SABATO DELLA SECONDA SETTIMANA DOPO L’EPIFANIA
Lettura del libro dell’Esodo (7,1-6)
Questi pochi versetti, che la liturgia offre alla nostra riflessione, sono considerati
teologicamente complessi dagli esegeti. Essi richiamano testi presenti nei capitoli
precedenti che però qui compaiono con sfumature diverse.
“Essi ascolteranno la tua voce, e tu e gli anziani d'Israele andrete dal re d'Egitto e gli
direte: «Il Signore, Dio degli Ebrei, si è presentato a noi. Ci sia permesso di andare nel
deserto, a tre giorni di cammino, per fare un sacrificio al Signore, nostro Dio». Io so che il
re d'Egitto non vi permetterà di partire, se non con l'intervento di una mano forte. Stenderò
dunque la mano e colpirò l'Egitto con tutti i prodigi che opererò in mezzo ad esso, dopo di
che egli vi lascerà andare” (Es 3, 18-20).
“Allora tu dirai al faraone: «Così dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito. 23 Io
ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva! Ma tu hai rifiutato di lasciarlo
partire: ecco, io farò morire il tuo figlio primogenito!»” (Es 4, 22-23).
“Pertanto di' agli Israeliti: «Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai lavori forzati degli
Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi riscatterò con braccio teso e con grandi
castighi. Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio. Saprete che io sono il
Signore, il vostro Dio, che vi sottrae ai lavori forzati degli Egiziani. Vi farò entrare nella
terra che ho giurato a mano alzata di dare ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe; ve la darò
in possesso: io sono il Signore!»" (Es 6, 6-8).
Il comportamento di faraone, che di volta in volta si “indurisce”, ha portato Dio ad una
decisione che è divenuta inevitabile.
Gli Egiziani giungono a conoscere che JHWH è Dio. In tutta la narrazione successiva
delle “piaghe”1 viene sottolineato che ormai non è più un problema tra faraone e il Dio
1
Impropriamente usiamo di solito il termine “piaghe”: infatti, il testo biblico usa questo termine solo per
l’ultima, la decima e decisiva (cf 11,1: nega‘, “colpo, piaga, ferita, macchia dovuta a lebbra o a malattia”). In
tutto il racconto, invece, troviamo l’uso dei termini ’ôṯ, “segno” e môpēṯ, “prodigio, segno, meraviglia”
L’intento della narrazione non è perciò quello di presentare delle “piaghe”, cioè delle ferite e dei colpi, ma
piuttosto dei prodigi e segni, cioè eventi che hanno una valenza simbolica, ossia la capacità di evocare la
presenza e l’azione di JHWH.
d’Israele: l’uscita dalla “casa della schiavitù” assume una dimensione che coinvolge tutti gli
Egiziani: “Faraone non vi ascolterà e io leverò la mano contro l’Egitto …” (v. 4).
Si apre ora un nuovo scenario: mentre il centro dell’esodo è la liberazione di Israele,
la dimensione assunta dall’azione di Dio sposta il nostro sguardo verso scopi creazionali
riguardanti la totalità del mondo. “La liberazione di Israele si inserisce all’interno del
compimento dei disegni di Dio nella creazione. L’attività divina a favore di Israele è a
vantaggio del mondo!”2.
Anche l’indurimento del cuore di faraone deve essere visto in termini creazionali.
Mosè potrebbe sentirsi demoralizzato di fronte ai continui rifiuti di faraone e gli ebrei
oppressi potrebbero essere tentati di considerare debole il proprio Dio. La situazione che
si viene a creare sarà utilizzata da JHWH a scopo universale.
Faraone è avvisato in anticipo attraverso i due fratelli che eseguiranno il comando di
Dio alla lettera. In precedenza Mosè poneva obiezioni, era pieno di dubbi. “Ancora una
volta si dimostra quanto sia importante per il disegno di Dio nei confronti di Israele, che gli
esseri umani, scelti da lui stesso, siano pronti a rispondere con la massima disponibilità a
questa vocazione”3.
