Lavoro ipertestuale di Francesca De Bernardi e Valeria Salandini Beda il Venerabile fu uno degli uomini più colti del suo tempo (Inghilterra, 672; † 25 maggio 735) ; è stato un presbitero, monaco e dottore della Chiesa inglese. È famoso come studioso e autore di numerose opere, tra le quali la più conosciuta è la Historia ecclesiastica gentis Anglorum ("Storia ecclesiastica del popolo inglese"), che gli è valsa il titolo di Padre della storia inglese. Scrisse su molti altri argomenti, dalla musica alla poesia, ai commentari biblici. E’ stato dichiarato santo e dottore della Chiesa dalla Chiesa cattolica. La memoria liturgica è il 25 maggio (precedentemente era il 27 maggio). Scrisse su molti altri argomenti, dalla musica alla poesia, ai commentari biblici. È citato da Dante Alighieri nella Divina Commedia. Quasi tutto ciò che conosciamo della vita di Beda è quanto è stato raccontato da lui stesso nella sua Historia. Nato a Jarrow o a Wearmouth Northumberland - nel 672 o 673 e vissuto fino al 735 a Jarrow (oggi nella contea metropolitana di Tyne and Wear) è festeggiato il 27 maggio. Entrato nel monastero di Wearmouth all'età di 7 anni, divenne Diacono a 19 anni e presbitero a 30. Non è chiaro se fosse di famiglia nobile. Fu educato dagli Abati Benedetto Biscop e Ceolfrid, e probabilmente fu quest'ultimo ad accompagnarlo a Jarrow nel 682. Qui trascorse il resto della sua vita dividendo il suo tempo tra lo studio, l'insegnamento, lo scrivere e lo zelo nell'assolvimento della vita monastica. Liber chronicarum – 1493 di Hartmann Schedel (Norimberga 1440-1514) Beda divenne il Venerabile Beda subito dopo la sua morte, ma non fu dichiarato Santo dalla Chiesa di Roma. La sua importanza per la Religione Cattolica fu pienamente riconosciuta solo nel 1899, quando Papa Leone XIII lo dichiarò Dottore della Chiesa (festa il 25 maggio), con il nome di San Beda il Venerabile. Le sue spoglie riposano nella cattedrale di Durham. C’è una leggenda che riguarda il modo in cui gli fu attribuito il titolo di venerabile, all’epoca appellativo conferito ai religiosi come segno di riguardo. Un sacerdote, volendo mettere un’iscrizione sulla tomba di Beda, non trovò parole adatte e lasciò lo spazio vuoto. Allora di notte scese un angelo e scrisse venerabilis. Beda viene anche citato da Dante nella Divina Commedia, (Paradiso, canto X). Si dice che il santo morì mentre dettava le ultime parole della sua traduzione del vangelo secondo Giovanni. E’ autore della Historia ecclesiastica gentis Anglorum, che tratta della conversione dell’Inghilterra al cristianesimo, oltre che della storia di quel paese (trattata più avanti). Gli scritti di Beda mostrano chiaramente la sua profonda conoscenza del suo tempo e del passato, conoscenza ottenuta dalla lettura dei volumi della biblioteca di Wearmouth-Jarrow, che conteneva dai 300 ai 500 volumi e che era tra le più grandi d'Inghilterra. Durante i suoi lunghi viaggi come Vescovo si impegnò nella ricerca ed acquisizione di nuovi libri. Fu un grande esperto in Letteratura Patristica, e nei suoi scritti si ritrovano citazioni di Plinio il Giovane, Virgilio, Lucrezio, Ovidio, Orazio e di altri autori classici. Conosceva il greco e un po' di ebraico. Il suo latino è semplice e privo di affettazione, ed era utilizzato con l'abilità di un narratore. Beda utilizzava il metodo di interpretazione allegorica della Bibbia, ed aveva un atteggiamento abbastanza moderno di fronte all'interpretazione dei miracoli. Appariva dotato nella maggior parte delle cose di molto buon senso, era simpatico, aveva amore della verità e dell'imparzialità, sincera pietà e devozione al servizio degli altri. Gli scritti di Beda possono essere classificati in scientifici, storici e teologici. Tra gli scritti scientifici troviamo trattati di grammatica, scritti per i suoi allievi, un lavoro sui fenomeni naturali (De Rerum Natura, "Sulla natura delle cose") e due sulla cronologia (De temporibus, "Sui Tempi", e De temporum ratione, "Sul significato dei tempi"). Beda fece anche un calcolo approssimato dell'età della Terra, ed iniziò a dividere gli anni in prima di Cristo e dopo Cristo. Scrisse che la Terra è rotonda "come una palla da gioco", in contrasto con l'opinione corrente di una terra rotonda ma piatta. Il più importante e meglio conosciuto dei suoi lavori, che è uno dei documenti storici più importanti anche dell’epoca altomedievale, è la Historia ecclesiastica gentis Anglorum, scritta in cinque libri, per un totale di circa 400 pagine, sulla storia dell'Inghilterra, sia dal punto di vista politico che ecclesiastico, dal tempo di Cesare alla data di composizione (731). I primi 21 capitoli trattano del periodo precedente alla missione di Sant'Angostino di Canterbury, e furono scritti a partire dalle opere di altri autori, quali Paolo Orosio,Gildas, Prospero di Aquitania. Beda tenne presenti anche le lettere di Gregorio Magno e altri scritti, includendo anche leggende e tradizioni. Per il periodo dopo il 596 Beda usò documenti verificati con grande fatica e testimonianze orali, queste ultime utilizzate con approfondite considerazioni sul loro valore. Beda documentava i suoi riferimenti e soprattutto citava le fonti delle sue fonti, creando un'importante catena storica. A Beda si deve l'invenzione dell'annotazione a piè di pagina. Proprio a causa dell'annotazione a piè di pagina fu accusato di eresia dal Vescovo Wilfred. L'accusa era di aver calcolato male l'età della Terra: la sua cronologia non rispettava il calcolo del tempo, ed era collegata all'annotazione, in quanto Beda aveva citato un'altra fonte in una nota, piuttosto che una propria opinione, mostrando di aver interpretato in maniera differente dagli altri la fonte citata in nota. Tra le sue opere si ricordano: De orthographia, glossario alfabetico; il trattato De metrica arte; De temporibus, sui principi per determinare la data della Pasqua secondo l'uso romano adottato dal Sinodo di Whitby (664) con una cronaca delle sei età del mondo tratta da Sant'Isidoro; De temporum ratione (725) sugli eventi dall'incarnazione di Cristo; e infine De natura rerum (forse 725), un’opera enciclopedica, scritta ispirandosi alla Storia naturale di Plinio, organizzata in 51 capitoli, in cui si espongono, sul modello delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia, ma con ampiezza ancora maggiore, notizie di carattere scientifico, storico, geografico. Tali opere, che ebbero vasta diffusione nel medioevo, insieme ai testi sul computo del tempo (il De temporibus liber), sulle arti del trivio(De arte metrica e De orthographia), oltre a scritti di carattere agiografico e poetico, contribuirono a rendere celebre la figura del monaco anglosassone anche nei secoli successivi. Appassionato della Bibbia, al cui studio dedicò l’intera esistenza, arrivò a scrivere perfino alcuni commenti e sostenne che la verità risiede soltanto nella loro corretta interpretazione. La sua edizione della Bibbia fu molto importante, e fu utilizzata dalla Chiesa fino al 1966. Quest'opera non è la copia di una precedente versione ma è il risultato di molte ricerche per ciascuno dei libri della Bibbia. Suoi altri lavori importanti sono le vite degli Abati di Wermouth e Jarrow, e le vite in versi e in prosa di San Cutberto di Lindisfarne. La maggior parte dei suoi scritti è di tipo teologico, e consiste in commentari di libri dell'Antico e del Nuovo Testamento, omelie e trattati su brani della Sacra Scrittura. Lasciò pure scritti esegetici sull'Apocalisse, Atti, Epistole, Luca, Samuele, Marco, i Re, Genesi 1-20, Esdra e Neemia, Esodo 24,12-30 e 21, il Cantico dei Cantici e Tobia, ispirati da Sant'Agostino, San Girolamo, Sant'Ambrogio e San Gregorio. Tra le opere storiche scrisse una storia del suo monastero dal 681 al 716, che va sotto il nome di Historia abbatum; in versi De miraculis Sancti Cuthberti e in prosa De vita et miraculis Sancti Cuthberti, episcopi Lindisfarnensis. Beda influenzò largamente la cultura del suo tempo e, attraverso Alcuino, innestò la cultura anglosassone nella civiltà carolingia prima e in quella europea poi. Il suo ultimo lavoro, completato sul letto di morte, fu la traduzione in lingua anglosassone del Vangelo secondo Giovanni. Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (Roma, 475 – Pavia, 25 ottobre 525) è stato un filosofo romano. Noto come Severino Boezio, o ancor più semplicemente come Boezio, le sue opere influenzarono notevolmente la filosofia cristiana del Medioevo, tanto che alcuni lo collocano tra i fondatori della Scolastica (la filosofia cristiana medioevale). La Chiesa cattolica lo venera come santo e martire, festeggiandone la ricorrenza il 23 ottobre. Filosofo, poeta e politico, Boezio visse a Roma dal 480 al 524 d.C.. Figlio di un console, fu discepolo di Simmaco, colto patrizio romano, che si prese cura dell’educazione del giovane, dandogli anche in sposa la propria figlia. Durante il periodo di presenza gota in Italia, Boezio si dimostrò il tipico rappresentante di quella nobiltà colta latina che appoggiò il re Teodorico nel tentativo di realizzare un’equilibrata convivenza tra il popolo goto e quello romano. Collaborò con Teodorico, il quale gli affidò incarichi importanti e delicati: fu console nel 510 e principe del Senato. Il re goto aveva l’ambizione di creare contatti con l’impero romano d’Oriente e di catalizzare l’Occidente sotto la sua egemonia, ma nel timore che la nobiltà romana e il vescovo di Roma tramassero con l’imperatore d’Oriente contro di lui mutò politica. Un certo Cipriano accusò ingiustamente Boezio , che era rimasto legato all'antica grandezza romana più che al potere ostrogoto, adducendogli prove false di tradimento per contrasti politici e religiosi. Teodorico, senza neppure ascoltarlo, lo condannò a morte. Accusato di tradimento, fu imprigionato a Pavia e decapitato nel 524. Il suo corpo mutilato fu sepolto nella basilica di S. Pietro in Ciel d'Oro ("Cieldauro") a Pavia: tutto il Medioevo lo considerò non solo cristiano (non è certo, tuttavia, che sia stato battezzato), ma anche martire degli intrighi politici. Severino Boezio fu uno dei più illustri uomini di cultura del suo tempo. Era definito al tempo stesso l’ultimo dei Romani e il precursore della Scolastica, per la funzione che svolse di mediatore fra il pensiero classico, romano e greco, ed il nascente pensiero cristiano medievale. Si può suddividere la vasta produzione boeziana, in massima parte perduta, in scritti di Logica, Traduzioni e commenti da Aristotele, Pitagora, Tolomeo, Euclide, Archimede e altri filosofi greci assicurando la continuità fra il pensiero antico e quello medievale, e trattati come il De Divisione e Sui Sillogismi, basilari per lo sviluppo successivo della filosofia. Negli anni 502-507 Boezio aveva composto trattati “scientifici”, sulle arti del Quadrivium”: De Institutione Aritmetica, Musica, Geometrica, Astronomica (perduta). Fra il 521 e il 522 compone trattati teologici, il più famoso è il De Sancta Trinitate. Lo scritto però più rilevante che gli darà fama attraverso i secoli è il De Consolatione Philosophiae. E’ nel periodo trascorso in carcere, l’ultimo della sua vita (fra il 523 e il 524 d.C.), che Severino Boezio scrisse la questa sua opera che oggi è considerata uno degli ultimi frutti della cultura greco-romana. Boezio riprende un genere letterario notevolmente diffuso nell’antichità trasmettendolo e favorendone la diffusione nel Medioevo. Questo genere letterario è “la consolazione filosofica” che invita chi si trovava in situazione difficile ad andare oltre i propri problemi e tormenti. Sono due i personaggi fantastici che lo consolano in carcere: Filosofia e Fortuna. Sarà specialmente la prima, che gli si presenta nelle sembianze fantastiche di una bella e maestosa dama, a interrogare, a far ragionare e a consolare il prigioniero suo discepolo. A Boezio che si lamenta di essere stato condannato all’esilio per aver difeso l’innocenza dei senatori e per le falsità dette contro di lui, Filosofia risponde: “Condannato all’esilio? Nessuno può dirsi in esilio quando è con se stesso. Non mi impressiona l’aspetto del luogo in cui ti trovo, ma lo stato del tuo spirito”. Boezio in prigione, miniatura, 1385. Isidoro di Siviglia (Cartagena, 560 circa – Siviglia, 4 Aprile 636), ultimo dei Padri latini, ricapitola in sè tutto il retaggio di acquisizioni dottrinali e culturali che l'epoca dei Padri della Chiesa ha trasmesso ai secoli futuri. Scrittore enciclopedico, Isidoro fu molto letto nel medioevo, soprattutto per le sue Etymologiae, , un'utile "somma" della scienza antica, della quale con più zelo che spirito critico condensò i principali risultati. Questo volgarizzatore dotatissimo della scienza antica, che avrebbe esercitato su tutta la cultura medioevale un influsso considerevole, era soprattutto un vescovo zelante preoccupato della maturazione culturale e morale del clero spagnolo. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica che lo considera Dottore della Chiesa. Viene festeggiato il 4 Aprile, giorno della sua morte. Si ignora la data esatta della nascita di Isidoro di Siviglia, forse avvenuta intorno all’anno 536. Nacque a Cartagena in una famiglia ispano-romana da Severiano, un notabile cartaginese, e Turtura. Era il quarto di cinque fratelli, di cui quattro sono venerati come santi dalla Chiesa cattolica: Leandro, Fulgenzio, Fiorentina e lo stesso Isidoro. Egli rimase ben presto orfano e la responsabilità della sua educazione fu affidata ai fratelli maggiori, Fiorentina e Leandro. Finì, piccolissimo, in uno dei monasteri della zona, dove maturò una profonda conoscenza degli scrittori latini. Il futuro dottore della Chiesa, autore di una immensa mole di libri che trattano di tutto lo scibile umano, dall'agronomia alla medicina, dalla teologia all'economia domestica, fu dapprima uno studente svogliato e poco propenso a stare chino sui libri di scuola. Come tanti coetanei marinava la scuola e vagava per la campagna. Un giorno si accostò a un pozzo per dissetarsi e notò dei profondi solchi scavati dalla fragile corda sulla dura pietra del bordo. Comprese allora che anche la costanza e la volontà dell'uomo possono aver ragione dei più duri scogli della vita. Tornò con rinnovato amore ai suoi libri e progredì tanto avanti nello studio da meritare la reputazione di uomo più sapiente del suo tempo. L’esperienza monastica contribuì a render chiaro all’Isidoro dell’età matura, come la questione dell’istruzione fosse di capitale importanza per il clero: a questo proposito, Isidoro, fondò a Siviglia un collegio per l’istruzione dei giovani ecclesiastici e stabilì che simili istituti dovessero esistere in ciascuna diocesi. Isidoro succedette al fratello Leandro nel governo episcopale dell'importante arcidiocesi di Siviglia nell'Andalusia in Spagna . Come il fratello, sarebbe stato il vescovo più popolare e autorevole della sua epoca. Particolarmente intensa fu l’attività in ambito pastorale, che portò alla conversione dei goti e lo vide opporsi frontalmente all’eresia ariana. Convocò e presiedette i concili di Toledo (633) - a tutt’oggi annoverabile fra i più importanti fra quelli tenutisi nella penisola iberica - e Siviglia (619 e 625), nei quali vennero dibattute, fra l’altro, questioni amministrative (legate ai confini diocesani) e teologiche (la repressione dell’eresia monofisita). Formatosi alla lettura di S. Agostino e S. Gregorio Magno, pur senza avere la vigoria di un Boezio o il senso organizzativo di un Cassiodoro, con essi Isidoro condivide la gloria di essere stato il maestro dell'Europa medievale e il primo organizzatore della cultura cristiana. Un'amena leggenda racconta che nel primo mese di vita uno sciame d'api, invasa la sua culla, depositasse sulle labbra del piccolo Isidoro un rivoletto di miele, come auspicio del dolce e sostanzioso insegnamento che da quelle labbra sarebbe un giorno sgorgato. Sapienza, mai disgiunta da profonda umiltà e carità, gli hanno meritato il titolo di "doctor egregius" e l'aureola di santo. Isidoro può certamente essere considerato il più grande erudito del suo tempo, e principalmente a lui si deve rifiorire degli studi nel regno visigotico di Spagna. I suoi interessi culturali abbracciano tutto il campo dello scibile di quei tempi: le arti liberali, il diritto, la medicina, le scienze naturali, la