Mappa
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Una lunga storia di miseria, dai portoghesi che
schiavizzavano nel XV secolo alle favelas di oggi
Il Brasile è un paese che ha una lunga e triste
storia di schiavitù alle spalle, con la scoperta
dell’America da parte di Colombo i nativi indiani
vengono ridotti in schiavitù, le ricchezze del
paese sono molte e gli indigeni non sono
abbastanza, allora i portoghesi cominciano
l’importazione di schiavi dall’Africa, si parla di
decine di milioni di africani portati in Brasile. Nel
1854 viene abolita la tratta internazionale degli
schiavi , ma all’interno del paese la pratica
continua; e continuerà anche dopo il 1888 anno
dell’abolizione della schiavitù legale, soprattutto
in alcune zone come nel cuore dell’Amazzonia.
Negli anni ‘60 e ‘70 del ventesimo secolo il
Brasile è protagonista di un importante boom
economico che determina lo sviluppo dell’industria
e il conseguente richiamo verso le città di chi
cerca lavoro, ma dalle campagne arriva più gente
di quanta le fabbriche siano in grado di assorbire
e così a Rio, a San Paolo nascono enormi favelas,
cioè baraccopoli, per lo più controllate dalla
malavita.
Ma dove c’è miseria e
disperazione…
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Siamo nelle favelas del Minas Gerais, area ricca di giacimenti minerari. Qui si presentano
gli uomini del reclutamento, i gatos, e annunciano , andando di porta in porta , che stanno
assumendo uomini o addirittura famiglie intere per i campi di carbone, promettono cibo
tutti i giorni e una buona paga, e distribuiscono denaro a chi resta. Rapidamente si forma
il gruppo dei volontari e partono, vengono portati nel Mato Grosso, nel cuore della
foresta Amazzonica, ed ecco cosa trovano: un campo di lavoro isolato dal mondo, da cui
non è possibile allontanarsi perché è in mezzo alla foresta e perché sorvegliato da uomini
armati, le condizioni di vita sono indecenti e poi scoprono che hanno contratto un enorme
debito con quei gatos per i soldi lasciati alle famiglie e per il costo del loro viaggio e
quindi non vengono pagati, il ritorno a casa è impossibile anche perché sono stati
costretti a lasciare ai gatos i loro documenti senza i quali rischierebbero l’arresto, se
fuggissero.
Da questo momento il lavoratore è morto come cittadino ed è venuto al mondo come
schiavo. I lavoranti del carbone non sono schiavi a vita, sono inchiodati al debito per
qualche mese o al massimo un paio di anni, poi si ammalano, si indeboliscono e quindi
vengono scartati e viene reclutato chi può essere più produttivo: vengono dunque buttati
fuori dal campo senza aver avuto mai un soldo. Produrre carbone significa disboscare la
foresta e poi bruciarne legname, lavorare nei campi di carbone è estremamente faticoso
e nocivo, si deve stare all’interno di fornaci, a temperature elevatissime per giorni e
notti senza interruzioni perché la combustione della legna deve essere continuamente
monitorata, nel campo ci sono diverse fornaci una vicino all’altra, anche cento, e il calore
è inimmaginabile, è un vero inferno, per svuotare la fornace si entra quasi nudi, esposti
alle ustioni e si cammina su carboni accesi, il calore e il fumo inoltre danneggiano
inevitabilmente l’apparato respiratorio.
Ma chi sono questi gatos?
Chi si arricchisce sul lavoro degli schiavi?
Ma non era illegale la schiavitù?
I gatos, nella maggioranza dei casi, sono
coloro che gestiscono i campi di carbone
senza possederli, dunque lavorano per i
grandi proprietari terrieri che offrono loro
una percentuale sul profitto, vengono in
altre
parole
retribuiti
per
quanto
producono. I gatos sono spremuti dai loro
padroni e loro si rivalgono sulla manodopera
fino ad ottenere prestazioni gratuite, come
abbiamo detto prima. Niente impedisce
realmente ai gatos di ridurre uomini, donne
e anche bambini in schiavitù, non di certo i
proprietari di terra che vedono in questo
modo aumentare le proprie rendite senza
rischio alcuno (non sono tenuti a sapere
come si organizzano i gatos) e poi la polizia
non ha interesse a far rispettare la legge,
infatti uomini d’affari, proprietari di
foreste hanno anche la polizia nel loro libro
paga.
Se gli ispettori del governo o le
organizzazioni per i diritti umani denunciano
casi di schiavitù, le imprese non fanno altro
che deplorare, licenziare temporaneamente
i gatos colpevoli e poi continuare come
prima.
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Fino a quando come prima?
Proprio niente e nessuno può inserirsi in questo
perverso gioco?
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Negli anni 80’, le organizzazioni per i diritti umani hanno reso pubblico l’impiego di lavoro
schiavo da parte dei gatos del Mato Grosso, il reclutamento di donne, uomini e bambini
un certo numero dei quali è arrivato anche alla morte. Nel 1991 sotto la pressione di
Chiesa e organizzazioni umanitarie, il governo ha dovuto istituire una commissione
d’inchiesta che non pubblicherà mai le sue conclusioni, nel 1993 è la Commissione
pastorale della terra (Cpt) che organizza una sua commissione indipendente e rivela ai
media molte informazioni, eppure tutto continua a tacere.
All’improvviso, nell’agosto del 1995 succede qualcosa. Proprio mentre il governatore del
Mato Grosso si trova a New York a sollecitare un investimento, la Bbc manda in onda un
film sulla produzione di carbone nel Mato Grosso e il New York Times pubblica in prima
pagina un articolo sul lavoro schiavo in quel paese: gli investitori americani si tirano
indietro e minacciano di non investire più se non a problema risolto. Di fronte al rischio
di perdere i finanziamenti stranieri tutti i gatos, spinti dai grandi proprietari, si
dichiarano contrari al lavoro minorile, parte una campagna di finanziamenti scolastici e
viene organizzato un campo pilota per lavoratori del carbone in cui viene salvaguardata
la qualità della vita degli operai: è solo un piccolissimo miglioramento, ma ciò che ci
interessa sottolineare è che è stata la pressione economica a muovere le acque, a
spingere a dei cambiamenti, il denaro sa farsi sentire anche laddove gli appelli in nome
dei diritti umani non ottengono nulla.
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