L’AUTOBIOGRAFIA DI ROBERTA,
una volontaria dell’Associazione
Sailetto, 1994
Presentazione
Signora di circa 60 anni, maestra d’asilo in pensione. Circa 20 anni fa subì
l’amputazione del braccio destro a seguito di un incidente agricolo presso
l’azienda del marito. Ha perduto l’unica figlia: non ricordo bene se fosse
appena nata o durante l’ultimo periodo di gravidanza.
Vive con il marito - maestro elementare in pensione – che ama l’agricoltura
e che presta la propria collaborazione nella conduzione dell’azienda agricola
del fratello a Buscoldo. Radioamatore.
La signora Emma frequenta l’ambiente della Chiesa; ha fatto frequenti
viaggi; le piace la musica classica e l’opera; ama quelle attività che la
vedono organizzatrice (attività ed iniziative parrocchiali, lavori ricreativi
durante l’estate per bambini e ragazzi).
E’ una persona fiera, orgogliosa, spesso non conciliante, a volte evitata
perché guarda troppo crudelmente in faccia alla realtà anche se spiacevole.
Dice sempre la sua opinione che spesso non segue la logica comune.
Per molto tempo ha assistito la madre ultra ottantenne affetta dal morbo di
Alzheimer – morta circa 4-5 anni fa.
E’ nata in Sardegna e definisce il suo carattere tipico dell’isolana.
Nel dicembre 1993 si scopre portatrice di un tumore al fegato.
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Emma ha un tumore al fegato. Lei sa tutto e quando qualcuno va a trovarla
espone con chiarezza e lucidità il suo stato di malattia.
Come, perché, quando ho deciso di offrire il mio aiuto
Emma è una mia vicina di casa e in passato sono stata da lei chiamata per
farle delle iniezioni. Andarla a trovare, offrirle la mia disponibilità per
eventuali prestazioni infermieristiche in caso di bisogno, mi sembrava un
obbligo.
Ma andarla a trovare dopo la preparazione avuta e le esperienze di gruppo
fatte nella associazione Maria Bianchi, significava cercare di dare, oltre che
la mia disponibilità per qualcosa di pratico, aiuto relazionale. Questo
pensiero mi agitava, mi rendeva insicura. Comunque sapevo che prima o
poi mi sarei trovata di fronte ad una persona impegnativa che doveva
mettere alla prova sia le mie conoscenze che le mie capacità relazionali. La
prova si presentava dura e quindi dovevo prepararmi.
Non mi risultava realizzabile far coincidere tanti atteggiamenti che mi
sembravano contrastanti: un minimo di professionalità, rimanere vigile per
non
lasciarmi
coinvolgere
emotivamente,
non
lasciarmi
sfuggire
la
situazione dalle mani e nello stesso tempo dimostrare comprensione al suo
problema e partecipe alla sua sofferenza.
Quali parole usare? Avrei saputo mettere al centro la persona e il suo
problema? Sarei stata capace di trattenermi dal fuggire la situazione e
parlare d’altro? Magari, peggio ancora, avrei parlato di me o delle mie cose
(sono molto egocentrica).
Per cercare aiuto e avere ulteriori informazioni ho utilizzato questi mezzi:
1. rilettura di appunti presi ai corsi;
2. lettura di: manuale “L’arte di aiutare” di Robert Carkhuff;
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3. elaborazione della prima fase di colloquio;
4. preparazione in famiglia della mia volontà di rendermi disponibile ad
eventuali aiuti da prestare alla nostra vicina di casa;
5. scelta del momento per la prima visita: abitando vicino, nei momenti
in cui ero a casa dal lavoro potevo vedere de la tapparella della sua
cucina era sollevata, o se c’erano macchine davanti a casa sua
testimonianza di altre visite.
Tutti questi preparativi mi hanno tenuta impegnata per circa tre settimane.
Alla fine mi sentivo abbastanza pronta per la prima visita.
Mi sarei presentata come Roberta, sua vicina di casa; avrei dato la mia
reperibilità in caso di bisogno e la prima frase che avrei detto sarebbe
stata: “Buongiorno, Signora Emma, sono venuta a trovarla. Spero di non
disturbarla…- oppure - se ora la disturbo posso venire in un altro
momento”.
12 MARZO 1994: PRIMO INCONTRO
E’ Sabato. Una bella giornata di sole.
Lorenzo, mio figlio maggiore compie gli anni: 21.
Ho alcune viole in un bicchiere d’acqua.
Sono le ore dieci e venti.
La tapparella della cucina di Emma è sollevata.
Il marito è appena uscito con l’auto.
Davanti alla casa di Emma non ci sono auto in sosta.
“ E’ il momento” mi dico.
Il cuore comincia a battere furiosamente.
Prendo il sacco delle immondizie per portarle nel bidone. Il bidone è oltre la
casa di Emma.
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Se al ritorno la situazione non fosse variata (macchina in sosta, o altro
agente disturbatore) sarei entrata, avrei suonato il campanello e avrei
aspettato perché qualcuno mi aprisse.
Così è: ho già suonato il campanello e sto aspettando.
L’attesa sembra lunghissima. Il cuore sembra impazzito.
“ Almeno ci fosse un filtro in questa casa !” penso. Perché oltre alla Signora
e la marito non c’è nessun altro in questa casa che possa venire ad aprirti
la porta e magari dirti:
“ Emma in questo momento sta riposando. Potrebbe ritornare più tardi?”
Nessuno apre.
Sto per tornare verso la strada, ma ritorno di nuovo sulla porta e mi dico di
aspettare ancora un po’: forse avrò aspettato un minuto al massimo.
Sento che si apre la prima porta in legno dell’ingresso e vedo la Signora
Emma che ora sta girando la chiave per aprire la seconda porta più esterna
in vetro e alluminio.
R. “Buongiorno Signora Emma! Sono venuta a trovarla.”
E. “ Hai fatto bene. Entra”.
R. “Non vorrei averla disturbata !”
E. “E da cosa?”.
R. “… non so, magari stava facendo qualche lavoretto”.
Emma sorride e avviandosi al divano mentre io la seguo… “Vuoi vedere il
lavoro che fa Emma? Mi corico qui, mi stendo questa coperta sopra, e poi
anche quest’altra e guardo la televisione quando ne ho voglia altrimenti
leggo il giornale quando gli occhi me lo consentono. Diversamente Emma fa
cuccina qui e cerca di stare buona…buona”.
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I gesti accompagnano le parole e alla fine è raggomitolata sul divano,
sotto le coperte, con la testa appoggiata alle mani a guisa di cuscino sopra
il bracciolo del divano.
R. “ posso sedermi?”.
E. “Ma certo” e si siede anche lei. “Emma, piano piano sta arrivando alla
fine”.
R. “ Ha questo dubbio?”
E. “Non ho un dubbio: ne sono certa” Emma scandisce le parole, parla un
po’ a bassa voce. Sembra abbia anche difficoltà respiratorie. Le parole che
dice sembrano mattoni e pensate da molto tempo.
E. “ Non sono stupida e so leggere quello che sta scritto. E’ Pietro che non
si convince e io devo fingere quando c’è lui e fare il viso sorridente. Ma io
so quello che ho e cerco di vivere alla giornata il più serenamente possibile.
Vuoi leggere anche tu che sei dell’ambiente ?”
R. “Si, se lei vuole”.
Emma si alza, sparisce nel salone e, dopo un po’ ritorna con una borsina di
carta. Deposita la borsina e ceca con la mano sinistra tra le sue carte: Mi
volta leggermente le spalle e io, quasi istintivamente, faccio per alzarmi ed
aiutarla: non ha l’apparecchio al braccio destro e la manica vuota le oscilla
mentre con la sinistra fruga nella borsina. Per fortuna non faccio niente e
continuo a rimanere ferma, seduta in poltrona e in silenzio.
Stavo seduta in poltrona leggermente protesa in avanti, con le braccia
appoggiate alle ginocchia. Ero stanca, ma quella posizione la sentivo ideale:
mi permetteva di stare attenta, di osservare, ascoltare, pensare e tacere.
Emma mi allunga la cartella clinica.
E. “Leggi anche tu, certe parole non le capirai neanche tu, ma non c’è
bisogno di capire molto. Basta sapere leggere le parole che contano.”
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Mi aiuta a sfogliare e a cercare le parole che contano. Mi fa leggere
mentalmente le diagnosi delle biopsie effettuate al pancreas e al fegato. La
diagnosi parla di tumore al fegato.
R. “ Certo che la diagnosi è chiara”. (Non sono sicura di essermi espressa
così).
E. “Ne hanno fatte due, hai letto? E la seconda conferma la prima.
Hai visto? (dice quasi sorridendo) parlano di incisione a Stella di Mercedes!
Pensa: persino la Stella di Mercedes mi hanno fatta (dice con enfasi).
Vuoi vederla la Stella di Mercedes?”.
R. “Com’è la Stella di Mercedes?”.
Emma solleva l’abito e mi fa vedere il tipo di taglio a forma di stella di
Mercedes. Io tocco il taglio che si è rimarginato molto bene e seguo con il
dito i segni rimasti dell’incisione.
R. “Si è rimarginato molto bene.”
E. “ Sì, fuori è tutto bello, ma è dentro, è sotto…” e mi guarda fissamente.
E. “Tu pensi che con quello che hai letto Emma possa guarire?”.
Mi guarda con gli occhi dilatati e mi fissa senza batter ciglia. E’ uno sguardo
grande, grandissimo. Tutto mi sembra scomparire: ci sono solo i suoi
occhi: grandi e neri.
Non posso bleffare, fingere, menare il can per l’aia, non si può scantinare.
Lei è lì che aspetta. Mi hanno fatto una domanda ed io devo rispondere.
R. “ E’ difficile”.
E. “ Così mi piaci: è difficile. Oh, finalmente! Non so se durerà un anno, sei
mesi, due settimane, ma è difficile. Porto via tutto, perché se rientra Pietro
e vede queste carte in giro non è contento. Lui non vuole che ne parli e io
devo fare finta di niente”. Raccoglie tutto e porta via la borsina bianca
piena di carte.
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Quella mia parola – difficile – mi ritorna ancora nelle orecchie: la mia
intenzione era forse quella di iniziare una frase del tipo:…difficile poter
essere certi del grado di malattia etc. etc… ma Emma la bloccata lì, dove
voleva lei. Si è adattata la mia risposta alle sue esigenze, forse quello che
lei voleva confermare. Forse non voleva solo confermare, ma voleva
sincerità; non voleva finzioni. Vuole affrontare questa sua realtà dura e
vuole delle persone vicino che sappiano con lei sopportare queste sue
realtà.
Rientra e si siede sempre sul divano di fronte a me.
Senza accorgercene abbiamo assunto la stessa posizione: siamo entrambe
inclinate in avanti, frontali e gli occhi sono alla stessa altezza.
I suoi occhi sono tremendi, implacabili, decisi, orgogliosi.
E. “Ho un dolore sempre, che non mi lascia mai. Ho preso sin dall’inizio solo
calmanti, antidolorifici perché delle cure, delle medicine specifiche non ne
ho mai prese. Solo calmanti. Prego Dio di una cosa sola: che mi lasci la
serenità mentale. Non vorrei perdere la mia serenità mentale. Voglio essere
serena e quando sarà la mia ora c’al m’à supina cume a sfa cui curgnui, na
bota seca e che non mi faccia tribolare a lungo.
Ieri sera non ne potevo più e allora ho dovuto chiamare Adele perché mi
facesse un’iniezione di Talwin. Abita vicino, ha fatto presto a venire. Pietro
non ha mai voluto imparare a fare le punture e insistere ora perché impari
mi sembrerebbe di usargli violenza”.
A questo punto offro la mia disponibilità e il mio aiuto di infermiera in caso
di bisogno e a qualsiasi orario.
