Alfabetizzazione: perno dell’educazione per tutta la vita Elena Marescotti Università degli Studi di Ferrara 22 febbraio 2011 Alcuni assunti di fondo: alfabeto, scuola, educazione permanente Se per educazione permanente intendiamo la durata dell’educazione lungo tutto l’arco di vita dell’individuo, di tutti gli individui, e la sua estensione in tutti i luoghi in cui si svolge la sua esistenza, diventa fondamentale concentrarci sulle basi che possono garantire questo infinito dispiegarsi del processo educativo. La principale tra queste è l’alfabetizzazione, e con essa la scuola, intesa come luogo sistematico di educazione, di raffinamento di capacità razionali che trovano nel possesso sempre più sicuro dell’alfabeto – nei suoi vari livelli – lo strumento cardine. La prima sfida che si pone all’educazione permanente e, in particolar modo all’educazione degli adulti, è quella che si intreccia al ruolo e alla funzionalità della scuola come situazione in cui – per mezzo del lavoro dell’insegnante – tutti gli individui devono essere avviati al cammino della conoscenza. Ne deriva che la qualità della professionalità docente, unitamente alla qualità dell’impianto istituzionale e organizzativo del sistema scolastico, si aggancia quindi alle reali possibilità di pensare all’educazione degli adulti come al necessario permanere dell’ideale educativo ben oltre la situazione scolastica, in cui ha preso avvio ed è stato accuratamente coltivato. Dalla scuola all’educazione degli adulti La scuola rappresenta per l’educazione degli adulti la base più solida e il presupposto (logico e teorico di fondo, in primis, così come anche a livello di sostanziale efficacia) degli apprendimenti di cui l’adulto potrà fare esperienza in molteplici ed eterogenei contesti. E questo perché nel continuum dell’educazione permanente, la scuola rappresenta un momento estremamente significativo, cruciale: essa è (e dovrebbe sempre essere) una «officina di metodo», ove si costruiscono «conoscenze generative» e «conoscenze euristiche»[1]. [1]. Cfr. F. Frabboni, Sognando una scuola normale, Palermo, Sellerio, 2009, p. 90. Scuola Educazione permanente e degli adulti Una propedeuticità necessaria Non ci può essere vera educazione degli adulti, dunque, se non c’è stata, prima, una vera scuola. E questa affermazione solo apparentemente collide con una lunga storia di educazione degli adulti, per larga parte tuttora in corso (e necessaria), intesa come recupero e compensazione di una scuola che non c’è stata o c’è stata a intermittenza o, ancora, di una scuola dall’identità debole sul piano cognitivo e metacognitivo. Infatti, a ben vedere, non si può non rilevare quanto ciò testimoni il fatto, al fondo, che la scuola non può mai essere bypassata e che, in nome di questa necessità, si sia disposti a dar luogo a situazioni faticose e forzate nel loro anacronismo ma che sono ineludibili, come “tornare sui banchi di scuola” o, magari, sedervisi per la prima volta, anche se anagraficamente adulti La consapevolezza di quanto avviene nell’oltrescuola, dei bisogni di formazione continua e ricorrente, del raccordo tra conoscenze/competenze maturate e acquisite, realtà del lavoro ed effettivo esercizio della cittadinanza attiva, consente di “retroilluminare” l’universo scolastico e di porre maggiormente in evidenza tutti quegli aspetti che fanno della scuola esperienza di vita e esperienza di preparazione alla vita al tempo stesso, considerando in maniera più ampia, perché prospettica, e più in profondità il ruolo e il lavoro educativo dell’insegnante. Da ciò deriva una innegabile valorizzazione dell’insegnante, la cui funzione viene esplicitamente ad essere considerata in termini di continuità, di progettualità e, non ultimo, di vera e propria propedeuticità alla vita adulta. Ma ne deriva, anche e necessariamente, il bisogno di valorizzare e potenziare il suo iter formativo, di irrobustirne il momento iniziale e di approntarne coerentemente gli aggiornamenti, su più versanti: quello culturale in senso lato, quello disciplinare specifico, quello metodologico e di ricerca, quello comunicativo-relazionale, ma anche linguistico, tecnologico e organizzativo, tutti aspetti, questi, da orchestrare in quella prospettiva di Scienza dell’educazione che costituisce la peculiarità professionale di ogni insegnante degno di tale nome. È evidente che non si sta andando in questa direzione: la politica ministeriale italiana degli ultimi tempi – pur prendendo atto di come la qualità o non qualità della scuola, e quindi