Lavoro ipertestuale di
Francesca De Bernardi e Valeria Salandini
Beda il Venerabile fu uno degli uomini più colti
del suo tempo (Inghilterra, 672; † 25 maggio 735) ; è
stato un presbitero, monaco e dottore della Chiesa
inglese.
È famoso come studioso e autore di numerose
opere, tra le quali la più conosciuta è la Historia
ecclesiastica gentis Anglorum ("Storia ecclesiastica del
popolo inglese"), che gli è valsa il titolo di Padre
della storia inglese.
Scrisse su molti altri argomenti, dalla musica alla
poesia, ai commentari biblici.
E’ stato dichiarato santo e dottore della Chiesa dalla
Chiesa cattolica. La memoria liturgica è il 25
maggio (precedentemente era il 27 maggio).
Scrisse su molti altri argomenti, dalla musica alla
poesia, ai commentari biblici.
È citato da Dante Alighieri nella Divina Commedia.
Quasi tutto ciò che conosciamo della vita di
Beda è quanto è stato raccontato da lui stesso
nella sua Historia.
Nato a Jarrow o a Wearmouth Northumberland - nel 672 o 673 e vissuto fino
al 735 a Jarrow (oggi nella contea
metropolitana di Tyne and Wear) è
festeggiato il 27 maggio.
Entrato nel monastero di Wearmouth all'età di
7 anni, divenne Diacono a 19 anni e presbitero
a 30. Non è chiaro se fosse di famiglia nobile.
Fu educato dagli Abati Benedetto Biscop e
Ceolfrid, e probabilmente fu quest'ultimo ad
accompagnarlo a Jarrow nel 682. Qui trascorse
il resto della sua vita dividendo il suo tempo
tra lo studio, l'insegnamento, lo scrivere e lo
zelo nell'assolvimento della vita monastica.
Liber chronicarum – 1493
di Hartmann Schedel
(Norimberga 1440-1514)
Beda divenne il Venerabile Beda subito dopo la sua
morte, ma non fu dichiarato Santo dalla Chiesa di
Roma.
La sua importanza per la Religione Cattolica fu
pienamente riconosciuta solo nel 1899, quando Papa
Leone XIII lo dichiarò Dottore della Chiesa (festa il 25
maggio), con il nome di San Beda il Venerabile.
Le sue spoglie riposano nella cattedrale di Durham.
C’è una leggenda che riguarda il modo in cui gli fu
attribuito il titolo di venerabile, all’epoca appellativo
conferito ai religiosi come segno di riguardo. Un
sacerdote, volendo mettere un’iscrizione sulla tomba
di Beda, non trovò parole adatte e lasciò lo spazio
vuoto. Allora di notte scese un angelo e scrisse
venerabilis. Beda viene anche citato da Dante nella
Divina Commedia, (Paradiso, canto X). Si dice che il
santo morì mentre dettava le ultime parole della sua
traduzione del vangelo secondo Giovanni.
E’ autore della Historia ecclesiastica gentis Anglorum, che tratta della
conversione dell’Inghilterra al cristianesimo, oltre che della storia di
quel paese (trattata più avanti).
Gli scritti di Beda mostrano chiaramente la sua profonda conoscenza del
suo tempo e del passato, conoscenza ottenuta dalla lettura dei volumi
della biblioteca di Wearmouth-Jarrow, che conteneva dai 300 ai 500
volumi e che era tra le più grandi d'Inghilterra.
Durante i suoi lunghi viaggi come Vescovo si impegnò nella ricerca ed
acquisizione di nuovi libri.
Fu un grande esperto in Letteratura Patristica, e nei suoi scritti si
ritrovano citazioni di Plinio il Giovane, Virgilio, Lucrezio, Ovidio,
Orazio e di altri autori classici.
Conosceva il greco e un po' di ebraico. Il suo latino è semplice e privo di
affettazione, ed era utilizzato con l'abilità di un narratore.
Beda utilizzava il metodo di interpretazione allegorica della Bibbia, ed
aveva un atteggiamento abbastanza moderno di fronte
all'interpretazione dei miracoli. Appariva dotato nella maggior parte
delle cose di molto buon senso, era simpatico, aveva amore della verità e
dell'imparzialità, sincera pietà e devozione al servizio degli altri.
Gli scritti di Beda possono essere classificati in scientifici,
storici e teologici.
Tra gli scritti scientifici troviamo trattati di grammatica,
scritti per i suoi allievi, un lavoro sui fenomeni naturali (De
Rerum Natura, "Sulla natura delle cose") e due sulla
cronologia (De temporibus, "Sui Tempi", e De temporum
ratione, "Sul significato dei tempi").
Beda fece anche un calcolo approssimato dell'età della
Terra, ed iniziò a dividere gli anni in prima di Cristo e
dopo Cristo.
Scrisse che la Terra è rotonda "come una palla da gioco", in
contrasto con l'opinione corrente di una terra rotonda ma
piatta.
Il più importante e meglio conosciuto dei suoi lavori, che è uno
dei documenti storici più importanti anche dell’epoca
altomedievale, è la Historia ecclesiastica gentis Anglorum, scritta
in cinque libri, per un totale di circa 400 pagine, sulla storia
dell'Inghilterra, sia dal punto di vista politico che ecclesiastico,
dal tempo di Cesare alla data di composizione (731).
I primi 21 capitoli trattano del periodo precedente alla
missione di Sant'Angostino di Canterbury, e furono scritti a
partire dalle opere di altri autori, quali Paolo Orosio,Gildas,
Prospero di Aquitania. Beda tenne presenti anche le lettere di
Gregorio Magno e altri scritti, includendo anche leggende e
tradizioni.
Per il periodo dopo il 596 Beda usò documenti verificati con
grande fatica e testimonianze orali, queste ultime utilizzate con
approfondite considerazioni sul loro valore.
Beda documentava i suoi riferimenti e soprattutto citava le fonti
delle sue fonti, creando un'importante catena storica.
A Beda si deve l'invenzione dell'annotazione a piè di pagina.
Proprio a causa dell'annotazione a piè di pagina fu accusato di
eresia dal Vescovo Wilfred. L'accusa era di aver calcolato male
l'età della Terra: la sua cronologia non rispettava il calcolo del
tempo, ed era collegata all'annotazione, in quanto Beda aveva
citato un'altra fonte in una nota, piuttosto che una propria
opinione, mostrando di aver interpretato in maniera differente
dagli altri la fonte citata in nota.
Tra le sue opere si ricordano: De orthographia, glossario
alfabetico; il trattato De metrica arte; De temporibus, sui principi
per determinare la data della Pasqua secondo l'uso romano
adottato dal Sinodo di Whitby (664) con una cronaca delle sei età
del mondo tratta da Sant'Isidoro; De temporum ratione (725) sugli
eventi dall'incarnazione di Cristo; e infine De natura rerum (forse
725), un’opera enciclopedica, scritta ispirandosi alla Storia
naturale di Plinio, organizzata in 51 capitoli, in cui si espongono,
sul modello delle Etymologiae di Isidoro di Siviglia, ma con
ampiezza ancora maggiore, notizie di carattere scientifico,
storico, geografico.
Tali opere, che ebbero vasta diffusione nel medioevo, insieme ai
testi sul computo del tempo (il De temporibus liber), sulle arti
del trivio(De arte metrica e De orthographia), oltre a scritti di
carattere agiografico e poetico, contribuirono a rendere celebre la
figura del monaco anglosassone anche nei secoli successivi.
Appassionato della Bibbia, al cui studio dedicò l’intera
esistenza, arrivò a scrivere perfino alcuni commenti e
sostenne che la verità risiede soltanto nella loro corretta
interpretazione.
La sua edizione della Bibbia fu molto importante, e fu
utilizzata dalla Chiesa fino al 1966. Quest'opera non è la
copia di una precedente versione ma è il risultato di molte
ricerche per ciascuno dei libri della Bibbia.
Suoi altri lavori importanti sono le vite degli Abati di
Wermouth e Jarrow, e le vite in versi e in prosa di San
Cutberto di Lindisfarne.
La maggior parte dei suoi scritti è di tipo teologico, e
consiste in commentari di libri dell'Antico e del Nuovo
Testamento, omelie e trattati su brani della Sacra Scrittura.
Lasciò pure scritti esegetici sull'Apocalisse, Atti,
Epistole, Luca, Samuele, Marco, i Re, Genesi 1-20, Esdra
e Neemia, Esodo 24,12-30 e 21, il Cantico dei Cantici e
Tobia, ispirati da Sant'Agostino, San Girolamo,
Sant'Ambrogio e San Gregorio.
Tra le opere storiche scrisse una storia del suo
monastero dal 681 al 716, che va sotto il nome di
Historia abbatum; in versi De miraculis Sancti Cuthberti e
in prosa De vita et miraculis Sancti Cuthberti, episcopi
Lindisfarnensis.