E. “Ti ringrazio. Se ti chiamerò sarà perché Emma è in S.O.S. e ne ha
veramente bisogno.”
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R. “ Mi telefoni pure quando vuole, anche prima di arrivare in zona S.O.S.,
anche solo per parlare, se vuole”.
Riprende poi a parlare della sua malattia.
E. “ Io preferisco sapere, perché così so come regolarmi”.
R. “Credo che anch’io sarei come lei”.
E. “Ma Pietro non ne vuole sapere. Adesso è andato fuori a fare un po’ di
spesa, ma io lo so che ritorna subito! Quando ho visite lo spingo fuori di
casa, così si distrae un po’ ”.
R. “Certo che è giusto che sia così”.
E. “Voglio che vada fuori un pochino perché tutte le notti comincia a
cuccarsele tutte lui. L’altra notte io non dormivo e probabilmente anche lui
fingeva di dormire perché ad un certo punto ha cominciato a sbuffare e a
dire: <Adesso basta, devi dormire, mettiti calma >”.
R. “Forse pensava che sgridandola tutto si sarebbe sistemato”.
E. “…e poi non ha fatto com’era suo solito: girarmi la schiena, ma si è
girato verso di me e mi ha preso la mano!”. Era dolce nel dire questo,
calma e sorrideva.
R.” E’ bello avere una persona vicino!”.
Dopo un breve silenzio si guarda attorno e:
E. “ E a volte penso a tutti quei mucchiettini che troveranno e che
butteranno nelle spazzature”.
R. “Cosa intende per mucchiettini?”.
E. “ Alle cose ricevute, ai tanti ciapapolvar che ho in giro e non interessano
a nessuno…”.
R. “Ma che sono importanti per noi, che sono parte di noi e chi ci
raccontano la nostra vita”.
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E. “ E quando mi corico sul divano e guardo in alto, vedo tutte quelle cose…
Guarda anche tu…”.
R. “Cosa c’è?”.
E. “Vedi questa mensola piena di bamboline? La prima viene dalla Filippine;
una dalla Spagna; ci sono due tirolesi, il siciliano, le maschere di una festa
di carnevale a scuola…” ed elenca con minuzia tutti gli oggetti allineati sulla
mensola.
R. “Posso prenderne una? Questa delle Filippine? Ma con quale materiale è
stata costruita? “.
E. “Fili di noci di cocco”.
R. “A proposito di Filippine: le hanno parlato dello spettacolo in memoria di
padre Tullio? “ (lei è stata là con Licia, la sorella di padre Tullio).
E. “Si, dovevo venire anch’io, ma proprio non ho potuto anche se mi è
dispiaciuto moltissimo. E quella bambolina brasiliana…sai chi me l’ ha
portata? Una signora del Brasile, conosciuta tramite C.B. : ha parenti qui in
Italia. E’ stata qui da noi per 4-5 giorni e sai cosa le ho fatto vedere
dell’Italia ? Una cosa che ancora ricorda: -Il Rigoletto- all’Arena di Verona!”.
Emma parla con energia di questa visita e di questo spettacolo:
E. “…ormai le chiese italiane, per lei, si assomigliavano tutte, le aveva tutte
ammucchiate e quello spettacolo non l’avrà di certo messo nel mucchio!”.
R. “Sapeva l’italiano?”.
E. “Io sapevo l’italiano e gesticolavo, e lei parlava il brasiliano, ma mi
capiva molto bene. Quando le ho detto che per andare all’Arena bisognava
che si togliesse i gioielli perché potevano essere preda di ladri, si è messa a
ridere, ma ha capito cosa intendevo dire, anche se mi spiegavo a gesti”.
Durante la visita è entrato il marito, si è avvicinato ad Emma col sacchetto
della spesa e l’accosta perché lei possa guardare dentro.
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E. “Proveremo a mangiarli, sono così belli!”.
Erano ravanelli.
Il ricordo della signora brasiliana è stato l’ultimo argomento del colloquio.
Ci siamo salutate e sono rientrata in casa.
Fine della visita: 11.15
Riflessioni
Penso che questo sia stato un colloquio da manuale: non certo per le mie
abilità che direi piuttosto scarse, quanto per la capacità di Emma di sapere
dialogare e sapere cogliere al volo il più piccolo suggerimento.
Siamo partite da una frase depressiva, alla presa di coscienza della dura
realtà, al ricordo piacevole col quale è terminato il nostro primo incontro.
Ora cerco di giudicarmi nel modo più obiettivo possibile evidenziando gli:
Aspetti negativi:
1. troppo tesa;
2. troppo scolastica;
3. non completamente naturale;
4. poca o nessuna riformulazione
Aspetti positivi:
1. preparazione iniziale;
2. posizione del corpo;
3. non ho negato la realtà;
4. disponibilità sia di tipo pratico che relazionale;
5. ascolto;
6. osservazione.
18 MARZO 1994 – VENERDI’
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Ore 20: suona il telefono. E’ il Signor Pietro che mi chiama per un’iniezione
alla Signora Emma.
“Vengo subito” rispondo.
Ero in tuta, pronta ad andare a ginnastica. E’ un’ora della settimana per me
importante, liberatoria.
“Mi metto le scarpe da ginnastica – penso – così, una volta data l’iniezione
posso andare a ginnastica. Faccio in tempo: la lezione inizia fra un quarto
d’ora!”.
Mi siedo sulle scale per mettermi le scarpe: Ma all’improvviso: “ No, ci vado
in ciabatte e poi mi trattengo ad aspettare che Emma stia un po’ meglio”.
La ginnastica non è più importante.
Da Emma la porta è aperta. Entro. In soggiorno c’è il Signor Pietro che ha
già preparato tutto l’occorrente. Preparo l’iniezione e noto che le mani mi
tremano. I miei movimenti cercano di essere rapidi per nascondere questo
inaspettato tremore. In mano ho la siringa pronta. Mi fermo ritta in piedi un
attimo, chiudo gli occhi e respiro profondamente due o tre volte. Ora sono
pronta. Salgo i tre scalini che separano il soggiorno dal reparto notte: Entro
nella stanza da letto. Emma è lì, a letto, stesa su un fianco, semi
rannicchiata.
R. “Buona sera Emma. Sono qui per farle l’iniezione”.
Dopo l’iniezione Emma comincia a parlare:
E. “Sai, domani mattina vado all’ospedale. Ho deciso di andare all’ospedale
di Suzzara. Magari a Mantova si potrebbe fare qualche cura, ma lì sei solo
un numero. Io, invece ho bisogno di umanità”.
Fa fatica a parlare ma anche a respirare.
E. “Questa sera, più tardi, viene Dina a darmi l’altra iniezione. Ha insistito
tanto che non volevo offenderla nel dire no . La puntura che mi da Dina è di
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Talwin, la tua è Plasil…Aiuto…aiuto!”. Il marito che si era assentato un
attimo, anche per lasciarci sole, accorre.
Prende la bacinella e la mette davanti a Emma che nel frattempo era stata
fatta sedere sul letto. Vomita. Un’orrenda schifezza verdastra riempie
quella bacinella.
E. “Che spettacolo!” riesce adire dopo, mentre il Signor Pietro, in silenzio,
porta via la bacinella. Dopo un attimo eccola di nuovo sofferente: un
crampo le prende quell’unica sua mano ormai solo pelle ed ossa.
E. “La boule!…la boule… ! » Il Signor Pietro arriva con la boule elettrica.
Massaggia ora la mano di Emma e dopo circa un quarto d’ora il crampo
sembra essersi arreso.
P. “Cerca di stare quieta. Cerca di tranquillizzarti” le dice il marito.
E. “E tu credi che io non cerchi di farlo?”
P. “Lo so. Lo so che cerchi di farlo”. Il Signor Pietro rimane ancora un po’ e
poi si assenta di nuovo.
R. “Il Signor Pietro si è organizzato ed è sempre pronto”.
E. “Zio Domingo, il casalingo !”
R. “Ma chi è Zio Domingo?”
E. “E’ un personaggio che tu non puoi conoscere perché era sui fumetti
tanti anni fa” e accenna ad un sorriso. “Adesso c’è Mazzinga”.
R. “…e c’era anche Goldreik. Lorenzo (mio figlio) lo guardava sempre e il
suo amico Renato addirittura ne aveva comprato uno alto più di un metro,
coi pugni che si potevano lanciare”.
Emma ora si sta preoccupando per me, per il tempo che mi fa perdere. La
tranquillizzo. Parla dei miei ragazzi con affetto e ho l’impressione che li
abbia sempre osservati o seguiti da lontano. Sa quanti anni ha Lorenzo e
quanti anni ha Davide, mentre io sbaglio sempre clamorosamente le età dei
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miei figli. E’ stata una vicina discreta e io l’ ho vista poche volte trattenersi
con noi. La sua casa era sempre chiusa, le tapparelle abbassate, gli infissi
in alluminio chiusi. Sembrava sempre non ci fosse nessuno in casa. E
invece!: probabilmente guardava dalla nostra parte più spesso di quanto io
supponessi e vedeva i miei figli crescere.
Ora mi sembra più tranquilla. Sono passati circa tre quarti d’ora o forse di
più. Vedo che tiene gli occhi chiusi a lungo ora.
R. “Emma, vuole riposare?”
E. “Sì”.
R. “Signora Emma adesso vado, ma se ha bisogno, durante la notte, mi
chiami pure!”
E. “Grazie, spero di no . Pietro – chiama – vieni ad accompagnare Roberta
alla porta”.
19 MARZO 1994 –SABATO, ORE 7 DEL MATTINO
Sono nel dormiveglia quando vengo letteralmente svegliata da un rumore
continuo. Mi alzo di scatto e vado alla finestra della stanza dei ragazzi:
vedo l’ambulanza davanti alla casa di Emma.
21 MARZO 1994 –LUNEDI’, ORE 18.15
Accompagno mia madre all’ospedale di Suzzara per le terapie fisiche.
C’è un’ora da aspettare.
Mi siedo lungo il corridoio. Ho con me dei libri. Li apro svogliatamente. Li
chiudo e parto decisa. In portineria mi assicurano che Emma è ricoverata in
Medicina Donne. Salgo le scale col cuore in tumulto. Rimango un po’ (1 m.)
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ferma lungo il corridoio: entro in cucina e l’infermiera mi dice che Emma è
nel “box”. “ Sa dirmi se c’è qualcuno con lei?” chiedo.
“Sì, il marito”.
Entro nella sala di Medicina Donne: il box è lì, tutto isolato.
Una volta questo box era il “nido” del reparto di Maternità e nell’ora di
visite si scostavano le tendine e i neonati venivano mostrati ai parenti. Tutti
si accalcavano ai vetri del “nido” eccitatati e contenti.
Ora le tendine sono tirate, la porta è chiusa, il box in semioscurità e
nessuno si spinge davanti ai vetri per vedere.
Faccio i cinque o sei passi che mi dividono dalla porta del box e mi sento
osservata, scrutata. E’ l’ora della visita dei parenti. C’è brusio in sala e le
luci sono accecanti. Un sospiro profondo e poi entro.
Emma sta dormendo. Mi viene incontro il marito. E’ contento della
soluzione per il ricovero in ospedale.
P. “E’ stata meglio. Solo nel pomeriggio di oggi si è sentita male. Ha avuto
vomito e allora le hanno messo il sondino. Io non c’ero e non se ne sono
accorti subito che stava male. Adesso riposa,”.
Condivido la loro decisione. Lo metto a conoscenza che ho circa tre quarti
d’ora a disposizione:
“Se lei vuole approfittare, sto volentieri qui”.
P. “Allora vado a fumarmi una sigaretta!” Esce.
Io mi siedo vicino al letto di Emma. E’ appoggiata ad un fianco e riposa. Le
prendo la mano. Le accarezzo la fronte e rimango lì, insieme a lei. Dopo un
quarto d’ora rientra il marito. Rimaniamo in silenzio vicino ad Emma. Io
resto ancora seduta e le tengo la mano. Dopo un po’ entra una signora.