degli insegnanti, sia gravida di ripercussioni sullo stato di più o meno “piena adultità” della vita del nostro Paese – agisce, in questo settore, al pari di altri, puntando “al ribasso”: sospensione e, di fatto, chiusura della SSIS (Scuola di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario) [1]. [1]. Cfr. la Legge n. 133 del 6 agosto 2008, comma 4 ter. Paradosso: proprio quando, da più parti, si invocano l’educazione e la formazione permanente, enfatizzate più che mai, lamentando al contempo le gravi lacune degli adulti di oggi, si vanno ad intaccare le fondamenta su cui quell’educazione e formazione permanente debbono innestarsi, attecchire e svilupparsi. È chiaro che ciò che più interessa è una funzionale conformazione alle esigenze politiche ed economiche del momento, ed è altrettanto chiaro che, di là di quanto proclamato, tanto la scuola militante quanto il settore dell’educazione degli adulti (laddove rifiutano questi intenti e toccano con mano la necessità di promuovere conoscenze e competenze forti e durature) operano “controcorrente”, per non dire in una situazione di “resistenza” Alcuni dati sull’analfabetismo degli adulti oggi… e domani Come è noto, una delle funzioni storiche dell’educazione degli adulti, in senso moderno – non l’unica, ma sicuramente la più massiccia – è quella della lotta all’analfabetismo, una funzione, cioè, che dovrebbe spettare alla scuola. E si tratta di una lotta che non solo non può dirsi conclusa, tutt’altro, ma che addirittura, nella nostra contemporaneità e anche laddove l’analfabetismo di base sembrerebbe pressoché del tutto debellato – dalla scuola, appunto – va urgentemente rinvigorita, a fronte di “nuovi” e dilaganti analfabetismi, paradossalmente “generati” anche dalla stessa scuola. a) analfabetismo strumentale (nel mondo) Si tratta di una situazione che, ancora per lungo tempo, ipotecherà l’educazione degli adulti come recupero, compensazione e, di fatto, come forma, sia pure adattata, di educazione scolastica: le ricerche elaborate dall’Istituto di Statistica dell’UNESCO, in particolare il Global Age Specific Literacy Projections Model (GALP), ci consegnano, a livello mondiale, un numero totale di analfabeti adulti di 677.857.600 per l’anno 2010 e di 657.259.300 per l’anno 2015[1]. Proiezioni, queste, che non possono non essere lette senza il riferimento ai dati più recenti relativi al tasso di scolarizzazione, secondo i quali, nell’anno 2007 e sempre su scala mondiale, 71.791.000 bambini e 71.033.000 adolescenti risultano non scolarizzati rispettivamente per la scuola primaria e per il primo ciclo di scuola secondaria[2]. [1]. Cfr. Statistiques Internationales sur l’alphabétisme: exsamen des concepts, de la méthodologie et des données actuelles, Institut de Statistique de l’UNESCO, Montréal, 2008, p. 46. Occorre inoltre precisare sia che tali dati si riferiscono alla popolazione dai 15 anni d’età in poi, sia che il significato di alfabetizzazione assunto in tali ricerche è quello relativo alla capacità “de lire et d’écrire, en le comprenant, un exposé simple et bref de faits en rapport avec la vie quotidienne” (UNESCO, Liens entre les initiatives globales en matière d’éducation. L’éducation pour le développement durable en action, Dossier technique no. 1, Paris, UNESCO, 2005, p. 64). [2]. Cfr. Adolescents non scolarisés, Institut de Statistique de l’UNESCO, Montréal, 2010, p. 11. b) analfabetismo strumentale (in Italia) Dalle stime dell’UNESCO per l’anno 2008 emerge un tasso di alfabetizzazione degli adulti del 98,8% e di alfabetizzazione dei giovani del 99,9% che, in numeri assoluti, corrispondono alla presenza, rispettivamente per le due categorie anagrafiche, di 619.460 e di 5.921 analfabeti[1]. [1]. Istituto di Statistica dell’UNESCO in http://stats.uis.unesco.org. Già l’Istat, in occasione del censimento del 2001, aveva evidenziato, relativamente alla popolazione residente in Italia a partire dai 6 anni di età, 782.342 analfabeti e 5.199.237 alfabeti ma privi di alcun titolo di studio (cfr. ISTAT, Annuario statistico italiano 2008, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2008, p. 669). b) analfabetismo funzionale In prospettiva educativa, il senso dell’alfabetizzazione travalica, infatti, il semplice e pedissequo esercizio di traduzione in/da un codice e, pure, la già più raffinata abilità di comprensione dei significati del messaggio, giacché comporta altresì: la capacità di analizzare e di riflettere sui vari livelli di significato del messaggio, cioè di utilizzare