TEMPESTA SUI MARINES Visibiltà ridotta. Aerei ed elicotteri costretti a terra Il comando inglese: "Ci posizioneremo fuori dalla città" Tempesta di sabbia sui marines in marcia verso Bagdad Continuano intanto i raid aerei sulla capitale Obiettivo: le postazione della Guardia repubblicana BAGDAD - La tempesta di sabbia che dal primo mattino sta spazzando il deserto non ferma la marcia delle truppe americane verso Bagdad. La rallenta soltanto. CONINUA Una fonte della difesa di Londra ha anticipato che entro oggi le prime forze britanniche prenderanno posizione intorno alla capitale irachena, per poi attendere i rinforzi. Bagdad è stata nuovamente bombardata questa mattina. Obiettivo gli uomini della Guardia Repubblicana che avrebbero circondato Bagdad e minaccerebbero di usare armi chimiche se le forze nemiche oltrepassassero una ideale "linea rossa". Indiscrezioni riportate dalle tv Cnn, Nbc e Cbs, che il Pentagono non ha confermato. La resistenza si annuncia dunque tenace. E mentre la coalizione si prepara a circondare la città e a conquistare il cuore del potere di Saddam, il New York Times si domanda quanto costerà la presa di Bagdad in termini di vite umane. Il prezzo si annuncia alto. Ma le operazioni vanno avanti, nonostante la tempesta di sabbia. CONTINUA Tempesta annunciata dai meteorologi che ha ridotto la visibilità a meno di un chilometro e sta ostacolando le operazioni. I venti raggiungono una velocità compresa tra i 64 e i 92 chilometri orari. Gli elicotteri d'attacco Apache e Black Hawk sono stati bloccati a terra. "E' impossibile volare con le attuali condizioni atmosferiche", ha dichiarato il luogotenente Patrick Gioa nell'annunciare l'interruzione delle operazioni aeree della 101/ma divisione. E le previsioni dei meteorologi dell'esercito non sono buone: la situazione rimarrà stabile fino a mercoledì mattina quando il cielo tornerà chiaro e la visibilità limpida. CONTINUA A Bagdad intanto le sirene dell'antiaerea continua a suonare a intervalli. Poco dopo mezzogiorno c'è stato un nuovo attacco aereo alla periferia della città. Una città surreale, avvolta da un cielo rosso per la sabbia che arriva dal deserto. La città è ora avvolta da una pesante cappa di polvere sottile che penetra ovunque. Poche le automobili che si avventurano nelle strade, scarso il traffico pedonale, pochi i negozi ancora aperti. (25 marzo 2003) Il "tradimento" degli sciiti dagli inviati di Repubblica CARLO BONINI e GIUSEPPE D'AVANZO Il Pentagono contava sul loro aiuto per attaccare Bassora I soldati Usa accusano: "Ci lasciano soli" KHUZISTAN, IRAN - E' il quinto giorno di guerra e la Guardia repubblicana di Saddam è in grado di aggredire ancora nel sud Iraq le truppe anglo-americane. Il bollettino delle operazioni, così come riferito da più fonti, registra attacchi a installazioni strategiche nella penisola di Al Faw. E ancora: scontri lungo l'autostrada 80 con l'artiglieria e gli elicotteri in azione; le difficoltà dei "Topi del Deserto" a tenere l'assedio di Bassora; i furiosi combattimenti di Samawa sull'Eufrate, a metà strada tra Najaf e Nassiriya. CONTINUA Queste scarne informazioni, che è stato possibile verificare, ripropongono una questione di cui non si riesce a venire a capo da due giorni: il sud dell'Iraq è nelle mani delle truppe inglesi e americane, ma fino a che punto? Per dirla in altro modo: quanta parte di territorio è controllata, oggi, dalla coalizione? E come? Il fastidio degli americani per quel che sta accadendo è esplicito. Un alto funzionario del Dipartimento di Stato, al lavoro in una città del Medio Oriente, cede all'irritazione e si sfoga: "Dove diavolo