Parla circa 5-10 minuti col Signor Pietro poi se ne va .
Dopo un altro po’ entra Don Alberto.
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Io rimango 2-3 minuti. Poi mi alzo. Appoggio piano la mano di Emma: Le
accarezzo la fronte, i capelli, chinandomi su di lei. Vorrei baciarla: Non lo
faccio.
Mi allontano da Emma. Saluto il Signor Pietro e Don Alberto e poi esco.
La sala è ancora rumorosa, ma non sento niente e non vedo nessuno: mi
sento come al di sopra di tutto e di tutti. Ma forse non sono al di sopra, ma
lontana da tutto e da tutti.
25 MARZO 1994 – VENERDI’, ORE 18.45
E’ l’ultimo giorno di terapia per mia madre e sono ancora seduta sulla
panchina di alluminio nel corridoio di attesa. Dopo averci pensato e
ripensato salgo di nuovo le scale che dal pianterreno portano su al reparto
di Medicina Donne. Mi fermo ancora lungo il corridoio e aspetto. Aspetto
l’infermiera per chiedere chi è con Emma. E’ sempre l’ora dei parenti ed il
via vai è continuo. Vorrei sapere prima di entrare in quel “box”, come sta,
chi è con lei, ecc. … Ma non c’è nessuna infermiera in vista.
Guardo dentro la sta per due o tre volte, senza avere il coraggio di entrare,
attraversarla e aprire poi la porta del “box”. Alla fine mi decido. Emma è
sveglia e sta parlando. Con lei c’è la Signora Marina (la signora che l’aiuta
nelle pulizie domestiche e che in questo periodo ha dirottato le sue ore in
ospedale) e il marito che è pronto per uscire. Lui saluta Emma, l’accarezza
e le fa delle raccomandazioni:
“Stai calma. Stai tranquilla, non parlare troppo. Cerca di dormire…”, e
Emma: “ …si…sì…sì…Cercami però quello che ti ho chiesto. Vedrai che la
trovi la bobina della trasmissione…”.
“… eh sì!” saluta ed esce.
Emma continua a parlare, ma le cose che dice non sono filtrate. Tutto
quello che le passa per la testa, tutto quello che vede o meglio: che
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immagina, lo dice. Ha dei vuoti di memoria, cerca di ricordare senza
riuscirci, le frasi sono spezzate…lunghe pause lasciano in sospeso il suo
tentativo di ragionamento e intercala sovente: “non so…non so più…non mi
ricordo”.
Gli occhi sono fissi e dilatati: Parla di me rivolta a Marina:
E. “Sai, doveva laurearsi e si voleva anche sposare. Ma sua madre le ha
detto: prima la laurea e poi Renato. E così, lei, è rimasta incinta…”.
Le cosa che inizia sono vere, ma non riesce ad esprimere i suoi pensieri, i
suoi concetti, pur vedendola fare grandi sforzi. Poi si arrende, ti guarda
fissamente e alzando le spalle dice delusa: “Non mi ricordo!”.
Entra Don Alberto.
Emma gli chiede di poter fare la comunione. Don Alberto si assenta e va in
cerca di un’ostia per Emma. Deve solo andare alla cappella dell’ospedale
ma dopo mezz’ora non era ancora ritornato.
E. “Oggi sono venute le pie donne a trovarmi”.
R. “La signora Dina c’era?”
E. “Proprio quella non l’ ho vista, ma c’erano la Carla, la Franca…” e prima
di elencarle tutte passa un bel po’ di tempo.
E. “Dopo di te, Marina, chi viene a fare la notte?”
M. “Suo marito, ma dopo di lui non so più perché: Simona è a Milano, poi io
ci sono domani, sabato, fino alle 21, dopo non so chi venga a fare la notte
domani”.
R. “Se non ci sono altri programmi, io, domani sera, sarei disponibile e
sarei contenta di passare tutta la notte con Emma”.
Emma afferra contenta questa mia disponibilità e comincia lei ad
organizzare: fa turni, elenchi di persone che potrebbero avvicendarsi, vuole
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sapere gli orari degli avvicendamenti: è quasi eccitata: Mi da tutti i consigli
che lei ritiene necessari.
E. “ Tu domani sera, alle nove, dai il cambio a Marina e vieni qui. Renato
per una notte si arrangia!”.
R. “Certo, sicuro…e poi lui non se ne accorgerà neanche col fatto che noi
dormiamo in letti separati!”.
Emma, guardandomi meravigliata: “Questo poi non lo sapevo! Ah, dormite
separati! Meglio! Così tu vieni qui e lui non se ne accorge. Prendi su le carte
e facciamo una briscola; prendi su le tue ciabatte per stare comoda e anche
la tua camicia da notte, perché alle due, quando proprio non si resiste più
dal sonno, tu ti corichi su quel letto e dormi e anch’io dormo. Non ero qui,
sai, prima. Ero nell’altra sala. Poi io ho chiesto una stanza con due letti e ho
detto: io pago la differenza, ma voglio un letto libero, perché quando viene
il sonno bisogna dormire e chi sta qui con me, può farlo. Così sono stata
portata qui e lì c’è l’altro letto per dormire comodi. Chi non può, che resti in
sala! Io posso e così ho fatto il contratto con due letti” e mi guarda.
Mi accordo con Marina perché riferisca la mia disponibilità al marito di
Emma.
Don Alberto non è ancora tornato. Avrei voluto essere con Emma al
momento della comunione, ma sono ormai le 20.
R. “Signora Emma, ora devo andare perché mia madre sarà giù ad
aspettarmi da un pezzo. Sta facendo le terapie e sicuramente avrà già
finito!”.
E. “Certo, vai, vai. Domani sera parleremo anche dei dolori della Pia,
parleremo dei tuoi ragazzi: Lorenzo di 21 anni e Davide di 15… Ma guarda
un po’: non sapevo dei letti separati e che Renato suonasse anche lui…”.
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R. “Gli piace molto la musica rock e anche ai ragazzi piace: chissà quante
volte l’avrà sentita!”.
E. “A volte è bellissima!”.
Le prendo la mano, l’accarezzo, mi chino su di lei e la bacio su una guancia
e poi sull’altra. Anche lei mi bacia: le cannucce del sondino sembrano voler
impedire il contatto con le nostre guance, ma tutto mi sembra così dolce!
Saluto di nuovo Emma e Marina.
R. “Arrivederci Emma, a domani sera”. Esco.
Lungo il corridoio mi ritrovo a sorridere: sono contenta di poter stare una
notte con Emma, anche se dovevo ancora avere conferma dal marito.
Ma, a poco a poco, a questo stato d’animo ne subentrava un altro che mi
sprofondava nell’angoscia.
Riflettendo sull’incontro e sullo stato di Emma una domanda si faceva
prepotente: per lenire il dolore fisico è giusto togliere la coscienza di una
persona? Una frase letta su una dispensa mi ronzava nella mente:
- Lasciatemi la mia coscienza! 26 MARZO 1994 –SABATO, ORE 21
Sono più sicura e ho meno paure. Nel pomeriggio ero stata un paio di ore
da Marta e, rubandole ore preziose di studio, abbiamo parlato di Emma. Il
parlarne a lei aveva allentato le tensioni interne e questo mi faceva sentire
più preparata.
Prima di entrare in ospedale sosto un attimo sul piazzale davanti al pronto
soccorso (a quell’ora si entra in ospedale dal P.S.). C’è Marco Carnevali che
sta pulendo l’autolettiga: lui è un volontario della C.R.I. e deve fare il turno
notturno.
Il suo viso, grosso e disteso, mi solleva e mi rassicura…Non so perché, ma
sapere che Marco è giù al Pronto Soccorso mi fa sentire meno sola. Salgo
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frettolosamente le scale, attraverso la saletta ed entro subito dalla signora
Emma.
Lei dorme: le flebo ci sono, c’è il sondino e c’è pure il catetere. Ed Emma è
lì, stesa con tutti quei cateteri che vanno e partono da lei. Vicino c’è il
Signor Pietro e la signora Marina. Mi aspettavano, sembravano un po’
agitati e non si decidono ad andare. Mi dicono della giornata trascorsa e
sono preoccupati perché Emma sta sudando molto: “è la flebo piccola che
fa questo effetto” mi dicono. Marina le asciuga la fronte; il marito
l’accarezza e la deterge con fazzolettini profumati.
Io rimango un pochino lontano dal letto, ascolto le loro preoccupazioni e le
loro consegne. Poi man mano loro due si allontanano da Emma, io piano
piano, cercando di essere il più discreta e il più silenziosa possibile, mi
avvicino a lei. Cerco di rassicurarli e di fare loro capire che possono stare
tranquilli affidandomi la loro Emma.
Marina: “Domani non posso venire, perché devo andare ad un Battesimo,
ma sto male quando non posso venire qui. Comunque lunedì ci sarò a fare
il mattino”. Ci saluta ed esce.
Il marito si dà da fare ancora per un po’, poi:
P. “ Lì c’è il letto: se vuole può anche dormire quando lei dorme. Qui c’è un
libro, ci sono dei giornali. Il numero di telefono è qui su questa rivista e ci
sono anche i gettoni in caso di bisogno”.
Poi accarezza Emma, le asciuga la fronte, la bacia e finalmente riesce ad
augurarmi la buona notte e ad uscire non senza prima avermi detto: “
Domani mattina sarò qui presto: c’è anche il cambio dell’ora legale e quindi
io, alle cinque e mezza, vale a dire le sei e mezza, sono già qui”.
R. “ Cerchi di riposare e non regoli la sveglia: domani non vado a lavorare e
lei può venire qui quando vuole, anche più tardi”.
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Mi saluta di nuovo ed esce.
Emma continua a riposare e a sudare. Sono preoccupata perché è un
sudore freddo, ma l’infermiera mi rassicura: è l’effetto dell’antidolorifico.
Emma ha i capelli bagnati. Allora le faccio passare sotto la testa una
traversa asciutta: In questo stato Emma rimane ancora per un’ora: fino alla
fine della flebo piccola. Di tanto in tanto viene l’infermiera di turno:
controlla le flebo, la pressione, lo stato generale di Emma; scambia poche
parole in dialetto e poi se ne va .
Emma continua a dormire. Una o due volte apre gli occhi, mi guarda ed
entrambe le volte, cercando un sorriso, mi saluta con un “Benvenuta” poi
richiude gli occhi e continua il suo sonno.
Non è agitata , ma di tanto in tanto fa smorfie e respira rumorosamente col
naso: il sondino le impedisce una respirazione normale. E così passa la
mezzanotte e arriva l’una.
Io non riesco a riposare, perché temo di non sentire Emma qualora avesse
bisogno di qualcosa. Leggo delle novelle stupende da “Marcovaldo” di
Calvino.
Sono le due: In sala c’è una signora che si lamenta ad alta voce e chiama:
“Vando…Vando…” ripetutamente.
Io esco dal box: La signora che chiama è seduta nel letto transennato. Mi
avvicino e una puzza d’orina mi colpisce.
R. “Chi è Vando?” chiedo.
“E’ mio figlio! Dov’è Vando? Ho bisogno di lui”.
R. “Sarà andato a casa a riposare un po’”.
“Ma io ho bisogno di lui!”.
R. “Verrà di sicuro domani mattina.” Mentre dico così le accarezzo la
schiena e parlo con lei. Dopo un po’ sembra più chieta e si corica.
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Un’altra ammalata si alza dal letto: vuole rifarsi il letto. L’aiuto e le rifaccio
il letto.
“Grazie, ma che ore sono?”
“Sono circa le due” rispondo.
