Fulvio Frati Deontologia in Psicologia Clinica e Psicoterapia: aspetti operativi nei rapporti clinici ed istituzionali Il Piano Sanitario Nazionale per il triennio 2003-2005 pone in grande evidenza la necessità di garantire ai cittadini italiani un SISTEMA SANITARIO “EQUO” anche perché, come riconosce lo stesso Ministro della Salute, negli ultimi anni tale “equità” che dovrebbe guidare le politiche sanitarie é stata invece spesso sottovalutata rispetto alle esigenze di EFFICIENZA e di BUDGET Si sono così venute a creare nelle organizzazioni sanitarie italiane sia pubbliche che private molteplici “iniquità di sistema”, quali ad esempio: differenze quali-quantitative nei servizi erogati in varie aree del Paese; disuniformi e lunghe liste d'attesa anche per patologie che non possono aspettare; scarso rispetto per il malato; sprechi ed inappropriatezza delle richieste e delle prestazioni; condizionamento delle libertà di scelta dei malati; insufficiente attenzione posta al finanziamento e all'erogazione dei servizi per cronici ed anziani. Ma… poiché tali problemi non riguardano solo l’Italia, ma tutta l’area “occidentale-industrializzata” nel 1999 il cosiddetto “Gruppo di Tavistock” ha sviluppato alcuni principi etici generali che si rivolgono a tutti coloro che hanno a che fare con la sanità e la salute. Sulla base del lavoro di questi studiosi, pertanto, possiamo evidenziare i 9 principi etici fondamentali: 1) Diritti. I cittadini hanno diritto alla salute e alle azioni conseguenti per la sua tutela. 2) Equilibrio. La cura del singolo paziente è centrale, ma anche la salute e gli interessi della collettività vanno tutelati. In altri termini non si può evitare il conflitto tra interesse dei singoli e interesse della collettività. Ad esempio, la somministrazione di antibiotici per infezioni minori può giovare al singolo paziente, ma nuoce alla collettività perché aumenta la resistenza dei batteri agli antibiotici. 3) Visione “olistica” del paziente, il che significa prendersi cura di tutti i suoi problemi ed assicurargli continuità di assistenza (dobbiamo sforzarci continuamente di essere ad un tempo “specialisti” e “generalisti”). 4) Collaborazione degli operatori della sanità tra loro e con il paziente, con il quale è indispensabile stabilire un rapporto di partenariato: “Nulla che mi riguardi senza di me” è, secondo Maureen Bisognano (Institute of Health Care Improvement, Boston), il motto che dobbiamo attribuire ad ogni nostro paziente e che ci deve in primo luogo guidare, e che quindi maggiormente dobbiamo rispettare, in ogni nostra interazione con lui. 5) Miglioramento. Non è sufficiente fare bene, dobbiamo fare meglio, accettando il nuovo e incoraggiando i cambiamenti migliorativi. Vi è ampio spazio per migliorare, giacché tutti i sistemi sanitari soffrono di “overuse, underuse, misuse” delle prestazioni (uso eccessivo, uso insufficiente, uso improprio). 6) Sicurezza. Il principio moderno di “Primum non nocere” significa lavorare quotidianamente per massimizzare i benefici delle prestazioni, minimizzarne i danni, ridurre gli errori in medicina. 7) Onestà, trasparenza, affidabilità, rispetto della dignità personale sono essenziali a qualunque sistema sanitario e a qualunque rapporto tra medico e paziente. Altri due principi che alcuni propongono di aggiungere ai 7 sopraelencati sono: 8) la responsabilizzazione di chi opera in sanità 9) la libera scelta da parte del paziente. Il nostro Piano Nazionale Sanitario ha deciso di ispirare la propria condotta a questi 9 principi per esempio attraverso il passaggio dalla precedente visione basata essenzialmente sul principio della “Sanità” a quella più nuova e moderna basata invece sul principio della “Salute” Tale transizione dalla “Sanità” alla “Salute” è fondata, in particolare, sui seguenti principi essenziali per il Servizio Sanitario Nazionale e per tutte le strutture pubbliche e private ad esso afferenti: il diritto alla salute; l'equità all'interno del sistema; la responsabilizzazione dei soggetti coinvolti; la dignità ed il coinvolgimento “di tutti i cittadini”; la qualità delle prestazioni; l'integrazione socio-sanitaria; lo sviluppo della conoscenza e della ricerca; la sicurezza sanitaria dei cittadini. Il diritto alla salute e alle cure, indipendentemente dal reddito, costituisce da tempo parte integrante dei principi che costituiscono l'ossatura del nostro sistema sociale, ma non ha trovato fino ad oggi una sufficiente attuazione Nella nuova ed attuale visione esso costituisce un obiettivo assolutamente prioritario, pertanto è indispensabile: 1. garantire i Livelli Essenziali di Assistenza concordati fra Stato e Regioni; 2. assicurare un'efficace prevenzione sanitaria; 3. diffondere la cultura della “promozione della salute”. Oltre al documento elaborato dagli studiosi del Gruppo di Tavistock esistono altri importanti codici etici internazionali di più specifico interesse psicologico clinico e