F. TOTTOLA A. ALLEGREZZA M. RIGHETTI
NUOVO CORSO
DI CHIMICA
Materiali ExtraGuida
Proposte di letture integrative
Proposte di attività multidisciplinari
MINERVA ITALICA
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materiali extraguida
Letture integrative
La lingua dei chimici
Rappresentare la realtà
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La chimica nasce dall’alchimia?
5
La spettrometria di massa
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L’aurora polare
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La catastrofe ultravioletta
7
Le terre non-così-rare
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I neoceramici
9
Anomalie di un liquido
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L’entropia
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Catalisi di superficie
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Il protone in soluzione acquosa
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Un deposito per le scorie nucleari in Italia
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Bombe atomiche tra le nuvole
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Il tetrazoto
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Composizione e proprietà degli imballaggi metallici
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L’antimateria
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Il controllo della fusione nucleare
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La siderurgia
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I noduli manganesiferi
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La Terra: stabilimento chimico
19
Le leghe metalliche che hanno memoria
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Rilascio, trasporto e solubilità di platino e palladio nell’ambiente
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La chiralità: la natura, l’uomo, le sintesi stereoselettive
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Il carbonio: l’elemento della vita
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Polipropilene isotattico
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Materiali plastici biodegradabili
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Polimeri conduttori
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Il segreto dell’oracolo
23
Le impronte digitali delle proteine
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I mezzi di informazione
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Il metano dà una mano... ai gas serra
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Catturare i gas serra
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Il killer è l’ozono
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Il segreto del ragno
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proposte di letture integrative
La
lingua dei chimici
la lingua
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Quando
Quandoero
in chimico
servizioineffettivo
servizio effettivo
soffrivosoffrivo
caldi, geli
caldi,e geli
pau-e
paure, e non avrei mai pensato che, dopo il distacco dal mio
re, e non
avrei mai
che, dopo
il distacco
dal
vecchio
mestiere,
avreipensato
potuto provarne
la nostalgia.
Invece
avviene, nei momenti vuoti, quando il congegno umano gira
miofolle,
vecchio
avrei
povuto avviene, grazie al
in
comemestiere,
un motore
al minimo:
singolare potere filtrante della memoria, che lascia
sopravvivere i ricordi lieti e soffoca lentamente gli altri. Di
recente ho rivisto un vecchio compagno di prigionia e
abbiamo fatto i discorsi dei reduci; le nostre mogli si sono
accorte, e ci hanno fatto notare, che in due ore di colloquio
non avevamo rievocato un solo ricordo doloroso, ma
soltanto i rari momenti di remissione, o gli episodi bizzarri.
Ho davanti a me la tabella degli elementi chimici, il “sistema
periodico”, e provo nostalgia, come davanti alle fotografie
scolastiche, i compagni di scuola col cravattino e le
compagne con la vereconda tunica nera: “ad uno ad uno
tutti vi ravviso...” Delle lotte, sconfitte e vittorie che mi
hanno legato ad alcuni elementi, ho già raccontato altrove;
così pure, del loro carattere, virtù, vizi e stranezze. Ma
adesso il mio mestiere è un altro, è un mestiere di parole,
scelte, pesate, commesse a incastro con pazienza e cautela;
così, per me anche gli elementi tendono a diventare parole,
invece della cosa mi interessa acutamente il suo nome e il
perché del suo nome. Il panorama è un altro, ma altrettanto
vario quanto quello delle cose stesse.
Ognuno sa che gli elementi “per bene”, quelli esistenti in
natura, sia sulla Terra, sia negli astri, sono novantadue,
dall’idrogeno all’uranio (veramente, quest’ultimo ha perso
negli ultimi decenni un po’ della sua buona fama). Ebbene i
loro nomi, passati in rassegna, costituiscono un mosaico
pittoresco che si estende nel tempo dalla lontana preistoria a
oggi, e in cui affiorano forse tutte le lingue e le civiltà
dell’Occidente: i nostri misteriosi padri indoeuropei, l’antico
Egitto, il greco dei greci, il greco dei grecisti, l’arabo degli
alchimisti, gli orgogli nazionalistici del secolo scorso, fino
all’internazionalismo sospetto di questo dopoguerra.
Incominciamo la rassegna da due degli elementi più noti e
meno esotici, l’Azoto e il Sodio. I loro simboli internazionali,
e cioè la singola lettera o il gruppo di due lettere che ne
abbreviano il nome convenzionale e originario, sono
rispettivamente N e Na, iniziali di Nitrogenium e di
Natrium, e qui affiorano le tracce di un antico equivoco.
Nitrogenium significa “nato dal nitro”, e natrium significa
“sostanza del natro”: ora, in origine, nella lingua dell’antico
Egitto, il nitro e il natro erano la stessa cosa.
Nella complicata scrittura di quella lingua si riteneva
superfluo indicare le vocali (forse perché scalpellare la pietra
è più faticoso che usare una penna a sfera, e risparmiando le
vocali si risparmiava lavoro ai lapidari), e le consonanti ntr
indicavano genericamente le efflorescenze saline: sia quella
dei vecchi muri, che in italiano si chiama tuttora salnitro, e
in altre lingue, più espressivamente, “sale di pietra”, sia
quella che gli egizi ricavavano da certi giacimenti e usavano
nella mummificazione; quest’ultima è costituita in
prevalenza da soda, ossia da carbonato di sodio, mentre il
salnitro è costituito da azoto, ossigeno e potassio.
Erano entrambi insomma “sale non sale”, sostanze
dall’aspetto salino, solubili in acqua, incolori, ma dal sapore
diverso da quello del sale comune; e i vetrai si erano presto
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accorti che nella fabbricazione del vetro l’uno poteva essere
sostituito all’altro senza grandi differenze nel prodotto finito
(il che è per noi ben comprensibile: alla temperatura del
crogiolo del vetraio, entrambi i sali si decompongono, la
parte acida se ne va, e rimane nella massa fusa solo l’ossido
del metallo). I greci e poi i latini, traslitterando le scritture
egizie, vi introdussero le vocali secondo criteri ampiamente
arbitrari, e solo da allora la variante “nitro” si specializzò a
indicare il salnitro, padre dell’Azoto, e “natro” a indicare la
soda, madre del Sodio.
Del resto, l’Azoto, sostanza chimicamente piuttosto inerte,
sta al centro di secolari litigi per quanto riguarda la
nomenclatura. Così battezzato quasi due secoli fa da un
chimico francese con un discutibile grecismo (“il senza
vita”), è invece, come detto, il “generato dal nitro”
(Nitrogen) per gli inglesi e “il soffocante” (Stickstoff) per i
tedeschi. Neppure sul simbolo c’è concordia; i francesi, che
ne rivendicano la scoperta, fino a pochi anni fa rifiutavano
il simbolo N e usavano invece Az: qualcuno lo usa ancora,
polemicamente.
Chi scorra un elenco dei nomi dei minerali si trova davanti
a un’orgia di personalismi. Si direbbe che nessun
mineralogista si sia rassegnato a chiudere la propria carriera
senza legare il suo nome a un minerale, aggiungendogli la
desinenza -ite in funzione di corona di lauro: Garnierite,
Senarmontite, e migliaia di altri. I chimici sono stati sempre
più discreti; nella mia rassegna ho trovato solo due nomi di
elementi che gli scopritori hanno voluto dedicare a se stessi,
e sono il Gadolinio (scoperto dal finlandese Gadolin) e il
Gallio. Quest’ultimo ha una storia curiosa. Fu isolato nel
1875 dal francese Lecocq de Boisbaudran; “cocq” (oggi si
scrive “coq”) significa “gallo”, e Lecocq battezzò “Gallium”
il suo elemento. Pochi anni dopo, nello stesso minerale
esaminato dal francese, il chimico tedesco Winkler scopri
un elemento nuovo; erano anni di grave tensione fra
Germania e Francia, il tedesco ritenne che il Gallio fosse un
omaggio nazionalistico alla Gallia, e battezzò Germanio il
suo elemento per riequilibrare la partita.
Oltre a questi due, hanno ricevuto nomi personali solo
alcuni dei nuovissimi e instabili elementi più pesanti
dell’Uranio, ottenuti dall’uomo in quantità minime nei
reattori nucleari e negli enormi acceleratori di particelle, e
dedicati rispettivamente a Mendeleev, a Einstein, alla signora
Curie, ad Alfred Nobel e a Enrico Fermi.
Più di un terzo degli elementi hanno ricevuto nomi che
ricordano le loro proprietà più vistose, attraverso itinerari
linguistici più o meno arzigogolati. Così il Cloro, lo Iodio, il
Cromo, da parole greche che significano rispettivamente
“verde, viola, colore”, e con riferimento al colore dei sali o
dei vapori (o, in altri casi, delle righe spettrali di emissione).
Così il Bario è il “pesante”, il Fosforo è il “luminoso”, il
Bromo e l’Osmio sono, con diverse sfumature, i
“puzzolenti” (ma quale chimico degno del nome potrebbe
confondere i due sgradevolissimi odori?).
Ancora in questo spirito che chiamerei descrittivo, e che
attesta modestia e buon senso, sono stati battezzati
l’Idrogeno e l’Ossigeno, rispettivamente “generato
dall’acqua” e “dagli acidi”; ma poiché il battesimo era stato
fatto (o avallato) dal francese Lavoisier, i chimici tedeschi
non lo tennero per buono, e vi ricalcarono sopra due
approssimative traduzioni: Wasserstoff e Sauerstoff, ossia
rispettivamente “la sostanza dell’acqua” e “degli acidi”, e lo
stesso fecero i russi, coniando la coppia Vodoròd e Kissloròd.
Solo tre fra gli elementi che hanno ricevuto nomi “descrittivi”
attestano uno scatto della fantasia: il Disprosio
(“l’impervio”), il Lantanio (“il nascosto”) e il Tantalio. In
quest’ultima denominazione, lo scopritore (Ekeberg, nel
1802: era uno svedese, un neutrale, e perciò il nome da lui
scelto non subì manomissioni) intendeva riferirsi a Tantalo, il
mitico peccatore descritto nell’Odissea: è immerso nell’acqua
fino al collo, ma spasima eternamente per la sete, perché
ogni volta che si curva per bere, l’acqua si ritira scoprendo la
terra arida. La stessa pena aveva sofferto lui, il chimico
pioniere, nelle alterne speranze e delusioni attraverso cui era
infine arrivato a riconoscere il suo elemento.
Oltre al già nominato Germanio, una ventina di elementi
hanno ricevuto nomi che ricordano più o meno chiaramente
il paese o la città in cui furono scoperti: il Lutezio dal
∆E = hν
dove ∆E indica la differenza di energia tra i due livelli (∆ sta
Diderot, hanno largamente contribuito a screditare l’alchimia.
Un’incisione di P. Bruegel il Vecchio, intitolata Il soffiatore,
attesta lo sfavore in cui versava la Scienza Ermetica, sfavore che contribuì a marginalizzare i suoi adepti: l’alchimista
si affanna in mezzo ai suoi alambicchi, attiva un mantice
in mezzo a uno spesso fumo, agita miscugli, mentre la sua
sposa spreme una borsa disperatamente vuota. Così la sete
dell’oro che mette in moto le più cupe passioni, fece avviare ricerche assurde e pericolose, sufficienti a rovinare il fondamento di un’impresa mistica che aveva le sue radici in
una tradizione universale.
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L’alchimia, per i più, appare oggi come una ricerca vana e
superstiziosa di trasformazione degli elementi in oro!
La scienza moderna, più positivista, ha diffuso questa interpretazione, basata sui tentativi di “coloro che soffiavano
e bruciavano il carbone”. Questi ultimi, astuti ciarlatani o
ingenui manipolatori, filosofi o amanti dell’arte, avvolti da
una quiete spirituale coraggiosa e sincera, hanno purtroppo contribuito a puntellare le denunce dei saggi del XIX secolo. La fantasia popolare, l’incomprensione e la gelosia,
commentate da illustri pensatori, tra i quali Montaigne e
Da: C.M. Wynn, A.W. Wiggings, Le cinque più grandi idee della
scienza, Zelig, 1998.
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La chimica nasce dall’alchimia?
per differenza ed E per energia), h indica una costante di
proporzionalità (il numero che lega la differenza di energia
tra i due livelli alla frequenza secondo una relazione esatta
o un’equazione), ν (ni) indica la frequenza della radiazione
emessa.
La matematica è una forma di linguaggio, anzi una sorta di
linguaggio universale. Poiché i linguaggi sono necessari per
la comunicazione delle ipotesi, la matematica è estremamente utile al lavoro degli scienziati. La matematica, tuttavia, è un linguaggio che ha a che fare con le relazioni tra i
simboli e, pertanto, non è essa stessa una scienza. La matematica può esplorare le possibili relazioni tra le astrazioni
senza preoccuparsi se quelle stesse astrazioni hanno una
controparte nel mondo reale.
Il fisico C.N. Yang ci racconta una storia capace di spiegarci
la differenza tra la matematica e la scienza.
Un uomo cammina per strada portando una sporta piena di
vestiti quando, a un certo punto, vede un cartello appeso a
una vetrina: “Lavaggio vestiti, 50 centesimi la sporta”. L’uomo entra e chiede quanto tempo ci voglia per lavare la sua
sporta di vestiti. L’impiegato, sorpreso, risponde: “Mi dispiace, ma non laviamo vestiti qui”. L’uomo, protestando,
indica il cartello esposto in vetrina. “Ah, quello! – dice l’impiegato – be’, vede, qui non laviamo vestiti… ma dipingiamo cartelli.”
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Tutte le ipotesi sono generalmente formulate sotto forma di
parole e numeri, vale a dire di simboli ideati per sostituire
le realtà fisiche. Per esempio, l’ipotesi del Big Bang, trasformata in parole, sostiene che “circa 15 miliardi di anni fa, tutta la materia e l’energia presente nell’universo era concentrata in un singolo grumo, indicato come la sfera di fuoco
primordiale. Questa sfera di fuoco era formata da…”.
Le ipotesi possono avere anche la forma di relazioni quantitative, come si può vedere in questo esempio a proposito
delle radiazioni emesse dagli atomi eccitati: una proprietà
di una radiazione è la sua frequenza, vale a dire il numero
di cicli completi delle onde di luce che passano in un dato
punto in un secondo. L’ipotesi di Bohr afferma che quando
un elettrone, in un atomo eccitato, torna a un livello di energia inferiore, la frequenza della luce emessa è correlata alla
differenza tra i livelli di energia, in modo che maggiore è
l’intervallo che separa i due livelli più elevata è la frequenza della luce emessa.
Relazioni di questo tipo sono talmente comuni, in campo
scientifico, che per esprimerle più rapidamente è stata elaborata una scorciatoia: la matematica. Secondo questa scorciatoia:
Da: P. Levi, L’altrui mestiere, Einaudi, 1985.
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Rappresentare la realtà
vecchio nome di Parigi, lo Scandio dalla Scandinavia,
l’Olmio da Stoccolma, il Renio dal Reno. Accanto a queste
celebrità geografiche si deve segnalare l’oscuro villaggio di
Ytterby, in Svezia, perché accanto a esso fu trovato un
minerale che mostrò di contenere numerosi elementi
sconosciuti. Il minerale fu chiamato Ytterbite, e prelevando
vari segmenti di quest’ultimo nome, con procedimento
simile ai “logogrifi” degli enigmisti, furono coniati
successivamente l’Ytterbio, l’Yttrio, il Terbio e l’Erbio.
Deliberatamente ho lasciato da parte la storia dei nomi degli
elementi veterani, noti a tutti, caratterizzati e sfruttati dalle
civiltà più antiche mille e mille anni prima che nascesse il
primo chimico: il Ferro, l’Oro, l’Argento, il Rame, lo Zolfo, e
diversi altri. È una storia complicata e affascinante, che varrà
forse la pena di raccontare a parte.
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materiali extraguida
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Certamente gli alchimisti non si curarono affatto delle varie
asserzioni menzognere e continuarono a operare nel silenzio
dei loro laboratori, con il risultato che la loro “scienza”, protetta da una lingua indecifrabile al profano, ha finito per
confondersi con i sotterfugi che essi cercavano di denunciare.
La Scienza Ermetica non può essere studiata secondo le modalità empiriche; considerare l’alchimia solo sotto l’aspetto
pratico, assimilandola a un progetto “prechimico” destinato
a fabbricare artificialmente l’oro, riduce in cenere il progetto simbolico e filosofico su cui essa si spiega e si rivela nel
segreto “dell’oratorio”.
Non c’è vera alchimia senza la perfetta conoscenza dei principi metafisici e senza l’oratorio: ma non c’è possibilità di
alchimia senza una quotidiana comunione dell’alchimista
con la natura, con la sua materia (la sua Beatrice), la Signora dei suoi pensieri, e senza l’esperienza del laboratorio
(Claude d’Ygé).
Gli storici e i commentatori hanno sempre trascurato il travaglio interno dell’adepto, le sue meditazioni, privilegiando
invece le sue ricerche, i suoi esperimenti incerti e pericolosi. L’alchimista compie invece un lavoro che si svolge su più
piani: la sua riflessione mistica non cessa di alimentare il
processo sperimentale.
L’opera dell’alchimista comincia obbligatoriamente con
l’osservazione lunga e paziente dei fenomeni naturali. La
natura è la guida sicura e costante lungo il percorso dell’iniziazione; è il filo di Arianna in un prodigioso labirinto che,
improvvisamente, si apre davanti al suo sguardo meravigliato e affascinato. Le esperienze successive dovranno realizzare e completare questa identità sottile e invisibile.
Il lavoro alchimistico consiste nel liberare, dopo una serie
di esperimenti accuratamente codificati, lo “spirito” dei metalli per purificazione: l’oro alchimistico ottenuto a conclusione della “Grande Opera” si rivela in questa liberazione
reciproca.
Due sono le tecniche possibili: la via secca e la via umida;
si distinguono inoltre sempre tre fasi: “l’Opera in nero”,
“l’Opera in bianco” e “l’Opera in rosso” in precisa successione. Al termine di una lunga serie di manipolazioni (trattamenti in forno, in crogiolo o in vaso di vetro sigillato) la
materia originale si trasforma o si purifica per divenire “pietra filosofale”, risultato “dell’Opera”, suscettibile di donare
immortalità a chi la possiede e di trasformare i metalli “vili” in oro.
La “Grande Opera”, cioè l’ottenimento della pietra filosofa-
La spettrometria di massa
La separazione degli isotopi di uno stesso elemento, sfruttandone le diverse masse, si deve a un allievo di Thomson,
F.W. Aston, che, perfezionando un dispositivo già usato dallo stesso Thomson, mise a punto lo spettrografo di massa.
Con esso fu possibile determinare le masse dei singoli isotopi.
Successive modifiche hanno consentito di realizzare lo spettrometro di massa che, utilizzato nell’analisi chimica, ha dimostrato una grande efficacia nell’identificazione di molecole complesse.
