TEMPESTA SUI MARINES
Visibiltà ridotta. Aerei ed elicotteri costretti a terra
Il comando inglese: "Ci posizioneremo fuori dalla città"
Tempesta di sabbia sui marines
in marcia verso Bagdad
Continuano intanto i raid aerei sulla capitale
Obiettivo: le postazione della Guardia repubblicana
BAGDAD - La tempesta di sabbia che dal primo mattino
sta spazzando il deserto non ferma la marcia delle truppe
americane verso Bagdad. La rallenta soltanto.
CONINUA
Una fonte della difesa di Londra ha anticipato che entro
oggi le prime forze britanniche prenderanno posizione
intorno alla capitale irachena, per poi attendere i rinforzi.
Bagdad è stata nuovamente bombardata questa mattina.
Obiettivo gli uomini della Guardia Repubblicana che
avrebbero circondato Bagdad e minaccerebbero di usare
armi chimiche se le forze nemiche oltrepassassero una
ideale "linea rossa". Indiscrezioni riportate dalle tv Cnn,
Nbc e Cbs, che il Pentagono non ha confermato. La
resistenza si annuncia dunque tenace. E mentre la
coalizione si prepara a circondare la città e a conquistare
il cuore del potere di Saddam, il New York Times si
domanda quanto costerà la presa di Bagdad in termini di
vite umane. Il prezzo si annuncia alto. Ma le operazioni
vanno avanti, nonostante la tempesta di sabbia.
CONTINUA
Tempesta annunciata dai meteorologi che ha ridotto la
visibilità a meno di un chilometro e sta ostacolando le
operazioni. I venti raggiungono una velocità compresa tra
i 64 e i 92 chilometri orari. Gli elicotteri d'attacco Apache
e Black Hawk sono stati bloccati a terra.
"E' impossibile volare con le attuali condizioni
atmosferiche", ha dichiarato il luogotenente Patrick Gioa
nell'annunciare l'interruzione delle operazioni aeree della
101/ma divisione. E le previsioni dei meteorologi
dell'esercito non sono buone: la situazione rimarrà stabile
fino a mercoledì mattina quando il cielo tornerà chiaro e
la visibilità limpida.
CONTINUA
A Bagdad intanto le sirene dell'antiaerea continua a
suonare a intervalli. Poco dopo mezzogiorno c'è stato un
nuovo attacco aereo alla periferia della città. Una città
surreale, avvolta da un cielo rosso per la sabbia che
arriva dal deserto. La città è ora avvolta da una pesante
cappa di polvere sottile che penetra ovunque. Poche le
automobili che si avventurano nelle strade, scarso il
traffico pedonale, pochi i negozi ancora aperti.
(25 marzo 2003)
Il "tradimento"
degli sciiti
dagli inviati di Repubblica CARLO BONINI e
GIUSEPPE D'AVANZO
Il Pentagono contava sul loro aiuto per attaccare Bassora
I soldati Usa accusano: "Ci lasciano soli"
KHUZISTAN, IRAN - E' il quinto giorno di guerra e la
Guardia repubblicana di Saddam è in grado di aggredire
ancora nel sud Iraq le truppe anglo-americane. Il
bollettino delle operazioni, così come riferito da più fonti,
registra attacchi a installazioni strategiche nella penisola
di Al Faw. E ancora: scontri lungo l'autostrada 80 con
l'artiglieria e gli elicotteri in azione; le difficoltà dei "Topi
del Deserto" a tenere l'assedio di Bassora; i furiosi
combattimenti di Samawa sull'Eufrate, a metà strada tra
Najaf e Nassiriya. CONTINUA
Queste scarne informazioni, che è stato possibile
verificare, ripropongono una questione di cui non si riesce
a venire a capo da due giorni: il sud dell'Iraq è nelle mani
delle truppe inglesi e americane, ma fino a che punto?
Per dirla in altro modo: quanta parte di territorio è
controllata, oggi, dalla coalizione? E come? Il fastidio
degli americani per quel che sta accadendo è esplicito.
