INCONTRO N.3 Cosa fa lo scienziato RIVERGARO, 27 APRILE 2009 Il metodo o i metodi scientifici? OSSERVARE è PROBLEMATIZZARE La definizione del problema è la fase in cui un soggetto prende coscienza che un problema reale esiste, suggerito dalla realtà (di cui si può ammettere l'esistenza anche se non se ne assume al conoscibilità effettiva), e si pone nella condizione di cercarne una soluzione, da solo o con l'aiuto di altri. Tale fase può essere facilitato dalla presenza di dati sperimentali. Il ruolo dei dati sperimentali è però complesso e discusso. Diceva Isaac Newton (1642 - 1727): Hypotheses non fingo, vale a dire, accetto i dati per quello che sono e su di essi costruisco la mia conoscenza scientifica. Per altri studiosi la pura raccolta di dati è un'attività cieca, in quanto solo sulla base di alcune ipotesi preliminari il dato diventa significativo. Nel primo caso è il dato che suggerisce la definizione del problema, nel secondo è da quest'ultima fase che vengono costruite le condizioni per la raccolta dei dati.[1]. [1] Marchini C., I modelli , 19 novembre 200,1consultabile presso http://www5.indire.it:8080/set/modelli/didattica.htm I fenomeni come generatori di domande Che cos’è? Quali sono gli elementi costitutivi? Come funziona? Come si comporta? Come si trasforma? Cosa accade? Perché avviene questo fenomeno? Quali sono le cause? Che effetti produce? Attorno a queste domande, dobbiamo costruire i problemi di delimitazione della questione: In che condizioni si verifica ciò che osservo? (quando e dove) Quando non si verifica? LAZZARO SPALLANZANI racconta: Nel XVIII secolo quasi tutti erano ancora d’accordo con Aristotele sul fatto che gli esseri viventi piccolissimi potessero nascere per generazione spontanea dalla materia organica morta. Si scriveva che sembra che nascano “per una specie di corruzione (o meglio cottura), in cui si mescola acqua di pioggia. La corruzione e la materia corrotta non sono che la rimanenza di ciò che prima è stato cotto”. Un primo attacco a questa teoria era già sferrato da Redi, Kircher, Vallisneri e Malpighi, i quali avevano provato che i liquidi nei quali viene distrutta mediante ebollizione qualsiasi materia vivente, se sottratti al contatto dell’aria, rimangono sterili. Nel 1745 era stato pubblicato lo scritto di un naturalista inglese, J.T. Needham, le New microscopical Discoveries, che invece “dimostrava” l’esistenza della generazione spontanea. Il gesuita, dopo aver preparato infusioni di frammenti di carni e di vegetali, li aveva posti in fiaschi pieni d’acqua, riscaldandoli ad alte temperature, ma non portandoli all’ebollizione. Egli aveva in seguito chiuso con tappi di sughero i fiaschi, dopo qualche giorno ne aveva esaminato al microscopio alcune gocce e aveva scoperto che il liquido era pieno di infusori[1]. La sua deduzione fu che gli infusori fossero nati spontaneamente, dal momento che il contenuto dei fiaschi, con la chiusura, era stato sottratto al contatto dell’aria. Needham, proprio grazie a questa osservazione, venne quasi nominato membro della Royal Society di Londra. Io Lazzaro Spallanzani capii che nell’esperimento di Needham qualcosa non andava e ripetei dapprima l’esperimento con le stesse modalità dell’inglese, ottenendo naturalmente gli stessi risultati. In seguito, affinando la tecnica, feci bollire le infusioni in recipienti a collo lungo dopo averne espulso l’aria con l’ebollizione e averne chiuso il collo alla fiamma. A questo punto si verificò proprio ciò che mi aspettavo: il liquido rimase completamente sterile, prova che la generazione spontanea non esisteva. A questo proposito è utile ricordare il mio famoso “Saggio di osservazioni microscopiche concernenti il sistema della generazione de’ signori di Needham e Buffon”, del 1765, che determina la fine della teoria della generazione spontanea e consacra a livello internazionale la mia fama come ’autore naturalista. Tratto da Feyerabend P.K., Dialogo sul metodo, Laterza, Bari, 1989. Feyerabend racconta: A: La prima volta che usai un microscopio pensai di essere stato imbrogliato.... Le illustrazioni dei libri erano così chiare, ma io non vedevo nulla che fosse anche solo vagamente rassomigliante. Era tutto un caos di linee e movimenti e non ero nemmeno sicuro che quei movimenti fossero movimenti oggettivi, che non interessassero invece soltanto i miei occhi, strabuzzati al fine di vedere.... quello che volevo vedere. ….. A: Bene, quando non vidi quello che mi aspettavo di vedere, mi lamentai con il mio professore....: egli mi tranquillizzò, dicendo che tutti avevano incontrato queste difficoltà