psichiatrico: 1. “Dichiarazione sui diritti dei ritardati mentali” (1971, O.N.U.); 2. “Principi per la protezione delle persone malate di mente e per il miglioramento delle cure psichiatriche” (1991, O.N.U.); 3. “Medicina Psichiatrica Legale: 10 principi di base” (1996, O.M.S.) 4. “Dichiarazioni di Helsinki” (1964, 1975, 1989, World Medical Association); 5. “Dichiarazioni sull'uso e l'abuso degli psicofarmaci” (1975, 1983, World Medical Association); 6. “Dichiarazione sulle questioni etiche riguardanti i malati mentali” (1995, World Medical Association); 7. “Dichiarazioni delle Hawaii” (1977, 1983, 1996, World Psychiatric Association); 8. “Dichiarazione di Atene sui diritti dei malati di mente” (1989, World Psychiatric Association); In ambito più strettamente Europeo, invece, vanno citati 1. la “Raccomandazione sulla protezione legale dei malati di mente ospedalizzati contro la loro volontà” (R.83, 1983); 2. la “Raccomandazione sulla psichiatria ed i diritti umani” (R.1235, 1994); 3. la “Convenzione sui diritti umani e la biomedicina (art. 7, 1996 ); (tutti i tre emanati dal Consiglio d' Europa); 4. le “Good Clinical Trial Practice” emanate nel 1987 dalla Comunità Europea. Per quanto riguarda invece le normative del nostro Paese La Costituzione della Repubblica Italiana tutela la riservatezza come diritto fondamentale dell’uomo: • vietando ogni forma di ispezione o perquisizione personale (articolo 13); • proclamando l’inviolabilità del domicilio (articolo 14); • garantendo “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione“ (articolo15). L’UNIONE EUROPEA con la direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione n. 95/46/CE del 24 ottobre 1995, obbliga gli stati membri ad assicurare “la protezione delle libertà e dei diritti fondamentali delle persone fisiche, in particolare della loro vita privata, rispetto al trattamento dei dati personali”. In attuazione di una specifica direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea, il 31.12.1996 è stata emanata nel nostro Paese la legge 675/96 “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali“, che si è posta a salvaguardia dei diritti dei cittadini rispetto all’uso dei dati personali, compresi quelli forniti ai Servizi Sanitari pubblici e privati ed alle organizzazioni sanitarie che li compongono. Negli anni tra il 1997 ed il 2002, poi, la normativa italiana sulla tutela dei dati personali si è arricchita di varie disposizioni legislative ulteriori, che hanno avuto soprattutto il compito di cercare di definire e di regolamentare l’equilibrio che deve sussistere tra il dovere della Società di acquisire quel minimo di informazioni sui propri cittadini necessarie a garantire il funzionamento della Pubblica Amministrazione ed il legittimo diritto di ogni singolo cittadino a veder salvaguardata la propria “privacy”. Dal 1° Gennaio 2004 la Legge n. 675/96 “Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali” è stata quindi sostituita dal Decreto legislativo 30 Giugno 2003, n. 196 “Codice in materia di protezione dei dati personali”, che riorganizza e completa tutte le precedenti disposizioni nazionali emanate su questa materia. Secondo l’attuale normativa, i dati personali sono “proprietà” del soggetto al quale si riferiscono (che viene definito con il termine di “interessato”), e pertanto “Chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano” (D.Lgs. 30-62003 n. 196 “Codice in materia di protezione dei dati personali” – Art. 1 “Diritto alla protezione dei dati personali”). Quindi, salvo eccezioni previste tassativamente dalla legge, i “dati personali” possono essere utilizzati, trattati e conservati solo per gli scopi, per il tempo e con i modi autorizzati dall’interessato. ALCUNE DEFINIZIONI FONDAMENTALI (Fonte: Art. 4 del D.Lgs. 30-6-2003 n. 196 “Codice in materia di protezione dei dati personali”) • Interessato: la persona fisica, la persona giuridica, l'ente o l'associazione cui si riferiscono i dati personali; • Dati identificativi: i dati personali che permettono l’identificazione diretta dell’interessato; • Dato personale: qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, ivi compreso un numero di identificazione personale. • Dati sensibili: i dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale; • Dati giudiziari: i dati personali idonei a rivelare provvedimenti di cui all'articolo 3, comma 1, lettere da a) a o) e da r) a u), del D.