“Ma se devo ancora cominciare a dormire!” e poi si mette sotto le coperte
forse cercando di dormire, ma gli occhi sono sbarrati e mi chiede ancora:
“Lei è qui con la signora che è lì?” ed indica il box.
“Sì, sono con lei”.
“Ma lei chi è?” mi chiede ancora.
“Sono una sua vicina di casa”.
“Ah” e tace.
Faccio per tornare da Emma, ma un’altra ammalata mi chiama:
“E’ un’infermiera?”.
“No, ma lo sono stata”.
“L’avevo scambiata per l’infermiera per come ha fatto il letto e per come si
è fermata qui con noi”.
“Lavoravo in cardiologia circa 15 anni fa”.
“Di dov’è lei?” incalza.
“Di Sailetto”.
“Sa che io abito a Tabellano”. Evidentemente non ha sonno e parla di
Tabellano, che è qui dal mattino per esami, mi parla del figlio, di sua nuora,
della nipote, delle sue preoccupazioni per essere ricoverata in ospedale.
L’ammalata accanto a questa si siede sul letto: è tutta scapigliata, fatica
respirare e porta una camicia a maniche corte: “Ho sempre caldo” mi dice
quest’ultima e poi: “Non riesco a dormire: se potessi avere la comoda, io
non mi appoggerei e potrei dormire un po’”. Le vado a prendere la comoda.
Lei la sistema vicino al letto, vi appoggia un cuscino e stando seduta sul
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letto, vi si appoggia, ma non dorme. Si mette a parlare con la signora di
Gabellano e io sono, alle ore due e trenta, coinvolta nei loro discorsi:
parlano di viaggi, di posti visti, del Po, della piena del Po, di come si
potevano lavare i panni nel Po ecc. ecc. Piano piano mi allontano,
discretamente e mi avvio al mio posto: vicino ad Emma mentre dall’altra
parte della stanza un’altra ammalata sta imprecando e bestemmiando
perché: “…parlano e non si può dormire”.
Emma continua a dormire e l’infermiera si ripresenta sempre puntuale
senza essere chiamata, al cambio della flebo.
Anch’io ora mi corico e dormo per circa due ore. Alle quattro e mezza mi
svegli di soprassalto e cerco di mettere a fuoco la situazione.
Dopo un po’ Emma si sveglia e comincia a parlare, o meglio a bisbigliare:
sono frasi sconnesse, non capisco sia per il tono basso di voce sia per il
senso. Parla di uno spettacolo, visto forse in televisione e sembra quasi che
mi descriva un’orgia. Poi mi parla di una trasmissione, o di una bobina dove
c’è lei e suo marito, ma con nomi scambiati, sembra si tratti di spionaggio:
“Tutto questo si deve fare per la scienza e allora deve esserci l’anonimato”
mi dice.
Poi, a poco a poco, comincia a parlare di lei e del suo calvario.
E. “Sono arrivata in cima al calvario e là c’è Gesù. Io ho detto: - Fai quel
che vuoi di me – e Lui mi ha voluto. Ho capito che non era la mia ora e Lui
non mi ha rimandato qui. Io avrei potuto morire per me stessa o vivere per
gli altri e sono qui a vivere per gli altri”.
Sono stanca, ma questa frase mi colpisce. Morire forse vuol dire troncare la
sofferenza, quindi il voler morire era un atto di egoismo, era un desideri di
non sofferenza; scegliere di vivere voleva allora dire accettare la sofferenza
e dare a questa un significato. Io, a quella frase, non riesco a dare altra
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interpretazione, ma valeva la pena stare alzata tutta la notte per
sentirgliela dire.
Poi mi parla di lei dopo aver ripreso la mia frase della sera prima:
E. “Non sapevo che tu e Renato dormiste in letti separati! Anche mia sorella
e mio cognato dormono separati, ma hanno settanta anni e per forza di
cose: lui russa, lei si scopre ecc. ecc.: per convenienza reciproca dormono
separati. Anch’io e Pietro, sai, appena sposati dormivamo in stanze
separate. Lui non voleva sposarsi e così abbiamo deciso di dormire
separatamente.”
Poi gli ho detto: “Senti: ho perso la bambina, ho perso un braccio, ma
quanto tempo ancora dovrò stare sola? E allora abbiamo dormito insieme.
Ma c’è voluto del tempo: questa cosa non si è risolta subito: ne è passato
di tempo!”.
Poi mi parla dei nipoti con entusiasmo, dei modi di educare di suo cognato
(col bacchettone). Condivide i principi del cognato e ammira l’intelligenza e
la capacità dei nipoti. Poi chiede di me, dei miei ragazzi e così parlando
arrivano le sei.
Chiede spesso l’ora e che giorno è. Mi confida la sua difficoltà di ricordare il
giorno, l’ora: “A volte mi sembra di perdere la nozione spazio-temporale”.
Io la rassicuro e le ripeto con tranquillità l’ora come se fosse la prima volta
che lo chiede.
E. “Sai non posso dire a Pietro quando vedo i luccichini: ecco, ora sono blu
e poi verdi. Ma so che devono arrivare anche quelli gialli. Eccoli … ma non
lo posso dire a Pietro: lui non mi crede!”.
Queste erano le visioni anche di mio padre: l’effetto degli stupefacenti.
Capisco che Emma sta entrando nella fase della visione.
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Subito dopo queste parole arriva il marito. Emma sta parlando, ma sta
entrando ora in una fase di eccitazione che la fa sentire euforica.
Il marito cerca di controllarla: “Cerca di calmarti, non parlare troppo!”.
Mi sembra preoccupato temendo che Emma, parlando troppo, possa dire
spropositi incontrollati.
Emma sembra ascoltarlo e alla fine propone a Pietro di andarmi a prendere,
più tardi, una bella torta. Se lo fa promettere e subito dopo sembra
calmarsi definitivamente. Mi cambio le ciabatte, mi metto la giacca, mi
avvicino ad Emma e la bacio sulle guance. Lei ricambia il mio modo di
salutarla con altrettanta affettuosità. Riprendo le mie borse, la saluto di
nuovo. Il signor Pietro mi stringe la mano e mi ringrazia. Io ringrazio
entrambi stringendo insieme le mani: con la mia destra stringo la mano
sinistra di Emma e con la mia mano sinistra stringo la destra del
signor Pietro.
Mi sentivo al centro di una grande sofferenza e quella stretta di mano
faceva circolare dall’uno all’altro una sensazione piacevolissima. Eravamo
tutti uniti e condividevamo la stessa sofferenza.
27 MARZO 1994 – DOMENICA, ORE 10.30
Il signor Pietro viene a casa mia con una bignolata che sarà buonissima.
Per circa tre o quattro giorni ero come frastornata. Non mi pesava la
spossatezza fisica: quella, nel giro di un giorno passa, ma il coinvolgimento
con Emma non mi lascia pensare ad altro. Ero con lei anche quando
lavoravo, quando cucinavo, pensavo a lei anche a ginnastica.
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Me la sentivo dentro, come se mi avesse stregata: ero unita a lei: lei mi
stava penetrando sempre più in profondità: mi diventava difficile stare
lontana, non avere sue notizie. Finalmente, Mercoledì verso le 14.30
incontro il signor Pietro. L’avevo visto un paio di volte, ma non avevo
chiesto notizie di Emma deliberatamente: pensavo che quando una persona
rimane costante ore a contatto con Emma, poi ne esce distrutto e spossato
e cerchi di liberarsi da qual pensiero fisso una volta che sei fuori
dall’ospedale. Comunque entro in corte e vado sotto il garage dove ha
riposto la macchina. Chiedo notizie. Lui mi dice che la situazione è
stazionaria, che le hanno cambiato l’analgesico e che non suda più. Mi dice
che non riesce a vederla soffrire, che spera non debba morire soffrendo:
non farla soffrire anche se si perde la coscienza. Io lo ascolto e cerco,
anche con lui, di attivare le mie conoscenze per aiutarlo in questo
momento. Riesco anche a parlargli dell’Associazione a cui faccio parte e
questo lo rassicura. Ho ritenuto opportuno informarlo perché ho avuto
l’impressione che lui non volesse affidare Emma a nessuno: forse temendo
indiscrezioni, mancanza di sensibilità. Ho notato che, anche se aveva gran
bisogno di qualcuno che gli desse il cambio nell’assistere Emma, diffidava di
chi gli dava disponibilità.
Penso che, dopo aver saputo che facevo parte dell’associazione di volontari,
si sia fidato di me e fosse meno preoccupato. Mi ha parlato liberamente e
ha accolto la mia disponibilità a fare due notti: Venerdì e Sabato (tanto poi
io avrei recuperato le energie fisiche con le Feste Pasquali).
Venerdì, verso le 19 il signor Pietro mi manda a dire (mi aveva cercata sul
lavoro senza trovarmi) che io avrei fatto solo la notte del Sabato.
Non nascondo la mia delusione e mi sono chiesta il motivo del
cambiamento di programma. Alla fine arriva la soluzione: fare la notte del
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Sabato senza andare a chiedere il perché non potessi fare anche quella del
Venerdì.
2 APRILE 1994 – SABATO MATTINA
Piove a dirotto. Squilla il telefono. Sono circa le 10.
“Sono Pietro. Non le ho permesso di fare la notte scorsa perché due notti
sono troppe. Io, là, riesco a dormire, ma so che per un altro è impossibile.
E poi, la notte passata, ce la siamo vista brutta!: c’è stato un fuori vena, la
pressione è scesa molto e credevamo di non farcela. Poi tutto è passato!”.
R. “Meglio così”.
P. “Allora ci vediamo questa sera?”.
R. “ Certo, io arriverò alle nove”.
P. “La saluto, buongiorno”.
R. “Arrivederla”.
2 APRILE 1994 – SABATO, ORE 21
La giornata è stata fredda e la serata non è da meno. Entro da Emma e ho
le mani fredde.
Nel salutarla l’accarezzo e avvicino le mie mani al suo viso e al collo. Lei si
rannicchia tutta ringraziandomi del freddo esterno che porto.
Il signor Pietro si trattiene ancora cinque minuti per darmi le ultime
istruzioni: n° di telefono, soldi per la telefonata eventuale, libro di
Marcovaldo, la flebina da cambiare in caso di dolore, le ciabatte maschili (io
ho però le mie). Ci augura la buona notte dicendoci: “Verrò più tardi, prima
di andare a letto, verso mezzanotte!”. Esce.
Emma mi racconta subito tutte le traversie della notte passata. Ne è ancora
terrorizzata.
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E. “ Il deflussore si era staccato. Hanno detto che era colpa mia, perché mi
muovo sempre. La pressione di conseguenza è scesa rapidamente e
nessuno se ne era accorto. Quando abbiamo chiamato l’infermiera, questa
non riusciva più a trovare la vena. Io stavo male perché se non si trovava
la vena, non si poteva somministrare l’antidolore. L’infermiera era agitata,
Pietro era agitato: tutti eravamo agitati. Questa volta è finita: mi sono
detta.
Poi, per fortuna, con la butterfly, si è trovata una vena e, un po’, la
situazione è migliorata. Ma questa butterfly era troppo piccola e scendeva il
liquido di una sola flebo e non di due. La situazione stava di nuovo
precipitando.
Ma ecco il salvatore: il Dottor Carusillo.
Lui arriva, si pianta con le sue gambe aperte e dice all’infermiera ‘Fatti da
parte che ci penso io ’ ed infila un palo in vena: ma che butterfly! Un palo!
E mi dice che posso muovermi come voglio e che lo dovrò tenere per due o
tre giorni. Solo allora, verso le quattro del mattino, sono stata meglio e mi
sono tranquillizzata un po’”.
Emma, per tutta la notte passata con me, continuerà a tenere sotto stretto
controllo: le flebo, il flusso del liquido e i deflussori che arrivano sino al
pollice tutto incerottato. Ad un certo punto della notte vorrà anche gli
occhiali per vedere meglio.
