JACOPONE DA TODI Doris Nátia Cavallari USP Trabalho para fins didáticos sem fins lucrativos JACOPONE DA TODI Jacopo de’ Benedetti nacque intorno al 1236 a Todi JACOPONE DA TODI E morì nel convento di S. Lorenzo di Collazzone (fra Perugia e Todi) nel 1306 VITA JACOPONE DA TODI Studiò diritto a Bologna, poi ritornò nella sua città dove fu avvocato e notaio. Nel 1268, durante una festa, gli morì la moglie, in seguito al crollo del pavimento della sala, e Jacopo scoprì, sotto le eleganti vesti di lei, uno strumento di penitenza, il cilizio. Sconvolto Jacopo abbandonò ogni cosa, professione, parenti, amici, distribuì ai poveri ogni suo avere e visse per dieci anni vita di penitente. Le sue penitenze sono piuttosto esasperate, assurde. Dopo 10 anni fu ammesso nell’ordine francescano (era partidario degli Spirituali) e qui studiò teologia e compose le sue laudi. JACOPONE DA TODI E LO SPIRITO DI LIBERTÀ Probabilmente nato nel XII secolo, lo "Spirito di Libertà" si diffuse in Europa nel secolo successivo, con dottrine che facilmente si integravano nella mistica tradizionale; il fermento religioso era vivo nell'alto Medioevo, ma spesso fioriva con gruppi spontanei che la Chiesa poteva non riconoscere o ostacolare, al fine di evitare deviazioni dalla regola, sbandi anarchici dal controllo dell'ordine ufficiale. Nel 1311, il movimento fu quindi accusato di eresia dal concilio di Vienna, nell'ambito della condanna dei "begardi", corrispondenti agli italiani "bizzochi" (cioè penitenti al di fuori della Chiesa ufficiale), tra i quali le idee del Libero Spirito avevano preso piede. La dottrina del Libero Spirito, al di là delle posizioni moderate o estremiste dei vari gruppi, insisteva su un momento ascetico iniziale di mortificazione, digiuno, povertà Da http://www.iacoponetodi.it/it materiale e spirituale: il processo portava infine all'indiamento, cioè il raggiungimento di Dio e la totale identificazione con lui. Dunque l'anima doveva annullarsi per poi fondersi con Dio: a questo punto era impeccabile, ferma in una sorta di paradiso sulla terra. Idea che non rientrava più nell'ortodossia cristiana e non poteva esser accettata dalla Chiesa. Iacopone da Todi condusse la vita del bizzoco per circa dieci anni, quindi era probabilmente venuto a contatto con le idee dello Spirito della Libertà. In particolare alcune laude appaiono influenzate dalla dottrina: Povertat'è null'avere e nulla cosa poi volere e onne cosa possedere en spirito de libertate... BONIFACIO VIII Benedetto Caetani, nato ad Anagni nel 1235, fu eletto Papa col nome di Bonifacio VIII, il giorno della vigilia di Natale del 1294 dal Conclave radunatosi nel Castelnuovo di Napoli, in base alla costituzione di Gregorio X sull'elezione pontificia, dieci giorni dopo il "gran rifiuto" di Celestino V. Il suo papato durò dal 1294-1303 Il primo, vero e proprio, atto politico di Bonifacio VIII fu quello di ratificare il trattato (precedentemente vergato da Celestino V) tra Carlo II e Giacomo II d'Aragona, in base al quale la Sicilia si sarebbe riunita al regno angioino. BONIFACIO VIII Nella bolla Clericis laicos, emessa nel 1296, minacciò di scomunicare i laici che avessero imposto tasse agli ecclesiastici, senza il consenso della Chiesa di Roma. In Germania e in Inghilterra i sovrani si uniformarono a tale disposizione; in Francia, invece, il re Filippo il Bello emanò due editti contrari, con l'approvazione dei vescovi francesi. Davanti a tale irrigidimento, che avrebbe potuto portare a Bonifacio VIII gravi ripercussioni economiche, autonomistiche