storia, la teologia dogmatica e morale. La sua immensa produzione letteraria ha però risentito di questa vastità di interessi e denuncia una mancanza di originalità e profondità, riducendosi il più delle volte a puri compendi o antologie. Tutto questo però nulla toglie all’importanza dell’opera che ha contribuito come poche altre ad operare la sintesi tra romanesimo e germanesimo, permettendo la ricostruzione un linguaggio comune fra uomini diversi e costituendo una fonte privilegiata per la conoscenza di molte opere antiche andate perdute. Il termine enciclopedismo, coniato su una espressione greca che significa “istruzione circolare”, indica un sistema didattico comprendente tutte quelle discipline in grado di fornire una preparazione completa. L’idea di una struttura sistematica dei vari rami del sapere, già presente nell’Etica nicomachea di Aristotele, ricompare nella prima metà del V sec. nel “De nuptiis Mercurii et Philologiae” di Marziano Capella, che fissa nel numero di sette le arti liberali, fornendo una sistematica del sapere destinata ad avere enorme influenza in tutto il Medioevo. Elenchi delle opere di Isidoro sono stati stilati da Braulione di Saragozza ed Ildefornso di Toledo. Oltre alle Etymologiae, probabilmente il testo isidoriano più famoso, vanno ricordate le Allegoriae, in cui sono raccolte brevissime spiegazioni (di carattere spirituale) di espressioni e nomi biblici: ; il De ortu et obitu Patrum qui in scriptura Laudibus efferuntur, raccolta di brevi biografie di personaggi biblici; varie opere in cui si elaborano in chiave mistica i numeri ed i principali avvenimenti presenti nelle sacre scritture; un manuale di dottrina, ispirato ad Agostino e Gregorio Magno, nel quale fra l’altro, si ripercorre la storia dell’umanità a partire dalla creazione e si trattano i temi della Grazia, delle condizioni della vita terrestre dell’uomo e del diritto naturale; il De ecclesiasticis officiis, descrizione delle funzioni ecclesiastiche della chiesa gotica del VII sec. ;il De ordine creaturarum, in cui Isidoro espone la gerarchia degli esseri spirituali, secondo il modello neoplatonico; il De natura rerum, in cui si tratta di astronomia meteorologia alla maniera delle senecane Naturales quaestiones; il Chronicon, sulle sei età del mondo, dalla creazione al 616 le Historiae, preziosa fonte per la ricostruzione della storia della Spagna visigotica, con appendici su Vandali e Svevi; la Regula monachorum, riassunto della letteratura patristica intorno a varie questioni di organizzazione della vita monastica; infine le Epistolae. Come detto, i venti libri delle Etymologiae costituiscono l’opera isidoriana di maggiore rilievo, in cui è condensato tutto il sapere del passato a partire dalle arti liberali, a cui si vanno ad aggiungere la medicina, le leggi e la storia, i libri e gli uffici ecclesiastici, la teologia, argomenti concernenti la Chiesa e le sette, le lingue, i popoli, i regni e le parentele, le parole rare, l’uomo e i mostri, gli animali, il mondo e le sue parti, la terra e le sue parti, gli edifici, i campi e le strade, le pietre ed i metalli, l’agricoltura, la guerra ed i giochi, le navi, le costruzioni ed i costumi, gli utensili ecc. La struttura di quest’opera, così flessibile da consentire ad Isidoro di raccogliere dati in qualsiasi contesto e direzione, è quella di un lessico: si parte da una vox, la cui spiegazione (che può essere “secundum naturam” o “secundum propositum”) facilita la comprensione della res a cui fa riferimento: sebbene molte delle etimologie in esso individuate possano risultare arbitrarie e l’opera non abbia carattere di originalità, la sua importanza all’intero di un contesto culturale fortemente deteriorato fu molto grande. Isidoro non celò mai il carattere riassuntivo delle sue opere, inserendo in genere una piccola premessa che indicava al lettore che ciò che stava leggendo era materiale proposto (senza alcun arbitrio), al vaglio critico del lettore, al quale era anche affidata la possibilità di correggerlo qualora ne avesse avvertito la necessità. Gran parte delle Etymologiae è riservata a ricerche di carattere grammaticale, ma in esse non è trascurato neppure ciò che può risultare utile ad acquisire una educazione filosofico-teologica: vi si trovano infatti estratti desunti dalle opere di scrittori classici e dai padri della Chiesa (in particolare Gregorio Magno). Isidoro non si prefigge il compito di dare al lettore una conoscenza approfondita delle materie trattate, preoccupandosi piuttosto di fornire un prezioso strumento di orientamento. Ecco alcune importanti citazioni tratte da questa opera: Sono le lingue che fanno i popoli, non i popoli già costituiti che fanno le lingue. Ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt. Diavolo in ebraico significa colui che cade in basso poiché rifiutò di rimanere al suo posto nel culmine del cielo ma per il peso della superbia cadde precipitando in basso. Dio non ha fatto tutte le cose dal nulla, ma alcune da qualcosa, altre invece dal nulla. Dal nulla egli ha creato il mondo, l'angelo e le anime. Gli angeli sono stati fatti prima di ogni creatura quando fu detto: Sia la luce. La materia è stata fatta dal nulla. Parte della critica ha sostenuto l’artificiosità di una lettura dell’opera di Isidoro che separasse il piano teologico/spirituale da quello scientifico/filosofico: a questo proposito è interessante notare come Isidoro, nell’VIII libro delle “Etymologiae”, dedicato alla storia della Chiesa ed alle “sectae” o eresie che hanno portato scompiglio e divisione in essa, inserisca una trattazione della filosofia. Proprio alla fine della sezione riservata alle sette fa seguito la parte di testo in cui Isidoro si occupa dei filosofi: essi sono portatori di divisioni ed opinioni molteplici nella conoscenza, così come gli eretici lo sono nelle questioni di fede. Il metodo seguito da Isidoro è pertanto funzionale alla codifica di un manuale sintetico della “scientia vera”: conoscere il nome significa accostarsi all’essenza della cosa, dunque più sono i nomi conosciuti e maggiore è l’orizzonte di comprensione dell’uomo, che risulta così in grado di meglio percepire il significato della creazione. La filosofia – in questa prospettiva - è definita, con gli Stoici, come “la scienza delle cose umane e divine”, ed è divisa in fisica, etica e logica, una concezione destinata a venire messa in crisi solo nell’età dei maestri parigini (XII sec.). L'attenzione per una forma di conoscenza che si fondi sul linguaggio è testimoniata anche da altre opere di Isodoro, in primis le Differentiae. Nel primo libro intitolato Differentiae verborum sono enumerate alfabeticamente 610 differenze fra i termini o concetti, (come ad esempio “aptum” ed “utile”), mentre nel secondo libro, Differentiae rerum, diviso in 40 sezioni e 170 paragrafi, sono poste in evidenza le differenze fra le cose o gli oggetti (come per esempio fra “Deus” e “Dominus”): si stabilisce in questa maniera una vera e propria corrispondenza fra diversi piani del conoscibile, a tutto vantaggio della capacità umana di percepire l’articolazione della realtà: si tratta di una impostazione grammaticale di tipo platonico, in cui il mondo delle forme è rappresentato dal lessico ed i nomi esprimono direttamente l’essenza delle cose. In linea di sostanziale continuità con le “Differentiae” si collocano i Synonyma, de lamentatione animae peccatricis, una sorta di dialogo fra l’uomo e la sua stessa ragione, giocato sulla capacità evocativa degli espedienti retorici tipici della cultura monastica del periodo: ripetizioni, enigmi ed altri giochi versificatori. Isidoro èun convinto assertore della corrispondenza fra il piano del linguaggio quello del reale, e considera lo studio etimologico del lessico come la chiave d’accesso privilegiata alla conoscenza delle cose. Una concezione simile verrà ripresa e sviluppata, nel corso del XII sec., da Teodorico di Chartres, secondo il quale i nomi e le forme essenziali delle cose - uniti nella mente divina – sono legati da un vincolo di dipendenza reciproca. Parti dell’impianto teorico isidoriano sono state recuperate nel corso del Medioevo, specialmente