Questa donna sta lottando con tutte le sue forze e fa appello a tutte le
strumentazioni (non molte tra l’altro) per tenere sotto controllo il dolore e
per esserci: cambio del liquido nella beuta ogni tre ore al massimo (per
favorire meglio l’aspirazione); movimenti del sondino quando sente conati
di vomito (sempre per favorire l’espulsione di liquidi), posizioni riverse
all’indietro del capo per evitare eventuale vomito; movimenti del tronco o
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massaggi all’addome per permettere la diuresi; cambio immediato della
flebo quando il dolore all’addome comincia a farsi sentire; spalmare
connettivina sull’osso sacro che comincia ad arrossarsi; bere pochi liquidi a
piccoli sorsi sempre per evitare il vomito e potersi comunque sciacquare la
bocca; pulire le labbra secche e screpolate col miele rosato; provare la
pressione a mezzanotte, alle quattro e alle sei del mattino. Tutta la notte è
passata così: pisolini di mezz’ora e poi l’altra mezz’ora controlla che tutto
funzioni e parla.
Durante il riposo il viso le si faceva contrito, sofferente: profonde rughe le
solcavano la fronte e le sopracciglia rimanevano aggrottate. Non lamenti,
non imprecazioni, ma sofferenza in silenzio. E il suo viso, proprio quando
era meno cosciente, ne era una testimonianza evidente.
Durante la notte sono riuscita a fare solo un sonnellino di circa un’ora: dalle
4.30 alle 5 e mezza.
Riporto alcuni dialoghi o meglio monologhi: io svolgo un ruolo di ascolto e
di conferma di ciò che Emma mi dice.
E. “Oggi è venuto Don Alberto e ho fatto la comunione. Con tutti questi fili
non riesco a fare bene il segno della Croce, ma il Signore mi capirà” e
accompagna le parole al gesto.
E. “ Mi ha detto che ha messo sull’altare maggiore la mia tovaglia. Io gliel’
ho data prima di farmi ricoverare dicendogli di metterla per Pasqua: è una
tovaglia di lini che io ho dipinto a mano. Sarà l’ultima. Ma Don Alberto mi
ha detto: Spero che sia la penultima, la terzultima o la quartultima. Dice
poi che sta benissimo e che la Croce rossa centrale si vede da lontano.
Infatti ho dipinto una grande Croce rossa sul centro e intorno viti e spighe
di grano. Mia sorella è andata subito a vederla e, anche lei, … orgoglio di
sorella…!…mi ha detto che sta benissimo. Poi mi ha detto Don Alberto che è
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andato
a
confessare
in
chiesa
Monsignore
Caporello:
l’asceta.
Ma
quest’ultimo non l’ ha nemmeno notata! Sai,…l’asceta…!…Ma è andato in
chiesa anche un contadino, mandato dalla madre a portare un mazzo di
fiori per la Pasqua. Al ritorno la madre gli chiede se aveva notato la tovaglia
di Emma. Lui ci pensa un po’ e poi risponde: ‘ Ma mamma, perché avrei
dovuto vederla? Non c’era su un piatto di cappelletti!’ ”.
Io rido e anche Emma ride con me. E’ un episodio bellissimo ed Emma è
contenta di avermelo raccontato e di avermi fatto ridere. E’ tutto così
straordinario che sono felice: felice di essere lì, nonostante la stanchezza
fisica; felice di essere con Emma che sa dare momenti di ilarità in mezzo a
tanta sofferenza.
Durante la notte capita anche che lei chieda notizie di me. Capita così che
io le parlo delle mie difficoltà nel sostenere il mio ruolo all’interno della
famiglia e sul lavoro. Le parlo delle situazioni conflittuali che oltre a
stressarmi
fisicamente,
a
volte
mi
lacerano
psicologicamente.
Riappropriarmi di me stessa, del mio ruolo, della mia femminilità
(circondata come sono solo da maschi!) a volte diventa un’impresa difficile
specie da quando sono cosciente di tutto questo.
Emma mi capisce ed insieme parliamo di questo e alla fine mi dice:
“ Il fatto che tu sia qui, vuol dire che tu hai trovato il tuo pezzo di cielo e
che anche Renato ha trovato il suo pezzo di cielo!”.
E io ho immaginato i cieli stupendi di Magritte!
E. “Tu potresti essere nel tuo letto e invece sei qui. Per te non c’è solo
lavoro e basta. Hai saputo trovare delle alternative e vivere diversamente
fuori dal lavoro. Anche per Renato è così: attraverso i suoi figli, le sue
letture, la sua cultura, separa ciò che è l’impegno sul lavoro da quello che è
l’impegno fuori dal lavoro. Sa demarcare i due territori”.
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Il Signor Pietro arriva trafelato alle sette circa. Si era svegliato tardi, a
sentir lui e allora aveva fatto tutto di corsa. Quando arriva io sto
raccontando ad Emma l’episodio dell’acquisto del mio lampadario: un
acquisto pazzesco (la cifra è per me veramente astronomica!) ma che
rifarei: ho voluto inconsciamente affermare la mia femminilità repressa per
tanti anni con l’acquisto di un oggetto esteticamente stupendo; di un
oggetto però che da luce: una luce meravigliosa. A distanza di un anno
dall’acquisto sono ancora innamorata e meravigliata da questo lampadario
che sembra uscito da una fiaba!
E. “E Renato cosa ha detto quando l’ ha visto?”.
R. “Non se ne è accorto! Ho dovuto farglielo notare io. Ma poi lo ha
ammirato e mi ha detto che, visto l’articolo, qualsiasi cifra avessi pagato,
sarebbe stata sempre troppo bassa”.
Il signor Pietro, entrando aveva interrotto a metà i nostri discorsi, ma
Emma, dopo averlo salutato, mi chiede di continuare. Il signor Pietro si
siede sul letto e aspetta che io finisca la mia storia.
E’ Pasqua!
La mattina è nuvolosa, ma un cardellino cinguetta e noi tre lo ascoltiamo.
Poi mi preparo per lasciare Emma che mi sembra ora tranquilla.
“Ho passato proprio una bella notte” dice al marito convinta.
Mi saluta dopo avermi promesso di farmi avere, tramite il signor Pietro, una
bella torta “millefoglie” proveniente dalla pasticceria di Buscoldo (durante la
notte avevamo parlato anche delle paste favolose della pasticceria di
Buscoldo!).
E “Buona Pasqua” continua “Spero di venirla a trovare presto a casa!”.
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Verso le 10.30 del mattino arriverà il signor Pietro a casa mia con due
fagottini: tranci di torta “millefoglie” in uno e una buonissima colomba
pasquale nell’altro.
Al ritorno dall’Ospedale, vorrei fermarmi a Sailetto ad ascoltare la prima
messa della giornata di Pasqua. Volevo anche vedere la tovaglia di Emma,
ma la chiesa era ancora chiusa: sono le 7 e trenta e la prima messa ci sarà
solo alle ore 8.
Riflessione:
Emma chiede spesso l’ora e il giorno: teme di perdere la nozione temporale
e spaziale.
Credo sia veramente importante dare conferme continue su queste nozioni:
è come se ci fosse il bisogno di mantenere questi riferimenti per sentirsi
vivi, per esserci. E credo sia veramente importante per una persona sapere
dove siamo e in che tempo siamo per essere veramente.
9 APRILE 1994 – SABATO, ORE 21
Il signor Pietro mi ha telefonato nel primo pomeriggio per sentire da me se
confermavo la mia disponibilità per la notte. (Io gli avevo telefonato per
questo motivo il giovedì): da Emma non avrei trovato lui, ma una sua
nipote. Così è stato.
Entro da Emma e una bella ragazza, sorridente, mi accoglie.
R. “Buona sera Emma: eccomi qua”.
E. “ Sono contenta di vederti. Pietro è stanco, è molto stanco, e io non
posso farci niente. Vedi come sono?” e mi dice subito quello che le è
capitato: in un momento di “raptus suicida” si è strappata il deflussore della
flebo.
R. “E’ arrivato il Dottor Carusillo…il salvatore…”
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E. “No, questa volta Carusillo ha detto: Pensateci voi, me ne lavo le mani.
Allora è venuta la dottoressa Zanoni con l’assistente e tutti i ferri della sala
operatoria e ieri mattina mi ha aperto la safena, qui sul collo e i liquidi
entrano da qui. Guarda questo braccio…”. Mi mostra il suo unico braccio
pieno di lividi: probabilmente, prima di aprire la safena, avranno tentato in
vari punti del braccio con risultati negativi.
Samuela, la nipote, sta aspettando l’arrivo dell’infermiera: vuole imparare
da lei il cambio della beuta per poterlo poi fare da sola ogni volta che
Emma lo desidera. Poi saluta ed esce.
Poco dopo arriva il signor Pietro che mi chiede subito chi era quel Renato
Lorenzini di Sailetto autore della lettera al Direttore pubblicata la giornata
prima sulla “Gazzetta di Mantova”.
“ E’ mio marito” rispondo.
P. “Ma è tutto farina del suo sacco?”.
R. “Certo, perché io non ne sapevo niente”. Non nascondo che mi sentivo
un po’ imbarazzata: dai libri che vedo intorno e che sono letti dal signor
Pietro mi sembra di dedurre che sia interessato ad un periodo della storia
che ha espresso idee in netto contrasto con quelle sostenute da Renato
nella lettera pubblicata. Il signor Pietro si trattiene poco: saluta Emma
accarezzandola sulla fronte. Lei ha uno scatto di ribellione e di aggressività
verbale nei suoi confronti e nei confronti di tutti quelli che arrivano,
l’accarezzano, la toccano dove le fa male, la salutano, e poi se ne vanno. Il
marito cerca di calmarla perché non vorrebbe lasciarla in quello stato così
aggressivo, perché non vorrebbe sentirsi in colpa per non rimanere lì con
lei.
Emma a parole si scusa, giustificando comunque il suo momento di
aggressività, ma il suo viso rimane teso, quasi cattivo, accusatorio.
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Poi anche il signor Pietro ci augura la buona notte ed esce.
Emma mi ribadisce la sua rabbia, la sua insofferenza: ce l’ ha con tutti
quelli che vengono, le chiedono come sta e poi se ne vanno.
E. “Ma quando ci sono persone che non sopporto allora sai cosa fa Emma?
Chiude gli occhi, e …scusatemi – dico – ma sto male… e così se ne vanno.
E’ successo questo proprio oggi quando una parente mi ha portato la
violetta di Parma”…e sorride con sufficienza e sopportazione. La notte
passerà lenta, così, senza dormire un attimo: io leggendo di tanto in tanto
e lei chiudendo gli occhi senza dormire e chiedendomi di cambiare
posizione.
Le gambe e le cosce sono gonfie e sformate e la posizione del letto e dei
cuscini dovrebbe, in teoria, favorire la circolazione e quindi ridurre gli
edemi. A volte questa situazione mi sembra veramente insopportabile: mi
sembra di avvertire le pieghe delle lenzuola troppo rigide sotto la schiena;
non riesco a muovere le gambe: ho perso sensibilità e mobilità; le coperte
sono troppo pesanti e mi danno fastidio;
la camicia da notte è
raggomitolata e mi dà fastidio; i cuscini mi fanno male al collo che rimane
troppo ritto in avanti e poi, anche loro: sono troppo rigidi…e in fondo alla
schiena?: sento bruciare…tutto diventa intollerabile, ruvido, e vorrei
strapparmi tutto: via le coperte, via le lenzuola: ora sono tutta scoperta!
…ma che importa!…giunta a questo punto…E questo pezzo di braccio che
non sta fermo e si muove da solo e va dove vuole. E l’altro braccio mi duole
per i lividi che mi hanno procurato! Il cerotto che tiene fermo il sondino mi
tira: non riesco nemmeno a respirare!…e poi, non mi scarico. Se solo
potessi sedermi sulla comoda, sono sicura che mi scaricherei: ma nessuno
si prende la responsabilità: temono per il cuore!