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti, o la qualità di imputato o di indagato ai sensi degli articoli 60 e 61 del codice di procedura penale. • Trattamento: qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati; • Titolare: la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione od organismo cui competono, anche unitamente ad altro titolare, le decisioni in ordine alle finalità, alle modalità del trattamento di dati personali e agli strumenti utilizzati, ivi compreso il profilo della sicurezza; • Responsabile: la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione od organismo preposti dal titolare al trattamento di dati personali; • Incaricati: le persone fisiche autorizzate a compiere operazioni di trattamento dal titolare o dal responsabile. • Comunicazione: il dare conoscenza dei dati personali a uno o più soggetti determinati diversi dall'interessato, dal rappresentante del titolare nel territorio dello Stato, dal responsabile e dagli incaricati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione; • Diffusione: il dare conoscenza di dati personali a soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione. • Dato anonimo: il dato che in origine, o a seguito di trattamento, non può essere associato ad un interessato identificato o identificabile; • Blocco: la conservazione di dati personali con sospensione temporanea di ogni altra operazione del trattamento; • Banca di dati: qualsiasi complesso organizzato di dati personali, ripartito in una o più unità dislocate in uno o più siti; • Garante per la tutela delle riservatezza dei dati personali: l’ Autorità istituita dalla legge 31 dicembre 1996, n. 675 , di cui si specificano compiti e funzioni negli artt. 153 e seguenti del D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 “Codice in materia di protezione dei dati personali”. Il D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 definisce quindi cinque capisaldi per il trattamento dei dati personali. Secondo quanto da esso esplicitamente stabilito, i dati devono: • essere raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi ed utilizzati solo compatibilmente con tali scopi; • essere esatti ed aggiornati; • essere pertinenti, completi, e non eccedenti rispetto al fine per cui sono stati conferiti; • essere conservati in una forma che consenta l’identificazione dell’interessato per un tempo non superiore agli scopi per cui sono stati raccolti o trattati; • essere trattati lecitamente e correttamente. Il D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 individua inoltre con precisione i soggetti a cui competono diritti e doveri rispetto al trattamento dei dati personali: • L’interessato: è la persona a cui si riferiscono i dati personali; • Il titolare: è la persona fisica o giuridica su cui ricadono gli obblighi e le responsabilità, anche penali, dell’attuazione della normativa; • Il responsabile: è la persona che gestisce il controllo e l’organizzazione delle procedure nei rapporti con l’interessato (nel caso di servizi con competenze cliniche, dato il sovrapporsi delle norme sul segreto professionale, il responsabile è il medico direttore della struttura o chi ne fa le veci); • L’incaricato (o gli incaricati): è colui che materialmente rileva, tratta o accede ai dati seguendo le istruzioni del responsabile; • Il Garante per la tutela delle riservatezza dei dati personali: è l’autorità indipendente a cui la legge attribuisce compiti di intervento e vigilanza sull’operato dei soggetti pubblici e privati relativamente ai dati personali ed al loro trattamento. Il D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 è quindi ispirato alla semplificazione delle procedure in materia di protezione dei dati personali, all’introduzione di nuove garanzie per i cittadini ed alla razionalizzazione delle norme esistenti. Il provvedimento, sulla base dell’esperienza di 6 anni, riunisce in unico contesto la legge 675/1996 e gli altri decreti legislativi, regolamenti e codici deontologici che si sono succeduti in questi anni, e contiene anche importanti innovazioni tenendo conto della “giurisprudenza” del Garante e della direttiva dell’Unione Europea n. 2000/58 sulla riservatezza nelle comunicazioni elettroniche. Il D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 è diviso in tre parti: • la prima dedicata alle disposizioni generali, riordinate in modo tale da trattare tutti gli adempimenti e le regole del trattamento con riferimento ai settori pubblico e privato; • la seconda è la parte speciale dedicata a specifici settori: questa sezione,oltre a disciplinare aspetti in parte inediti (informazione giuridica, notificazioni di atti giudiziari, dati sui comportamenti debitori), completa anche la disciplina attesa da tempo per il settore degli organismi sanitari e quella dei controlli sui lavoratori; • la terza affronta la materia delle tutele amministrative e giurisdizionali con il consolidamento delle sanzioni amministrative e penali e con le disposizioni relative all’Ufficio del Garante. Il Codice, che rappresenta il primo tentativo al mondo di conformare le innumerevoli disposizioni relative anche in via indiretta alla privacy, è entrato in vigore quasi integralmente il 1° Gennaio 2004. Vediamo perciò ora, in sintesi, alcuni dei punti rilevanti del testo, che in molte parti recepisce e codifica le numerose pronunce emanate e i pareri forniti in questi anni dal Garante. Notificazione. Una delle principali