Per quanto riguarda la questione dell’indurimento del cuore di faraone esistono
diverse interpretazioni. La prima è che Dio abbia condizionato le scelte di faraone e abbia
quindi il controllo completo degli avvenimenti. La seconda ritiene che, al di là dello schema
narrativo, la volontà di faraone sia completamente libera fino all’ultimo. C’è anche una
terza posizione, più mediana, che spazia, per così dire, nell’esperienza biblica per
testimoniare che, sempre e comunque, tutti coloro che si oppongono a Dio sono destinati
ad essere sconfitti: “La tua destra, Signore, è gloriosa per la potenza, la tua destra,
Signore, annienta il nemico; con sublime maestà abbatti i tuoi avversari, scateni il tuo
furore, che li divora come paglia”. (Es 15, 6-7)
Vengono usati tre verbi per esprimere l’indurimento mescolati e intrecciati fra loro,
dove il soggetto dell’azione può essere sia Dio che faraone. I verbi sono kābēd, “essere
pesante, essere ostinato”, ḥāzaq, “essere potente” e la forma hifil della radice qšh, “essere
duro”.
L’atteggiamento anticreazionale di faraone si protrae anche quando “la creazione ha
ripreso il corso normale” dopo i prodigi avvenuti. “Le componenti umane di pensiero e
2
T. E. FRETHEIM, Esodo, Claudiana, Torino 2004, 126.
3
T. E. FRETHEIM, 127.
volontà potrebbero talvolta diventare irreversibili a motivo dei continui rifiuti di rispondere
alla parola di Dio”4. È importante che tanto Dio quanto faraone siano i soggetti
dell’indurimento. Le decisioni che assume faraone sono legate alla sua personale
ostinazione. Dio, con la sua azione, rende più determinata l’ostinazione propria di faraone.
Ogni rifiuto gli rende quasi scontato quello successivo. Man mano che si intensifica la
resistenza di faraone, entra in scena l’indurimento da parte di Dio5.
È importante notare che per sei volte viene riportato che il faraone rifiuta [in ebraico vi
è la forma piel mē’ēn], ma in tre casi il verbo viene usato al condizionale con il “se”.
Questo ci dice che, rifacendoci al discorso esposto sopra, la conoscenza delle decisioni di
faraone non è assoluta da parte di Dio, le capacità decisionali di faraone non vengono mai
cancellate e non sono neppure, così come viene presentata la narrazione, da dare per
scontate in un senso o nell’altro.
Lettura di san Paolo apostolo ai Romani (15, 14-21)
Ci viene proposta una pericope che è compresa nella sezione che conclude la lettera,
15, 14 - 16, 25, e, più precisamente, nel momento in cui Paolo enuncia i principi del suo
apostolato.
Si è appena conclusa una sezione nella quale l’apostolo polemizza contro alcuni
atteggiamenti della vita comunitaria in contrasto con l’evangelo. Bisognerebbe leggere in
parallelo, per facilitarne la comprensione, i capitoli 8, 9 e 10 della prima lettera ai Corinzi,
dove le questioni sono presentate attraverso la lente del quotidiano, con minor intento
polemico.
La pericope inizia con un’esortazione alla riconciliazione per la questione sui “forti” e
sui “deboli” all’interno della comunità: “Noi, che siamo i forti, abbiamo il dovere di portare le
infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi” (Rm 15, 1).
“Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché,
in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo
viva la speranza (Rm 15, 4). Al v.15 Paolo ritorna su questo punto ricordando agli
interlocutori che “ … vi ho scritto con un po’ di audacia. Come per ricordarvi quello che già
sapete”.
4
T. E. FRETHEIM, 129.
5
Cf T. E. FRETHEIM, 127.
Paolo continua ricordando chi è, qual è il suo ruolo, e questo lo considera “il mio
vanto” (v.17). Karl Barth, a proposito delle definizioni che Paolo dà di se stesso e
soprattutto del modo con cui le espone, dice che in questi momenti è insopportabile.
Egli si considera ministro di Dio per grazia. Gratuitamente è stato mandato per
annunciare l’evangelo. Si impone di annunciarlo solo dove non è conosciuto il nome di
Cristo. Una scelta che ci insegnerebbe molto anche oggi dato che talvolta si sceglie di fare
proseliti anche in terre già cristiane da secoli. Paolo cita, per spiegare questa sua scelta,
Isaia 52, 5, un versetto contenuto nel canto del Servo di JHWH.