Un alto funzionario del Dipartimento di Stato, al lavoro in
una città del Medio Oriente, cede all'irritazione e si sfoga:
"Dove diavolo sono gli Sciiti?". "La verità - prosegue - è
che ci hanno traditi...". Spiega meglio un'altra fonte
vicina al Pentagono: "I nostri piani militari erano stati
ritagliati intorno alle più consistenti enclave sciite di sud e
sud-ovest, nella speranza, o certezza, che fossero gli
Sciiti a liberarsi della Guardia Repubblicana".
CONTINUA
Così una delle chiavi per comprendere che cosa accade in
queste ore nelle città del sud iracheno impone di porsi
qualche domanda sul comportamento degli Sciiti. Che è
poi il comportamento della popolazione civile perché gli
Sciiti sono il 67 per cento del popolo iracheno e la quasi
totalità degli abitanti delle città del sud "liberate" e, a
occidente, dei luoghi sacri Najaf e Karbala.
Saddam odia gli Sciiti e gli Sciiti odiano Saddam. Dopo la
rivolta del 1991, nell'indifferenza degli Stati Uniti, i
seguaci di Ali (il primo imam sciita) furono schiacciati da
una crudele repressione che lasciò sul campo quasi mezzo
milione di morti. Con questa premessa, che gli americani
si aspettassero la rivolta delle città del sud dopo la
distruzione degli obiettivi militari e strategici, appariva
coerente. In fondo, niente di più di quanto accaduto in
Afghanistan lo scorso anno: gli Sciiti come l'Alleanza del
nord. Ma questo non è avvenuto. CONTINUA
Non è avvenuto a Bassora, nel cui centro ancora nessun
soldato inglese o americano ha messo piede. Non è
avvenuto a An Nassiriyah, dove si è combattuta la più
violenta della battaglie campali di questi primi giorni di
guerra. Non è avvenuto a Suq-al-Shuyakh, dove si è
consumata l'imboscata a un convoglio americano di
rifornimenti. E' avvenuto soltanto ad Al Faw, dove le
truppe inglesi, con metodi degni di Belfast, hanno ripulito
le polverose strade casa per casa. Ecco allora una delle
questioni della prima settimana di guerra: dove sono finiti
gli Sciiti?
Per trovare una risposta, bisogna cercare nei sei campi
che, in Iran, a Dezful, Andimeshk, Shushtar, Gatvand,
ospitano 60mila profughi, i miliziani delle Brigate Sadr e i
leader politici del "Consiglio Supremo della Rivoluzione in
Iraq" dell'ayatollah Muhammad Baqir Al Hakim.
CONTINUA
In questi campi, grazie ai "passatori" che vanno su e giù
lungo la frontiera a Al Faw, Khorramshahr, Shalamcheh,
Arvand Kenar, si raccolgono informazioni di quel che sta
accadendo nelle città "liberate". Il racconto che se ne può
fare è questo.
Nei primi giorni di marzo, il comandante supremo
dell'esercito iracheno per l'area sud-occidentale, Ali
Hassan Al-Majeed, ha ripulito i vertici dell'Armata del sud
dagli ufficiali incerti.
Sette generali che avevano espresso perplessità sulla
nuova devastante guerra sono stati uccisi. I metodi di Ali
"il chimico", così lo chiamano, non sono stati risparmiati
alla popolazione civile. Per raccontare soltanto un
episodio: la tribù nomade sciita Al-Bazuni voleva starsene
fuori dalla guerra. Il loro capo chiese di incontrare Ali
nella città di Amara (Misan, per gli iracheni).
CONTINUA
Il generale ascoltò in silenzio il capo tribù e per tutta
risposta, subito dopo, gli uccise il figlio Arahim
Abdalkarim. E' in questo clima di terrore che è iniziata la
guerra.
