Fratelli di Gesù LE BEATITUDINI IL VANGELO DELLA FELICITA’ Beati i quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati Nella nostra lettura e meditazione delle beatitudini secondo il testo dell’evangelista Matteo abbiamo già visto diverse caratteristiche generali delle beatitudini. Le beatitudini annunciano il dono escatologico della vita, escatologico nel senso che riguarda la fine, il compimento, la pienezza della vita. L’annuncio che Gesù fa delle beatitudini ha una dimensione eterna, quindi non è semplicemente un contentino che viene dato nella storia, ma diventa l’annuncio di un superamento della storia. Il futuro, che l’autore adopera, indica proprio questa dimensione escatologica. Solo la prima e l’ottava hanno il presente nella causa - «Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli» - mentre tutte le altre hanno il verbo al futuro: «gli afflitti saranno consolati», «i miti erediteranno la terra», «gli affamati (...) saranno saziati», «i misericordiosi troveranno misericordia», «i puri di cuore vedranno Dio», «gli operatori di pace saranno chiamati figli di Dio». I verbi al futuro indicano un compimento che supera la storia: allora potremmo dire che le beatitudini annunciano il paradiso, promettono, garantiscono questa pienezza di vita in comunione con Dio. Questo potrebbe apparire come un discorso di fuga nell’ideale, un abbandono della storia per rifugiarsi in un ideale futuro trascendente. In realtà le beatitudini hanno i piedi per terra, parlano di una realtà concreta di questo mondo, di questa vita, e presentano il Vangelo come una concreta possibilità di vivere in questo mondo; tuttavia non sono chiuse in questo mondo, ma si aprono ad una grande prospettiva che va al di là di questo mondo. Veniamo ora alla quarta beatitudine: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati». Come al solito, la beatitudine è divisa in tre elementi: la proclamazione della felicità, l’indicazione di un tipo di persona e poi l’elemento principale, che viene sempre alla fine, la motivazione, il perché sono beati. Noi, come al solito, cerchiamo di analizzare queste parole per comprenderne il significato più profondo. Andiamo cioè a cercare nella Bibbia delle espressioni analoghe che ci permettano di capire meglio il senso di queste parole. Iniziamo con la prima espressione: chi sono coloro «che hanno fame e sete della giustizia»? Per rispondere alla domanda dobbiamo analizzare gli elementi in due momenti differenti: prima studiamo il simbolo della fame e della sete, poi chiariamo il concetto di giustizia. Avere fame e sete Insieme, questi due verbi «aver fame e sete» non ricorrono frequentemente. In tutto il Nuovo Testamento le ricorrenze sono solo nove ed hanno un significato semplice ed elementare: indicano il desiderio elementare, istintivo, profondo. Indicano il bisogno naturale: la fame e la sete sono bisogni di sopravvivenza, sono elementi connaturati ad ogni creatura e indicano la ricerca di ciò che fa vivere. Noi siamo abituati, nel nostro ritmo quotidiano, a sentire ricorrentemente la fame e la sete e ogni volta che ci togliamo la fame, questa poi torna a farsi sentire e siamo nel ciclo comune, quotidiano, dell’alimentazione. La fame e la sete rispondono a delle esigenze fondamentali di vita, perché è proprio rispondendo a questo bisogno che ci manteniamo in vita. La fame e la sete, nella loro unione, vogliono rappresentare proprio la totalità dell’uomo. Quando si ha fame e quando si ha sete, tutta la persona ne è presa; ironizzando, si potrebbe affermare che è solo una questione di mancanza di cibo o di bevanda - e che cosa mai può significare di fronte alla dignità della persona? Eppure, il corpo, quando ha fame, non ragiona più. Potremmo chiederci che cosa c’entri il mangiare con il ragionare, eppure è tutta la persona, anche nei suoi aspetti più nobili, che viene segnata da questo limite. Fame e sete, quando vengono nominati insieme, dicono un’esigenza profonda e indicano coloro che sono radicalmente presi da un desiderio, da qualcosa di profondo, non di superficiale o di passeggero. È chiaro che questo uso letterale viene poi ampliato ad una valenza metaforica, cioè la fame di cibo, la sete di bevanda diventano un’immagine per dire qualcosa di più grande. Nella Bibbia abbiamo moltissimi esempi di questa fame e di questa