semplificazioni introdotte dal D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 riguarda l’adempimento della notificazione al Garante, ovvero dell’atto con cui l’impresa, il professionista o la pubblica amministrazione segnala all’Autorità i trattamenti di dati che si intendono effettuare. Mentre con l’originale impianto della legge 675/1996, e le successive modificazioni, dovevano notificare tutti i soggetti non esplicitamente esentati, nel testo unico si rovescia l’impostazione e si indicano solo i pochi casi nei quali la notifica va effettuata. La notifica dovrà essere effettuata solo in particolari casi di trattamento di dati sensibili (specie se sanitari) con determinate modalità d’uso, ma anche per trattamenti particolarmente a rischio, effettuati con strumenti elettronici, nel campo della profilazione dei consumatori, oppure in relazione a procedure di selezione del personale e ricerche di marketing, nonché in ipotesi di utilizzo di informazioni commerciali e relative alla solvibilità. Non solo diminuiscono le ipotesi di notifica obbligatoria, ma vengono snellite anche le modalità della stessa: solo per via telematica, seguendo le indicazioni del Garante quanto all’utilizzo della firma digitale. E’ l’Art. 37 del D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 ad indicarci chi deve inviare al Garante per la Privacy la notificazione con cui l’Impresa, il Professionista o la Pubblica Amministrazione segnala i trattamenti di dati che si intendono effettuare. Vediamo pertanto, nel dettaglio, cosa prevede tale Articolo. 37. Notificazione del trattamento. 1. Il titolare notifica al Garante il trattamento di dati personali cui intende procedere, solo se il trattamento riguarda: a) dati genetici, biometrici o dati che indicano la posizione geografica di persone od oggetti mediante una rete di comunicazione elettronica; b) dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, trattati a fini di procreazione assistita, prestazione di servizi sanitari per via telematica relativi a banche di dati o alla fornitura di beni, indagini epidemiologiche, rilevazione di malattie mentali, infettive e diffusive, sieropositività, trapianto di organi e tessuti e monitoraggio della spesa sanitaria; c) dati idonei a rivelare la vita sessuale o la sfera psichica trattati da associazioni, enti od organismi senza scopo di lucro, anche non riconosciuti, a carattere politico, filosofico, religioso o sindacale; ………….. d) dati trattati con l'ausilio di strumenti elettronici volti a definire il profilo o la personalità dell'interessato, o ad analizzare abitudini o scelte di consumo, ovvero a monitorare l'utilizzo di servizi di comunicazione elettronica con esclusione dei trattamenti tecnicamente indispensabili per fornire i servizi medesimi agli utenti; e) dati sensibili registrati in banche di dati a fini di selezione del personale per conto terzi, nonché dati sensibili utilizzati per sondaggi di opinione, ricerche di mercato e altre ricerche campionarie; f) dati registrati in apposite banche di dati gestite con strumenti elettronici e relative al rischio sulla solvibilità economica, alla situazione patrimoniale, al corretto adempimento di obbligazioni, a comportamenti illeciti o fraudolenti. Consenso. Il nuovo Codice della privacy sviluppa il principio del bilanciamento degli interessi con uno snellimento degli adempimenti a carico delle aziende. L’area del consenso viene sostanzialmente confermata per ipotesi già esistenti (artt. 11, 12 e 20 della legge 675/1996), con la previsione di alcune altre ipotesi di esonero con riferimento a settori specifici (tra le altre, quelle di utilizzo per perseguire un legittimo interesse del titolare con particolare riferimento all’attività dei gruppi bancari e per i trattamenti effettuati da associazioni no profit con riferimento a soci e aderenti). Informativa. Rimane fermo l’adempimento dell’informativa agli interessati preventiva al trattamento dei dati. Il Garante può, comunque, individuare modalità semplificate in particolare per i servizi telefonici di assistenza e informazione al pubblico (call center). Sanità. In ambito sanitario si semplifica l’informativa da rilasciare ai pazienti e si consente di manifestare il consenso al trattamento dei dati con un’unica dichiarazione resa al medico di famiglia o all’organismo sanitario (il consenso vale anche per la pluralità di trattamenti a fini di salute erogati da distinti reparti e unità dello stesso organismo, nonché da più strutture ospedaliere e territoriali). E’ comunque necessario che le informazioni essenziali vengano date per iscritto, con linguaggio chiaro e che siano complete ed esaustive. Non è pertanto accettabile che l’informativa sia redatta come una semplice liberatoria formale, poiché il consenso dell’interessato al trattamento deve essere libero ed informato. Il D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 prevede quindi che le strutture sanitarie