Molti sciiti pensavano che con i primi bombardamenti
avrebbero potuto lasciare le città. Saddam glielo ha
lasciato pensare. Ma, ventiquattro ore prima dell'inizio
delle ostilità (mercoledì 19 marzo), ha imposto il
coprifuoco e da allora ogni momento deve essere
autorizzato per iscritto dalla Guardia Repubblicana. Le
città, a quanto dicono gli sciiti in Khuzistan, possono
reggere a questo assedio per molto tempo. In questa
situazione, mimetizzata tra la popolazione civile,
combatte oggi la Guardia Repubblicana che si è liberata
dalle divise, che ha nascosto all'esterno delle città gli
armamenti pesanti e, in abiti civili, a bordo di pick-up
armati di mitragliatori pesanti, lancia, qui e lì, delle
imboscate. CONTINUA
Un fatto, in questo momento, è confermato da tutte le
fonti: Bassora, An Nassiriyah, Najaf e Karbala sono
controllate dalla Guardia fedele a Bagdad.
Il "terrore" che schiaccia gli sciiti non è la sola ragione
e probabilmente non la più importante del loro
immobilismo. O, per dirla con gli americani, del loro
"tradimento". Quando vogliono, gli sciiti sembrano
saper tenere testa alla Guardia Repubblicana e
raccontano che due giorni fa (sabato, 22) a Najaf, al
termine di una manifestazione ("Nè con Bush né con
Saddam, soltanto con il profeta Ali") ne hanno ucciso il
comandante, Najef Sheidagh Nazem. Sembra di poter
dire che, nell'atteggiamento sciita, più del terrore,
conta la diffidenza verso gli Stati Uniti.
Nei campi profughi del sud dell'Iran, come nelle città in
Iraq, non c'è famiglia che non abbia patito morti nella
repressione del 1991.
CONTINUA
Quando gli americani se ne rimasero a guardare i missili
di Saddam che, nella no-fly zone, spegnevano nel sangue
la ribellione. una diffidenza che i numerosi colloqui segreti
che hanno preceduto la guerra non hanno scalfito.
Salah Mosavi è il leader politico degli Sciiti nell'intero
Khuzistan iraniano. un uomo dall'aspetto mite, dalla voce
calma e i modi rassicuranti.
Ricorda senza ira, con fredda malinconia, le discussioni
con gli emissari della Casa Bianca che hanno preceduto la
guerra. L'ultimo, ad Arbil, Kurdistan iracheno. Racconta:
"L'inviato di Bush, Zalmay Khalilzad, ci spiegò che siamo
un popolo troppo giovane per prenderci la responsabilità
di governare l'Iraq liberato. Per noi, non può esistere un
insulto peggiore. Viviamo in queste terre da millenni e
siamo un popolo antico. Più antico degli americani che
vengono a spiegarcelo. Siamo così "antichi" e radicati
nella nostra terra che siamo gli unici a poter distinguere
una guardia repubblicana in abiti civili da un civile.
Capacità che oggi farebbe molto comodo a inglesi e
americani. Ma non ne hanno voluto sapere. Le condizioni
che abbiamo proposto agli Stati Uniti sono chiare. Una
soprattutto è imprescindibile: nessun governatore militare
a Bagdad, ma un governo liberamente eletto dal popolo
iracheno. La Casa Bianca giudica inaccettabile questa
condizione. Ecco la prima ragione del perché non abbiamo
sin qui mosso un dito e non lo muoveremo, per il
momento.Ma ce ne sono altre, di ragioni. In realtà, gli
sciiti non vedono chiaro nella strategia degli americani. Si
chiedono quale sia la natura dell'interesse di Washington
nei loro confronti. Si sono risposti che "è un interesse
strumentale: hanno bisogno di noi solo per accorciare i
tempi e i costi in vite umane della campagna militare". E
poi: "Qual è il loro obiettivo finale? Liberare il popolo
iracheno da una dittatura o, come alcuni tra di noi
credono, vogliono mettere un piede sulle nostre terre per
poi spingere la loro influenza a est?". CONTINUA
Salah Mosava appare molto preoccupato per la piega che
sta prendendo la campagna militare. "Bagdad può anche
cadere. E cadrà, probabilmente. Ma tra due settimane,
quando qui il caldo sarà feroce, con 50 gradi all'ombra, gli
americani saranno a Bagdad e tutte le città irachene
saranno sotto il controllo di una Guardia Repubblicana
capace di aggredire alle spalle le unità americane. Con
uno stillicidio di morti. Ogni giorno, ogni settimana. Il loro
governatore non governerà un bel niente. Se questo
dovesse accadere, chi avrebbe vinto la guerra? Saddam o
Bush? E noi sciiti non avremmo fatto la cosa giusta a non
imbracciare le armi? Almeno per ora?".
