Classe I C Natural-mente Elba Docenti: Carlo de Lauro Laura Marchetti Luciano Melani Anno Scolastico 2009-2010 Classe IB Classe I E La geografia dell'Isola d’Elba La nascita dell’Isola d'Elba, in analogia con le altre isole dell'arcipelago toscano, sarebbe legata ad un fenomeno di deriva che nel Miocene inferiore, 16 milioni di anni or sono, avrebbe provocato il distacco della microplacca corsa-sarda dalla Provenza, cioè dalla Francia meridionale. In seguito, circa 7 milioni di anni fa, durante il Miocene medio superiore, si sarebbero manifestate intense attività vulcaniche. Che all'Elba immersioni ed emersioni si siano succedute nel tempo è testimoniato dalla presenza di depositi marini che sono ubicati a qualche centinaia di metri sul livello del mare. L'isola d'Elba è quindi la più grande striscia di terra rimanente dell'antico tratto che collegava la penisola italiana alla Corsica, dopo le altre isole dell'Arcipelago Toscano. La geografia dell'Isola d’Elba L'Elba è collocata aldilà del piccolo braccio di mare chiamato “Canale di Piombino” che, per quanto modesto e tranquillo per la maggior parte dell'anno, ha fatto sì che essa si sia conservata fresca nella sua natura valorizzando tutti i suoi aspetti positivi. L'Elba è la terza delle isole italiane per estensione, è situata a 42° 47' 12'' di latitudine nord e 10° 16' 28'' longitudine est da Greenwich. Ha una superficie di 224 kmq caratterizzati da uno sviluppo nord sud di km 18 (Capo Vita-Punta dei Ripalti), est ovest di km 27 (Punta Nera-Capo Pero) e da un andamento altimetrico che la rende interessante per le prospettive visive di carattere montano che riesce ad offrire con i 1019 m di altitudine del Monte Capanne. La geografia dell'Isola d’Elba Del gruppo fanno anche parte la cresta delle Filicaie e delle Calanche con altitudine tra gli 850 e i 900 m s.l.m., che hanno una notevole importanza proprio perché fra tutti i rilievi elbani sono quelli che ospitano un maggior numero di specie vegetali di grande rilevanza scientifica. Lo sviluppo costiero è di 147km con un alternarsi continuo di promontori, baie, penisole e calette che vanno dalle rocce granitiche a strapiombo sul mare con fondale limpidi e profondi ad ampie spiagge sabbiose e bassi fondali, che si estendono anche oltre il chilometro. L'isola d'Elba è la più grande dell'arcipelago toscano e assieme alle altre isole dell'arcipelago (Pianosa, Capraia, Gorgona, Montecristo, Giglio, Giannutri) fa parte del Parco Nazionale dell'Arcipelago Toscano. L'isola è divisa in 8 comuni: Portoferraio, Campo nella Elba, Capoliveri, Marciana, Marciana Marina, Porto Azzurro, Rio Marina e Rio nell'Elba, per un totale di circa 30.000. Le coste settentrionali sono bagnate dal Mar Ligure, quelle orientali dal Canale di Piombino, quelle meridionali dal Mar Tirreno e quelle orientali dal Canale di Corsica. Dai maggiori rilievi dell'isola scendono numerosi corsi d'acqua a regime torrentizio. Durante il periodo estivo le precipitazioni si riducono al minimo. Spesso quelli di minore lunghezza e portata si seccano, lasciando il letto asciutto. Il clima dell'isola presenta prevalentemente caratteristiche mediterranee, fatta eccezione per il Monte Capanne dove gli inverni tendono ad essere moderatamente freddi. Le precipitazioni sono concentrate nel periodo autunnale e risultano essere abbastanza contenute. La variata altimetria delle diverse catene montuose, la latitudine e l'influsso del mare, favoriscono un clima particolarmente mite. La flora e la fauna dell’Isola d’Elba Dominano le piante sempreverdi, che possiedono foglie coriacee, protette da un’epidermide robusta e impermeabile; oppure piante con foglie ridottissime, talora trasformate in spine, o del tutto mancanti, come nel caso delle ginestre. Delle grandi foreste di leccio che un tempo ricoprivano le isole dell’Arcipelago oggi sopravvivono solo pochi boschi. Sono endemiche dell’Elba il fiordaliso del Monte Capanne, la viola ed il limonio. Altre piante presenti