sete; vediamone alcuni. Nei salmi troviamo elementi importanti come, ad esempio, nel salmo 42 (41): «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?» Qui è un levita esule, calunniato ed allontanato dal tempio, che rimpiange la sua situazione antica e dice quel dolore profondo, quel desiderio di tornare riabilitato nel tempio, come sete di Dio; sente nella notte un cervo branire perché non ha più trovato l’acqua nel torrente e sente che la sua anima in qualche modo è simile a quell’animale che sta urlando nella notte in cerca dell’acqua: «anche l’anima mia anela, tende a Dio, ho sete di Dio anch’io». Ugualmente, nel salmo 63 (62), si dice: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua» (Sal 62, 2). Io sono una terra desertica, ho sete di Dio, desidero Dio come l’acqua. È un’immagine metaforica, l’orante parte dall’esperienza della sete per esprimere un altro tipo di bisogno; se ci è capitato qualche volta di trovarci d’estate assetati e senza possibilità di bere, sappiamo che cosa significhi la sete e quanto sia pesante l’attesa per potersela togliere. Il profeta Amos adopera anch’egli questa immagine in senso metaforico. Al capitolo 8 scrive: «Ecco, verranno giorni, - dice il Signore Dio - in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare la parola del Signore» (Am 8, 11). Bisogna provare l’assenza del cibo per capire quanto è importante. Certe volte è solo nella malattia che si apprezza la salute. Non è necessario diventare ammalati per capire quanto è bella e importante la salute, non è importante non avere il cibo per capire l’importanza fondamentale che il cibo ha per la nostra vita: il desiderio del cibo e della bevanda sono radicati nella nostra persona come segno del limite, sono elementi che ci spingono oltre, ricordandoci continuamente che abbiamo bisogno di qualcosa di esterno a noi per poter vivere. Il profeta Amos adopera in senso metaforico il concetto di fame a proposito della parola di Dio, il desiderio di ascoltare Dio: quando Dio non parla più, ci si accorge di quanto era preziosa la sua parola. Gesù adopera proprio questa immagine quando, nel capitolo 6 del Vangelo di Giovanni, fa il lungo discorso di Cafarnao ed usa un’espressione originale, che va contro corrente: «Chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete» (Gv 6, 35b), come dire «chi si avvicina a me e mangia di me si toglie la fame». Il problema è quello della perdita del desiderio e noi lo possiamo leggere anche in senso negativo: perdere la fame vuol dire non desiderare più nulla? Perdere la voglia, l’attesa, la tensione verso qualcosa? Si arriva ad un appiattimento? Non è certamente questo che intende dire Gesù. Egli intende dire che solo lui è in grado di soddisfare, di far dire «basta», di realizzare pienamente la persona. Il cibo, anche squisito e abbondante, toglie solo temporaneamente la fame, che poi torna a farsi sentire, poiché siamo prigionieri di questo ciclo che continuamente si ripete come per tutte le realtà terrene: siamo in continuo divenire, non c’è quiete, non c’è realizzazione, non c’è soddisfazione, nulla fa dire «basta». Gesù, al contrario, ha la pretesa di dire «chi crede in me, chi mangia me, si realizza, diventa una persona soddisfatta, che raggiunge pienamente la propria realizzazione». Così pure, nell’Apocalisse, si dice che gli eletti «non avranno più fame, né avranno più sete» (Ap 7, 16); il superamento della fame e della sete è un segno positivo, è il superamento del ciclo del bisogno, è il superamento del limite: in altre parole, significa la realizzazione, la pienezza, la completezza. La giustizia In questa formulazione, dunque, «quelli che hanno fame e sete» sono coloro che desiderano, ma l’originalità della formula è che vi è presente un complemento oggetto: viene detto che hanno fame e sete della giustizia, desiderano la giustizia. Questa è una formulazione unica, non si trova altrove. Cerchiamo allora di capire il concetto di «giustizia» Non è risolvibile mediante la consultazione di un dizionario della lingua italiana; non si tratta di un linguaggio filosofico greco; non riguarda l’amministrazione del diritto, non ha niente a che fare con il sistema giudiziario; non significa neppure il semplice «dare a ciascuno il suo», secondo la classica definizione. Nel linguaggio del Nuovo Testamento questo