenza naturale del mondo” interumano…
Non è una “fortezza vuota”, secondo il concetto di Bettelheim
, che si è chiusa difensivamente, ma una “debolezza
piena”: un mondo sui generis (ma comunque un “mondo”)
costruito a partire da una debolezza interattiva originaria
Dalla “fortezza vuota”
alla “debolezza piena”
…in assenza di una “evidenza naturale del
mondo interumano” e alla ricerca comunque
di organizzatori, l’esperienza autistica si
struttura fin dall’inizio intorno ad alcuni
“organizzatori” peculiari ed idiosincrasici…
… di cui ritualismi, stereotipie, routine più o
meno elaborate sono solo alcuni aspetti …
Autismo: il “mistero delle cose”
“La realtà per una persona autistica è una massa
interattiva e confusa di eventi, persone, luoghi,
rumori e segnali. Niente sembra avere limiti netti,
ordine o significato. Gran parte della mia vita è stata
dedicata al tentativo di scoprire il disegno nascosto
di ogni cosa. La routine, scadenze predeterminate,
percorsi e rituali specifici aiutano ad introdurre un
ordine in una vita inesorabilmente caotica”
(T.Joliffe, cit. in Temple Grandin, Thinking in
Pictures 1995)
Questa descrizione è tipica: corrisponde, nelle sue linee generali, a tutte le
descrizioni “dall’ interno” dell’ esperienza autistica che ci sono arrivate
dalle poche persone HF in grado poi di fornircele.
Queste descrizioni non corrispondono affatto, purtroppo, a quella che F.
Tustin, in un passo molto poetico (1981), preconizzava ci avrebbe
potuto fornire, una volta uscito dal suo guscio, il “bambino
addormentato nella conchiglia”.
Ovviamente il “mito della conchiglia” (il principino addormentato nel suo
guscio difensivo, che mantiene comunque intatte, dentro di esso, tutte
le potenzialità evolutive e cognitive in attesa che si sviluppi una
maggiore fiducia nella interlocuzione umana e le angosce catastrofiche
si mitighino) ha implicazioni operative molto diverse….
…da quelle che derivano dal riconoscimento di un
inceppo o difficoltà originaria nei meccanismi basali
che consentono riconoscimento emotivo, imitazione,
anticipazione, reciprocità, interazione…e, a poco a
poco, attraverso una acquisizione progressiva di
capacità, di districarsi dal flusso immediato
dell’esperienza sensopercettiva e organizzare un
“apparato per pensare i pensieri”….
…si giocano qui una serie di questioni molto
importanti….modi radicalmente diversi di intendere
non solo l’autismo ma la sua cura….
La ricerca recente ha messo in luce importanza e basi della
difficoltà autistica ad organizzare dei “forward models”
dell’esperienza; di sviluppare cioè quella capacità
“anticipatoria” che rende possibile intenzionalità ed
interattività coerenti.
Fu M. Mahler (1968), che non sapeva nulla della
neurofisiologia delle “funzioni esecutive”, a descrivere
per prima questa caratteristica difficoltà: “una delle cose
che colpisce di più, osservando questi bambini, è che
sembra che essi non abbiano il futuro, non ne
possiedano modelli anticipatori, non riescano ad
immaginarsi cosa accadrà …”
La difficoltà nei “forward models” ostacola anche il
formarsi di quella che D. Marcelli (1986), citando la
Mahler senza saperlo, ha chiamato funzione di
“surséance”: la capacità di “rinviare”che introduce il
“tempo”, consente al neonato di uscire dal flusso
sensopercettivo immediato, stabilisce una prima
distanza “anticipatoria” tra esperienza
sensopercettiva e primo abbozzo di attività
rappresentativa; prima tappa di una funzione di
contenimento delle eccitazioni esterne ed interne…
Principali revisioni anni 70-90.
Aspetti nosografici
Possiamo riassumere i cambiamenti avvenuti negli anni 70/90 secondo il seguente
schema
1. La disarticolazione del nesso “autismo-schizofrenia”: differenze di esordio,
evoluzione,sintomatologia, epidemiologia, fenomeni tipici, fattori di rischio,
distribuzione M/F, associazione con altre patologie,con il RM e l’epilessia,
genetica…
2. Dalla nozione di “psicosi” a quella di “disturbo generalizzato o dello sviluppo”
3. DSM III 1980: nozione di PDD. Criteri rutteriani (1975, 1978)
4. DSM III R 1987: accentuata la prospettiva evolutiva, scompare l’aggettivo
“infantile”. Scompare la nozione di “autismo residuo”,che alludeva all’ipotesi
illusoria di una “uscita” dall’autismo.
Criteri Wing-Gould (coorte di Camberwell; tre domini statisticamente
associati, con spettro esteso di variazioni)
De-psicopatologizzazione della descrizione kanneriana (e persino
rutteriana). Iperinclusività diagnostica e perdita di specificità.
5) DSM IV 1994: riorganizzazione criteriale, inclusione di altri quadri (d.di
Asperger)
Anni 80-2000: i 4 modelli principali
Sulle rovine del modello psicogenetista,
infondato ma a suo modo coerente, nei
decenni 1980-2000 emergono alcuni
modelli di comprensione (ed aree di
ricerca) che cercano di dare una
spiegazione “unitaria” dell’autismo.
I principali sono quattro
MODELLO 1
Le teorie della Teoria della mente
A partire dalla metà degli anni ’80, A.Leslie, S. BaronCohen, U.Frith, J.Perner e altri, utilizzando un
costrutto elaborato alla fine degli anni 70 in ambito
primatologico da Premack e Woodruff, ipotizzarono
all’origine dell’autismo un deficit specifico di “teoria
della mente” …
“ToM” indica la continua attività di attribuzione agli altri
di stati emotivo-mentali come credenze, desideri,
inganni, scopi; attribuzione indispensabile per
orientarsi nel mondo interumano, interagire e
intendere il comportamento altrui e modularsi su di
esso come governato da stati mentali ed intenzioni.
Modello 1: deficit di ToMM?
Il termine “teoria” non allude ad una attività riflessiva
consapevole (gli aspetti “meta-rappresentativi sono
anzi molto tardivi nell’evoluzione delle capacità di
ToM) ma al fatto che si tratta di un’inferenza di stati
intenzionali non direttamente osservabili
ToMM è anzi ampiamente automatico. Esso è alla base
delle possibilità specie-specifiche di orientamento
sociale (“per la specie umana ToM è analogo alla
locazione dell’eco per i pipistrelli”, D. Sperber 1993)
e si sviluppa per attivazione successiva di “moduli” e
dominii cognitivi predeterminati ed innati.
Tale attivazione segue sequenze universali (come la
grammatica generativa chomskyana), esattamente
uguali in tutte le culture (Avis e Harris 1991), che
corrispondono a sequenze maturative ed
organizzative del Sistema Nervoso.
Se le capacità compiute (meta-rappresentative) di ToM
(quelle che consentono di superare i test di “falsa
credenza”) si sviluppano solo intorno ai 4 anni, esse
presuppongono l’attivazione progressiva di “moduli
cognitivi” precedenti: EDD (eye direction detector)-ID
(intentionality detection)-SAM (shared attention
module)-ToMM compiuta
L’acquisizione di ToMM è dunque il risultato di un lungo
percorso evolutivo della specie, come la capacità di
deambulazione eretta o il linguaggio. Questa
considerazione “evoluzionistica” è un potente
argomento “anti-psicogenetista”: come per
linguaggio e deambulazione anche per attivare
ToMM dovrebbe bastare una minima
“esposizione”…(l’argomento chomskyano dell’
“insufficienza degli stimoli”).
Attraverso vari paradigmi sperimentali (in particolare i
test di “falsa credenza”) fu trovato che le persone
autistiche hanno difficoltà…..
 a distinguere accidentale da intenzionale
 a distinguere le proprietà degli oggetti fisici da quelle degli
oggetti mentali
 a collegare “vedere” a “sapere”
 a riconoscere cause complesse (mentali) di stati emozionali (“è
contento perché crede che…perché spera che…”), mentre
cause semplici (“è contento perché mangia il gelato”) sono
riconosciute
 a distinguere la realtà dalla credenza sulla realtà
 ad attribuire credenze e punti di vista agli altri
 a fingere, utilizzare l’ironia, la menzogna, il linguaggio in senso
metaforico
 a intendere le regole pragmatiche e conversazionali del
linguaggio (quando esso si è sviluppato)
L’ipotesi generale che ne deriva può essere così espressa:
L’autismo va inteso deficit specifico di ToMM, come una
sorta di “agnosia” degli stati intenzionali
(mindblindness), almeno di quelli complessi, che
toglierebbe al soggetto autistico la capacità di orientarsi
nell’universo delle relazioni sociali…… di acquisire
quelle abilità di “psicologia ingenua” che consentono di
interagire con le menti altrui (il che presuppone la
capacità di immaginare cosa gli altri pensino, vogliano,
desiderino, ecc.).
Nel modello cognitivista dell’autismo come deficit di ToM è
prevista peraltro la possibilità di diversi autismi, a
seconda del livello in cui si colloca l‘inceppo nella
sequenza evolutiva di attivazione dei diversi “moduli”
della catena evolutiva del “mindreading” : in molti
soggetti, pur sprovvisti di capacità meta-rappresentative,
può dunque permanere un nucleo anche importante di
“psicologia ingenua”.
Una tappa evolutiva importante di
ToMM: SAM
Una tappa particolarmente importante è costituita dalla capacità di
condividere l’attenzione dell’adulto (SAM; Shared Attention Moduli)
tratta dalle
“capacità di joint attention, cioè di monitorare e dirigere l’attenzione
dell’interlocutore umano verso oggetti comuni, in genere pienamente
sviluppate attorno ai 14 mesi, sono tipicamente difettuali nell’autismo;
esse si manifestano attraverso una serie di comportamenti
(monitoraggio dello sguardo, gesto “proto-dichiarativo”, indicazioni per
richiamare l’interesse e l’attenzione) che sono i segnali dell’iniziale
costruzione di un mondo condiviso nonché dell’attiva ricerca e piacere
in questa condivisione. Essi sono tipicamente difettuali nell’autismo
(Sigman 1987)
In cui altrettanto tipicamente c’è dissociazione tra gestualità di richiesta e
gestualità per richiamare o condividere (che implica il monitoraggio di
stati mentali come attenzione, interesse ecc.) (Baron-Cohen 1995)
Limiti e debolezze della TToMM
La teoria della «Teoria della Mente» ha tuttavia ricevuto critiche e
obiezioni rispetto al suo proporsi come spiegazione esauriente
dell’autismo. In particolare si è obiettato che una
1.parte importante della sintomatologia autistica non è spiegata da
ToMM
2.aspetti nucleari dell’autismo sfuggono a ToM: “gli unici bambini che
sviluppano capacità metarappresentative e di comprensione sociale
senza fare ricorso a quella comprensione emozionale quasi automatica
di cui la maggior parte dei bambini dispone, sono proprio i bambini
autistici ad alto funzionamento” (Sigman 1995)
3.Le competenze sociali spontanee non dipendono dalla loro
“metarappresentazione”: apprendere capacità di ToM non annulla
l’autisticità
4.Gli aspetti “socio-affettivi” sono, se non
trascurati, almeno ritenuti secondari da
ToM.
Dalla fine degli anni ’80, sia in USA (Fein
et al. 1986, Sigman et al. 1987) sia in
Europa si assiste alla ripresa di un
“filone affettivo” che cerca di riprendere e
di dare base empirica all’intuizione
kanneriana.
MODELLO 2
Il legame affettivo originario: da Kanner ai
neuroni specchio
Negli anni 80 infatti viene ripresa e sviluppata su basi
empiriche l’intuizione kanneriana dell’aspetto
“primario” della debolezza interattiva autistica.