e politiche, il pontefice fece retromarcia, autorizzando il re a riscuotere le imposte del clero solo in casi di emergenza. Anche in Italia Bonifacio VIII avrebbe dovuto fare i conti con l'ostilità di alcuni membri dell'aristocrazia romana, in particolare con la famiglia Colonna: i due cardinali Giacomo e Pietro dichiararono nulla la sua elezione e montarono contro il papa un'opposizione sia da parte del popolo che del clero, che si estese anche all'ordine degli Spirituali Francescani, il cui portavoce, Jacopone da Todi, inveì contro Bonifacio VIII chiamandolo "novello anticristo". Jacopone lottò contro l'esercito papale, ma fu catturato dai suoi eserciti nel 1298,nel suo rifugio alla Rocca Palestrina. Lui fu incarcerato, scomunicato e rimase in prigione fino alla morte del papa. Da: http://www.racine.ra.it/lcalighieri/Giubileo/bonif acio_viii.htm O papa Bonifazio Jacopone scrisse durante la priogionia (1298-1303) questa epistola in versi, ardente supplica a papa Bonifazio VIII perché lo liberi dalla scomunica, ma fa, al tempo stesso una dignitosa e forte affermazione della propria innocenza e della propria inalterata e autentica professione di vita cristina. Bonifacio VIII invia Carlo di Valois in delegazione dalle fazioni guelfe", 1301, miniatura di scuola fiorentina - Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana O papa Bonifazio O papa Bonifazio, eo porto el tuo prefazio e la maledezzone e scommunicazione. Con la lengua forcuta m’hai fatta esta feruta: che co la lengua ligne e la piaga ne stigne; ca questa mia ferita non pò esser guarita per altra condezione senza assoluzïne. Per grazïa te peto che me dichi: “Absolveto”, e le altre pene me lassi finch’io del mondo passi. Puoi, si te vuol provare e meco esercetare, non de questa materia, ma d’altro modo prelia. Si tu sai sì schirmire che me sacci ferire, tengote bene esperto, si me fieri a scoperto: c’aio dui scudi a collo, e s’io no i me ne tollo, per secula infinita mai non temo ferita. El primo scudo, sinistro, l’altro sede al deritto. Lo sinistro scudato, un diamante aprovato: nullo ferro ci aponta, tanto c’è dura pronta: quest’è l’odïo mio, ionto a l’onor di Dio. O papa Bonifazio Lo deritto scudone, d’una preta en carbone, ignita como fuoco d’uno amoroso ioco: lo prossimo en amore d’uomo enfocato ardore. Si te vòi fare ennante, puo’lo provar ’n estante; e quando vol’ t’abrenca, ch’e’ co l’amar non venca. Volentier te parlara: credo che te iovara. Vale, vale, vale, Deo te tolla onne male e dìemole per grazia, ch’io el porto en leta fazia. Finisco lo trattato en questo loco lassato. JACOPONE DA TODI La poesia e il rapporto con la scienza La scelta umile del dialetto umbro popolare nelle laudi, è accompagnata comunque dal bagaglio intellettuale del poeta: termini attinti dal latino ecclesiastico, dal gergo giuridico, e dalla lirica d'amore arricchiscono l'opera di Iacopone, insieme alla tensione espressiva unica e a varie scelte originali, come quella della drammatizzazione. Forse proprio a Iacopone si deve il primo esempio di Lauda drammatica, o dialogata: una delle sue laudi più famose "Donna de Paradiso", è un intreccio di voci che si soffermano sull'umana sofferenza della Madonna, la sua intesa materna e carnale con il figlio crocefisso. L'interesse negli studi teologici è in apparente contraddizione con la polemica tipica degli Spirituali dell'ordine francescano nei confronti della scienza: in realtà l'oggetto della contestazione non è l'istruzione in sé, ma il desiderio di gloria legato alla