nel novero dei dibattiti sorti intorno a due importanti questioni dottrinarie, concernenti la predestinazione e la transustanziazione. Per quanto riguarda la prima di esse, è necessario osservare come il monaco Godescalco di Orbais - che aveva desunto dalle Differentiae di Isidoro il concetto di “gemina praedestinatio” - utilizzi una strategia argomentativa piuttosto vicina a quella del vescovo di Siviglia, fondata sull’utilizzo della grammatica come strumento in grado di meglio evidenziare la tensione esistente fra l’indicibile semplicità divina e la molteplicità del mondo creaturale. Le tesi da questi sostenute, furono ritenute da Rabano Mauro e successivamente da Incmaro di Reims vicine a quelle dei seguaci della dottrina dualista già combattuta da Agostino. L’argomentazione di Incmaro ontro le tesi di Godescalco risulta del tutto priva di forza nei confronti di Isidoro: in primo luogo in virtù della netta distinzione operata da quest’ultimo fra predestinazione al peccato e predestinazione alla dannazione eterna, quindi a causa della stessa forma singolare che designa il concetto di “gemina praedestinatio”; fu proprio grazie al recupero di quest’istanza della dottrina di Isidoro che Godescalco riuscì ad evitare l’accusa di dualismo. Il dibattito intorno alla predestinazione era tuttavia soltanto appena all’inizio, ed il suo crescere di intensità (dovuto anche alla condotta del monaco, che assunse posizioni di rottura in merito a diverse questioni teologiche) non fece altro che allargare l’ambito della polemica. Anche la posizione di Isidoro in merito a questioni inerenti la transustanziazione (intesa in senso metastorico), è indubbiamente al riparo da qualsivoglia argomento, in quanto ha dalla sua, oltre a ragioni meramente storico-cronologiche, (di fatto il dibattito sul realismo dell’eucaristia è figlio della querelle che coinvolge verso la metà del X secolo il monaco Ratramno di Corbie e l’abate Pascasio Radberto), anche la lettera delle sue opere, in cui si fa più volte esplicito riferimento alla reale presenza del corpo e del sangue di Cristo nel novero del sacramento eucaristico. Questa posizione, può dirsi senz’altro in accordo con le tesi del sostanzialismo eucaristico sostenute da Radberto. Alcuino (anglosass. Ealhwine) di York (York, Regno di Northumbria 735 - Tours 19 maggio 804), è stato un filosofo e teologo britannico. Il suo insegnamento, ispirato alla riscoperta della cultura classica, divenne fondamentale per la riorganizzazione del sistema scolastico di tutto l'Impero e contribuì alla rinascita carolingia: insegnò soprattutto grammatica e arti liberali, improntando il suo magistero a una pedagogia di tipo dialettico. Alcuino (nome che significa “amico del tempio”) proveniva da una nobile famiglia di Northumbria, alla quale appartenne anche s. Willibrord (Bonifacio). Il suo luogo di nascita è questione controversa. Probabilmente, però, nacque a York o nelle immediate vicinanze intorno al 735 . Mentre era ancora bambino, entrò nella scuola della cattedrale ivi fondata dall'arcivescovo Egberto, dove studiò il greco, l'ebraico, la grammatica e la retorica. La sua attitudine presto attirò l'attenzione di Aelberto, maestro nella scuola, nonché quella dell'arcivescovo, che dedicarono particolare attenzione alla sua istruzione. Da giovane, in compagnia del suo maestro, fece numerose visite in continente. Quando nel 767, Aelberto subentrò come diacono nella sede di York, il compito di dirigere la scuola fu naturalmente devoluto ad Alcuino. La leggenda che fa di A. un discepolo diretto di Beda, diffusa già in tarda età carolingia - il primo a raccontarla fu Notkero Balbo (m. 912) nei Gesta Karoli (PL, XCVIII, col. 1373AB) - testimonia il desiderio di stabilire una continuità culturale tra i principali momenti della rinascita europea dopo l'era delle grandi invasioni. Durante i quindici anni che seguirono si dedicò alla scuola di York attirandovi numerosi studenti e arricchendone la già preziosa biblioteca. Si recò a Roma in cerca di libri per la biblioteca della scuola e, di ritorno, nel marzo 781, incontrò Carlo Magno a Parma. Qui fu invitato dal principe, che ammirava grandemente, a trasferirsi in Francia e stabilirsi a corte come "Maestro della Scuola Palatina". Seguendo l'usanza in voga presso i sapienti della corte, Alcuino sostituì al proprio nome anglosassone (Alhwin o Alchwine) la forma latinizzante Albinus, cui accostò lo pseudonimo accademico Horatius Flaccus. La scuola rimase ad Aquisgrana per la maggior parte del tempo, ma si mosse di luogo in luogo, seguendo la residenza reale. Nel 786, Alcuino ritornò in Inghilterra a causa, a quanto pare, di importanti affari ecclesiastici e nuovamente, nel 790, in missione per conto di Carlo Magno. Nel 794, Alcuino partecipò al Concilio di Francoforte, dove ebbe una parte molto importante nella definizione dei decreti di condanna dell'Adozionismo nonché negli sforzi compiuti successivamente per la sottomissione dei recalcitranti prelati spagnoli. Nel 796, dopo aver compiuto il suo sessantesimo compleanno, ansioso di ritirarsi dal mondo, fu nominato da Carlo Magno Abate di San Martino a Tours. Qui, nella sua vecchiaia, ma con immutato slancio, si dedicò alla costruzione di una scuola monastica modello, raccogliendo libri e attirando studenti, come aveva fatto in precedenza a York e ad Aquisgrana; indicando, tra l'altro, ai suoi confratelli che «fodere quam vites melius est scribere libros», cioè che la via del sapere è migliore di quella dell'agricoltore cui indulgeva ancora una parte piuttosto ampia del movimento monastico. Poiché nelle sue lettere amava definirsi Albinus, humilis Levita, alcuni studiosi sono convinti che Alcuino sia stato solo un semplice diacono, mentre altri suppongono che in età ormai avanzata sia diventato sacerdote. Il suo sconosciuto biografo, nel descrivere l'ultimo periodo della sua vita, diceva di lui, celebrabat omni die missarum solemnia (Jaffé, Mon. Alcuin Vita, 30). Divenne stretto collaboratore del sovrano nel suo impegno per la riorganizzazione politica, ecclesiastica e culturale del mondo franco. Trasferitosi a corte nel 782, prese parte attivamente al dibattito intorno a questioni inerenti la teologia e svolse anche incarichi politici. Fu lui stesso probabilmente il redattore dei documenti imperiali finalizzati a varare ufficialmente il programma della riforma culturale, in particolare della famosa Admonitio generalis dell'anno 789 (MGH. LL, II, Capit. reg. Fr. I, 22). È ricordato dai contemporanei (per es. da Eginardo, Vita Karoli; PL, XCVII, coll. 49B-50A) come maestro di Carlo medesimo e al suo insegnamento attinsero nobili e personaggi illustri della corte carolingia, che spesso divennero poi destinatari del suo ricco epistolario. Alcuino contribuì personalmente alla fondazione e al successo della schola palatina. In una delle sue ultime lettere, Alcuino accettava il dono di una casula, che prometteva di utilizzare nelle missarum solemniis (Ep. 203). È probabile che egli fosse un monaco benedettino, fatto anche questo contestato, poiché alcuni storici hanno supposto che fosse semplicemente membro del clero secolare, anche quando esercitava l'ufficio di abate a Tours. Tra il 799 e l'801 attese a una globale revisione del testo della Bibbia, quindi a un riordinamento del Sacramentario Gregoriano. Morì nell’804. Della sua opera di educatore e studioso si può dire, in generale, che si inquadrava per la maggior parte nel movimento per la rinascita degli studi che distinse l'età in cui visse e che rese possibile la grande rinascita intellettuale di tre secoli dopo. Con lui la scuola anglosassone raggiunse la massima influenza. La ricca eredità intellettuale lasciata da Beda il Venerabile a Jarrow fu ripresa da Alcuino a York e, attraverso le sue opere nel continente, divenne propria della civilizzata Europa. Le influenze che subì Alcuino a York derivavano principalmente da due fonti: irlandese e continentale. Dal sesto secolo in poi gli irlandesi furono impegnati a fondare scuole chiese e monasteri in tutta Europa; e da Iona, secondo Beda, Aidan ed altri missionari celtici portarono la conoscenza dei