Nello spettrometro di massa la sostanza da identificare,
portata allo stato gassoso, viene colpita da un fascio di
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le, si sublima nel processo della creazione: l’anima e la materia, liberate dai loro condizionamenti naturali, si rivelano
una all’altra in una reciprocità trasfigurante.
L’adepto, realizzando la fusione del microcosmo e del macrocosmo, anticipa il progetto della creazione. Il passaggio
da un componente impuro, alterato, all’oro filosofale traduce l’elevazione della materia, la Terra si congiunge al Cielo.
Gli esperimenti si ripercuotono nella coscienza dell’adepto,
che vive intensamente, costantemente stimolato dalla meditazione, le trasformazioni subite dalla materia sotto l’influsso astrale.
Così l’Opera in nero, che corrisponde a una decomposizione della materia prima, e l’Opera in bianco, purificazione
continua fatta per mezzo del fuoco, sono illustrate secondo
la terminologia abituale dei grandi misteri dello Spirito sotto forma di Morte e Risurrezione.
L’Opera in bianco, o “Sale filosofale”, produce, più esattamente, ciò che i mistici chiamano il “Corpo di luce”. Essa si
compie grazie alla stretta osservazione del grande principio
alchimistico: dissolve e coagula. Si tratta di “convertire il
corpo in spirito e lo spirito in corpo”. Dissolvere è inteso nel
senso di attaccare la materia, con l’ausilio di agenti chimici,
affinché si spogli delle impurità e si trasformi in spirito. Coagulare assume invece il significato di corporizzare lo spirito, grazie alla partecipazione del fuoco segreto, per ristabilirlo nella sua gloria.
È praticamente impossibile parlare dell’Opera in rosso:
gli ermetici conservano a questo proposito un eloquente
silenzio. Se essa appare spiritualmente come una “illuminazione definitiva”, un’estasi, resta misteriosa sul piano sperimentale. Sembra che l’alchimista non abbia più
da usare utensili, ma confezioni una sorta di “uovo primordiale”, al quale farà subire una cottura, la cui riuscita avverrà grazie al fuoco e agli influssi astrali e cosmici.
Il riferimento a un fuoco interiore e a un calore oscuro,
suscettibile di trattenere un regime igneo, evoca i “tapas”, le correnti d’onda caloriche prodotte dagli yoghi indiani e tibetani.
In verità l’alchimista, ispirato dalla formazione naturale dei
metalli sotto la crosta terrestre, tenta a sua volta, accelerandone i processi, di produrre, a livello microcosmico, le evoluzioni e le trasformazioni macrocosmiche.
Da: M. Melissano, La chimica nasce dall’alchimia?, «Didattica
delle scienze», 154, maggio 1991.
elettroni veloci; l’urto provoca la ionizzazione della molecola e la sua suddivisione in piccoli frammenti anch’essi ionizzati.
Gli ioni ottenuti sono accelerati da un campo elettrico e collimati grazie a una serie di fenditure. Si ottiene un fascio di
ioni veloci che, sottoposto all’azione di un campo magnetico, assume una traiettoria circolare.
La curvatura impressa è inversamente proporzionale al rapporto massa-carica della particella (solo alla massa se gli ioni
hanno perso un solo elettrone): uno ione leggero sarà molto
deviato, mentre uno pesante lo sarà in misura minore.
Gli ioni così separati finiscono su un rilevatore, dove
vengono contati e registrati. Il risultato è uno spettro di
massa in cui le intensità dei segnali sono riportate in
proposte di letture integrative
funzione del rapporto massa/carica. Il segnale corrispondente alla massa più alta è quello della molecola
ionizzata, mentre gli altri sono dovuti ai frammenti ionizzati della molecola. Dal loro confronto è possibile
colori? Quello che il nostro occhio percepisce è in effetti la sovrapposizione di radiazioni di diverse lunghezze d’onda
emesse dal corpo riscaldato. L’insieme di queste radiazioni
costituisce lo “spettro” del corpo per la temperatura cui è stato portato. Se la potenza di una radiazione luminosa data è
nettamente superiore a quella delle sue vicine, essa viene percepita prioritariamente. Per il ferro, per esempio, il rosso domina intorno ai 600 °C. Verso i 2000 °C il metallo sembra in-
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Intorno all’anno 1880 diversi fisici si interessarono alla radiazione emessa da un corpo riscaldato. Accade infatti che il colore della radiazione, quindi la sua lunghezza d’onda, varia
al variare della temperatura: all’aumentare di questa, un pezzo di ferro riscaldato passa progressivamente dal rosso cupo
all’arancio, al giallo, al bianco. A cosa corrispondono questi
Adattato da: M. Marelli, Piogge di luce nei cieli polari, «Newton»,
luglio 1999.
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La catastrofe ultravioletta
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L’aurora polare (più nota come boreale o australe, a seconda della zona dell’emisfero nella quale si verifica), è uno dei
fenomeni naturali più spettacolari. Così eccezionalmente
bello che nell’antichità incuteva paura, tanto che gli Eschimesi credevano indicasse la porta del regno dei morti.
L’aurora polare è uno spettacolo luminoso “sponsorizzato”
dal nostro principale fornitore di energia: il Sole. Che non si
limita a scaldare la Terra con le radiazioni elettromagnetiche ma investe il nostro pianeta con il cosiddetto “vento”
solare, responsabile dell’affascinante fenomeno delle aurore polari. Questa “brezza” è formata da particelle cariche
(elettroni, protoni, ioni) molto energetiche emesse nelle reazioni termonucleari che avvengono nel Sole. Prima di penetrare nell’atmosfera, le particelle cariche vengono catturate
dalla magnetosfera terrestre, cioè dalla regione in cui è presente il campo magnetico del nostro pianeta. Il vento solare
deforma il campo, proprio come il vento reale, soffiando,
piega i fili d’erba di un prato. Così mentre le linee del campo magnetico terrestre che si affacciano al vento vengono
“schiacciate”, quelle dalla parte opposta del pianeta si allungano formando dei giganteschi archi che tendono verso
lo spazio. In prossimità dei poli magnetici le linee di campo
si uniscono, diventando quasi verticali, e formano una specie di imbuto nel quale il flusso di particelle solari viene incanalato. Non appena le particelle si avvicinano al campo
magnetico terrestre sono costrette a cambiare la rotta iniziale e cominciano a spiraleggiare attorno alle linee del campo, formando le cosiddette Fasce di Van Allen. A questo
punto il vento solare ha raggiunto le zone alte della nostra
atmosfera e le sue velocissime particelle collidono violentemente con gli atomi dei gas atmosferici che, perdendo il loro stato eccitato, liberano energia emettendo la loro caratteristica luce spettrale.
La luminosità delle aurore è attribuibile a emissioni da parte dell’azoto (in forma molecolare e ionizzata) e dell’ossigeno atomico, quest’ultimo in particolare con le emissioni
nel verde (557,7 nm) e nel rosso (630 nm). Il colore delle
aurore appare per lo più verde a causa della maggiore sensibilità dell’occhio a questo colore, ma la maggior parte dell’emissione aurorale è nel rosso sulla riga a 630 nm.
Le zone soggette agli urti più energetici, intorno ai 60° di
latitudine Nord o Sud, formano un anello attorno ai poli
magnetici e vengono indicate col nome di “ovali aurorali”:
è lì che si verificano gli spettacoli luminosi. In queste zone
infatti, le linee di campo si estendono per parecchi chilometri nello spazio e riescono a catturare buona parte del vento
solare.
L’aurora polare è un fenomeno permanente che avviene tra
i 60 e i 600 km di latezza, ma la sua frequenza e la sua spettacolarità dipendono fortemente dall’attività solare. Ogni 11
anni infatti è come se, aumentando fortemente la sua attività, il Sole andasse in “escandescenza”. Questa turbolenza
solare, che appare sotto forma di macchie scure (sedi di intensissimi campi magnetici) e getti di materia che si elevano per parecchi chilometri (i cosiddetti brillamenti o flares)
dalla superficie, fa aumentare l’intensità del vento solare. Il
numero delle aurore aumenta vertiginosamente. Gli stessi
bellissimi fenomeni che “affrescano” il cielo, come è avvenuto nel picco di emissione nel 2000, distorcono però sensibilmente le trasmissioni radio a onde corte e riescono a
provocare pericolose interferenze radar nel controllo aereo.
Gli elettroni del vento solare, nei periodi di picco dell’attività, possono addirittura raggiungere un’energia milioni di
volte superiore a quella normale, e forare i rivestimenti
esterni di un satellite artificiale orbitante, creando campi
elettrici che danneggiano in modo permanente le apparecchiature. Ecco perché si stanno studiando dei sistemi per
prevedere con esattezza le aurore polari. Ma scoprire in anticipo quando avverrà una tempesta magnetica non è affatto semplice. L’interazione fra il campo magnetico terrestre e
il vento solare è molto complessa. Gli scienziati attualmente stanno indagando per scoprire in che modo le aurore polari influiscono sulla Terra. Gli studi sono stati effettuati facendo esplodere del bario nella ionosfera, creando così
un’aurora artificiale. Il bario, ionizzato dalla componente
della radiazione solare, mette in evidenza la distribuzione
delle correnti magnetiche. Ulteriori esperimenti hanno permesso di scoprire che il vento solare ha una responsabilità
(seppur limitata) nel provocare l’assottigliamento dello strato di ozono.
Il fenomeno delle aurore polari non si verifica soltanto sulla
Terra. Grazie alle immagini inviateci dal telescopio spaziale
Hubble, è stato possibile scoprire aurore polari su Giove e
persino su Saturno, dove si creano spettacolari cerchi di luce ultravioletta (invisibili dalla Terra).
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L’aurora polare
identificare la molecola in questione.
Particolari accorgimenti adottati negli strumenti più recenti consentono di separare ioni che si differenziano per
pochi decimillesimi di u.
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vece bianco, dal momento che tutte le componenti della luce
visibile si assommano. Un irraggiamento è emesso anche nelle basse temperature, ma, essendo situato nell’infrarosso, il
nostro occhio non può vederlo. Anche oltre i duemila gradi
la maggior parte della radiazione ci sfugge perché situata nell’ultravioletto. Tutte queste diverse constatazioni servono di
base, a partire dal 1893, per i lavori dei fisici tedeschi F. Paschen e W. Wien, che giungono nel 1896 alla formulazione
della legge di Wien: la lunghezza d’onda della luce con potenza più alta della radiazione emessa da un corpo nero è inversamente proporzionale alla temperatura. Si passa quindi
prima per l’infrarosso, poi per il rosso ecc. fino all’ultravioletto e oltre.
Il fisico inglese Lord J. Rayleigh, completando questa legge,
ne propose un’altra nel giugno del 1900 che determina la potenza radiata per una temperatura e una lunghezza d’onda
date: la potenza radiata è proporzionale alla temperatura assoluta e inversamente proporzionale al quadrato della lunghezza d’onda. Più chiaramente, la radiazione termica è tanto più intensa quanto più è corta la lunghezza d’onda. In un
primo tempo la sperimentazione corrobora la legge: per le
lunghezze d’onda che vanno dall’infrarosso al verde i risultati sono conformi alle previsioni. È dopo che le cose si guastano. Per il blu, per il violetto e a maggior ragione per l’ultravioletto la formula di Rayleigh non funziona più: gli esperimenti contraddicono clamorosamente la teoria. Per lunghezze d’onda molto piccole, essa porta infatti a valori fin troppo
grandi, quasi infiniti. Si parla di quanto il fisico austriaco P.
Ehrenfest chiamerà la “catastrofe ultravioletta”. L’espressione
è sicuramente estremistica, ma indica chiaramente che, per
la prima volta, uno degli articoli di fede della fisica classica,
la teoria della radiazione, è colto in flagrante errore.
Per oltrepassare questa “catastrofe ultravioletta” il fisico tedesco M. Planck enuncia nel dicembre del 1900 una ipotesi
curiosa: a proposito delle vibrazioni che traducono il calore
di un corpo egli postula che queste non si ripartiscono in
base a tutti i valori possibili (forniti dalla legge ordinaria retta dal caso), ma che obbediscono invece a una legge determinata. Se E rappresenta l’energia di una vibrazione e ν la
sua frequenza, esiste una certa costante h tale che E/ν è
Le terre non-così-rare
A dispetto del loro nome, le terre rare non sono in realtà
così rare, e neppure terre (nel senso di ossidi metallici). Si
tratta di elementi metallici e tutti, tranne uno, sono più abbondanti in natura di quanto non lo siano l’oro, l’argento,
il mercurio o il tungsteno. Essi vennero un tempo denominati terre rare per essere stati inizialmente isolati in forma
di ossidi da minerali poco comuni. Di fatto questi elementi
sono ubiquitari, essendo presenti in basse concentrazioni
in quasi tutti i minerali.
Tuttavia estrarre le terre rare dai minerali comuni sarebbe proibitivo dal punto di vista dei costi. Fortunatamente
esiste un piccolo numero di minerali, meno comuni, in
cui la concentrazione delle terre rare è abbastanza alta
da permettere l’estrazione conveniente di elementi che
sono “ingredienti chiave” per la fabbricazione di numerosi prodotti moderni. Cerio ed erbio sono componenti di
leghe metalliche ad alte prestazioni. Neodimio, olmio e
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sempre h, il doppio di h, tre volte h o un qualsiasi altro multiplo di h. Non si producono vibrazioni per altre quantità di
energia. È una ipotesi propriamente rivoluzionaria, visto
che l’idea della discontinuità viene introdotta per la prima
volta nel dominio delle radiazioni, ossia delle onde. Invece
di considerare gli scambi di energie fra l’oggetto riscaldato
e la radiazione da questo emessa in modo continuo come
un liquido che coli da un recipiente in un altro, per figurarseli Planck immagina che tali scambi avvengano in modo
discontinuo, come se al posto del liquido il recipiente contenesse delle biglie. Queste biglie inoltre non hanno tutte le
stesse dimensioni: con l’aumentare della frequenza diventano sempre più grosse.
Riassumendo, Planck pone come principio che gli scambi
di energia fra materia e radiazione siano effettuati per pacchetti, in quantità definite (di qui il nome di “quantum” attribuito a ogni pacchetto elementare e di “quanta” al plurale). Ogni quantum è fornito inoltre di una energia proporzionale alla frequenza della radiazione. Una simile visione
delle cose ha il vantaggio di eludere la catastrofe ultravioletta, a scapito però delle più sacre leggi della fisica tradizionale. È un po’ come se si affermasse che un uomo può
avanzare solo con passi di almeno 20 cm, che è incapace
di fare passi più corti e che, se fa passi più lunghi, saranno
comunque un multiplo del passo minimo (40 cm, 60 cm,
80 cm ecc.). Malgrado l’estrema piccolezza del suo valore
( h = 6,62 ⋅ 10–34J ⋅ s–1), la costante di proporzionalità inventata da Planck, e che da allora porta il suo nome, seminerà lo sconcerto fra i fisici, e persino nello stesso Planck.
Questa brutale inserzione della discontinuità nel bel concatenamento della fisica tradizionale gli sembra, nel migliore
dei casi, un “artificio del calcolo” e nel peggiore una eresia.
Passerà quindi lunghi anni nel tentativo di modificare la sua
teoria per conservarne il risultato (la soppressione della catastrofe ultravioletta) e di eliminare i quanta. Ma infine capitolerà, riconoscendo che “è assolutamente impossibile,
nonostante gli sforzi più tenaci, far rientrare l’ipotesi nel
quadro di una teoria classica, quale che sia”.
Da: Ortoli-Pharabod, Il cantico dei quanti, Edizioni Teoria, 1991.
disprosio entrano in certi tipi di cristalli per il laser.
Il samario è un componente dei più forti magneti permanenti conosciuti, che hanno reso possibile la progettazione
di nuovi motori elettrici. L’itterbio e il terbio, per le loro proprietà magnetiche, trovano applicazione in dispositivi a bolle magnetiche e magneto-ottici per l’immagazzinamento dei
dati nei calcolatori. L’europio attiva il fosforo rosso negli
schermi televisivi a colori. Forse l’applicazione più interessante delle terre rare consiste nella fabbricazione dei materiali ceramici superconduttori a temperature eccezionalmente alte. Il lantanio è stato il primo componente di questi materiali; in seguito è stato dimostrato che, sostituendo
il lantanio con il gadolinio, si ha superconduttività a temperature ancora più alte. Gli elementi delle terre rare inoltre
fungono da catalizzatori nella raffinazione del petrolio e regolano gli indici di rifrazione delle lenti di vetro e delle fibre
ottiche.
L’analogia delle proprietà chimiche delle terre rare, ovvero la
somiglianza del loro comportamento, è una conseguenza
proposte di letture integrative
della particolarità della loro struttura atomica. Gli atomi di
tutti gli elementi delle terre rare possiedono lo stesso numero di elettroni nel livello di valenza (il sesto), indipendentemente dal numero atomico, poiché compensano l’incremento di carica del nucleo, con il riempimento del sottolivello 4f.
Le differenze chimiche che si riscontrano sono dovute alla
differenza dei raggi ionici che essi assumono quando divengono ioni con carica 3+. Essi sono tanto più piccoli quanto
più alto è il numero atomico perché l’aumentata carica del
nucleo agisce su elettroni che occupano lo stesso sottolivello.
Campi di utilizzazione dei neoceramici
Dielettrici
Ferroelettrici
Piezoelettrici
Termoelettrici
Semiconduttori e superconduttori
Conduttori ionici veloci
Magnetici
Ottici
Sensori di gas
Supporti per catalizzatori
Supporti per microcircuiti (chip)
Elettrodi analitici e industriali
Membrane per separazione gas-liquidi
Componenti per motori a scoppio (nitruro di silicio e sialon)
Utensili da taglio industriale
Additivi per sinterizzazione dell’ossido di uranio
Isolanti termici
Materiali resistenti agli sbalzi termici
Materiali di chirurgia sostitutiva e ricostruttiva
Materiali dentari e maxillofacciali
Principali costituenti di neoceramici
Componenti contenenti ossigeno
Al2O3, ZrO2, TiO2, UO2, V2O5, ZnO, Li2O, CeO2, Y2O3, SiO2, Dy2O3, P2O5,
MgO, CuO, Nb2O5, SnO, Na2O, Bi2O3, CaO, Gd2O3, RuO2, BaTiO3, Li2CO3,
Li 2ZrO 3, Li 6ZrO - , Li 8ZrO 6, LiAlSiO 4, LiTi 2(PO 4) 3, LiZr 2(PO 4)3, Si 2N 2O,
Si2Al3O3N5, SrTiO3, BaTiO3, MgAl2O4, Pb(Mg1/3Nb2/3)O3.
Componenti privi di ossigeno
AlN, TiC, B4C, SiC, Si3N4, TiB2, TiN, Zr3N4, Hf3N4, V3N5, BN, ZrB2, WSi, CdS,
Nb3Sn, NbC, NbN, Nb3Ge, Nb3Al3/4Ge1/4, V3Si.