sull’isola d’Elba sono tipiche della macchia mediterranea: corbezzolo, lentisco, biancospino, castagno, eucaliptus, mirto, ecc. Per quanto concerne la fauna, tra i più rappresentativi endemismi, possono essere citati i molluschi gasteropodi. Sono inoltre endemismi di rilievo la farfalla, il grillo, la lucertola, la vipera. I mammiferi terrestri sono quelli tipici dell’ambiente mediterraneo. Diffusa è anche la presenza del coniglio selvatico. E’ di assoluta rilevanza la nidificazione del falco pellegrino. L’Isola d’Elba annovera la presenza delle più numerose colonie del rarissimo gabbiano corso. La realizzazione di un erbario Realizza una PRESSA utilizzando due tavole uguali, forate ai vertici e quattro bulloncini con rispettivi galletti. I galletti sono delle specie di bulloncini con due alette, facilissimi da avvitare e svitare con le dita, senza chiavi inglesi o altri strumenti. La pressa per l’erbario Svita i galletti della pressa, sfila la tavola superiore e metti le piante una sull’altra, tra fogli di carta di giornale Semi, frutti o radici carnose impossibili da schiacciare, sistemali in sacchetti di carta e falli seccare a parte; i frutti molto ricchi di acqua seccano difficilmente, puoi però disegnarli o fotografarli. La pressa per l’erbario Riposiziona la tavola superiore della pressa e avvitala con forza Una pressa ancora più semplice da realizzare è costitutita semplicemente da due tavole che metterai in pressione mettendoci sopra dei pesi L’essiccazione Disponi la pressa in un luogo asciutto per la prima settimana cambia ogni giorno i fogli di carta; successivamente potrai farlo ogni due giorni fino a quando le piante saranno completamente secche. Nei primi giorni la pianta è “floscia” quindi puoi sistemare meglio fiori e foglie, Una volta essiccate le piante posizionarle al centro di un cartoncino e fissarle in tre-quattro punti con del nastro adesivo o colla oppure come si fa per gli erbari scientifici dell’università, con delle spille e un nastro di carta Il risultato è un bellissimo libro sulle piante, scritto da te e illustrato con piante vere. Puoi anche realizzare un erbario che è una raccolta di foglie di diverso tipo, magari per confrontarne la forma o il tipo di margine (liscio, seghettato, ecc.), o di piante appartenenti ad una stessa famiglia. Le piante della macchia mediterranea Viburno Lauro (Viburnum tinus) (Laurus nobilis) Pino (genere Pinus) Ulivo (Olea europea) Salvia (Salvia officinalis) Rosmarino (Rosmarinus officinalis) Nespolo del giappone Ginepro comune (Eriobotrya japonica) (Juniperus communis) Leccio (Quercus ilex) Corbezzolo (Arbutus unedo) Pungitopo (Ruscus aculeatus) Cipresso (Cupressus pyramidalis) Edera (Hedera helix) Abete rosso (Picea abies) Tuia gigante (Thuja plicata) Mirto Abete bianco (Abies pettinata) (Myrtus communis) La classificazione delle foglie Gli alunni hanno classificato le foglie in base a: •forma; •margine; •disposizione delle nervature; •semplici o composte; •presenza o assenza di picciolo. La classificazione delle foglie La classificazione delle foglie La classificazione delle foglie L’agricoltura sull’Isola d’Elba I castagneti Nel territorio di Marciana, verso settentrione, si estendono vasti boschi di castagni. Le piante venivano coltivate soprattutto per avere legname piuttosto che frutta. Erano circa 600 ha di castagneti dai quali si ricavavano appena 4218 hl di castagne, ma che vantano piante alte e ben dritte, le quali fornivano lunghe travi e ottimo legname per i lavori dei bottai, per la costruzione di tini e botti da vino, delle quali vi era una grande richiesta, vista la grande produzione e il commercio di questo prodotto. Si dice che i castagni siano stati piantati nel medioevo come riserva di legname per la costruzione di alcune parti di barche e di navi. Le varietà di castagne coltivate sono quattro: marroni, carpinesi, scarlinesi, selvane. La prima è più adatta per il frutto che è grosso e saporito, ma poco serbevole; le altre