l’alfabeto come strumento non solo di acquisizione di conoscenze (intese come semplici asserzioni-prodotto) ma anche e soprattutto come strategia per lo sviluppo e l’invenzione di meta-conoscenze (intese come conoscenze-processo); la capacità di capire le conseguenze delle conoscenze e delle meta-conoscenze acquisite sui comportamenti, ovvero la loro incidenza e, talvolta, la loro prescrittività performativa; la capacità di decidere se considerare o meno tali conseguenze come fattibili, perseguibili e, non ultimo, auspicabili; infine, la volontà, cioè la disposizione consapevole e intenzionale, di considerare tutti questi aspetti come strettamente interconnessi e rilevanti per la gestione e la partecipazione alla vita comunitaria, dimensioni, queste, che si esplicano mediante la dimensione politica e la dimensione professionale e che provengono/portano dalla/alla identità adulta dell’individuo e, allegoricamente parlando, di tutta una società. c) 6 categorie a rischio 1) alfabetizzati (ma comunque a rischio alfabetico); 2) analfabeti di fatto (coloro che non posseggono alcun titolo di studio e non sanno né leggere né scrivere); 3) illetterati (che pur possedendo un minimo repertorio di lettura e scrittura non sono in grado di utilizzare il linguaggio scritto per ricevere o formulare messaggi); 4) analfabeti di ritorno (esposti al rischio di regresso, laddove tali capacità non siano state esercitate); 5) semianalfabeti (possessori del solo titolo di licenza elementare, che nella nostra società corrisponde a minime possibilità di inclusione sociale e culturale); 6) analfabeti funzionali (che non sanno esercitare le abilità di base per poter esprimere il loro diritto di cittadinanza)[1]. [1] Cfr. B. Schettini, Tanti analfabetismi anche oggi. La situazione italiana e le risposte a un problema che non si risolve ancora, in http://www.bdp.it, 19 luglio 2005. d) analfabetismo funzionale: alcuni dati Secondo la ricerca Ials-Sials (Second International Adult Literacy Survey), sviluppata dall’Oecd-Ocde in due successive tornate tra il 1994 e il 2000, il 34,6% della popolazione italiana nella fascia d’età 1665 anni, non supera il primo livello di competenza alfabetica funzionale (“soggetti che possiedono una competenza estremamente debole, ai limiti dell’analfabetismo”). Se a questo dato, poi, sommiamo quello relativo a coloro che si arrestano al secondo livello individuato (“soggetti che possono leggere testi molto semplici, ma hanno difficoltà nell’affrontare nuovi compiti e nell’apprendere nuove competenze professionali”) la percentuale supera addirittura il 60%[1] [1]. Cfr. V. Gallina, L’analfabeta globalizzato, in “Italiano e oltre”, n. 1/2001, pp. 38-43. Da questa breve rassegna statistica e riflessione sulla portata dell’analfabetismo e sulla progressiva dilatazione del suo campo semantico oggi, non può che emergere con forza la necessità, ineludibile e non surrogabile, di investire sulla scuola In questo stato di cose, un duplice fraintendimento – costringe l’educazione degli adulti, impedendole di decollare per quello che essa veramente è e dovrebbe essere: - prosecuzione dell’educazione oltre la scuola; - ulteriore fase nel cammino di perfezionamento dell’individuo; - esercizio di un’adultità in divenire al banco di prova della responsabilità sociale, politica, lavorativa; - esperienza di svariate e flessibili occasioni di: crescita personale trasformazione degli orientamenti esistenziali scoperta e coltivazione di interessi e motivazioni affermazione e gratificazione conoscenza e informazione scelta e azione effettiva partecipazione alle sorti del vivere collettivo. 1° fraintendimento dell’EdA Logica dello “scaricabarile”: possibilità, teorica e pratica, di continuare ad apprendere al di fuori e oltre la scuola, nell’ambito del lavoro e nel tempo libero, anche grazie alla “celerità” e alle “scorciatoie” oggi facilmente rese disponibili dalle sempre più onnipresenti ed evolute tecnologie informatiche (in particolare i cosiddetti self-media) Questo spinge a rimandare, a rinviare ad un indefinito tempo futuro il conseguimento di quelle conoscenze e di quelle competenze la cui mancanza, a ben vedere, è all’origine di ricorrenti, e sempre più difficili da sanare, ritardi. Si tratta di un perverso effetto del discorso sull’educazione permanente, così finalizzata ad «alleviare la tensione che si produce nella scuola man mano che diventa sempre più evidente che questa istituzione non fa ciò per cui afferma di esistere»[1]. [1]. G. Rossetti, L’educazione permanente tra innovazione e ripetizione, in M. Gattullo, A. Visalberghi (a cura di), La scuola italiana dal 1945 al 1983, Firenze, La Nuova Italia, 1986, p. 224. 