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della motoristica. I motori termici aumentano il loro rendimento se cresce la temperatura di funzionamento, ma le leghe metalliche possono essere usate fino a circa 1050 °C. Le
ceramiche, rispetto ai materiali metallici presentano maggiore resistenza alle alte temperature (1400 °C) e per periodi più lunghi, migliore resistenza all’ossidazione e alla corrosione, oltre a un peso minore.
Accanto a questi pregi, tuttavia, tutti i materiali ceramici
presentano alcuni difetti non trascurabili. La resistenza alla frattura è molto minore in confronto a quella dei metalli, così risulta pure ridotta la dimensione massima consentita delle fessurazioni (cricche). Il difetto peculiare è il collasso istantaneo dell’intera struttura quando viene raggiunto il punto di rottura. Persino un microscopico errore
di manifattura (pori o grumi) o la presenza di minute particelle estranee possono far scattare una fessurazione.
Questi problemi tuttavia possono essere superati attraverso un rigoroso controllo della purezza e della microstruttura del materiale di partenza con cui vengono fabbricati
gli oggetti. Nei nuovi materiali ceramici si tenta di ovviare
a tali difetti sostituendo i tradizionali silicati naturali contenenti legami ionici con sostanze a legame covalente, in
modo da creare reticoli covalenti con caratteristiche termiche e meccaniche di elevata qualità. La fragilità dei ceramici può essere notevolmente attenuata con trattamenti
“anticrepa”, consistenti nell’inglobare nel materiale fibre
di ceramica, di plastica, o di metallo, dette comunemente
wiskers (baffi).
Mentre i ceramici tradizionali sono tutti a base di silice o silicati, i ceramici speciali sono costituiti per la maggior parte
da carburi, boruri, nitruri e siliciuri e in misura minore da
miscele di ossidi e sali metallici.
Per i ceramici costituiti da sali (silicati, alluminati ecc.) o
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Identificare le ceramiche come materiali con i quali vengono
costruiti vasi da giardino o altri oggetti di uso domestico è
divenuto anacronistico e limitativo. Nuove formulazioni dei
componenti di partenza e tecnologie avanzate di produzione hanno creato materiali dalle prestazioni elevate, i neoceramici, da adoperare in condizioni particolarmente severe
con prestazioni superiori a quelle dei materiali tradizionali.
Praticamente oggi non esiste campo dell’alta tecnologia in
cui i neoceramici non svolgano un ruolo significativo: dall’industria aerospaziale (lo Space Shuttle viene ricoperto di
circa 30.000 tavolette di ceramica per proteggerlo dal calore
nella fase di rientro nell’atmosfera) al campo dell’energia
nucleare, dalla microelettronica e dalla tecnologia dei computer all’ingegneria meccanica e alla medicina. La tabella
illustra i campi di applicazione dei nuovi prodotti ceramici.
Un impiego importante dei materiali ceramici ad alte prestazioni riguarda i componenti strutturali dell’ingegneria e
Da: G. K. Muecke, P. Moeller, Le terre non-così-rare, «Le Scienze»,
235, marzo 1988.
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I neoceramici
Il fatto che le terre rare non siano uniformemente distribuite
sulla faccia della Terra è un vantaggio sia per le compagnie
di estrazione e lavorazione del minerale, sia per i geochimici.
I ricercatori che studiano la distribuzione delle terre rare nei
minerali possono da qui acquisire cognizioni geologiche utili
per le scienze della Terra e, in definitiva, per l’industria moderna.
da ossidi si possono usare metodi diretti di fusione e successiva solidificazione in stampi. Tuttavia la tecnica maggiormente seguita è quella della sinterizzazione. I componenti in polvere devono essere mescolati con acqua e opportunamente “formati” (come l’argilla) per poter autosostenersi. Successivamente la sinterizzazione viene ottenuta per pressatura ad alte pressioni entro uno stampo di
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materiali extraguida
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acciaio. Nei ceramici non contenenti ossigeno (nitruri,
carburi ecc.) i legami che si instaurano sono di tipo covalente; si usa in genere operare contemporaneamente la
pressatura e il riscaldamento a 1900-2000 °C che produce
la sinterizzazione finale (hot-pressing). La tabella alla
pagina precedente illustra le formule dei composti più caratteristici.
Tra i materiali più promettenti figurano il nitruro di silicio,
Si3N4, in cui gli atomi di silicio, collegati per mezzo di quel-
La solidificazione più mirabile in cui io mi sia imbattuto è
quella del filo dei ragni, bestiole piene di risorse verso le quali nutro emozioni fortemente ambivalenti. Nessuno degli
schemi che si incontrano normalmente si applica al solidificarsi istantaneo del filo del ragno. Può essere un semplice
congelamento, così come solidificano l’acqua, la ghisa, la cera quando vengono raffreddate al di sotto di una temperatura determinata? Certo no: il ragno ha sempre la temperatura
dell’ambiente in cui vive, e il suo serbatoio non può essere
più caldo dell’aria. La filiera del ragno, vista al microscopio,
assomiglia molto a quella attraverso cui si trafila il nailon, ma
è un’analogia illusoria: sopra quest’ultima sta il nailon fuso,
a più di 250 gradi.
Può evaporare un solvente come appunto avviene nelle
vernici? No: nessun solvente è mai stato trovato nel corpicino del ragno, a eccezione dell’acqua, che è di lenta evaporazione; mentre invece la solidificazione del filo è istantanea, da liquido esso diventa solido appena esce dalla filiera; altrimenti il ragno non vi si potrebbe appendere. Inoltre se si trattasse dell’evaporazione di una soluzione acquosa, il filo dovrebbe rimanere solubile in acqua, il che
non è: anche se appena intessuta, la ragnatela resiste benissimo alla pioggia e alla rugiada.
Può avvenire una polimerizzazione, possono cioè formarsi
molecole lunghe, e quindi solide, a partire da un “brodo” di
molecole piccole contenute nelle ghiandole del ragno? I chi-
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Il segreto del ragno
Anomalie di un liquido
Tutti conoscono la formula chimica dell’acqua, H2O. Pochi
però sanno che questa sostanza possiede proprietà fisiche così particolari che la rendono diversa sia dagli idruri a lei simili, come H2S (acido solfidrico) e NH3 (ammoniaca), sia dagli
altri liquidi esistenti in natura. Queste proprietà speciali sono
note come le anomalie dell’acqua. Eccone alcune, così come
le elenca il chimico sovietico N. Voznaya nel suo libro Chemistry of water & Microbiology.
• Quando l’acqua è riscaldata da 0 a 4 °C il suo volume non
aumenta, come avviene per tutte le altre sostanze, ma diminuisce. Tanto che l’acqua ha il suo massimo di densità
non al punto di congelamento, ma alla temperatura di
3,98 °C.
• Quando l’acqua viene congelata essa si espande invece di
contrarsi come fanno tutte le altre sostanze, e la sua densità diminuisce.
• Il punto di congelamento dell’acqua si abbassa all’au-
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li di azoto, sono organizzati in strutture simili a quelle dei
silicati, e i molti tipi di Sialon, ottenuti dal nitruro di silicio
per parziale sostituzione del silicio con alluminio e dell’azoto con ossigeno, da cui il nome (Si–Al–O–N). La sostituzione controllata determina le caratteristiche finali, adattate
in modo preciso e ripetibile, alle esigenze ingegneristiche.
Da: F. Pavoni, I neoceramici, «Didattica delle Scienze», 156,
novembre 1991.
mici non conoscono nessun processo di polimerizzazione
che avvenga in una frazione di secondo e per così dire “a comando”, ossia al semplice passare da un ambiente confinato
all’aria aperta. Conoscono sì i processi in cui si formano solidi miscelando due liquidi, ma il ragno possiede un solo tipo
di materia prima.
La soluzione del problema è nota da pochi anni, ed è di una
semplicità disarmante. Il liquido secreto dalle ghiandole del
ragno, e immagazzinato a monte delle filiere, diventa solido quando è sottoposto a trazione. È composto di molecole
già lunghe quanto basta per essere solide, ma sono raggomitolate e quindi scorrono le une sulle altre: sono cioè un
liquido anche se molto vischioso.
Ma il ragno secerne il filo sempre e solo sotto trazione;
“tende” il suo filo. Ora, è talmente fine e specifica la natura di questo liquido, che basta un modesto allungamento della sua bava per provocarne la solidificazione irreversibile: le molecole aggrovigliate si distendono e diventano fili paralleli. Lo stesso meccanismo è quello sfruttato
da tutti i bruchi che si fabbricano un bozzolo: così nasce
la seta.
Nessun chimico è ancora riuscito a riprodurre un procedimento così elegante, semplice e pulito. Abbiamo sorpassato e violentato la natura in molti campi, ma dalla natura abbiamo ancora parecchio da imparare.
Da: P. Levi, Il segreto del ragno, «CnS (Chimica nella Scuola)»,
marzo-aprile 1997.
mentare della pressione, invece di elevarsi come ci si attenderebbe.
• Il calore specifico dell’acqua è eccezionalmente elevato.
• Con la sua elevata costante dielettrica, l’acqua è un solvente e un agente dissociante migliore degli altri liquidi.
• L’acqua possiede la più elevata tensione superficiale (pari
al lavoro necessario per formare un’unità di superficie) di
tutti i liquidi a eccezione del mercurio.
Questa e altre anomalie indicano che la coesione interna,
cioè la forza di attrazione tra le molecole, è molto elevata.
Bisogna quindi cercare una spiegazione nella particolare
“struttura dell’acqua liquida”.
Come scrive F. Franks in un capitolo del suo libro Water, l’espressione “struttura di un liquido” richiede qualche spiegazione e qualche giustificazione. “Generalmente una struttura è definita dalle coordinate delle posizioni degli atomi o
delle molecole e contiene un elemento di periodicità. Un liquido, d’altra parte è caratterizzato da una distribuzione random, casuale, delle molecole (moto browniano) e dall’as-
proposte di letture integrative
Azzardò anche l’ipotesi che, proprio come per i diversi tipi
di energia, le varie specie di entropia potevano essere addizionate e sottratte. Ma qual era l’esatta somma di tutte le
variazioni entropiche verificantisi nell’universo? E come
avrebbe potuto anche solo cominciare a eseguire un calcolo
così astronomico?
Imperterrito decise di fare un tentativo, creando anzitutto
un semplice sistema di contabilità: tutte le variazioni di carattere naturale – ossia le variazioni di energia e di temperatura che si verificavano nella natura in modo spontaneo,
senza costrizione – sarebbero state considerate variazioni
entropiche positive. Per esempio, nel caso di una tazza di
caffè bollente che va via via raffreddandosi, Clausius avrebbe affermato che l’entropia era in fase di aumento. Al contrario, tutte le variazioni innaturali – cambiamenti di energia e di temperatura che si verificavano esclusivamente
quando erano sollecitati da una macchina – sarebbero state
considerate negative. Per esempio, nel caso delle macchine
a vapore, che trasformavano il calore in lavoro, o dei refrigeratori, che forzavano il calore a passare da un luogo freddo a uno più caldo, secondo Clausius l’entropia specifica
era in fase di diminuzione. Esaminando le macchine a vapore reali, i calcoli di Clausius dimostrarono che le variazioni naturali (il calore che fuoriusciva inutilmente dalla caldaia verso il condensatore e il lavoro che veniva trasformato in calore per azione dell’attrito) eccedevano sempre l’unica variazione innaturale (il calore che veniva trasformato
in lavoro dagli stantuffi). Clausius verificò che gli stessi risultati potevano essere riferiti a qualunque tipo di macchina reale, compresi gli esseri umani. Ciò che aveva scoperto
utilizzando la funzione entropia aveva carattere universale.
La somma di tutte le variazioni di entropia, positive e nega-
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…Clausius cominciò la sua riflessione ripensando a due
esempi. Anzitutto il calore sembrava passare in maniera naturale dai corpi caldi ai corpi freddi, mai dai freddi ai caldi.
In secondo luogo, l’attrito convertiva il movimento meccanico in calore, ma sembrava che in natura non esistesse un
processo che trasformasse il calore in movimento.
Fondamentalmente, la relazione non biunivoca tra lavoro e
calore dipendeva dai due diversi tipi di “cambiamenti” prodotti da due tipi di fenomeni. L’uno era un cambiamento di
temperatura (energia termica che passa da sistemi a temperatura più alta a sistemi a temperatura più bassa); l’altro, un
cambiamento della forma di energia (energia meccanica che,
per attrito, si trasforma in energia termica). Clausius decise
di formulare un’ipotesi di ampia portata: la trasformazione
dell’energia meccanica (energia ordinata) in calore (energia
disordinata) e il cambiamento della temperatura altro non
erano che due aspetti dello stesso fenomeno: variazioni di entropia. “Ho voluto intenzionalmente adottare il termine entropia per rimanere il più vicino possibile alla parola energia”,
spiegò Clausius, “in quanto le due grandezze (…) sono così
affini in senso fisico, che anche nella definizione questo accostamento pare opportuno.”
Anni prima, Clausius aveva dimostrato come l’energia solare, in linea di massima, fosse in sostanza simile all’energia
elettrica o a quella acustica o a qualsiasi altro tipo di energia. Ora, secondo Clausius, esistevano fenomeni più ampi e
più completi, prodotti non soltanto dalle variazioni di energia. La variazione di entropia racchiude non solamente le
variazioni di tutti i tipi di energia, ma anche la variazione
della temperatura.
Da: P. Greco, Anomalie di un liquido, «Sapere», 8/9 (940), agostosettembre 1991.
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L’entropia
tri ricavati ai raggi X offrono una buona immagine della
struttura di una sostanza. “Le tecniche di diffrazione” continua Franks in Water “hanno portato a progressi tanto importanti nella comprensione della struttura dei cristalli che,
più tardi, sono state applicate anche ai liquidi. Ed è stato trovato che i liquidi, come i solidi cristallini, deflettono le radiazioni e di conseguenza provocano figure di intensità ben definita dei raggi X (o dei neutroni).” In altri termini alcuni liquidi, come l’acqua, hanno una loro struttura, meno stabile
nel tempo, ma altrettanto reale di quella dei solidi. La “struttura di un liquido” corrisponde in definitiva a una disposizione ben ordinata di molecole, la cui reale identità, peraltro, cambia costantemente in tempi rapidissimi. È singolare
come il composto chimico a noi più familiare, l’acqua, sia
tra quelli che conosciamo di meno. Allo stato liquido pare
proprio che abbia una struttura complessa, ordinata a vari
livelli. Questa struttura, responsabile del suo comportamento anomalo, non è stata ancora ben chiarita. Gli studi di chimica-fisica ne hanno proposto, nel corso degli anni, vari modelli. Ma, come scrive il chimico inglese Donald Eegland in
un recente saggio apparso sulla rivista di divulgazione francese «La Recherche», nessuno è davvero universale. Nessun
modello riesce a fornire previsioni quantitative di tutte le
anomale proprietà dell’acqua.
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senza di ordine periodico. In altri termini, lo stato liquido
non può essere descritto da un set di coordinate molecolari.” In un liquido non c’è quell’ordine periodico né a breve,
né tantomeno a lungo range, presente in un solido cristallino e che si evidenzia quando il cristallo è studiato mediante
tecniche di diffrazione dei raggi X o dei neutroni. “Va da sé
che questa affermazione è vera” scrive Franks in un altro libro, Poliacqua. “Tuttavia se fosse possibile fotografare un liquido con pose di tempi molto brevi, le istantanee mostrerebbero che sono favorite determinate combinazioni geometriche di molecole. Per esempio nel caso dell’acqua, si vedrebbe che ogni molecola è il più delle volte circondata da
altre quattro, poste più o meno agli angoli di un tetraedro.
Espressioni quali ‘più o meno’ e ‘il più delle volte’ stanno a
sottolineare la differenza essenziale tra un liquido e un solido, per i quali potremmo usare i termini ‘esattamente’ e
‘sempre’. Un’altra differenza essenziale tra solidi e liquidi è
che in fotografie successive il solido presenterebbe sempre
le stesse molecole, poiché queste sono bloccate in una struttura cristallina. Nel liquido, invece, le molecole si mescolano, e ciò avviene su una scala temporale molto più breve del
tempo di esposizione delle nostre ipotetiche istantanee. Così
esposizioni successive inquadrano altri gruppi di molecole,
ma la loro posizione nello spazio sembrerebbe corrispondere al modello tetraedrico che ricorda quello del ghiaccio.” Le
“foto”, impossibili da fare con una macchina fotografica, in
realtà esistono. Anche se non sono delle istantanee, gli spet-
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materiali extraguida
tive, che si verificavano con l’uso della totalità delle macchine esistenti nell’universo, non solo conservava l’entropia, bensì aveva sempre l’effetto di aumentarla. Sempre!
Condensò il risultato delle sue considerazioni nell’espressione matematica:
∆S universo > 0
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o, per esteso, “la variazione dell’entropia dell’universo è
sempre maggiore di zero”.
L’universo, rivelava la geniale legge dell’entropia, era paragonabile a un casinò. L’entropia era il denaro che vi si giocava. Le macchine erano i giocatori. Il principio di aumento
dell’entropia stava a significare che le variazioni in positivo
del denaro di un casinò erano sempre superiori alle variazioni in negativo. In altri termini, le vincite di un casinò erano costantemente superiori alle sue perdite. In definitiva, tale principio diceva che l’universo, proprio come un casinò,
continuava a vivere a spese del funzionamento delle sue
macchine, macchina umana compresa. Finché l’universo
avesse continuato a ricavarne profitto, esso avrebbe continuato a funzionare. Il giorno in cui la totalità delle macchine avesse perso tutto – il giorno in cui le variazioni entropiche dell’universo in positivo si fossero esaurite, cioè fossero
scomparsi tutti i fenomeni naturali –, anche l’universo
avrebbe chiuso per sempre i battenti.
Nel 1877 un fisico austriaco, Ludwig Boltzmann, aveva individuato un nuovo metodo per definire l’evoluzione entropica dell’universo. L’entropia, secondo la dimostrazione di
Boltzmann, era una misura della disorganizzazione: perciò
il principio di non-conservazione dell’entropia di Clausius
significava che l’universo non stava diventando solamente
più tranquillo, ma anche più caotico.
Ciò implicava che l’universo doveva essere inizialmente
molto ben organizzato; era come se miliardi di anni prima, qualcosa o qualcuno avesse costruito un orologio a
molla e lo avesse caricato a puntino. L’universo ora stava
Catalisi di superficie
Particolari reazioni chimiche vengono facilitate dalla capacità degli atomi, presenti nella superficie di un solido, di interagire con le molecole di un liquido o di un gas alterandone leggermente la struttura. In effetti, grazie alle interazioni
tra le molecole di gas o di liquidi e le superfici dei solidi, è
stato possibile sintetizzare una miriade di nuovi composti,
mettere a punto processi chimici efficienti ed eliminare sostanze inquinanti dall’ambiente.
