Telescopi per le alte energie
Massimo Badiali
Istituto di Astrofisica Spaziale e Fisica Cosmica
INAF
Area di Ricerca di Tor Vergata - Roma
Una prima caratteristica: parliamo di oggetti
strani, che non somigliano affatto ai “normali”
telescopi, come questi:
Schema di un comune
telescopio rifrattore (con
lenti)
Mercator Telescope a La Palma, isole
Canarie, riflettore, con specchio
primario del diametro di 1.2 m
… anche se alcuni recenti progetti di telescopi riflettori nella banda
ottica “normale” (visibile o infrarossa) specialmente se destinati
allo spazio, hanno un aspetto singolare, come il grande telescopio
spaziale James Webb (25 metri quadri di area effettiva!) che sarà
lanciato nel 2013, alla ricerca delle stelle più antiche dell’universo
A guardare bene però, anche qui
si distingue uno schema ottico
semplice: uno specchio primario,
un secondario e un piano focale (al
centro del primario)
Specchi o lenti servono per far convergere (focalizzare) i fasci
di luce (praticamente paralleli perché provenienti da oggetti
molto remoti) e riprodurre così sul piano focale la loro immagine
A sinistra: senza elemento
focalizzante, la luce
proveniente dagli oggetti a e
b si spande in modo confuso
sul piano del rivelatore.
A destra: la luce si
focalizza sul rivelatore
nei punti b e a.
Allora: perché i telescopi per alte energie sono oggetti strani?
Per spiegarlo, dobbiamo tornare al nostro spettro della luce: lo
spettro delle onde elettromagnetiche
Se teniamo conto delle lunghezze d’onda nelle varie bande, possiamo capire
perché, da un certo punto in poi dello spettro, non c’è superficie in grado di
riflettere o di rifrangere la luce! Rifrazione e riflessione non funzionano più per
raggi X e raggi gamma
È utile osservare, nella figura dello spettro, gli oggetti di
riferimento. Verso destra, a cominciare dai raggi X, le lunghezze
d’onda assumono dimensioni atomiche e subatomiche
In queste bande, la radiazione
incidente non può “vedere” una
superficie liscia, ma una successione
di atomi! Le particelle di luce (fotoni)
possono passare indenni fra un atomo
e l’altro, oppure “andare a sbattere”
contro un atomo e interagire con
esso: assorbimento, diffusione
(scattering), fenomeni governati dalla
meccanica quantistica e non più
dall’ottica classica (che è quella che
descrive la riflessione e la
rifrazione)
Lunghezza d’onda
Guarda caso, questo
limite nello spettro
elettromagnetico è più
o meno il punto in cui
cominciano a divergere
in maniera insostenibile
(la famosa catastrofe
ultravioletta) anche le
teorie classica e
quantistica della
radiazione.
La spiegazione teorica è quindi complessa perché tocca il difficile
rapporto tra elettrodinamica classica (ottica ondulatoria) e la
meccanica quantistica.
Intuitivamente però il
concetto è semplice, ed
è lo stesso che
permette ai
radiotelescopi di avere
strutture a traliccio: le
onde radio, lunghe
decine di metri,
“vedono” la parabola del
radiotelescopio come
una superficie liscia.
Invece, per le onde troppo corte (raggi X e gamma), non esiste materiale in
natura che presenti atomi abbastanza “fitti” da mostrare una superficie
praticamente liscia (a meno di non fare uno specchio col materiale di una stella a
neutroni: ci sarebbe qualche problema pratico)
Quindi, non possiamo usare né lenti né specchi. Dobbiamo allora
concludere che non è possibile avere uno strumento a immagine
che mostri il cielo X e il cielo gamma?
Possiamo ricorrere, come si fa nella
gamma camera in biomedicina, a
soluzioni suggerite dall’ottica geometrica
per formare immagini su un piano senza
usare riflessione o rifrazione. Per
esempio la camera oscura: la luce passa
per un forellino e sul piano focale si
forma l’immagine delle sorgenti a grande
distanza.
Oppure si sovrappone al piano focale un
COLLIMATORE, che permette
l’ingresso della luce da una sola
direzione, quella dove si suppone si trovi
la sorgente da osservare. Il segnale si
diffonde indiscriminatamente su tutto il
rivelatore, ma se si è memorizzata la
direzione dove punta lo strumento, si è
in grado di ricostruire l’immagine
ottenuta sovrapponendo più esposizioni
in diverse direzioni.
In entrambi i casi, il difetto principale è che viene bloccata la quasi
totalità della radiazione incidente. Uno spreco increscioso se
vogliamo osservare sorgenti celesti lontane e non tanto forti.
Eppure i primi telescopi per raggi X e gamma funzionavano con i collimatori…
In realtà, esiste un astuto ripiego, che funziona nella zona di
transizione, cioè nei raggi X molli, vale a dire per onde corte, ma
non troppo.
L’idea è semplice. Se la
superficie si presenta obliqua,
anzi radente, gli atomi si
presentano più fitti, per
proiezione geometrica, fino a
mostrare una catena tanto
compatta da apparire come
una superficie liscia e
permettere la riflessione.
Specchi multipli aumentano
l’efficienza dello strumento.
Questa soluzione permette l’esistenza
di una intera classe di telescopi per
raggi X: i concentratori a riflessione
radente. Come il telescopio spaziale
X-ray Multi-mirror Mission, XMM, con
i suoi specchi concentrici
Il limite della riflessione radente è che funziona solo per i raggi X
più “molli” (bassa frequenza). Che fare con gli X duri e i gamma?