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Sono arrivate le tre del mattino e sento Emma che mi dice: “Scappa!” e
dopo un po’: “Fuggi!”.
Mi avvicino a lei.
E. “Fuggi!” mi ripete guardandomi dritta negli occhi.
R. “Perché?”.
E. “Io cerco di fuggire: vorrei fuggire da me stessa e da questa pancia! Ma
tu scappa!”.
Restiamo in silenzio.
Emma è ad occhi chiusi e respira faticosamente. Ogni tanto cerca di
incamerare più aria che può facendo un verso che mi spaventa perché mi
coglie all’improvviso.
E. “Non volevo coinvolgere nessuno, ma pensi di riuscire a stare con me?”.
R. “Credo di sì”.
E. “Che ore sono?”.
R. “ Le tre”.
E. “Abbiamo due ore e poi alle cinque sarà tutto finito. Pensi di farcela a
rimanere qui: solo io te?”.
R. “Ce la faremo” rispondo decisa.
La mia mente era sconvolta. Ero terrorizzata perché non riuscivo a capire
bene cosa mi stesse succedendo, cosa Emma mi stava chiedendo. Avevo
paura che lei mi stesse chiedendo di stare con lei mentre moriva.
Ma, intanto, adesso stava male: vomitava (nonostante il sondino) in una
bacinella che io le sorreggevo. Con una mano tenevo la bacinella, e con
l’altro braccio l’aiutavo a rimanere sollevata per favorirle il vomito.
R. “Chiamo l’infermiera?”. Spero mi dica di sì.
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Emma, riprendendosi un pochino mi risponde decisa: “No! Dobbiamo
farcela io e te: dobbiamo arrivare io e te sino alla fine. Non abbiamo
bisogno dell’infermiera ora: dobbiamo farcela da sole. Rimani qui vicino!”.
Ripongo la bacinella e mi curvo su di lei riappoggiandola al letto. Col suo
braccio mi accarezza la schiena e: “Fa presto, prenditi la sedia, spostala di
qua e siediti vicino: ce la dobbiamo fare da sole! Siediti comoda, altrimenti,
poi, la schiena ti duolerà !”.
Prendo la sedia e mi metto alla sua sinistra. Le prendo la mano che mi
stringerà forte per quasi tutto il resto della notte. Intreccerà le sue dita con
le mie, serrandole a volte come in una morsa. La sua mano è piccola e le
sue dita sono affusolate, le unghie ben curate. A volte allenterà la stretta e
infilerà la sua mano lungo il mio braccio, sotto la manica della felpa. Altre
volte mi accarezzerà i capelli e il viso. Continuerà così a toccarmi e a
tenermi vicino a lei cercando di lottate comunque e di non lasciarsi andare:
fa smorfie terribili di dolore, ma quello che mi spaventa di più sono quelle
sue prese fameliche d’aria che mi fanno sobbalzare per il loro rumore
improvviso.
E. “Fa un ultimo sforzo per me, te ne prego: dammi uno specchio, fa
questo sacrificio! Dopo che mi sarò guardata allo specchio, potrò anche
dirmi addio e andarmene!”.
R. “Emma, io non porto mai con me uno specchio! Credo di essere una
delle poche donne che non ha uno specchio in borsetta!”.
E. “Anch’io sono come te!”.
R. “Però posso rimediare: posso dirle io com’è, come se avesse davanti lo
specchio: lei è molto bella, ha degli occhi grandi e neri; le sopracciglia sono
ben curate e i capelli sono neri e sottili. Chissà com’erano belli i suoi capelli
da ragazza!”.
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Emma ha un sorriso: “Erano strisce lucenti sottili. Erano neri come il corallo
nero!”.
R. “Ma il corallo non è rosso?”.
E. “Il corallo più bello è quello nero, poi c’è il corallo rosso della Sardegna!”.
R. “…ed erano anche lunghi…”.
E. “…erano lunghissimi…”:
R. “…e neri…come il corallo…”
E. “Sì, come il corallo”.
R. “Ma in Sardegna i capelli sono neri…”.
E. “Sì, sono i caratteri della Sardegna!”.
R. “A quanti anni hai lasciato la Sardegna?”
E. “Avevo sette anni quando sono venuta a Mantova”.
R. “Allora tutta la sua adolescenza e giovinezza l’ ha vissuta a Mantova?”.
E. “Sì” e rimane assorta.
Anch’io penso a quando era bimba e ragazza: a Sailetto.
Per un po’ mi confondo: non so se sono la ragazza di campagna o di città;
se corro lungo gli stradoni di campagna o sotto i portici di Mantova; non so
se sono povera o ricca; se ho i capelli castani oneri; se i miei capelli sono
fini o grossi. Non sono sicura di chiamarmi “Roberta”.
R. “Lo sa Emma che nessuno mai mi ha regalato un mazzo di fiori!”.
Non so perché dico questo, ma lo dico, forse pensando che anche ad Emma
sia mancato questo.
E. “Anche a me non è mai stato regalato un mazzo di fiori!”
Poi, ripensandoci le confesso: “Eppure un fiore me l’ hanno regalato:
un’orchidea! E’ stato un signore che avevo visto appena due o tre volte.
Lavorava sul mercato e vendeva fiori. Io sono andata tre o quattro volte da
sua madre che aveva bisogno d’assistenza. Così, un sabato pomeriggio mi
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ha fatto trovare una piccola orchidea rosa e bianca, fragile, in un bicchiere
d’acqua!”.
E. “Beh, allora anch’io ho avuto un mazzo di rose con lancio!”
R. “Che significa: con lancio?”. Sono incuriosita. Lei sorride furbescamente
conscia di avermi voluto incuriosire.
E. “Adesso non te lo dico, perché se ci penso la cosa mi emoziona ancora e
dopo sento tutto lo stomaco in subbuglio”.
R. “Aspettiamo: mi racconterà più tardi”. Rimaniamo in silenzio per un po’.
E. “Era un mio compagno di classe delle medie che abitava sul mio
pianerottolo. Lui si era anche innamorato di me, e non gli piaceva studiare.
E così, agli esami di terza Media aveva chiesto il mio aiuto con un mazzo di
rose. Io esco sul pianerottolo e vedo il lancio di un mazzo di fiori. Ma non
ho visto lui: ho sentito solo il fruscio della carta che avvolgeva i suoi fiori e
il mazzo scivolare, come lanciato, sul pavimento e arrivare ai miei piedi.
C’era un bigliettino con la sua dichiarazione d’amore e la sua richiesta
d’aiuto”. Termina il suo episodio con parole brusche, quasi rivolgendosi
ancora al ragazzo: “Tu, caro, studiavi prima!…”. Tace ed entrambe siamo
ferme su quel pianerottolo con un mazzo di rose rosse e profumate in
mano: non capiterà più: un’occasione davvero unica.
E. “Devi scrivere un libro su Emma”.
R. “Lo scriveremo insieme. Mi dia però il titolo.”
Dopo aver pensato a lungo: “Sofferenza e volontà di un’anima vicino a
Gesù”.
Sono quasi le quattro e trenta. Non nascondo di aver guardato l’orologio
diverse volte, quasi in attesa dell’inevitabile prima delle cinque. Non erano
ancora le cinque, ma a capovolgere una situazione così instabile e precaria
basta un minuto, un attimo. Ma le spunta un timido sorriso sulle labbra e:
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“Sai, non ti credevo così armata! Grazie a te alla flebina e a Gesù ho
superato anche questa crisi. Adesso mi sta venendo il mal di pancia: vai a
chiamare l’infermiera, così cambia la flebo e il dolore mi passa!”.
Finalmente! Potevo uscire dalla stanza, aprire la porta e fare quattro passi
per chiamare l’infermiera. Ci si proiettava entrambe verso l’esterno e si
tentava di fare ancora qualcosa per vivere per continuare ad esserci. Mi
alzo, scosto la sedia e cerco di districarmi dalla sua mano. Emma
guardandomi severa: “Vai, ma fai presto, torna subito, subito!”.
R. “Certo, chiamo l’infermiera e sono subito qui”.
Ritorno subito: lei è terrorizzata, mi chiama e non vuole essere sola.
Supplica l’infermiera: “Mi lasci qui vicino a Roberta, non la mandi via” e
continua a chiamarmi. Si tranquillizza solo quando le riprendo la mano e mi
risiedo vicino a lei. Poi, sgrana gli occhi quasi supplichevoli e quasi
piangendo mi chiede: “Mi vuoi ancora bene?”.
La guardo, prima meravigliata di una simile domanda e poi mi sembra
quasi che una scossa elettrica mi attraversi il corpo: tutta la tensione,
l’angoscia di una notte sembra dissolversi con questa domanda. Questa
richiesta di amore mi apre la testa, gli occhi, l’anima. Non ci sono più
barriere tra me e lei: c’è qualcosa che mi unisce e che vivrà finché una di
noi vivrà: sento di amarla, di amare la sua sofferenza, di amare quel
suo
corpo
gonfio
e
distrutto
dentro,
quei
suoi
occhi
alteri
e
supplichevoli; di amare questa donna a volte così dura e anche così fragile.
Ora tutti i miei muscoli si rilassano e sorridendo: “Certo che le voglio bene
e adesso che ci siamo conosciute di più gliene voglio ancora di più”.
Mi aveva fatto quella domanda perché, a mio avviso, si sentiva in colpa,
sentiva che ero stata male insieme a lei e ora mi chiedeva scusa; voleva
sapere se potevo perdonarla di avermi chiesto di soffrire con lei!
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Le tengo sempre la mano, ma la nostra stretta non è più disperata come
prima: è delicata, impercettibile. Ora lei è sicura di me, sa che non la
lascio.
E. “Siamo state insieme tre notti e ci siamo conosciute meglio di dieci anni
di vicinato!”.
Rimarremo così sino a mattina.
Mi parlerà della storia della sua casa, della sua socia – Signora Valentina –
bidella delle Scuole Elementari di Sailetto. Questa signora, un mese prima
della firma del contratto di acquisto del terreno (proprietario signor
Bonafini) scopre di avere un tumore. Dopo varie traversie e difficoltà
acquista il terreno nel ’66 e nel ’67 ci sono le ruspe.
E. “Non avevo un soldo, ma le ruspe stavano scavando”.
R. “E il progetto della sua casa, così originale e diverso da tutte le case che
ho visto, di chi era?”.
E. “Di Emma! Tutto nella mia testa era il progetto. Ma non riuscivo a
trovare il geometra che lo firmasse! C’era un amico, ma lavorando nel
‘pubblico’ non poteva firmare i progetti dei privati”.
Era importante sottolineare come aveva superato momenti di difficoltà e
come ora la sua casa sia fra le più belle ed originali del paese: con tanto
terreno attorno e tante antenne sopra il tetto, e tante rose che crescono
selvaggiamente in mezzo alla sabbia, ai lati della strada.
E. “Ho iniziato la casa che ero 58 Kg. E quando l’ ho finita ne ero 46! Pensa
che mi ero trovata anche un doppio lavoro!”
R. “Quale lavoro?”
E. “Facevo interviste per la Demoscopia… e dei bei soldini ne ho presi. Sai,
c’era da fare della strada in macchina, ma tutto era rimborsato. Non si
potevano inventare le interviste, perché c’erano poi i controlli. Andavo
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anche ai loro seminari di informazione quando c’era una ricerca di mercato
nuova: chiedevo fino a quando non mi era tutto chiaro!”.
Mi racconta anche della sua attività come dipendente comunale: Dopo
l’incidente che causò la perdita del braccio, probabilmente le erano state
affidate mansioni organizzative (così mi pare di capire).