fama di cultura. Quindi la critica di Iacopone si concentra contro tutto ciò che cancella l'umiltà, pilastro della vita dei francescani anche nell'ambito dello studio. Da http://www.iacoponetodi.it/it JACOPONE DA TODI O iubelo de core Metro Schema di ballata (x x, a b, b x, tutti settenari; la rima si ripete uguale nelle strofe II e III (-e so); quella b (-are) nelle strofe I e II; assonanza, come succede spesso in Jacopone ai vv. 3-5 e 21-23; rima siciliana (éso—iso) ai vv. 15-17. Anche a livello metrico dunque un intreccio fra il registro “popolare” ( le assonanze) e procedimenti tipici della poesia cortese (le rime-refrain e la rima siciliana)... Da ASOR ROSA, A. La poesia del Duecento e Dante. Firenze: La Nuova Italia, 1974, p.77 Il concetto del giubilo d’amore si trova già in Bernardo di Ventadorn. ...è l’amore che rende buono il canto, dice Bernardo; è il giubilo che obbliga l’uomo a cantare, dice jacopone. Il motivo non per nulla si ritrova nello Stil Novo e in Dante, ma mentre Jacopone esclude, teoricamente, la nozione stessa di una mediazione (la cultura evidentemente), negli stilvovisti e in Dante l’accento poggia pariteticamente sui due aspetti: amore e sua trascrizione partica (“Amore ha fabricato ciò ch’io limo”, Cavalcanti; “...e a quel modo/ ch’è [Amore] ditta dentro vo significando” , Dante). Da ASOR ROSA, A. La poesia del Duecento e Dante. Firenze: La Nuova Italia, 1974, p.77 JACOPONE DA TODI O iubelo de core O iubelo de core, che fai cantar d'amore! Quanno iubel se scalda, sì fa l'omo cantare; e la lengua barbaglia, (5) non sa que se parlare; drento no 'l pò celare (tant'è granne!) el dolzore. Quanno iubel c'è aceso, sì fa l'omo clamare; (10) lo cor d'amor è apreso, che no 'l pò comportare; stridenno el fa gridare e non virgogna allore Quanno iubelo à preso (15) lo core ennamorato, la gente l'à 'n deriso, pensanno el so parlato, parlanno esmesurato de que sente calore. (20) O iubel, dolce gaudio, ch'è' drento ne la mente! Lo cor deventa savio, celar so convenente; non pò esser soffrente(25) che non faccia clamore. Chi non à custumanza te reputa empazzito, vedenno esvalianza com'om ch'è desvanito. (30) Drent'à lo cor firito, non se sente de fore JACOPONE DA TODI O iubelo de core La lauda si sviluppa parallelamente su due assi: l’esperienza intimamente vissuta e ciò che ne appare al di fuori. Vista dall’interno, la gioia mistica espressa dalla metafora del cuore che si infiamma sempre più (vv. 3,9,15), è presentata come un’esperienza intima e profonda (v.22) da condurre alla perdita di contatto con il mondo (vv. 31,12) Nelle sue manifestazioni esterne si presenta come uma progressione verso la follia, che trapassa dal cantare (v.4 al balbettare (v.5), dal gridare (vv.10 e 13) al non provare alcuna vergogna (v. 14) e al diventare oggetto di scherno (v. 17) dal “far clamore” (v. 26) all’apparire impazzito (vv. 27-30). Da ARMELLINI,G. E COLOMBO, A. La letteratura italiana. Antologia. Duecento e Trecento. Vol. I. Bologna:Zanichelli, 1999, p. 105 JACOPONE DA TODI Questo parlare/ cantrare/gridare diventa allora um crescente atto d’umiltà e un modo di esercitare la caritas, secondo la concessione di San Bernardo, uno dei maestri di Jacopone e che pregava: “ colui il quale, preoccupato di non perdere il suo bene, non lo partecipa, lo dissolve e distrugge nell’egoismo. Per S. bernardo, la solidarietà umana, l’unità dei compagni di viaggio nel cammino dell’esistenza attraverso il tempo e l’eterno, esige la predicazione... La carità, che non permette all’uomo di salvarsi