producono legname. Si raccoglievano alla fine di settembre e inizio ottobre e si smerciavano fresche nei mercati dell'Isola su quello della vicina città di Livorno. Non si usava essiccarle. La poca farina di castagne che si consumava, 200 q all'anno, veniva importata da continente. I castagni si espandono tutt'ora nella direzione della Zanca per almeno 2 km di lunghezza e 1 km di larghezza. I castagneti Il castagno si moltiplica per seme. Si seminano nel semensaio alla distanza di almeno un metro l'una dall'altra ed a 10 centimetri di profondità. Dopo tre o quattro anni si trapiantano i piccoli castagni in un terreno scassato a fosse, alla distanza di 9-10 metri l'uno dall'altro secondo la fertilità del suolo. L'anno successivo saranno innestati. Le pianticelle saranno ripulite dai succhioni; la stessa operazione sarà fatta anche ai castagni adulti. La raccolta si fa d'ottobre raccogliendo prima le castagne cadute da sole, poi abbacchiando le rimanendo sugli alberi. Si tolgono dai ricci, si portano a casa e si conservano in due strati: verdi o secche. Per conservarle verdi si mescolavano alla sabbia e si sotterravano in un luogo asciutto. Per seccarle si portavano in un piccolo fabbricato posto in genere nel castagneto, si gettavano sopra ad una specie di palco e vi si accendeva sotto un fuoco con legna ricoperte di ricci dell'anno precedente. Questa copertura mantiene un fuoco lento che produce molto fumo. L'abbacchiatura avveniva in un primo momento da terra con lunghe pertiche, poi si saliva sulle piante con le scale e, adoperando una pertica più corta, si battevano i ricci rimasti sui rami più alti, nessuna castagna doveva essere perduta. Gli oliveti La moltiplicazione dell'olivo avviene per seme, per ovolo o per talea. Migliori risultati dà la riproduzione per seme ottenuta dai noccioli spolpati e seccati, ma in questo caso bisogna provvedere successivamente all'innesto. Il quarto - quinto anno dall'impianto l'olivo comincia a dare qualche frutto e nel suo lungo periodo di sviluppo e in quello successivo e assai più lungo di fruttificazione il contadino attendeva con la massima diligenza alla potatura, alla concimazione, alla cura delle malattie e alla lorra contro i vari parassiti. D'inverno, dopo il raccolto delle olive, si provvedeva alla ripulitura delle piante con l'aiuto di una scure e per far legna per il camino. A fine marzo era il momento adatto per la potatura e la ripulitura di tutte le piante. Durante il mese di maggio, per la fioritura, si provvedeva a irrorare le foglie con il solfato di rame. Questo trattamento serviva a preservare le foglie e i germogli dalla fumaggine, una malattia che riveste la pianta di una polvere nera, fuligginosa. Gli oliveti Gli oliveti, un tempo, erano scarsi e scarso era il frutto che davano: le piante si sviluppavano molto bene, ma poiché non venivano curate a dovere, sia per l'inesperienza che per la trascuratezza, presto si ammalavano ed il frutto cadeva prima del tempo. Le loro principali varietà sono la mignola (o gramignola) e la frantoia. Molti olivastri, nati attraverso i semi, si incontravano in diverse parti dell'Elba: gli elbani pensavano che quelle olive fossero di cattiva qualità e dessero dei frutti cattivi: la verità è che per trascuratezza non facevano né potatura né innesti. Il nemico più terribile dell' ulivo è il freddo perché resiste a 12°C sotto zero. Ma teme ancor più un ritorno di freddo in primavera, il che è tutt'altro che insufficiente, perché è sufficiente un po' di neve trattenuta dalle foglie, allorché cominciano a smuoversi i primi germogli, per provocare la caduta delle foglie stesse e talvolta la morte della pianta. Ma in condizione di clima favorevole l'olivo è capace di vivere parecchi secoli. Frantoio, moraiolo, leccino, punteruolo o trillo sono le principali razze di olivi diffuse nella nostra isola. Gli oliveti Secondo la coltivazione tradizionale, la concimazione si faceva in ogni stagione: con il letame al momento