L’autismo come alterazione originaria del legame
affettivo: “questi bambini sembrano venuti al mondo
privi di quella capacità innata di formare il normale
legame affettivo”.(Kanner 1943)
Vengono messi in luce (anni 80-90)alcuni
problemi riguardanti meccanismi basali
della relazionalità
1. deficit nella decifrazione degli stimoli sociali, delle
espressioni mimiche, degli aspetti prosodici della
comunicazione (Hobson 1985,1989, 1993):
evidenze poi confermate dagli studi di
neuroimaging
2. deficit imitativo sia a livello di imitazione primaria,
che testimonia di una difficoltà originaria nel selfothers mapping (Ritvo 1953; Rogers e Pennington
1991; Gopnik e Meltzoff 2000), sia di ritardo e
difficoltà nello sviluppo di imitazione “secondaria”
di gesti, posture, pantomine (DeMyer 1972, Stone
et al 1997, Rogers 1996)
Abbiamo con il MODELLO 2 , che
riprendendo le intuizioni di kanner si trova
ad essere convalidato dalle scoperte dei
neuroni specchio
“Broken Mirrors”?
Da Kanner ai neuroni specchio
La neurofisiologia dei neuroni specchio ha
recentemente fornito un quadro esplicativo coerente
a questi dati: alla base delle difficoltà originarie di
imitazione, sintonizzazione intersoggettiva e
comprensione sociale vi sarebbe un
disfunzionamento nei sistemi “specchio”, attraverso i
quali viene attivata quella esperienza fondamentale
ed immediata di condivisione e reciprocità che è la
“simulazione incarnata” o “consonanza intenzionale”.
(Williams 2004; Ramachandran 2005; VillaLobos 2005; Penida
2005;Oberman 2005;Gallese 2006; Dapretto, Sigman e
Iacoboni 2006; Oberman e Ramachandran 2007)
Il sistema “mirror”
….Scoperti originariamente (Rizzolatti e
coll 1992) nella corteccia premotoria
ventrale del macaco (F5) i neuroni mirror
scaricano sia quando una scimmia compie
una azione finalizzata sia quando osserva
un’altra compierla….meccanismo basale di
“comprensione” delle azioni altrui….
Sistema mirror: pluralità di funzioni
Le zone corticali implicate nelle funzioni specchio sono riassumibili
nello schema seguente.
Due componenti principali nell’uomo:
a) corteccia premotoria ventrale e pars opercularis del giro frontale
inferiore (IFC) e parte caudale dell’ area di Broca, lobo parietale
inferiore (IPL); queste aree sono strettamente connesse ai
neuroni “audiovisivi” del solco temporale superiore (STS), area
non-mirror polisensoriale : il sistema nel suo complesso è alla
base della comprensione (pre-cognitiva) delle azioni e delle
intenzioni altrui, dell’imitazione ecc. Altre aree mirror nella
corteccia somatosensoriale (veder un altro essere toccato/essere
toccato…)
b) insula e giro cingolato anteriore (fortemente connessi al sistema
limbico): riconoscimento (consonanza) delle emozioni (es.
disgusto)
Da Kanner ai neuroni specchio. : la
comprensione delle azioni
Durante la osservazione di azioni, L’EEG della
corteccia motoria centrale nei soggetti non
autistici normalmente si desincronizza (con
comparsa del tipico ritmo “mu”, espressione
della attivazione del MNS). Ciò non accade
nei soggetti con autismo: il sistema mirror
non si attiva! (Oberman et al 2005;
Martineau et al. 2008)
“When the social mirror breaks”:
imitazione volontaria e involontaria
McIntosh e coll (2006) hanno studiato l’imitazione
automatica (involontaria) e volontaria di espressioni
mimiche: adolescenti e adulti autistici ad alto
funzionamento sono in grado di imitare
volontariamente espressioni di gioia o collera, ma
esposti senza consegna ad immagini corrispondenti
non attivano all’ EMG i muscoli facciali corrispondenti,
come invece fanno soggetti e a sviluppo normale
(consonanza “mirror” e imitazione spontanea)
Sistema mirror nell’autismo:
un dato morfostrutturale
Hadjikhani e coll. (2006, Cerebral Cortex)
in uno studio neuroimaging di morfologia
strutturale hanno dimostrato nell’autismo
una significativa riduzione della corteccia
specificamente nelle aree che
costituiscono il MNS (IFC,IPL, STS) e in
alcune aree implicate in compiti di
produzione e riconoscimento di emozioni
Sistema mirror e autismo:
dati funzionali
Williams e coll (Neuropsychologia 2006) usando
tecniche di fRM e il paradigma per compiti imitativi
di movimenti proposto da Rizzolatti e Iacoboni
(Science 1999) hanno studiato compiti di imitazione
e/o esecuzione di azioni in adolescenti autistici HF:
c’è una specifica riduzione bilaterale dell’attivazione
dei lobi parietali (nelle aree mirror) durante compiti
imitativi, assieme ad una mancanza della “normale”
modulazione dell’attività dell’amigdala sinistra
(presente nei soggetti TD), sempre in compiti
imitativi.
MNS, autismo, riconoscimento
di emozioni, imitazione
In uno studio di fRM in compiti di osservazione e
imitazione di espressioni emotive Dapretto, Sigman,
Iacoboni et al (Nature Neuroscience 2006) hanno
dimostrato che in soggetti autistici HF il
riconoscimento mimico non avviene attraverso
l’attivazione del circuito mirror premotorio (che
rimane ipoattivo assieme ad amigdala, insula e
COF) ma tramite l’iperattivazione di aree visive”. La
disattivazione dei circuiti mirror è proporzionale al
grado di “autisticità” misurata con ADI e ADOs
“Broken mirrors”: riconoscimento
delle emozioni, imitazione
…in sostanza, nei bambini TD le emozioni
e le espressioni sono immediatamente
riconosciute (per “consonanza “mirror”) e
i processi imitativi “poggiano” su questa
spontanea pre-comprensione. Nei
bambini autistici HF questa esperienza
“diretta” è deficitaria: il “mirroring”
immediato impossibile é sostituito da
strategie compensatorie “indirette”…
….broken mirrors
…broken bicycles …
…cosa può accadere nella mente di un
bambino in cui l’esperienza
dell’intersoggettività primaria invece che
darsi come “evidenza naturale”, tramite i
dispositivi di mirroring, diventa ardua
come l’apprendimento di una lingua
straniera?….qual è il destino di quei
frammenti di esperienza “non
mirrored”?….
Sistema mirror: pianificazione e
riconoscimento dell’intenzione motoria
Nel lobo parietale inferiore (Fogassi et al. 2005, Science)
esiste una popolazione di neuroni mirror detti “action
constrained”, vale a dire che si attivano non
genericamente per una sequenza motoria ma per le sue
specifiche “finalità” (la stessa sequenza motoria, ad
esempio “afferrare un certo oggetto”, può avere diverse
finalità). In uscita (azione finalizzata eseguita), essi
improntano fin dall’inizio l’intera sequenza motoria
orientandola al suo fine; in entrata (azione finalizzata
osservata) entrano in risonanza “speculare” nel
riconoscimento delle stesse “finalità”.
Sistemi mirror, il “why” dell’azione, il
chaining intenzionale e autismo
Questi neuroni mirror codificano non per il “what”
dell’azione ma per il “why”. Il riconoscimento del senso
dell’azione osservata è immediato, pre-cognitivo; essi
ne “rispecchiano” la organizzazione motoria interna.
Ma essi organizzano anche fin dall’inizio
coerentemente l’azione intenzionale eseguita …

I bambini a sviluppo tipico, come gli adulti normali,
pianificano le azioni globalmente: la comprensione
della finalità è “interna” alla stessa organizzazione
motoria (Johnson-Frey 2004)
Dai neuroni mirror
all’intenzione motoria
Rizzolatti e coll. (2007,2008), attraverso lo studio
della cinematica dell’azione intenzionale
dimostrano che i bambini autistici HF, pur
essendo in grado di capire “cognitivamente” (dall’
“esterno”) un compito e anche di compiere tutte
le singole azioni necessarie per eseguirlo, non
“traducono” e incarnano la loro intenzione
motoria in una sequenza coerente fin
dall’inizio….
Dai neuroni mirror
all’organizzazione intenzionale
Essi programmano le azioni come sequenze di steps
indipendenti….la finalità dell’azione non partecipa
“dall’interno” alla sua organizzazione globale.
Questa frammentazione della concatenazione
intenzionale, pezzetto per pezzetto, riguarda non solo
l’organizzazione dell’azione quando è “eseguita”, ma
anche il riconoscimento della finalità dell’azione osservata
(Cattaneo et al 2007; Fabbri-Destro et al 2008).
E’, in fondo, il vecchio tema del nucleo “disprassico”
dell’autismo…..!
“Cosa” e “Perché”.
Il chaining intenzionale
In sostanza nei soggetti a sviluppo tipico il perché, l’ “intenzione”
sono “incarnati” fin dall’inizio nell’organizzazione motoria stessa
(sia in entrata che in uscita) … non si tratta di un assemblaggio
o di una “deduzione cognitiva”, ma di una consonanza
immediata…. che coinvolge l’intera esperienza del corpo:
esperienza del sé agente ed interagente in una “evidenza
naturale del mondo”
le persone autistiche invece hanno difficoltà a integrare il
“perché” (il “why”) delle azioni nel chaining motorio, ci riescono
(quando sono HF) “per via cognitiva”, per assemblaggio di step
successivi…: quel “perché” non si “incarna” fin dall’inizio nella
loro stessa organizzazione motoria rendendola coerente
all’intenzione fin dall’inizio
“Cosa” e “Perché”:
il ruolo del Contesto
Ma Boria et al. (in press) hanno recentemente dimostrato
che questa difficoltà non è un dato statico e assoluto: la
difficoltà a capire in modo immediato l’intenzione si riduce
o scompare se la sequenza motoria è fortemente
inserita in un contesto significativo.
Invece, in assenza di un contesto facilitante di forte
significatività, l’intenzione (il “perché”) è invece assegnato
in modo rigido e automatico solo alla natura immediata
dell’oggetto (il suo uso standard), indipendentemente dalla
forma e dall’organizzazione interna del gesto.
Ruolo del contesto
…dunque il deficit in questo fondamento
dei processi imitativi è sensibile al
contesto…..
Questo introduce ad un terzo MODELLO
MODELLO 3:
il deficit di funzioni esecutive (EF)
Il modello del deficit di funzioni esecutive
(EF) ipotizza che nell’autismo siano
compromesse alcune funzioni
neuropsicologiche generali, chiamate
“funzioni esecutive”, che sovraintendono alla
pianificazione, controllo, monitoraggio,
coordinamento ed esecuzione/comprensione
di azioni e di sequenze di azioni finalizzate
(sia in uscita che in entrata).
.
Il costrutto EF implica almeno
4 dimensioni neuropsicologiche fondamentali:
1) costruzione automatica di “modelli anticipatori” (forward
models) dell’esperienza e pianificazione dell’azione in
sequenze gerarchiche.
2) capacità di flessibilità cognitiva e continua modulazione
e feedback dall’esperienza (ruolo dei circuiti frontocerebellari)
3) memoria di lavoro
4) capacità di inibire risposte automatiche
e perseverative
Tutti questi processi richiedono una integrità
funzionale dei lobi frontali, come dimostrato
storicamente dal grande lavoro di L. Bianchi
(1922) e poi di A. Luria (1966) e dei grandi
circuiti fronto-cerebello-talamo-corticali.
L’ipotesi di una disfunzione dei lobi frontali,
per spiegare alcune caratteristiche
fondamentali dell’autismo, fu avanzata da A.
Damasio (1978). Si intersecò poi con le
evidenze sul ruolo dei lobi frontali
nell’organizzare sequenze di comportamenti
orientati coerentemente a scopi (Duncan 1986,
Shallice 1988) e in generale nello sviluppo
neurocognitivo (Welsh e Pennington 1988).