pubbliche adottino le misure adeguate per facilitare l’esercizio dei diritti dell’interessato. Per il settore sanitario vengono inoltre codificate misure per il rispetto dei diritti del paziente: distanze di cortesia, niente appelli nominativi dei pazienti in sala di attesa, certezze e cautele nelle informazioni telefoniche e nelle informazioni sui malati ricoverati, estensione delle esigenze di riservatezza anche agli operatori sanitari non tenuti al segreto professionale. Lavoro. Viene confermata l’elaborazione di un codice di deontologia e buona condotta che dovrà fissare regole per l’informativa ed il consenso anche degli annunci per finalità di occupazione (selezione del personale) e della ricezione dei curricula. Il Codice affronta anche la questione dei controlli a distanza con la riaffermazione di quanto sancito dall’ articolo 4 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970).Il lavoratore domestico è tenuto a mantenere la necessaria riservatezza per tutto quanto si riferisce alla vita familiare. Telecomunicazioni. Il Codice si inserisce nella linea di tendenza europea e stabilisce un nuovo e più ridotto termine massimo per la conservazione dei dati del traffico telefonico per ragioni di accertamento e repressione reati, prescrivendo un termine di trenta mesi rispetto a quello attuale di 5 anni, secondo modalità che dovranno essere stabilite con decreto ministeriale. Ridotto periodo di conservazione, anonimato e necessità del consenso per il trattamento dei dati sulla localizzazione dei cellulari. Trattamento in ambito giudiziario. Vengono meglio garantite le parti nei processi. Il Codice prevede infatti che l’interessato possa chiedere, nel processo, di apporre sulla sentenza un’annotazione con la quale si avvisa che, nel caso di pubblicazione del verdetto su riviste giuridiche o su supporti elettronici o in caso di diffusione mediante reti telematiche, devono essere omessi i dati dell’interessato. Con disposizione espressa si attribuisce maggiore tutela ai minori nel processo, non solo in quello penale, ma anche nei settori civili e amministrativi. Internet, videosorveglianza, direct marketing. Per settori così delicati il codice conferma la previsione di appositi codici deontologici specifici. Pubblica amministrazione. Il Codice innova anche, accogliendo indicazioni del Garante, nella materia della notificazione degli atti giudiziari e degli atti amministrativi e impone la regola della busta chiusa per i casi di notifica effettuata a persona diversa dal destinatario. Viene sancita espressamente la necessità per gli enti pubblici di approvare regolamenti per i trattamenti dei dati sensibili, ma solo con il parere conforme del Garante. Liste elettorali. Le liste elettorali, con il nuovo Codice, non possono essere più usate per promozione commerciale: solo per scopi collegati alla disciplina elettorale e per finalità di studio (ricerca statistica, scientifica o storica o a carattere socio assistenziale). Il D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 prevede infine una serie di sanzioni amministrative, civili o penali per chi ne viola le disposizioni: ad esempio, l’articolo 161 di questo Codice punisce con sanzioni amministrative che vanno dai tremila ai novantamila euro l’omessa o inidonea informativa all'interessato; l’articolo 163 punisce con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da diecimila euro a sessantamila euro l’omessa o incompleta notificazione al Garante ai sensi dei propri articoli 37 e 38; l’articolo 167 punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni chi procede ad illecito trattamento di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 17, 20, 21, 22, commi 8 e 11, 25, 26, 27 e 45 di questo D.Lgs.; varie altre sanzioni amministrative o penali sono inoltre previste, sempre nel Titolo III, per più specifiche violazioni di singole norme di questo Codice. Da tutte queste norme deriva altresì il risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del Codice Civile a chiunque cagioni danni a terzi nel trattamento dei dati personali. In sintesi, quindi, il D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003, che unifica ed aggiorna la disciplina sorta nel nostro Paese con la Legge 675/1996 e quindi sviluppatasi con le modifiche ed integrazioni di quest’ultima (tra le quali vanno citate almeno il Decreto del Presidente della Repubblica n. 318 del 28 luglio 1999 pubblicato sulla G.U. Serie Generale del 14 settembre 1999, n. 216 e la Legge 325 del 3 novembre 2000 pubblicata sulla G. U. n. 262 del 9 novembre 2000) costituisce ormai un complesso di norme che ogni titolare di studio professionale o di altra struttura lavorativa è chiamato a conoscere e ad osservare, e per la violazione delle quali sono previste pesanti sanzioni. Art. 11 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo è strettamente tenuto al segreto professionale. Pertanto non rivela notizie, fatti o informazioni