sono gli Sciiti?". "La verità - prosegue - è che ci hanno traditi...". Spiega meglio un'altra fonte vicina al Pentagono: "I nostri piani militari erano stati ritagliati intorno alle più consistenti enclave sciite di sud e sud-ovest, nella speranza, o certezza, che fossero gli Sciiti a liberarsi della Guardia Repubblicana". CONTINUA Così una delle chiavi per comprendere che cosa accade in queste ore nelle città del sud iracheno impone di porsi qualche domanda sul comportamento degli Sciiti. Che è poi il comportamento della popolazione civile perché gli Sciiti sono il 67 per cento del popolo iracheno e la quasi totalità degli abitanti delle città del sud "liberate" e, a occidente, dei luoghi sacri Najaf e Karbala. Saddam odia gli Sciiti e gli Sciiti odiano Saddam. Dopo la rivolta del 1991, nell'indifferenza degli Stati Uniti, i seguaci di Ali (il primo imam sciita) furono schiacciati da una crudele repressione che lasciò sul campo quasi mezzo milione di morti. Con questa premessa, che gli americani si aspettassero la rivolta delle città del sud dopo la distruzione degli obiettivi militari e strategici, appariva coerente. In fondo, niente di più di quanto accaduto in Afghanistan lo scorso anno: gli Sciiti come l'Alleanza del nord. Ma questo non è avvenuto. CONTINUA Non è avvenuto a Bassora, nel cui centro ancora nessun soldato inglese o americano ha messo piede. Non è avvenuto a An Nassiriyah, dove si è combattuta la più violenta della battaglie campali di questi primi giorni di guerra. Non è avvenuto a Suq-al-Shuyakh, dove si è consumata l'imboscata a un convoglio americano di rifornimenti. E' avvenuto soltanto ad Al Faw, dove le truppe inglesi, con metodi degni di Belfast, hanno ripulito le polverose strade casa per casa. Ecco allora una delle questioni della prima settimana di guerra: dove sono finiti gli Sciiti? Per trovare una risposta, bisogna cercare nei sei campi che, in Iran, a Dezful, Andimeshk, Shushtar, Gatvand, ospitano 60mila profughi, i miliziani delle Brigate Sadr e i leader politici del "Consiglio Supremo della Rivoluzione in Iraq" dell'ayatollah Muhammad Baqir Al Hakim. CONTINUA In questi campi, grazie ai "passatori" che vanno su e giù lungo la frontiera a Al Faw, Khorramshahr, Shalamcheh, Arvand Kenar, si raccolgono informazioni di quel che sta accadendo nelle città "liberate". Il racconto che se ne può fare è questo. Nei primi giorni di marzo, il comandante supremo dell'esercito iracheno per l'area sud-occidentale, Ali Hassan Al-Majeed, ha ripulito i vertici dell'Armata del sud dagli ufficiali incerti. Sette generali che avevano espresso perplessità sulla nuova devastante guerra sono stati uccisi. I metodi di Ali "il chimico", così lo chiamano, non sono stati risparmiati alla popolazione civile. Per raccontare soltanto un episodio: la tribù nomade sciita Al-Bazuni voleva starsene fuori dalla guerra. Il loro capo chiese di incontrare Ali nella città di Amara (Misan, per gli iracheni). CONTINUA Il generale ascoltò in silenzio il capo tribù e per tutta risposta, subito dopo, gli uccise il figlio Arahim Abdalkarim. E' in questo clima di terrore che è iniziata la guerra. Molti sciiti pensavano che con i primi bombardamenti avrebbero potuto lasciare le città. Saddam glielo ha lasciato pensare. Ma, ventiquattro ore prima dell'inizio delle ostilità (mercoledì 19 marzo), ha imposto il coprifuoco e da allora ogni momento deve essere autorizzato per iscritto dalla Guardia Repubblicana. Le città, a quanto dicono gli sciiti in Khuzistan, possono reggere a questo assedio per molto tempo. In questa situazione, mimetizzata tra la popolazione civile, combatte