Dal monitoraggio delle azioni al
monitoraggio delle intenzioni e del Sè
Prima dell’esecuzione di una azione intenzionale, nella
corteccia prefrontale si organizzano “forward
models” dell’azione finalizzata, una “copia” dei quali
viene inviata alla zona somato-sensoriale
corrispondente: ogni azione intenzionale (sia in
entrata che in uscita) è così coerente con una
programmazione e una rappresentazione
anticipatoria ad un tempo dell’azione, del sé
corporeo proprio, di quello dell’interlocutore (nel
caso di uno scambio interpersonale) e delle
conseguenze (Jannerod 1993, 1994, 1999; Rizzolatti
1994, 1999; Proust 2000)….
“Forward models”:
….una geniale anticipazione….
“…una delle cose che colpisce di più,
osservando questi bambini, è che essi
sembrano non avere un futuro…non
possedere ‘modelli anticipatori’ (!!!!)
dell’esperienza….” (M. Mahler 1968)
La straordinaria importanza di questa
caratteristica……
Ef, coerenza intenzionale e cervelletto
Il cervelletto, a sua volta, è connesso a questo
circuito intenzione/esecuzione, in cui svolge un
ruolo cruciale di metronomo o “sincronizzatore”:
riceve imput sullo stato delle cose e manda
continui feed-back, mantenendo la coerenza di
intenzioni ed esecuzioni rispetto alle variazioni
impreviste,. Ha dunque una funzione cognitiva
importante, è centrale nel “timing”, nella fluidità e
nel coordinamento delle sequenze, nel
consolidamento di attitudini spontanee …
EF, sviluppo cerebrale e circuiti
fronto-cerebellari.
Evidenze di un ritardo di maturazione (Zilbovicius 1995) della
corteccia frontale e\o di disfunzione/dismaturazione dei circuiti
fronto-talamo-cerebellari (Minshew 1999, Casanova et al 2002,
Luna et al 2002, Carper e Courchesne 2002) sono state
correlate alla estesa compromissione delle EF nell’autismo
.
Lo stesso è avvenuto per le evidenze ripetute di alterazioni
cerebellari, con ipoplasia del verme e iperplasia della sostanza
bianca (Courchesne 1988,1994, 2001).
Ciò ha avvalorato l’ipotesi che il deficit di EF fosse la disfunzione
primaria nell’autismo (Ozonoff et al 1999 e 2004, Pennington et
al 1997, Russel 1998, Zalla 2003)
Sono fortemente coerenti con l’ipotesi molte
caratteristiche di base dell’autismo: rigidità,
perseverazioni e stereotipie, intolleranza ai
cambiamenti, difficoltà di programmazione o di
modifica degli schemi di risposta, monitoraggio
e rappresentazione di sequenze di azioni
finalizzate complesse, focalizzazione ristretta
….ma anche difficoltà di apprendimento
imitativo, di pianificazione e esecuzione di
movimenti imitativi, che comunque implicano
una working memory.
EF, disprassia e body awareness

L’ipotesi del deficit nello sviluppo di EF si
connette all’antica ipotesi di una
originaria disprassia (DeMyer 1981), a
sua volta collegata al deficit imitativo e
alla precaria costruzione di body
awareness (esperienza coerente del sé
corporeo che governa gli scambi)
EF, intenzionalità, ToM, socialità
siamo nel cuore e nei fondamenti
dell’intenzionalità umana…
.dei processi che consentono sia di
riconoscere l’azione altrui sia di
modulare la propria come
“orientate ad uno scopo”
EF, intenzionalità, socialità
E’ stato ipotizzato (Russell 1996,1997) che una
disfunzione precoce nelle EF produca una difficoltà
implicita nello sviluppo del concetto di “agente
intenzionale” e di sé come agente intenzionale
immerso attivamente in scambi orientati a scopi e
riconoscibili.
Disfunzioni, lesioni o dismaturazioni dei circuiti frontocerebellari fanno sì che l’azione umana sia
tendenzialmente percepita come “un flusso di atti
frammentari ed elementari”, non di insiemi strutturati
orientati ad uno scopo (Zalla 2003).
EF, intenzionalità, ToM, socialità
Le EF sarebbero quindi non solo un prerequisito delle
capacità di ToM ma anche del costituirsi stesso dell’
intersoggettività e della “relatedness”, oltre che del
sentimento di coerenza del sè.
Rogers e Pennington (1991,2006) con esplicito
riferimento al modello di sviluppo dell’intersoggettività
di Stern (1985) suggeriscono che la “dismetria
cognitiva e percettiva” da deficit di EF, assieme alle
difficoltà al “matching self/other” per compromissione
dei sistemi “mirror”, renda impossibile quella funzione
materna “regolatrice” che negli sviluppi tipici consente
invece il transito alla intersoggettività secondaria
“….osservando i bambini psicotici, non si può
fare a meno di pensare che l’eziologia
primaria della psicosi infantile, l’incapacità
del bambino psicotico di utilizzare (percepire)
l’agente delle cure materne che è l’elemento
catalizzatore dell’omeostasi, è innata,
costituzionale e probabilmente ereditaria….”
(Mahler, 1968)
MODELLO 4 :
Deficit di coerenza centrale
Kanner :la “incapacità ad afferrare gli insiemi
senza completa attenzione alle singole parti
costituenti”
Kanner: il “terrore del cambiamento”. Se
manca anche il minimo particolare la
situazione non è più la stessa….
…manca la capacità di completamento e
gestaltizzazione automatica…
B. Hemelin, N. O’Connor (1970) : il ricordo delle frasi non è
sostenuto dagli aspetti semantici.
Frith e Snowling (1983): in soggetti autistici è indebolita non la
comprensione di singole parole, e neppure l’individuazione delle
classi sintattiche delle singole parole, ma, significativamente, la
connessione semantica e la collocazione delle parole in insiemi
significativi.
Eskes e coll.(1990); Snowling e coll. (1988); Frith (1989);
Happè (1994,1997): diverse difficoltà di integrazione
multimodale descritte
De Gelder et al. 1991: difficoltà ad integrare diversi domini
(movimento delle labbra e suoni nella comprensione del
linguaggio).
La debolezza gestaltica
La configurazione generale che risultava da questi
studi era quella di una esperienza percettiva
tendenzialmente frammentata, disorganizzata, non
deficitaria specificamente in nessun dominio
particolare, ma caratterizzata da una debole
coerenza “centrale”, da una difettosa tendenza
alla spontanea organizzazione in insiemi
significativi coerenti e dalla specifica propensione
invece per i dettagli e le forme astratte dal contesto.
Interesse del modello della
“coerenza centrale”
Questo modello (U. Frith 1989; F. Happé 2000, 2007)
spiega meglio di altri sia alcune disabilità che abilità.
Tra le disabilità: le difficoltà di integrazione dei vari
dettagli o i furori per minimi cambiamenti (magari agli
altri impercettibili) anche di un minimo dettaglio (il
dettaglio “è” il tutto; una sua minima variazione
rompe la samenes).
Tra le abilità: quelle dei “savants”; o i “talenti speciali” o
comunque gli “isolotti di capacità” spesso
straordinaria: capacità di individuare dettagli, di
organizzare in modi non comuni i rapporti tra i
dettagli, di non rispondere posturalmente a falsi
movimenti indotti…l’orecchio musicale assoluto…
Coerenza centrale e connettività
Il modello del deficit di coerenza centrale, nato su
dati cognitivi e neuropsicologici, si adatta bene ai
recenti modelli di “disconnessionismo funzionale”
(Minshew 2000,2004), nati nell’ambito del
neuroimaging. Dati di fRM (Belmonte 2003, 2004,
Just 2004) hanno mostrato pattern di connettività
atipica in risposta a compiti percettivi e di cognizione
sociale: alta connettività settoriale, con
iperattivazione localizzata, in specifiche aree
percettive e bassa connettività estesa, con ridotta
attivazione dei circuiti integrativi.
Coerenza centrale e connettività
….tant’è che il modello del Deficit di Coerenza
Centrale si è candidato (Belmonte 2004) a
dare a sua volta “coerenza centrale” ai dati
sparsi della ricerca….
“Why the frontal cortex in autism might be
talking only to itself: local over-connectivity
but long distance disconnection”
(Courchesne e Pierce, Curr. Opin.
Neurob.15, 2005)
Critiche al modello della
coerenza centrale
Ma molte questioni rimangono aperte:ad
esempio se il meccanismo sottostante
sia unico (un problema generale di
connettività e quindi di
integrazione/categorizzazione delle
informazioni provenienti dai diversi
domini sensoriali) oppure riguardi
specifici sottosistemi (Plaisted 2003,
Happè 2006)
Disconnettività, coerenza centrale,
peculiarità percettive
Uno dei temi della ricerca attuale è chiarire come dismaturazione
corticale e pattern aberranti di connettività siano in relazione
con le atipie percettive, da sempre segnalate nell’autismo.
Il tema della percezione e dell’attenzione nell’autismo è
particolarmente intricato e controverso (Barale e Ucelli 2006);
l’evidenza clinica che nell’autismo ci sia una organizzazione
percettivo-attentiva peculiare è molto antica (a partire dalla
segnalazione dei fenomeni di over o under arousal); ma
travagliata è la controversia su questa “atipia”, che certo non
può essere intesa in termini puramente deficitari, ma
probabilmente di complessa processazione trans-modale.
Senza addentrarci, i dati testimoniano di una singolare
“fenomenologia della percezione” autistica, che dà origine ad
una idiosincrasica esperienza del mondo.
L’organizzazione percettiva
nell’autismo. Deficit di coerenza
centrale o “smantellamento”?
Il “deficit di coerenza centrale” evoca poi agli psicoanalisti il
concetto di “smantellamento” sensoriale descritto da D. Meltzer,
per evitare l’esperienza di invasione e sommersione
caotica…..Meltzer (1975) aveva indicato in questo particolare
assetto della psicosensorialità l’origine dell’autismo…una
psicosensorialità all’insegna della dissoluzione estetica nelle
sue componenti parziali…
Va ricordato come per Meltzer tale “smontaggio” peraltro non sia
“difensivo”, non si sviluppi per eccesso di sadismo, invidia,
persecutorientà (Meltzer insiste anzi sul carattere “mite”, dolce,
sensuale e sensibile di questi bambini…), né per identificazioni
proiettive o sulla spinta di una qualche “fantasia”…ma sia un
dato “originario”, il portato di “un bombardamento di dati
sensoriali su un equipaggiamento inadeguato..” …geniale….
L’organizzazione percettiva
nell’autismo. Alcuni dati recenti….





La persistenza (Moller 2005) nell’autismo di pattern “co-modali”
atipici di trattamento dell’esperienza sensoriale e di interazioni
tra flussi sensoriali diversi, tipici del neonato e che nel TD poi si
risolvono nel corso della maturazione dei sistemi sensoriali.
L’importanza del solco temporale superiore (STS)
nell’integrazione multimodale: anomalie anatomiche del STS
nell’autismo (Boddaert 2004, Hadjikani 2006)
La non differenziazione di attivazione di circuiti tra voce umana
(Zilbovicious et al, 2004) e suoni non umani….e il ruolo STS
La non differenziazione tra animato e inanimato (Volkmar e Klin
1995), già segnalata da Kanner
L’ inversione delle attivazioni di FG e STI nel riconoscimento di
visi e oggetti (Schultz 2004).
I pattern difettosi di “lateralizzazione” delle
funzioni….disconnettività.
Il ruolo si sincronizzatore e metronomo dell’esperienza percettiva
del cervelletto
La difficoltà a discriminare gli aspetti del linguaggio veicolanti
aspetti emozionali (“sordità alla voce”, Zilbovicious 2000)
Viceversa, a testimonianza della contraddittorietà del campo,
l’estrema sensibilità agli stati e alle atmosfere emozionali
“semplici” (l’ “intonazione”, la “stimmung”) e il dato,
interessantissimo, che, contrariamente alla difficoltà di
riconoscimento delle espressioni mimiche, vi è spesso una
particolare abilità a collegare brani musicali ed emozioni
(Heaton 1999)……………..e così via…..