apprese in ragione del suo rapporto professionale, né informa circa le prestazioni professionali effettuate o programmate, a meno che non ricorrano le ipotesi previste dagli articoli seguenti. Art. 12 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo si astiene dal rendere testimonianza su fatti di cui è venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto professionale. Lo psicologo può derogare all’obbligo di mantenere il segreto professionale, anche in caso di testimonianza, esclusivamente in presenza di valido e dimostrabile consenso del destinatario della sua prestazione. Valuta, comunque, l’opportunità di fare uso di tale consenso, considerando preminente la tutela psicologica dello stesso. Art. 13 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Nel caso di obbligo di referto o di obbligo di denuncia, lo psicologo limita allo stretto necessario il riferimento di quanto appreso in ragione del proprio rapporto professionale, ai fini della tutela psicologica del soggetto. Negli altri casi, valuta con attenzione la necessità di derogare totalmente o parzialmente alla propria doverosa riservatezza, qualora si prospettino gravi pericoli perla vita o per la salute psicofisica del soggetto e/o di terzi. Art. 14 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo, nel caso di intervento su o attraverso gruppi, è tenuto ad informare, nella fase iniziale, circa le regole che governano tale intervento. È tenuto altresì ad impegnare, quando necessario, i componenti del gruppo al rispetto del diritto di ciascuno alla riservatezza. Art. 15 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Nel caso di collaborazione con altri soggetti parimenti tenuti al segreto professionale, lo psicologo può condividere soltanto le informazioni strettamente necessarie in relazione al tipo di collaborazione. Il Codice Deontologico, in quest’ultimo articolo, lascia al singolo Psicologo la più completa autonomia nella specifica valutazione di quali siano, di volta in volta e caso per caso, “le informazioni strettamente necessarie in relazione al tipo di collaborazione” che è opportuno condividere con gli altri operatori che si occupano del medesimo caso. Come muoversi? E’ opportuno tenere presente il principio fondamentale di tutto il Codice Deontologico stesso: quello sancito in primo luogo dal primo comma del suo articolo 3 e più volte ripreso all’interno di vari articoli successivi tra i quali appunto gli artt. 12 e 13 sopra integralmente riportati: Il prIncIpIo della “tutela” e della salvaguardia del benessere psicologico e psicofisico del soggetto stesso SEGRETO PROFESSIONALE Il segreto professionale viene sancito dal codice penale e dai codici deontologici ed attiene al diritto/dovere del singolo professionista di non rivelare a terzi fatti, informazioni o dati appresi da un determinato soggetto in ragione del rapporto professionale instaurato con lo stesso, a meno che non sussista una “giusta causa”. PRIVACY Diritto di ogni persona alla riservatezza dei propri dati sia personali, sia sensibili, come essi sono definiti dalla Legge 675/96 e dalle sue successive modifiche ed integrazioni. In base all’ art. 11 della legge 675/96 il trattamento dei dati personali di tipo generico da parte di soggetti privati è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato. Il consenso è validamente prestato solo se è espresso liberamente, in forma specifica e documentata per iscritto, e se sono state date all’interessato (cliente-committente) – per iscritto ovvero verbalmente – le seguenti informazioni (art. 10 della Legge): • sulle finalità (per l’espletamento dell’incarico professionale) e modalità del trattamento cui sono destinati i “dati personali”; • sulla necessità del conferimento di tutti quei dati che sono indispensabili per l’assolvimento dell’incarico professionale; • circa l’ambito professionale di comunicazione o diffusione dei dati stessi; • sui diritti dell’interessato (cliente-utente) circa il trattamento dei suoi dati personali: diritti elencati nell’art. 13 della legge; • il nome e l’indirizzo del “responsabile” – ove sia una persona diversa dal libero professionista quale “titolare” dei dati – del trattamento dei dati. Per quanto riguarda invece i dati personali definiti “sensibili”, con provvedimento n. 4/2000 emesso in data 20.09.2000 dal “Garante” (e pubblicato sul n.229 della “Gazzetta ufficiale” del 30.09.2000) i liberi professionisti iscritti in Albi o Elenchi professionali sono stati autorizzati in via generale – dal 01 ottobre 2000 fino al 31 dicembre 2001 – a trattare i “dati sensibili” di cui all’art. 22, comma 1°, della legge n. 675/1996. Per gli Psicologi assume particolare rilievo il provvedimento n. 2/2000 emesso in data 20.09.2000 dal “Garante” (e pubblicato sul n. 229 della “Gazzetta ufficiale” del 30.09.2000) con il quale si prevede che l’autorizzazione al trattamento di dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale “è rilasciata, anche senza richiesta: a) ai medici-chirurghi, ai farmacisti, agli odontoiatri, agli psicologi e agli altri esercenti le professioni sanitarie iscritti in albi o in elenchi”. Si precisa che “in tali casi l’ autorizzazione è rilasciata al fine di consentire ai destinatari di adempiere o di esigere l’ adempimento di specifici obblighi o di eseguire specifici compiti previsti da leggi, dalla normativa comunitaria o da regolamenti (…) . Il trattamento può riguardare anche la compilazione di cartelle cliniche, di certificati e di altri documenti relativi alla gestione amministrativa la cui utilizzazione sia necessaria per i fini su indicati”. È quindi necessario che lo Psicologo faccia sottoscrivere al proprio cliente, all’atto del conferimento dell’incarico professionale, una dichiarazione autorizzatoria (che esprima cioè il suo consenso) al trattamento sia dei dati di tipo generico sia di quelli considerati “sensibili”. I dati e le informazioni la cui riservatezza è tutelata dalle norme cosiddette sulla “privacy” riguardano un’insieme ancora più ampio di quello ricompreso nel concetto di “segreto professionale”, che concerne invece unicamente quanto appreso durante l’esercizio della propria attività professionale specifica. Il concetto di “privacy” indica allo Psicologo che non è sufficiente non divulgare dati ed informazioni da esso appresi ad esempio all’interno dei colloqui con i propri clienti, mediante la somministrazione di reattivi o tramite incontri con i loro familiari, ma che non deve trapelare all’esterno dello studio professionale o della Struttura sanitaria o assistenziale la benché minima informazione relativa alla stessa sussistenza di qualunque tipo di rapporto professionale tra lo Psicologo ed il paziente stesso. Art. 16 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo redige le comunicazioni scientifiche, ancorché indirizzate ad un pubblico di professionisti tenuti al segreto professionale, in modo da salvaguardare in ogni caso l’anonimato del destinatario della prestazione. Art. 25 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo non usa impropriamente gli strumenti di diagnosi e di valutazione di cui dispone. Nel caso di interventi commissionati da terzi, informa i soggetti circa la natura del suo intervento professionale, e non utilizza, se non nei limiti del mandato ricevuto, le notizie apprese che possano recare ad essi pregiudizio. Nella comunicazione dei risultati dei propri interventi diagnostici e valutativi, lo psicologo è tenuto a regolare tale comunicazione anche in relazione alla tutela psicologica dei soggetti. LA DIAGNOSI E LA CERTIFICAZIONE PSICOLOGICA PER GLI PSICOLOGI PROFESSIONISTI Qualche tempo fa, una Collega dirigente del Servizio Distrettuale di Psicologia di una Azienda U.S.L. ha rivolto al proprio Ordine Regionale di appartenenza alcuni quesiti, relativi alla possibilità per gli Psicologi delle A.U.S.L. di certificare una diagnosi Psicologica e, in particolare, di certificare una diagnosi “codificata”. Si riporta pertanto qui di seguito, considerato l’interesse che tali quesiti e le relative risposte possono suscitare anche in molti altri Colleghi che operano non solo nel Servizio pubblico ma anche al di fuori di esso, l’estratto della lettera di questa Collega al proprio Ordine Regionale e la relativa risposta ad essa fornita. IL QUESITO RIVOLTO Si richiede un parere scritto in merito alla certificazione della diagnosi da inserire nei protocolli e procedure per gli Psicologi che operano nei Servizi di questa Azienda U.S.L. Tale richiesta nasce dall’esigenza di informare i Colleghi del Servizio di Psicologia dell’Azienda e pubblicare tali note nell’Archivio di Psicologia dell’Azienda. Si ricorda che nella stesura delle procedure relative alle visite psichiatriche e psicologiche individuate e approvate per il servizio di Igiene Mentale viene richiesta una diagnosi sul paziente da poter inserire all’interno del sistema informativo codificabile con D.S.M.-IV o I.C.D.-10. Dalla riunione con i Colleghi sono stati posti i seguenti interrogativi: - E’ possibile per gli Psicologi certificare? - E’ possibile certificare una diagnosi codificata? LA RISPOSTA DELL’ORDINE Si rileva innanzitutto che il parere richiesto al riguardo verte, essenzialmente, sulla titolarità della potestà certificatrice e sulla individuazione dei soggetti legittimati a certificare. Prima di affrontare nel merito la questione, nei limiti correlati alla esigenza di fare chiarezza sulla puntuale situazione del Servizio Distrettuale di Psicologia, giova premettere che la potestà certificatrice ha carattere sussidiario, nel senso che essa in tanto esiste, è riconosciuta ed è esercitata in quanto, a monte, sono definite ed attribuite ex lege competenze e funzioni. Tale potestà certificatrice spetta, come più avanti è evidenziato, alla pubblica amministrazione, ovvero ai soggetti ad essa equiparati. Quanto sollevato e