2° fraintendimento dell’EdA Intendere il lifelong learning pressoché totalmente assorbito dalle esigenze del mercato del lavoro. Quello della professionalizzazione precoce è diventato anche il criterio regolativo delle riforme scolastiche che, negli ultimi anni, hanno interessato la scuola secondaria superiore (cfr. alcuni indirizzi del canale liceale e, soprattutto, il canale degli istituti tecnici e professionali) Progressiva erosione del segmento finale della scuola da parte dell’oltrescuola: precorrendo ciò che verrà dopo e che deve venire dopo la scuola, si trasforma quest’ultima nell’anticamera diretta di determinati mestieri e professioni. In linea di massima, i tentativi profusi negli ultimi tempi mettono in ombra le istanze formative proprie della scuola, sbilanciandosi prematuramente sull’acquisizione di competenze particolaristiche a scapito del maturo conseguimento di competenze generali – trasferibili, declinabili, contestualizzabili, modificabili – che devono, appunto, connotare la scuola. È un quadro, questo, ulteriormente aggravato dalla conferma dell’obbligo formativo dal quindicesimo al diciottesimo anno di età (che, potendo essere assolto al di fuori dell’istituzione scolastica, ha fatto “tornare indietro”, dai 16 ai 14 anni d’età, l’obbligo scolastico)[1], in cui i problemi principali, allora, sono sostanzialmente due: - il fatto che la scuola secondaria di secondo grado non rientri necessariamente nell’assolvimento dell’obbligo formativo - e il fatto che essa, comunque, sia sempre più chiamata a svolgere compiti professionalizzanti in senso stretto. [1]. Cfr. la Legge 6 agosto 2008, n. 133, art. 64, comma 4 bis. Al riguardo, è infine interessare ricordare e riprendere una “supposizione futurologica” riguardante il rapporto tra educazione, scuola e mondo del lavoro elaborata da Torsten Husén: L’educazione generale e la formazione professionale saranno sempre più interconnesse, soprattutto perché non sarà più possibile prevedere quali specifiche conoscenze professionali saranno necessarie nel futuro. Paradossalmente, l’educazione generale (intesa come possesso di una serie fondamentale di capacità e conoscenze) costituirà la forma migliore di addestramento professionale. La scuola di base starà a fondamento della rieducabilità[2]. Quel futuro è arrivato, dispiegandosi nei termini prefigurati… ma lo stesso non può dirsi per l’assetto della scuola, ridimensionata tanto nel segmento di base e dell’obbligo, quanto a quel livello “superiore” che, proprio in virtù dell’articolarsi proteiforme del concetto di alfabetizzazione nella nostra società, non può che essere anch’esso considerato “di base”. [2]. T. Husén, Le nuove direzioni, in K. W. Richmond (a cura di), Educazione permanente nella società aperta. Fondamenti teorici e pratici, Roma, Armando, 1974, p. 87. Non si può attingere per abbrivio, sic et simpliciter, al dominio del metacognitivo, della strategia concettuale, della flessibilità, senza passare attraverso un processo consapevolmente e competentemente guidato di costruzione della conoscenza, di graduale padronanza dei suoi meccanismi e, non ultimo, di progressiva maturazione, in senso etico-civile, del suo valore e delle sue direzioni d’uso. Insomma, il rafforzamento della scuola e, in prospettiva dell’educazione degli adulti, degli influssi di questa a largo raggio, richiede una decisa inversione di rotta, giacché non si può certo pensare di continuare a lungo in quella prospettiva di “controtendenza” e di “resistenza” cui si è accennato. La cittadinanza attiva non si improvvisa, dunque, si impara, si acquisisce prima di tutto come abito mentale. Ma perché il concetto che incarna non si riduca ad un simulacro svuotato di senso e di effettività, occorre che ogni individuo sia in grado di padroneggiare con competenza gli strumenti del comprendere, del comunicare, del riflettere, dell’elaborare e del restituire. Conclusioni L’uomo, il cittadino dell’educazione permanente, infatti, «è un uomo incompiuto che ha coscienza della propria incompiutezza. Sapendo che non gli è lecito ritirarsi sulla montagna, non cessa di operare nel mondo affinché il mondo sia opera sua»[1]. [1]. R. De Montvalon, Un millard d’analphabètes. Le savoir et la culture, Paris, Éditions du Centurion, 1965 ; tr. it. Un miliardo di analfabeti. Il sapere e la cultura, Roma, Armando, 1966, p. 170