termine è appannaggio quasi esclusivo di San Paolo, che lo adopera 57 volte; Marco non lo usa affatto; Luca una volta; Giovanni due; Matteo lo usa sette volte. Da una parte, secondo un’interpretazione umana, la giustizia dell’uomo sarebbe l’agire secondo una norma retta e valida: è il «buon comportamento». Distinguiamo allora «giustizia di Dio» e «giustizia dell’uomo»; in che senso, infatti, possiamo parlare di giustizia di Dio come «buon comportamento di Dio»? In che cosa può consistere? Consiste nell’essere fedele alla sua promessa di salvezza: Dio si è impegnato, si è rivelato come il salvatore, come colui che interviene nella storia per dare la salvezza, per realizzare la vita umana. Giustizia di Dio significa quindi mantenere la parola, fare quello che ha detto, per cui la giustizia, per Dio, è sinonimo di redenzione, di salvezza. Infatti Paolo parla della «giustificazione»: la giustizia di Dio si rivela nel rendere l’uomo giusto, noi diremmo «nel mettere l’uomo nella giusta relazione con Dio», nella riconciliazione tra cielo e terra, tra Dio e l’umanità. La giustizia dell’uomo diventa allora la conformità al volere di Dio: è giusto colui che compie la volontà di Dio, che accoglie il progetto di Dio e gli risponde in modo positivo. Proviamo però a vedere in Matteo, concretamente, perché così forse il concetto risulta più chiaro. Per ben due volte questo termine compare nelle beatitudini: in questa che stiamo esaminando e nell’ultima «Beati i perseguitati a causa della giustizia, (...)». Cerchiamo di capire seguendo il ragionamento secondo la domanda di base, cioè chiedendoci chi sono gli affamati della giustizia. Prima di rispondere dobbiamo cercare di capire cos’è la giustizia. Quando Gesù si presenta a Giovanni Battista al Giordano, Matteo racconta che Giovanni non vuole battezzarlo dicendo «sono io che devo venire da te»; ma Gesù gli obietta: «Lascia fare per ora, poiché conviene che così adempiamo ogni giustizia» (Mt 3, 15). Evidentemente, in questo contesto, il concetto di giustizia significa progetto di Dio, volontà divina: «è bene che compiamo questo progetto; tu, con la tua testa, stai pensando a qualcosa di diverso ed è bene invece che tu adesso lasci fare. Non ti sembra corretto, hai un’altra proposta, invece è bene che entrambi compiamo la giustizia, cioè facciamo la volontà di Dio». Così, nel discorso della montagna, Gesù adopera un’espressione molto forte, che è il cardine di tutto questo discorso e dice: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20). In questo caso, la spiegazione data prima non regge, in quanto qui non si può parlare di volontà di Dio. Ancora: «Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati» (Mt 6,1); il testo italiano non usa, come invece l’originale greco, l’espressione «la vostra giustizia», che traduce con «buone opere», e questo può aiutarci a capire. Sostituendo «buone opere» a «giustizia» nella precedente citazione, si legge: «Se le vostre buone opere non superano quelle degli scribi e dei farisei, (...)», resta da capire cosa significhi «superare». Il significato non può essere certamente inteso in senso quantitativo e neppure nel senso di «giustizia migliore». È evidente invece che il riferimento è proprio alla relazione con Dio: l’opera buona, la giustizia, l’atteggiamento della persona è fondamentale nella valutazione. Non è il fatto in sé che è determinante, ma lo è la relazione con Dio: la nostra giustizia è la buona relazione con Dio, l’amicizia con lui, che è la radice delle azioni. Allora, la radice di ogni opera buona non è la mia capacità, la mia bravura, perché spesso nasconde il mio orgoglio, la mia presunzione, la mia autosufficienza. Piuttosto, la radice della mia vita è la buona relazione con il Padre: questa è la «giustizia» di cui parla Gesù e che, in qualche modo, può essere detta la volontà di Dio, ma sempre potrebbe essere spiegata con la buona relazione con Dio. Vedete che il discorso ci ha portato lontano rispetto alla parola: per questo dicevo che un dizionario della lingua italiana non ci aiuta, in quanto si tratta di un concetto «tecnico», che fa parte di un certo contesto culturale e religioso ed ha bisogno di essere interpretato. «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6, 33). Anche questo testo ci aiuta particolarmente, poiché la giustizia