Beda influenzò largamente la cultura del suo tempo e,
attraverso Alcuino, innestò la cultura anglosassone
nella civiltà carolingia prima e in quella europea poi.
Il suo ultimo lavoro, completato sul letto di morte, fu la
traduzione in lingua anglosassone del Vangelo secondo
Giovanni.
Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (Roma, 475 – Pavia, 25
ottobre 525) è stato un filosofo romano. Noto come Severino
Boezio, o ancor più semplicemente come Boezio, le sue opere
influenzarono notevolmente la filosofia cristiana del Medioevo,
tanto che alcuni lo collocano tra i fondatori della Scolastica (la
filosofia cristiana medioevale). La Chiesa cattolica lo venera come
santo e martire, festeggiandone la ricorrenza il 23 ottobre.
Filosofo, poeta e politico, Boezio visse a Roma dal 480 al 524 d.C..
Figlio di un console, fu discepolo di Simmaco, colto patrizio romano, che si
prese cura dell’educazione del giovane, dandogli anche in sposa la propria
figlia. Durante il periodo di presenza gota in Italia, Boezio si dimostrò il tipico
rappresentante di quella nobiltà colta latina che appoggiò il re Teodorico nel
tentativo di realizzare un’equilibrata convivenza tra il popolo goto e quello
romano.
Collaborò con Teodorico, il quale gli affidò incarichi importanti e delicati: fu
console nel 510 e principe del Senato. Il re goto aveva l’ambizione di creare
contatti con l’impero romano d’Oriente e di catalizzare l’Occidente sotto la sua
egemonia, ma nel timore che la nobiltà romana e il vescovo di Roma tramassero
con l’imperatore d’Oriente contro di lui mutò politica.
Un certo Cipriano accusò ingiustamente Boezio , che era rimasto legato
all'antica grandezza romana più che al potere ostrogoto, adducendogli prove
false di tradimento per contrasti politici e religiosi. Teodorico, senza neppure
ascoltarlo, lo condannò a morte.
Accusato di tradimento, fu imprigionato a Pavia e decapitato nel 524. Il suo
corpo mutilato fu sepolto nella basilica di S. Pietro in Ciel d'Oro ("Cieldauro") a
Pavia: tutto il Medioevo lo considerò non solo cristiano (non è certo, tuttavia,
che sia stato battezzato), ma anche martire degli intrighi politici.
Severino Boezio fu uno dei più illustri uomini di
cultura del suo tempo. Era definito al tempo
stesso l’ultimo dei Romani e il precursore della
Scolastica, per la funzione che svolse di mediatore
fra il pensiero classico, romano e greco, ed il
nascente pensiero cristiano medievale.
Si può suddividere la vasta produzione boeziana, in
massima parte perduta, in scritti di Logica, Traduzioni e
commenti da Aristotele, Pitagora, Tolomeo, Euclide,
Archimede e altri filosofi greci assicurando la continuità
fra il pensiero antico e quello medievale, e trattati come
il De Divisione e Sui Sillogismi, basilari per lo sviluppo
successivo della filosofia.
Negli anni 502-507 Boezio aveva composto trattati
“scientifici”, sulle arti del Quadrivium”: De Institutione
Aritmetica, Musica, Geometrica, Astronomica (perduta).
Fra il 521 e il 522 compone trattati teologici, il più
famoso è il De Sancta Trinitate.
Lo scritto però più rilevante che gli darà fama
attraverso i secoli è il De Consolatione Philosophiae.
E’ nel periodo trascorso in carcere, l’ultimo della sua
vita (fra il 523 e il 524 d.C.), che Severino Boezio
scrisse la questa sua opera che oggi è considerata uno
degli ultimi frutti della cultura greco-romana.
Boezio riprende un genere letterario notevolmente
diffuso nell’antichità trasmettendolo e favorendone la
diffusione nel Medioevo.
Questo genere letterario è “la consolazione filosofica”
che invita chi si trovava in situazione difficile ad
andare oltre i propri problemi e tormenti.
Sono due i personaggi fantastici che lo consolano in
carcere: Filosofia e Fortuna. Sarà specialmente la
prima, che gli si presenta nelle sembianze fantastiche
di una bella e maestosa dama, a interrogare, a far
ragionare e a consolare il prigioniero suo discepolo.
A Boezio che si lamenta di essere
stato condannato all’esilio per
aver difeso l’innocenza dei
senatori e per le falsità dette
contro di lui, Filosofia risponde:
“Condannato all’esilio? Nessuno
può dirsi in esilio quando è con se
stesso. Non mi impressiona l’aspetto
del luogo in cui ti trovo, ma lo stato
del tuo spirito”.
Boezio in prigione, miniatura, 1385.
Isidoro di Siviglia (Cartagena, 560 circa –
Siviglia, 4 Aprile 636), ultimo dei Padri latini,
ricapitola in sè tutto il retaggio di acquisizioni
dottrinali e culturali che l'epoca dei Padri della
Chiesa ha trasmesso ai secoli futuri. Scrittore
enciclopedico, Isidoro fu molto letto nel
medioevo, soprattutto per le sue Etymologiae, , un'utile "somma"
della scienza antica, della quale con più zelo che spirito critico
condensò i principali risultati. Questo volgarizzatore dotatissimo
della scienza antica, che avrebbe esercitato su tutta la cultura
medioevale un influsso considerevole, era soprattutto un vescovo
zelante preoccupato della maturazione culturale e morale del clero
spagnolo. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica che lo
considera Dottore della Chiesa. Viene festeggiato il 4 Aprile,
giorno della sua morte.
Si ignora la data esatta della nascita di Isidoro di Siviglia, forse
avvenuta intorno all’anno 536. Nacque a Cartagena in una
famiglia ispano-romana da Severiano, un notabile cartaginese,
e Turtura. Era il quarto di cinque fratelli, di cui quattro sono
venerati come santi dalla Chiesa cattolica: Leandro, Fulgenzio,
Fiorentina e lo stesso Isidoro.
Egli rimase ben presto orfano e la responsabilità della sua
educazione fu affidata ai fratelli maggiori, Fiorentina e
Leandro.
Finì, piccolissimo, in uno dei monasteri della zona, dove
maturò una profonda conoscenza degli scrittori latini. Il futuro
dottore della Chiesa, autore di una immensa mole di libri che
trattano di tutto lo scibile umano, dall'agronomia alla medicina,
dalla teologia all'economia domestica, fu dapprima uno
studente svogliato e poco propenso a stare chino sui libri di
scuola. Come tanti coetanei marinava la scuola e vagava per la
campagna.
Un giorno si accostò a un pozzo per dissetarsi e notò dei
profondi solchi scavati dalla fragile corda sulla dura pietra del
bordo. Comprese allora che anche la costanza e la volontà
dell'uomo possono aver ragione dei più duri scogli della vita.
Tornò con rinnovato amore ai suoi libri e progredì tanto
avanti nello studio da meritare la reputazione di uomo più
sapiente del suo tempo. L’esperienza monastica contribuì a
render chiaro all’Isidoro dell’età matura, come la questione
dell’istruzione fosse di capitale
importanza per il clero: a questo
proposito, Isidoro, fondò a Siviglia un
collegio per l’istruzione dei giovani
ecclesiastici e stabilì che simili istituti
dovessero esistere in ciascuna diocesi.
Isidoro succedette al fratello Leandro
nel governo episcopale dell'importante
arcidiocesi di Siviglia nell'Andalusia in
Spagna .
Come il fratello, sarebbe stato il vescovo più popolare
e autorevole della sua epoca. Particolarmente intensa fu
l’attività in ambito pastorale, che portò alla conversione
dei goti e lo vide opporsi frontalmente all’eresia ariana.
Convocò e presiedette i concili di Toledo (633) - a
tutt’oggi annoverabile fra i più importanti fra quelli
tenutisi nella penisola iberica - e Siviglia (619 e 625), nei
quali vennero dibattute, fra l’altro, questioni
amministrative (legate ai confini diocesani) e teologiche
(la repressione dell’eresia monofisita). Formatosi alla
lettura di S. Agostino e S. Gregorio Magno, pur senza
avere la vigoria di un Boezio o il senso organizzativo di
un Cassiodoro, con essi Isidoro condivide la gloria di
essere stato il maestro dell'Europa medievale e il primo
organizzatore della cultura cristiana.
Un'amena leggenda racconta che nel
primo mese di vita uno sciame d'api,
invasa la sua culla, depositasse sulle
labbra del piccolo Isidoro un rivoletto
di miele, come auspicio del dolce e
sostanzioso insegnamento che da quelle
labbra sarebbe un giorno sgorgato.