da solo è... la ragione e la sostanza stessa dell’umiltà. L’umiltà, infatti, si manifesta realmente solo come comunicazione: l’incarnazione del cristo... Rappresenta lo svolgimento esemplare di questo tema: l’umiltà del Dio che s’incarna trova la sua ragione nell’amore per gli uomini...” (Lazzari apud ASOR ROSA, A. La poesia del Duecento e Dante. Firenze: La Nuova Italia, 1974, p.75) JACOPONE DA TODI O Segnor, per cortesia Non solo per eccesso e sovrabbondanza di amore verso Dio Jacopone invoca su di sé ogni male, non solo per distaccarsi dal corpo e concepire quell’odio del mondo che condizione prima di rinovamento del mistico amore, ma anche, come spiega alla fine, per espiare quei peccati coi quali anch’egli, come ogni peccatore ha crocefisso Cristo, amore supremo. Jacopone invoca su di sé ogni infermità, poi di essere abbandonato da tutti, colpito da ogni sorta di sciagura, sia in questa vita, sia dopo la morte. È un crescendo di fantasie cupe, scandite con un ritmo implacabile, un desiderio di atroce dissolvimento, che sfocia sul grido di dolore e pentimento, più umanamente persuasivo, dell’ultima quartina (Pazzaglia, p. 153) Jacopone da Todi O Segnor, per cortesia O Segnor, per cortesia manname la malsanìa! A me la fevre quartana la contina e la terzana, la doppia cotidiana co la grande etropesìa. A me venga mal de denti, mal de capo e mal de ventre, a lo stomaco dolor pungente e’n canna la squintania; mal de occhi e doglia di fianco e l’apostema al canto manco tiseco me ionga el alco, e d’onne tempo la frenosia. Aia ‘l fegato rescaldato la milza grossa, el ventre enfiato; lo polmone sia piagato con gran tossa e parlasìa. A me venga le fistelli con migliaia di carboncelli, e li granchi siano quelli che tutto ripien ne sia. A me venga la podagra, mal di ciglia sì m’aggrava, la dissinteria sia piaga e l’emorroide a me se dia. A me venga el mal del asmo, iongasece quel del pasmo; como al can me venga el rasmo ed en vocca la grancìa. Jacopone da Todi O Segnor, per cortesia A me lo morbo caduco de cadere en acqua e’n foco, e ià mai non trovi loco ch’eo afflitto non ce sia. A me venga cechitate, muteza e sordetate, la miseria e povertate, e d’onne tempo attrapparìa. Tanto sia el fetor fetente, che non sia null’om vivente, che non fuga da me dolente posto en tanta enfermarìa. En terrebele fossato che Regoverci è nomenato, loco sia abbandonato, da onne bona compagnia. Gelo granden, tempestate fulgure, troni e oscuritate: non sia nulla avversitate, che non me aia in sua bailia. Glie demonia enfernali sì me sian dati a ministrali, che m’esserciten li mali, c’ho lucrati a mia follia. Enfin del mondo a la finita sì mi duri questa vita, e poi la sceverita, dura morte me se dia. Alegome en sepoltura ventre de lupo en voratura, e l’arliquie e cacatura en espineta e rosarìa. Jacopone da Todi O Segnor, per cortesia Alegome en sepoltura ventre de lupo en voratura, e l’arliquie e cacatura en espineta e rosarìa. Li miracul po’la morte: chi ce ven aia le scorte, e le vessazione forte con terrebel fantasia. Onn’om che m’ode mentuvare, sì se deia stupefare, co la croce sé signare che rio scontro no i sia en via. Segnor mio, non è vendetta tutta la pena c’ho detta: chè me creasti en tua diletta e eo t’ho morto a villania. Jacopone da Todi Il senso del contrasto morale atteggia tutto per antitesi e contraddizioni, che sono cosí accostamenti di espressioni contrastanti per tono, come di termini di significato contrario. La stessa sintassi jacoponica, che costituisce indubbiamente una delle maggiori