E. “La colonia a Pinarella della ‘Pantera Rosa’ li ho aiutati io nella scelta. Io
e il signor Veneri abbiamo iniziato a farla funzionare! Adesso non so più che
fine abbia fatto!” Si ricorda del giorno in cui, con le autorità municipali, era
andata a vederla: lei l’aveva già vista prima!.
E. “Arriviamo là, e tutti cominciano a girare, a ispezionare: e parlano…e
girano…e guardano…e…e…Io non ne potevo più, perché non decidevano la
scelta. Mi ricordo che lo spiazzo davanti alla colonia, quel giorno, era pieno
di “spusgnei” (funghi). Alla fine chiedono anche il mio parere! Finalmente! –
dico io – vi siete degnati di interpellarmi perché altrimenti avrei potuto di
aver visto dei bellissimi funghi senza averli colti, di patire la fame, di
essermi cuccata tutto il viaggio: andata e ritorno – per niente! Il mio parere
è favorevole e avrei già deciso da tempo, se fossi stata in voi!”.
Anch’io ho avuto un’esperienza alla “Pantera Rosa”: Davide aveva un anno
e Lorenzo 5: noi genitori dei bambini dell’asilo di Sailetto e Motteggiana
avevamo organizzato, anche se faticosamente, quindici giorni al mare
autogestiti. Parlo positivamente di questa esperienza della “Pantera Rosa”.
E’ stata veramente una bella esperienza anche se era stata promossa e
portata avanti quasi esclusivamente dalla sottoscritta e dalla insegnante di
scuola materna di Motteggiana: signora Renata. Anche se alcuni genitori e
un’insegnante ci fecero incontrare numerosi ostacoli, ritengo, a distanza di
15 anni, sia stata un’esperienza positiva. Sono passate da poco le sette.
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Fuori è già chiaro: un’altra notte è passata. Le infermiere del turno del
mattino entrano nella stanza per sistemare la stanza di Emma.
Io esco. Arriva il signor Pietro. Mi dice che ha riposato e io ne sono
contenta. Per stare con Emma come fa lui – tutte le notti e gran parte del
giorno servono molte energie e sono contenta che almeno una notte l’abbia
passata a casa sua a riposare.
Le infermiere escono dalla stanza. Noi entriamo.
Solo allora noto sul tavolino un giochino: due piccoli aerei di plastica sul
trespolo rosso di plastica.
R. “Non sarà questa la sorpresa dell’uovo!”
E. “Certo. E sai cosa vogliono dire?”
R. “Non ne ho idea”.
E. “Mi dicono che devo viaggiare: sono dei presagi!”.
Anch’io, nell’uovo pasquale, quest’anno ho trovato una sorpresa uguale:
due aerei microscopici: uno rosso e uno azzurro su un trespolo rosso: forse
anch’io dovrò viaggiare?
R. “La devo ora salutare!”.
E. “Ciao Roberta: è stata una notte terribile!”.
R. “…terribile, ma ce l’abbiamo fatta!”.
La saluto ed entrambe sorridiamo mentre ci baciamo: è un sorriso d’intesa
profonda che coinvolge entrambe e ci fa stare unite anche quando io ritorno
alla vita normale.
14 APRILE 1994 – GIOVEDI’, ORE 12
Non potendo comunicare col Signor Pietro e non volendolo disturbare a
casa, telefono al fratello di Buscoldo, sapendo che spesso va là a mangiare.
Risponde al telefono la cognata. Do la mia disponibilità per il sabato notte.
Riferisca lei al signor Pietro e poi mi facciano avere disposizioni.
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15 APRILE 1994 – VENERDI’, ORE 20.20
Sto preparandomi, in gran fretta per uscire a teatro: Pegognaga: Giorgio
Gaber. Lo spettacolo è alle ore 21 e siamo, io e Renato, in notevole ritardo.
Squilla il telefono: è il Signor Pietro che: “Mi hanno riferito che è disponibile
per domani notte”.
R. “Sì, le va bene ?”.
P. “Certo, ma c’è solo un problema: io non so se supererà questa notte:
questa mattina Emma ha avuto un’emoraggia, con calo di pressione. Poi le
hanno fatto un cardiotonico e adesso la crisi sembra superata…ma andiamo
male…”
R. “Ho capito. Io comunque per domani sera ci sono. Magari domani
mattina vengo a fare una scappata all’ospedale e ci mettiamo d’accordo
meglio”.
Avevo fretta e quindi cercavo di stringere il discorso: dovevo ancora
vestirmi e Renato era già pronto.
“Va bene” risponde lui.
R. “Ma lei, adesso, da dove telefona?”.
P. “Sono qui, a casa: vado all’ospedale verso le 23”.
R. “Ho capito. Bene, allora vengo domani mattina! Buona sera”.
P. “Buona sera”.
Metto giù la cornetta del telefono, ma qualcosa non va .
La telefonata non ha avuto uno svolgimento normale e tranquillo. Avevo
pressioni esterne che avevano disturbato: l’ansia, la fretta, Renato che
aspettava, Davide col suo latino, Lorenzo ancora in piscina che non era
ancora rientrato per la cena. Mi vesto in fretta e decido: “Renato, mentre
vai a prendere Gloria, io vado a sentire dal signor Pietro come stanno le
cose. Poi passi a prendermi”.
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Vado e suono il campanello del signor Pietro: Una volta. Due volte. Aspetto
ancora un po’ e poi suono una terza volta. Non apre, mentre faccio alcuni
passi per andarmene la porta si apre.
P. “Mi scusi, ma stavo lavandomi!”. Mi dice com’è andata e i suoi timori e la
sua stanchezza.
R. “Senta: io posso venire domani mattina”. Il signor Pietro non se lo lascia
ripetere due volte.
P. “Se mi dice quando viene mi so regolare e posso dire a Marina di non
venire”.
R. “Certo, posso venire alle 8 e restare fino alle 11, 11.30”.
P. “Va bene, così dopo le dà il cambio Marina fino alle 13 e poi vado io”.
Ora sono più tranquilla perché tutto era stato chiarito e organizzato.
Lo spettacolo di Gaber mi sarebbe piaciuto tantissimo.
16 APRILE 1994 – SABATO, ORE 8
Fa freddo e piove. Il signor Pietro mi aspettava.
Entro da Emma quando escono le donne delle pulizie. Vorrei aspettare che
il pavimento si asciughi, ma il signor Pietro mi fa cenno di entrare
ugualmente. Emma è sveglia e mi saluta. Poi il signor Pietro mi saluta.
Durante tutta la mattinata ci sarà un via e vai di infermiere. Si è in tanti e
questo mi rassicura. Emma non avrà momenti di lucidità: tutto è confuso e
le parole non hanno senso logico. Ripete spesso che ha paura.
E. “Ho una paura tremenda” ma non dice di che cosa ha paura.
Ad una allieva infermiera che le provava la pressione confessa di avere
paura. L’allieva rimane lì e ripetutamente continua a chiederle: “Di che cosa
Emma ha paura?”.
Emma tace e guarda terrorizzata, ripetendo: “Ho paura”.
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E l’infermiera li, ferma, immobile a guardarla e a chiedere: “Dica Emma, di
che cosa ha paura?” e aspetta e poi ancora: “Dica Emma: di che cosa ha
paura?” e lo chiede ancora, ancora.
Non ricordo bene quello che Emma ha risposto alla fine, ma ricordo la
risposta seccata dell’allieva: “Quando vuole, lei taglia”.
E. “Cos ’ha detto?”.
Allieva: “Dico che è molto chiara e si capisce quello che vuole dire”.
Prende l’apparecchio della pressione ed esce.
Emma aveva paura di tutto: del male prima di tutto (“non toccatemi, ho
male dappertutto”); degli altri che le potevano procurare male (“se mi fai
male, urlo come un’aquila”), aveva una paura feroce.
Solo se si stava lì, con lei, in silenzio, si poteva dare un significato a quelli
che sembravano vaneggiamenti. Aveva paura di fare male alla bambina.
Aveva paura di essere stata lei la causa del male alla bambina. Aveva
paura di far del male alla mamma e alla bambina. E poi non solo male alla
bambina, ma anche ad altri bambini: parlava di 2 gemelli. Poi mi guarda e
mi dice: “Lo sai, io l’ ho sentito Lorenzo quando ha chiesto a sua nonna:
nonna possiamo mettere il nome Riccardo al fratellino? Io allora l’ ho
sentito e gli ho chiesto: E se è una sorellina, la chiamerai Riccarda? – No –
mi ha risposto – no, Riccarda non mi piace. – Voi, poi, il suo fratellino
l’avete chiamato Davide, ma lui il permesso di chiamarlo Riccardo l’aveva
chiesto”.
( Lorenzo è il maggiore dei miei due figli e Davide il secondogenito).
Così arrivano le undici. Marina arriva e mi da il cambio. Poco dopo arrivano
le due nipoti di Emma. Siamo in quattro nel giro di pochi minuti, mi preparo
per uscire e per salutare Emma.
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E. “Roberta, dimmi la verità: cosa succede, perché sono in tanti?”. E’
frastornata, troppe persone e lei non riesce a distinguere, a focalizzare per
essere presente per tutte.
R. “Io adesso devo andare. E’ arrivata Marina che starà qui con lei. E ci
sono anche le sue nipoti che sono venute a trovarla”.
Piano piano mi allontano, mentre altre tre persone le si mettono vicino al
letto.
Sono a casa verso le 11.30.
Telefono ad Emanuela: “Non ce la faccio a venire con voi al funerale della
madre
di
Luigia:
stasera
vado
da
Emma
e
nel
pomeriggio
devo
organizzarmi un poco. Andrò, poi, in seguito trovare Luigia a casa!”.
Verso le 14 mi telefona il Signor Pietro: “Mi hanno riferito che ha intenzione
ancora di fare la notte?”.
R. “Sì, se lei è d’accordo!”.
Lo sento meravigliato: senza dubbio aveva pensato che avendo fatto il
mattino, avevo rinunciato alla notte. Lo rassicuro: avrei fatto la notte.
16 APRILE 1994 – SABATO, ORE 21
Arrivo da Emma per sostituire Marina. C’è anche il Signor Pietro. Mi
avvisano che Emma è un po’ agitata: ha la sensazione di avere ancora
l’altro braccio: muove il moncone agitandolo in aria mentre con l’altra mano
tenta di togliersi il sondino e a volta anche la fleboclisi.
P. “Adesso vado, ma domani mattina, alle quattro, appena sveglio, vengo
subito qui”.
R. “Può venire anche più tardi. Riposi fin che vuole!”.
P. “Sarà difficile. Non vengo a mezzanotte a fare il giro, ma domani
mattina, alle quattro: così potrà andare a casa presto”. Nell’uscire, quasi in
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modo fugace, sento che mi stringe un braccio quasi a volermi incoraggiare
per la notte o volermi ringraziare. Tina riposerà fin verso l’una e mezza.
Non è un riposo, ma un torpore generale: ogni tanto apre gli occhi, ma poi
li richiude quasi subito; gira la testa. Non chiede, non parla, non si muove.
Ne approfitto per fare tre chiacchiere con Franca: un’infermiera della
vecchia leva, ex mia collega di lavoro. Mi parla dell’ospedale, delle
frustrazioni di questo ambiente: non una tecnologia nuova, non un
aggiornamento; solo routine e turni pesanti.
Poi mi parla del caso di Emma che ha coinvolto tutto il personale; mi parla
della sua volontà e della sua resistenza che ha meravigliati tutti. Mi
manifesta anche la fondata paura che possa succedere l’inevitabile di notte:
“Speriamo capiti di giorno quando c’è più personale. Di notte c’è solo
un’infermiera, e sarebbe veramente dura se capitasse di notte”.
Verso le due Emma si sveglia e rimarrà sempre più tempo con gli occhi
sbarrati a fissare il vuoto riempiendolo di fantasie che la terrorizzano.