Sapienza, mai disgiunta da profonda
umiltà e carità, gli hanno meritato il titolo
di "doctor egregius" e l'aureola di santo.
Isidoro può certamente essere considerato il più grande
erudito del suo tempo, e principalmente a lui si deve rifiorire
degli studi nel regno visigotico di Spagna. I suoi interessi
culturali abbracciano tutto il campo dello scibile di quei tempi:
le arti liberali, il diritto, la medicina, le scienze naturali, la
storia, la teologia dogmatica e morale. La sua immensa
produzione letteraria ha però risentito di questa vastità di
interessi e denuncia una mancanza di originalità e profondità,
riducendosi il più delle volte a puri compendi o antologie.
Tutto questo però nulla toglie all’importanza dell’opera che ha
contribuito come poche altre ad operare la sintesi tra
romanesimo e germanesimo, permettendo la ricostruzione un
linguaggio comune fra uomini diversi e costituendo una fonte
privilegiata per la conoscenza di molte opere antiche andate
perdute.
Il termine enciclopedismo, coniato su
una espressione greca che significa
“istruzione circolare”, indica un sistema
didattico comprendente tutte quelle
discipline in grado di fornire una
preparazione completa. L’idea di una
struttura sistematica dei vari rami del
sapere, già presente nell’Etica
nicomachea di Aristotele, ricompare
nella prima metà del V sec. nel “De
nuptiis Mercurii et Philologiae” di
Marziano Capella, che fissa nel numero
di sette le arti liberali, fornendo una
sistematica del sapere destinata ad avere
enorme influenza in tutto il Medioevo.
Elenchi delle opere di Isidoro sono stati
stilati da Braulione di Saragozza ed
Ildefornso di Toledo.
Oltre alle Etymologiae, probabilmente il testo isidoriano
più famoso, vanno ricordate le Allegoriae, in cui sono
raccolte brevissime spiegazioni (di carattere spirituale) di
espressioni e nomi biblici: ; il De ortu et obitu Patrum qui in
scriptura Laudibus efferuntur, raccolta di brevi biografie di
personaggi biblici; varie opere in cui si elaborano in
chiave mistica i numeri ed i principali avvenimenti
presenti nelle sacre scritture; un manuale di dottrina,
ispirato ad Agostino e Gregorio Magno, nel quale fra
l’altro, si ripercorre la storia dell’umanità a partire dalla
creazione e si trattano i temi della Grazia, delle
condizioni della vita terrestre dell’uomo e del diritto
naturale; il De ecclesiasticis officiis, descrizione delle
funzioni ecclesiastiche della chiesa gotica del VII sec. ;il
De ordine creaturarum, in cui Isidoro espone la gerarchia
degli esseri spirituali, secondo il modello neoplatonico; il
De natura rerum, in cui si tratta di astronomia
meteorologia alla maniera delle senecane Naturales
quaestiones; il Chronicon, sulle sei età del mondo, dalla
creazione al 616
le Historiae, preziosa
fonte per la
ricostruzione della
storia della Spagna
visigotica, con appendici
su Vandali e Svevi; la
Regula monachorum,
riassunto della
letteratura patristica
intorno a varie questioni
di organizzazione della
vita monastica; infine le
Epistolae.
Come detto, i venti libri delle Etymologiae costituiscono
l’opera isidoriana di maggiore rilievo, in cui è condensato
tutto il sapere del passato a partire dalle arti liberali, a cui si
vanno ad aggiungere la medicina, le leggi e la storia, i libri e
gli uffici ecclesiastici, la teologia, argomenti concernenti la
Chiesa e le sette, le lingue, i popoli, i regni e le parentele, le
parole rare, l’uomo e i mostri, gli animali, il mondo e le sue
parti, la terra e le sue parti, gli edifici, i campi e le strade, le
pietre ed i metalli, l’agricoltura, la guerra ed i giochi, le navi,
le costruzioni ed i costumi, gli utensili ecc. La struttura di
quest’opera, così flessibile da consentire ad Isidoro di
raccogliere dati in qualsiasi contesto e direzione, è quella di
un lessico: si parte da una vox, la cui spiegazione (che può
essere
“secundum naturam” o “secundum propositum”) facilita
la comprensione della res a cui fa riferimento: sebbene
molte delle etimologie in esso individuate possano
risultare arbitrarie e l’opera non abbia carattere di
originalità, la sua importanza all’intero di un contesto
culturale fortemente deteriorato fu molto grande. Isidoro
non celò mai il carattere riassuntivo delle sue opere,
inserendo in genere una piccola premessa che indicava al
lettore che ciò che stava leggendo era materiale proposto
(senza alcun arbitrio), al vaglio
critico del lettore, al quale era
anche affidata la possibilità di
correggerlo qualora ne avesse
avvertito la necessità.
Gran parte delle Etymologiae è riservata a ricerche di
carattere grammaticale, ma in esse non è trascurato
neppure ciò che può risultare utile ad acquisire una
educazione filosofico-teologica: vi si trovano infatti
estratti desunti dalle opere di scrittori classici e dai
padri della Chiesa (in particolare Gregorio Magno).
Isidoro non si prefigge il compito di dare al lettore una
conoscenza approfondita delle materie trattate,
preoccupandosi piuttosto di fornire un prezioso
strumento di orientamento.
Ecco alcune importanti citazioni tratte da questa opera:
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Sono le lingue che fanno i popoli, non i popoli già
costituiti che fanno le lingue.
Ex linguis gentes, non ex gentibus linguae exortae sunt.
Diavolo in ebraico significa colui che cade in basso
poiché rifiutò di rimanere al suo posto nel culmine del
cielo ma per il peso della superbia cadde precipitando in
basso.
Dio non ha fatto tutte le cose dal nulla, ma alcune da
qualcosa, altre invece dal nulla. Dal nulla egli ha creato il
mondo, l'angelo e le anime.
Gli angeli sono stati fatti prima di ogni creatura quando
fu detto: Sia la luce.
La materia è stata fatta dal nulla.
Parte della critica ha sostenuto l’artificiosità di una lettura
dell’opera di Isidoro che separasse il piano teologico/spirituale
da quello scientifico/filosofico: a questo proposito è interessante
notare come Isidoro, nell’VIII libro delle “Etymologiae”, dedicato
alla storia della Chiesa ed alle “sectae” o eresie che hanno
portato scompiglio e divisione in essa, inserisca una trattazione
della filosofia. Proprio alla fine della sezione riservata alle sette
fa seguito la parte di testo in cui Isidoro si occupa dei filosofi:
essi sono portatori di divisioni ed opinioni molteplici nella
conoscenza, così come gli eretici lo sono nelle questioni di fede.
Il metodo seguito da Isidoro è pertanto funzionale alla codifica
di un manuale sintetico della “scientia vera”: conoscere il nome
significa accostarsi all’essenza della cosa, dunque più sono i
nomi conosciuti e maggiore è l’orizzonte di comprensione
dell’uomo, che risulta così in
grado di meglio percepire il
significato della creazione. La
filosofia – in questa
prospettiva - è definita, con
gli Stoici, come “la scienza
delle cose umane e divine”,
ed è divisa in fisica, etica e
logica, una concezione
destinata a venire messa in
crisi solo nell’età dei maestri
parigini (XII sec.).
L'attenzione per una forma di conoscenza che si fondi sul
linguaggio è testimoniata anche da altre opere di Isodoro, in
primis le Differentiae. Nel primo libro intitolato Differentiae
verborum sono enumerate alfabeticamente 610 differenze fra i
termini o concetti, (come ad esempio “aptum” ed “utile”),
mentre nel secondo libro, Differentiae rerum, diviso in 40
sezioni e 170 paragrafi, sono poste in evidenza le differenze fra
le cose o gli oggetti (come per esempio fra “Deus” e
“Dominus”): si stabilisce in questa maniera una vera e propria
corrispondenza fra diversi piani del conoscibile, a tutto
vantaggio della capacità umana di percepire l’articolazione
della realtà: si tratta di una impostazione grammaticale di tipo
platonico, in cui il mondo delle forme è rappresentato dal
lessico ed i nomi esprimono direttamente l’essenza delle cose.
In linea di sostanziale continuità con le “Differentiae” si
collocano i Synonyma, de lamentatione animae
peccatricis, una sorta di dialogo fra l’uomo e la sua
stessa ragione, giocato sulla capacità evocativa degli
espedienti retorici tipici della cultura monastica del
periodo: ripetizioni, enigmi ed altri giochi versificatori.
Isidoro èun convinto assertore della corrispondenza fra
il piano del linguaggio quello del reale, e considera lo
studio etimologico del lessico come la chiave d’accesso
privilegiata alla conoscenza delle cose. Una concezione
simile verrà ripresa e sviluppata, nel corso del XII sec.,
da Teodorico di Chartres, secondo il quale i nomi e le
forme essenziali delle cose - uniti nella mente divina –
sono legati da un vincolo di dipendenza reciproca.