(25 marzo 2003)
Allarme di Kofi Annan per Bassora, dove manca
l'acqua
I problemi non sono alle frontiere, ma nelle città
Assediati da sete, fame e malattie
l'incubo del disastro umanitario
Per le Nazioni Unite è urgente riprendere
il programma "petrolio in cambio di cibo"
di FRANCESCA CAFERRI
TUTTI si aspettavano che l'emergenza si concentrasse ai
confini: così non è stato. Le tende per accogliere i due
milioni di profughi in fuga dall'Iraq in guerra che le
agenzie delle Nazioni Unite attendevano nei paesi
confinanti sono rimaste vuote. E l'emergenza umanitaria
è scoppiata lì dove è più difficile rispondere: dentro i
confini dell'Iraq.
CONTINUA
L'allarme ieri è stato lanciato dal segretario delle Nazioni
Unite, Kofi Annan, che ha puntato l'indice su una delle
zone dove i combattimenti sono stati più aspri, la città di
Bassora. "La gente di Bassora rischia il disastro
umanitario", ha detto Annan, spiegando che secondo la
Croce rossa quattro giorni di combattimenti hanno
provocato una mancanza di acqua potabile e di elettricità
che mette a rischio più di un milione di persone nella città
e nei dintorni. "Elettricità e acqua devono essere
ripristinate al più presto", ha spiegato il segretario Onu,
auspicando anche la rapida ripresa in tutto il paese del
programma Oil for food, che negli ultimi anni ha sfamato
16 dei 25 milioni di iracheni.
CONTINUA
Al suo appello si è aggiunto poco dopo quello dell'Unicef:
l'agenzia Onu per i bambini ha diffuso un comunicato in
cui spiega che a Bassora 100mila bambini sotto i cinque
anni sono a rischio per la mancanza di acqua, che può
provocare lo scoppio di epidemie di colera, febbre tifoide
o diarrea. Per loro, come per gli altri abitanti dell'area,
poco finora è stato possibile fare: il personale locale della
Croce rossa è riuscito a ristabilire l'acqua per circa il 40
per cento degli abitanti. "Ma non è abbastanza - ha detto
da Ginevra Nord Balthasar Staehelin, delegato della Croce
rossa per la zona - la situazione è critica".
E tale è destinata a rimanere almeno per i prossimi due
giorni: pressato dall'Onu e dal presidente russo Putin che
ieri lo ha chiamato per sottolineare i rischi umanitari del
conflitto, ieri Bush ha promesso che i primi aiuti
raggiungeranno il sud dell'Iraq entro 36 ore.
CONTINUA
Agli esperti la previsione sembra troppo ottimistica. Cibo,
medicinali e acqua devono infatti passare per il porto di
Umm Qsar, che non è ancora sotto il totale controllo degli
anglo-americani. Solo quando speciali mezzi avranno
sminato le acque le navi con gli aiuti potranno passare.
"E' impossibile dare dei tempi per l'inizio delle operazioni
in Iraq - ha detto il portavoce del Programma alimentare
mondiale Trevor Rowe - la situazione nel paese è ancora
troppo fluida".
Ma per i civili i tempi sono stretti: da quando, nel 1990, le
Nazioni Unite hanno imposto a Bagdad un embargo che
impedisce al regime di vendere liberamente petrolio, la
qualità della vita della popolazione è drasticamente
calata. In sei anni, l'assenza di cibo e di medicine hanno
fatto fra la gente migliaia di morti, tanto da indurre nel
'96 il Palazzo di Vetro a varare il programma Oil for food,
cibo in cambio di petrolio.