oggi la Guardia Repubblicana che si è liberata dalle divise, che ha nascosto all'esterno delle città gli armamenti pesanti e, in abiti civili, a bordo di pick-up armati di mitragliatori pesanti, lancia, qui e lì, delle imboscate. CONTINUA Un fatto, in questo momento, è confermato da tutte le fonti: Bassora, An Nassiriyah, Najaf e Karbala sono controllate dalla Guardia fedele a Bagdad. Il "terrore" che schiaccia gli sciiti non è la sola ragione e probabilmente non la più importante del loro immobilismo. O, per dirla con gli americani, del loro "tradimento". Quando vogliono, gli sciiti sembrano saper tenere testa alla Guardia Repubblicana e raccontano che due giorni fa (sabato, 22) a Najaf, al termine di una manifestazione ("Nè con Bush né con Saddam, soltanto con il profeta Ali") ne hanno ucciso il comandante, Najef Sheidagh Nazem. Sembra di poter dire che, nell'atteggiamento sciita, più del terrore, conta la diffidenza verso gli Stati Uniti. Nei campi profughi del sud dell'Iran, come nelle città in Iraq, non c'è famiglia che non abbia patito morti nella repressione del 1991. CONTINUA Quando gli americani se ne rimasero a guardare i missili di Saddam che, nella no-fly zone, spegnevano nel sangue la ribellione. una diffidenza che i numerosi colloqui segreti che hanno preceduto la guerra non hanno scalfito. Salah Mosavi è il leader politico degli Sciiti nell'intero Khuzistan iraniano. un uomo dall'aspetto mite, dalla voce calma e i modi rassicuranti. Ricorda senza ira, con fredda malinconia, le discussioni con gli emissari della Casa Bianca che hanno preceduto la guerra. L'ultimo, ad Arbil, Kurdistan iracheno. Racconta: "L'inviato di Bush, Zalmay Khalilzad, ci spiegò che siamo un popolo troppo giovane per prenderci la responsabilità di governare l'Iraq liberato. Per noi, non può esistere un insulto peggiore. Viviamo in queste terre da millenni e siamo un popolo antico. Più antico degli americani che vengono a spiegarcelo. Siamo così "antichi" e radicati nella nostra terra che siamo gli unici a poter distinguere una guardia repubblicana in abiti civili da un civile. Capacità che oggi farebbe molto comodo a inglesi e americani. Ma non ne hanno voluto sapere. Le condizioni che abbiamo proposto agli Stati Uniti sono chiare. Una soprattutto è imprescindibile: nessun governatore militare a Bagdad, ma un governo liberamente eletto dal popolo iracheno. La Casa Bianca giudica inaccettabile questa condizione. Ecco la prima ragione del perché non abbiamo sin qui mosso un dito e non lo muoveremo, per il momento.Ma ce ne sono altre, di ragioni. In realtà, gli sciiti non vedono chiaro nella strategia degli americani. Si chiedono quale sia la natura dell'interesse di Washington nei loro confronti. Si sono risposti che "è un interesse strumentale: hanno bisogno di noi solo per accorciare i tempi e i costi in vite umane della campagna militare". E poi: "Qual è il loro obiettivo finale? Liberare il popolo iracheno da una dittatura o, come alcuni tra di noi credono, vogliono mettere un piede sulle nostre terre per poi spingere la loro influenza a est?". CONTINUA Salah Mosava appare molto preoccupato per la piega che sta prendendo la campagna militare. "Bagdad può anche cadere. E cadrà, probabilmente. Ma tra due settimane, quando qui il caldo sarà feroce, con 50 gradi all'ombra, gli americani saranno a Bagdad e tutte le città irachene saranno sotto il controllo di una Guardia Repubblicana capace di aggredire alle spalle le unità americane. Con uno stillicidio di morti. Ogni giorno, ogni settimana. Il loro governatore non governerà un bel niente. Se questo dovesse accadere, chi avrebbe