Parti dell’impianto teorico isidoriano sono state recuperate
nel corso del Medioevo, specialmente nel novero dei
dibattiti sorti intorno a due importanti questioni
dottrinarie, concernenti la predestinazione e la
transustanziazione. Per quanto riguarda la prima di esse, è
necessario osservare come il monaco Godescalco di Orbais
- che aveva desunto dalle Differentiae di Isidoro il concetto
di “gemina praedestinatio” - utilizzi una strategia
argomentativa piuttosto vicina a quella del vescovo di
Siviglia, fondata sull’utilizzo della grammatica come
strumento in grado di meglio evidenziare la tensione
esistente fra l’indicibile semplicità divina e la molteplicità
del mondo creaturale. Le tesi da questi sostenute, furono
ritenute da Rabano Mauro e successivamente da Incmaro
di Reims vicine a quelle dei seguaci della dottrina dualista
già combattuta da Agostino.
L’argomentazione di Incmaro ontro le tesi di Godescalco
risulta del tutto priva di forza nei confronti di Isidoro: in
primo luogo in virtù della netta distinzione operata da
quest’ultimo fra predestinazione al peccato e
predestinazione alla dannazione eterna, quindi a causa
della stessa forma singolare che designa il concetto di
“gemina praedestinatio”; fu proprio grazie al recupero
di quest’istanza della dottrina di Isidoro che Godescalco
riuscì ad evitare l’accusa di dualismo.
Il dibattito intorno alla predestinazione era tuttavia soltanto
appena all’inizio, ed il suo crescere di intensità (dovuto anche
alla condotta del monaco, che assunse posizioni di rottura in
merito a diverse questioni teologiche) non fece altro che
allargare l’ambito della polemica. Anche la posizione di
Isidoro in merito a questioni inerenti la transustanziazione
(intesa in senso metastorico), è indubbiamente al riparo da
qualsivoglia argomento, in quanto ha dalla sua, oltre a ragioni
meramente storico-cronologiche, (di fatto il dibattito sul
realismo dell’eucaristia è figlio della querelle che coinvolge
verso la metà del X secolo il monaco Ratramno di Corbie e
l’abate Pascasio Radberto), anche la lettera delle sue opere, in
cui si fa più volte esplicito riferimento alla reale presenza del
corpo e del sangue di Cristo nel novero del sacramento
eucaristico. Questa posizione, può dirsi senz’altro in accordo
con le tesi del sostanzialismo eucaristico sostenute da
Radberto.
Alcuino (anglosass. Ealhwine) di York (York,
Regno di Northumbria 735 - Tours 19 maggio
804), è stato un filosofo e teologo britannico. Il
suo insegnamento, ispirato alla riscoperta
della cultura classica, divenne fondamentale
per la riorganizzazione del sistema scolastico
di tutto l'Impero e contribuì alla rinascita
carolingia: insegnò soprattutto grammatica e
arti liberali, improntando il suo magistero a
una pedagogia di tipo dialettico.
Alcuino (nome che significa “amico del
tempio”) proveniva da una nobile
famiglia di Northumbria, alla quale
appartenne anche s. Willibrord
(Bonifacio). Il suo luogo di nascita è
questione controversa. Probabilmente,
però, nacque a York o nelle immediate
vicinanze intorno al 735 . Mentre era
ancora bambino, entrò nella scuola della
cattedrale ivi fondata dall'arcivescovo
Egberto, dove studiò il greco, l'ebraico, la
grammatica e la retorica. La sua attitudine
presto attirò l'attenzione di Aelberto,
maestro nella scuola, nonché quella
dell'arcivescovo, che dedicarono
particolare attenzione alla sua istruzione.
Da giovane, in compagnia del suo maestro, fece numerose visite
in continente. Quando nel 767, Aelberto subentrò come diacono
nella sede di York, il compito di dirigere la scuola fu naturalmente
devoluto ad Alcuino. La leggenda che fa di A. un discepolo diretto
di Beda, diffusa già in tarda età carolingia - il primo a raccontarla
fu Notkero Balbo (m. 912) nei Gesta Karoli (PL, XCVIII, col.
1373AB) - testimonia il desiderio di stabilire una continuità
culturale tra i principali momenti della rinascita europea dopo
l'era delle grandi invasioni. Durante i quindici anni che seguirono
si dedicò alla scuola di York attirandovi numerosi studenti e
arricchendone la già preziosa biblioteca. Si recò a Roma in cerca
di libri per la biblioteca della scuola e, di ritorno, nel marzo 781,
incontrò Carlo Magno a Parma. Qui fu invitato dal principe, che
ammirava grandemente, a trasferirsi in Francia e stabilirsi a corte
come "Maestro della Scuola Palatina". Seguendo l'usanza in voga
presso i sapienti della corte, Alcuino sostituì al proprio nome
anglosassone (Alhwin o Alchwine) la forma latinizzante Albinus,
cui accostò lo pseudonimo accademico Horatius Flaccus.
La scuola rimase ad Aquisgrana per la maggior parte del tempo, ma si
mosse di luogo in luogo, seguendo la residenza reale. Nel 786,
Alcuino ritornò in Inghilterra a causa, a quanto pare, di importanti
affari ecclesiastici e nuovamente, nel 790, in missione per conto di
Carlo Magno.
Nel 794, Alcuino partecipò al Concilio di Francoforte, dove ebbe una
parte molto importante nella definizione dei decreti di condanna
dell'Adozionismo nonché negli sforzi compiuti successivamente per
la sottomissione dei recalcitranti prelati spagnoli.
Nel 796, dopo aver compiuto il suo sessantesimo compleanno,
ansioso di ritirarsi dal mondo, fu nominato da Carlo Magno Abate di
San Martino a Tours. Qui, nella sua vecchiaia, ma con immutato
slancio, si dedicò alla costruzione di una scuola monastica modello,
raccogliendo libri e attirando studenti, come aveva fatto in
precedenza a York e ad Aquisgrana; indicando, tra l'altro, ai suoi
confratelli che «fodere quam vites melius est scribere libros», cioè che
la via del sapere è migliore di quella dell'agricoltore cui indulgeva
ancora una parte piuttosto ampia del movimento monastico.
Poiché nelle sue lettere amava definirsi Albinus, humilis Levita,
alcuni studiosi sono convinti che Alcuino sia stato solo un semplice
diacono, mentre altri suppongono che in età ormai avanzata sia
diventato sacerdote. Il suo sconosciuto biografo, nel descrivere
l'ultimo periodo della sua vita, diceva di lui, celebrabat omni die
missarum solemnia (Jaffé, Mon. Alcuin Vita, 30).
Divenne stretto collaboratore del sovrano nel suo impegno
per la riorganizzazione politica, ecclesiastica e culturale del
mondo franco. Trasferitosi a corte nel 782, prese parte
attivamente al dibattito intorno a questioni inerenti la
teologia e svolse anche incarichi politici. Fu lui stesso
probabilmente il redattore dei documenti imperiali
finalizzati a varare ufficialmente il programma della riforma
culturale, in particolare della famosa
Admonitio generalis dell'anno 789 (MGH.
LL, II, Capit. reg. Fr. I, 22). È ricordato dai
contemporanei (per es. da Eginardo, Vita
Karoli; PL, XCVII, coll. 49B-50A) come
maestro di Carlo medesimo e al suo
insegnamento attinsero nobili e
personaggi illustri della corte carolingia,
che spesso divennero poi destinatari del
suo ricco epistolario. Alcuino contribuì
personalmente alla fondazione e al
successo della schola palatina.
In una delle sue ultime lettere, Alcuino
accettava il dono di una casula, che prometteva
di utilizzare nelle missarum solemniis (Ep.
203). È probabile che egli fosse un monaco
benedettino, fatto anche questo contestato,
poiché alcuni storici hanno supposto che fosse
semplicemente membro del clero secolare,
anche quando esercitava l'ufficio di abate a
Tours. Tra il 799 e l'801 attese a una globale
revisione del testo della Bibbia, quindi a un
riordinamento del Sacramentario Gregoriano.
Morì nell’804.
Della sua opera di educatore e studioso si può dire, in generale,
che si inquadrava per la maggior parte nel movimento per la
rinascita degli studi che distinse l'età in cui visse e che rese
possibile la grande rinascita intellettuale di tre secoli dopo. Con
lui la scuola anglosassone raggiunse la massima influenza. La
ricca eredità intellettuale lasciata da Beda il Venerabile a Jarrow
fu ripresa da Alcuino a York e, attraverso le sue opere nel
continente, divenne propria della civilizzata Europa.