CONTINUA
Il piano ha permesso all'Iraq di vendere all'estero una
limitata quantità di greggio e di importare in cambio cibo
e prodotti civili: dal cibo arrivato da Oil for food negli
ultimi anni è dipesa la vita del 60 per cento dei 26 milioni
di abitanti dell'Iraq.
Il programma è stato sospeso il 17 marzo, quando il
personale delle Nazioni Unite ha lasciato l'Iraq: il Pam
stima che la popolazione abbia accumulato scorte
alimentari sufficienti per un mese. Dalla fine di aprile,
avvertono i funzionari Onu, per la maggior parte della
popolazione irachena scatterà l'emergenza cibo. Più grave
la situazione dei bambini: 1,3 milioni, avverte l'Unicef,
soffrono già di malnutrizione. Se non sarà possibile
distribuire presto le scorte che l'agenzia ha accumulato
nei suoi uffici di Bagdad e nelle postazioni ai confini
dell'Iraq il loro destino sarà segnato.
CONTINUA
A complicare la situazione c'è la mancanza di fondi. In un
rapporto preparato prima dell'inizio dei combattimenti,
l'Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari
dell'Onu aveva stimato in 5,4 milioni il numero delle
persone che avrebbero avuto bisogno di aiuti immediati in
caso di guerra. Per questo aveva chiesto ai paesi donatori
di stanziare 120 milioni di dollari: qualche giorno fa
dall'ufficio Onu di Amman, che coordina l'emergenza Iraq,
è arrivato l'allarme: nelle casse sono arrivati solo 50
milioni di dollari, meno della metà della cifra richiesta.
Questo si traduce in mancanza di tende, razioni di cibo e
medicinali.
CONTINUA
Dopo l'appello dell'Onu, molti governi hanno deciso di
stanziare fondi di emergenza: la Germania ha promesso
10 milioni di euro, la Gran Bretagna - coinvolta
direttamente nei combattimenti - ha stanziato ieri 48
milioni di euro, l'Unione europea ha sbloccato i primi 21
dei cento milioni di dollari che ha in programma di
spendere per l'emergenza Iraq, gli Stati Uniti hanno fatto
sapere di avere già pronta la prima tranche di aiuti, pari a
20 milioni di dollari. Ma finora tutto è rimasto sulla carta,
e non è chiaro quando si muoverà davvero: la
particolarità di questa emergenza dal punto di vista
umanitario infatti, è legata alla natura stessa della
guerra.
CONTINUA
Nato senza l'avallo delle Nazioni unite e con la forte
opposizione di una buona fetta della comunità
internazionale, lo scenario del conflitto e i suoi risvolti
futuri sono guardati con sospetto da più parti: molte ong
hanno rifiutato gli aiuti dei governi coinvolti nel conflitto o
di quelli che hanno preso le parti della Gran Bretagna e
degli Stati Uniti, altre temono di venire strumentalizzate.
Non è chiaro infatti quanto e come l'ombrello delle
Nazioni Unite, che finora ha gestito tutte le grandi
emergenze degli ultimi anni, potrà agire in Iraq: né è
chiaro il ruolo dell'Ufficio per la ricostruzione e gli aiuti
umanitari americano, che dipende direttamente dal
Pentagono. E chi si è opposto con forza alla guerra ha già
fatto sapere di non volere rischiare di essere strumento di
una colonizzazione americana dell'Iraq post-Saddam.
(25 marzo 2003)
Saddam , per gli arabi un Davide
contro Golia
di Siegmund Ginzberg
02.04.2003
Bel capolavoro. In pochi giorni sembrano essere riusciti a trasformare il
mostro di Baghdad, il macellaio del suo popolo Saddam Hussein,
nell'eroe dell'Arabia. Un tiranno che sembrava ormai destinato alla
pattumiera della storia, fallito nel suo delirio di potenza e conquiste
militari, isolato nel mondo islamico, non più temuto come un tempo
nemmeno dai vicini, ignorato e disprezzato, ritenuto da molti come uno
dei responsabili della sconfitta e della frustrazione araba, torna ad essere
un punto di riferimento, torna ad essere un simbolo dell'onore arabo.