vinto la guerra? Saddam o Bush? E noi sciiti non avremmo fatto la cosa giusta a non imbracciare le armi? Almeno per ora?". (25 marzo 2003) Allarme di Kofi Annan per Bassora, dove manca l'acqua I problemi non sono alle frontiere, ma nelle città Assediati da sete, fame e malattie l'incubo del disastro umanitario Per le Nazioni Unite è urgente riprendere il programma "petrolio in cambio di cibo" di FRANCESCA CAFERRI TUTTI si aspettavano che l'emergenza si concentrasse ai confini: così non è stato. Le tende per accogliere i due milioni di profughi in fuga dall'Iraq in guerra che le agenzie delle Nazioni Unite attendevano nei paesi confinanti sono rimaste vuote. E l'emergenza umanitaria è scoppiata lì dove è più difficile rispondere: dentro i confini dell'Iraq. CONTINUA L'allarme ieri è stato lanciato dal segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan, che ha puntato l'indice su una delle zone dove i combattimenti sono stati più aspri, la città di Bassora. "La gente di Bassora rischia il disastro umanitario", ha detto Annan, spiegando che secondo la Croce rossa quattro giorni di combattimenti hanno provocato una mancanza di acqua potabile e di elettricità che mette a rischio più di un milione di persone nella città e nei dintorni. "Elettricità e acqua devono essere ripristinate al più presto", ha spiegato il segretario Onu, auspicando anche la rapida ripresa in tutto il paese del programma Oil for food, che negli ultimi anni ha sfamato 16 dei 25 milioni di iracheni. CONTINUA Al suo appello si è aggiunto poco dopo quello dell'Unicef: l'agenzia Onu per i bambini ha diffuso un comunicato in cui spiega che a Bassora 100mila bambini sotto i cinque anni sono a rischio per la mancanza di acqua, che può provocare lo scoppio di epidemie di colera, febbre tifoide o diarrea. Per loro, come per gli altri abitanti dell'area, poco finora è stato possibile fare: il personale locale della Croce rossa è riuscito a ristabilire l'acqua per circa il 40 per cento degli abitanti. "Ma non è abbastanza - ha detto da Ginevra Nord Balthasar Staehelin, delegato della Croce rossa per la zona - la situazione è critica". E tale è destinata a rimanere almeno per i prossimi due giorni: pressato dall'Onu e dal presidente russo Putin che ieri lo ha chiamato per sottolineare i rischi umanitari del conflitto, ieri Bush ha promesso che i primi aiuti raggiungeranno il sud dell'Iraq entro 36 ore. CONTINUA Agli esperti la previsione sembra troppo ottimistica. Cibo, medicinali e acqua devono infatti passare per il porto di Umm Qsar, che non è ancora sotto il totale controllo degli anglo-americani. Solo quando speciali mezzi avranno sminato le acque le navi con gli aiuti potranno passare. "E' impossibile dare dei tempi per l'inizio delle operazioni in Iraq - ha detto il portavoce del Programma alimentare mondiale Trevor Rowe - la situazione nel paese è ancora troppo fluida". Ma per i civili i tempi sono stretti: da quando, nel 1990, le Nazioni Unite hanno imposto a Bagdad un embargo che impedisce al regime di vendere liberamente petrolio, la qualità della vita della popolazione è drasticamente calata. In sei anni, l'assenza di cibo e di medicine hanno fatto fra la gente migliaia di morti, tanto da indurre nel '96 il Palazzo di Vetro a varare il programma Oil for food, cibo in cambio di petrolio. CONTINUA Il piano ha permesso all'Iraq di vendere all'estero una limitata quantità di greggio e di importare in cambio cibo e prodotti civili: dal cibo arrivato da Oil for food negli ultimi anni è dipesa la vita del 60 per cento dei 26 milioni di abitanti dell'Iraq. Il programma è stato sospeso il 17 marzo, quando