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LETTERATURA CONTEMPORANEA
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LETTERATURA CONTEMPORANEA
La bellezza feroce di
Ingeborg Bachmann
DI ANDREA GALGANO
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PRATO, 4 DICEMBRE 2012
“
(…)
la
Bachmann,
coraggiosamente
in
con
faccia
intelligenza
la
situazione
acuta,
ha
letteraria
guardato
subito
del
tempo:
suo
profondamente divisa tra problemi di esperienza interiore e problemi di
linguaggio” (Maria Teresa Mandalari).
I
ngeborg Bachmann (1926-1973), nata a Klagenfurt nella Carinzia e formatasi a
Innsbruck, Graz e Vienna, poi lanciata dal Gruppo 47, è stata un punto acceso,
nella letteratura degli anni Cinquanta e Sessanta, non solo per la vigorosa
produzione narrativa, ma soprattutto per l’esperienza poetica, intimamente connessa alla
sua interrogazione di fragilità.
Il suo stesso gesto lirico coglie il linguaggio come prominenza dell’essere e chiave di
volta del problema, non solo letterario, del suo tempo.
Il confine del proprio mondo, straniero e convalidato dalla sua tensione, trova nel
fondo del linguaggio, una tensione strenua che possa fronteggiare e vincere l’imposto
silenzio.
Come scrive giustamente Maria Teresa Mandalari, la Bachmann si iscrive nel volto di
magismo e parola, che trova in Enzensberger, Grass, Celan e Eich, -tanto per citarne
alcuni-, la vertigine neoimpressionista e surreale, ma che sviluppa però una peculiare
impronta che guarda a Hoffmanstahl e, in tono maggiore, a Rilke.
Il confine tra parola e silenzio è una frana di abissi, non solo per le trasmutazioni della
sua epoca, ma, in particolare, per l’accesso dell’uso della metafora alla conoscenza, al suo
approfondimento, in quanto riesce ad “annodare - come scrive Pausch - le singole metafore
in blocchi figurativi per creare un nuovo contenuto significante”, poiché, annota ancora
Maria Teresa Mandalari, la tensione metaforica cerca di: “agganciare alla realtà storica o
fantastico-empirica, in un alone vibratile di significati multipli (…), il non-dicibile, a
“realizzare” cioè poeticamente il non-esprimibile (che, per la Bachmann, è elemento
mistico o misterico)”.
Nel suo dettato poetico, la ricerca della parola, accompagnata allo sperimentalismo
lessicale, tende a sfaldarsi, a fratturandosi e rendendo la vertigine poetica «tagliente di
potenza conoscitiva e amara di anelito».
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II
La realtà ha bisogno di essere detta, definita, posseduta dalle trame del linguaggio per
«ristabilire un rapporto di fiducia tra l’io, il linguaggio e le cose». Qui è la sua forza
umbratile e lucente, e la sua tregua d’assedio. In esso è rivoluzione, nuovo tentativo di fasto
e di vivificazione, vibrazione e vortice per «essere sempre nelle parole, che lo si voglia o
no».
L’approdo di Ingeborg Bachmann è una partenza, un lido sospeso di rive, distacco
deciso che rinviene la sua foce nella fuga e nell’estraniamento: «Si dovrebbe essere
soltanto e unicamente uno straniero per riuscire a sopportare un luogo come Klagenfurt più
a lungo di un'ora, o per vivere qui per sempre».
Il chiasmo della fuga, con le deviazioni e gli spostamenti di luoghi, isole e navi,
rappresenta appieno la sua lingua fuggitiva e la sua sparizione. Qui è il riferimento a Rilke,
qui la sua condizione interiore e la perdita: «Se qui sono verdi le case, in una casa entro
ancora. / Se qui sono integri i ponti, cammino su suolo sicuro. / Se in ogni tempo pena
d'amore è perduta, qui contenta la/ perdo. // Se non sono io, è un altro ed è un io come me./
Se qui una parola sino a me confina, lascio che confini. Se la Boemia ancora è sul mare nei
mari io credo di nuovo. E se ancora nel mare io credo io spero nella terra (…) / Io confino
ancora con una parola e con una terra diversa,/ io confino, anche se poco, sempre più con
tutto,/ un boemo, un errante, che nulla ha, nulla trattiene,/ capace ancora soltanto di vedere
dal mare, che è controverso, la terra/ della mia Elezione.».
La sua fuga perenne, pungolata dal tempo «dilazionato» in cui «s’avanzano i giorni più
duri», raggiunge l’inesorabilità della penombra, il timore della perdita e della Storia e
proclama il suo riscatto nella verità, nella bellezza e nell’amore, come aloni di
intermittenze unite.
La beatitudine e l’inadeguatezza a compiere la forma dell’amore e il suo corpo acceso,
creano il suo monologo di domanda e grido, oracolo e solitudine di un dolore franto, che
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III
adora e brucia radici: «Non ho saputo far niente di meglio / che amarti, non ho / pensato /
che attraverso il sudore della pelle», oppure «sul tuo petto ho / detto messa, / nei tuoi occhi
mi sono / trasformata,.... / l'ostia era un / membro tradito svenduto, un amore / portato al
monte di pietà, non più / riscattato, vittime allontanate, baci sputati", che congeda e
concima gli «Anni di pelle, scuoiati via da me» in «una / pazzia in cui, / per quello che mi
importa, tutto / per quello che mi importa, tutto / può andare in malora.».