Il cervelletto e la reverie materna.….
Eppure, i vecchi miti sono duri a morire….!
B. Golse (2007) ha recentemente ri-descritto parte di questa
fenomenologia re-interpretandola come un fallimento nella
funzione di “direttore d’orchestra” svolta dalla madre nel
processo di organizzazione percettiva, con le sue interazioni
armoniose, la voce, il viso, che consente prima una
segmentazione dei diversi flussi sensoriali, secondo ritmi
compatibili, attraverso cui vengono individuate delle costanti del
mondo esterno, poi di integrazione e co-modalizzazione delle
sensazioni (funzione di contenimento, filtro, metabolica, di
bonifica..)…. verso una intersoggettività secondaria….
Ma davvero è ragionevole pensare alle atipie trovate nell’autismo
come a “conseguenze” di funzionamenti relazionali “fuori comodalizzazione”?
….l’antica questione….
Se in linea generale possiamo riferirci al modello delle “serie
complementari”(Freud 1916-7) bisogna dire con chiarezza che
nel caso dell’autismo re-introdurre per questa via una qualche
“psicogenesi” è una grossolana forzatura rispetto all’imponente
mole dei dati empirici. Certo, possiamo sostenere (senza
obbligo di prova) la psicogenesi di tutto…anche delle alterazioni
anatomiche del cervelletto, delle atipie sinaptiche o dei patterns
di funzionamento atipici messi in evidenza a pochi giorni dalla
nascita in popolazioni di bambini “ a rischio”…..
Ma di queste forzature (squalificanti nella comunità scientifica che
si occupa di autismo) non c’è alcun bisogno, peraltro, per
riaffermare l’importanza degli aspetti relazionali nella cascata di
fenomeni che comunque si verifica a partire dalla disabilità
interattiva originaria e nelle esperienze che ne derivano.
…ancora una considerazione
evoluzionistica….
E’ ovvio che l’incontro materno “modula”, indirizza…
consente non le pre-condizioni della reciprocità e
dell’interazione, ma la loro esperienza….ma qui
siamo di fronte all’alterazione di funzioni costitutive
della specie, frutto di una evoluzione di centinaia di
migliaia di anni; ciò indica chiaramente un problema
di altra natura: basta del resto una minima
esposizione al linguaggio o alla motricità perché i
bambini imparino a parlare e a camminare, attivando
i “pre-requisiti” innati, specie-specifici ed universali
dello sviluppo…(Kagan 1989, Pinker1991)
È necessario ed urgente, dunque, per lo sviluppo delle
conoscenze sull’autismo e per la psicoanalisi stessa,
(per la sua stessa credibilità) che la psicoanalisi si
liberi delle ultime scorie di “psicogenesi”,
incompatibili con i fatti e confusiogene (anche in una
prospettiva “poli-fattoriale”, che, per essere
ragionevole, non può essere genericamente
“ecumenica”, ma deve definire “pesi” diversi dei
diversi ordini di questioni). La psicogenesi
dell’autismo è una eredità ed estensione impropria
del vecchio paradigma dell’isteria. Essa, oltre che
insostenibile, è, come si diceva, del tutto inutile …
…..lo sviluppo autistico, infatti, anche se
profondamente alterato nei prerequisiti stessi della
socialità, è comunque quello di una mente (e prima
ancora di una esperienza del corpo) vivente e in
relazione (sui generis) con altre menti (e altre
esperienze del corpo). E anche le persone autistiche
hanno bisogno, comunque, di compagni di strada
vivi e intelligenti. Ne faranno fin dall’inizio un uso
almeno in parte atipico, i mondi che si
organizzeranno avranno aspetti singolari, porteranno
indelebile la traccia di una alterazione crudele…
…ma saranno comunque dei mondi; e i soggetti che li abiteranno
saranno portatori di una esperienza che si tratta, innanzitutto, di
cercare di intendere.
La psicodinamica dello sviluppo autistico, liberata dagli abbagli
etiologici, sarebbe effettivamente il segmento mancante delle
descrizioni contemporanee dell’autismo e della prospettazione
delle strategie abilitative …che non possono certo fondarsi solo
sul bilancio delle abilità e disabilità…
E non c’è dubbio che la Psicoanalisi potrebbe portare un
importante contributo sia, in generale, alle rappresentazioni
attuali dello sviluppo della cognizione sociale, che sono spesso
terribilmente astratte e schematiche e sembrano prescindere
dalla dinamica di quell’incontro tra menti che consente il transito
tra l’intersoggettività primaria e l’intersoggettività secondaria….
…sia, in particolare, alla comprensione dei mondi
autistici e quindi alla progettazione di contesti e
modalità di intervento ad essi adeguati…ma ciò
richiederebbe una autentica curiosità interdisciplinare
e, intanto, il coraggio di fare definitivamente piazza
pulita dei vecchi errori….che ancora alimentano una
diffusa concezione “difensiva” dell’autismo come
“chiusura”, come conchiglia che prima o poi potrà
riaprirsi, una volta ri-create (tramite psicoterapia) le
condizioni per una ripresa sufficiente di fiducia
nell’interlocuzione umana, liberando il suo contenuto
“incapsulato” intatto (il principino addormentato) …
Tutto ciò che negli ultimi decenni abbiamo appreso
sull’autismo (dati di ricerca, evidenze cliniche,
epidemiologie,descrizioni dall’interno dell’esperienza
autistica) indica l’urgenza di questa revisione.
Non è un astratto problema “etiologico”, irrilevante sul
piano pratico: quello stereotipo, che scredita la
psicoanalisi, comporta una distorsione “psicologista”
delle strategie di intervento; anche se i tempi stanno
cambiando anche in ambito dinamico, anche se
sempre meno dell’autismo vengono considerati i
supposti aspetti “difensivi”, anche se lo stile è
sempre meno interpretativo…….
…e sempre più gli interventi, anche dinamici, sono
impostati come tentativi di apertura di “nuova
esperienza”, tuttavia capita ancora spesso di leggere
di lunghe terapie condotte in stile interpretativosimbolico (magari di oggetti interni e fantasmi) con
bambini la cui capacità di organizzazione coerente
dell’esperienza più immediata, di orientamento
nell’interazione umana, di mappatura se/altro,
interno/esterno, di comprensione stessa del
linguaggio simbolico sono assai fragili, se non
assenti …
…mentre occorrerebbe intervenire non solo il più
precocemente, il più sistematicamente possibile, nei
mesi in cui l’assetto autistico non si è ancora
“fissato”, ma anche il più attivamente possibile sulle
precondizioni della relazionalità, cercando di attivare
interattività, intersoggettività, sentimento di
reciprocità, di orientamento nelle interazioni umane
perché la debolezza interattiva, imitativa e di iniziativa
autistica “genera” a cascata l’ esclusione da
esperienze imitative ed interattive normali e produce
difficoltà sempre maggiori negli scambi sociocomunicativi.
….”da capo”…..
Ma a questo punto è necessario affrontare
sistematicamente il tema dell’evoluzione dell’autismo
nell’età adulta, per vedere se essa ci insegna
qualcos’altro di importante.
Occorre premettere alcuni dati epidemiologici
Alcuni dati generali su prevalenza
ed evoluzione
Prevalenza del disturbo autistico nella popolazione
generale: 1,3/mille; di tutti gli PDDs: 3-5/mille (E.
Fombonne 2006; stime “di lavoro”)
“The available epidemiological evidence does not
strongly support the hypothesis that the incidence of
autism has increased…the recent upward trend in
prevalence cannot be attributed to an increased in
the incidence of the disorder….diagnostic
substitution, changes in policies for special education
an the increasing availability of services are
responsible for the higher prevalence figures”
(Fombonne 2006)
epidemiologia
“The majority of surveys has ruled out social class as a
risk factor for autism…the hypothesis of an
association between immigrant status or race and
autism remains largely unsupported..” (ibidem)
Nella letteratura più recente in realtà trovate queste
cifre fin triplicate; più ancora che la prevalenza, è
l’incidenza ad aver subito un aumento vertiginoso;
ciò è in larga misura, come sottolinea Fombonne,
l’effetto “nebulosa” dell’allargamento diagnostico
degli ultimi anni, anche se si comincia a dubitare che
le cose stiano solo così e che non stiano incidendo
anche co-fattori ambientali….
La diagnosi di autismo ha una caratteristica
instabilità nei primi anni di vita e una altrettanto
caratteristica stabilità successiva
L’ instabilità nei primi anni di vita:
Sigman e Ruskin (1999): in una coorte di 56 bambini
diagnosticati il 17% “esce dalla diagnosi” entro i 10
anni.
Instabilità iniziale della diagnosi
e “autismi transitori”
L’ instabilità nei primi anni di vita:
Fein e coll (2005 e 2006) confermano il dato e parlano di “autismi
transitori”. Fein ha recentemente (2013) confermato che una
percentuale significativa di bambini diagnosticati “autistici” in
centri attendibili in età precoce dopo qiualche anno risulta “fuori
dall’autismo”
Sutera e coll (2009): più la diagnosi è precoce più essa è anche
instabile (e incerta) : circa il 20% (17 casi su 90) dei bambini
diagnosticati autistici a 2 anni esce dalla diagnosi a 4 anni.
A quali caratteristiche è correlabile “l’uscita dalla diagnosi”: i
bambini che “escono” dalla diagnosi in genere hanno più
elevato QI e abbozzi di capacità di iniziativa motoria, di
reciprocità, di imitazione…: sono le stesse caratteristiche
predicono una buona risposta agli EIBI (che sono efficaci in
presenza di questi pre-requisiti) !
Sviluppi fragili, instabilità,
adattamenti omeostatici, regressioni,
plasticità….
Muratori e Maestro (2006), nei casi con regressione (più frequenti di
quanto si ritenesse in passato), hanno descritto uno sviluppo “ a
denti di sega” delle competenze, prima della loro perdita, innescata
spesso da banali fatti di vita (malattie, separazioni…)
Gli studi sui “filmini famigliari”, girati prima di ogni sospetto
di diagnosi, confermano questa immagine; e mostrano
anche come lo stile “iperprotettivo” dei caregivers (in
quelle che venivano chiamate “psicosi simbiotiche” o
autismi “confusionali”), che tradizionalmente veniva inteso
come fattore etiopatogenetico, sia esso stesso
l’espressione di un adattamento omeostatico preriflessivo
alle difficoltà, percepite del futuro soggetto autistico
In sostanza: vi è un periodo di plasticità e instabilità
degli assetti neurobiologici durante il quale la fragilità
di base e la vulnerabilità all’autismo possono non
essersi ancora pienamente espresse.
Di qui, a maggior ragione, l’importanza (a prescindere
dalla diagnosi e dalla sua conferma, anzi
augurandosi che essa non venga confermata…) di
intervenire precocemente per sostenere i fattori
protettivi, le competenze interattive e l’
intersoggettività.
L’autismo dura tutta la vita
I bambini autistici, a condizione autistica stabilizzata,
diventano invece adulti autistici in più del 90% dei
casi :l’autismo è “almost always a lifelong
disabling condition” (F. Volkmar 2006)
Tuttavia, all’interno di questa “lifelong disabling
condition”, le evoluzioni e gli esiti sono i più diversi
Questa variabilità, espressione dell’eterogeneità
dell’autismo, spazia da una piccola percentuale di
esiti ottimi (o addirittura di uscita dall'autismo: pochi
punti, ma presente in tutti gli studi più estesi) ad una
maggioranza di esiti meno buoni o decisamente
cattivi.