il personale delle Nazioni Unite ha lasciato l'Iraq: il Pam stima che la popolazione abbia accumulato scorte alimentari sufficienti per un mese. Dalla fine di aprile, avvertono i funzionari Onu, per la maggior parte della popolazione irachena scatterà l'emergenza cibo. Più grave la situazione dei bambini: 1,3 milioni, avverte l'Unicef, soffrono già di malnutrizione. Se non sarà possibile distribuire presto le scorte che l'agenzia ha accumulato nei suoi uffici di Bagdad e nelle postazioni ai confini dell'Iraq il loro destino sarà segnato. CONTINUA A complicare la situazione c'è la mancanza di fondi. In un rapporto preparato prima dell'inizio dei combattimenti, l'Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari dell'Onu aveva stimato in 5,4 milioni il numero delle persone che avrebbero avuto bisogno di aiuti immediati in caso di guerra. Per questo aveva chiesto ai paesi donatori di stanziare 120 milioni di dollari: qualche giorno fa dall'ufficio Onu di Amman, che coordina l'emergenza Iraq, è arrivato l'allarme: nelle casse sono arrivati solo 50 milioni di dollari, meno della metà della cifra richiesta. Questo si traduce in mancanza di tende, razioni di cibo e medicinali. CONTINUA Dopo l'appello dell'Onu, molti governi hanno deciso di stanziare fondi di emergenza: la Germania ha promesso 10 milioni di euro, la Gran Bretagna - coinvolta direttamente nei combattimenti - ha stanziato ieri 48 milioni di euro, l'Unione europea ha sbloccato i primi 21 dei cento milioni di dollari che ha in programma di spendere per l'emergenza Iraq, gli Stati Uniti hanno fatto sapere di avere già pronta la prima tranche di aiuti, pari a 20 milioni di dollari. Ma finora tutto è rimasto sulla carta, e non è chiaro quando si muoverà davvero: la particolarità di questa emergenza dal punto di vista umanitario infatti, è legata alla natura stessa della guerra. CONTINUA Nato senza l'avallo delle Nazioni unite e con la forte opposizione di una buona fetta della comunità internazionale, lo scenario del conflitto e i suoi risvolti futuri sono guardati con sospetto da più parti: molte ong hanno rifiutato gli aiuti dei governi coinvolti nel conflitto o di quelli che hanno preso le parti della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, altre temono di venire strumentalizzate. Non è chiaro infatti quanto e come l'ombrello delle Nazioni Unite, che finora ha gestito tutte le grandi emergenze degli ultimi anni, potrà agire in Iraq: né è chiaro il ruolo dell'Ufficio per la ricostruzione e gli aiuti umanitari americano, che dipende direttamente dal Pentagono. E chi si è opposto con forza alla guerra ha già fatto sapere di non volere rischiare di essere strumento di una colonizzazione americana dell'Iraq post-Saddam. (25 marzo 2003) Saddam , per gli arabi un Davide contro Golia di Siegmund Ginzberg 02.04.2003 Bel capolavoro. In pochi giorni sembrano essere riusciti a trasformare il mostro di Baghdad, il macellaio del suo popolo Saddam Hussein, nell'eroe dell'Arabia. Un tiranno che sembrava ormai destinato alla pattumiera della storia, fallito nel suo delirio di potenza e conquiste militari, isolato nel mondo islamico, non più temuto come un tempo nemmeno dai vicini, ignorato e disprezzato, ritenuto da molti come uno dei responsabili della sconfitta e della frustrazione araba, torna ad essere un punto di riferimento, torna ad essere un simbolo dell'onore arabo. CONTINUA La guerra americana gli ha ridato il ruolo che forse aveva sempre desiderato, e che altrimenti forse non gli sarebbe stato possibile perseguire nemmeno nei suoi sogni. Uno che ha massacrato più iracheni di chiunque