Il conflitto interiore, la volontà stretta e sofferta di una lotta dell’esistere con la sua
offesa, ha nella caduta il suo lucido ascolto («quando il gabbiano dietro a te stride e cade)»
e lo scenario di una piega silenziosa, perché «con la pioggia spartiremo il pane: / il pane, la
colpa e la casa.»»: «Contare le sbarre, resistere, / mangiare due volte al giorno, e poi / fare i
propri bisogni, / mendicare farmaci / che mi sprofondano in un sonno di anni».
La docilità alla luce («Nei campi/ prosperiamo o ci corrompiamo a caso, / docili alla
pioggia, e infine anche alla luce»), le incisioni della distanza («La grazia morfina, / ma non
/ la grazia di una parola / la grazia di un letto bianco di freschi lini, / ma non / la grazia di
tenere la mano»), la durezza di una disfatta nell’effimero stare al mondo, come legno e
schegge, che fiacca e logora, soggiornano nel suo gesto come un affido ineffabile alle
sponde: «e di giorno vegliare/ che la bandella separi il designato: / le cesoie del sole egli
raggiungerà/ nella nebbia, e se resterà abbacinato/ lo avvolgerà la nebbia nella caduta».
Il livore dei suoi scenari sono il discernimento di un disamore che implora «un goccio
d’acquavite», lontano da coloro che su calvari e su roghi spengono gli sguardi, dall’odio
che sfregia il passo dell’oblio e dalla vicinanza alle anime sconfinate e dismesse.
Nell’antro del dolore e della malattia «lo splendore non si cura della corruzione», anzi
«Dentro la conca del mio mutismo/ metti una parola/ e leva alte pareti d’alberi fitti/ ai due
lati: / che la mia bocca resti tutta in ombra».
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Andrea Galgano. LA BELLEZZA FEROCE DI INGEBORG BACHMANN 04.12.2012
IV
La penombra che accompagna la sua bufera di rose congiunge il suo retroterra interiore
a nuovi passaggi, agli abbagli di vie d’uscita, all’attimo di una consolazione appuntita:
«Ciò che viene dalla molta luce e di giorno, / però non devi piangere, / anche se viene tutti i
giorni, / cerca di conoscerlo, vuole guarire».
Esiste sempre una inafferrabilità, un ponte del limite che però si aggruma dinanzi
all’umano, al suo deragliamento e alla sensibile perdita di sé: «O bel sole, cui la polvere
deve l’ammirazione più alta,/ Non per la luna né per le stelle, né perché la notte/ Vogliosa
di beffarmi sfoggia comete, ma per amore/ Di te, all’infinito, e per null’altro al mondo, io
farò/ Lamento su l’irrevocabile perdita dei miei occhi».
L’estremità urgente dei suoi versi contengono il potente gemito di una domanda,
raccolta in un precipizio e in un richiamo.
Non scansano la sua intima feritoia sofferta, colgono la terra primigenia dell’essere, il
dispiegamento dell’amore di «una pietra che sa come intenerire l’altra»e il canto-tremito di
un’isola in cui «Ebbrezza e azzurro ci imbozzolano insieme».
Ingeborg Bachmann muore a quarantasette anni a Roma nel 1973 nella notte tra il 25 e
il 26 settembre, in seguito alle ustioni riportate, in circostanze non del tutto chiare, a causa
di un incendio divampato nella sua casa. Scriverà in una sua lettera a Felician, forse un
presagio o forse un accettato dispiegamento d’anima o nutrimento di confine: «le sigarette
mi hanno / bruciato le dita, (…) Che crudeltà, graffiarmi sulla pelle, al cuore non si può più
colpirmi».
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Andrea Galgano. LA BELLEZZA FEROCE DI INGEBORG BACHMANN 04.12.2012
V
Nella penombra
Ancora mettiamo entrambi le mani nel fuoco:
tu per il vino del lungo fermento notturno,
io per la mattinale acqua sorgiva, che non conosce i torchi.
il mantice attende il maestro, in cui confidiamo.
Non appena l'ansia lo scalda, il soffiatore giunge.
Va via prima di giorno, arriva prima del tuo richiamo:
è antico, come la penombra sopra le nostre ciglia rade.
Di nuovo egli fonde il piombo nella caldaia di lagrime:
per una coppa a te - occorre solennizzare il tempo perduto a me per il coccio pieno di fumo - che sarà versato nel fuoco.
Mi scontro così con te, facendo tintinnare le ombre.
VI
Scoperto è chi esita, adesso,
chi ha scordato la formula magica.
Tu non puoi e non vuoi conoscerla,
bevi sfiorando l'orlo, dove è fresco:
come un tempo, tu bevi e resti sobrio,
le ciglia ti crescono ancora, tu ancora ti lasci guardare!
Io con amore all'attimo protesa sono già, invece:
il coccio mi cade nel fuoco, piombo mi ridiventa
qual'era. E dietro al proiettile sto,
monocola, risoluta, defilata,
e incontro al mattino lo invio.
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