classici e la fede cristiana in Northumbria. Tuttavia, la scuola celtica contribuì solo indirettamente alla formazione di Alcuino. La forte caratterizzazione romana che aveva imbevuto la Scuola di Canterbury, fondata da Teodoro e da Adriano, inviati dal Papa in Inghilterra nel 669, si riproponeva naturalmente nella Scuola di Jarrow e da questa, a sua volta, nella scuola di York. L'influenza è ben visibile in Alcuino, sia sul lato religioso, per la sua adesione alla tradizione romana, come pure sul lato intellettuale per il fatto che la sua conoscenza del greco, materia prediletta dagli studiosi irlandesi, sembra essere stata molto approssimativa. Una caratteristica importante del lavoro di educatore svolto da Alcuino a York fu la cura e la conservazione, nonché l'ampliamento, della sua preziosa preziosa biblioteca. Intraprese, infatti molti viaggi attraverso l'Europa con il solo scopo di copiare e raccogliere libri. Riunì intorno a se anche numerosi allievi provenienti da tutte le parti d'Inghilterra e da tutto il continente europeo. Nel suo componimento "Sui santi della Chiesa di York" scritto, probabilmente, prima di trasferirsi in Francia, ci ha lasciato una preziosa descrizione della vita accademica a York, insieme ad un elenco degli autori presenti nella sua raccolta di libri. Il corso di studi abbracciava, secondo le parole di Alcuino, "le arti liberali e le sacre scritture", ovvero le sette arti liberali, che comprendevano il trivium e il quadrivium, e lo studio delle Scritture e dei Padri per gli studenti più avanzati. Una caratteristica della scuola che merita di essere citata era la moderna organizzazione degli studi; gli studenti erano separati in classi, secondo gli argomenti e i soggetti studiati, con un insegnante per ogni classe. Ma fu solamente quando assunse l'incarico presso la Schola Palatina che le abilità di Alcuino risaltarono maggiormente. Nonostante l'influenza di York, in Inghilterra la cultura era in declino. Il paese era scosso da contrasti e da guerre civili, e Alcuino percepì nella crescente potenza di Carlo Magno e nel suo desiderio per lo sviluppo della cultura un'opportunità che neanche York, con tutta la sua preminenza, poteva permettersi. Non rimase deluso. Carlo contava sull'educazione per completare l'opera di costruzione del suo impero e la sua mente era piena di progetti educativi. Una rinascita letteraria, in realtà, era già iniziata. Giunsero ad Aquisgrana studiosi provenienti da Italia, Germania e Irlanda e, quando nel 782 Alcuino si trasferì presso Carlo Magno, presto, insieme ai giovani membri della nobiltà che era stato chiamato a istruire, si trovò circondato da un gruppo di studenti più anziani, alcuni dei quali erano considerati tra i migliori studiosi del tempo. La figura di Alcuino si colloca nel contesto della cosiddetta rinascenza carolingia: egli fu infatti il grande esecutore del progetto politico elaborato da Carlomagno e il prototipo di una nuova classe dirigenziale di stampo imperiale. La sua attività si svolse prevalentemente in ambito pedagogico: introdusse infatti un sistema di studi ordinato secondo le sette discipline (trivio e quadrivio), che rappresentavano le sette colonne del palazzo della sapienza. Scrisse inoltre manuali per l’insegnamento, che debbono essere considerati veri compendi del sapere classico tramandato nelle opere di Prisciano, Donato, Isidoro e Beda (per la grammatica), Cicerone (per la retorica), Agostino (per la dialettica). Le sue opere sull'istruzione, che comprendevano i trattati "Sulla Grammatica", "Sull'Ortografia", "Sulla retorica e le Virtù", "Sulla Dialettica", la "Disputa con Pipino", e il trattato astronomico intitolato De Cursu et Saltu Lunae ac Bissexto, offrono uno spaccato delle materie e dei metodi di insegnamento impiegati nella Schola Palatina e nelle scuole del tempo in generale, ma non sono rimarcabili né per originalità né per eccellenza letteraria. Essi sono, per la maggior parte, antologie, generalmente in forma di dialoghi, tratte dalle opere degli antichi studiosi ed erano, probabilmente, destinati a essere utilizzati come libri di testo per i suoi alunni. Alcuino, come Beda, era un insegnante piuttosto che un pensatore, un produttore e un distributore piuttosto che un originatore di conoscenza e, in questo senso, la predisposizione del suo genio rispose perfettamente alle necessità intellettuali della sua epoca che erano la conservazione e la rinascita al mondo dei tesori di conoscenza ereditati dal passato e a lungo nascosti per preservarli dalle invasioni barbariche. Disce ut doceas (impara per insegnare) fu il motto della sua vita, e il valore supremo che dava all'ufficio dell'insegnamento è riconoscibile nell'ammonimento che impartiva sempre ai suoi discepoli: "chi non impara in gioventù, non insegna in vecchiaia" (Qui non discit in pueritia, non docet in senectute, Epistola 27). Anche vivendo nel mondo e quindi molto occupato negli affari pubblici, condusse una vita in completa umiltà; ebbe un infinito entusiasmo per lo studio e un instancabile zelo per il lavoro pratico in classe e in biblioteca. Promosse il rinnovamento della didattica, e favorì un ritorno all’uso del latino corretto, polemizzò (specie nel Dialogus de rethorica et virtutibus, in cui l’interlocutore è Carlomagno) contro l’uso sofistico della dialettica, ritenuta d’altro canto importante strumento per la vita civile e politica. Per la prima volta dopo molti secoli, infatti, una cerchia di intellettuali, riunitisi attorno alla corte di Carlomagno, si pose un obiettivo che non fosse il mero consolidamento del sapere già acquisito dibattendo importanti problemi filosofici e teologici. Sotto la sua guida, la Schola Palatina divenne ciò che Carlo aveva sognato: il centro della conoscenza e della cultura per l'intero regno e per l'Europa intera. Carlo Magno stesso, la sua regina, sua sorella, i suoi tre figli e le due figlie studiarono presso la scuola, un esempio che il resto della nobiltà non mancò di imitare. Il maggior merito di Alcuino quale educatore laico, tuttavia, non fu solamente la formazione di una generazione di uomini e donne, ma, soprattutto, l'ispirare con la sua passione per l'insegnamento e l'apprendimento giovani di talento che accorrevano a lui da tutti le parti. La sua disponibilità e umanità lo resero universalmente amato e il vincolo che lega maestro e allievo si evolse spesso in un'intima amicizia che durò per tutta la vita. Molte delle sue lettere che si sono conservate furono scritte ai suoi ex allievi; di queste, più di trenta erano indirizzate al suo amato discepolo Arno, che divenne arcivescovo di Salisburgo. Prima di morire, Alcuino ebbe la soddisfazione di vedere i giovani che aveva preparato impegnati nell'opera dell'insegnamento in tutta Europa. "Ovunque", diceva Wattenbach parlando del periodo che seguì, "in qualsiasi attività letteraria visibile, si può essere certi di trovare un allievo di Alcuino". Molti dei suoi allievi occuparono posizioni di prestigio nella Chiesa e negli Stati e prestarono la loro influenza alla causa della cultura, come il succitato Arno, arcivescovo di Salisburgo; Teodolfo, vescovo di Orléans; Eanbaldo, arcivescovo di York; Adelardo, il cugino di Carlo, che divenne abate di Corvey, in Renania SettentrionaleVestfalia; Aldrich, abate di Ferrières, e Fredegiso, il successore di Alcuino a Tours. Tra i suoi allievi ci fu anche il celebrato Rabano Mauro, l'intellettuale successore di Alcuino, che studiò presso di lui a Tours e che, successivamente, nella sua scuola a Fulda, proseguì il lavoro intrapreso da Alcuino ad Aquisgrana e a Tours. Lo sviluppo della Schola Palatina, tuttavia, per quanto importante, fu solo una parte dei grandi piani culturali di Carlo Magno. Per la diffusione della cultura, dovevano essere istituiti in tutto il regno altri centri educativi e per questo, in un'epoca in cui l'istruzione era così ampiamente sotto il controllo della Chiesa, era essenziale che il clero dovesse essere composto da uomini di cultura. Con questo obiettivo bene in vista, furono emanati, a nome dell'imperatore, una serie di decreti o Capitolari, che imponevano a tutto il clero secolare e