altro, rischia di diventare un simbolo dell'orgoglio nazionale di un paese “inventato” appena 80 anni fa. Peggio: uno che ha ammazzato più musulmani di chiunque altro, a cominciare dagli ulema di casa sua quando faceva il “laico”, rischia di ergersi al ruolo di leader spirituale delle frustrazioni dell'intero mondo islamico, di improbabile leader delle future guerre sante dell'islam fondamentalista contro l'Occidente infedele che avrebbe voluto umiliarlo. Il prepotente che aveva fatto milioni di morti aggredendo l'Iran e il piccolo Kuwait, viene ora visto da molti come un Davide che riesce a tenere a bada il gigante Golia. E c'è chi nota che la cosa peggiore è che a questo punto la fama gli resterebbe appiccicata anche se, come è assai probabile, sarà Golia a prevalere. Il guaio è che sono già riusciti, comunque vada a finire, a dargli un'aura di paladino dell'orgoglio arabo che forse nemmeno Osama bin Laden poteva sognare. CONTINUA “Così finiranno col creare 100, 1000 Osama bin Laden”, è sbottato al Cairo Hosni Mubarak, che pure passa per uno dei leader più “moderati” e “realisti”. Era stato tra i primi a rassegnarsi ad una guerra che “gli americani, se vogliono possono fare e vincere da soli”. Aveva già pensato realisticamente al dopo, fissando un appuntamento col premier israeliano Ariel Sharon. Ma forse nemmeno lui si aspettava che le cose cominciassero così male. Il suo Egitto non è un modello di democrazia. Al dissenso sanno pensare coi metodi duri del Mukabarat. La sua scommessa è una transizione indolore del potere al figlio Gamal Mubarak, che viene considerato un riformatore attento anche a prospettare rudimenti di democrazia politica. Qualcuno l'aveva definito un potenziale “Gorbaciov sul Nilo”. Ma il timore è ora che la sua “Perestrojka” araba possa fallire prima ancora di cominciare. CONTINUA In Giordania l'erede di Hussein, Abdallah, non si era schierato contro la guerra come aveva fatto suo padre nel 1991, si dice avesse fatto un pensierino sulla possibilità che sul trono dell'Iraq possa tornare un membro della sua famiglia hashemita (come lo era Feisal deposto nel 1958), magari suo zio Hassan. Ora si ritrova coi beduini che premono per andare volontari a combattere a fianco dei fratelli iracheni, anziché acquisire un secondo torno a Baghdad, potrebbe faticare a tenere il suo ad Amman. La Siria era tra i paesi arabi i cui servizi segreti avevano avviato una stretta collaborazione con la Cia dopo l'11 settembre. Assad padre, cugino in astuzia, spietatezza e tirannia di Saddam, nonché con comuni radici ideologiche nel nazionalismo totalitario del Partito Baath, era stato a lungo in rotta con Baghdad, aveva parteggiato con Teheran nella guerra Iran-Iraq, aveva inviato proprie truppe a fianco di quelle americane e saudite nella Prima guerra del Golfo. CONTINUA Ma il figlio Bashar, che si sperava potesse ammorbidire il regime nei confronti di Washington e di Israele, apre le frontiere ai “volontari” che premono per andare a combattere contro gli “invasori”, è da ieri divenuto il primo governante arabo ad auspicare e predire pubblicamente, in un'intervista al quotidiano libanese as-Safir, la “sconfitta” della “flagrante aggressione” americana. Qualche giorno prima, in un'altra intervista aveva espresso il timore che Washington, dopo l'Iraq, potesse prendersela con la Siria. Ancor più forte è probabilmente il timore, che se non lo fanno gli americani, a farlo a pezzi, con la minoranza alawita che accentra il potere, siano i fondamentalisti siriani. In Arabia saudita non sanno più come incrociare le dita per evitare che la guerra non finisca per minare la loro