CONTINUA
La guerra americana gli ha ridato il ruolo che forse aveva sempre
desiderato, e che altrimenti forse non gli sarebbe stato possibile
perseguire nemmeno nei suoi sogni.
Uno che ha massacrato più iracheni di chiunque altro, rischia di diventare
un simbolo dell'orgoglio nazionale di un paese “inventato” appena 80
anni fa. Peggio: uno che ha ammazzato più musulmani di chiunque altro,
a cominciare dagli ulema di casa sua quando faceva il “laico”, rischia di
ergersi al ruolo di leader spirituale delle frustrazioni dell'intero mondo
islamico, di improbabile leader delle future guerre sante dell'islam
fondamentalista contro l'Occidente infedele che avrebbe voluto
umiliarlo. Il prepotente che aveva fatto milioni di morti aggredendo l'Iran
e il piccolo Kuwait, viene ora visto da molti come un Davide che riesce a
tenere a bada il gigante Golia. E c'è chi nota che la cosa peggiore è che a
questo punto la fama gli resterebbe appiccicata anche se, come è assai
probabile, sarà Golia a prevalere. Il guaio è che sono già riusciti,
comunque vada a finire, a dargli un'aura di paladino dell'orgoglio arabo
che forse nemmeno Osama bin Laden poteva sognare.
CONTINUA
“Così finiranno col creare 100, 1000 Osama bin Laden”, è sbottato al
Cairo Hosni Mubarak, che pure passa per uno dei leader più “moderati” e
“realisti”. Era stato tra i primi a rassegnarsi ad una guerra che “gli
americani, se vogliono possono fare e vincere da soli”. Aveva già pensato
realisticamente al dopo, fissando un appuntamento col premier israeliano
Ariel Sharon. Ma forse nemmeno lui si aspettava che le cose
cominciassero così male. Il suo Egitto non è un modello di democrazia.
Al dissenso sanno pensare coi metodi duri del Mukabarat. La sua
scommessa è una transizione indolore del potere al figlio Gamal
Mubarak, che viene considerato un riformatore attento anche a
prospettare rudimenti di democrazia politica. Qualcuno l'aveva definito
un potenziale “Gorbaciov sul Nilo”. Ma il timore è ora che la sua
“Perestrojka” araba possa fallire prima ancora di cominciare.
CONTINUA
In Giordania l'erede di Hussein, Abdallah, non si era schierato contro la
guerra come aveva fatto suo padre nel 1991, si dice avesse fatto un
pensierino sulla possibilità che sul trono dell'Iraq possa tornare un
membro della sua famiglia hashemita (come lo era Feisal deposto nel
1958), magari suo zio Hassan. Ora si ritrova coi beduini che premono per
andare volontari a combattere a fianco dei fratelli iracheni, anziché
acquisire un secondo torno a Baghdad, potrebbe faticare a tenere il suo
ad Amman. La Siria era tra i paesi arabi i cui servizi segreti avevano
avviato una stretta collaborazione con la Cia dopo l'11 settembre. Assad
padre, cugino in astuzia, spietatezza e tirannia di Saddam, nonché con
comuni radici ideologiche nel nazionalismo totalitario del Partito Baath,
era stato a lungo in rotta con Baghdad, aveva parteggiato con Teheran
nella guerra Iran-Iraq, aveva inviato proprie truppe a fianco di quelle
americane e saudite nella Prima guerra del Golfo.
CONTINUA
Ma il figlio Bashar, che si sperava potesse ammorbidire il regime nei
confronti di Washington e di Israele, apre le frontiere ai “volontari” che
premono per andare a combattere contro gli “invasori”, è da ieri divenuto
il primo governante arabo ad auspicare e predire pubblicamente, in
un'intervista al quotidiano libanese as-Safir, la “sconfitta” della
“flagrante aggressione” americana. Qualche giorno prima, in un'altra
intervista aveva espresso il timore che Washington, dopo l'Iraq, potesse
prendersela con la Siria. Ancor più forte è probabilmente il timore, che se
non lo fanno gli americani, a farlo a pezzi, con la minoranza alawita che
accentra il potere, siano i fondamentalisti siriani. In Arabia saudita non
sanno più come incrociare le dita per evitare che la guerra non finisca per
minare la loro fatiscente monarchia petrolifera feudale. In Libia,
Muammar Gheddafi stava faticosamente cercando di rifarsi una
reputazione che gli consentisse di avviare un dialogo (e rapporti
economici) con l'Occidente. Ora cercano l'applauso del mondo arabo
esaltando l'“eroica resistenza” irachena.