L’evoluzione degli autismi in età
adulta: aspetti generali da
considerare
L’ Eterogeneità degli autismi, di cui discuteremo in seguito,
comporta dunque una grande eterogeneità anche dei profili
evolutivi in età adulta.
L’evoluzione delle diverse forme e dei singoli casi di autismo
mantiene inoltre un margine di imprevedibilità. Banalmente: fare
pronostici su quale sarà il futuro di un bambino autistico è
azzardato come per qualunque altro bambino.
Molte cose infatti possono cambiare, in meglio o in peggio, nel
corso della vita, non sappiamo quanto per l’evoluzione
“naturale” del disturbo, o per le interazioni tra le difficoltà
originarie, la cascata di eventi di vario ordine che da esse
origina, i fattori protettivi o peggiorativi incontrati strada facendo:
le sintomatologie prevalenti, gli stili di relazione, le comorbidità,
le capacità di adattamento ed espressive…..
…..cognitivo (sia in meglio che in peggio: Sigman et al 1997,
Schopler e Mesibov 1983, Howlin et al. 2004).
All’interno di limiti importanti, da ricordare per evitare illusioni,
rimane a lungo anche dopo l’”età evolutiva” una variabilità
importante.
I deficit e gli aspetti nucleari stessi, malgrado le loro forti radici
neurofunzionali, non sono mai del tutto statici né del tutto globali:
hanno una espressione tipicamente “oscillatoria” e sensibile
al contesto, talvolta entro limiti ristretti, altre volte più estesi.
Anni di lavoro abilitativo con adulti con autismo ci confermano che i
“giochi non sono mai fatti del tutto”. L’autismo non guarisce,
ma progressi possono essere ottenuti perfino in aree che
sembrano strettamente legate all’assetto deficitario originario
Nessuna persona con autismo è “tutta
autistica”: anche nei casi più gravi qualcosa
di importante può essere fatto, perfino in
quelle aree che sembrano l’espressione
diretta dei deficit nucleari; occorre dunque
creare le condizioni perché una tensione
abilitativa non si interrompa mai, anche
nell’età adulta
Marco 2006->2002->2006. Il gesto, il sè corporeo, il sè agente.
Funzioni esecutive, concatenazione intenzionale. Trasformazioni
Fattori predittivi dell’evoluzione.
I predittori tradizionali
All’interno di questa variabilità, è possibile individuare fattori
predittivi?
I tradizionali “predittori” sono QI e presenza di linguaggio
“comunicativo” a 5 anni. Questi predittori sono confermati.
La prognosi dei soggetti con ritardo mentale importante è quasi
invariabilmente quella di una scarsa autonomia.
Quella del 25-30 % senza ritardo (percentuale che sta salendo
man mano che la diagnosi si allarga…) e’ la più varia: ma
anche tra loro meno di un quinto raggiunge una effettiva
autonomia sociale e solo un terzo ha un outcome complessivo
definibile “buono” (Howlin 2006). Sconfortante? No.
Significa intanto che “autismo” e “ritardo mentale”, anche se
spesso associati, sono costrutti diversi.
Nuovi fattori predittivi
e loro implicazioni
Nell’autismo c’è qualcosa di specifico: infatti la disabilità autistica
nei suoi aspetti nucleari (l’area dell’intersoggettività) permane
anche in assenza di ritardo mentale, in presenza di capacità
cognitive elevate e perfino di apprendimenti comportamentali più
adattativi
Evidenze emergenti indicano inoltre l’importanza predittiva di tracce
di competenze relazionali ed empatiche che sfuggono alla misura
grezza del QI e alla presenza "on off" del linguaggio
comunicativo a 5 anni (Sigman 1998; Koegel, 2000): abbozzi di
abilità imitative, di joint attention, di interesse alle emozioni
altrui, di flessibilità cognitiva e di interattività, di iniziativa motoria.
Sono le stesse caratteristiche che, in alcuni casi più fortunati,
consentono nei primi anni “l’uscita dalla diagnosi”.
Le tracce potenziali di queste capacità sono il “focus” degli
interventi cosiddetti “evolutivi”.
Queste evidenze segnalano infatti l’importanza non solo
di “insegnare comportamenti adattativi”, ma di
cercare di attivare e facilitare il più precocemente
possibile, in contesti il più possibile “naturalistici, i
comportamenti interattivi, contestualizzanti, di
pragmaticità condivisa e di sostenere ed attivare
quell’ importante “motore” dell’apprendimento sociale
che è l’imitazione.
Dunque: sollecitazione alla interazione “partecipata”
(anche da parte del terapeuta), alla reciprocità e alla
iniziativa, attivazione e modulazione della
comunicazione emotiva, attenzione agli affetti…..
Ciò va fatto molto attivamente; perché la debolezza
interattiva, imitativa e di iniziativa autistica “genera” l’
esclusione da esperienze interattive “normali”, che, a
“a cascata”, produce difficoltà sempre maggiori negli
scambi socio-comunicativi.
A fronte di ciò, diversi studi (Dawson et al. 1990,
Escalona et al. 2002) hanno da tempo mostrato ad
esempio che molti bambini autistici, pur avendo
difficoltà ad iniziare lo scambio imitativo, provano
invece piacere ad essere imitati e cercano di
proseguire l’esperienza aumentando il
comportamento imitativo
Un breve excursus su di un argomento
centrale: l’ imitazione
Sospendiamo per un poco il tema
dell’evoluzione dell’autismo (che
riuprenderemo tra breve) per fare una
parentesi su un argomento centrale nei
modelli attuali.
Essa ci consentirà alcune considerazioni
importanti successivamente
Importanza dell’ imitazione:
un fenomeno “primario” ?
L’imitazione e il suo lungo sviluppo (dall’ “imitazione in eco” e dai
fenomeni di mimicry originari alle capacità più mature) è tema
controverso. Tuttavia per certo nell’autismo l’emergere di
capacità di imitazione di gesti e stati del corpo:
1.correla con lo sviluppo di capacità di interazione sociale e di
“mappatura degli schemi sé-altro” (Sigman et al 1984, Smith e
Bryson 1994, Nikopulos et al 2003; Rogers 2006)
2. è uno dei pochi predittori “forti” di sviluppo linguistico (Stone et al
1997, Wertet al 2003). La sovrapposizione di F5 e area di Broca:
“Language within our grasp”, Rizzolatti e Arbib, Trends
Neurosc., 1998)…
3. correla con una buona la risposta agli interventi psicoeducativi e
con la capacità di generalizzazione degli apprendimenti.
4. la assenza di quelle capacità correla con un outcome cattivo
Evoluzioni recenti nei modelli:
l’imitazione
Zwaigenbaum, Bryson, Szatmari e coll (2005) in uno
studio clinico su una estesa popolazione a rischio
(fratelli) hanno dimostrato che l’assenza di imitazione o
problemi nell’imitazione sono precocissimi e precedono
l’emergenza di chiara sintomatologia autistica!
Studi di MEG e RMf hanno evidenziato atipie di
funzionamento in compiti di imitazione (Nishitani et al
2004; Williams et al 2006; Dapretto et al 2006):
ipoattivazione dei circuiti “specchio” e iperattivazione di
altri circuiti. Le atipie sono proporzionali al livello di
autisticità
Complessità dell’imitazione
..ma l’imitazione non è un monolite.. Ha una sua
evoluzione… dai fenomeni di imitazione primaria e di
mimicry automatica, dai comportamenti “in eco” dell’
“intercorporeità originaria, verso l’imitazione
intenzionale (di gesti, posture, azioni, stili…), e l’
apprendimento imitativo volontario e cosciente….
Questa evoluzione richiede il transito tra
intersoggettività primaria e secondaria…processi di
interiorizzazione, di “stoccaggio” di esperienze, di
sviluppo di una “geometria (prima che di una “teoria”)
della mente, della differenza sé/altro,
interno/esterno…del sentimento di “agentività”….
Anzi, la maturazione psichica presuppone una capacità
sempre maggiore di inibizione dei meccanismi di
imitazione primaria, “in eco”, così come delle risposte
automatiche ai bisogni e agli stimoli ambientali.
Questa evoluzione è parallela, dal punto di vista
neuropsicologico, alla maturazione prefrontale (danni
prefrontali producono infatti una disinibizione e
riattivazione dei comportamenti imitativi primari).
L’immaturità prefrontale alla nascita (la
mielinizzazione prefrontale prosegue fino
all’adolescenza) consente un vantaggio evolutivo
attraverso un lungo “bagno” imitativo “basale”
Complessità dell’imitazione nell’autismo.
Deficit o atipia?
Anticipando anche nel caso dell’imitazione una
considerazione di valore generale, anche la questione
dell’imitazione nell’autismo non può essere intesa in
termini puramente deficitari: non c’è una “assenza”, un
puro “deficit” di imitazione, ma un suo sviluppo
ritardato e “atipico”, con sequenze atipiche (ad es.il
rapporto dell’apprendimento imitativo con la joint
attention) e differenze nei vari aspetti dell’imitazione
(imitazione di azione su oggetti, di gesti o posture, orofaciale ecc.) (Charman 1994; Smith e Bryson 1994; Rogers
1999; Carpenter et al 2002;Williams 2004; Rogers 2006).
Complessità dell’imitazione e autismo
Secondo la “direct matching hypothesis”(Iacoboni e
Rizzolatti, Science 1999) all’origine dell’atipia ci
sarebbe una difficoltà originaria nel “matching diretto”
per imperfetta “taratura” dei circuiti “mirror”: i percorsi
imitativi nell’autismo non sono sostenuti dalla
“evidenza naturale” del mirroring, base forte di una
esperienza del mondo condivisa. Prendono di
conseguenza vie più difficili, indirette: ( ad esempio la
sequenza invertita tra pointing, joint attention e
apprendimento imitativo).
Comunque sia, questi percorsi, sia pure stentatamente,
compaiono….possono essere facilitati…!!
Imitazione e autismo: questioni aperte
Inoltre, anche per il “direct matching” non sembra
essere questione di “tutto o nulla”.
Infine: fino a che punto la proprietà “mirror” dei neuroni
mirror (che sono neuroni come gli altri) è uno
“starting point” e fino a che punto sono proprietà
acquisite, hebbianamente (“neurons that fire together
wire together”, D. Hebb), nell’esperienza del
“mirroring”?
In altri termini, i “broken mirrors” fino a che punto sono
tali fin dall’inizio e fino a che punto sono
conseguenza di una cascata di esperienze di
interattività deficitaria per altre cause?
Neuroni Mirror e mirroring
I neuroni mirror prefrontali e del lobo
parietale inferiore sono “indifferenti al
chi”. Importanza fondamentale del STS
per la distinzione se/altro.
Ma il circuito F5-PF-STS è stato ipotizzato
(Keysers e Perret 2004) come alla base,
attraverso il ruolo cruciale di STS,
dell’acquisizione di funzioni “mirror” di F5
e PF
Il visibile e l’invisibile.
La capacità negativa e il STS
Evidenze di dismaturazione del STS
nell’autismo (Zilbovicious et al 2004)
Il STS non solo ha un ruolo cruciale nella
distinzione se/altro, nella comodalizzazione
sensoriale e nel perfezionamento della
funzione mirror dei sistemi mirror. La cosa di
straordinaria importanza è che una parte dei
neuroni audiovisivi STS scarica
specificamente “in assenza” dell’oggetto
visibile/udibile…..
Centralità dei passaggi consentiti dalla
maturazione di queste strutture prima
nella costituzione dell’intersoggettività
primaria e poi nel passaggio tra
intersoggettività primaria e secondaria
(costanza dell’oggetto, accesso al
simbolico…)
L’enigma del “primum movens”……..