fatiscente monarchia petrolifera feudale. In Libia, Muammar Gheddafi stava faticosamente cercando di rifarsi una reputazione che gli consentisse di avviare un dialogo (e rapporti economici) con l'Occidente. Ora cercano l'applauso del mondo arabo esaltando l'“eroica resistenza” irachena. CONTINUA I leader palestinesi stavolta non avevano ripetuto l'errore di Yasser Arafat nel 1991, di schierarsi dalla parte di Saddam Hussein, ma in Cisgiordania a molti dei nuovi nati in questi giorni viene imposto il nome Saddam, o persino quello Uday. I terroristi suicidi hanno un nuovo mito a cui rifarsi. Nei campi profughi l'opinione più diffusa in questo momento è che siano gli iracheni i soli mostratisi capaci di reagire all'“umiliazione” degli arabi. Al nuovo premier Abu Mazen potrebbe essere più difficile fargli cambiare idea di quanto lo fu per Arafat, quando ordinò di disperdere sparando i giovani che inneggiavano agli attentati di Al Qaeda. Non va molto meglio anche nel resto del mondo islamico, quello non arabo, e su cui a rigore Saddam non avrebbe dovuto essere in grado di esercitare alcuna influenza. Le sole due democrazie, in un panorama desolante in Medio Oriente, Turchia e Iran, sono entrate ciascuno per conto suo in fibrillazione per il modo in cui gli Usa sono riusciti a gestire la scelta di fare la guerra. Ankara, che avrebbe potuto essere il più logico (e ora viene fuori anche strategicamente indispensabile) alleato rischia di mandare i suoi soldati in Kurdistan a scontrarsi coi marines. CONTINUA A Teheran i riformatori rischiano di essere travolti dalla minaccia che l'Iran sia il prossimo in lista da “salvare”. In Indonesia, il più popoloso paese islamico al mondo, gli effetti sono ancora tutti da vedere. Il Pakistan è perennemente sul bilico di un golpe, e, Dio non voglia di una guerra atomica con l'India, cioè tra il secondo e terzo paese islamici al mondo per popolazione. Era indispensabile, necessario che si arrivasse a questo? La stragrande maggioranza degli esperti del mondo islamico continua a sostenere di no. Gilles Kepel, che ha scritto un nuovo libro per spiegare come, malgrado Osama, il mondo islamico fosse invece decisamente avviato alla moderazione anziché alla resurgenza di fanatismo, denuncia l'improvvida apertura di un micidiale “vaso di Pandora”. Lo storico e demografo Emmanuel Todd nel suo recente Aprés l'Empire si era sforzato di dimostrare come tutte le tendenze demografiche e culturali spingessero il mondo islamico, da almeno un decennio a questa parte, verso la moderazione. CONTINUA I giornali americani hanno recentemente rivelato come persino gli studi del Dipartimento di Stato smentissero clamorosamente, come “non credibili” le “teorie del domino” con cui George W. Bush aveva promesso prospettive di cambiamento verso maggiore democrazia, stabilità e sviluppo nel mondo arabo del dopo guerra in Iraq. I domino rischiano di cadere. Ma nel senso sbagliato. Il dopo-Saddam americano non piace a Londra di Alfio Bernabei 02.04.2003 LONDRA. “Al più presto possibile l’Iraq non dovrebbe essere governato né dalla “coalizione”, né dalle Nazioni Unite. Dovrebbe essere governato dagli iracheni”. Lo ha detto il primo ministro Tony Blair durante il Question Time sul dopo Saddam in parlamento dove ci sono state varie interpellanze sul problema concernente la ricostruzione dell’Iraq. C’erano molti deputati piuttosto nervosi dopo aver sentito la notizia che gli americani un piano di ricostruzione governativa ce l’hanno già: 23 ministeri tutti diretti dagli americani, con degli iracheni di loro gradimento in funzione di consiglieri. CONTINUA Quando il leader del