Per illustrare come la chimica delle superfici ha influito sul
progressivo uso dei catalizzatori nelle reazioni, sono stati
scelti alcuni casi che rivestono notevole importanza scientifica, tecnologica e sociale.
Un esempio è costituito dall’uso dei catalizzatori per facilitare la decomposizione dell’ossido di azoto emesso dagli
scarichi delle automobili, grazie alla quale è stato possibile
alleviare il problema delle piogge acide.
Si vedrà poi in qual modo sia possibile la rimozione dello
zolfo dai combustibili di origine fossile allo scopo di migliorare la qualità dell’aria.
La funzione principale dei convertitori catalitici a base di
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pian piano perdendo la carica, si stava lentamente rilassando e disgregando.
L’interpretazione caotica dell’entropia fornita da Boltzmann
dava un nuovo significato del principio di non-conservazione: l’universo era un predatore della vita e tendeva alla morte e alla distruzione.
La creazione della vita era un atto innaturale, un evento casuale momentaneo, altamente improbabile, rispetto al disordine naturale delle cose. In breve la vita sfidava i principi della natura! Ma com’era possibile una tale sfida alla legge entropica? Come era possibile che potesse esistere vita
in un universo governato da un principio contrario alla vita stessa?
Clausius ora sapeva la risposta: come tutti i comportamenti innaturali, la vita era il risultato di una macchina i
cui effetti erano in grado di capovolgere i principi del naturale corso degli eventi, come un refrigeratore che riuscisse a far fluire calore dal freddo al caldo. Una vita appena creata corrispondeva alla massima variazione entropica negativa prodotta dalla macchina; questo significava
che la confusione degli elementi chimico-biologici risultante dalla combinazione di un ovulo femminile con uno
spermatozoo maschile veniva trasformata in un essere
ben organizzato, facendo così diminuire la disorganizzazione dell’universo. Come tale, la vita rappresentava, per
il casinò, una perdita incommensurabile, un’esperienza
fallimentare.
Secondo l’inesorabile principio di Clausius, comunque, le
auspicabili variazioni entropiche negative prodotte dalla
macchina della vita devono sempre essere superate dalle
funeste variazioni entropiche positive. Scientificamente, insomma, la creazione di un certo quantitativo di vita era
inevitabilmente accompagnata da un quantitativo maggiore di morte…
Adattato da: M. Guillen, Le cinque equazioni che hanno cambiato
il mondo, Longanesi, 1997.
platino e rodio per le automobili è di trasformare l’NO e il
CO presenti nei gas di scarico, in altri prodotti meno nocivi
come N2 e CO2.
Per poter studiare il meccanismo del processo è necessario
“osservare” quali cambiamenti subiscono le molecole dei
gas nell’interazione con una superficie. Si usano, a tal scopo, tecniche analitiche di vario tipo che consentono di misurare le forze che tengono uniti gli atomi, come la spettroscopia fotoelettrica a raggi X (XPS) e la spettroscopia ad alta risoluzione delle perdite di energia di elettroni (HREEL). Grazie a queste tecniche, intorno alla metà degli anni ˙80, sono
stati identificati gli stadi fondamentali della decomposizione
dell’ossido di azoto e determinati gli effetti sulla catalisi del
modo in cui gli atomi di rodio sono disposti sulla superficie
del substrato. L’analisi del meccanismo con cui agisce il rodio nel vuoto e alle alte pressioni esistenti durante il funzionamento del convertitore catalitico ha permesso di elaborare un modello generale del processo che consente di prevedere il comportamento di nuovi catalizzatori metallici.
Per uno studio ancora più dettagliato delle modalità con le
quali la struttura del rodio influenza la catalisi della reazione
di dissociazione dell’ossido di azoto, si è adottato di recente
proposte di letture integrative
Quando si parla del protone in soluzione acquosa, il primo
dubbio da risolvere riguarda il simbolo da adottare. È più
corretto scrivere H+ o H3O+? Le osservazioni da fare sono
due:
a. per semplificare i simboli si scrive H+ o H+(aq), in particolare per le reazioni di ossidoriduzione e quando si applica la legge di azione di massa;
b. dal momento che, in genere, non si indica il numero esatto delle molecole d’acqua di idratazione degli ioni metallici, si seguono le stesse regole per il protone e si scrive
H+(aq).
Le notazioni H+, H+(aq) e H3O+ sono usate da quasi tutti i
manuali come se fossero intercambiabili. Ci sembra invece
indispensabile, per non dare agli allievi l’impressione che la
chimica sia una scienza poco rigorosa, precisare la natura
delle specie presenti in una soluzione acida o basica.
Il protone solvatato
Il fenomeno della solvatazione rappresenta un aspetto particolare dell’interazione tra particelle che può essere spiegato con uno dei quattro tipi possibili di interazione:
Per un solvente come l’acqua, le cui molecole si comportano come dipoli permanenti, non è il caso di considerare le
forze di Van der Waals; per ioni piccoli, come H+ e Na+ e
in generale per le interazioni ione-acqua, non si considerano le interazioni del secondo tipo. Pertanto per uno ione in
soluzione acquosa sono possibili due tipi di interazione con
il solvente:
• un’interazione ione-dipolo non direzionale. Si tratta di un
fenomeno elettrostatico nel quale si ammette che la carica dello ione sia distribuita regolarmente su una sfera; il
numero di molecole d’acqua legate non è definitivo, in
quanto i valori trovati dipendono dal metodo adottato per
la determinazione. È quanto si osserva per lo ione Na+ in
soluzione acquosa;
• la formazione di un legame di coordinazione, grazie agli
elettroni liberi dell’ossigeno.
Nel caso del protone, bisogna innanzitutto tener presente
che si tratta di una particella subatomica. La carica di una
particella molto piccola crea attorno a questa un campo
molto forte. È dunque praticamente impossibile che, in condizioni normali, possa esistere in soluzione acquosa il protone “nudo”. L’energia di idratazione del protone in base ai
dati termodinamici assume valori molto diversi, a seconda
dello stato di riferimento dell’H+ e dell’H2O. Si può infatti
avere:
+ +H O
+
H(g)
2 (g) → H3O(g)
∆H° = –694 kJ/mol
oppure:
+ + H O → H O+
H(g)
2 (l)
3 (l)
∆H° = –1105 kJ/mol
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• interazioni di Van der Waals, non specifiche, molto deboli e a corto raggio;
• interazioni dipolo-dipolo tra molecole polari;
• interazioni ione-dipolo;
• formazione di legami chimici: coppie di ioni, legame covalente, legame di coordinazione.
Da: C. M. Friend, Catalisi di superficie, «Le Scienze», 298, giugno
1993.
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Il protone in soluzione acquosa
desolforazione è una miscela di cobalto, molibdeno e dello
stesso zolfo.
Nel corso degli ultimi anni è stato messo a punto un modello generale che descrive i meccanismi con cui i tioli,
un’importante classe di composti (contenenti il gruppo
–SH) presenti nel greggio, interagiscono con le superfici del
molibdeno.
Sono stati identificati diversi stadi del processo di desolforazione dei tioli. Il primo stadio consiste nella rottura del legame zolfo-idrogeno. Questo si svolge molto rapidamente
ed è favorito dai forti legami che zolfo e idrogeno formano
con la superficie del molibdeno. Negli stadi successivi il legame carbonio-zolfo viene spezzato e si forma il legame
carbonio-idrogeno che genera gli idrocarburi, cioè i prodotti della reazione.
Gli esempi visti rappresentano alcuni dei settori in cui viene
applicata con successo la chimica delle superfici. Tuttavia, per
comprendere come le superfici dei solidi interagiscono con i
legami e con la struttura di molecole complesse, è necessario
un ulteriore sviluppo del progresso tecnologico e teorico.
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il microscopio a scansione a effetto tunnel. Per produrre immagini delle superfici in scala atomica, il microscopio posiziona un sottilissimo stilo metallico a qualche decimo di nanometro dal campione e lo fa scorrere sulla sua superficie. Il
microscopio rivela che tra stilo e superficie si verifica un passaggio di elettroni e dal momento che questo è correlato alla
sporgenza degli atomi dalla superficie, l’informazione così ottenuta può essere tradotta in immagini.
La chimica delle superfici si è rivelata uno strumento utile
anche per chiarire il processo catalitico con cui si rimuove
lo zolfo dai combustibili di origine fossile. La presenza, anche in tracce, di questo elemento è nociva per l’ambiente
per due ragioni. In primo luogo, quando si brucia il combustibile in un motore, lo zolfo presente reagisce con l’aria e
forma ossidi di zolfo che contribuiscono al fenomeno delle
piogge acide. Inoltre lo zolfo si fissa al platino e al rodio contenuti nei convertitori catalitici, inattivandoli e contribuendo indirettamente a un aumento della quantità di NO e CO
emessa dai tubi di scarico.
Nelle raffinerie, lo zolfo viene rimosso durante la conversione del greggio in idrocarburi utili come, per esempio, l’ottano. Il processo deve eliminare tutto lo zolfo senza distruggere gli idrocarburi. Attualmente il miglior catalizzatore per la
Quest’ultimo valore, molto più alto di quello che si trova
per gli altri ioni monovalenti (Li+: ∆H°= –528 kJ/mol;
Na+: ∆H°= –419 kJ/mol; K+: ∆H°= –334 kJ/mol), dimostra che l’interazione tra il protone e l’acqua è molto forte
ed è quindi dovuta anche alla formazione di legami di coor-
13
materiali extraguida
UD 19
L’esistenza dello ione H3O+ è stata provata nel 1924 da Volmer con studi cristallografici sui cristalli di acido perclorico,
isomorfi del perclorato di ammonio. Più recentemente, essa
è stata confermata da studi condotti su soluzioni di acidi
alogenidrici mediante diverse tecniche spettroscopiche (IR,
NMR) e diffrazione di neutroni. Questi studi hanno anche
fornito informazioni sulla struttura dello ione H3O+.
In base agli studi condotti e ai relativi risultati, possiamo
dire che scrivere H+ è scorretto e scrivere H+(aq) per rappresentare il protone in soluzione acquosa sarebbe come
scrivere SO3(aq) per rappresentare l’acido solforico. La specie H3O+ esiste e i legami O—H sono più forti nello ione
H3O+ che nella molecola H2O. Lo ione H3O+, inoltre, è
Un deposito per le scorie nucleari in Italia
Il deposito di Yucca Mountain, nel deserto del Nevada, è
stato progettato in un contesto geologico stabile e in un
clima al riparo da uragani e cicloni. Ma come ci si comporta in un paese in cui il 50% del territorio è a rischio
idrogeologico e altrettanto sottoposto a quelli sismico e
vulcanico?
In Giappone, dove la situazione è simile alla nostra, si cercano terreni interposti fra le regioni vulcaniche; quanto ai terremoti, non sembrano essere un problema importante come
l’inquinamento delle falde idriche. Per questo motivo in
Giappone si cercano siti di stoccaggio al di sotto dei 1000 m
e fuori dal raggio di interferenza con fluidi sotterranei. Nell’Europa continentale si cercano formazioni rocciose granitiche all’interno degli antichissimi “scudi” (le parti originali
e stabili dei frammenti continentali più antichi) o miniere di
salgemma in aree non toccate da terremoti o vulcani. In tutti i casi le soluzioni non sembrano essere definitive, tantomeno in Italia.
Da un punto di vista geologico il problema non è insolubile: un sito adatto non deve presentare elevato rischio sismico, né vulcanico, né idrogeologico. Siti del genere sono
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dinazione. Si può, quindi, dedurre che:
• lo ione H+ reagisce con l’acqua formando un legame covalente dativo (di coordinazione) che dà origine allo ione
H3O+;
• lo ione H3O+ viene idratato dall’acqua.
14
Bombe atomiche tra le nuvole
I fulmini sono da sempre simbolo di potenza divina ed è infatti grazie a loro che, secondo la mitologia greca, Zeus riuscì a prendere il comando dell’Olimpo e a divenire il più potente degli dei. Forse perché i fulmini sono tra i fenomeni
atmosferici più spettacolari: ogni scarica conduce circa
30.000 ampere e riscalda l’aria che attraversa fino a 40.000
°C: almeno cinque volte più della superficie del Sole, quanto basta a disintegrare qualsiasi materiale.
I fulmini scoccano dove e quando vogliono, sfuggendo
spesso alle misure degli scienziati. La fase luminosa che noi
conosciamo è solo una delle tante di un fenomeno molto
più complesso e ancora in larga parte misterioso. Secondo
fortemente legato per interazione ione-dipolo a tre molecole d’acqua e, più debolmente, a una quarta.
La distanza O—H—O, cioè la lunghezza del legame idrogeno che unisce gli ioni H3O+ alle molecole di H2O solvatate
è stata valutata in 0,252 nm, più breve di quella valutata per
l’acqua pura che è circa 0,276 nm; ciò dimostra la forza delle interazioni tra la specie H3O+ e l’acqua solvatata.
Una scrittura corretta della specie H3O+(aq) sarebbe quindi
H3O(H2O)+
3 , ma poiché è d’uso non rappresentare le molecole di acqua di solvatazione, il simbolo H3O+(aq) è quello
che meglio rappresenta il protone in soluzione acquosa.
Resta un ultimo problema. Quale nome dare alla specie
H3O+? Sono stati usati i termini: idronio, ossonio e idrossonio. La IUPAC ha proposto il termine ossonio, ma è accettato anche il termine idronio, quello usato più comunemente.
Da: P.G. Albertazzi, B. Piacenza, A. Regis, E. Roletto, A proposito
di pH: una misura facile, un concetto difficile, «Didattica delle
Scienze», 149, 1990.
rari in Italia, ma non impossibili da individuare. La barriere ingegneristiche da mettere in opera e l’inertizzazione dei
rifiuti nucleari sono altri due problemi tecnici che possono
essere risolti: è solo una questione di spesa. La Sardegna e
la parte meridionale della Puglia sono le uniche regioni potenzialmente escluse da un rischio sismico e vulcanico elevato, anche se certamente lo stesso non si può dire per
quello idrogeologico. Perciò si è proposto di utilizzare come deposito le miniere del Sulci-Iglesiente, nella parte Sudovest dell’isola. Proprio in questi anni, però, il patrimonio
di archeologia industriale di Montevecchio è in via di valorizzazione in un progetto che coinvolge la messa in sicurezza delle miniere e del territorio. Le miniere di Montevecchio hanno conservato quasi integra la natura che ricorda il tempo in cui la Sardegna era una specie di foresta
galleggiante: chi visiterebbe un parco in cui sono stati stivati rifiuti radioattivi? Per l’individuazione di siti adatti l’idoneità geologica è il primo parametro, ma non solo: ci vogliono soluzioni che non compromettano il patrimonio naturalistico e storico-artistico del Paese.
Da: M. Tozzi, Come si sceglierà il deposito in Italia, da Centomila
anni di radiazioni, «Newton», 10, ottobre 2003.
ricerche recenti, i fulmini potrebbero perfino innescare reazioni nucleari nell’atmosfera.
Fino a non molto tempo fa si pensava che i fulmini fossero
semplici scariche elettriche, ma le cose non sono così semplici, i campi elettrici generati durante un temporale non
sono abbastanza intensi da provocare un scarica elettrica
tradizionale.
L’ipotesi più recente è che i fulmini siano dovuti a scariche
elettriche meno convenzionali (runaway breakdown), in
quanto richiedono campi elettrici meno intensi e producono particelle ultraveloci come i raggi X e i raggi γ. Una scarica di questo tipo sarebbe stimolata dal passaggio dei raggi cosmici che si comporterebbero come un fiammifero acceso in un pagliaio.
proposte di letture integrative
Una volta che una molecola è prevista dalla teoria, prima o
poi viene prodotta in laboratorio. Sembra essere questo il
principio che ha ispirato la ricerca dell’N4, o tetrazoto, un artefatto chimico costituito dall’unione di due molecole di N2,
il principale componente dell’aria che respiriamo.
L’interesse pratico per la sintesi del tetrazoto è legato al fatto che la sua decomposizione in due molecole di azoto è
fortemente esotermica e fornisce prodotti presenti naturalmente nell’atmosfera.
Sulle applicazioni delle molecole poliazotate si stanno facendo grandi investimenti. L’obiettivo è di avere composti che
Da: A. Parlangeli, Bombe atomiche tra le nuvole, «Focus», 143, settembre 2004.
liberano una grande quantità di energia quando si rompono,
senza produrre sostanze inquinanti. Nel caso dell’N4 l’energia liberata nella decomposizione si aggira intorno a 800 chilojoule per mole. Il problema però è che si tratta di una molecola troppo instabile per poter pensare ad applicazioni immediate: in un serbatoio, basterebbe la decomposizione di
una sola molecola per farle decomporre tutte. Per questo
motivo si sta studiando la possibilità di produrre molecole
più complesse. I chimici teorici pensano anche che una molecola di N8, o di N6, possa essere più stabile.
Da: F. Claudi, Quattro atomi per una supermolecola, «Le Scienze»,
403, marzo 2002.
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nerale è quello di una sottile lamina di acciaio dolce (a basso tenore di carbonio), rivestita su entrambe le facce principalmente da un sottile strato di stagno.
Banda stagnata coke
In passato la banda stagnata era ottenuta facendo passare
un rotolo di acciaio di 5.000-10.000 m in un bagno di stagno fuso, e l’eccesso di stagno veniva eliminato tramite due
serie di rulli. In questo tipo di lamiera lo stagno risultava
distribuito in modo irregolare e se ne doveva applicare almeno una quantità pari a 0,450 kg su una superficie di
20,2325 m2 . In tal modo la superficie risultava avere un
aspetto zebrato. A causa di questo aspetto esteticamente
sfavorevole questo tipo di banda stagnata non si usa più,
la si può trovare in rimanenze di magazzino o in merci declassate.
Banda stagnata ETP (electrolytic tin plate)
Viene prodotta mediante deposizione elettrolitica dello stagno sul lamierino di acciaio. Questo metodo permette di
controllare a proprio piacimento la deposizione metallica.
Generalmente la faccia che costituisce l’interno della sca-
UD 18, 20
Composizione e proprietà degli imballaggi metallici
Ogni imballaggio metallico per alimenti e non, è costituito
da una somma di diverse parti metalliche, chiamate “corpo” (struttura portante) e “coperchio”. Ognuna di queste
parti è costituita da un supporto metallico, il quale viene
verniciato internamente ed esternamente con rivestimenti
polimerici di varia natura. L’imballaggio metallico ha in
realtà, dopo una corretta verniciatura, le caratteristiche
meccaniche proprie del supporto metallico e le proprietà
chimiche di un package plastico poiché tale è la natura del
rivestimento impiegato.