Tutto il suo carattere sembra esplodere non franato più da niente: voglio,
ordino, comando, accompagnati da “per piacere” o “grazie”.
Ti fissa con due occhi impazienti, estranei e a volte quasi cattivi e ti dà
ordini, e ti sollecita di fare presto, di muoverti.
E. “Dai, su, per piacere: gira il cuscino! Muoviti! Togli, togli alla svelta” e
sbuffa e ti guarda per vedere se l’ hai capita: devi fare quello che lei si
immagina che tu debba fare.
E. “Alzati, muoviti: solleva la destra, la sinistra; tira qui, lascia lì, su, giù”.
Sono gli ordini secchi che non ammettono replica. E c’è da muoversi, fare
qualcosa e rispondere atono alle sue esigenze.
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E. “Voglio le stelle”. Mi chiede ad un certo punto. Io l’accondiscendo e
fantastico di poterle dare le stelle. Si mette quasi a recitare dei versi dalla
“Tosca”: “…lucean le stelle…”.
Fantastica anche di giocare coi bambini.
E. “Su, su che giochiamo!”.
R. “Che gioco facciamo?”.
Meravigliata mi guarda: “Ma come?- dice – il gioco dei bottoni: una fila di
qua ed una di là; e un filo di plastica giallo per così e un altro azzurro là: tu
tira quello azzurro e così viene anche quello giallo. Io faccio, eseguo, tiro,
mollo e sollevo”. Spesso chiama Clementina e chiede aiuto a lei. E io
divento Clementina e l’aiuto. Ci sono scatole da aprire ed Emma non ce la
fa: Clementina allora l’aiuta e ispeziona le scatole. Tutto poi viene rimesso
a posto nell’armadio. Mi farà togliere la federa ad un cuscino e si farà
mettere il cuscino sotto i piedi. Passerà quasi tutta la notte scoperta: non
sembra sentire il freddo anche se appoggiata al corpo ha solo una camicia
da notte aperta completamente dietro la schiena e una mantellina rosa
appoggiata davanti. Non sopporta le lenzuola.
Le sue gambe, le sue cosce, il suo corpo e il suo braccio sono tutti gonfi.
Solo il viso è magrissimo e il collo scarno. Comunque in certi momenti ha
una forza incredibile: solleva completamente il capo e rimane così,
immobile, ad occhi sbarrati, tesa in avanti, quasi in sospensione. E poi,
quando riesce ad afferrare con la mano il lenzuolo, cerca di metterselo alla
bocca per tirare. La bocca, insieme al braccio sinistro e alle unghie erano i
suoi strumenti operativi, indispensabili per realizzare i suoi progetti: quindi
un braccio forte, delle unghie potenti e dei denti che potavano afferrare,
tirare, aiutare. Nei momenti di maggiore agitazione cerco di tenerle la
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mano e accarezzarla per calmarla un poco, oppure tiro per lei, con forza, il
lenzuolo, il cuscino, la sbarra del letto.
E intanto la notte passa piano, piano. I minuti sono lenti come le gocce
della fleboclisi: i liquidi da introdurre per fleboclisi sono diminuiti; senza
dubbio per il ristagno verificatosi agli arti e su tutto il corpo. Il
“segnanflusso” è sul 20 e la goccia non scende mai: riamane lì, appesa in
sospeso per molto tempo. Anche il mio respiro sembra fermarsi e
riprendersi solo dopo che la goccia è caduta. E poi se ne forma un’altra
piano, piano e, noiosamente, alla fine, cade. E queste gocce, l’una dopo
l’altra, cadono e vanno lungo il tubicino ed entrano in vena e restano in
circolo; non pompate ristagnano nei tessuti e trasudano là in fondo: sul
piede destro ci sono goccioline di liquido trasparente fuoriuscite dalla pelle:
una pelle tesa, lucida, bianca.
Il contenitore dell’urina è quasi vuoto: ne cade qualche goccia solo quando
Emma riesce un pochino a spostarsi sul letto (lo spostamento è di circa uno
o due centimetri al massimo). Tutti i cuscini sono mobilitati: uno sotto la
testa, uno sotto le ginocchia per tenerle piegate, uno contro la sbarra, uno
sotto i piedi e senza federa e l’ultimo sul lato destro del letto. Mi accorgo
anche che sotto la schiena è stata posta una ciambella al silicone.
Il Signor Pietro arriva effettivamente verso le 4 circa del mattino. E’ ancora
notte. Come Emma lo vede sembra rinvigorire i suoi “ordino, comando,
voglio”. E Pietro, pazientemente, esegue e accondiscende.
Quando Emma chiede di essere girata mi guarda, e anch’io lo guardo: E’ un
bel problema – dice lui –bisognerà rifare tutto il baldacchino – e si mette
all’opera togliendosi la giacca e allentandosi la cravatta. Lui si mette da una
parte ed io dall’altra e, piano, piano, la giriamo su un fianco.
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Ne approfitto per sistemare traversa e ciambella. La schiena di Emma è
tutta rigata dalle pieghe della traversa e c’è una medicazione sul fondo
schiena che trasuda. La rimettiamo di nuovo in schiena.
Lo sforzo, anche per Emma è stato grande. Ora sta male ed è tutta agitata.
Sbianca, sgrana gli occhi in cerca di aiuto. Vado a chiamare Franca perché
misuri la pressione e intervenire se il caso. Quando rientro con Franca,
Emma sta migliorando: la pressione è a 110. “Va bene” dice Franca anche
se non comunica la pressione minima. Dopo un po’ Emma chiede di essere
girata sull’altro fianco: ma solo un attimo.
E. “Emma, quanto puzzi!”.
P. “Cos’ hai detto?”.
Lui non ha sentito bene ed Emma non ripete. Io mi preparo per tornare a
casa.
P. “Sarà dura: fino alle 13 non avrò il cambio!”.
Credo anch’io che sarà dura. Saluto Emma ed esco dall’ospedale: durante
la notte era piovuto ed ora si sentiva un odore di resina profumata intorno.
Era ancora buoi: potevo andare aletto e dormire come se la notte dovesse
ancora arrivare.
24 APRILE 1994 – DOMENICA, ORE 17
Emma è morta nella notte tra martedì 19 e mercoledì 20 Aprile, verso
l’una.
Mia madre mi telefona mercoledì dicendo che aveva sentito le campane a
morto e dubita si tratti di Emma.
Io non riesco più a lavorare e questo dubbio mi assilla a tal punto che per
avere più notizie telefono a Don Alberto.
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“Sì, è morta Emma!” silenzio. “I funerali ci saranno domani alle 15”
riprende dopo un po’ Don Alberto credendo di dover comunque dire
qualcosa per rompere il silenzio.
Dopo un tentativo fallito verso le 13, vado di nuovo alla camera mortuaria
dell’ospedale verso le 15 con mia madre e Adriana.
Emma è là in fondo alla cassa: composta, un po’ gonfia in viso. Non riesco
a vedere niente in lei dei tratti visti due sere prima. Non mi sembra Emma.
Piango per la sua sofferenza. Piango perché, dopo l’esperienza di sofferenza
avuta con mio padre, è la seconda persona che mi ha coinvolta
emotivamente fino alla fine.
Incontro anche Marina e mi dice che già domenica, verso sera, Emma
aveva sintomi di precoma.
Tutto mi sembra assurdo, quasi inaspettato. Tutto mi sembra veramente
finito. La testa continua a ronzare e a dolere: non dovrò più fare salti
mortali per organizzarmi e venire da lei; sabato notte potrò dormire e
domenica sarà una domenica normale e non di recupero energie.
E il Signor Pietro? Anche lui dovrà riorganizzarsi; con Emma tutti gli
equilibri erano saltati e lui aveva dovuto rapidamente adattarsi ad una
situazione in tragico dinamismo. Ora l’inevitabile era successo e l’incubo era
finito.
Ma ci vuole tempo, molto tempo per ritornare ad una vita normale; ad un
equilibrio che non è più quello di prima, ristabilire un equilibrio che ci
vede più maturi, più ricchi, più consapevoli.
Lascio la camera mortuaria e sono quasi in strada quando sento Marina che
mi chiama: mi giro e vedo il Signor Pietro che, quasi di corsa, cerca di
raggiungermi. Ritorno verso di lui e piango triste assieme a lui.
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Sarò presente, insieme ai parenti, il giorno dopo, alle ore 10, alla chiusura
della bara e al trasporto presso la Chiesa di Sailetto. La Chiesa si riempirà
di persone verso le 15, per il funerale.
La sua salma viene portata poi al cimitero di Buscoldo, nella tomba della
famiglia di Pietro, vicino alla sua bambina.
Questa mattina ho incontrato nuovamente il Signor Pietro: mi ha chiesto
alcuni indirizzi di famiglie che hanno partecipato al lutto con l’inserzione sul
giornale. Mi riferisce che lunedì erano state sospese tutte le fleboclisi
perché i liquidi, ormai, non venivano più pompati. Solo iniezioni contro il
dolore. Così, lunedì mattina, ha chiuso gli occhi e non li ha più riaperti. E se
al mattino stringeva ancora la mano, poi a poco a poco anche queste
energie venivano consumate e così, piano piano se ne è andata: a
mezzanotte c’era ancora la pressione: 110; po’, ad un giro dell’infermiera,
circa 15 minuti dopo, non veniva più percepito il polso.
R. “Io volevo ringraziarla per la fiducia che mi ha dimostrato lasciandomi
con lei”.
P. “Non voleva nessuno: solo Marina, io e lei (riferendosi a me) e mia
nipote. Davanti agli altri si vergognava: persino davanti a sua sorella. Gli
altri non li voleva. Di lei si fidava ed era contenta quando sapeva che
doveva passare la notte con lei!”.
Queste erano le parole più belle che potevo ascoltare: tutte le mie paure, le
mie apprensioni venivano compensate e gratificate. Avevo avuto una
conferma: io avevo dato la mia disponibilità iniziale, ma ero poi stata scelta
da Emma. Ero stata fra i pochi da lei scelti ad accompagnarla in questo suo
ultimo percorso di sofferenza. Tante persone erano andate da lei: amici,
parenti, “pie donne” come lei le chiamava, ma solo a pochi aveva aperto
la sua anima, solo a pochi aveva affidato le sue paure, la sua
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sofferenza, il suo dolore. Non so se mi capiterà ancora un’esperienza
così intensa, ma sono grata a chi mi ha dato gli strumenti utili per entrare
in empatia con una persona sofferente e nella fase terminale della sua vita.
Forse è presto per trarre conclusioni da questa mia esperienza anche
perché mi sento in una fase di lutto: penso sempre ad Emma, ne parlo
spesso, la idealizzo.
Ritengo sia stato un battesimo, come volontaria dell’Associazione Maria
Bianchi, piuttosto duro: una persona ancora giovane, attiva, piena di
conoscenze, intelligente, provata dalla vita, a volte dura, rude, tagliente,
ma discreta e generosa, decisa e caparbia. Un condensato di contraddizioni
a cui era difficile rapportarsi. E poi, in quattro mesi, il crollo fisico. Non so
se siano state le coincidenze, ma molti aspetti di Emma mi ricordavano mio
padre: chissà, forse questi tratti in comune hanno favorito il nostro
rapporto così profondo, così intimo stabilito in sole quattro notti e una
mattina.
Se penso a tutte le notti che ho dormito e se penso alla ricchezza che mi
hanno lasciato quelle sole quattro notti passate con Emma sento le
vertigini.
Sono arrivata anche alla conclusione che serve poco per vivere se non
riusciamo a stare vicino a chi soffre per morire. Dovrebbe essere uno dei
nostri obiettivi: aiutare e stare vicino a chi sta morendo. Tutti dovrebbero
avere una persona vicino in quei momenti. La solitudine è terribile, ma
morire da soli è ancor più tremendo.
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Autobiografia di Roberta