dell'aratura e con la sbottinatura, a primavera, versando mezzo barile di pozzo nero in una buca fatta attorno alla pianta. Era tradizione iniziare la raccolta delle olive a partire dall'ultima settimana di novembre o comunque non più tardi del 13 dicembre, a Santa Lucia. La brucatura delle olive è considerato il metodo di raccolta più razionale in quanto permette il distacco dei frutti senza danneggiarli. L'operazione consiste nel far scorrere sui rami un rastrellino, una specie di pettine di legno o di metallo, oggi di plastica, che provoca il distacco dei frutti più rapidamente, trascinando tuttavia una notevole quantità di foglie. I cestini ricolmi di olive si versavano nelle balle di canapa, che venivano trasportate a casa e distese in una stanza arieggiata; dopo 8-10 giorni le olive si imballavano di nuovo per portarle al frantoio. Prima della macinazione, per non rendere l'olio amaro, bisognava selezionare il fogliame estraendolo a mano o vagliando le olive con appositi setacci detti vagli. La viticoltura (l’origine) L'origine della viticoltura risale a tempi molto antichi; studi paleontologici dimostrerebbero che la pianta sarebbe già diffusa sul nostro pianeta prima della comparsa dell'uomo. Si dice che la vite sarebbe arrivata in certe zone dell'Italia centro settentrionale circa tremila anni fa, trasferitavi dalla Sicilia dove era coltivata almeno mille anni prima. Comunque la coltura ebbe una vera e propria espansione dopo il III secolo a.C. con l'affermazione del dominio romano sul bacino del Mediterraneo in un ambiente particolarmente adatto alla vite. Nelle campagne toscane ed anche all'Elba si produceva molto mosto, senza distinguere il bianco dal nero e spremendo moltissime qualità di uva mischiate assieme e capaci di produrre, con una lunga e disordinata fermentazione, un vino aspro e di bassa gradazione, mal conservabile e quindi difficoltoso anche per il trasporto. Il viticoltore toscano, assecondato dallo stesso proprietario, fintantoché il prezzo del vino si manteneva elevato, tendeva ad ottenere il massimo prodotto possibile, curandosi poco della qualità. La viticoltura (le fasi) Lo scasso del terreno era la prima cosa da fare: tutto il terreno si doveva rivoltare, raggiungendo una profondità non inferiore ad un metro. Si lavorava a terreno asciutto usando la vanga e estraendo la terra con la pala. Completato lo scasso, bisognava spianare il terreno, nettarlo dai sassi, dalle erbacce, dai rovi, ecc. Sul terreno così preparato si tendevano tante corde quanti dovevano essere i filari da impiantare, distanti da loro non meno di due metri; quando si doveva lavorare il terreno con gli animali occorreva che le file fossero disposte ad almeno due metri e mezzo fra loro. Nelle zone collinari, spesso impervie dell'Elba, i piccoli appezzamenti terrazzati, chiamati lenze, le viti venivano piantate a gruppi di due o quattro, i capannelli, sostenuti da pali o canne legati con ginestre o giunchi. Nei terreni di pianura più fertili e freschi si preferiva piantare le barbatelle ed era buona norma farlo d'autunno. Nelle terre poco profonde e aride si ottenevano migliori risultati piantando i maglioli nella tarda primavera, perché il terreno, già scaldato dalla buona stagione, favoriva un più rapido sviluppo delle radici. Prima che la fillossera invadesse i nostri vigneti non c'era bisogno di ricorrere all'innesto; piantato il magliolo si aspettava il primo anno per vedere qualche segno di vegetazione. Poi lo si lasciava sul terreno per altri due anni durante i quali continuava a vegetare e ingrossare il tronco. A questo punto si facevano alzare i tralci: il magliolo era diventato una nuova vite. Oggi si piantano vitigni già innestati ma fino a non molti anni fa l'innesto rappresentava una fase successiva alla messa a dimora dei maglioli o delle barbatelle. La viticoltura (l’innesto) Tre i sistemi d'innesto più adottati: a occhio, a spacco, e a succhio. Con il sistema a occhio si incideva la corteccia