regolare, a pena della sospensione dall'ufficio, la capacità di leggere e scrivere e il possesso delle cognizioni necessarie per l'intelligente esercizio delle funzioni imposte dallo stato clericale. Dovevano essere istituite scuole di lettura a beneficio dei candidati al sacerdozio e i vescovi erano tenuti a esaminare il loro clero di tanto in tanto per accertare il grado della loro conformità con queste disposizioni legislative. Fu stilato anche un programma per l'istruzione elementare universale. Un capitolare dell'anno 802 stabiliva che "tutti avrebbero dovuto mandare il proprio figlio a studiare lettere, e che il bambino doveva rimanere a scuola con la massima diligenza fino a che non fosse stato ben istruito" (West, 54). In virtù dei decreti del Concilio di Vaison, in ogni città e villaggio doveva essere istituita una scuola in cui i sacerdoti avrebbero insegnato gratuitamente. È impossibile stabilire in che misura Alcuino contribuì alla organizzazione di un così vasto sistema di istruzione basato su una istituzione centrale, la Schola Palatina, un certo numero di scuole subordinate in cui si insegnavano le arti liberali sparse in tutto il paese e su scuole per la gente comune in ogni città e villaggio. La sua mano non è percepibile in alcun provvedimento legislativo che gli si riferisca, ma non vi può essere alcun dubbio sul fatto che egli ebbe molto a che fare con l'ispirazione, se non con la definizione, di queste leggi. "La voce", dice giustamente Gascoino, "è la voce di Carlo, ma la mano è la mano di Alcuino". Fu, comunque, anche su Alcuino e i suoi allievi che ricadde la responsabilità dell'applicazione delle leggi. È vero che le leggi furono applicate imperfettamente; le misure previste e parzialmente attuate per l'istruzione delle persone non furono un completo successo; il movimento per la rinascita e la diffusione della cultura in tutto l'Impero non giunse a buon fine. Tuttavia, molte cose destinate a durare nel tempo furono fatte. "La saggezza accumulata o il passato, che aveva corso il pericolo di scomparire, era stato preservato e, quando diversi secoli più tardi, giunse una più grande e permanente rinascita culturale, le fondamenta gettate nell'VIII secolo erano ancora lì, pronte a sostenere il peso della più elevata cultura che gli studiosi della nuova rinascita avrebbero costruito"(Gaskoin, 209) Oltre alla giustamente meritata fama di educatore e di teologo, Alcuino ebbe l'onore di essere stato il principale agente nella grande opera di riforma liturgica operata da Carlo Magno. All'incoronazione di Carlo il rito più diffuso in Francia era quello gallicano, ma così modificato da tradizioni e usi locali da costituire un serio ostacolo all'unità ecclesiastica. Scopo principale dell'imperatore era quello di sostituire il rito romano a quello gallicano o, almeno, pervenire a una revisione tale di quest'ultimo da renderlo sostanzialmente uno con quello romano. La forte propensione di Alcuino verso le tradizioni della Chiesa romana, combinata con il suo carattere conservatore e l'autorità universale di cui godeva il suo nome, lo qualificavano per la realizzazione di un cambiamento che l'autorità regale in sé era impotente a realizzare. La prima opera liturgica di Alcuino fu, probabilmente, un omiliario, una raccolta di sermoni in latino a uso dei sacerdoti. Un'altra opera liturgica di Alcuino consisteva in una raccolta di epistole da leggere la domenica e nei giorni di festa, dal titolo Comes ab Albino ex Caroli imp. praecepto emendatus. Prima della sua opera, i passi delle Scritture da leggere durante la Messa, spesso, erano indicati solo ai margini del Bibbie utilizzate; il Comes, invece, si basava sulla sequenza romana, avvicinandosi, in tal modo, a una uniformità dei riti. L'opera di Alcuino che ebbe la più grande e duratura influenza in questa direzione, tuttavia, fu il Sacramentario, o Messale, che compilò basandosi sul Sacramentario Gregoriano, aggiungendovi parti da altre fonti liturgiche. Prescritto come messale ufficiale per la Chiesa Franca, presto venne comunemente usato in tutta Europa, contribuendo alla realizzazione dell'uniformità liturgica della Messa in tutta la chiesa occidentale. Altre opere liturgiche di Alcuino furono una raccolta di Messe votive, redatta per i monaci di Fulda, un trattato intitolato De psalmorum usu, un breviario per i laici e una breve spiegazione delle cerimonie battesimali. L'impegno culturale di Alcuino si tradusse essenzialmente nel progetto di portare a compimento sul piano dello spirito lo stesso ideale di unificazione della Christianitas che la dinastia carolingia tornò a sostenere sul versante politico dopo la frantumazione dei regni barbarici. In questo senso è soprattutto significativo il suo sforzo costante per la promozione e la valorizzazione dei testi scritti, sacri e profani, come testimonia in particolare l'intensa attività scrittoria del monastero di Tours: un programma di lavoro che fu, d'altra parte, anche strettamente legato non solo alla rinascita di interesse per il libro come oggetto di studio e insieme di venerazione culturale, ma anche alla stessa diffusione negli scriptoria monastici della minuscola carolina, al punto che per lungo tempo si è creduto di poter riconoscere in Alcuino medesimo l'inventore e il principale responsabile della fortuna della nuova scrittura nelle scuole dell'Impero. Nella stessa prospettiva va intesa l'attività svolta da Alcuino in qualità di revisore del testo della Bibbia. Quello di Alcuino non è stato, sotto Carlo Magno, l'unico tentativo di organizzare una correzione filologica del testo biblico, ma a lui spetta probabilmente il merito di avere maggiormente suscitato e stimolato l'interesse spirituale in questa direzione. In effetti, come sul piano linguistico la restaurazione grammaticale del latino operò per la conservazione dell'unità tra i diversi popoli dell'Impero, così la revisione del testo biblico, accanto all'unificazione liturgica e omiletica favorita da Carlo Magno, rappresentò nella mente di Alcuino il primo passo verso la definitiva accettazione universale di una cultura unitaria, che si riconosceva innanzitutto cristiana ed ecclesiastica. La ricca produzione carolingia di manoscritti biblici è stata dunque incrementata anche dall'intento di imporre nel mondo ecclesiastico la versione definitiva della Vulgata. Il monastero di Tours, collocato in una zona idonea all'allevamento del bestiame, poteva trarre vantaggio da una ricca produzione di pergamena di buona qualità e grandi dimensioni, adatta alla realizzazione di bibbie monumentali in folio. Alcuino contribuì certamente ad avviare lo sviluppo di quest'industria, che ha prodotto circa una cinquantina di grandi esemplari biblici e una ventina di evangeliari negli anni successivi alla sua morte, ed egli stesso d'a notizia nel suo epistolario della compilazione a Tours, su sua iniziativa, di almeno sei grandi bibbie integrali in un solo volume (o 'pandette'; Carm., 65): tuttavia nessuno dei manoscritti pervenuti può attualmente essere identificato con una di esse (Fischer, 1971, p. 61). Viceversa fin dal Medioevo sono state denominate 'Bibbie di Alcuino' alcune delle grandi produzioni illustrate di epoca posteriore, tra le quali solo alcune provengono da Tours, come la Bibbia di Bamberga (Bamberga, Staatsbibl., Bibl. 1) e il grande manoscritto illustrato di Moutier-Grandval (Londra, BL, Add. Ms 10546), ma che oggi sono riconosciute tutte appartenenti certamente a epoca posteriore (Fischer, 1965; 1971). Viceversa fin dal Medioevo sono state denominate 'Bibbie di Alcuino' alcune delle grandi produzioni illustrate di epoca posteriore, tra le quali solo alcune provengono da Tours, come la Bibbia di Bamberga (Bamberga, Staatsbibl., Bibl. 1) e il grande manoscritto illustrato di Moutier-Grandval (Londra, BL, Add. Ms 10546), ma che oggi sono riconosciute tutte appartenenti certamente a epoca posteriore (Fischer, 1965; 1971). Tanto dal punto di vista paleografico (Rand, 1929), quanto sotto l'aspetto della storia della miniatura (Köhler, 1930) è possibile suddividere in quattro periodi la produzione libraria carolingia di Tours: dopo la morte di Alcuino, con la fine del primo periodo, seguono le fasi corrispondenti agli abbaziati di Fridugiso (807-834), diretto discepolo di Alcuino, di Adalardo (834-843) e di Viviano, al tempo di Carlo il Calvo (843851). Le grandi produzioni bibliche turonensi collegabili con le c.d. 