viene messa in stretta connessione con il regno di Dio: «Cercate il regno di Dio e la sua giustizia» è un’altra formulazione della stessa beatitudine, in quanto coloro «che hanno fame e sete della giustizia» sono quelli che cercano il regno di Dio e la sua giustizia innanzitutto, per prima cosa, tutto il resto viene dato in più. Vediamo il contesto concreto in cui Gesù lo dice: «Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito?» (Mt 6, 25). Anche qui ritorna l’immagine soggiacente della fame con il problema del cibo, che diventa una preoccupazione; viene aggiunta l’altra preoccupazione, quella del vestito, problema certe volte essenziale del coprirsi, del riscaldarsi, del difendersi. «Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6, 3133). Ci aiuta a capire che cosa intende Gesù per «giustizia»: è la caratteristica del regno di Dio. Proviamo a ripetere la formulazione di prima: «Cercate il regno di Dio, cioè la buona relazione con Dio, e tutto il resto verrà di conseguenza»; così funziona. La giustizia del regno di Dio è la buona relazione con lui che è re, re di qualcuno: cercate innanzitutto la relazione personale con Dio, il resto viene di conseguenza. Proprio perché Dio è tuo Padre, conosce i tuoi bisogni e vuole il tuo bene tu puoi non affannarti, puoi non essere preoccupato, puoi cercare dell’altro; non ossessionato dalla fame e dalla sete, puoi desiderare la giustizia, puoi dedicarti a dell’altro, puoi allargare il tuo orizzonte, puoi. Tutto questo si connette bene con la proclamazione della beatitudine: «Beati quelli che desiderano la giustizia». Dunque noi scegliamo senza dubbio il senso di giustizia divina, piuttosto che di giustizia umana»; non avrebbe senso, infatti, dire «Beati quelli che desiderano essere giusti», oppure «Beati quelli che desiderano che venga loro fatta giustizia». Sarebbe come se parlassimo dei condannati ingiustamente, dei calunniati: «Beati coloro che si aspettano un intervento di giustizia»; ci porterebbe fuori strada perché non è il linguaggio che abbiamo trovato nel discorso della montagna. La giustizia è quella di Dio, è la realizzazione delle promesse, è la sua volontà, è la sua buona relazione. Non è neanche la beatitudine di chi vuole comportarsi secondo le norme rivelate da Gesù: la beatitudine non riguarda quelli che «vogliono comportarsi bene», hanno fame di giustizia, vogliono essere giusti. Riguarda invece coloro che desiderano la relazione con Dio, è un impegno deciso a favore di Dio: un impegno, un desiderio, una scelta, una tensione profonda perché esista questa buona relazione con Dio, perché la volontà di Dio si compia. Dietro a questa beatitudine noi intravediamo la preghiera del «Padre nostro», che è la preghiera di Gesù: «Sia fatta la tua volontà», «Venga il tuo regno», «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia». Gesù ci ha insegnato a porre all’inizio, come elemento fondamentale della nostra preghiera, questa relazione con il Padre e il desiderio che venga il suo regno, cioè che sia fatta la sua volontà, che si realizzi il suo progetto di salvezza. Essere saziati «Fame e sete» dicono un desiderio profondo, radicale, ma cambiando l’oggetto abituale diventa una liberazione dall’incubo del limite: è la liberazione della persona che trova veramente la sua realizzazione, oltre al cibo e alla bevanda. Difatti, tutta l’attenzione, come sempre, cade sulla motivazione: perché sono beati quelli che cercano la volontà di Dio? Perché saranno saziati. La beatitudine non sta nel cercare, nel desiderare, nell’aver fame, ma sta nella causa, cioè nella promessa di Dio «saranno saziati», futuro passivo che, come in altri casi, è un «passivo divino», cioè nasconde l’azione di Dio. Proviamo a parafrasare: «saranno saziati» significa «Dio li sazierà». È una promessa che riguarda il futuro, indica un’azione escatologica di Dio, rientra nella prospettiva del paradiso, è la promessa del compimento della vita oltre la morte. Ma non è solo quello, è un annuncio che si realizza già nel presente: Dio, garantendo di saziare, garantisce la vita. Come per la sopravvivenza è necessario mangiare - il cibo e la bevanda sono fondamentali per la vita - così Dio garantisce di dare ciò che serve per la vita. Ed è fondamentale per la nostra vita questa relazione buona. Tante volte parlando con ragazzi