con un taglio a T in un punto molto vicino al terreno e si inseriva la gemma o occhio nel taglio, legando strettamente il tutto con la rafia, in modo da lasciar libera la gemma. Con il sistema a spacco si uccideva la vite, dopo il terzo anno dall'impianto, tagliandola di netto con un paio di forbici a due tagli. Poi si spaccava il tronco con un coltello da innesto e vi si inseriva una o due mazze a seconda della grossezza del fusto. L'innesto a succhio, detto pure ad anello, consisteva nel tagliare la vite da innestare recidendola orizzontalmente e tagliando alla sua estremità un anello di corteccia da sostituire con un altro di uguale diametro portante una gemma. La potatura avviene nel periodo invernale da gennaio a marzo. Deve essere drastica, lasciando due occhi per tralcio. Bisogna concimare generosamente, come ricorda questo curioso proverbio: La prima vite la potò un asino con una boccata, poi gli voltò il culo e ci fece una bella cacata. La vite (i parassiti) Quella che chiamiamo viticoltura tradizionale è durata fino alla seconda metà del XIX secolo quando comparvero in Europa alcuni parassiti, che misero in serio pericolo la coltivazione. Soprattutto uno di essi, la fillossera, si dimostrò un nemico inesorabile. La sua puntura innestava un processo che, aiutato da funghi e batteri, determinava l'insorgere di un marciume che conduceva alla morte della pianta. In Toscana i primi segni di invasione della fillossera apparvero, nel 1888, all'isola d'Elba, a Pitigliano (Grosseto) e a Gaiole (Siena). Il problema venne risolto impiantando nuovi vigneti con varietà americane i cui polloni si erano dimostrati resistenti alla fillosera e utilizzandoli come “portainnesti” cioè innestando su di essi le antiche varietà produttrici di uva pregiata. In aggiunta alle avversità atmosferiche come la pioggia o la grandine, la vite è soggetta all'attacco di parassiti animali e vegetali, due dei quali capaci di produrre danni molto gravi: l'oidio e la peronospora. L'oidio si combatte in modo sicuro con lo zolfo, facendo il primo trattamento poco prima della fioritura e un secondo trattamento una decina di giorni dopo la stessa. Lo zolfo assolve una funzione curativa contro l'oidio a differenza del ramato (una miscela di solfato di rame e calce, denominata “ poltiglia bordolese”) che ha una funzione solo preventiva nei confronti della peronospora. La peronospora colpisce la vite dalla primavera all'autunno ed è il calore e soprattutto l'umidità a favorirne lo sviluppo, per cui il trattamento andava ripetuto più volte. La viticoltura (la vendemmia) Logica vuole che la vendemmia abbia inizio quando l’uva è matura, ma spesso c’era, in passato, la tendenza ad anticiparla non senza inconvenienti più o meno gravi nei confronti dei risultati finali. Ecco perché, a evitare danni di vendemmie intempestive, vigevano speciali norme statutarie mantenute in genere fino alla rivoluzione francese col nome di “Bandi vendemmiali”, vere e proprie ordinanze che fissavano, anno per anno e luogo per luogo, il giorno in cui era consentito dare inizio alla vendemmia. Prima di vendemmiare c'erano però alcune operazioni preliminari da compiere relative alla preparazione dei vasi vinari. Si provvedeva al lavaggio e alla ripulitura interna e esterna del fustame in legno, il quale doveva essere assolutamente liberato da ogni possibile difetto come il fradicio, l'odore di muffa e di acido. Bisognava ammannire tutte le bigonce disponibili, riempiendole d'acqua per farle rinvenire, in modo da far rigonfiare il legno delle doge e consentirne la tenuta. La viticoltura (la vendemmia) Fare gli scelti era dunque il primo atto della vendemmia e consentiva nello scegliere e cogliere solo grappoli di uva nera delle varietà più adatte a governare il vino. Contemporaneamente si scioglieva l'uva per il moscato. Queste uve si facevano appassire disponendole su stoie o cannicci sorretti da un apposito castello fatto con quattro tronchi squadrati tenuti in piedi