difficoltà del testo, è prova di una psicologia inquieta e combattuta: la prevalenza della coordinazione asindetica sulla subordinazione, che dà un andamento spezzato all'espressione e i cambiamenti di costruzione denunciano la continua reazione morale del poeta di fronte al suo oggetto: è mescolato sempre alla visione un giudizio che modifica e altera l'espressione; biasimo, indignazione, disprezzo sono palesi nello stesso atteggiarsi della frase. Da http://www.pubblicascuola.it/Pagine/index31.html Jacopone da Todi La poesia di Jacopone è tutta dominata da interessi e problemi psicologici: lo attesta il linguaggio, spesso assai ricco di termini astratti, di natura appunto psicologica e riferentesi alla vita dello spirito, e povero invece di termini concreti e riguardanti le cose materiali. Certe espressioni hanno un significato pregnante, nascono da un complesso lavorio interno e ne sono il segno e il risultato. Un linguaggio cosiffatto è quello di uno spirito librato in un'atmosfera rarefatta, preoccupato del problema della propria perfezione, continuamente tendente verso l'alto, e insieme attento ai propri movimenti, non in modo riflesso e non con l'interesse distaccato e prevalentemente estetico dello psicologo moderno, ma con un senso vigile, direi quasi esasperato, della responsabilità morale che accompagna quei movimenti. Ciò risulta evidente dal comparire di termini e frasi di una concretezza talvolta brutale: sono espressioni di dispregio per sé medesimo, o di aborrimento per il, peccato, che rivelano quale acuto senso Jacopone abbia del contrasto tra la perfezione a cui aspira e la realtà della sua vita e del mondo. Il termine energico, grossolano, plebeo è cercato con l'evidente scopo di dar forza all'espressione, e ciò accade sopra tutto nella prima sezione del laudario iacoponico, che contiene, come si è detto, riflessioni sul peccato, sulla vanità delle cose terrene, sulla morte. Nell'insistenza sul tono violento e sui termini spregiativi si coglie l'odio e direi quasi il rancore contro il mondo e le sue brutture. A volte, per es. nello sviluppo dato al tema, pure tradizionale, della contemplazione della morte, il particolare orrendo è rilevato con grossolana ironia, e sono usate espressioni di immediata efficacia rappresentativa Jacopone da Todi Donna del Paradiso «Donna del Paradiso, lo tuo figliolo é preso Iesù Cristo beato. Accurre, donna e vide Che la gente l’ allide (lo batte- latinismo); Credo che lo s’ occide, Tanto l’ò flagellato» «Como essere porria, che non fece follia, Cristo, la spene mia, om l’avesse pigliato?» «Madonna, ello è traduto, Iuda si ll’à venduto; Trenta denar’ n’à avuto, Fatto n’à gran mercato». «Soccurri, Madalena, ionta m’è adosso piena! (mi è giunta la pena) Cristo figlio se Mena, como è annunzïato». Soccurre, donna, adiuta, cà ’l tuo figliol se sputa e la gente lo muta; òlo dato a Pilato». «O Pilato, non fare el figlio meo tormentare, ch’ eo te pòzzo mustrare como a torto è accusato». «Crucifige, crucifige! Omo che se fa rege, (29) secondo la nostra lege contradice al senato». Jacopone da Todi Donna del Paradiso «Prego che mm’entennate, (m’intendiate –intendiate il mio dolo di madre) nel meo dolor pensate! Forsa mo vo mutate de que avete pensato». «Traìan for li latruni, che sian soi compagnuni; che spine s’ encoroni che rege ss’è clamato!». O figlio, figlio, figlio, figlio, amoroso giglio! Figlio, chi dà consiglio al cor me’ angustïato? Figlio occhi iocundi, figlio, co' non respundi? Figlio, perché t’ascundi al petto o’ sì