Lettura del Vangelo secondo Marco (12, 1-12)
Dopo i tre annunci della passione (8, 31; 9, 31; 10, 33-34) e le reazioni dei discepoli
che registrano incomprensione, incredulità e rifiuto, Gesù entra in Gerusalemme
acclamato dalle folle. La sezione, nella quale è contenuta la pericope proposta dal
lezionario, inizia proprio da 11,1 con l’ingresso in Gerusalemme e termina a 12,12.
Da qui in avanti il racconto di Marco assume toni ancora più drammatici rispetto a
quanto si può trovare nei primi dieci capitoli. Ci sono testi, come la parabola dei vignaioli
omicidi, che toccano la sensibilità del lettore soprattutto per il suo significato. Arrivati alla
fine si ha come l’impressione che il disegno di salvezza di Dio sull’umanità stia per fallire
e, come nel caso dell’esperienza dell’Esodo con i rifiuti di faraone, ci si domanda se Dio,
da questa negatività, saprà trarre qualcosa che offrirà la possibilità di riprendere il rapporto
con lui.
Questa parabola, comune ai sinottici, ha una collocazione importante nell’economia
generale dei racconti evangelici. Agli orecchi allenati degli ascoltatori essa non può che
ricordare la pagina di Isaia 5, 1-7 dove chi parla è un amante ferito e deluso: “Voglio
cantare per il mio diletto il mio cantico d'amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva
una vigna sopra un fertile colle. Egli l'aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva
piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino. Egli
aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. E ora, abitanti di
Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. Che cosa dovevo
fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che
producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per
fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro
di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi
cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la
vigna del Signore degli eserciti è la casa d'Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua
piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva
rettitudine ed ecco grida di oppressi”.
Occorre ricordare anche il Salmo 80 dove chi parla chiede a Dio di proteggere la sua
vigna, il suo popolo, da ogni tipo di devastazione, consapevole però che è necessaria una
conversione, un ritorno, perché Dio esaudisca la sua preghiera: “O Dio, fa’ che ritorniamo”
(v. 4); “proteggi quello che la tua destra ha piantato” (v.16); “Da te mai più ci
allontaneremo …” (v.19).
Tutti coloro quindi che ascoltavano questa parabola comprendevano bene quello che
Gesù voleva intendere.
La situazione descritta è anche riconducibile a fatti storici concreti. Il latifondismo era
piuttosto diffuso e i proprietari dei terreni concessi in affitto, potevano trovarsi anche a
diversi chilometri di distanza. Pertanto, quando era il momento di riscuotere i “frutti”,
mandavano i loro “servi”. Ci sono diverse testimonianze che documentano ribellioni, anche
sanguinose, come quelle descritte nel racconto, nella Galilea del I secolo.
Il termine “servo” è abbastanza generico e può riferirsi a servitori veri e propri ma
anche a ministri del re e soprattutto ai profeti: “In verità, il Signore non fa cosa alcuna
senza aver rivelato il suo piano ai suoi servitori, i profeti” (Am 3, 7).
“Quando Gesù racconta di una vigna, tutti capiscono che parla di Israele; quando
accanto al padrone introduce dei “servi”, non c’è dubbio che allude ai profeti che lo hanno
preceduto”6.
Parlando di “frutti” richiesti si può trovare un parallelismo fra la vicenda del fico – che
dovrebbe dare frutti fuori stagione - e questa parabola. Una domanda che, in entrambi i
casi, rimane senza risposta. Un’altra analogia è con il figlio amato che ci ricorda Isacco.
Gesù, a differenza di Isacco, alla fine non sarà risparmiato.
“Gesù ripercorre le tappe degli antichi profeti perché come portavoce di Dio viene a
ricordare ad Israele la promessa di salvezza e ad invitarlo a viverne la realizzazione nella
completa fedeltà, e, come gli antichi profeti, conosce il rifiuto e la persecuzione. Questo
6
F. MOSETTO, Il Vangelo di Marco, a cura di Rita Pellegrini, EMP, Padova 2008, 197.
non avviene perché è stato predestinato dall’Alto, ma perché la resistenza dell’uomo a Dio
cresce progressivamente, costringendo Dio a scelte sempre più radicali”7.