CONTINUA
I leader palestinesi stavolta non avevano ripetuto l'errore di Yasser Arafat
nel 1991, di schierarsi dalla parte di Saddam Hussein, ma in Cisgiordania
a molti dei nuovi nati in questi giorni viene imposto il nome Saddam, o
persino quello Uday. I terroristi suicidi hanno un nuovo mito a cui rifarsi.
Nei campi profughi l'opinione più diffusa in questo momento è che siano
gli iracheni i soli mostratisi capaci di reagire all'“umiliazione” degli
arabi. Al nuovo premier Abu Mazen potrebbe essere più difficile fargli
cambiare idea di quanto lo fu per Arafat, quando ordinò di disperdere
sparando i giovani che inneggiavano agli attentati di Al Qaeda.
Non va molto meglio anche nel resto del mondo islamico, quello non
arabo, e su cui a rigore Saddam non avrebbe dovuto essere in grado di
esercitare alcuna influenza. Le sole due democrazie, in un panorama
desolante in Medio Oriente, Turchia e Iran, sono entrate ciascuno per
conto suo in fibrillazione per il modo in cui gli Usa sono riusciti a gestire
la scelta di fare la guerra. Ankara, che avrebbe potuto essere il più logico
(e ora viene fuori anche strategicamente indispensabile) alleato rischia di
mandare i suoi soldati in Kurdistan a scontrarsi coi marines.
CONTINUA
A Teheran i riformatori rischiano di essere travolti dalla minaccia che
l'Iran sia il prossimo in lista da “salvare”. In Indonesia, il più popoloso
paese islamico al mondo, gli effetti sono ancora tutti da vedere. Il
Pakistan è perennemente sul bilico di un golpe, e, Dio non voglia di una
guerra atomica con l'India, cioè tra il secondo e terzo paese islamici al
mondo per popolazione.
Era indispensabile, necessario che si arrivasse a questo? La stragrande
maggioranza degli esperti del mondo islamico continua a sostenere di no.
Gilles Kepel, che ha scritto un nuovo libro per spiegare come, malgrado
Osama, il mondo islamico fosse invece decisamente avviato alla
moderazione anziché alla resurgenza di fanatismo, denuncia l'improvvida
apertura di un micidiale “vaso di Pandora”. Lo storico e demografo
Emmanuel Todd nel suo recente Aprés l'Empire si era sforzato di
dimostrare come tutte le tendenze demografiche e culturali spingessero il
mondo islamico, da almeno un decennio a questa parte, verso la
moderazione.
CONTINUA
I giornali americani hanno recentemente rivelato come persino gli studi
del Dipartimento di Stato smentissero clamorosamente, come “non
credibili” le “teorie del domino” con cui George W. Bush aveva
promesso prospettive di cambiamento verso maggiore democrazia,
stabilità e sviluppo nel mondo arabo del dopo guerra in Iraq. I domino
rischiano di cadere. Ma nel senso sbagliato.
Il dopo-Saddam americano non
piace a Londra
di
Alfio
Bernabei
02.04.2003
LONDRA. “Al più presto possibile l’Iraq non dovrebbe essere
governato né dalla “coalizione”, né dalle Nazioni Unite. Dovrebbe essere
governato dagli iracheni”. Lo ha detto il primo ministro Tony Blair
durante il Question Time sul dopo Saddam in parlamento dove ci sono
state varie interpellanze sul problema concernente la ricostruzione
dell’Iraq. C’erano molti deputati piuttosto nervosi dopo aver sentito la
notizia che gli americani un piano di ricostruzione governativa ce
l’hanno già: 23 ministeri tutti diretti dagli americani, con degli iracheni
di loro gradimento in funzione di consiglieri.