Le soluzioni sono spesso
costituite da complicati
marchingegni che somigliano
ben poco a telescopi, e
sfruttano fenomeni di
interazione tra radiazione e
materia che sono appannaggio
tipico della fisica quantistica,
come ad esempio la capacità
dei raggi gamma di generare
coppie particella-antiparticella.
Energetic Gamma-Ray
Esperiment Telescope
(EGRET).
Ma esiste anche una soluzione molto diffusa – anche perché molto
efficace e promettente – squisitamente ottica: porre sul cammino
dei raggi X o gamma un particolare diaframma, la maschera
codificata
È una soluzione geniale, tanto che vale la pena cercare di spiegare il
metodo, almeno in questo unico caso.
È un po’ complicato, armiamoci di pazienza.
La maschera è una
generalizzazione del
principio della camera
oscura. Ma invece di un
singolo foro, è costituita da
una molteplicità di elementi
trasparenti alternati a
elementi opachi. Rispetto al
foro singolo, il vantaggio è
che si blocca solo metà della
radiazione incidente.
La definizione dell’immagine è
determinata dalle dimensioni
del singolo elemento e dalla
distanza tra maschera e
rivelatore
Come funziona? Una sorgente remota invia un fascio parallelo.
Sulla superficie del rivelatore si proietta l’ombra della maschera,
spostata dall’asse proporzionalmente all’angolo d’incidenza. Si può
quindi determinare la posizione della sorgente in cielo.
In realtà con questa
configurazione l’immagine è
vignettata (troncata al
bordo) appena va fuori asse.
C’è una parte del rivelatore
che non viene utilizzata. Per
evitare il vignettamento il
piano della maschera si fa
molto più ampio di quello del
rivelatore.
Generalmente la maschera (a), è il doppio del rivelatore (b), in
dimensioni lineari.
Perché la maschera si chiama CODIFICATA?
La distribuzione degli elementi opachi e
trasparenti sulla maschera non è casuale. Si
segue un criterio che risponde ad una precisa
condizione matematica: l’immagine proiettata sul
rivelatore da un fascio di raggi paralleli genera
una distribuzione particolare di chiari e scuri
che determina UNIVOCAMENTE (senza
ambiguità) la direzione di provenienza del fascio.
In altre parole, la sovrapposizione dell’immagine-maschera e della sua
“ombra” sul rivelatore ha un unico picco in una certa posizione
reciproca delle due immagini . La risposta a ogni altra direzione è nulla.
Da un punto di vista strettamente matematico, che cosa significa? significa creare due sequenze
bidimensionali (o matrici) di numeri, corrispondenti a ciascun elemento fisico (pixel):
a) Matrice della maschera: es. -1 se il pixel è opaco, +1 se trasparente
b) Matrice del rivelatore: ogni pixel contiene il numero di fotoni rivelati su quel pixel pixel
Si esegue il prodotto scalare delle due matrici (cioè si fa il prodotto pixel per pixel in entrambe le
dimensioni).
Come per magia, esistono determinate configurazioni rispondenti a sequenze
numeriche (codici) che soddisfano questa condizione: quel prodotto è diverso da
zero solo in corrispondenza di una certa direzione, da dove proviene la sorgente
celeste. Abbiamo un telescopio!
La configurazione che risponde al codice ha esattamente la superficie
del rivelatore. Perciò, se la maschera è più ampia, la sua struttura viene
replicata. La condizione migliore è quando, nelle due dimensioni
ortogonali, il disegno della maschera è replicato due volte.
In questo modo, sul rivelatore si
ha sempre un’ombra completa e
univoca della corrispondente zona
di maschera interessata dal
fascio incidente.
Già, ma cosa succede quando
nello spicchio di cielo osservato
ci sono due sorgenti? O peggio,
quando ce ne sono parecchie? E
magari, peggio ancora, ci sono
anche sorgenti estese?
L’immagine sul rivelatore
diventa confusa ed illegibile!
Solo apparentemente. Se si
“sovrappone” (cioè, matematicamente, si
fa il cosiddetto prodotto scalare) di
questa immagine con l’immagine numerica
della maschera, il risultato è …
…l’immagine del cielo!
Per esempio, l’immagine gamma del centro galattico.
Le sorgenti gamma al centro della nostra Galassia, viste dal
telescopio gamma INTEGRAL
Per l’appunto, il telescopio per raggi gamma IBIS della
missione spaziale INTEGRAL si basa su una grande maschera
codificata.
INTEGRAL (International Gamma-Ray Astrophysic Laboratory) è uno
strumento di dimensioni ragguardevoli
Il cui obiettivo è quello di raccogliere le radiazioni a più
alta energia del cosmo.
INTEGRAL Misura con precisione anche l’energia, cioè il “colore”, dei fotoni
gamma rivelati. Rappresenta immagini del cielo gamma con alta risoluzione
angolare (30 secondi d’arco) in una larghissima banda. A bordo, oltre al telescopio
a maschera IBIS, ci sono altri strumenti per un simultaneo monitoraggio delle
sorgenti nei raggi X e nella luce visibile
Come in ogni altra missione spaziale, ogni particolare di questo carico scientifico ha
una sua storia su cui sono stati scritti volumi di tecnologia avanzata.
Alcune di queste “storie” saranno utilizzate in futuro da altre missioni. Forse alcune
di queste potranno essere utilizzate in contesti completamente diversi
dall’astronomia. Ma per raccontare queste storie ci vorrebbe un altro corso.
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