I materiali principalmente usati per gli imballaggi metallici
sono in generale a base di acciaio e alluminio; in particolare tratteremo i seguenti tipi:
• Banda stagnata coke
• Banda stagnata ETP
• Tin Free Steel
• Black Steel
• Leghe di alluminio
I primi quattro tipi sono materiali in acciaio convenzionalmente denominati “bande stagnate”(tin plate). L’aspetto ge-
UD 20
Il tetrazoto
zioni chimiche nell’atmosfera. In seguito ai temporali estivi
infatti si verifica un aumento di ozono e di ossidi di azoto
tra i 5 e i 14 km di altezza.
Oggi si sospetta addirittura che, oltre a provocare reazioni
chimiche, i fulmini potrebbero innescare reazioni nucleari.
È stato osservato, infatti, che nel corso di alcuni temporali
la quantità di raggi γ nell’atmosfera aumenta, per poi scomparire dimezzandosi ogni 50 minuti. Questo suggerisce, secondo i ricercatori, che all’interno di un fulmine avvengono
violenti scontri tra particelle microscopiche (protoni energetici e atomi di argo) che generano atomi radioattivi, tra i
quali anche il 39Cl. Questo elemento infatti è caratterizzato
da un tempo di decadimento radioattivo di 50 minuti che
coincide con il tempo di dimezzamento misurato dei raggi
γ. In ogni caso il livello di radiazioni di cui si parla è così
basso da non costituire un pericolo per la nostra salute.
Dai fulmini comunque è meglio stare alla larga, la regola migliore sarebbe mettersi al riparo appena si vede giungere un temporale, e rimanerci fino a trenta minuti dopo l’ultimo tuono.
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Il fulmine quando nasce è invisibile. Il processo parte con
l’accumulo di cariche (di solito) negative alla base delle nuvole che attraggono le cariche positive a terra creando un
canale che si propaga dalla nuvola al suolo. Questo canale
invisibile si chiama “leader”, si muove con improvvise accelerazioni cercando il percorso che offre la minore resistenza e si dirama in continuazione “scolpendo” nell’atmosfera il percorso che sarà seguito dal fulmine luminoso in
una fase successiva. In questa fase preparatoria il fulmine
emette brevi flash di raggi X ad alta energia.
Mentre il “leader”, dotato solitamente di carica negativa, si dirige verso il basso, dal suolo si innalza di alcuni metri un flusso di carica opposta, in corrispondenza degli oggetti più alti (alberi). Quando le due diramazioni si incontrano, il circuito si
chiude, e una immensa corrente si riversa dalla terra al cielo,
generando il fulmine vero e proprio, cioè quello che vediamo.
Lo stesso accade per i fulmini che scoccano all’interno delle nubi o tra nube e nube.
Talvolta i temporali si sviluppano anche al di sopra delle
nubi, generando enormi scariche elettriche che giungono fino a 100 km di quota, sulla fascia più alta dell’atmosfera.
Queste enormi scariche elettriche attivano importanti rea-
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tola dovrà contenere più stagno e la faccia esterna, meno
sollecitata, ne potrà contenere meno. Successivamente il
lamierino viene sottoposto a ricottura continua a 232°C, in
questo modo lo stagno depositato si combina con il ferro
formando il complesso intermetallico FeSn2. Segue un processo di passivazione allo scopo di creare sulla sua superficie uno strato sottile di ossido di stagno con residui di cromo di spessore all’incirca costante. Anche il film di passivazione ha solo un effetto ritardante sul processo di ossidazione e la struttura dei lamierini non è sempre costante.
A questo scopo sono stati messi a punto diversi processi
tendenti a migliorare l’uniformità della passivazione utilizzando materiali a base di cromo. Questo è importante anche ai fini della resa dei prodotti vernicianti.
Banda cromata (Tin free steel ECCS)
La banda cromata differisce dalla banda stagnata per il rivestimento, composto di cromo metallico e suoi ossidi. Il
procedimento prevede un accurato decapaggio e un passaggio in elettrolisi con bagno di acido cromico/acido
solforico/acido esafluorosilicico. Il cromo complessivamente deposto varia dai 50 ai 140 mg/m2, mentre gli ossidi di cromo oscillano tra 7 e 35 mg/m2.
Quanto più alta è la quantità di ossidi di cromo rispetto
al cromo metallico superficiale, tanto più alta risulta l’adesività delle vernici.
Banda nera (Black steel)
La banda nera è il supporto di minor pregio tra quelli a base di acciaio a causa dell’assenza di rivestimenti e trattamenti vernicianti. Il suo impiego viene sconsigliato per lavorazioni di pregio o destinate a prodotti alimentari.
Leghe di alluminio
I materiali commerciati con questo nome sono in genere leghe di alluminio e magnesio con quantità marginali di cromo, manganese, zinco, titanio, ferro, silicio, rame...
L’antimateria
Nel corso del decadimento β– si libera una particella chiamata antineutrino elettronico. Dotato di massa piccolissima
(almeno 100.000 volte più piccola dell’elettrone) e senza carica elettrica, è l’antiparticella del neutrino elettronico.
Secondo la meccanica quantistica, infatti, per ogni particella
esiste la corrispondente antiparticella: particella e antiparticella hanno uguale massa ma carica e proprietà magnetiche
opposte.
La prima antiparticella scoperta fu l’antielettrone, l’elettrone
positivo (o positrone), nel 1932. A esso seguirono l’antiprotone, il protone con carica negativa, nel 1955 e, un anno do-
Il controllo della fusione nucleare
L’uomo si deve ingegnare in vari modi per poter riprodurre
sulla Terra condizioni simili a quelle esistenti nelle stelle,
dove i processi di fusione sono determinati dalla forza gravitazionale.
Il problema non è solo costituito dalla temperatura incredibilmente elevata richiesta per l’innesco delle reazioni di fusione (decine o centinaia di milioni di gradi), ma anche dall’esigenza di mantenere il combustibile allo stato infuocato
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La forte duttilità lo rende ideale per molteplici applicazioni
(capsule a vite, tubetti flessibili...), il suo uso è inoltre favorito dalla possibilità di riciclaggio pressoché completo, unico inconveniente è l’alto costo di produzione primaria.
I materiali a base di alluminio vengono preparati in diversi
modi a seconda dell’utilizzo finale. Per le bombole monoblocco e i tubetti flessibili, vengono prodotte pastiglie di lega estrusa, lavorate successivamente fino ad assumere la
forma voluta e alla fine verniciate sia internamente sia
esternamente.
Per le lattine si parte da rotoli di alluminio nudo verniciati
esternamente, imbutiti poi fino ad assumere la forma voluta e infine verniciati all’interno.
Tali materiali possono, dopo la laminazione a caldo o a freddo, subire un pretrattamento superficiale che ha l’unico scopo di migliorare la verniciabilità del supporto.
I trattamenti più utilizzati sono il processo HOT AC e ALODINE.
Il primo consiste nel sottoporre la lega a un bagno di acido
solforico bollente, provocando la completa anodizzazione
della superficie. L’alluminio allo stato di ossido non è più
aggredibile e la superficie diviene molto uniforme.
Nel processo ALODINE la lega viene trattata con un bagno
di acido cromico o cromati allo scopo di creare un velo superficiale di cromo metallico, ossidi di cromo e alluminio
che consente di avere supporti con eccezionale attitudine
alla verniciatura. La resistenza all’ossidazione è leggermente inferiore a quella che si ottiene con il processo HOT AC,
ma può essere corretta aggiustando opportunamente il titolo del bagno.
Da: S. Parisi, Composizione e proprietà dei principali supporti
metallici usati per il food metal package, « Il chimico italiano», 3/4,
luglio-agosto-settembre 2003.
po, l’antineutrone che, non avendo carica elettrica, si differenzia dal neutrone per le opposte proprietà magnetiche. Esiste pertanto anche l’antimateria, costituita da antinuclei, formati da antiprotoni e antineutroni, circondati da una nuvola
di positroni.
Pur tuttavia, anche se i suoi singoli componenti sono stati
scoperti, non pare che esistano quantità apprezzabili di antimateria in nessun luogo dell’universo osservabile.
Le particelle comunque non possono venire a contatto con
le relative antiparticelle poiché si annullerebbero in un processo chiamato annichilazione per trasformarsi nell’equivalente quantità di energia, come previsto dalla legge di Einstein.
per un periodo di tempo abbastanza lungo tale da dar luogo a un numero sufficiente di reazioni e, quindi, a un bilancio positivo di energia.
A eccezione dei processi di fusione che si verificano a temperature vicine alla temperatura ambiente, le principali vie
per sostituire la possibilità di confinamento gravitazionale
sulla Terra sono due, e precisamente il confinamento magnetico e il confinamento inerziale.
Mediante le macchine a confinamento magnetico le particelle elettriche cariche, ioni ed elettroni che formano un
proposte di letture integrative
Tuttavia esso consentì la fabbricazione di utensili e di armi dotate di caratteristiche tali (essenzialmente durezza
e resistenza) da contrassegnare un’età nella storia dell’Uomo.
Si produceva in forni (bassofuochi) in cui minerale e carbone di legna venivano bruciati sotto una spessa copertura di
argilla. Fino a tutto il Medioevo il ferro si otteneva sotto for-
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Il ferro, conosciuto dall’umanità da almeno 5500 anni come
testimoniano ritrovamenti effettuati in tombe egizie risalenti al 3500 a.C., era considerato inizialmente un metallo semiprezioso poiché l’estrazione dei suoi minerali in quantità
apprezzabili non era di facile realizzazione.
Adattato da: G. Federici, Le strade percorribili dall’uomo per riprodurre la fusione sulla Terra: il confinamento magnetico; il confinamento inerziale; la fusione cosiddetta “fredda”, «Nuova Secondaria», 3, novembre 1994.
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La siderurgia
In alternativa ai laser, che sono poco efficienti e molto costosi, si studiano soluzioni realizzabili con fasci di ioni pesanti, aventi massa di circa 200 u ed energia di 5-15 GeV.
Sono ritenuti da molti, e tra loro il nobel italiano Rubbia, i
più promettenti drivers reattoristici. Le prestazioni degli attuali acceleratori di ioni pesanti sono però nettamente inferiori a quelle necessarie per l’ottenimento della fusione inerziale.
Infine, nella fusione fredda viene sfruttata la capacità di certi materiali metallici, come palladio e titanio, di assorbire
elevatissime concentrazioni di idrogeno a temperatura ambiente. In tali condizioni sembra che il reticolo cristallino
possa fornire delle vie di moto privilegiate ai nuclei di idrogeno immagazzinati nel metallo. Aumenterebbe così la probabilità di collisione e di penetrazione della barriera di potenziale per un effetto quantistico chiamato “effetto tunnel”.
Il processo era da tempo noto, ma si era sempre pensato che
la probabilità dei processi di fusione in tali condizioni fosse
molto scarsa. Nel marzo del 1989 Fleischmann e Pons sostennero di aver constatato un enorme sviluppo di energia,
correlabile a reazioni nucleari di fusione, in celle elettrolitiche con elettrodi di platino in acqua pesante. Da allora si è
scatenata in tutto il mondo una corsa tendente a riprodurre
i risultati ottenuti, ma grossi dubbi esistono sulle metodologie usate nei vari laboratori per la misura dell’energia prodotta. Inoltre non sono ancora stati spiegati i meccanismi
che potrebbero consentire un sufficiente avvicinamento dei
nuclei. Malgrado gli annunci di ripetizioni e duplicazioni
degli esperimenti, tutti successivamente smentiti, non si ha
la certezza di nuove verifiche dell’esperimento di Fleischmann e Pons. Nessun esperimento scientificamente convincente ha per il momento confermato la possibilità di realizzare la fusione fredda al punto che le speranze di avere possibili applicazioni pratiche con questo metodo si vanno via
via dissipando.
Sempre relativamente alla fusione fredda, reazioni di fusione del deuterio, a temperature relativamente basse, inferiori a 1000 °C, e a pressioni di centinaia di atmosfere, possono essere catalizzate da muoni. Si tratta di particelle a vita
media molto breve (qualche millesimo di secondo), prodotte per collisione dei raggi cosmici con gli strati alti dell’atmosfera, o per incidenza su bersagli di carbonio di fasci di
ioni a elevata energia provenienti da acceleratori. Tuttavia
la percentuale delle reazioni realizzate in queste condizioni
è ancora estremamente bassa e comunque tale da richiedere dei miglioramenti prima di poter progettare una produzione di energia ai fini pratici.
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plasma, vengono intrappolate e obbligate a viaggiare lungo
le linee di un campo magnetico, prodotto da circuiti elettrici opportunamente configurati. Il plasma intrappolato con
questo sistema può essere riscaldato fino alle temperature
necessarie all’innesco della reazione di fusione.
Il tipo di configurazione magnetica di maggior successo fu
inventato da Sacharov nel 1951-1952 e si chiama Tokamak
(dal russo “macchina magnetica a camera toroidale”). Il
Tokamak è costituito da una camera a vuoto fatta a toro
(cioè a ciambella). Le correnti che circolano in bobine avvolte attorno a essa originano un campo magnetico molto
intenso lungo l’anello (campo magnetico toroidale). Nel
Tokamak il plasma assume la forma di un anello e in esso
si induce, per mezzo di un trasformatore, una corrente che
ne consente il riscaldamento. La corrente produce un secondo campo magnetico molto intenso che circonda l’anello di plasma (campo magnetico poloidale) e che si combina
con quello toroidale formandone uno ad andamento serpeggiante.
Il problema principale del Tokamak consiste nel mantenere
confinato il plasma alle temperature e densità volute, per
tempi sufficientemente lunghi. A ciò si deve aggiungere che
i campi magnetici richiesti sono elevatissimi, ottenibili con
l’impiego di ingenti quantità di corrente elettrica, o con l’utilizzo di superconduttori.
Nella fusione inerziale, si bombardano dei bersagli miniaturizzati di combustibile, detti “pellets”, mediante fasci di
energia generati da potenti sorgenti pulsate di energia, dette
“drivers”, costituite da laser della potenza di mille miliardi
di watt o cannoni di ioni pesanti. Il bersaglio si riscalda rapidamente e, in un miliardesimo di secondo, lo strato superficiale arriva a qualche milione di gradi. Si ottiene un involucro di plasma che si espande velocemente verso l’esterno, mentre la parte centrale del bersaglio, per reazione, si
comprime, anch’essa velocemente, fino a raggiungere valori di densità fino a venti volte maggiori di quelli del piombo.
L’inerzia mantiene insieme questa stella miniaturizzata, per
tempi dell’ordine del decimo di miliardesimo di secondo,
abbastanza lunghi perché si inneschino le reazioni di fusione termonucleare, aiutate anche dal continuo irraggiamento del laser che porta rapidamente la temperatura a circa
100 milioni di gradi.
Uno dei principali problemi da risolvere è quello di mantenere la simmetria sferica del processo di riscaldamento. Ciò
si può ottenere mediante i cosiddetti metodi di riscaldamento diretto e indiretto. Nel riscaldamento diretto, molti
raggi laser arrivano in sincronia sul bersaglio da diverse direzioni. Nell’irraggiamento indiretto, il pellet viene posto in
una cavità rivestita da materiale ad alto numero atomico.
L’energia del driver viene inviata nella cavità e trasformata
in raggi X che provocano l’implosione del bersaglio.
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ma di spugna, che doveva essere lavorata alla forgia per
espellerne le impurità e dare al pezzo la forma voluta.
L’introduzione dell’uso del carbone minerale come combustibile comportò forni di nuova concezione, consentendo
così di ottenere maggiori quantità di materiali ferrosi, sotto
forma di ghisa e acciaio, le due leghe più importanti di questo metallo.
La ghisa, costituita essenzialmente da ferro molto ricco di
carbonio, veniva prodotta in quantità predominante ma,
nella zona più calda del forno nella quale veniva introdotta
aria, essa poteva essere convertita in acciaio, caratterizzato
da un più basso contenuto di carbonio.
Con il processo Martin-Siemens del 1864 fu infine possibile
ottenere grosse quantità di acciaio, molto più resistente della ghisa alle sollecitazioni meccaniche e molto più versatile
perché offre la possibilità di diverse applicazioni.
La metallurgia dei materiali ferrosi, la siderurgia, si basa attualmente sull’uso dell’altoforno per la produzione della
ghisa e sull’impiego dei convertitori per ottenere l’acciaio.
Per comprendere l’importanza di questi materiali si consideri che essi rappresentano il 90% della produzione mondiale di metalli.
L’altoforno viene caricato con strati alterni di coke, minerale di ferro e sostanze che favoriscono la fusione, disposti in
modo regolare.
Le complesse reazioni che hanno luogo all’interno tra i gas
che salgono e i materiali che discendono possono, molto
semplicemente, essere così riassunte.
L’aria calda, insufflata nel ventre, permette, bruciando il
coke, di raggiungere alte temperature (1600-1800 °C):
C + O2 → CO2
Il biossido di carbonio reagisce con altro coke producendo
ossido di carbonio:
CO2 + C → CO
che funziona da riducente sugli ossidi di ferro del minerale:
3 CO + Fe2O3 → 3 CO2 + 2 Fe
cati di ferro e calcio che costituiscono la scoria, capace di
trattenere la totalità di alcuni elementi indesiderati (Al, Ti,
Mg) e buona parte di altri, come manganese e zolfo, provenienti tutti dal minerale o dal coke. Inoltre la scoria, galleggiando sulla ghisa fusa, la protegge dall’ossidazione dell’aria calda insufflata.
La ghisa, costituita da ferro contenente carbonio dall’1,9 al
6%, è un materiale duro, cioè dotato di alta resistenza alla
scalfittura, e fragile, ossia caratterizzata da bassa resistenza
agli urti. Inoltre, poiché può essere colata con gran facilità,
la ghisa si presta bene alla lavorazione a caldo.
Eliminando dalla ghisa, mediante ossidazione a CO2, buona parte del carbonio, si ottiene una lega lavorabile a freddo, l’acciaio, in cui la percentuale di carbonio è compresa
tra lo 0,02 e l’1,9%. Nel corso dell’operazione inoltre si
provvede alla depurazione da zolfo e fosforo, correggendo
anche il contenuto di altri elementi, come silicio e manganese.
Il processo viene effettuato nei convertitori ad aria soffiata,
nei forni Martin-Siemens o nei forni elettrici in ordine crescente della qualità di acciaio desiderata. Il forno elettrico
consente una raffinazione molto spinta ma, richiedendo
un’ingente quantità di energia elettrica, viene impiegato solo per la fabbricazione degli acciai di qualità o di acciai legati. In esso la carica viene portata a fusione facendo scoccare un arco voltaico tra elettrodi di grafite e la carica stessa. Raggiunto lo stato liquido, si addizionano sostanze correttive secondo le stesse modalità impiegate negli altri convertitori, e si immette un flusso di ossigeno tale da consumare il quantitativo di carbonio voluto.
Successivamente le scorie vengono eliminate e, se si devono produrre acciai legati, si operano le aggiunte necessarie
dei differenti elementi.
Nella tabella sono riportati i più importanti costituenti degli
acciai legati, e le relative proprietà.