I capi del popolo sono incapaci di discernere i segni profetici della missione di
Giovanni e di Gesù, ripiegati ad assecondare gli umori del popolo, invece che impegnarsi
a risvegliarne la coscienza messianica 8.
“Andarono di nuovo a Gerusalemme. E, mentre egli camminava nel tempio, vennero
da lui i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani e gli dissero: "Con quale autorità fai queste
cose? O chi ti ha dato l'autorità di farle?". Ma Gesù disse loro: "Vi farò una sola domanda.
Se mi rispondete, vi dirò con quale autorità faccio questo. Il battesimo di Giovanni veniva
dal cielo o dagli uomini? Rispondetemi". Essi discutevano fra loro dicendo: "Se diciamo:
"Dal cielo", risponderà: "Perché allora non gli avete creduto?". Diciamo dunque: "Dagli
uomini"?". Ma temevano la folla, perché tutti ritenevano che Giovanni fosse veramente un
profeta. Rispondendo a Gesù dissero: "Non lo sappiamo". E Gesù disse loro: "Neanche io
vi dico con quale autorità faccio queste cose" (Mc 11, 27-33).
I fraintendimenti, l’incredulità, i tradimenti, chiamano qualcosa di totalmente nuovo
affinché la situazione non si trasformi in una catastrofe.
“Marco riprende Isaia non per dirci che tutto era previsto e preparato, ma per ribadire
il crescere della delusione di Dio, il cumulo delle inadempienze dell’uomo, il radicalizzarsi
del loro scontro per il controllo della storia e lo riprende in modo da portarne all’estremo le
conseguenze”9.
“Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne
produca i frutti” (Mt 21, 43).
Anche se, leggendo questo versetto nella traduzione CEI, potremmo essere tentati di
vedere in un “popolo” la chiesa, come spesso si è fatto, favorendo l’idea che la chiesa
sostituisce Israele, in realtà nel testo greco troviamo il termine éthnei (da éthnos) per
designare un “gruppo” (al plurale, indica le “genti” ossia i pagani) e non laós, “popolo”,
sempre usato per indicare Israele.
Anche se rimane sullo sfondo il rifiuto dell’uomo, Marco vuole rimarcare con forza
l’invincibile volontà di Dio “che si oppone, con tutto se stesso, alla chiusura della sua storia
7
A. BODRATO, Il vangelo delle meraviglie. Commento al vangelo di Marco, Cittadella, Assisi 1996, 163.
8
Cf A. BODRATO, 164.
9
A. BODRATO, 166.
di salvezza nella storia di morte degli uomini, e fino alla fine lotta per trasformarla in
Regno”10.
Leggere questo racconto in chiave antigiudaica sarebbe far torto a Marco e alla sua
comunità che, nel presentare gli inaffidabili discepoli, stanno raccontando la loro difficoltà
a seguire il Signore, così come egli vorrebbe.
Ne è prova la persistente “sottolineatura dell’incomprensione e del tradimento dei
Dodici, che invece di presentarsi come prototipo di un nuovo popolo fedele si configurano
piuttosto come tipo dell’incapacità umana di credere e come espressione dell’inevitabile
inadeguatezza della vita di fede nella storia rispetto alla perfezione del Regno”11.
Il tentativo di impadronirsi di ciò che appartiene a Dio, regno compreso, percorre tutti i
secoli della storia cristiana. Questa parabola vuole esprimere un ammonimento rivolto ai
discepoli di ogni tempo e, in particolare, a coloro che nella chiesa hanno la responsabilità
del servizio ai fratelli e alle sorelle nella fede.
10
Cfr. A. BODRATO, Il vangelo delle meraviglie, commento al vangelo di Marco, Cittadella, Assisi 1996, 166.
11
A. BODRATO, Il vangelo delle meraviglie, commento al vangelo di Marco, Cittadella, Assisi 1996, 167.
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