'Bibbie di Alcuino' possono essere fatte risalire al massimo al periodo di Fridugiso (per es. il manoscritto di Zurigo, Zentralbibl., Car. C. 1, e quello di Parigi, BN, lat. 11514); ma già in quest'epoca accade che esse possano essere collegate con il nome di Alcuino, evidentemente in quanto revisore e principale diffusore della nuova versione della Vulgata, oppure anche soltanto a causa della presenza di suoi versi a introduzione del testo biblico. Tra le opere poetiche di Alcuino vi sono infatti alcune composizioni che rappresentano vere e proprie 'iscrizioni epigrafiche' per i libri della Scrittura e come tali vengono accolte anche in alcuni di questi manoscritti di lusso: tra esse in particolare il poema "Hic Deus omnipotens Adam de pulvere plasmat [...]" (Carm., 115) è stato considerato come il prototipo del ciclo illustrativo della Genesi più volte riprodotto nei grandi manoscritti biblici di quest'epoca, compresa la Bibbia di Bamberga (Berger, 1893). Più adeguati a essere considerati manoscritti vicini all'epoca di Alcuino sono invece quelli appartenenti a una famiglia turonense di testi classici e scritturali studiata in particolare da Köhler: si tratta di codici caratterizzati da una visibile unità grafica e dalla presenza di iniziali ornamentali oppure di tavole dei canoni evangelici, stilizzate e curate, con motivi ornamentali vegetali e animali (Köhler, 1926; 1930). Sulla base di una richiesta avanzata da Alcuino in una lettera a Carlo del 796797 (Ep., 121), di inviare a York alcuni suoi discepoli per importare manoscritti con cui arricchire la biblioteca di Tours, sono stati anche suggeriti, ma in via soltanto congetturale, contatti non solo tra la minuscola insulare e quella turonense, ma anche tra i due stili di miniature. Tra questi manoscritti in particolare quello di Troyes, Bibl. Mun., 1742, che contiene fra l'altro anche il Liber de virtutibus et vitiis di Alcuino, permette di datare l'intero gruppo - certamente anteriore alle grandi bibbie turonensi prodotte dal periodo di Fridugiso in poi - a un'epoca che non può risalire oltre gli ultimi anni dell'abbaziato di Alcuino. Il più antico del gruppo è forse il manoscritto biblico di San Gallo (Stiftsbibl., 75), che si accetta per databile fra l'801 e l'804. Tanto dal punto di vista grafico e ortografico, quanto dal punto di vista artistico, questi codici appaiono decisamente inferiori alle successive produzioni turonensi. E anzi, anche confrontandoli con i coevi codici di grande lusso elaborati alla corte imperiale, si è portati a concludere con una certa sicurezza che Alcuino aveva un interesse soltanto limitato per la produzione efficacemente stilizzata; la sua importanza in questo ambito rimane soprattutto quella di essere stato un iniziatore. Egli non ha dunque esercitato un influsso diretto sulla produzione artistica di maggiore respiro dell'epoca e qualche altro personaggio deve viceversa avere avuto presso la corte maggiore responsabilità per l'elaborazione di codici di gran lusso (Köhler, 1972). L'interesse di Alcuino per la valorizzazione del testo biblico ha esplicitamente una finalità di carattere pedagogico: avviare con maggiore facilità, attraverso un contatto sensibile, visivo, con la profondità misteriosa del messaggio della redenzione, l'accostamento del credente non erudito alla comprensione di esso. Soltanto in seguito il possesso di una reale scienza teologica metodologicamente raffinata può portare a compimento tale comprensione intelligente della verità di fede presso i più sapienti. Nelle opere di Alcuino è quindi possibile rintracciare le linee generali di un'efficace teoria estetica nascente dalla meditazione del pensiero di Agostino e inglobata all'interno di un più ampio progetto pedagogico-culturale. Attraverso la diffusione degli scritti alcuiniani tale visione ha influenzato la produzione artistica del sec. 9° e, di qui, l'intera concezione estetica medievale. Poiché la vera sapienza consiste nella comprensione della divinità del vero, indagato dalla ragione e integralmente posseduto dal cristiano per mezzo della gratuita rivelazione divina, la bellezza appare chiaramente ad Alcuino come una parte della verità, in quanto è riconoscimento, da parte di una ragione educata a misurare e valutare le proporzioni e definizioni della realtà, dell'ordine armonico che Dio ha imposto all'universo creato. L'arte è dunque una forma della razionalità, così come lo sono anche le discipline scientifiche, o 'arti liberali', con le quali l'uomo ricostruisce il vero del creato: esse sono infatti lo strumento adeguato, già scoperto e messo a frutto dai filosofi pagani, per ricostruire o riprodurre, mediante l'intelligenza e le mani dell'uomo, la bellezza e verità delle 'forme' visibili immesse nel creato dall'attività amministratrice del Logos, seconda persona della Trinità, Sapienza di Dio e dunque 'arte' divina nella quale tutte le arti create si riconoscono e si unificano. Amare la sapienza è il fine naturale dell'uomo, da realizzare attraverso l'esercizio delle arti (Disp. de vera philos.; PL, CI, coll. 849-850): la considerazione del bello, come del vero, nelle sue minime forme, fa allora parte in modo essenziale della sapienza, perché conduce attraverso gradi intermedi alla contemplazione stessa di Dio e racchiude in sé una fra le possibilità per l'uomo di appagare il naturale desiderio del bene. Il vero maestro deve gradualmente educare i discepoli a leggere la natura, a conoscere e utilizzare le arti liberali, a saper parlare e poetare, a considerare l'ordine delle stelle nel cielo come se fossero dipinte sul soffitto di una ricca casa affrescata (Ep., 121). Quindi dalla contemplazione delle stelle l'ordine conduce a godere l'armonia e la bellezza del creato con uno sguardo unitario, quindi ad amare Dio, che ne è la causa (Ep., 148, 155). Anche l'interessamento vistoso di A. per il significato simbolico dei numeri nella Sacra Scrittura va inteso come un complemento di questa ricostruzione del disegno armonico con cui Dio ha ordinato l'universo (Ep., 133). L'invito a conseguire questa sapienza estetico-teologica coinvolge ogni uomo, dalla base monastica al vertice imperiale: sapientiae decus è un pregio del sovrano stesso (Ep., 121, 162) ed è proprio al centro dell'educazione di Carlo Magno, rappresentata da A. dialogicamente nel suo De rhetorica et virtutibus, che questo progetto viene proposto come invito per il cristiano a riconoscere in sé le tracce dei valori spirituali eterni che Dio ha impresso nella natura creata (in Halm, 1863, p. 548, 13 ss.). La virtù è infatti la bellezza della natura umana e dunque ritrovare la bellezza, sotto qualsiasi aspetto, significa ritrovare l'immagine divina nell'uomo perduta con il peccato originale (Ep., 148; De animae ratione, 2, PL, CI, col. 639BC). La stessa dottrina è ampiamente sviluppata anche nei Libri Carolini, che fanno appello all'idea di misura per giustificare una venerazione non eccessiva delle immagini sacre. A. non condanna nei suoi scritti il culto delle immagini, né le esteriorità della liturgia, la preziosità dei paramenti o la decorazione ricca delle chiese: soltanto propone in ogni campo la moderazione, in nome della sua idea centrale che la bellezza anche sensibile, se accolta all'interno dell'ordine universale, conduce l'anima a Dio. Similmente invita i monaci a cantare con voce temperata nei cori, per piacere a Dio e non agli uomini (Ep., 114). Dio ha creato la natura in bellezza: deturpare la bellezza creata è sempre peccato e quindi A. rivolge un duro rimprovero a coloro che, mantenendo dopo la conversione al cristianesimo pratiche cultuali di origine pagana, come per es. tatuaggi o cicatrici, o anche soltanto praticando usi e costumi sovrabbondanti, inutili o lussuosi (lunghi capelli, barbe incolte, abiti ridondanti), offendono la dignità esteriore del corpo umano, immagine diretta di