Gli acciai possono subire trattamenti termici (tempra, ricottura e bonifica) o chimici (cementazione, nitrurazione o
carbonitrurazione) che consentono di conferire loro le caratteristiche richieste dallo scopo cui sono destinati.
La tempra, per esempio, consiste nel riscaldare l’acciaio e
Componenti
Man mano che i gas presenti salgono cedono calore al minerale ed escono dall’altoforno dopo aver essiccato il minerale in ingresso, a circa 200 °C. Essendo molto ricchi di
CO vengono inviati a bruciare entro apposite torri (recuperatori Cowper) costituite da materiale inerte disposto a
graticola. Il calore della combustione viene qui immagazzinato e utilizzato per riscaldare l’aria destinata a entrare
nel ventre.
Il minerale di ferro introdotto dall’alto, dopo essere stato essiccato mediante preriscaldamento, viene gradualmente ridotto dal CO e dal C che incontra procedendo verso il basso: già nella parte superiore del tino, a 450 °C, ha inizio la
riduzione che si completa solo nel ventre. In esso inoltre
una parte del ferro ridotto forma con il carbonio composti
del tipo FeC3 dando luogo alla ghisa che si raccoglie allo stato fuso, alla base dell’impianto, nel crogiolo.
All’interno dell’altoforno viene introdotto anche calcare che
si decompone producendo ossido di calcio; questo si combina con la silice presente nei minerali di ferro per dare sili-
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cobalto
Proprietà conferite
conferisce durezza che permane anche alle alte
temperature
cromo
aumenta la profondità della tempra, la resistenza a trazione
e la resistenza a usura. Conferisce inossidabilità. Rende
difficili le operazioni di saldatura
manganese
riduce la fragilità a caldo e migliora la temprabilità; in alte
percentuali aumenta la durezza
molibdeno
determina caratteristiche simili a quelle del cromo, rispetto
al quale presenta anche una migliore saldabilità
nichel
conferisce durezza, tenacità e resistenza al
surriscaldamento; unito al cromo corregge i difetti da
questo introdotti
niobio e tantalio stabilizzano la struttura soprattutto degli acciai inossidabili
silicio
aumenta la temprabilità, la durezza e l’elasticità
titanio
migliora la resistenza alla corrosione e all’usura
tungsteno
migliora la resistenza all’abrasione, particolarmente alle alte
temperature
vanadio
aumenta la resistenza alla fatica e l’elasticità
proposte di letture integrative
mantenerlo per un certo tempo ad alta temperatura; successivamente esso viene raffreddato in modo rapido con
acqua, olio o altri fluidi. Si ottiene così l’acciaio temprato a
elevata resistenza meccanica e durezza superficiale.
Tra i trattamenti chimici si ricorda la carbonitrurazione, già
nota da quasi due millenni. Le legioni romane erano fornite
di spade molto resistenti perché, dopo la forgiatura, venivano immerse ancora incandescenti in una miscela composta
da polvere di carbone di legna, corna di bue e pezzi di pelle tritati.
Grazie ai miglioramenti impiantistici del forno elettrico, da
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La Terra è un pianeta vivente in continua trasformazione ed
è sede di grandiosi processi in seguito ai quali gli elementi
chimici si spostano e vengono a far parte delle più svariate
combinazioni.
Il contatto tra la litosfera e l’idrosfera dà origine alle modificazioni più sostanziali della superficie terrestre. Il ciclo
dell’acqua (evaporazione-precipitazione-trasporto) opera
un vero e proprio lavaggio dei continenti. L’acqua è un potente agente corrosivo: scorrendo sulle rocce porta in soluzione ioni che, attraverso torrenti e fiumi, arrivano al mare, disgrega i minerali formando residui che, secondo la loro evoluzione, costituiscono la sabbia o il suolo e convoglia meccanicamente una parte di essi verso l’oceano. Nell’oceano i materiali detritici si depositano e alcuni ioni, formando composti insolubili, precipitano.
Se nel ciclo erosione-sedimentazione non intervenissero altri fenomeni a trasformare la Terra, essa tenderebbe a trasformarsi in una palla liscia. La chimica dell’idrosfera è
strettamente collegata al contatto di questa con la litosfera
e all’esistenza della biosfera.
Nella litosfera si verificano inoltre due altri tipi di fenomeni. In determinate condizioni climatiche e meteorologiche
o per azione di alcuni eventi, i minerali presenti in superficie subiscono considerevoli trasformazioni. Queste trasformazioni in fase solida si producono sotto l’effetto di un aumento di temperatura e di pressione e sono dette trasformazioni metamorfiche. Esse hanno l’effetto di cambiare
l’aspetto o la composizione mineralogica delle rocce, ma in
genere le trasformazioni chimiche nel corso di questi processi sono relativamente limitate.
Un’altra serie di fenomeni importante per la stratificazione
chimica del globo è rappresentata dai fenomeni magmatici. Masse di silicati fusi che si formano a grandi profondità
vengono spinte verso l’alto fino a raggiungere la crosta terrestre dove si raffreddano e cristallizzano. Quando queste
masse fuse arrivano fino alla superficie si parla di vulcanismo, quando invece restano più in profondità si parla di
plutonismo.
Come abbiamo appena visto, la Terra si può assimilare a
uno stabilimento chimico la cui principale caratteristica
consiste nella molteplicità di reazioni che si verificano in
condizioni estremamente varie di temperatura e di pressione.
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La Terra: stabilimento chimico
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Studi oceanografici effettuati a partire dalla seconda metà
del XX secolo hanno rivelato che sui fondali dell’Atlantico
giacciono noduli di diametro variabile tra 1 cm e 1 m. L’analisi di questi noduli ha messo in evidenza che essi sono
costituiti da 1/3 di acqua, 1/3 di diidrossido di manganese
e 1/3 di silicati.
In questi noduli sono presenti anche piccole quantità di
Fe, Ti, Cu, Ni e di altri metalli pesanti, pertanto essi costituiscono nel complesso ricchissimi giacimenti di metalli con punte dell’ordine di 20.000 t/km2. La loro maggiore concentrazione si è rinvenuta al largo di Miami nel
1965, a 5500 m di profondità. Esplorazioni condotte sui
fondali degli altri oceani hanno evidenziato che questo
fenomeno non si limita all’Atlantico: tali noduli ricoprirebbero il 10% dei fondali dell’Oceano Pacifico, con un
peso totale di 1 miliardo e mezzo di tonnellate. Non è
stata ancora chiarita l’origine di tali depositi. Alcuni suppongono che si formino in seguito ad attività biologiche,
altri a causa di fenomeni chimici.
In base alla stima, la quantità di metalli accumulata in questi noduli è a dir poco stupefacente: essi conterrebbero alluminio e rame in quantità tali da soddisfare le necessità mondiali per migliaia di anni. Inoltre, il ferro e il piombo presenti in quelli del solo Pacifico ammonterebbero a centinaia
di migliaia di milioni di tonnellate. I problemi relativi al loro sfruttamento non sono ancora stati risolti. Malgrado la
loro abbondanza, infatti, la profondità media a cui sono situati, circa 4000 metri nel Pacifico, pone fuori gioco l’impiego delle draghe convenzionali.
Attualmente si studiano test di raccolta per mezzo di draghe ad aria compressa, operanti su giacimenti a profondità
relativamente modesta, circa 1000 m, situati in alcune zone della piattaforma continentale, come il Blake Plateau, al
largo della costa atlantica sudorientale degli Stati Uniti.
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I noduli manganesiferi
parecchi anni si è sviluppato quel settore della siderurgia che
utilizza i rottami di ferro. Attualmente numerose acciaierie,
dette miniacciaierie perché non superano le 250.000 t annue
di produzione, sfruttano esclusivamente il rottame, evitando
così gli inconvenienti tecnici relativi agli impianti che si incontrano partendo dal minerale.
Una miniacciaieria, oltre a presentare meno problemi di tipo ambientale rispetto a un impianto tradizionale, ha un costo di investimento che è solo un quinto e un consumo di
energia pari ai due terzi. In questo campo Stati Uniti, Italia
e Germania sono all’avanguardia.
Da: C.J. Allegre, G. Michard, La Geochimica, Newton Compton
editori, 1977.
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Le leghe metalliche che hanno memoria
Le leghe metalliche a memoria di forma hanno la caratteristica, una volta plasmate in una certa forma e poi deformate, di riassumere spontaneamente la forma originaria se
vengono sottoposte a un aumento di temperatura. Sono utilizzate per gli attuatori meccanici, protesi articolari, per gli
stent con cui si ricostruiscono le arterie occluse, perfino per
reggiseno che si adattano alla forma del corpo e la ricordano anche dopo il lavaggio. Solo alcune leghe posseggono
questa proprietà; la prima a essere utilizzata e la più diffusa, è il Nitinol, così chiamato perché è una lega di nichel e
titanio.
Il fenomeno è dovuto a un cambiamento della struttura
cristallina della lega. A temperatura ambiente la lega è nella cosiddetta fase martensitica, caratterizzata da una struttura a zig-zag: il solido è costituito da porzioni simmetri-
che, rispetto a quelle adiacenti, nella disposizione atomica. In queste condizioni la lega è facilmente deformabile:
applicandovi una pressione, i piani degli atomi scivolano
l’uno rispetto all’altro e la forma si modifica. Riscaldando
la lega oltre i 50 °C la sua struttura cristallina passa alla
fase austenitica, che pur essendo meno densa è più rigida
di quella martensitica. In questa fase la struttura cristallina diviene cubica: gli atomi della lega si riarrangiano gli
uni rispetto agli altri riproducendo la forma che il pezzo
aveva prima della deformazione. Per “cancellare” la memoria e dare alla lega una nuova forma da memorizzare,
è necessario riscaldare il metallo ad alta temperatura (circa 500 °C) e poi raffreddarlo a una velocità che dipende
dalla lega utilizzata.
Da: Come eravamo: le leghe metalliche che hanno memoria, «Newton», gennaio 2005.
Rilascio, trasporto e solubilità di platino e palladio nell’ambiente
Platino e palladio, pur essendo tra gli elementi meno abbondanti nella crosta terrestre, hanno visto notevolmente aumentate le loro concentrazioni nelle matrici ambientali (aria,
acque e suolo) particolarmente nelle aree più industrializzate e caratterizzate da intenso traffico automobilistico.
Il platino e il palladio insieme al rodio sono i principali componenti attivi dei convertitori catalitici introdotti per minimizzare le emissioni di NOx, CO, e idrocarburi incombusti
dai gas di scarico. Sebbene le nuove marmitte abbiano apportato indubbi miglioramenti sulla qualità dell’aria, il loro
uso ha determinato un aumento considerevole della presenza di Pt e Pd nell’ambiente, tanto che questi elementi sono stati riscontrati anche in campioni di nevi recenti della
Groenlandia, in concentrazioni da 40 a 100 volte maggiori
rispetto a quelli misurati nei campioni di ghiaccio più antichi. Platino e palladio inerti allo stato metallico, quando trasportati dalle piogge nei recettori acquatici possono essere
solubilizzati, divenendo di fatto reattivi e tossici.
Nella marmitta catalitica il platino e il palladio catalizzano
l’ossidazione del CO e HC mentre il rodio favorisce la riduzione degli NOx. Le complesse reazioni chimiche che avvengono all’interno del catalizzatore si verificano, invece
che a 600-700 °C a circa 220 °C.
Le sollecitazioni meccaniche e il deterioramento chimico
cui è soggetto il film catalitico comportano la presenza dei
suddetti elementi nel particolato emesso dagli autoveicoli.
Una volta rilasciati nell’atmosfera per via della loro massa,
ricadono nelle immediate vicinanze della fonte di emissione. Ad esempio, le concentrazioni di Pt nelle polveri raccolte in strade con intenso traffico sono 7-10 volte superiori a
quelle raccolte in strade a bassa densità di traffico.
Nel particolato atmosferico il platino si presenta generalmente sotto forma di nanocristalli di Pt0 aderenti a particelle di γ–Al203, di dimensioni micrometriche, a volte accompagnato da piccole quantità di metallo nella sua forma ossidata (Pt4+), specie che mostra, rispetto alla forma metallica, maggiore mobilità e solubilità in acqua per processi di
–
complessazione (PtCl62 ), e quindi più disponibile all’utilizzo da parte delle piante.
La distribuzione del Pt e del Pd nelle particelle di varia dimensione non è omogenea. Nella polvere è stato osservato
un aumento delle concentrazioni dei due elementi al diminuire della frazione granulometrica, con concentrazioni del
palladio e platino nelle particelle più fini (<40 µm) di due
o tre ordini di grandezza maggiori di quelle nelle frazioni
grossolane (500-200 µm).
Dalle stime di emissioni e dai dati del traffico autoveicolare
è tuttavia possibile valutare approssimativamente la quantità totale di Pt rilasciata in atmosfera da parte delle autovetture.
Sebbene attualmente le emissioni di Pt e Pd siano molto basse, non ponendo quindi seri rischi per la salute dell’uomo,
poiché il numero delle vetture munite di marmitte catalitiche tenderà ad aumentare in futuro, sarebbe opportuno monitorare il loro contenuto nell’ambiente per gli anni futuri.
Monitoraggio che si rende del tutto indispensabile per la salvaguardia dell’uomo e dell’ambiente, soprattutto alla luce
dei più recenti studi sperimentali che hanno messo in rilievo
la maggiore mobilità e solubilità di questi elementi.
Da: Nuove forme di contaminazione ambientale, «Inquinamento»,
62, luglio-agosto 2004.
La chiralità: la natura, l’uomo, le sintesi stereoselettive
Le sintesi stereoselettive vengono realizzate sempre più
spesso per ottenere composti con caratteristiche stereochimiche precise, più efficaci e selettivi nei rispettivi impieghi.
È interessante esaminare, pur entro determinati limiti, gli
aspetti naturali e antropologici del problema della chiralità
e le sue implicazioni scientifico-culturali.
Prendiamo in considerazione il guscio di due lumache di
Borgogna, una con il guscio disegnato a elica sinistrorsa e
l’altra con guscio a elica destrorsa.
Niente di speciale, il contenuto di una non è certamente più
proposte di letture integrative
to da costituire la “corazza” degli insetti.
Il carbonio ha anche la possibilità di formare legami chimici doppi o tripli, dando origine a strutture ramificate e tridimensionali. In questo modo le sue possibilità “architettoniche” diventano quasi infinite. Oltre alle lunghe catene degli
idrocarburi, prendono così forma strutture enormemente
più intricate come le proteine delle pareti cellulari o l’emoglobina.
I legami in una molecola che contiene carbonio possono
anche torcersi e arrivare a una flessibilità elevatissima. Le
proteine, le molecole di cui sono costituiti la maggior parte
degli organismi animali e vegetali, hanno due strutture di
base, che si chiamano eliche o piani paralleli. Le prime sono simili alla famosa elica del DNA, le seconde sembrano
strisce di carta. Alternando i due tipi di struttura si possono realizzare infiniti modelli, un po’ come l’origami ricava
le forme più strane da un foglio di carta.
Le diverse forme delle molecole a base di carbonio influenzano anche le loro proprietà chimico-fisiche, che sono le più
diverse. Vino e olio (o, meglio, etanolo e acido oleico che
ne sono i componenti principali) sono per esempio costituiti entrambi da carbonio, idrogeno e ossigeno. Il primo è solubile in acqua, il secondo del tutto insolubile.
Un’altra qualità del carbonio riguarda l’energia dei legami.
Tutte le forme di vita hanno bisogno di catturare, usare e
accumulare l’energia. I vegetali lo fanno con la fotosintesi,
gli animali mangiando. Una volta che il cibo è nell’organismo, particolari molecole (gli enzimi) spezzano i legami tra
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Per abbondanza nell’universo è il quarto atomo, e sulla crosta terrestre il quattordicesimo. Eppure il carbonio è l’elemento per noi più importante: la base della vita. Lo si trova
nei tessuti di tutti gli esseri viventi, nel cibo che mangiamo,
nei vestiti, nei cosmetici, nei carburanti. Le sue proprietà si
possono così riassumere: si lega a tantissimi altri atomi, ma
se il corpo ne ha bisogno rompe facilmente i legami chimici, consente di creare strutture estremamente complesse come il DNA e i suoi composti hanno proprietà diversissime.
Nelle strutture viventi, il carbonio è legato soprattutto con
l’idrogeno; assieme compongono migliaia di molecole diverse. Il legame con altri atomi di carbonio o con l’idrogeno è forte, ma non fortissimo; per esempio non oppone
resistenza se la cellula deve romperlo. Carbonio e idrogeno possono insieme formare molecole molto diverse, dalla più semplice, il metano, alle più complesse come il
benzene.
Quando poi le catene si allungano o diventano anelli, le molecole organiche possono diventare solide. Le catene di atomi di carbonio sono tra le più stabili in natura. Ancora più
robusti sono gli anelli. Gli zuccheri come il glucosio e il fruttosio sono appunto anelli dove oltre al carbonio entrano anche idrogeno e ossigeno. Il glucosio, inoltre, è la base per la
molecola organica più abbondante nella biosfera, cioè la
cellulosa, lo scheletro di tutti i vegetali. Un’altra molecola a
base di carbonio, la chitina, è tra le più solide in natura tan-
Dall’editoriale di S. Maiorana, «La chimica e l’industria», novembre 1998.
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Il carbonio: l’elemento della vita
se, ma coerenti. Basta pensare alla selettività delle interazioni tra i fattori, sia endogeni sia esogeni, e i recettori
(strutture proteiche costituite dagli amminoacidi della serie
naturale) e alle conseguenze biologiche di questa selettività;
oppure considerare che tra tutti i “mattoni” costituenti sostanze complesse che rientrano nell’alimentazione quotidiana, come i polisaccaridi e le proteine, soltanto alcuni,
con precise configurazioni e strutture steriche, sono in grado di interagire con i substrati biologici.
Il drammatico evento, causato negli anni ’60 dall’effetto teratogeno dell’enantiomero (S) del farmaco Contergan (Talidomide), venduto allora in forma racemica ha radicalmente
mutato l’aspetto normativo e l’atteggiamento della ricerca
chimica nei confronti dello sviluppo e della valutazione biologica dei composti chirali da utilizzare in organismi viventi. Di conseguenza si è arrivati a uno sviluppo di un’industria e di una ricerca aventi come obiettivo l’acquisizione e
l’applicazione di tecnologie selettive, anche sofisticate, per
la produzione di singoli enantiomeri da utilizzare come farmaci, prodotti per l’agricoltura e aromi. Molti vecchi farmaci utilizzati per anni come racemati godono oggi di importanti “seconde vite” attraverso il cosiddetto chiral switch
che consiste nella messa a punto della sintesi e nella produzione dell’enantiomero che possiede la maggior attività terapeutica. L’industria della chimica fine moderna è, quindi,
non solo più rispettosa dei problemi economici e ambientali (in senso lato), ma anche di elevato contenuto tecnologico, scientifico e culturale.
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gustoso di quello dell’altra, ma il fatto sorprendente è che
solo una lumaca su ventimila ha il guscio a elica sinistrorsa.