Le questioni sono tutt’altro che semplici: il MNS spiega bene i
fondamenti primari dell’imitazione (direct matching) e del lungo
“bagno imitativo” (da immaturità prefrontale) che consente ai
meccanismi basali di rispecchiamento e intersoggettività
primaria di sedimentarsi pienamente; ma questa “base sicura”
progressivamente è sostituita e integrata da meccanismi di
cognizione sociale e apprendimento imitativo più complessi,
che implicano lo sviluppo di competenze, articolazioni,
differenze, self regulation, EF, TOM.. a loro volta indicate come
deficitarie nell’autismo…in cui diversi dati indicano una
dismaturazione prefrontale e delle connessioni frontocerebellari…ma a loro volta queste difficoltà rendono difficili
esperienze di mirroring…
…….ma torniamo al tema dell’evoluzione
dell’autismo nell’età adulta….
Cosa succede ai bambini autistici quando
diventano grandi (rimanendo, come nella
quasi totalità dei casi, autistici)?
C’è un rapporto evidenziabile tra tipi di
evoluzione e trattamenti?
Evoluzione dell’ Autismo ed interventi.
Quale relazione?
E' difficile stabilire un rapporto tra tipologie di trattamenti ed esiti
complessivi, sia a breve che a lungo termine
A breve termine ci sono prove di efficacia sia per alcuni trattamenti
intensivi comportamentale precoci (EIBI), sia per interventi
psicoeducativi, sia per interventi specifici e strutturati di impostazione
“evolutiva” (LG ISS 2012)
Non vi è invece alcuna chiara evidenza di una “gerarchia” di efficacia
complessiva tra i diversi trattamenti precoci (Howlin et al, 2009; LG
ISS 2012).
A lungo termine, poi, l’ outcome è ancor meno direttamente correlabile
alla tipologia del singolo trattamento, in particolare per i casi che vanno
molto bene. E’ tuttora più facile indicare i predittori di un outcome
povero (QI>70, grave compromissione del linguaggio, comorbidità
importanti, nessun intervento specifico) che quelli di un outcome
buono.
Evoluzione dell’ Autismo ed interventi.
Quale relazione?
Cominciano tuttavia a comparire evidenze che interventi
abilitativi precoci e specifici (sia EIBI che evolutivi)
continuati coerentemente nel tempo, anche nell’età adulta,
possano sortire esiti lievemente migliori.
Ciò che fa la differenza non è il singolo trattamento, ma la
coerenza, specificità, sistematicità, durata nel tempo e
continuità del progetto in una atmosfera generale di sostegno.
Se ciò si realizza, vi sono lenti ma significativi spostamenti verso
l’alto nella scala di autonomia e capacità adattive (Howlin 2006)
In sostanza: se non vi è intervento (di alcun tipo) che di per sé
consenta di uscire dall’autismo, in presenza di contesti adatti
e di interventi specifici (cioè centrati sulle caratteristiche
dell’autismo) le persone autistiche possono continuare
anche oltre l’età evolutiva un loro percorso di crescita.
Un periodo molto delicato:
l’adolescenza autistica
La maggioranza di adolescenti autistici non presenta modificazioni
più drammatiche degli altri coetanei; in alcuni casi addirittura
migliora (Kanner e al 1972; Rutter e Bartak 1973; Wing e Wing
1980; Mesibov 1983; Park 1983). Ma in almeno il 30 % si ha un
importante peggioramento (Kobayashi et al 1992, Ballaban-Gil
et al 1996, Wing 2000), talvolta con comparsa di nuovi sintomi
(Seltzer et al 2003)
I cambiamenti adolescenziali impattano in un apparato mentale e
in un sentimento del sé fragili e indifferenziati. Nel caso dei
ragazzi autistici è impossibile poi l’accesso ai “mediatori sociali”
del processo adolescenziale; ma le “forme sociali” stesse del
“divenire adulti” sono loro inaccessibili. Sopravviene spesso una
dolorosa percezione della propria diversità. Depressione.
L’adolescenza autistica:
un processo difficile
Diminuisce contemporaneamente la tolleranza sociale e anche nei
casi non infrequenti in cui i bizzarria e comportamenti
problematici tendono a “spegnersi” o a diminuire per intensità
e/o frequenza, essi sono comunque meno tollerati socialmente.
Il passaggio è poi spesso particolarmente difficile per i famigliari:
accettare che i giochi evolutivi sono in larga misura fatti…e non
sono andati come fino all’ultimo si era sperato…. Inoltre…
..di fronte si apre un terribile vuoto, conoscitivo, simbolico, di
contesti, servizi e dispositivi di intervento, di progetti possibili..…
una vera terra di nessuno, della quale la diffusa “sparizione”
delle diagnosi dai servizi per adulti è solo un pallido indicatore…
Compare (o si aggrava) l’incubo del “dopo di noi”. E questo futuro
impossibile da immaginare genera o rinforza embricazioni e
dinamiche intra-famigliari sempre più patogene…Eppure…..
…eppure…
…è dimostrato che se adeguati servizi, contesti e interventi
sono mantenuti anche l’età giovane-adulta sono possibili
miglioramenti in diverse aree sintomatologiche e competenze:
nella comunicazione verbale e non verbale, nell’uso appropriato
degli oggetti, nella tolleranza ai cambiamenti, nella
partecipazione ad attività collettive (Mesibov, Schopler et al.
1989); nella reciprocità sociale e comunicativa (Orsi, Ucelli,
Barale, in press); in tutti i dominii della ADI-R (Seltzer 2003); in
tutte le aree della Vineland (Orsi, Ucelli, Barale, 2008 e 2012).
I dati testimoniano di miglioramenti possibili non solo nei
comportamenti ma nella qualità di vita complessiva, perfino in
aree che costituiscono il “nucleo duro” dell’autismo: le
difficoltà nella reciprocità sociale e comunicativa, ritenute
altamente stabili (Beadle-Brown et al, 2002; Billstedt 2007)
… e i risultati nefasti della
“terra di nessuno”
A fronte di queste evidenze….la maggioranza degli studi
testimonia viceversa che in assenza di contesti ed interventi
adeguati, il giovane adulto e l’adulto con autismo va incontro ad
una perdita delle competenze acquisite, talvolta a un
aggravamento dei sintomi, alla comparsa di importanti comorbidità, ad un peggioramento della qualità complessiva della
vita (sua e dei caregivers) (Engstrom 2003; Howlin 2004;
Billstedt et al., 2005 e 2007; Mugno et al., 2007)
Questo deterioramento complessivo è tipico non solo delle
collocazioni istituzionali, ma anche delle ancor più frequenti
“istituzionalizzazioni a domicilio” (ovunque non esista
progettualità specifica verso l’età adulta e continuità abilitativa).
Dunque: non bastano buoni interventi infantili per modificare
l’evoluzione!!!
In sostanza….i dati a disposizione
dimostrano che:
L’autismo è un’ area in cui l’adeguatezza di interventi e contesti fa,
a lungo andare, davvero radicalmente la differenza
La continuità è fondamentale. E’ un errore pensare che il destino
delle persone autistiche in età adulta possa cambiare con
interventi limitati all’infanzia.
“On the whole, it would appear that the huge increase in
educational facilities for children with autism over the past 3
decades has not resulted in a signifiant general improuvement s
in outcome for adults” (Howlin et al. 2004)
E’ un errore pensare che dopo l’età evolutiva non ci sia più niente
da fare.
Non si guarisce dall’ autismo, ma si può fare molto per la qualità di
vita complessiva delle persone con autismo.
Autismo in età adulta.
Cosa è necessario?
Il pessimismo dell’intelligenza
Avevamo visto che persino la disabilità sociale può essere
mitigata. Va però ribadito che essa in genere permane anche
nelle condizioni migliori, a prescindere dalle performance
cognitive, dalle abilità acquisite e anche dagli interventi.
E’ una illusione ritenere che “tantissimo” intervento precoce eviti, in
età adulta, la disabilità sociale. Non è così, purtroppo.
In sostanza: molti persone autistiche potranno fare importanti
progressi, ma pochissimi diventeranno effettivamente autonomi.
Quasi tutte le persone con autismo avranno bisogno, da adulte, per
esprimere la propria umanità, di contesti facilitanti ed
organizzati, a diversi livelli di protezione, a seconda del “loro”
autismo.
Implicazioni abilitative.
Il “common ground”.
L' integrazione e l’abilitazione delle persone
autistiche deve fare i conti con difficoltà
connesse non solo ai deficit cognitivi..ma
proprio a questo nucleo profondo
dell’autismo, la disabilità comunicativa e
sociale,la fragile costruzione di un “sé agente
ed interagente in un contesto”..(Klin 2006)
Qui sono i fondamenti stessi della socialità ad
essere in questione
Abilitazione e riabilitazione per le
persone autistiche
L’autismo è una condizione limite per le normali
strategie della riabilitazione psicosociale.
La generica immissione nella socialità di per sé
non è affatto utile, spesso è dannosa.
L’inclusione va governata tecnicamente e della
socialità vanno in continuazione facilitate e
costruite le condizioni. Ciò vale per i soggetti
low functioning; ma anche per quelli high
functioning!
Abilitazione e riabilitazione per le
persone autistiche
Ciò che è “naturalmente evidente” per le
persone non autistiche (che non hanno
problemi di decifrazione delle intenzioni,
di coerenza centrale, di ToM, di EF)
deve essere “reso evidente” per le
persone autistiche. E non è mai
“evidente una volta per tutte”.
Implicazioni abilitative.
Interventi e contesti

Si tratta allora di progettare non solo
"tecniche" (dai risultati spesso instabili o non
generalizzabili o non “spendibili” in situazioni
ecologiche) ma "contesti" di vita che tengano
conto delle caratteristiche dell'autismo (con i
tipici problemi comunicativi,di ToM, di EF, di
coerenza centrale) in cui anche quelle
tecniche possano trovar migliore efficacia.
Outcome, interventi, contesti
Il tema dei “buoni contesti per l’autismo” meriterebbe una
trattazione estesa. Si tratta, in generale, di contesti organizzati
in modo da sostenere costanza, coerenza, prevedibilità,
comprensibilità e significatività; caratteristiche fragili nelle
persone con autismo, per le quali deve essere “reso evidente” e
prevedibile ciò che è “naturalmente” tale per le persone non
autistiche (che non hanno problemi di “modelli
anticipatori”dell’esperienza, di coerenza centrale, di ToM, di EF,
di decifrazione di intenzioni, di comunicazione ecc.).
Ovviamente, i problemi sono diversi per persone HF o LF. Il lavoro
di “mediazione culturale” (tra contesto e persona con autismo)
necessario a una buona inclusione dei soggetti HF in ambiti di
vita e lavoro “normali” è ben diverso da quella “creazione” di
aree di mondo adatte all’espressione della loro umanità che è
spesso necessaria per le persone LF
Dall’intervento sui soggetti
all’organizzazione dei contesti
Il problema richiede impegno su due versanti: il soggetto con
autismo, che va sostenuto nelle sue capacità, e il contesto, sul
quale è necessario lavorare perché anche esso si adatti al
particolare modo di funzionare di queste persone.
Sul primo versante (il soggetto con autismo)….
nei soggetti HF il lavoro è rivolto soprattutto a facilitare e sostenere
la comprensione delle regole implicite della socialità, l’attenzione
agli stati mentali altrui e alla struttura pragmatica, interattiva e
comunicativo-affettiva del linguaggio e della interazione
….nonchè al sostegno verso le conseguenze talvolta di
importante infelicità per la discrepanza tra capacità cognitive e
sociali-adattative (Siegel 1996, Klin 2004), tra ciò che hanno
“imparato” (anche sugli “schemi sociali”) e ciò che riescono a
spendere in contesti non preparati …
Outcome, interventi, contesti
Nei LF, l’intera organizzazione dell’esperienza, nella sua globalità,
deve essere sostenuta, alla ricerca di senso e coerenza. La
valutazione delle competenze (presenti, emergenti…) ma anche
di motivazioni, attitudini ecc., sono il punto di partenza di una
“educazione strutturata permanente” (Schopler 1989) che
utilizza le tecniche classiche di apprendimento e analisi
funzionale dei comportamenti, con un forte accento, nel nostro
modello, sugli aspetti relazionali, la contestualizzazione
“ecologica”, il significato di sequenze intenzionali condivise (il
“fare assieme”), la trama affettiva delle interazioni. Lo scopo è
alimentare, assieme a comprensibilità e prevedibilità del mondo,
l’esperienza di auto-percezione di un Sè in grado di interagire a
sua volta in modo prevedibile nel mondo interumano, mitigare
l’impotenza appresa, facilitare funzioni esecutive e
comunicazione, sostenere gli abbozzi di motivazioni…
Contesti per l’autismo.