Le influenze che subì Alcuino a York derivavano principalmente
da due fonti: irlandese e continentale. Dal sesto secolo in poi gli
irlandesi furono impegnati a fondare scuole chiese e monasteri in
tutta Europa; e da Iona, secondo Beda, Aidan ed altri missionari
celtici portarono la conoscenza dei classici e la fede cristiana in
Northumbria. Tuttavia, la scuola celtica contribuì solo
indirettamente alla formazione di Alcuino.
La forte caratterizzazione romana che aveva imbevuto la Scuola
di Canterbury, fondata da Teodoro e da Adriano, inviati dal
Papa in Inghilterra nel 669, si riproponeva naturalmente nella
Scuola di Jarrow e da questa, a sua volta, nella scuola di York.
L'influenza è ben visibile in Alcuino, sia sul lato religioso, per la
sua adesione alla tradizione romana, come pure sul lato
intellettuale per il fatto che la sua conoscenza del greco, materia
prediletta dagli studiosi irlandesi, sembra essere stata molto
approssimativa. Una caratteristica importante del lavoro di
educatore svolto da Alcuino a York fu la cura e la
conservazione, nonché l'ampliamento, della sua preziosa
preziosa biblioteca. Intraprese, infatti molti
viaggi attraverso l'Europa con il solo scopo di
copiare e raccogliere libri. Riunì intorno a se
anche numerosi allievi provenienti da tutte le
parti d'Inghilterra e da tutto il continente
europeo. Nel suo componimento "Sui santi della
Chiesa di York" scritto, probabilmente, prima di
trasferirsi in Francia, ci ha lasciato una preziosa
descrizione della vita accademica a York,
insieme ad un elenco degli autori presenti nella sua
raccolta di libri. Il corso di studi abbracciava, secondo le
parole di Alcuino, "le arti liberali e le sacre scritture",
ovvero le sette arti liberali, che comprendevano il trivium e
il quadrivium, e lo studio delle Scritture e dei Padri per gli
studenti più avanzati.
Una caratteristica della scuola che merita di essere citata
era la moderna organizzazione degli studi; gli studenti
erano separati in classi, secondo gli argomenti e i soggetti
studiati, con un insegnante per ogni classe. Ma fu
solamente quando assunse l'incarico presso la Schola
Palatina che le abilità di Alcuino risaltarono
maggiormente. Nonostante l'influenza di York, in
Inghilterra la cultura era in declino. Il paese era scosso da
contrasti e da guerre civili, e Alcuino percepì nella
crescente potenza di Carlo Magno e nel suo desiderio per
lo sviluppo della cultura un'opportunità che neanche York,
con tutta la sua preminenza, poteva permettersi. Non
rimase deluso. Carlo contava sull'educazione per
completare l'opera di costruzione del suo impero e la sua
mente era piena di progetti educativi.
Una rinascita letteraria, in realtà, era già iniziata. Giunsero ad
Aquisgrana studiosi provenienti da Italia, Germania e Irlanda e,
quando nel 782 Alcuino si trasferì presso Carlo Magno, presto,
insieme ai giovani membri della nobiltà che era stato chiamato a
istruire, si trovò circondato da un gruppo di studenti più anziani,
alcuni dei quali erano considerati tra i migliori studiosi del
tempo. La figura di Alcuino si colloca nel contesto della
cosiddetta rinascenza carolingia: egli fu infatti il grande
esecutore del progetto politico elaborato da Carlomagno e il
prototipo di una nuova classe dirigenziale di stampo imperiale.
La sua attività si svolse prevalentemente in ambito pedagogico:
introdusse infatti un sistema di studi ordinato secondo le sette
discipline (trivio e quadrivio), che rappresentavano le sette
colonne del palazzo della sapienza. Scrisse inoltre manuali per
l’insegnamento, che debbono essere considerati veri compendi
del sapere classico tramandato nelle opere di Prisciano, Donato,
Isidoro e Beda (per la grammatica), Cicerone (per la retorica),
Agostino (per la dialettica).
Le sue opere sull'istruzione, che comprendevano i trattati "Sulla
Grammatica", "Sull'Ortografia", "Sulla retorica e le Virtù", "Sulla
Dialettica", la "Disputa con Pipino", e il trattato astronomico intitolato
De Cursu et Saltu Lunae ac Bissexto, offrono uno spaccato delle materie
e dei metodi di insegnamento impiegati nella Schola Palatina e nelle
scuole del tempo in generale, ma non sono rimarcabili né per
originalità né per eccellenza letteraria. Essi sono, per la maggior
parte, antologie, generalmente in forma di dialoghi, tratte dalle opere
degli antichi studiosi ed erano, probabilmente, destinati a essere
utilizzati come libri di testo per i suoi alunni. Alcuino, come Beda, era
un insegnante piuttosto che un pensatore, un produttore e un
distributore piuttosto che un originatore di conoscenza e, in questo
senso, la predisposizione del suo genio rispose perfettamente alle
necessità intellettuali della sua epoca che erano la conservazione e la
rinascita al mondo dei tesori di conoscenza ereditati dal passato e a
lungo nascosti per preservarli dalle invasioni barbariche. Disce ut
doceas (impara per insegnare) fu il motto della sua vita, e il valore
supremo che dava all'ufficio dell'insegnamento è riconoscibile
nell'ammonimento che impartiva sempre ai suoi discepoli: "chi non
impara in gioventù, non insegna in vecchiaia" (Qui non discit in
pueritia, non docet in senectute, Epistola 27). Anche vivendo nel mondo
e quindi molto occupato negli affari pubblici, condusse una vita in
completa umiltà; ebbe un infinito entusiasmo per lo studio e un
instancabile zelo per il lavoro pratico in classe e in biblioteca.
Promosse il rinnovamento della didattica, e favorì un ritorno
all’uso del latino corretto, polemizzò (specie nel Dialogus de
rethorica et virtutibus, in cui l’interlocutore è Carlomagno) contro
l’uso sofistico della dialettica, ritenuta d’altro canto importante
strumento per la vita civile e politica. Per la prima volta dopo
molti secoli, infatti, una cerchia di intellettuali, riunitisi attorno
alla corte di Carlomagno, si pose un obiettivo che non fosse il
mero consolidamento del sapere già acquisito dibattendo
importanti problemi filosofici e teologici. Sotto la sua guida, la
Schola Palatina divenne ciò che Carlo aveva sognato: il centro
della conoscenza e della cultura per l'intero regno e per l'Europa
intera. Carlo Magno stesso, la sua regina, sua
sorella, i suoi tre figli e le due figlie studiarono
presso la scuola, un esempio che il resto della
nobiltà non mancò di imitare. Il maggior
merito di Alcuino quale educatore laico,
tuttavia, non fu solamente la formazione di
una generazione di uomini e donne, ma,
soprattutto, l'ispirare con la sua passione per
l'insegnamento e l'apprendimento giovani di
talento che accorrevano a lui da tutti le parti.
La sua disponibilità e umanità lo resero universalmente amato e il
vincolo che lega maestro e allievo si evolse spesso in un'intima
amicizia che durò per tutta la vita. Molte delle sue lettere che si sono
conservate furono scritte ai suoi ex allievi; di queste, più di trenta
erano indirizzate al suo amato discepolo Arno, che divenne
arcivescovo di Salisburgo. Prima di morire, Alcuino ebbe la
soddisfazione di vedere i giovani che aveva preparato impegnati
nell'opera dell'insegnamento in tutta Europa. "Ovunque", diceva
Wattenbach parlando del periodo che seguì, "in qualsiasi attività
letteraria visibile, si può essere certi di trovare un allievo di Alcuino".
Molti dei suoi allievi occuparono posizioni di prestigio nella Chiesa e
negli Stati e prestarono la loro influenza alla causa della cultura,
come il succitato Arno, arcivescovo di Salisburgo; Teodolfo, vescovo
di Orléans; Eanbaldo, arcivescovo di York; Adelardo, il cugino di
Carlo, che divenne abate di Corvey, in Renania SettentrionaleVestfalia; Aldrich, abate di Ferrières, e Fredegiso, il successore di
Alcuino a Tours. Tra i suoi allievi ci fu anche il celebrato Rabano
Mauro, l'intellettuale successore di Alcuino, che studiò presso di lui a
Tours e che, successivamente, nella sua scuola a Fulda, proseguì il
lavoro intrapreso da Alcuino ad Aquisgrana e a Tours.
Lo sviluppo della Schola Palatina, tuttavia, per quanto
importante, fu solo una parte dei grandi piani culturali
di Carlo Magno. Per la diffusione della cultura,
dovevano essere istituiti in tutto il regno altri centri
educativi e per questo, in un'epoca in cui l'istruzione
era così ampiamente sotto il controllo della Chiesa, era
essenziale che il clero dovesse essere composto da
uomini di cultura.