Come viene identificata? L’apertura di accesso all’interno
del guscio di ognuna delle due lumache è l’immagine speculare di quella dell’altra lumaca, per cui l’operatore che
estrae la lumaca tenendone il guscio, per esempio, con la
mano sinistra, in un determinato modo, nel caso della lumaca con guscio a elica sinistrorsa, troverà questo anziché
la sua apertura. Questa è la lumaca “diversa”.
L’operazione, condotta tramite l’uso della mano che è chirale, consente di discriminare i due tipi di gusci anch’essi
chirali. Mani e gusci sono esempi dell’asimmetria in natura: un fenomeno e una realtà tra i più misteriosi e affascinanti, che hanno spinto a molte riflessioni e sperimentazioni, senza peraltro che si siano potuti ottenere risultati definitivi. Pur restando non risolto (se non per fede) il problema del “primo evento”, è spontaneo collegare tra loro il problema dell’origine della vita e quello che ha dato origine all’esistenza degli enantiomeri in natura. L’enantiomeria è un
fattore necessario alla vita o ne è una conseguenza?
L’origine di questo fenomeno è da ricercare nell’epoca prebiologica o in quella biologica? È nato in seguito a una vicenda evolutiva? Il “caso” o la “necessità” hanno determinato l’esistenza di mattoni chirali ed enantiomeri di precisa
configurazione? Attraverso quali meccanismi?
È un fatto veramente stupefacente che, pur nella complessità delle strutture viventi, uno solo degli enantiomeri (salvo rare eccezioni) di queste biomolecole semplici (“i mattoni”) sia disponibile per essere utilizzato per la costruzione
di queste strutture. Negli organismi viventi una specifica
forma enantiomera esplica funzioni e interazioni comples-
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gli atomi degli alimenti (zuccheri, grassi, proteine) e ricavano l’energia necessaria per la vita delle cellule. Un’energia che non deve essere né troppa (la cellula brucerebbe)
né troppo poca (la cellula morirebbe di fame). Solo gli atomi di carbonio rilasciano l’energia alla giusta velocità per
la cellula. Il carbonio è indispensabile alla vita ma non è il
solo, è la sua capacità di legarsi ad altri atomi a renderlo
così utile. Quando nella formula entrano alcuni atomi,
cambia la natura delle molecole. Il carbonio si lega con os-
Polipropilene isotattico
Nella polimerizzazione dei monomeri vinilici monosostitui=CH) si formano catene in cui si alternano carboni
ti (CH2=
asimmetrici a gruppi –CH2–. A seconda del modo con cui i
monomeri si addizionano si possono originare le seguenti
strutture:
• atattica, nella quale i centri chirali hanno configurazione
casuale;
• isotattica, in cui i carboni asimmetrici hanno tutti la stessa configurazione;
• sindiotattica, se le due configurazioni dei carboni asimmetrici sono alternate.
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Le tre strutture, pur derivando dalla polimerizzazione dello
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Materiali plastici biodegradabili
La maggior parte dei materiali polimerici attualmente in uso
non è facilmente degradabile, il che comporta notevoli problemi quando i relativi manufatti debbano essere smaltiti
come rifiuti, in quanto causano la degradazione dell’ambiente.
In questi anni sono stati ottenuti, spesso da fonti rinnovabili, nuovi materiali polimerici degradabili in condizioni ambientali controllate.
Essi possono essere suddivisi in biodegradabili, fotobiodegradabili, idroliticamente e ossidativamente degradabili. In
particolare, per materiali biodegradabili si intendono materiali che per azione di microrganismi vengono completamente convertiti in CO2 e H2O o in CH4 e H2O, rispettivamente in condizioni aerobiche e anaerobiche.
Sebbene i materiali polimerici biodegradabili siano generalmente più costosi di quelli attualmente in uso, essi hanno
un minore impatto ambientale e risultano idonei alla fabbricazione di numerosi tipi di oggetti quali sacchetti, contenitori per alimenti, imballaggi a perdere, pellicole per pacciamature e per impieghi di tipo farmaceutico e biomedico.
I più comuni materiali polimerici biodegradabili attualmente reperibili in commercio comprendono poliesteri di origine batterica, poliesteri alifatici, polimeri idrosolubili e derivati di polimeri naturali.
Per la produzione dei poliesteri di origine batterica si sfrutta la capacità di numerosi batteri e alghe di accumulare al
loro interno, in particolari condizioni ambientali, granuli
costituiti da poli-3-idrossibutirrato (PHB), poliestere derivante dalla condensazione di n molecole di acido 3-idrossibutirrico.
sigeno, fosforo, zolfo, azoto, come impalcatura è ottimo
ma gli vanno attaccati altri moduli per arrivare alla vita come la conosciamo.
Il fatto che il carbonio rompa i suoi legami facilmente fa sì
che possa entrare in molti processi dello sviluppo circolare
come i cicli biogeochimici.
Da: Il carbonio: l’elemento della vita, «Focus», 143, settembre 2004.
stesso monomero, hanno proprietà diverse.
Per esempio il polipropilene, ottenuto secondo la normale
polimerizzazione radicalica, è atattico e ha proprietà tecnologiche molto scadenti: è poco consistente e dimostra scarsa resistenza al calore.
Nel 1950 K. Ziegler e G. Natta scoprirono che una miscela
di TiCl4 e Al(CH2CH3)3 poteva orientare i monomeri del
propilene in modo che la polimerizzazione avvenisse dando luogo alla forma isotattica del polimero.
Si parla in questo caso di catalizzatori stereospecifici, per la
cui scoperta Ziegler e Natta ricevettero il premio Nobel nel
1963.
Il polimero isotattico, più denso e con struttura cristallina,
presenta eccellenti proprietà tecnologiche. Viene impiegato
per la fabbricazione di tubazioni, bottiglie, oggetti per la casa, contenitori per alimenti, sacchetti, giocattoli.
Variando opportunamente le condizioni di crescita e il nutrimento dei microrganismi, è possibile produrre tutta una
serie di polidrossialcanoati (PHA) contenenti nella catena
laterale gruppi funzionali diversi, come alogeni, doppi legami, gruppi ossidrilici e anelli aromatici.
I poliesteri alifatici vengono preparati per sintesi e sono costituiti da poliacido lattico (PLA), prodotto generalmente
per polimerizzazione del dimero ciclico dell’acido lattico,
ottenuto a sua volta dalla fermentazione di carboidrati con
lactobacillus.
In alcuni processi industriali vengono impiegati il mais e altri
prodotti di origine vegetale per la produzione di EcoPLA, un
materiale termoplastico biodegradabile ad acido lattico.
Il PLA presenta elevata resistenza alla trazione e può essere
estruso o prodotto sotto forma di film o di fili, ma si idrolizza
con facilità. Materiali dotati di migliori proprietà meccaniche
e biodegradabili sono costituiti dai copolimeri dell’acido lattico e dell’acido glicolico (PLGA).
Questi materiali compostabili, completamente biodegradabili, vengono anche utilizzati per ottenere fili per suture,
protesi temporanee e confezioni per alimenti.
I polimeri idrosolubili sono costituiti da polivinilalcol (PVA).
Solubile in acqua, è completamente biodegradabile, anche
se è formato da una catena polimerica di tipo idrocarburico.
Le sue applicazioni sono comunque limitate a causa della
sua solubilità in acqua e per l’impossibilità di stamparlo a
caldo, in quanto si decompone a temperatura inferiore a
quella di fusione.
Per idrolisi controllata del polivinilacetato a PVA e aggiunta di opportuni additivi, sono stati ottenuti materiali polimerici insolubili in acqua fredda e lavorabili a caldo, impiegati per la fabbricazione di contenitori di prodotti agri-
proposte di letture integrative
coli e di sacchi per lavanderia destinati a uso ospedaliero.
Essendo tuttavia poco resistenti all’acqua, trovano limitata
applicazione.
Una diversa strategia per evitare danni all’ambiente potrebbe consistere nell’impiego di polimeri naturali, quali amido
e cellulosa, che per loro natura sono biodegradabili. Tuttavia, la loro trasformazione in materiali termoplastici non è
stata ancora realizzata in modo soddisfacente.
I film a base di amido sono fragili e igroscopici e solo l’amido ad alto contenuto di amilosio può essere trasformato,
con l’ausilio di plastificanti, in un materiale termoplastico
utilizzabile come sostituto del polistirene nell’imballaggio e
per prodotti usa e getta.
Alcuni eteri ed esteri della cellulosa hanno proprietà
meccaniche paragonabili a quelle del polistirene; da essi
si può ottenere il prodotto finale, come per esempio fibre
zia, la suprema sacerdotessa del tempio.
Da Delfi non ci si aspettavano guarigioni, ma risposte:
“Quando devo seminare?”; “Le mie navi dirette in Egitto faranno ritorno?”; “Devo fare pace con mio fratello?”. La sacerdotessa dava ascolto a tutti, ricchi e poveri, eroi leggendari, uomini di governo, sconosciuti contadini. E poi, dopo
essersi recata nei sotterranei del tempio, entrava in una
profonda trance ed emetteva l’oracolo, che si diceva prove-
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L’oracolo di Delfi era una specie di Lourdes dell’antichità.
Il tempio dedicato ad Apollo, eretto ai piedi del Monte
Parnaso, a poco più di 10 chilometri dal Golfo di Corinto,
attirava folle di fedeli disposti a pagare profumatamente
per i sacrifici pur di ottenere un breve colloquio con la Pi-
Da: G. Ruggeri, Polimeri conduttori, «La chimica nella scuola»,
novembre-dicembre 2002.
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Il segreto dell’oracolo
conducibiltà elettrica era sensibilmente aumentata.
Nella decade degli ’80, i ricercatori Narmann e Theophilou
sono riusciti a incrementare ulteriormente la conducibilità
del poliacetilene. Usando un nuovo catalizzatore e orientando il film per stiro, hanno ottenuto, dopo “drogaggio”,
conducibilità simile a quella del rame metallico a temperatura ambiente (106 Siemens/cm). La scoperta del poliacetilene conduttore ha dimostrato che non c’era alcuna ragione
di ritenere che i polimeri organici non potessero essere buoni conduttori. Una volta aperta la strada, altri polimeri conduttori sono stati preparati.
Sotto molti aspetti, la situazione dei polimeri conduttori nel
2000 è analoga a quella dei polimeri convenzionali 50 anni
fa. Sebbene allora i polimeri venissero sintetizzati e studiati
in laboratori di tutto il mondo, non divennero sostanze tecnologicamente utili fino a quando non furono modificati
chimicamente con processi che richiesero anni di studio per
essere sviluppati. Così pure le proprietà chimico fisiche dei
polimeri conduttori devono venire perfettamente adattate a
ciascuna applicazione per ottenere prodotti che abbiano
successo commerciale.
I polimeri conduttori possiedono una combinazione di proprietà che li pongono come una attraente alternativa a certi
materiali utilizzati attualmente in microelettronica. Proprio
in virtù della loro facile manipolazione chimica, del loro largo range di conducibilità, della loro leggerezza, processabilità e flessibilità, le potenziali applicazioni in microelettronica sono molteplici, dalla schermatura di campi elettromagnetici, alla realizzazione di sensori, finestre intelligenti,
elettrodi per batterie ricaricabili e display elettrochimici.
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L’idea di associare le proprietà elettriche dei metalli alle proprietà meccaniche dei polimeri è nata all’incirca negli anni
50, mediante l’incorporazione in essi di cariche conduttrici
(nero di fumo, fibre metalliche oppure fibre di carbonio),
producendo i cosiddetti polimeri estrinsecamente conduttori o ECP (estrinseco poiché la carica conduttrice viene aggiunta dall’esterno). Recentemente, un’altra classe di materiali conduttori, i polimeri intrinsecamente conduttori o ICP,
sono stati studiati e grazie alle loro proprietà specifiche possono essere utilizzati in diverse applicazioni. Questi polimeri conducono la corrente elettrica senza la introduzione dall’esterno di cariche conduttrici.
Per molto tempo, i tentativi per ottenere un polimero conduttore sono stati frustrati. Soltanto all’inizio della decade
dei ’70 , una classe di polimeri fu preparata con significativa capacità di condurre elettricità nonostante che l’idea che
solidi organici potessero presentare alta conducibilità elettrica, comparabile a quella dei metalli, fosse stata proposta
da più di mezzo secolo.
La scoperta dei polimeri conduttori ha avuto inizio accidentalmente nel laboratorio di H. Shirakawa nel 1976. Nel
tentativo di sintetizzare il poliacetilene (una polvere nera),
uno studente di Shirakawa ha prodotto un film dall’aspetto argenteo lucido, simile a un foglio di alluminio. Verificando la procedura sperimentale lo studente ha visto che
aveva utilizzato una quantità di catalizzatore mille volte
maggiore di quella necessaria. Nel 1977, Shirakawa, lavorando in collaborazione con McDiarmid e Heeger nella
Università della Pennsilvania, ha verificato che dopo il
drogaggio del poliacetilene con iodio, il film argenteo, flessibile, è diventato un foglio metallico di colore oro, la cui
Da: R. Solaro, Materiali polimerici biodegradabili, «CnS (Chimica
nella Scuola)», 5, 1998.
UD 22
Polimeri conduttori
tessili, nastri adesivi, film fotografici, membrane per dialisi, utilizzando le comuni tecnologie a caldo.
Attualmente è in fase di sviluppo la preparazione di materiali costituiti da matrici di polietilene (“Ecostar” ed
“Ecostar plus”), nelle quali vengono introdotti amido e
cellulosa per migliorarne la biodegradabilità. È stato constatato che viene biodegradata solo la parte polisaccaridica, mentre la matrice sintetica viene solo parzialmente ossidata.
Materiali costituiti quasi interamente da amido e additivi di
origine naturale (“Novon”), o da amido e polimeri idrofili
sintetici (“Mater-Bi”) sono, invece, completamente biodegradabili.
UD 23
nire direttamente dal dio. Ma dato che gli dei degli antichi
greci si divertivano a giocare con gli uomini, il responso era
spesso sibillino, raramente interpretabile in modo chiaro e
univoco. Per i fedeli che si recavano nella Focide, però,
quelle oscure parole erano più che sufficienti.
Ma come faceva la Pizia a divinare il futuro? Alcuni autori
antichi avevano parlato di una fessura nella roccia o di una
sorgente posta sotto il tempio in grado di provocare la trance sacra nella sacerdotessa.
L’unico a dire qualcosa di chiaro in proposito fu Plutarco. Il
grande biografo greco scrisse che la Pizia usava, per entrare
in contatto con il dio, un misterioso soffio di gas profumato
che usciva dal terreno proprio sotto al santuario. La sacerdotessa aspirava il gas, e poi, in preda a una specie di delirio,
emetteva i suoi oscuri vaticinii. Una delle sacerdotesse di
Apollo era addirittura morta per aver aspirato troppo gas.
Per verificare quanto detto da Plutarco, già cent’anni fa
una spedizione francese si recò a Delfi, appena riscoperta sotto le case del villaggio di Kastri. Ma gli archeologi
non trovarono tracce di quanto riportato da Plutarco: né
sorgenti d’acqua né soffi di gas. Del resto la geologia di
allora insegnava che solo nelle zone vulcaniche – e il Parnaso non lo è – si possono trovare emissioni gassose. Il
Le impronte digitali delle proteine
Le proteine possono essere analizzate per la loro composizione in amminoacidi solo dopo una sommaria idrolisi, in
modo da ottenere una miscela di peptidi, cioè catene costituite da un numero ridotto di amminoacidi.
Questa miscela può essere ulteriormente separata combinando un procedimento bidimensionale di elettroforesi e di
cromatografia su carta.
La miscela di peptidi viene deposta in una piccola macchia in corrispondenza dell’angolo di un foglio di carta,
immerso in soluzione acquosa. I peptidi vengono prima
separati, in base alle loro cariche elettriche, applicando
una corsa elettroforetica (campo elettrico) in una direzione. Tale separazione non è mai completa poiché un certo
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materiali extraguida
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I mezzi di informazione
In generale, fatte salve poche pregevoli eccezioni, i mezzi di
informazione di massa non assolvono il compito di informare in materia di inquinamento. Le notizie vengono presentate in termini allarmistici solo quando scatta qualche grave
emergenza ambientale; vengono riportate per qualche giorno, quindi dimenticate. Probabilmente il pubblico si chiederà se vi sia stata una soluzione del problema, anche naturale, oppure vi è la possibilità che preferisca non sapere.
Eppure la mentalità dell’uomo moderno è cambiata di fronte al verificarsi delle calamità; sicuramente è aumentata la
necessità di risposte che vadano alla radice dei problemi,
come ci ha insegnato il metodo scientifico permeando l’ideologia del XX secolo.
Nonostante questa sete di conoscenza, i fattori irrazionali
ed emotivi giocano un ruolo rilevante nella percezione delle informazioni ed è per questo che le notizie vengono somministrate facendo leva sull’emotività del pubblico. C’è poi
racconto fu etichettato quindi come una fantasia e il
mistero delle divinazioni della Pizia restò insoluto.
Dieci anni fa però John de Boer, geologo alla Wesleyan University, nel Connecticut, studiando la sismicità dello stretto
di Corinto, scoprì una nuova piccola faglia nella zona di
Delfi. Questa fessura nelle rocce si intersecava con un’altra
già nota, proprio sotto alle rovine del tempio di Apollo.
Incuriosito, de Boer ha continuato a investigare, scoprendo
intorno alla zona diverse emissioni gassose in corrispondenza di sorgenti d’acqua. Queste emissioni non sono legate al vulcanismo, ma alla presenza in profondità di calcari
bituminosi che, scaldati dal movimento delle faglie, liberano metano ed etano, ma anche una consistente quantità di
etilene, un gas, guarda caso, dal gradevole profumo.
Secondo il tossicologo Henry Spiller, respirare etilene porta
a uno stato simile all’ebbrezza alcolica, tanto che questo gas
era usato un tempo come anestetico. Secondo la quantità di
etilene inalata si passa dallo stordimento al delirio, al sonno
e infine alla morte.
Insomma Plutarco aveva perfettamente ragione.
Da: A. Saragosa, Il segreto dell’oracolo? Un gas allucinogeno, «Le
Scienze», 403, marzo 2002.
numero di peptidi può essere sovrapposto.
Un’ulteriore e spesso completa risoluzione si ottiene applicando la cromatografia di ripartizione in senso perpendicolare. In tal modo i peptidi ancora sovrapposti vengono separati
in base al loro grado di polarità: i meno polari si muovono
con il fronte del solvente che bagna la carta, i più polari rimangono vicini alla zona di partenza. Questo tipo di separazione bidimensionale è chiamato “fingerprinting” (impronta
digitale) in quanto, opportunamente trattato, il foglio ricorda
le impronte delle dita. Il quadro che si ottiene è detto “mappa
dei peptidi”. La sua applicazione allo studio dell’emoglobina,
una proteina trasportatrice di ossigeno del sangue, ha permesso di individuare alcune forme di emoglobina patologica.