all'inizio e che dovevano "imparare" a vedere. Dapprima mi diede delle cose molto semplici da guardare, un capello, un granello di sabbia, e mi insegnò anche ad usare l'ingrandimento minimo. Non ebbi problemi. Poi mi disse di aumentare l'ingrandimento, restando sullo stesso oggetto. Feci un balzo all'indietro, quando vidi il mio capello come un filamento cosmico che si allungava attraversando un cielo immenso - ma lo vidi bene. Così gradualmente passammo ad oggetti più complicati ed oggi non solo riconosco le strutture più complesse, come se fossero vecchi amici che ho lasciato appena poche ore prima, ma sono addirittura incapace di scorgere la confusione che mi appariva all'inizio. Ora tutto quello che vedo tramite il GALILEO GALILEI racconta: Entrai giovane diciassettenne all’Università di Pisa nel 1581, per studiarvi filosofia e medicina. Presto però mi dedicai alle scienze naturali che, notoriamente allora, erano ancora in condizioni molto arretrate. Un giorno, giovane studente assistetti alla messa nel duomo di Pisa. Dal soffitto dell’edificio pendeva una lampada che, appesa alla sua catena, al momento dell’accensione, aveva ricevuto un forte colpo ed ora dondolava lentamente avanti e indietro, un fenomeno che attrasse l’attenzione dello studente molto di più della cerimonia in corso. Mentre la folla pregava e l’organo suonava, non staccavo gli occhi dalla lampada che dondolava. Notai che le oscillazioni diventavano sempre più brevi, la lampada descriveva archi sempre più piccoli ma, ciò nonostante, il periodo delle oscillazioni, ovvero il tempo necessario per compiere una oscillazione completa, restava sempre lo stesso. Questo mi sembrò molto strano. Mi recai subito a casa per studiare a fondo il fenomeno, e le mie prove mi mostrarono subito la verità: il tempo che il pendolo impiega per compiere un’oscillazione rimane sempre lo stesso, e dipende solo dalla lunghezza del pendolo (stesso), ma non dall’ampiezza dell’arco che il pendolo descrive. La scoperta di questa “legge del pendolo” ha avuto un’enorme importanza per il progresso delle scienze naturali.. Russel B., The problems of philosophy, Williams and Nogate, London, 1957, cap.6 “Domestic animals expect food when they see the person who feeds them. We know that all these rather crude expectations of uniformity are liable to be misleading. The man who has fed the chicken every day throughout its life at last wrings its neck instead, showing that more refined views as to the uniformity of nature would have been useful to the chicken[1]” Fin dal primo giorno un pollo osservò che, nell’allevamento dove era stato portato, gli veniva dato il cibo alle 9 del mattino. Volle verificare che questo fatto fosse una regola e da buon induttivista non fu precipitoso nel trarre conclusioni dalle sue osservazioni e ne eseguì altre in una vasta serie di circostanze: di lunedì e di giovedì, nei giorni caldi e nei giorni freddi, nei giorni pari e nei giorni dispari, sia che piovesse sia che splendesse il sole. Così, arricchiva ogni giorno il suo elenco di verifiche osservando il fenomeno della sua alimentazione nelle condizioni più disparate. Finché la sua coscienza scientifica fu soddisfatta ed elaborò un’inferenza induttiva come questa: "Mi danno il cibo alle 9 del mattino". Purtroppo, però, questa conclusione si rivelò incontestabilmente falsa alla vigilia di Natale, quando, invece di venir nutrito, fu sgozzato. [1] Gli animali domestici si aspettano del cibo ogniqualvolta vedono la persona che li nutre. Sappiamo bene che queste primitive attese di uniformità sono soggette ad errore. L’uomo che ha nutrito il pollo ogni giorno della sua vita alla fine gli torcerà il collo dimostrando che per il pollo sarebbero state utili immagini più articolate dell’uniformità della natura I SASSI COLORATI DI DARWIN Scrivendo ad un amico, il 18 settembre 1861, Charles Darwin rifletteva su quanti progressi avesse fatto la geologia da quando egli aveva iniziato a occuparsene seriamente, durante i cinque anni di viaggio sulla Beagle. «Circa trent'anni fa – ricordava il padre dell'evoluzionismo - si parlava molto del fatto che i geologi dovrebbero solo osservare e non ragionare su teorie; e ricordo bene come qualcuno dicesse che tanto valeva scendere in una cava di ghiaia per contare i sassi e descriverne i colori. Strano che nessuno comprendesse che tutte le osservazioni devono confermare o smentire un'ipotesi, per essere di qualche utilità»[1] [1] Shermer M., I sassi colorati ed il motto di Darwin, in Le Scienze, 392,1 aprile 2001. 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