Con questo obiettivo bene in vista, furono emanati, a
nome dell'imperatore, una serie di decreti o Capitolari,
che imponevano a tutto il clero secolare e regolare, a
pena della sospensione dall'ufficio, la capacità di
leggere e scrivere e il possesso delle cognizioni
necessarie per l'intelligente esercizio delle funzioni
imposte dallo stato clericale.
Dovevano essere istituite scuole di lettura a beneficio dei candidati
al sacerdozio e i vescovi erano tenuti a esaminare il loro clero di
tanto in tanto per accertare il grado della loro conformità con
queste disposizioni legislative. Fu stilato anche un programma per
l'istruzione elementare universale. Un capitolare dell'anno 802
stabiliva che "tutti avrebbero dovuto mandare il proprio figlio a
studiare lettere, e che il bambino doveva rimanere a scuola con la
massima diligenza fino a che non fosse stato ben istruito" (West,
54). In virtù dei decreti del Concilio di Vaison, in ogni città e
villaggio doveva essere istituita una scuola in cui i sacerdoti
avrebbero insegnato gratuitamente.
È impossibile stabilire in che misura Alcuino contribuì
alla organizzazione di un così vasto sistema di
istruzione basato su una istituzione centrale, la Schola
Palatina, un certo numero di scuole subordinate in cui
si insegnavano le arti liberali sparse in tutto il paese e su
scuole per la gente comune in ogni città e villaggio. La
sua mano non è percepibile in alcun provvedimento
legislativo che gli si riferisca, ma non vi può essere
alcun dubbio sul fatto che egli ebbe molto a che fare con
l'ispirazione, se non con la definizione, di queste leggi.
"La voce", dice giustamente Gascoino, "è la voce di
Carlo, ma la mano è la mano di Alcuino". Fu,
comunque, anche su Alcuino e i suoi allievi che ricadde
la responsabilità dell'applicazione delle leggi.
È vero che le leggi furono applicate imperfettamente; le
misure previste e parzialmente attuate per l'istruzione
delle persone non furono un completo successo; il
movimento per la rinascita e la diffusione della cultura
in tutto l'Impero non giunse a buon fine. Tuttavia,
molte cose destinate a durare nel tempo furono fatte.
"La saggezza accumulata o il passato, che aveva corso il
pericolo di scomparire, era stato preservato e, quando
diversi secoli più tardi, giunse una più grande e
permanente rinascita culturale, le fondamenta gettate
nell'VIII secolo erano ancora lì, pronte a sostenere il
peso della più elevata cultura che gli studiosi della
nuova rinascita avrebbero costruito"(Gaskoin, 209)
Oltre alla giustamente meritata fama di educatore e di
teologo, Alcuino ebbe l'onore di essere stato il principale
agente nella grande opera di riforma liturgica operata da
Carlo Magno. All'incoronazione di Carlo il rito più diffuso
in Francia era quello gallicano, ma così modificato da
tradizioni e usi locali da costituire un serio ostacolo
all'unità ecclesiastica. Scopo principale dell'imperatore era
quello di sostituire il rito romano a quello gallicano o,
almeno, pervenire a una revisione tale di quest'ultimo da
renderlo sostanzialmente uno con quello romano. La forte
propensione di Alcuino verso le tradizioni della Chiesa
romana, combinata con il suo carattere conservatore e
l'autorità universale di cui godeva il suo nome, lo
qualificavano per la realizzazione di un cambiamento che
l'autorità regale in sé era impotente a realizzare.
La prima opera liturgica di Alcuino fu, probabilmente, un
omiliario, una raccolta di sermoni in latino a uso dei sacerdoti.
Un'altra opera liturgica di Alcuino consisteva in una raccolta di
epistole da leggere la domenica e nei giorni di festa, dal titolo
Comes ab Albino ex Caroli imp. praecepto emendatus. Prima della sua
opera, i passi delle Scritture da leggere durante la Messa, spesso,
erano indicati solo ai margini del Bibbie utilizzate; il Comes, invece,
si basava sulla sequenza romana, avvicinandosi, in tal modo, a una
uniformità dei riti. L'opera di Alcuino che ebbe la più grande e
duratura influenza in questa direzione, tuttavia, fu il Sacramentario,
o Messale, che compilò basandosi sul Sacramentario Gregoriano,
aggiungendovi parti da altre fonti liturgiche. Prescritto come
messale ufficiale per la Chiesa Franca, presto venne comunemente
usato in tutta Europa, contribuendo alla realizzazione
dell'uniformità liturgica della Messa in tutta la chiesa occidentale.
Altre opere liturgiche di Alcuino furono una raccolta di Messe
votive, redatta per i monaci di Fulda, un trattato intitolato De
psalmorum usu, un breviario per i laici e una breve spiegazione delle
cerimonie battesimali.
L'impegno culturale di Alcuino si tradusse essenzialmente nel
progetto di portare a compimento sul piano dello spirito lo stesso
ideale di unificazione della Christianitas che la dinastia carolingia
tornò a sostenere sul versante politico dopo la frantumazione dei
regni barbarici. In questo senso è soprattutto significativo il suo
sforzo costante per la promozione e la valorizzazione dei testi scritti,
sacri e profani, come testimonia in particolare l'intensa attività
scrittoria del monastero di Tours: un programma di lavoro che fu,
d'altra parte, anche strettamente legato non solo alla rinascita di
interesse per il libro come oggetto di studio e insieme di venerazione
culturale, ma anche alla stessa diffusione negli scriptoria monastici
della minuscola carolina, al punto che per lungo tempo si è creduto
di poter riconoscere in Alcuino medesimo l'inventore e il principale
responsabile della fortuna della nuova scrittura nelle scuole
dell'Impero.
Nella stessa prospettiva va intesa l'attività
svolta da Alcuino in qualità di revisore del
testo della Bibbia. Quello di Alcuino non è
stato, sotto Carlo Magno, l'unico tentativo di
organizzare una correzione filologica del
testo biblico, ma a lui spetta probabilmente
il merito di avere maggiormente suscitato e
stimolato l'interesse spirituale in questa
direzione. In effetti, come sul piano
linguistico la restaurazione grammaticale
del latino operò per la conservazione
dell'unità tra i diversi popoli dell'Impero,
così la revisione del testo biblico, accanto
all'unificazione liturgica e omiletica favorita
da Carlo Magno, rappresentò nella mente di
Alcuino il primo passo verso la definitiva
accettazione universale di una cultura
unitaria, che si riconosceva innanzitutto
cristiana ed ecclesiastica.
La ricca produzione carolingia di manoscritti biblici è stata
dunque incrementata anche dall'intento di imporre nel mondo
ecclesiastico la versione definitiva della Vulgata. Il monastero
di Tours, collocato in una zona idonea all'allevamento del
bestiame, poteva trarre vantaggio da una ricca produzione di
pergamena di buona qualità e grandi dimensioni, adatta alla
realizzazione di bibbie monumentali in folio. Alcuino contribuì
certamente ad avviare lo sviluppo di quest'industria, che ha
prodotto circa una cinquantina di grandi esemplari biblici e
una ventina di evangeliari negli anni successivi alla sua morte,
ed egli stesso d'a notizia nel suo epistolario della compilazione
a Tours, su sua iniziativa, di almeno sei grandi bibbie integrali
in un solo volume (o 'pandette'; Carm., 65): tuttavia nessuno
dei manoscritti pervenuti può attualmente essere identificato
con una di esse (Fischer, 1971, p. 61).
Viceversa fin dal Medioevo sono state denominate 'Bibbie di
Alcuino' alcune delle grandi produzioni illustrate di epoca
posteriore, tra le quali solo alcune provengono da Tours, come
la Bibbia di Bamberga (Bamberga, Staatsbibl., Bibl. 1) e il
grande manoscritto illustrato di Moutier-Grandval (Londra,
BL, Add. Ms 10546), ma che oggi sono riconosciute tutte
appartenenti certamente a epoca posteriore (Fischer, 1965;
1971).