e giovani, magari in crisi con i genitori, se si azzarda un discorso di questo genere: «Pensa a ciò che i tuoi genitori ti hanno dato», spesso la reazione è negativa; hanno usufruito di tanti beni, di tante cose, hanno mangiato e bevuto di tutto in casa, però poi si lamentano di non avere avuto quella parola buona, quella relazione buona. Ci accorgiamo anche noi come le cose non ci soddisfino, siamo in una fase della nostra esistenza consumistica nella quale gli oggetti superano i nostri desideri, - abbiamo di più di quello che possiamo desiderare e usare - e cominciamo ad accorgerci che queste cose non sono sufficienti. Non è un discorso semplicemente moralistico, è un’occasione buona per riconoscere che la nostra persona ha bisogno di più, è quella relazione con un’altra persona, è quella parola buona che ad un certo punto ci fa molto più piacere di un regalo. È un po’ come se si ricevesse un regalo dato male, per cui si preferirebbe una buona parola senza nessun oggetto, ma data in un altro modo. Non è l’oggetto o il suo valore, ma è la relazione che si instaura fra le persone: si può ricevere anche un oggetto di valore, ma che non ci fa piacere perché ci viene dato da una persona con cui non c’è relazione, oppure quell’oggetto può nascondere dei secondi fini. Allora comprendiamo come la relazione sia più importante, soddisfa di più, sfama, sazia. Dio propone proprio la sua persona come capace di saziare; non viene detto che verrà saziato con degli oggetti, ma che verrà saziato con la giustizia. Colui che ha fame e sete di giustizia sarà soddisfatto raggiungendo la giustizia, cioè la buona relazione con Dio. La sazietà, la pienezza di vita, chiamiamola soddisfazione personale piena e definitiva, viene raggiunta nell’incontro con Dio, anticipato in questa vita e pieno ed eterno oltre la morte. La beatitudine degli «affamati» è una garanzia che Dio ci offre: dal momento che egli si propone come colui che ti sazia, tu sei fortunato, puoi aspirare a questa relazione profonda con lui mettendo in secondo piano gli altri bisogni, perché il Padre pensa a te, provvede a te. Proprio perché sei al sicuro sei fortunato; la beatitudine sta nel fatto di essere garantito dal Padre. Chi ha una responsabilità di famiglia sente come i figli siano fortunati dal momento che hanno chi pensa a loro e possono perciò occuparsi di altro. Il paragone può funzionare ad un livello superiore: «Puoi cercare il regno di Dio e la sua giustizia perché il Padre ti garantisce di provvedere a te, garantisce che la sua relazione ti sazierà». Concludo con un versetto di salmo che ritengo decisivo per capire la nostra beatitudine; probabilmente è alludendo a questo versetto che Gesù ha coniato questa formulazione. Si tratta della preghiera di un innocente perseguitato, quindi uno che desidera che gli venga fatta giustizia e, dopo aver chiesto che il Signore intervenga, conclude così: «Ma io per la giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua presenza» (Sal 16, 15). L’orante è sicuro di contemplare il volto di Dio: «per la giustizia, per la tua giustizia, in virtù della tua promessa, per il fatto che tu mantieni la parola data, io sono sicuro che contemplerò il tuo volto ed al risveglio, - adesso sono nella notte, sto vivendo come un brutto sogno, in una situazione tremenda - al risveglio mi sazierò della tua presenza. Ma c’è di più: questo risveglio allude all’alba definitiva, al risveglio nella risurrezione, a quando aprirò gli occhi nella dimensione dell’eternità, «al risveglio mi sazierò della tua presenza», mi sazierà la tua presenza, sarò soddisfatto e realizzato perché sarò alla tua presenza, sarò in compagnia con te, sarò profondamente unito a te. È questa la sicurezza che muove il credente. Nella beatitudine del Vangelo noi troviamo la ripresa di Gesù, perché le preghiere dei salmi sono la preghiera di Gesù. Gesù esprime il proprio atteggiamento nei confronti del Padre, totale fiducia, pieno affidamento, è Gesù che dice al Padre: «Sono sicuro che al risveglio mi sazierò della tua presenza». E diventa la nostra certezza di cristiani che continuiamo a vivere l’esperienza del Cristo: beati noi che abbiamo fame e sete, desideriamo profondamente la buona relazione con Dio, perché Dio ce la offre, ci regala la sua presenza che, al risveglio, ci sazierà in pienezza.