Da: N. Siliprandi, Chimica Biologica, ed. Ricerche, Roma.
una variabilità soggettiva di valutazione delle notizie stesse
che fa sì che esse vengano percepite in modo diverso in funzione del livello culturale, delle abitudini di vita e dell’emotività delle persone.
Nel 1979 negli Stati Uniti fu fatto un sondaggio d’opinione
su quattro gruppi diversi di popolazione, definiti come “lega delle elettrici”, “gruppi di studenti”, “dirigenti di club”,
“esperti”. Fu chiesto loro di formulare una graduatoria di rischio per differenti attività o tecnologie. I risultati furono
molto diversi. Gli impianti nucleari erano ritenuti i più pericolosi dalle donne e dagli studenti e molto meno dalle altre
due categorie, preoccupate invece per i veicoli a motore e le
armi. I pesticidi venivano considerati pericolosi da tutti, gli
additivi alimentari spaventavano di meno le donne rispetto
agli altri gruppi. A prima vista si potrebbe dire che quello
che è meno familiare scatena una maggiore apprensione.
Le molecole chimiche, soprattutto i pesticidi e i composti dai
nomi poco familiari, fanno spesso molta paura per la loro
estraneità alla sfera delle nostre conoscenze. Molti altri com-
proposte di letture integrative
posti pericolosi, come acidi, solventi, medicinali, minacciano la nostra incolumità domestica (basti pensare a quanto
sono frequenti gli infortuni delle casalinghe e gli avvelenamenti dei bambini), ma non vengono ritenuti pericolosi solo
perché una rassicurante pubblicità ce li ha resi familiari.
Questo non vuol dire che si debba familiarizzare con i pesticidi, ma non si può sperare di avere un’informazione più
obiettiva se non migliora il nostro grado di conoscenza dei
problemi. Non possiamo diventare tutti esperti di inquinamento, ma dobbiamo pretendere maggiori garanzie e un
controllo di qualità più rigoroso sui cibi che mangiamo, sull’acqua che beviamo e sull’aria che respiriamo.
Non è ragionevole, ed è antieconomico, ricorrere a soluzio-
non possiamo contare – come fa notare da almeno 30 anni
Morris Adelman, professore emerito al Massachusetts Institute of Technology ed esperto di economia del petrolio e del
gas – è la cessazione dell’impiego di combustibili fossili, vale a dire di carbone, petrolio e gas naturale. Nell’ultimo secolo e mezzo, dai tempi cioè della Rivoluzione industriale,
la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è aumentata di circa un terzo, da 280 a 370 parti per milione
(ppm), principalmente come esito del consumo di combustibili fossili. Negli anni Novanta, in media, l’umanità ha
immesso nell’atmosfera 1,5 ppm di CO2 all’anno, e il tasso
di emissioni ha avuto una tendenza al rialzo di anno in anno. Anche se altri gas serra, come il metano e gli ossidi di
azoto, vengono immessi nell’atmosfera in gran quantità, gli
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Il dibattito sul clima globale ha subìto uno spostamento. Fino a tempi molto recenti, gli scienziati ancora cercavano di
appurare se veramente le attività umane fossero responsabili di una alterazione del clima. Nello specifico, si tentava
di comprendere se la liberazione dei cosiddetti gas serra, in
grado di intrappolare la radiazione solare reirraggiata dalla
superficie terrestre, fosse veramente una iattura da scongiurare. Dato che le prove scientifiche a favore di una risposta
affermativa si stanno accumulando, la discussione sta ora
volgendo a stabilire quali passi debbano essere intrapresi
dalla società per proteggere il clima terrestre. Una soluzione
che si rivelerebbe radicale, ma sulla quale quasi certamente
Tratto da: www.heos.it, Giornale online di scienze e cultura, 41, 21
novembre 2003.
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Catturare i gas serra
l’attività sismica (fenomeno noto come degassamento di
terremoto).
A seguito di terremoti, i maggiori vulcani di fango si attivano ed eruttano violentemente enormi quantità di metano:
in Azerbaijan alcune eruzioni hanno prodotto fino a centinaia di migliaia di tonnellate di metano in poche ore. In altre aree l’emissione di metano è testimoniata dai cosiddetti
“fuochi perpetui”, fiamme che possono raggiungere il metro d’altezza e che si sviluppano naturalmente dal suolo a
seguito di autocombustione del metano. Attorno ai fuochi
perpetui l’emissione di metano è diffusa su vaste aree e
l’immissione totale in atmosfera è notevole (dell’ordine di
0,1 kg per metro quadrato al giorno). Infine in aree di tettonica attiva in cui è nota la presenza di serbatoi profondi di
idrocarburi, pur in assenza di manifestazioni di emissione,
esiste un flusso diffuso e microscopico dal suolo, detto microseepage: tale flusso può esistere su aree molto grandi e
quindi la quantità totale di gas in atmosfera può risultare
notevole. A ciò si deve sommare il metano emesso dai fondali marini, che ospitano la maggior parte delle riserve petrolifere del pianeta.
I risultati pubblicati su riviste scientifiche internazionali, a
seguito dell’attività condotta anche dall’INGV, suggeriscono
chiaramente che i processi geofisici di degassamento della
crosta terrestre costituiscono una fonte enorme di metano
per l’atmosfera e rappresentano quindi una componente ancora dimenticata dal budget atmosferico dei gas serra.
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Recenti studi condotti dall’Istituto Nazionale di Geofisica e
Vulcanologia (INGV) hanno evidenziato che l’emissione di
metano della crosta terrestre è una componente non trascurabile delle attuali sorgenti naturali di gas serra. Una serie
di studi iniziati nel 2001 in collaborazione con ricercatori
americani e dell’Est europeo stanno fornendo risultati sorprendenti: la crosta terrestre emette quantità di metano paragonabili, se non superiori, alle quantità emesse da alcune
sorgenti biologiche e antropiche, come la combustione della biomassa (incendi), il ciclo vitale delle termiti, i processi
biochimici in ambiente marino. Una stima recente suggerisce infatti una emissione globale di metano geologico dell’ordine di almeno 40-60 milioni di tonnellate all’anno.
Tale stima si basa sui dati relativi alle emissioni di metano
dai “vulcani di fango”, manifestazioni fredde della fuoriuscita spontanea di sedimenti, acqua e gas (metano) provenienti da serbatoi petroliferi profondi. Grazie a questi studi
si è potuto definire la quantità di metano che fuoriesce naturalmente nelle maggiori manifestazioni metanifere d’Europa: i vulcani di fango della Romania, della Sicilia occidentale e del settore adriatico dell’Italia centrale. Inoltre, nel
2003 è stato possibile misurare per la prima volta i flussi di
metano dai più grandi vulcani di fango del mondo, situati
in Azerbaijan, in prossimità del Mar Caspio. I risultati di
questi studi convergono nell’indicare una emissione media
annuale compresa tra 100 e 1000 tonnellate di gas per km2.
In tutte queste aree l’emissione di gas è strettamente legata
a strutture tettoniche attive (faglie) e sembra aumentare con
Modificato da: S. Galassi, Microinquinanti organici, Hoepli,
Milano.
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Il metano dà una mano... ai gas serra
ni individuali, coltivando l’orticello biologico o mettendo il
depuratore al rubinetto di casa. Nel nostro orto finiranno i
pesticidi utilizzati dai vicini o contenuti nell’acqua d’irrigazione. I sistemi casalinghi di depurazione non possono essere tenuti sotto controllo e diventano essi stessi nuove fonti di pericolo quando non vengono applicati correttamente.
È necessario, inoltre, preparare le nuove generazioni attraverso la formazione scolastica in materia ambientale, nella
speranza che almeno in un prossimo futuro si impari a reagire al degrado prima che diventi irreversibile.
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materiali extraguida
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esperti prevedono che alle emissioni di CO2 andranno
ascritti circa due terzi del riscaldamento globale. Con l’acutizzarsi delle preoccupazioni sui possibili rischi di un mutamento del clima globale, gruppi ambientalisti, governi e alcune industrie tentano finalmente di ridurre i livelli di gas
serra nell’atmosfera, promuovendo gli usi efficienti dell’energia e il ricorso alle energie alternative, per esempio quella eolica e quella solare.
Realisticamente, comunque, i combustibili fossili, abbondanti e a buon mercato, continueranno a fornire energia alle nostre automobili, alle nostre case e alle nostre fabbriche
fino al XXI secolo ben inoltrato e anche in seguito. Le
preoccupazioni sull’esaurimento delle riserve di combustibili fossili sono periodicamente affiorate negli ultimi 100 anni, ma i continui miglioramenti sia nell’esplorazione petrolifera, sia nelle tecnologie di estrazione dovrebbero far sì
che il petrolio continui a scorrere a fiumi per i decenni a venire. Inoltre, fin dall’adozione del primo trattato internazionale destinato a stabilizzare le emissioni di gas serra, sottoscritto nel 1992 all’Earth Summit di Rio de Janeiro, la domanda globale di combustibili fossili è di fatto aumentata.
Oggi, oltre l’85 per cento della domanda mondiale di energia è soddisfatto dai combustibili fossili. Per quanto le politiche che promuovono il risparmio energetico e le fonti
energetiche alternative abbiano un’importanza cruciale per
alleviare il possibile riscaldamento globale, esse sono solo
una parte della soluzione.
Di fatto, anche se la società dovesse tagliare drasticamente
il consumo di combustibili fossili a partire da oggi, il pianeta continuerebbe con ogni probabilità a risentire di importanti ripercussioni a causa delle emissioni del passato. Il
tempo di risposta del clima è lento, e l’anidride carbonica
ha un tempo di residenza nell’atmosfera di un secolo o più,
Il killer è l’ozono
Nelle calde giornate estive, sui pannelli luminosi di Strasburgo compare la scritta “Ozono, usate bus e tram”. In
Italia, a parte rare eccezioni, quando la soglia limite dell’ozono viene superata, al massimo la notizia viene data
dai giornali e nessuno ci fa grande caso. Ma le ultime notizie danno ragione agli abitanti della città francese. Se in
estate si usassero i mezzi pubblici, la mortalità degli
anziani si ridurrebbe considerevolmente. Bisogna insomma scegliere fra la propria comodità e la vita del nonno?
Forse sì, perché se è vero che la fetta maggiore degli oltre
ottomila morti registrati in Italia nell’estate 2003 è dovuta al caldo eccezionale, una parte consistente è da attribuire invece all’inquinamento da traffico. Era stato in precedenza dimostrato come le persone esposte ad aria
inquinata per parecchi giorni avessero una mortalità più
elevata.
Nell’estate del 2003 il gran caldo e la forte insolazione hanno
creato sull’Europa uno strato record di ozono.
L’ozono può essere un bene o un male, dipende da dove si
trova. Nell’ozonosfera (20-60 km di altezza) è “buono”: fa
da schermo ai raggi UV, ma nell’aria che respiriamo diven-
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se lasciata ai cicli naturali. Pertanto, dobbiamo basarci su
un “portafoglio” di opzioni tecnologiche differenziate per ridurre adeguatamente l’accumulo di gas serra. Lavori significativi di ricerca e sviluppo stanno già esplorando modi per
migliorare l’efficienza nella conversione energetica e incrementare l’uso di fonti prive di carbonio (fonti rinnovabili o
nucleare). Ma un terzo approccio sta attirando sempre maggiori attenzioni via via che ci si rende conto dell’insufficienza delle prime due opzioni. Questo approccio consiste nel
sequestro attivo della CO2. La strategia da noi proposta potrebbe sorprendere alcuni lettori. La sottrazione di anidride
carbonica all’atmosfera è generalmente associata alle opere
di riforestazione: gli alberi infatti (e la vegetazione in generale) assorbono CO2 dall’aria nel corso della loro crescita e
la trattengono nei propri tessuti per tutta la durata della vita. Si valuta che, nel complesso, le piante immagazzinino
circa 600 gigatonnellate di carbonio, e altre 1600 gigatonnellate siano fissate nel suolo. Piante e suolo potrebbero
forse sequestrare almeno altre 100 gigatonnellate di carbonio, ma occorrono comunque ulteriori serbatoi. Per questa
ragione ci siamo dedicati nell’ultimo decennio a esplorare
un’altra possibilità: la cattura di anidride carbonica da sorgenti di emissione fisse – per esempio un’industria chimica
o una centrale elettrica – e la sua iniezione nel sottosuolo
in formazioni geologiche adatte come letti carboniferi non
sfruttabili, strati acquiferi profondi o giacimenti petroliferi
esauriti. In alternativa la CO2 potrebbe essere immessa in
quello che è il suo maggior serbatoio potenziale, l’oceano,
iniettandola al di sotto del termoclino, lo strato cioè nel quale la temperatura diminuisce drasticamente.
Da: H. Herzog, B. Eliasson, O. Kaarstad, Catturare i gas serra, «Le
Scienze», 380, aprile 2000.
ta un inquinante “cattivo”. Per prodursi ha bisogno di due
inquinanti “precursori”, che vengono entrambi dal traffico: i COV (composti organici volatili) e gli ossidi di azoto.
Quando le marmitte catalitiche sono fredde, troppo calde o
vecchie, o il traffico è lento e congestionato, si creano grandi quantità di questi inquinanti (prodotti anche da industrie, solventi chimici ecc.). Interagendo con i raggi solari
questi inquinanti danno origine all’ozono (O3), sostanza
con elevato potere ossidante. Più alta è la temperatura, più
veloci sono i tempi di reazione e maggiore è la quantità di
ozono che si forma.
Al tramonto l’ozono sparisce fino al mattino successivo,
quando intorno alle 9 aumenta, raggiunge il picco dalle 13
alle 17 e poi inizia a scendere fino alle 19.
Finora l’ozono era considerato un irritante delle vie respiratorie, forse all’origine dell’asma e dell’aumento di allergie.
Dal ’95 si è accertata la sua responsabilità relativamente a
infarti e ictus e che nelle ondate di calore ha un effetto aggravante sulla mortalità. Uno studio italiano dimostra infine
che se la concentrazione di ozono aumenta di 10 µg · m–3
di aria i decessi aumentano dell’1,3%.
Da: A. Beltramini, Il killer è l’ozono, «Focus», 143, settembre 2004.
proposte di attività multidisciplinari
ESEMPI DI PROGETTI A CARATTERE MULTIDISCIPLINARE
1. Studio di un ambiente caratteristico
Lo studio si prefigge di sensibilizzare gli allievi alla conoscenza, al rispetto e alla valorizzazione dell’ambiente e di far cogliere le interrelazioni tra l’ambiente e gli organismi.
Dopo aver scelto l’area di territorio adatta allo studio, ne vengono affrontati, con l’aiuto di più discipline, gli aspetti antropici, climatici, geologici, naturalistici e sociali.
Le materie coinvolte sono:
• scienze della Terra (aspetto biologico, geologico, idrogeologico);
• chimica (composizione di terreno, pietre e analisi chimiche);
• storia (aspetti antropici);
• educazione fisica (orienteering).
scienze della Terra
chimica
storia
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Per ogni disciplina viene effettuato uno studio teorico preliminare, che comprende anche una ricerca
bibliografica. Successivamente viene realizzata un’uscita sul campo, dove vengono effettuati prelievi
di reperti ambientali: campioni di roccia, terreno, acqua, vegetazione ecc., oltre alle osservazioni delle più significative caratteristiche del luogo e alla documentazione fotografica. Durante l’uscita vengono anche realizzate alcune determinazioni analitiche.
I campioni prelevati vengono poi analizzati nel laboratorio di chimica e di biologia.
In questo modo l’allievo può comprendere praticamente il significato delle varie discipline ai fini della corretta tutela del territorio.
educazione fisica
studio
preliminare
prelievi
osservazioni
uscita
sul territorio
fotografie
analisi
analisi di laboratorio
relazioni
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sintesi
presentazione
del lavoro
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2. Analisi dei monumenti in pietra
I monumenti, soprattutto quelli posti all’esterno, sono soggetti a continuo degrado per opera di fattori
climatici, biologici, chimici e fisici.
Con gli allievi viene affrontato lo studio del degrado di un monumento dai vari punti di vista, evidenziando anche gli aspetti storico-artistici del monumento.
In questo modo sono coinvolte le seguenti discipline:
• chimica (fattori chimici di degrado e composizione chimica del materiale lapideo);
• scienze, biologia (fattori biologici di degrado);
• storia o storia dell’arte (inquadramento storico e artistico del monumento);
• inglese (analisi documenti in inglese).
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Dopo una preliminare introduzione teorica a cura delle singole discipline, segue un’uscita con esperti
della Soprintendenza ai beni storici e artistici i quali, oltre a far osservare i punti critici di degrado, guidano gli allievi al corretto prelievo di alcuni frammenti significativi, da analizzare poi nei laboratori di
chimica e di scienze. Le analisi chimiche prevedono semplici saggi sulla pietra. I risultati delle analisi
sia chimiche sia biologiche vengono poi discussi con gli esperti della Soprintendenza. Seguono quindi
un’elaborazione generale e una verifica per ogni disciplina.
Questa attività si può realizzare con la collaborazione della Soprintendenza ai beni storici e artistici
del luogo.
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scienze della Terra
chimica
storia
o storia dell'arte
inglese
studio
preliminare
prelievi
uscita
con esperto
analisi di laboratorio
elaborazione
presentazione
del lavoro
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fotografie
proposte di attività multidisciplinari
3. Educazione alimentare
L’attività ha come finalità la sensibilizzazione degli allievi al problema alimentare connesso con la salute,
le abitudini alimentari e la fame nel mondo.
A questo scopo può essere realizzato un percorso multidisciplinare che prevede anche l’intervento di
esperti (ASL, Centro di medicina sociale dell’Ospedale, Associazioni di volontariato).
Le discipline coinvolte sono:
• scienze (biochimica degli alimenti, funzionamento dell’apparato digerente, disfunzioni gastrointestinali);
• chimica (calcolo del valore energetico degli alimenti, lettura delle etichette, analisi chimiche degli alimenti);
• storia/lettere (storia dell’alimentazione, abitudini alimentari nelle diverse epoche e parti del mondo);
• matematica (elaborazione dati).
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Si prevede una prima fase in cui viene somministrato un questionario sulle abitudini alimentari, seguito
poi dall’intervento degli insegnanti per ogni singola disciplina.
Successivamente intervengono gli esperti su temi relativi alla “dieta alternativa” e alla “fame nel mondo”.
I ragazzi, con la collaborazione degli insegnanti, elaborano i dati e le conoscenze acquisite nelle varie fasi
dell’attività e preparano la comunicazione dei risultati.
indagine
preliminare
preparazione
in classe
intervento
di esperti
elaborazione
presentazione
dei risultati
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Si suggeriscono poi le seguenti visite guidate:
1. Depuratore di acque
2. Laboratorio di analisi chimiche e biochimiche
3. Azienda di compostaggio
4. Azienda alimentare
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