Viceversa fin dal Medioevo sono state denominate 'Bibbie di Alcuino'
alcune delle grandi produzioni illustrate di epoca posteriore, tra le
quali solo alcune provengono da Tours, come la Bibbia di Bamberga
(Bamberga, Staatsbibl., Bibl. 1) e il grande manoscritto illustrato di
Moutier-Grandval (Londra, BL, Add. Ms 10546), ma che oggi sono
riconosciute tutte appartenenti certamente a epoca posteriore (Fischer,
1965; 1971). Tanto dal punto di vista paleografico (Rand, 1929), quanto
sotto l'aspetto della storia della miniatura (Köhler, 1930) è possibile
suddividere in quattro periodi la produzione libraria carolingia di
Tours: dopo la morte di Alcuino, con la fine del primo periodo,
seguono le fasi corrispondenti agli abbaziati di Fridugiso (807-834),
diretto discepolo di Alcuino, di Adalardo (834-843) e di Viviano, al
tempo di Carlo il Calvo (843851). Le grandi produzioni bibliche
turonensi collegabili con le c.d. 'Bibbie di Alcuino' possono essere fatte
risalire al massimo al periodo di Fridugiso (per es. il manoscritto di
Zurigo, Zentralbibl., Car. C. 1, e quello di Parigi, BN, lat. 11514); ma già
in quest'epoca accade che esse possano essere collegate con il nome di
Alcuino, evidentemente in quanto revisore e principale diffusore della
nuova versione della Vulgata, oppure anche soltanto a causa della
presenza di suoi versi a introduzione del testo biblico.
Tra le opere poetiche di Alcuino vi sono infatti alcune composizioni che
rappresentano vere e proprie 'iscrizioni epigrafiche' per i libri della
Scrittura e come tali vengono accolte anche in alcuni di questi
manoscritti di lusso: tra esse in particolare il poema "Hic Deus
omnipotens Adam de pulvere plasmat [...]" (Carm., 115) è stato
considerato come il prototipo del ciclo illustrativo della Genesi più volte
riprodotto nei grandi manoscritti biblici di quest'epoca, compresa la
Bibbia di Bamberga (Berger, 1893). Più adeguati a essere considerati
manoscritti vicini all'epoca di Alcuino sono invece quelli appartenenti a
una famiglia turonense di testi classici e scritturali studiata in
particolare da Köhler: si tratta di codici caratterizzati da una visibile
unità grafica e dalla presenza di iniziali ornamentali oppure di tavole
dei canoni evangelici, stilizzate e curate, con motivi ornamentali vegetali
e animali (Köhler, 1926; 1930). Sulla base di una richiesta avanzata da
Alcuino in una lettera a Carlo del 796797 (Ep., 121), di inviare a York
alcuni suoi discepoli per importare manoscritti con cui arricchire la
biblioteca di Tours, sono stati anche suggeriti, ma in via soltanto
congetturale, contatti non solo tra la minuscola insulare e quella
turonense, ma anche tra i due stili di miniature.
Tra questi manoscritti in particolare quello di Troyes, Bibl.
Mun., 1742, che contiene fra l'altro anche il Liber de
virtutibus et vitiis di Alcuino, permette di datare l'intero
gruppo - certamente anteriore alle grandi bibbie turonensi
prodotte dal periodo di Fridugiso in poi - a un'epoca che
non può risalire oltre gli ultimi anni dell'abbaziato di
Alcuino. Il più antico del gruppo è forse il manoscritto
biblico di San Gallo (Stiftsbibl., 75), che si accetta per
databile fra l'801 e l'804. Tanto dal punto di vista grafico e
ortografico, quanto dal punto di vista artistico, questi codici
appaiono decisamente inferiori alle successive produzioni
turonensi. E anzi, anche confrontandoli con i coevi codici di
grande lusso elaborati alla corte imperiale, si è portati a
concludere con una certa sicurezza che Alcuino aveva un
interesse soltanto limitato per la produzione efficacemente
stilizzata; la sua importanza in questo ambito rimane
soprattutto quella di essere stato un iniziatore. Egli non ha
dunque esercitato un influsso diretto sulla produzione
artistica di maggiore respiro dell'epoca e qualche altro
personaggio deve viceversa avere avuto presso la corte
maggiore responsabilità per l'elaborazione di codici di gran
lusso (Köhler, 1972).
L'interesse di Alcuino per la valorizzazione del testo biblico
ha esplicitamente una finalità di carattere pedagogico:
avviare con maggiore facilità, attraverso un contatto
sensibile, visivo, con la profondità misteriosa del messaggio
della redenzione, l'accostamento del credente non erudito
alla comprensione di esso. Soltanto in seguito il possesso di
una reale scienza teologica metodologicamente raffinata può
portare a compimento tale comprensione intelligente della
verità di fede presso i più sapienti. Nelle opere di Alcuino è
quindi possibile rintracciare le linee generali di un'efficace
teoria estetica nascente dalla meditazione del pensiero di
Agostino e inglobata all'interno di un più ampio progetto
pedagogico-culturale. Attraverso la diffusione degli scritti
alcuiniani tale visione ha influenzato la produzione artistica
del sec. 9° e, di qui, l'intera concezione estetica medievale.
Poiché la vera sapienza consiste nella comprensione della
divinità del vero, indagato dalla ragione e integralmente
posseduto dal cristiano per mezzo della gratuita
rivelazione divina, la bellezza appare chiaramente ad
Alcuino come una parte della verità, in quanto è
riconoscimento, da parte di una ragione educata a
misurare e valutare le proporzioni e definizioni della
realtà, dell'ordine armonico che Dio ha imposto
all'universo creato. L'arte è dunque una forma della
razionalità, così come lo sono anche le discipline
scientifiche, o 'arti liberali', con le quali l'uomo
ricostruisce il vero del creato: esse sono infatti lo
strumento adeguato, già scoperto e messo a frutto dai
filosofi pagani, per ricostruire o riprodurre, mediante
l'intelligenza e le mani dell'uomo, la bellezza e verità
delle 'forme' visibili immesse nel creato dall'attività
amministratrice del Logos, seconda persona della Trinità,
Sapienza di Dio e dunque 'arte' divina nella quale tutte le
arti create si riconoscono e si unificano.
Amare la sapienza è il fine naturale dell'uomo, da realizzare
attraverso l'esercizio delle arti (Disp. de vera philos.; PL, CI, coll.
849-850): la considerazione del bello, come del vero, nelle sue
minime forme, fa allora parte in modo essenziale della sapienza,
perché conduce attraverso gradi intermedi alla contemplazione
stessa di Dio e racchiude in sé una fra le possibilità per l'uomo di
appagare il naturale desiderio del bene. Il vero maestro deve
gradualmente educare i discepoli a leggere la natura, a conoscere e
utilizzare le arti liberali, a saper parlare e poetare, a considerare
l'ordine delle stelle nel cielo come se fossero dipinte sul soffitto di
una ricca casa affrescata (Ep., 121). Quindi dalla contemplazione
delle stelle l'ordine conduce a godere l'armonia e la bellezza del
creato con uno sguardo unitario, quindi ad amare Dio, che ne è la
causa (Ep., 148, 155). Anche l'interessamento vistoso di A. per il
significato simbolico dei numeri nella Sacra Scrittura va inteso
come un complemento di questa ricostruzione del disegno
armonico con cui Dio ha ordinato l'universo (Ep., 133).
L'invito a conseguire questa sapienza estetico-teologica
coinvolge ogni uomo, dalla base monastica al vertice
imperiale: sapientiae decus è un pregio del sovrano stesso
(Ep., 121, 162) ed è proprio al centro dell'educazione di Carlo
Magno, rappresentata da A. dialogicamente nel suo De
rhetorica et virtutibus, che questo progetto viene proposto
come invito per il cristiano a riconoscere in sé le tracce dei
valori spirituali eterni che Dio ha impresso nella natura creata
(in Halm, 1863, p. 548, 13 ss.). La virtù è infatti la bellezza
della natura umana e dunque ritrovare la bellezza, sotto
qualsiasi aspetto, significa ritrovare l'immagine divina
nell'uomo perduta con il peccato originale (Ep., 148; De
animae ratione, 2, PL, CI, col. 639BC).
La stessa dottrina è ampiamente sviluppata anche nei Libri
Carolini, che fanno appello all'idea di misura per giustificare
una venerazione non eccessiva delle immagini sacre. A. non
condanna nei suoi scritti il culto delle immagini, né le
esteriorità della liturgia, la preziosità dei paramenti o la
decorazione ricca delle chiese: soltanto propone in ogni
campo la moderazione, in nome della sua idea centrale che la
bellezza anche sensibile, se accolta all'interno dell'ordine
universale, conduce l'anima a Dio.
Similmente invita i monaci a cantare con voce temperata nei cori,
per piacere a Dio e non agli uomini (Ep., 114). Dio ha creato la
natura in bellezza: deturpare la bellezza creata è sempre peccato e
quindi A. rivolge un duro rimprovero a coloro che, mantenendo
dopo la conversione al cristianesimo pratiche cultuali di origine
pagana, come per es. tatuaggi o cicatrici, o anche soltanto
praticando usi e costumi sovrabbondanti, inutili o lussuosi (lunghi
capelli, barbe incolte, abiti ridondanti), offendono la dignità
esteriore del corpo umano, immagine diretta di Dio (Ep., 3, 16).