lattato?» (48) «Madonna, ecco la Croce, che la gente l’aduce (che la gente porta) ove la vera luce deve essere levato». (52) «O croce, e que farai? El figlio meo torrai? come tu poniari chi non há in sé peccato?» (fare attenzione al nesso croceinnocenza, nucleo dottrinale della passione de della redenzione) (60) «Soccurre, piena di doglia, ca ’l tuo figlio se spoglia; la gente par che voglia che sia martirizzato». «Se i tollet’ el vestire, lassatelme vedere, com’ em crudel firire tutto l’ ò ensanguenato». Jacopone da Todi Donna del Paradiso «Donna, la man li è presa, ennella croc’è stesa; con un bollon l’ò fesa, (con un chiodo l’hanno traffitta) tanto lo’n cci ò ficcato L´altra manno se prende, ennella Croce se stende e lo dolor s’accende, ch’è plu multiplicato. Donna, li pè se prènno e clavallanse al lenno; onne iontur’aprenno, tutto l’ò sdenodato». (76) «Et eo comenzo el corrotto (lamento funebre); figlio, lo meo deporto (gioia), figlio, chi me tt’à morto, figlio meo dilicato? Meglio averiano fatto ch’el cor m’ avesser tratto, ch’ ennella Croce è tratto, stace descilïato!» (straziato) «O mamma, ove si’ venuta mortal me dai feruta, cà ’l tuo planger me stuta, che ’l veio sì afferato». (Il tuo pianto m’uccide perché è così angosciato) «Figlio, ch’eo m’aio anvito (figlio io ne ho ben ragione per piangere) figlio, pat’ e mmarito! Figlio, chi tt’à ferito? Figlio, chi tt’à spogliato?» Jacopone da Todi Donna del Paradiso «Mamma, perché te lagni? Voglio che tu remagni, che serve ei mei compagni ch’ al mondo aio acquistato». «Figlio questo non dire! Voglio teco morire, non me voglio partire fin che mo m’ esce ’l fiato. C’ una aiam sepoltura, (Che abbiamo un’unica sepoltuta) figlio de mamma scura (infelice), trovarse en afrantura (che si trovano nella stessa sofferenza) mat’ e figlio affocato!» (ucciso) (104) «Mamma col core afflitto, entro le man te metto de Ioanni, meo eletto; si atuo figlio appellato. Ioanni, èsto mea mate: tollita en caritate, àginne pietate, cà ’l core sì à furato». (111) (traffitto dal dolore) «Figlio, t’ alma t’ è scita, (è uscita da te) figlio de la smarrita, figlio de la sparita, (disperata) figlio attossecato! (avvelenato) Jacopone da Todi Donna del Paradiso Figlio bianco e vermiglio, figlio senza simiglio, figlio, e a chi m’ apiglio? Figlio, pur m’ ai lassato! Figlio bianco e biondo, figlio volto iocondo, figlio, perché t’à ’l mondo, figlio, così sprezzato? Figlio dolze e placente (dolce e piacente – bello ) figlio de la dolente, figlio àte la gente malamente trattato. Ioanni, figlio novello, mort’è lo tuo fratello: ora sento ’l coltello (metonimia per ferita) (131) *che fo profetizzato. Che moga figlio e mate d’ una morte afferrate, trovarse abraccecate mate e figlio impiccato!» (appeso alla croce, crocefisso * che fo profetizzato. – riferimento alla profezia di Simeone che visto Gesù bambino, aveva detto: ”Quanto a te Maria, il dolore ti colpirà come colpisce una spada) Luperini, p.39 Jacopone da Todi Donna del Paradiso Scelte stilistiche Stuta e lagni – questi termini usati da Cristo sono forme popolari, famigliari Crucifige, rege, lege sono latinismi, sono di derivazione colte. Invece sputa, latruni, cumpagnuni fanno parte del lessico realistico di impronta popolare. Da notare anche l’intonazione della voce di Cristo, dall’alto non solo della croce, ma di un mondo ormai lontano da questo terreno, appartiene a una dimensione soprannaturale. struttura sintattica – prevalenza della coordinazione, specialmente per assindeto. riccorenza dell’asindeto . uso quasi