da altrettanti basamenti di pietra. Il corbello cilindrico senza manici, fatto di larghe strisce di legno intrecciate e portato a spalla sorretto da una corda, serviva a raccogliere i grappoli nei panieri per poi versarli nelle bigonce o nel tinello posto sul carro. Rovesciando l'uva nelle bigonce si provvedeva ad ammostarla con appositi bastoni in modo da frangere i chicchi, diminuire il volume e, di conseguenza, fare un minor numero di viaggi, col carro, alla tinaia di fattoria. Le bigonce ammostate non dovevano tuttavia essere troppo colme per evitare da un lato di perdere parte del mosto durante il viaggio e dall'altro per limitarne il peso e poterle alzare fino al tino al quale si dovevano rovesciare. L'uso dell'ammostatoio era diffuso nella maggior parte della Toscana, ma in misura minore nelle zone estreme. Il vino all’Elba nel XVIII secolo La produzione del vino ha origini lontanissime. Già tremila anni fa l'Elba si presentava come un immenso vitigno che occupava anche le colline più impervie. Particolare è il caso di Rio Marina, dove un'ampia zona mineraria sottoposta per secoli alle escavazioni del ferro, conserva ancora il toponimo di Vigneria. Una notizia storica che specifica l'abbondanza della produzione del vino, ci viene da Plinio il Vecchio che nella “Storia della Natura” definisce l'Elba “Vini Ferax”. Il commercio del vino era molto sviluppato già nel terzo secolo a.C. L'Elba mantenne la produzione del vino anche quando Domiziano emanò il decreto di abbattimento delle viti per destinare più ampie superfici alla coltivazione del grano. Gli Ilvates sapevano benissimo che i terreni non erano adatti alla produzione dei cereali e del resto già gli Etruschi importavano il grano dal Lazio, dalla Liguria e persino dalla Francia del Sud, ossia dalle regioni che acquistavano i vini elbani. Il vino all’Elba nel XVIII secolo Nel Medioevo il vino dell'Elba allietava la mensa dei Papi. I contratti tra istituzioni attribuiscono alle superfici coltivate a vigneto un valore nettamente superiore agli altri beni immobili e nelle pratiche di successione gli eredi si contengono la cantina “Cum Palmento“. Gli statuti delle comunità locali dettano regole rigorose per la tutela dell'agricoltura e conferma la rilevanza economica della vite. L'incremento demografico viene assorbito sopratutto dal settore agricolo. L'estrazione del vino cresce naturalmente e determina lo sviluppo di una marineria velica già fiorente: si contano 245 bastimenti di padroni elbani che solcano le acque del Mediterraneo, ma si spingono anche in Inghilterra, in Scozia e in Irlanda. L'incremento demografico è costante: nel 1832 l'Elba conta già 16.219 abitanti fino a raggiungere 21.446 nel censimento granducale nel 1852. E' questo il periodo di massima espansione delle superfici coltivate a vigneto e si censiscono 320.000 viti con una produzione di circa 100.000 q di vino. Due anni dopo iniziano i guai. La crittogama infesta i vitigni e causa la rovina di molte famiglie, che sono costrette ad abbandonare l'isola: dal comune di Capoliveri partono centinaia di emigranti verso l'Australia, mentre dal versante occidentale i flussi migratori si dirigono in Argentina e Venezuela. Gli aranceti all’Isola d’Elba La pianta di agrumi ha origini antichissime e ha nei secoli caratterizzato tutto il paesaggio dell'area mediterranea. Abbondanza e prosperità sono da sempre associate a questi frutti, dono della natura e degli dei. Il cedro fu il primo frutto del genere Citrus giunto in Europa dall'Asia sud-orientale. Si diceva che lo coltivassero per il profumo nei giardini pensili di Babilonia. Il limone, originario forse della Malesia, arrivò in Europa verso la metà del 1° secolo d.C. Le arance arrivarono molto più tardi: originarie della Cina meriodionale, vennero fatte conoscere nel Mediterraneo dagli Arabi. Le primissime arance arrivate in Europa erano della specie amara, mentre quelle dolci si diffusero forse alla fine del XV secolo. Le arance