Dio (Ep., 3, 16). Anche la dottrina retorica di A. si concentra sulla scelta accurata di parole belle, brillanti e semplici, l'uso di una voce equilibrata e ben articolata, la proporzione nell'andamento del discorso. Il buon retore è il sapiente dotato di buon gusto, colui che cerca come proprio scopo ciò che è conveniente: "quid sibi deceat et suae conveniat causae" (De rhet. et virt., in Halm, 1863, p. 545, 31). Una buona figura retorica deve sempre ricorrere a immagini belle e fuggire la turpitudine e quindi cercare di favorire la venustas della causa, accanto alla dignitas dell'oratore (ivi, p. 544, 14). Il tutto è giocato alla luce di una frase proverbiale fondamentale, di origine classica: ne quid nimis, 'mai troppo', principio che si applica perfettamente, secondo A., a tutti gli ambiti nei quali è valido il discorso estetico, cioè nel campo morale, nel campo retorico, in quello teologico (ivi, pp. 547, 38 - 548, 5). È stato osservato che quest'idea estetica non è soltanto teorica. Leprieur (1905, pp. 346-347) ritiene che essa abbia influenzato ampiamente il programma artistico della scuola di Tours quale si può dedurre dalle opere post-alcuiniane: misura, ordine, importanza degli spazi proporzionati e del contrasto tra bianco e colore, sobrietà ornamentale. La nettezza logica di questo ideale ne garantì l'uniformità nei decenni successivi, cosicché anche se sfugge completamente l'iniziativa concreta di A. come direttore della scuola artistica di Tours, si può parlare realmente di una traccia del suo insegnamento, almeno teorico, nella produzione successiva. L'opera di Alcuino quale teologo può essere classificata come esegetica, morale e dogmatica. Anche in questo campo, il fine principale che perseguì fu quella della conservazione piuttosto che dell'originalità. I suoi nove commentari sulle scritture ("Sulla Genesi", "I Salmi", "Il Cantico dei Cantici", "l'Ecclesiaste", "i Profeti ebrei", "il Vangelo secondo Giovanni", "la Lettera a Tito", "la Lettera a Filemone", "la Lettera agli Ebrei", "i Detti di San Paolo" e "l'Apocalisse") consistono principalmente di frasi tratte dai Padri; l'idea, apparentemente, era di raccogliere in forma conveniente le osservazioni sui più importanti brani scritturali fatte dai migliori commentatori che lo avevano preceduto. La sua più importante opera biblica fu, comunque, la revisione del testo della Vulgata. All'inizio del IX secolo, questa versione era diffusa in molte varianti, anche diverse dall'originale, in tutta Europa. Di fatto, l'uniformità nel testo sacro era sconosciuta. Ogni chiesa e monastero aveva le sue letture e spesso si trovavano testi diversi anche all'interno delle stesse strutture. Anche altri studiosi cercarono di porre rimedio a questa condizione. Teodolfo di Orléans produsse un testo rivisto della Vulgata che è sopravvissuto nel Codex Memmianus. L'opera originale di Alcuino, però, non è giunta ai nostri giorni; la disattenzione di copisti e la vasta diffusione che raggiunse portarono a innumerevoli, anche se, per la maggior parte, di poco conto, variazioni dallo standard che aveva cercato di creare. Nelle sue lettere, Alcuino citava semplicemente il fatto che era stato incaricato da Carlo Magno in emendatione Veteris Novique Testamenti (Epistola, 136). A Tours, esistono quattro Bibbie che si pensa siano state preparate da Alcuino stesso o sotto la sua stretta supervisione, probabilmente tra il 799 e l'801, grazie a delle poesie di dedica che vi sono scritte. Secondo il parere di Berger tutte le "Bibbie di Tours " ricalcano in maggiore o minore grado, nonostante alcuni dettagli, l'originale testo di Alcuino (Hist. de la vulg., 242). In ogni caso, qualunque fossero state le esatte modifiche apportate dal Alcuino al testo della Bibbia, il noto temperamento dell'uomo, non meno che i limiti degli studiosi dell'epoca, rendono certo che questi cambiamenti non furono di ampia portata. L'idea era, sicuramente, quella di riprodurre fedelmente il testo di San Girolamo e, per quanto possibile, di correggere i gravi errori che si erano tramandati nelle Sacre Scritture. Pertanto, da questo punto di vista, il lavoro di Alcuino fu molto importante. Dei tre brevi trattati morali che Alcuino ci ha lasciato, due, il De virtutibus e vitiis" e il De animæ ratione, sono in gran parte arrangiamenti delle opere di Agostino d'Ippona, mentre il terzo, "Sulla Confessione dei Peccati", è una sintetica esposizione sulla natura della confessione, indirizzata ai monaci di San Martino di Tours. Legati agli scritti morali, per spirito e finalità, sono le sue opere sulla vita di San Martino di Tours, San Vedasto, San Riquiero e San Villibrordo, quest'ultima una biografia di notevole lunghezza. La fama di Alcuino come teologo, però, è dovuta principalmente alle sue opere dogmatiche. Avendo percepito l'atteggiamento sostanzialmente eretico di Felice ed Elipando sulla questione cristologica, un atteggiamento la cui eterodossia, inizialmente, era stato nascosta persino ai loro occhi dalla pretestuosa distinzione tra figli naturali e adottivi, Alcuino si erse a campione della Chiesa contro l'eresia adozionista. La condanna della nascente eresia da parte del Sinodo di Regensburg (792), avendo fallito nel controllo della sua diffusione, provocò la convocazione di un altro e più grande sinodo, composto dai rappresentanti delle Chiese di Francia, Italia, Gran Bretagna e Galizia, a Francorte da parte di Carlo nel 794. Alcuino era presente a questo incontro e, senza dubbio, ebbe una parte di rilievo nel dibattito e nella stesura della Epistola Synodica, anche se, con la consueta modestia, nelle sue lettere non ne fornì mai alcuna prova. In base agli atti del Sinodo, Alcuino rivolse a Felice, del quale aveva alta stima, una toccante lettera di ammonimento e di esortazione, alla quale ricevette risposta dopo il suo trasferimento a Tours, nel 796. Nella missiva Felice faceva capire che sarebbe stata necessaria qualcosa di più di una supplica amichevole per fermare l'eresia. Contro gli insegnamenti degli eretici, Alcuino aveva già redatto un piccolo trattato, consistente principalmente in citazioni patristiche, dal titolo Liber Albini contra haeresim Felicis, ma ora intraprese una più ampia e approfondita discussione delle questioni teologiche coinvolte. Questa opera, in sette libri, Libri VII adversus Felicem, era una confutazione delle posizioni adozioniste, piuttosto che l'esposizione della dottrina cattolica e, di conseguenza, seguiva la linea delle loro argomentazioni anziché un rigoroso ordine logico. Alcuino usava contro gli adozionisti l'universale testimonianza dei Padri, le incongruenze insite nella loro stessa dottrina, la sua logica relazione con il nestorianesimo, e lo spirito razionalista che era sempre pronto a chiedere spiegazioni umane per gli imperscrutabili misteri della fede. La disputa tra Alcuino e Felice ebbe luogo nella primavera del 799 nel palazzo reale ad Aquisgrana e si concluse con il riconoscimento da parte di Felice dei suoi errori e la sua accettazione degli insegnamenti della Chiesa. Felice, in seguito, rese una visita amichevole ad Alcuino a Tours. Dopo aver cercato invano la sottomissione di Elipando, Alcuino redasse un altro trattato intitolato Adversus Elipandum Libri IV, incaricando della sua diffusione gli emissari che Carlo Magno aveva inviato in Spagna. Nell'802 inviò all'imperatore l'ultimo e forse il più importante dei suoi trattati teologici, il Libellus de Sancta Trinitate, un'opera in forma particolare, probabilmente suggeritagli durante le dispute con gli adozionisti. Il trattato contiene una breve appendice intitolata De Trinitate ad Fridegisum quaestiones XXVIII. Il libro è un compendio della dottrina cattolica sulla Trinità basato sulle opere di sant'Agostino. Non è certo in quale misura Alcuino condivise gli atteggiamento negativi assunti dalla chiesa franca, su incitazione di Carlo Magno, verso i mal tradotti e malintesi canoni del Concilio di Nicea del 787. Tuttavia, lo stile dei Libri Carolini, che condannavano, in nome del re, i canoni del concilio, porta a favorire l'ipotesi che Alcuino non abbia partecipato direttamente alla loro stesura.