Anche la dottrina retorica di A. si concentra sulla scelta accurata di
parole belle, brillanti e semplici, l'uso di una voce equilibrata e ben
articolata, la proporzione nell'andamento del discorso. Il buon
retore è il sapiente dotato di buon gusto, colui che cerca come
proprio scopo ciò che è conveniente: "quid sibi deceat et suae
conveniat causae" (De rhet. et virt., in Halm, 1863, p. 545, 31). Una
buona figura retorica deve sempre ricorrere a immagini belle e
fuggire la turpitudine e quindi cercare di favorire la venustas della
causa, accanto alla dignitas dell'oratore (ivi, p. 544, 14).
Il tutto è giocato alla luce di una frase proverbiale
fondamentale, di origine classica: ne quid nimis, 'mai
troppo', principio che si applica perfettamente, secondo
A., a tutti gli ambiti nei quali è valido il discorso estetico,
cioè nel campo morale, nel campo retorico, in quello
teologico (ivi, pp. 547, 38 - 548, 5).
È stato osservato che quest'idea estetica non è soltanto
teorica. Leprieur (1905, pp. 346-347) ritiene che essa
abbia influenzato ampiamente il programma artistico
della scuola di Tours quale si può dedurre dalle opere
post-alcuiniane: misura, ordine, importanza degli spazi
proporzionati e del contrasto tra bianco e colore, sobrietà
ornamentale. La nettezza logica di questo ideale ne
garantì l'uniformità nei decenni successivi, cosicché
anche se sfugge completamente l'iniziativa concreta di
A. come direttore della scuola artistica di Tours, si può
parlare realmente di una traccia del suo insegnamento,
almeno teorico, nella produzione successiva.
L'opera di Alcuino quale teologo può essere classificata come
esegetica, morale e dogmatica. Anche in questo campo, il fine
principale che perseguì fu quella della conservazione piuttosto
che dell'originalità. I suoi nove commentari sulle scritture
("Sulla Genesi", "I Salmi", "Il Cantico dei Cantici",
"l'Ecclesiaste", "i Profeti ebrei", "il Vangelo secondo Giovanni",
"la Lettera a Tito", "la Lettera a Filemone", "la Lettera agli
Ebrei", "i Detti di San Paolo" e "l'Apocalisse") consistono
principalmente di frasi tratte dai Padri; l'idea,
apparentemente, era di raccogliere in forma conveniente le
osservazioni sui più importanti brani scritturali fatte dai
migliori commentatori che lo avevano preceduto.
La sua più importante opera biblica fu, comunque, la revisione
del testo della Vulgata. All'inizio del IX secolo, questa versione
era diffusa in molte varianti, anche diverse dall'originale, in
tutta Europa. Di fatto, l'uniformità nel testo sacro era
sconosciuta. Ogni chiesa e monastero aveva le sue letture e
spesso si trovavano testi diversi anche all'interno delle stesse
strutture.
Anche altri studiosi cercarono di porre rimedio a questa
condizione. Teodolfo di Orléans produsse un testo rivisto della
Vulgata che è sopravvissuto nel Codex Memmianus. L'opera
originale di Alcuino, però, non è giunta ai nostri giorni; la
disattenzione di copisti e la vasta diffusione che raggiunse
portarono a innumerevoli, anche se, per la maggior parte, di poco
conto, variazioni dallo standard che aveva cercato di creare. Nelle
sue lettere, Alcuino citava semplicemente il fatto che era stato
incaricato da Carlo Magno in emendatione Veteris Novique
Testamenti (Epistola, 136). A Tours, esistono quattro Bibbie che si
pensa siano state preparate da Alcuino stesso o sotto la sua stretta
supervisione, probabilmente tra il 799 e l'801, grazie a delle poesie
di dedica che vi sono scritte. Secondo il parere di Berger tutte le
"Bibbie di Tours " ricalcano in maggiore o minore grado,
nonostante alcuni dettagli, l'originale testo di Alcuino (Hist. de la
vulg., 242).
In ogni caso, qualunque fossero state le esatte modifiche apportate
dal Alcuino al testo della Bibbia, il noto temperamento dell'uomo,
non meno che i limiti degli studiosi dell'epoca, rendono certo che
questi cambiamenti non furono di ampia portata. L'idea era,
sicuramente, quella di riprodurre fedelmente il testo di San
Girolamo e, per quanto possibile, di correggere i gravi errori che si
erano tramandati nelle Sacre Scritture. Pertanto, da questo punto
di vista, il lavoro di Alcuino fu molto importante.
Dei tre brevi trattati morali che Alcuino ci ha lasciato, due, il De
virtutibus e vitiis" e il De animæ ratione, sono in gran parte
arrangiamenti delle opere di Agostino d'Ippona, mentre il terzo,
"Sulla Confessione dei Peccati", è una sintetica esposizione sulla
natura della confessione, indirizzata ai monaci di San Martino di
Tours. Legati agli scritti morali, per spirito e finalità, sono le sue
opere sulla vita di San Martino di Tours, San Vedasto, San
Riquiero e San Villibrordo, quest'ultima una biografia di notevole
lunghezza. La fama di Alcuino come teologo, però, è dovuta
principalmente alle sue opere dogmatiche. Avendo percepito
l'atteggiamento sostanzialmente eretico di Felice ed Elipando
sulla questione cristologica, un atteggiamento la cui eterodossia,
inizialmente, era stato nascosta persino ai loro occhi dalla
pretestuosa distinzione tra figli naturali e adottivi, Alcuino si erse
a campione della Chiesa contro l'eresia adozionista. La condanna
della nascente eresia da parte del Sinodo di Regensburg (792),
avendo fallito nel controllo della sua diffusione, provocò la
convocazione di un altro e più grande sinodo, composto dai
rappresentanti delle Chiese di Francia, Italia, Gran Bretagna e
Galizia, a Francorte da parte di Carlo nel 794.
Alcuino era presente a questo incontro e, senza dubbio,
ebbe una parte di rilievo nel dibattito e nella stesura della
Epistola Synodica, anche se, con la consueta modestia, nelle
sue lettere non ne fornì mai alcuna prova. In base agli atti
del Sinodo, Alcuino rivolse a Felice, del quale aveva alta
stima, una toccante lettera di ammonimento e di
esortazione, alla quale ricevette risposta dopo il suo
trasferimento a Tours, nel 796. Nella missiva Felice faceva
capire che sarebbe stata necessaria qualcosa di più di una
supplica amichevole per fermare l'eresia.
Contro gli insegnamenti degli eretici, Alcuino aveva già
redatto un piccolo trattato, consistente principalmente in
citazioni patristiche, dal titolo Liber Albini contra haeresim
Felicis, ma ora intraprese una più ampia e approfondita
discussione delle questioni teologiche coinvolte. Questa
opera, in sette libri, Libri VII adversus Felicem, era una
confutazione delle posizioni adozioniste, piuttosto che
l'esposizione della dottrina cattolica e, di conseguenza,
seguiva la linea delle loro argomentazioni anziché un
rigoroso ordine logico.
Alcuino usava contro gli adozionisti l'universale testimonianza dei
Padri, le incongruenze insite nella loro stessa dottrina, la sua logica
relazione con il nestorianesimo, e lo spirito razionalista che era
sempre pronto a chiedere spiegazioni umane per gli imperscrutabili
misteri della fede. La disputa tra Alcuino e Felice ebbe luogo nella
primavera del 799 nel palazzo reale ad Aquisgrana e si concluse con
il riconoscimento da parte di Felice dei suoi errori e la sua
accettazione degli insegnamenti della Chiesa. Felice, in seguito, rese
una visita amichevole ad Alcuino a Tours.
Dopo aver cercato invano la sottomissione di Elipando, Alcuino
redasse un altro trattato intitolato Adversus Elipandum Libri IV,
incaricando della sua diffusione gli emissari che Carlo Magno aveva
inviato in Spagna. Nell'802 inviò all'imperatore l'ultimo e forse il più
importante dei suoi trattati teologici, il Libellus de Sancta Trinitate,
un'opera in forma particolare, probabilmente suggeritagli durante le
dispute con gli adozionisti. Il trattato contiene una breve appendice
intitolata De Trinitate ad Fridegisum quaestiones XXVIII. Il libro è
un compendio della dottrina cattolica sulla Trinità basato sulle opere
di sant'Agostino.
Non è certo in quale misura Alcuino condivise gli atteggiamento
negativi assunti dalla chiesa franca, su incitazione di Carlo Magno,
verso i mal tradotti e malintesi canoni del Concilio di Nicea del 787.
Tuttavia, lo stile dei Libri Carolini, che condannavano, in nome del
re, i canoni del concilio, porta a favorire l'ipotesi che Alcuino non
abbia partecipato direttamente alla loro stesura.
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