amare, dalla polpa troppo agra e amarognola per essere mangiata cruda, ma adoperata per fare marmellate, erano conosciute nel Medioevo come “melangoli”. Quanto ai mandarini (Citrus nobilis), essi giunsero in Europa soltanto all'inizio del 1800. Da un documento sappiamo che la presenza degli agrumi all'Elba è attestata verso la metà del 1700. Sappiamo che nel febbraio del 1782 un grandissimo freddo fece gelare tutte le piante degli agrumi e la maggior parte delle piante degli ulivi su tutto il territorio dell'isola. Gli aranceti all’Isola d’Elba (l’aranceto murato) La figura dell'aranceto chiuso da un muro, percorso da ingegnosi sistemi di irrigazione, ricorre dalle sponde africane alle coste spagnole, a quelle italiane, al Medio Oriente. All'isola d'Elba gli aranceti tendono a scomparire sopraffatti dall'espansione edilizia, dalle difficoltà e dai costi di manutenzione. Sono molto più numerosi di quanto si creda. Si trovano lungo le strade principali, all'interno dei poderi e dei giardini delle ville o lungo il mare. Molto numerosi erano a Portoazzurro, oggi lasciano il posto alle pizzerie, come a Bagnaia presso un residence. Sono rimasti piccoli aranceti all'interno dei giardini di molte ville dell'isola: Villa Anna, Villa Damiani, Villa San Marco, Casa del Duca, Villa Tonietti al Cavo. Altri aranceti sono diffusi in altre parti dell'isola, in zone riparate, protetti da alti muri o da fitti intrecci di canne. Alla presenza dell'aranceto si accompagna sempre la presenza di una struttura per la raccolta e la distribuzione dell'acqua: pozzo di raccolta e canaline sotterranee o a cielo aperto. E' dunque la presenza dell'acqua una delle ragioni che ha consentito lo sviluppo e la ricchezza di tanti agrumeti. Gli aranceti all’Isola d’Elba (Acquabona e Monserrato) Nella settecentesca villa dell'Acquabona, l'elemento che risale alla storia più antica è l'aranceto, un vero giardino nel giardino. L'area dove sorge la tenuta è ricchissima d'acqua ed al confine dell'aranceto scorre il fosso Acquabona. Il giardino della villa, oltre a molte piante da frutto, contava ben 73 piante di agrumi! Poco prima del santuario di Monserrato a Portoazzurro s' incontra in giardino di casa Romagnoli. All'interno di un muro di cinta continuo si apre un giardino complesso, composto da un frutteto, un pergolato d'uva e un agrumeto modellato come un vero giardino arabo-spagnolo. Notevole è il sistema di irrigazione, a partire da un pozzo che raccoglie l'acqua dalla montagna e la distribuisce per scorrimento attraverso canali in cotto. Questa modalità per l'irrigazione si ritrova in importanti giardini del periodo prenapoleonico, per cui si può ipotizzare che questi sistemi di irrigazione siano arrivati all'Elba con l'arrivo degli Spagnoli e che il giardino di Monserrato risalga alla fine del Settecento. Gli aranceti all’Isola d’Elba (la Chiusa e Villa Letizia) La settecentesca Villa Foresi, la Chiusa, domina la baia di Portoferraio, è circondata da ampi vigneti, delimitati da un muro di cinta. Intorno alla villa si aprono due giardini di aranci murati. Il primo, di dimensioni più ridotte, era fin dall'epoca del primo nucleo abitativo, il giardino chiuso che proteggeva dai venti le piante di agrumi. Il secondo, situato in un angolo suggestivo, protetto dal vento e in una situazione privilegiata, era un antico aranceto caratterizzato da una efficiente rete di canaline dove l'acqua, che nel giardino sgorga da una sorgente, andava ad irrigare le piante di agrumi addossate al muro. Sotto Colle Reciso, di fronte alla baia di Portoferraio, si trova Villa Letizia, vecchia casa elbana che conserva un giardino segreto, ricco di acqua per irrigare la numerosa collezione di agrumi. La pratica della coltivazione degli agrumi sopravvive oggi in alcune aree, tra cui, nel versante Ovest, a Pomonte e zone limitrofe, e nella parte opposta dell'isola, a Rio Marina nella valle del Riale; entrambe le località sono caratterizzate dall'abbondante presenza d'acqua.