I principi generali “classici”.
Costanza, stabilità, strutturazione, continua
organizzazione e riorganizzazione (introdurre
la coerenza e prevedibilità fragili
strutturalmente)
Attenzione per le disabilità nucleari (rendere
significativo e comprensibile ciò che
spontaneamente non lo è)
Monitoraggio dei comportamenti problema
(analisi funzionale del comportamento)
Quale strutturazione?

“in contesti adatti e strutturati, in cui altre
persone attivamente iniziano l’interazione
e mantengono la prossimità, le persone
autistiche rispondono alle proposte di
coinvolgimento sociale molto di più di quanto
si pensi….viceversa hanno molte difficoltà ad
iniziare loro stesse l’interazione e a
mantenere un coinvolgimento se collocati in
contesti non strutturati”(M. Sigman 2001)
Quale strutturazione?
I rischi degli eccessi di strutturazione
e della serializzazione…




Alimentazione adattativa dell’ossessività autistica
(frammentazione
dell’esperienza,isolamento,decontestualizzazione..)
Alimentazione di sentimenti di passività e di
inefficienza di “se come soggetto interagente”
Perdita di spontaneità e di visione finalizzata
“naturale” (già fragili)
Alimentazione di un “adattamento” tutto “esterno”,
slegato dall’attivazione di motivazioni “intrinseche”
Una strutturazione ben temperata.
Quale “prossimità”?





Centratura sulla soggettività (…può darsi che le
persone con autismo abbiamo problemi con
ToM…ma…)
Centralità del problema dell’imitazione
Coinvolgimento, attivazione e modulazione della
comunicazione emotiva
Sollecitare una interazione “partecipata”, l’iniziativa
e la reciprocità
Contesti il più possibile naturalistici stretta
connessione tra attività abilitative e progetto
complessivo di vita. Lavoro vero.
I diversi aspetti della “coerenza”.
Un esempio di “psicoanalisi senza
divano”…..
La“coerenza” di un contesto, perché esso alimenti nei soggetti
autistici prevedibilità e auto-percezione, non riguarda solo i suoi
aspetti più “esterni”. Richiede la cura dei suoi aspetti affettivi,
perché si organizzi una trama di pensieri, di affetti e significati
condivisi entro cui il soggetto sperimenti la continuità di essere
“tenuto”. E questa coerenza affettiva e di significati a sua volta
non è qualcosa “in più” rispetto agli apprendimenti cognitivi e di
sequenze comportamenti adeguate, ma fa parte dei prerequisiti “forti” di questi apprendimenti, della pragmaticità
condivisa che li alimenta e consente.
L’ “analisi funzionale del comportamento” diventa così, in un’ottica
dinamica, la costruzione quotidiana di un “contenitore affettivomentale”, di una trama di senso condivisa…in cui difficoltà,
impasses, “comportamenti problema”, eventi, imprevisti…si
dispongono in una storia in costruzione…
.
Una strutturazione ben temperata:
il problem solving condiviso


Il “fare insieme” (“problem solving
condiviso”): l’intervento educativo non
“somministra” compiti e non “adatta” solo
dall’esterno; si fonda sull’ interazione, sull’
imitazione e la reciprocità: è costruzione e
recupero di significatività comune.
Centralità del tentativo di ristabilire una
coerenza intenzionale e di senso in un
sistema che tende alla frammentazione
Principio ecologico,
soggettività, persona
Attenzione, considerazione e cura costante delle
soggettività (tanto più importante in presenza di sé
feriti e fragili) e per il contenitore affettivo collettivo
Ruolo della motivazione nel sostenere intenzionalità
fragili e disfunzionanti
L’ intervento educativo, nel suo complesso
(progettazione, monitoraggio, valutazione) non deve
ridursi al bilancio meccanico delle abilità” (presenti,
assenti o emergenti), ma deve tenere conto della
dimensione personologica, oltre che delle
caratteristiche nucleari dell’autismo.
Un inciso per psichiatri e
amministratori: la necessità di
interventi e contesti specifici!!!
Se pensiamo a quali “dovrebbero” essere le caratteristiche di
buoni contesti per l’autismo e guardiamo quelli realmente
esistenti, c’è da inorridire.
Contesti e servizi per l’autismo nell’età adulta, quando ci sono,
sono di regola contenitori generici appiattiti o sul ritardo
mentale, o sulle “psicosi” (a seconda che nel singolo caso
prevalga il deficit o la bizzarria-isolamento). La scarsità di
risorse stessa induce all’omologazione; ma anche il ritardo
culturale fa la sua parte. C’è ancora una scarsa conoscenza
dell’autismo e delle sue caratteristiche; sono ancora molto
diffusi pregiudizi che dovrebbero essere obsoleti: ad esempio
che l’autismo, sia una condizione “infantile”, che nell’età adulta
si “trasforma” in ritardo mentale, o “psicosi” o disturbi di
personalità; che la sua origine sia “psicologica”….che “dopo
una certa età non c’è più niente da fare”…
….…
…In realtà, pochi contesti risultano meno
adatti alle caratteristiche dell’autismo di
quelli che mescolano persone con
autismo a persone con disturbi psicotici
o gravi disturbi di personalità. Questa
dovrebbe essere considerata una
autentica “malpractice”!
Una opzione possibile: l’alternativa
“non urbana”.
L’esperienza di Cascina Rossago
Le farm communities: ambienti particolarmente adatti
all’autismo nell’età adulta, sia come percorso di
emancipazione dalle/delle famiglie sia per lo sviluppo
di contesti e modalità di intervento fondati sui principi
descritti: organizzazione di insiemi coerenti e
significativi, principio ecologico, fare-assieme…
Contesto ad un tempo semplice e ricco di stimoli e di
attività e interazioni comprensibili e significative
(Giddan e Giddan 1996; Barale e Ucelli 2006;
Mesibov 2011)
I diversi aspetti della “coerenza”.
Un esempio di “psicoanalisi senza
divano”…..
La“coerenza” di un contesto, perché esso alimenti nei soggetti
autistici prevedibilità e auto-percezione, non riguarda solo i suoi
aspetti più “esterni”. Richiede la cura dei suoi aspetti affettivi,
perché si organizzi una trama di pensieri, di affetti e significati
condivisi entro cui il soggetto sperimenti la continuità di essere
“tenuto”. E questa coerenza affettiva e di significati a sua volta
non è qualcosa “in più” rispetto agli apprendimenti cognitivi e di
sequenze comportamenti adeguate, ma fa parte dei prerequisiti “forti” di questi apprendimenti, della pragmaticità
condivisa che li alimenta e consente.
L’ “analisi funzionale del comportamento” diventa così, in un’ottica
dinamica, la costruzione quotidiana di un “contenitore affettivomentale”, di una trama di senso condivisa…in cui difficoltà,
impasses, “comportamenti problema”, eventi, imprevisti…si
dispongono in una storia in costruzione…
.
Dicevamo prima che questi principi tendono a
ristabilire una coerenza intenzionale e trame
riconoscibili di senso in un sistema che, per ragioni
intrinseche, tende alla frammentazione
La frammentazione delle sequenze intenzionali proprie
(esecuzione) e altrui (comprensione), la difficoltà a
percepire in modo integrato e coerente queste
sequenze è considerata una caratteristica “nucleare”
dell’autismo.
Il ruolo dei circuiti “mirror” nell’autismo in generale e in
particolare in questa difficoltà “nucleare” è molto
controverso.
Empatia, intenzioni,
percezione del “perché”
Qualunque sia questo ruolo, è dimostrato da mirabili esperimenti
sulla cinematica dell’azione che questa difficoltà ad integrare il
“why” delle azioni nelle sequenze intenzionali, sia “in entrata”
(comprensione di ciò che gli altri fanno) sia “in uscita”
(programmazione-esecuzione di azioni proprie) è una
caratteristica dell’autismo, correlata alla difficoltà nella
percezione empatica degli stati mentali (Rizzolatti et al 2009).
“Comprensione” è per la verità termine troppo “cognitivo” per una
esperienza che è “incarnata” nello schema motorio stesso.
Dati sperimentali (Boria e al.2009) indicano tuttavia che questa
frammentazione è sensibile al contesto. Essa si riduce o
scompare se la sequenza è inserita in un contesto
significativo e pragmatico strutturato, fortemente prevedibile e
condiviso
“Fare-assieme” e “principio
ecologico”: “from shared actions to
shared minds”
Queste evidenze sperimentali confermano i principi che sono a
fondamento del metodo di lavoro di Cascina Rossago: il
“principio ecologico” e il “fare-assieme”
In contesti retti da questi principi succedono cose molto
interessanti: perfino persone autistiche molto gravi riescono ad
identificare l’intenzione….riescono a comprendere “cosa” e
“perché….ad organizzare sequenze coerenti…perfino ad
intendere ed utilizzare adeguatamente indicazioni e suggerimenti
anche verbali….ad interagire in modi sorprendenti (almeno per
modelli puramente “deficitari” dell’autismo.
La raccolta del fieno
La raccolta delle mele
STALLA
Falegnameria
Stalla Cristiano
Alpaca
Tessitura
…ancora sul “problem solving
condiviso”
Piuttosto interessante è il fatto che contesti
coerentemente organizzati da questi
principi facilitano apprendimenti
“naturalistici” anche sorprendenti..
Risvegli
tolleranze sensoriali sorprendenti….
Cascina Rossago: basket
Basket
MUSICA
Linee generali dell’evoluzione recente
1. un “common Ground”….
2. dal concetto di “deficit” a quello di “sviluppo
atipico”
3. eterogeneità degli autismi e pluralità dei
“core deficits”.
4. necessità di osservazioni e modelli
naturalistici
1. Il common ground
Convergenza importante dei diversi modelli
(sia quelli “socio-cognitivi” sia quelli “affettivi”)
e delle rispettive aree di ricerca verso un
common ground:
la disfunzione dei pre-requisiti innati e preprogrammati dello sviluppo della relazionalità
e dell’intelligenza sociale .
2. Dal “deficit” allo “sviluppo atipico”
“non c’è questione, nell’autismo, che si
presti ad algoritmi semplici, tipo ‘tutto o
nulla’..” (C. Lord, 2001)
“il deficit nell’autismo non è mai né statico
né globale” (U. Frith1989)
2. Deficit o sviluppo atipico?
-- dei caratteri atipici dell’imitazione nell’autismo si è già detto
- anche riconoscimento e la comunicazione delle emozioni non
sono semplicemente ”assenti”…piuttosto prendono, fin
dall’inizio, delle vie peculiari…(Dapretto et al 2006)
- il processo di socializzazione non è assente o deviante sotto tutti
gli aspetti…
- non c’è un disturbo dell’attaccamento (Sigman, 1986, 1996,
Rutgers 2004)
- vi sono numerosi segnali di atipica socievolezza e di “bisogno di
socialità”.(Pasamanick et al. 1975; 1984; Ricks 1976)
2. deficit o sviluppo atipico?
Il caso dei sistemi mirror


Uno dei dati “forti” a sostegno dell’ipotesi “mirror”
nell’autismo, come avevamo visto, è la mancata
desincronizzazione dell’ EEG della corteccia motoria
centrale durante la osservazione di azioni: il sistema
mirror non si attiverebbe (Oberman 2005; Martineau
2008): ma se il movimento osservato è di una persona
famigliare o del soggetto stesso (nello specchio) la
desincronizzazione c’è (Oberman 2008) e il sistema si
attiva!