partito liberaldemocratico Charles Kennedy, poco convinto dalla dichiarazione di Blair, imprecisa nei tempi e fortemente limitata dall’evidente uso del condizionale, gli ha chiesto: “Ma insomma, nell’Iraq del dopoguerra ci sarà una leadership sotto le Nazioni Unite o una leadership sotto gli americani?” il premier ha risposto: “Il principio base di qualsiasi accordo sulla transizione e di un’autorità interim irachena deve essere appoggiato dalle Nazioni Unite”. Nessun chiarimento dunque sul significato di quell’ “al più presto possibile” che potrebbe significare settimane mesi o anni (preceduto da cosa?) e nessuna certezza su cosa Blair intenda dire per “appoggiato dalle Nazioni Unite” che, anche volendolo tradurre con “approvato”, non vuole necessariamente dire congegnato, diretto o coordinato dalle stesse. In contrasto con le parole enigmatiche di Blair i deputati a Westminster avevano anche sentito circolare la notizia che il piano americano non solo è pronto, ma è in via di attuazione in un albergo di Kuwait City dove il futuro “governatore”, generale Jay Garner starebbe già tenendo sedute ministeriali del nuovo Iraq. Fatto compiuto? CONTINUA Per offrire qualche chiarimento sulla nebulosa posizione britannica, resa più delicata dalle multiple oscillazioni di Blair, poi conclusesi con l’appoggio incondizionato agli Stati Uniti e l’entrata in guerra senza l’Onu, ieri sera il ministro degli Esteri Jack Straw si è incontrato con il tedesco Joschka Fischer. Straw ha detto “Domani (oggi, ndr) avrò incontri anche con Igor Ivanov e Dominique de Villepin. Infatti Dominique ed io ci siamo parlati due o tre volte al telefono nel corso dell’ultima settimana”. Precisazione, quest’ultima, che mette in evidenza l’ansia londinese di non apparire isolata. La cosa peggiore che potrebbe capitare a Blair è quella di trovarsi ora davanti ad un possibile disaccordo pubblico con gli americani sulla ricostruzione dell’Iraq quando si è già trovato in disaccordo con Francia, Russia e Germania sulla questione della guerra che questi paesi gli sconsigliavano di fare senza un mandato delle Nazioni Unite. Riferendosi alle notizie sul piano americano dei 23 ministri Straw ha detto: “C’è un mucchio di speculazione. La sistemazione del dopoguerra dovrebbe essere appoggiata dalle Nazioni Unite. CONTINUA Stiamo cercando di ottenere un’autorità interim irachena che porti ad un governo rappresentativo formato da iracheni. Potrebbero esserci consiglieri provenienti da altri paesi. Ma non ci saranno persone di nazionalità straniera nel futuro governo iracheno. Questo non è l’obiettivo di questa guerra”. Quanto alle dichiarazioni venute dall’America che alludono ad un allargamento dell’operazione nei riguardi di Iran e Siria Straw ha detto: “Se la cosa fosse vera mi preoccuperebbe. Noi non vorremmo avere niente a che fare con un approccio del genere. L’Iran è una democrazia emergente e non c’è nessun caso che regga per qualsiasi tipo di azione militare. Ho recentemente parlato con Teheran. Quanto alla Siria, deve essere accertato se non venga usata per l’invio di materiale militare all’Iraq”. Straw è tornato inoltre a sottolineare l’importanza di trovare una soluzione al conflitto tra Israele e la Palestina. Parte della credibilità politica di Blair dipende dal successo che avrà il cosiddetto “piano stradale della pace”, che dovrebbe cominciare a dar frutti nel 2005. CONTINUA Blair aveva promesso che il piano sarebbe stato pubblicato dopo la scelta del primo ministro palestinese. Adesso il premier c’è ma il piano rimane nel cassetto. Gli americani non hanno fretta e a Blair non resta che aspettare.