CONTINUA
Quando il leader del partito liberaldemocratico Charles Kennedy, poco
convinto dalla dichiarazione di Blair, imprecisa nei tempi e fortemente
limitata dall’evidente uso del condizionale, gli ha chiesto: “Ma insomma,
nell’Iraq del dopoguerra ci sarà una leadership sotto le Nazioni Unite o
una leadership sotto gli americani?” il premier ha risposto: “Il principio
base di qualsiasi accordo sulla transizione e di un’autorità interim
irachena deve essere appoggiato dalle Nazioni Unite”. Nessun
chiarimento dunque sul significato di quell’ “al più presto possibile” che
potrebbe significare settimane mesi o anni (preceduto da cosa?) e
nessuna certezza su cosa Blair intenda dire per “appoggiato dalle Nazioni
Unite” che, anche volendolo tradurre con “approvato”, non vuole
necessariamente dire congegnato, diretto o coordinato dalle stesse. In
contrasto con le parole enigmatiche di Blair i deputati a Westminster
avevano anche sentito circolare la notizia che il piano americano non
solo è pronto, ma è in via di attuazione in un albergo di Kuwait City dove
il futuro “governatore”, generale Jay Garner starebbe già tenendo sedute
ministeriali del nuovo Iraq. Fatto compiuto?
CONTINUA
Per offrire qualche chiarimento sulla nebulosa posizione britannica, resa
più delicata dalle multiple oscillazioni di Blair, poi conclusesi con
l’appoggio incondizionato agli Stati Uniti e l’entrata in guerra senza
l’Onu, ieri sera il ministro degli Esteri Jack Straw si è incontrato con il
tedesco Joschka Fischer. Straw ha detto “Domani (oggi, ndr) avrò
incontri anche con Igor Ivanov e Dominique de Villepin. Infatti
Dominique ed io ci siamo parlati due o tre volte al telefono nel corso
dell’ultima settimana”. Precisazione, quest’ultima, che mette in evidenza
l’ansia londinese di non apparire isolata. La cosa peggiore che potrebbe
capitare a Blair è quella di trovarsi ora davanti ad un possibile disaccordo
pubblico con gli americani sulla ricostruzione dell’Iraq quando si è già
trovato in disaccordo con Francia, Russia e Germania sulla questione
della guerra che questi paesi gli sconsigliavano di fare senza un mandato
delle Nazioni Unite.
Riferendosi alle notizie sul piano americano dei 23 ministri Straw ha
detto: “C’è un mucchio di speculazione. La sistemazione del dopoguerra
dovrebbe essere appoggiata dalle Nazioni Unite.
CONTINUA
Stiamo cercando di ottenere un’autorità interim irachena che porti ad un
governo rappresentativo formato da iracheni. Potrebbero esserci
consiglieri provenienti da altri paesi. Ma non ci saranno persone di
nazionalità straniera nel futuro governo iracheno. Questo non è
l’obiettivo di questa guerra”.
Quanto alle dichiarazioni venute dall’America che alludono ad un
allargamento dell’operazione nei riguardi di Iran e Siria Straw ha detto:
“Se la cosa fosse vera mi preoccuperebbe. Noi non vorremmo avere
niente a che fare con un approccio del genere. L’Iran è una democrazia
emergente e non c’è nessun caso che regga per qualsiasi tipo di azione
militare. Ho recentemente parlato con Teheran. Quanto alla Siria, deve
essere accertato se non venga usata per l’invio di materiale militare
all’Iraq”. Straw è tornato inoltre a sottolineare l’importanza di trovare
una soluzione al conflitto tra Israele e la Palestina. Parte della credibilità
politica di Blair dipende dal successo che avrà il cosiddetto “piano
stradale della pace”, che dovrebbe cominciare a dar frutti nel 2005.
CONTINUA
Blair aveva promesso che il piano sarebbe stato pubblicato dopo la scelta
del primo ministro palestinese. Adesso il premier c’è ma il piano rimane
nel cassetto. Gli americani non hanno fretta e a Blair non resta che
aspettare.
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(25 marzo 2003) Il