ossessivo del vocativo anaforico figlio. (33 volte nel dialogo fra madre e figlio). Cristo, a sua volta, ripete tre volte il vocativo Mamma. L’anafora e l’iterazione creano il pathos della lauda. frasi esclamative col verbo all’infinito lessico fra il dotto e il popolare allo stesso tempo (latinismi nel discorso del Nunzio e della folla e locuzini quotidiane in quelle di Cristo e della madonna) Jacopone da Todi Donna del Paradiso Jacopone sposta l’attenzione della figura di Cristo a quella di Maria, rappresentata come una madre che grida la sua disperazione per la morte del figlio. Maria viene chiamata donna, madonna, piena di doglia, dolente e mamma.. La rappresentazione di Maria come mamma addolorata e di Gesù come uomo agonizzante (c’è un unico punto in cui l’autore si riferisce a Cristo come Dio) fornisce gli aspetti umani della passione. Abbiamo un uomo e una donna che soffrono come qualsiasi altro essere umano. Si veda qui l’influenza francescana che valorizza gli aspetti umani delle situazioni. L'itinerario che porta a Dio è un cammino di amore e di dolore, una lotta aspra e continua contro le tentazioni del mondo e i bassi appetiti della natura umana (Casella). Anche la posizione apparentemente più rigoristica, quella mistica, appare in realtà solo un mondo intellettuale particolare di impostare i rapporti tra cultura e natura/esistenza. Jacopone da Todi Donna del Paradiso Al centro dell’attenzione stanno l’umana sofferenza della Madonna e la sua intesa materna e carnale con il figlio crocefisso. L’esperienza della morte di Cristo non è glorificata astratamente, ma rappresentata come estrema condizione del dolore umano: la radicalità di Jacopone qui non determina un’esaltazione della natura divina morente, ma amplia al massimo il campo dell’umanità sua e dei suoi rapporti. La madre Maria è lo specchio terreno e il fulcro di questo legame dei due misteri della Passione e dell’Incarnazione: con perfetta consapevolezza teologica e dottrinale, e non certo per rozza intuizione di sentimenti, come è stato spesso ritenuto, Jacopone fonde nella figura della Madonna i due termini coinvolti nel grande mito cristiano. Ella è il doppio terreno di Cristo (cfr.vv. 132-135 - Che moga figlio e mate/ d’ una morte afferrate,/ trovarse abraccecate/ mate e figlio impiccato), con la sua purezza, e perciò degna di un rapporto di fusione con Dio, e con la sua sofferenza; ed è un modello di umanità redenta, segnata dalla svolta definitiva della Passione e affidata alla continuità della lezione evangelica (cfr.vv. 104-111 e 128 sg). L’aspetto ‘teatrale’ è conforme alla volontà francescana di messaggio cristiano e di partecipazione popolare ad esso... (Romano Luperini) JACOPONE DA TODI La poesia di Jacopone testimonia una continua e tormentosa battaglia nell’animo suo, nella ricerca di una fusione mistica con Dio, che è un morire a se stessi e al mondo. Solo attraverso l’abominio e l’odio di sé, del suo corpo, della sua anima, della vita intera, solo mediante questa totale distruzione e suprema disperazione egli pensava di potersi liberare dalla natura umana misera e peccaminosa e giungere al vero, supremo amore di Dio, una travolgente, inebriante esperienza mistica. Jacopone tendeva a questa assoluta e lacerante solitudine, a non essere più un io, povero grumo di orgoglio, egoismo e passione; era pessimista di fronte al mondo che non vedeva come armoniosa creazione di Dio, ma insozzato e corrotto dal peccato, pessimista davanti agli uomini che sentiva incapaci d’ amare.” (Pazzaglia, p.152)