Il riconoscimento dell’intenzione motoria (il why) è
possibile in contesti facilitanti e di forte condivisione
intenzionale (Boria e coll. 2008
3. Eterogeneità degli “autismi”
E’ sempre più evidente che il costrutto “autismo”, come
è stato definito (la triade Wing-Gould 1979), è a maglie
molto larghe, contiene situazioni eterogenee sotto
diversi profili: etiopatogenetico, neuropatologico e
neurofunzionale, clinico, neuropsicologico…ciò pone
ovviamente grandi problemi di raccordo con la ricerca
-dall’ “autismo” agli “autismi”?
-dall’ idea del “single deficit” specifico ad una pluralità
di “core deficits”, intesi come atipicità evolutive, e delle
loro combinazioni, talvolta molto complesse
3.Eterogeneità degli autismi.
L’etiopatogenesi
L’eterogeneità riguarda innanzitutto i percorsi
etiopatogenetici, le “cause”.
L’autisticità è una sorta di via finale comune di
moltissimi e diversi percorsi etiopatogenetici.
Non si deve pensare ad “una causa”
dell’autismo, ma a complesse catene causali,
che possono avere un primum movens di
vario tipo…
3.Eterogeneità degli autismi.
Etiopatogenesi
La neuroorganizzazione e lo sviluppo dei sistemi
cerebrali implicati nell’autismo possono essere
compromesse da cause di varia natura, direttamente
genetiche ma anche epigenetiche: virus, anossie,
malattie intercorrenti e/o encefaliti intra ed
extrauterine di vario tipo, esposizione a tossici… o
anche dismetaboliche, immunologiche, oppure
secondarie a sindromi genetiche di altro tipo, quali
Cornelia de Lange, Angelman, X fragile, sindrome di
Moebius, tubero sclerosi, fenilchetonuria…(“autismi
sindromici”)
3. Eterogeneità degli autismi.
Etiopatogenesi.
Aspetti biochimici e metabolici
per non parlare degli aspetti biochimici e
metabolici…
Biomarkers neuroinfiammatori (TNF alfa, AGE-Rage,
Boso et al 2006), Biomarkers di stress ossidativo,
Neurotrofine(NGF, BDNF, NT-3, NT4/5 )
Neurotrasmettitori (Glutammato/ NMDA, Gaba,
adrenalina/dopamina, serotonina…), Aminoacidi
modificati endogeni ad azione neurotossica
(Butofenin), Beta amiloide (Sokol 2006), Ormoni,
Amminoacidi, Lipidi, Minerali e Metalli,
3. Eterogeneità degli autismi.
Etiopatogenesi
Questa eterogeneità fa sì che le alterazioni
neuropatologiche, di neurosviluppo e neuroorganizzazione chiamate in causa siano
tantissime…spesso contraddittorie…da
quelle più fini (migrazione neuronale,
processi di pruning, connettività sinaptica,
organizzazione colonnare corticale..) a quelle
più grossolane e strutturali…
…non c’è zona del cervello che non sia stata
chiamata in causa….
3. Eterogeneità degli autismi.
Etiopatogenesi. Neuropatologia
 Aumento della quantità di tessuto cerebrale negli emisferi
cerebrali e del peso complessivo del cervello
(Bailey et al. 1998: Bauman e Kemper 1997), aumento
della massa sovratentoriale (Filipek et al. 1992; Piven et
al. 1995), aumento della circonferenza fronto-occipitale
(Davidovitch et al. 1996; Lainard et al. 1997)
 “Poco cervello”, invece, nel sistema limbico e nel
cervelletto, sviluppo tronco degli alberi dendritici nel
sistema limbico (Bauman e Kemper 1997), riduzione
(controversa) delle immagini di amigdala e ippocampo
(Aylward et al. 1999), riduzione delle cellule di Purkinjje e
negli emisferi cerebellari (Ritvo 1986, Bailey et al. 1998,
Bauman e Kemper 1997
3.Eterogeneità degli autismi.
Etiopatogenesi. Dalla “lesione” ai
pattern atipici di connettività
Nel contesto di questa variabilità e spesso
contraddittorietà di evidenze una parte della
ricerca recente si sta spostando dal tentativo
di individuare la “lesione” o la alterazione
neuropatologica specifica verso l’ipotesi di un
funzionamento non “coerente”, per alterata
connettività, di grandi circuiti neurologici. In
particolare quelli più implicati nei compiti di
“social cognition”. Ma anche implicati in
patterns sensoriali atipici, Kern et al 2007…
3. Eterogeneità degli autismi. Perché
una alterata connettività?
Se una alterata connettività è un dato sempre più
confermato, si pone il problema “perché una alterata
connettività”? Accanto all’ipotesi direttamente
genetica vi sono
 ipotesi neuroinfiammatorie (Pardo et al 2005; Vargas
2005; Boso, Barale et al 2006)
 ipotesi neuroimmunologiche(Croen et al Biol
Psychiatry 2008; Singer et al J Neuroimmunol. 2009)
 interazioni tra fattori neuroinfiammatori e/o
neuroimmunologici ed espressività di geni implicati
nell’organizzazione delle sinapsi
3. Eterogeneità degli autismi.
Complesse interazioni….
Guardate come possono agire fattori genetici ed
epigenetici (virali in questo caso) nell’organizzazione
(e disorganizzazione) sinaptica:
- “Prenatal viral infections in mouse causes differential
expression of genes in brains of mouse progeny: A
potential animal model for schizophrenia and autism”
(Fatemi et al. Synapse, 2005)
- “Viral regulation of acquaporin 4, connexin 43,
microcephalin and nucleolin”(Fatemi et al, Schiz.
Res. 2008)
3.Eterogeneità degli autismi
“a tutt’oggi non c’è alcun marker specifico dell’autismo”(P. Ferrari
1999)
“l’autismo è ancora alla ricerca della sua casa nel cervello” (I. Rapin
1999)
Ogni punto fermo raggiunto, ogni passo avanti, riapre quantità
impressionante di questioni. Un esempio paradigmatico? La
genetica dell’autismo.
Anche qui abbiamo raggiunto dei punti fermi: la genetica è
importante nell’autismo (anzi: in base agli algoritmi
dell’epidemiologia genetica l’autismo è la condizione psichiatrica
in cui la genetica è più importante in assoluto); gli studi sono
inoltre in grande espansione. Ma se facciamo il punto a grandi
linee, il quadro è:
1.estrema eterogeneità genetica nell’autismo: centinaia di geni
coinvolti
2. ruolo sia di mutazioni ereditarie che di mutazioni “de novo”
3. scarsa penetranza delle varianti osservate: nella maggior parte
dei casi esse non sono né necessarie né sufficienti a produrre
la patologia….
5….ma diventano probabilmente patogene (nel senso di produrre
effetti nella neuro-organizzazione) in alcuni casi e non in altri,
combinandosi con fattori di rischio di altra natura, genetici,
epigenetici ed ambientali
6. scarsa specificità delle varianti individuate: la più parte delle
mutazioni osservate non solo non è né necessaria né
sufficiente a produrre autismo, ma è condivisa da altre
patologie, come epilessia e schizofrenia!
3.Eterogeneità degli autismi.
Ma cosa “vede” il neuroimaging?
Un ulteriore problema è costituito dal fatto che
alterazioni e dismaturazioni dei sistemi
neurologici producono una cascata di eventi
ed esperienze anomale di ordine relazionale,
affettivo, cognitivo,rendono difficili esperienze
tipiche, inducono strategie compensatorie;
tutto ciò, come la moderna neurobiologia ci
insegna, a sua volta influisce sugli assetti
neurofunzionali e anche strutturali
3.Eterogeneità degli autismi.
Ma cosa “vede” allora il neuroimaging? ( “Se potete
vedere cosa accade nel cervello, non per questo non
dovete usare la testa”)
Per esempio: che significato hanno i funzionamenti
atipici dei circuiti neuronali fronto-limbico-temporali
messi in luce,nell’autismo, nei compiti di social
perception e social cognition? (Brambilla et al. 2005;
Schultz et al. 2006).
Sono fenomeni « primari », « secondari »,
« compensatori »….? (C.Frith 2007) o magari puri
« correlati »….
Cosa vede e cosa non vede il
neuroimaging
Non è certo il neuroimaging che può dare una risposta
a questi quesiti circa la natura “primaria” o no degli
assetti disfunzionali. Semmai indicazioni provengono
da altri studi longitudinali:
Alterazioni di numerosi neuropeptidi implicati nel
neurosviluppo sono state documentate già alla
nascita (Nelson et al., Ann. Neurol 2001)
Sono noti i patterns atipici di crescita nei soggetti che
sviluppano autismo:le alterazioni morfostrutturali
precoci non sono interpretabili come
“secondarie”……
4. Autismo di laboratorio e
autismo ecologico
Ricordavamo prima come un aspetto dell’evoluzione attuale sia la
condivisione dell’importanza di una visione “ecologica” dell’
autismo. Più lo conosciamo, più l’autismo ci appare in effetti
una faccenda complicata.
Di questa complessità fa parte il riconoscimento crescente della
discrepanza tra quanto si vede in laboratorio e in contesti
ecologici: necessità sia di osservazioni che di interventi
“naturalistici”
Le strategie artificiali adottate dagli HF in laboratorio non
corrispondono a capacità “spontanee”. Viceversa in contesti
ecologici adatti si osservano frequentemente, anche in LF,non
solo “zolle” di abilità, ma oscillazioni sorprendenti in abilità e
disabilità, con comparsa di competenze che contraddicono i
modelli di laboratorio
…per questo la riflessione e la ricerca su
questa faccenda così complicata ha bisogno
dell’apporto di molteplici punti di vista e
tradizioni scientifiche…per evitare che
avanzino visioni troppo schematiche e anche
che la ricchezza dei contributi della ricerca
sperimentale venga fraintesa…
…e che al vecchio stereotipo psicogenetista (la
conchiglia che aspetta solo le condizioni
relazionali per dischiudersi) se ne sostituisca
un altro altrettanto se non più dannoso.
Lo stereotipo del mondo autistico come mondo
di esistenze mutanti, privo di affetti,
attaccamenti, relazioni, mondo interno, teoria
della mente, ecc..
A conclusione
…nell’autismo sono presenti tutti gli ingredienti
dell’umano, seppure in forme, combinazioni
e prospettive diverse ed atipiche…
come scrisse U. Frith: “nell’autismo il deficit
non è mai né statico né globale”.
.. nella debolezza piena autistica nulla è
statico, immutabile, puramente
difettuale. Neppure la disprassia, o il
deficit di EF o, entro certi limiti,
l’insufficiente consapevolezza del “séagente”. Qualcosa, magari di piccolo, si
può fare.
Marco 2006->2002->2006. Il gesto, il sè corporeo, il sè agente. Trasformazioni
….certo, le prospettive possono essere
anche molto atipiche….
…i collaboratori….
Stefania Ucelli di Nemi, psichiatra, ricercatore, già psicoanalista
SPI, fondatore e direttore di Cascina Rossago
Pierluigi Politi, professore ordinario di Psichiatria, psicoanalista
SPI, musicista, responsabile laboratorio autismo DSSAP
Marianna Boso, psichiatra, musicista, PHD in Neuroscienze
Davide Broglia, psichiatra, ex giocatore di basket serie A
Elena Croci, tecnico della riabilitazione psichiatrica
Marta De Giuli, tecnico della riabilitazione psichiatrica
Enzo Emanuele, biologo molecolare, PHD in Scienze Sanitarie
Vera Minazzi, musicologa, informatica, direttore editoriale Jaca
Book
Paolo Orsi, psichiatra
Alessandro Pace, psicologo, PHD in Scienze Sanitarie
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La debolezza piena