sintetizzato nei due punti di domanda a conclusione della Vostra richiesta - se cioè “per gli Psicologi” che operano per conto del Servizio sia “possibile certificare” e se sia “possibile certificare una diagnosi codificata”, richiede, prioritariamente, che sia definito il contesto entro cui il problema va correttamente collocato ed esaminato “ratione materiae” ed entro cui vanno ricercati principi, criteri e previsioni normative dai quali desumere le soluzioni appropriate e legittimamente fondate. Il contesto di riferimento, alla luce dell’ordinamento positivo, risulta connotato: - dalla natura di pubblica amministrazione della AUSL; - dalla natura pubblica delle funzioni e dei compiti istituzionali che obbligatoriamente debbono essere svolti dalla AUSL e, quindi, dal Servizio Distrettuale di Psicologia, ai fini della tutela della salute; - dalle specifiche competenze assegnate e riconosciute alla professione di Psicologo dall’art. 1 della Legge 18 febbraio 1989, n. 56, nonché dalle competenze di psicoterapeuta nei termini previsti dall’art. 3 della medesima legge; - dai contenuti, contrattualmente stabiliti, del profilo professionale e della qualifica di appartenenza degli Psicologi che operano per conto dell’Azienda USL nell’ambito del Servizio Distrettuale di Psicologia; - dall’esercizio della professione di Psicologo, professione regolamentata dalla citata legge, e dalla connessa titolarità a certificare le risultanze delle relative prestazioni; - dall’obbligo del segreto professionale di cui agli artt. 622 c. p. e 200 c. p. p., confermato dall’art. 4 della legge 56/89. Tutto ciò premesso, si può a questo punto precisare che i certificati possono essere distinti in due categorie. Una riguarda i certificati qualificati “propri” e l’altra gli “impropri”. I primi consistono in dichiarazioni di scienza relativi a fatti dei quali il titolare della potestà certificatrice ha diretta ed immediata conoscenza per ragioni d’ufficio, ed hanno lo scopo di “testificare” quanto risulta da registri, elenchi e da atti e documenti tenuti dalla P. A. (certificati anagrafici, certificati del casellario giudiziario, del catasto, etc.). Tali certificati determinano certezza legale “erga omnes”, superabile soltanto attraverso una sentenza che dichiari la falsità del contenuto. I certificati, invece, cosiddetti “impropri” hanno un contenuto diverso in quanto esso è la risultante di una attività di accertamento condotta da parte dell’ufficio pubblico competente di fatti obiettivi riscontrati a seguito di ispezioni, di esami o di indagini specifici, in conformità ai quali, ad esempio, per l’argomento che qui interessa, viene formulata una diagnosi, una terapia e quant’altro di pertinenza. A tal proposito, da taluni studiosi viene individuata anche la categoria dei certificati cosiddetti estimativi (certificati di sana e robusta costituzione, certificati di idoneità psichica e fisica ai fini del conseguimento di determinate licenze, etc.). Laddove vi è il diritto soggettivo ad esercitare la professione vi è strettamente congiunto il diritto a certificare il contenuto ed il risultato delle prestazioni effettuate. Il legislatore non ha ancora provveduto ad aggiornare le varie disposizioni di legge sulla potestà certificatrice in ambito Psicologico di cui sono titolari gli Psicologi iscritti all’Albo professionale. Disposizioni che debbono essere interpretate in conformità ai criteri logico sistematici [art. 12 delle preleggi] per essere coerenti alla recente istituzione della professione di Psicologo e alla costituzione dell’Ordine professionale avvenuta nel 1994. I certificati cosiddetti “impropri”, ed anche quelli c. d. estimativi, in ragione del loro contenuto, non determinano alcuna certezza legale erga omnes, ma assolvono ad obiettivi ed a scopi strumentali che la legge stabilisce puntualmente ogni qual volta ritiene prevalente tutelare l’interesse generale. In tale prospettiva, tali certificati sono destinati a conferire rilevanza giuridica ai fatti accertati. Dall’insieme delle disposizioni di legge che disciplinano la materia si enucleano taluni principi, anche non scritti, secondo cui: - la potestà certificatrice è propria delle pubbliche autorità ovvero dei soggetti riconosciuti equiparati; - soltanto gli atti di certificazione da loro emessi hanno efficacia e producono determinati effetti giuridici; - soltanto le amministrazioni, gli uffici ed i soggetti che svolgono pubbliche funzioni o che espletano attività di pubblico interesse sono legittimati a rilasciare certificati il cui contenuto non può che essere funzionalmente consequenziale all’attività espletata, in conformità alle competenze istituzionali. C’è ancora da aggiungere che gli Psicologi, nell’esercitare la professione regolamentata dalla legge 56/89, svolgono attività di pubblico interesse e, pertanto, essi debbono essere annoverati tra i su richiamati soggetti equiparati. L’esposizione fin qui svolta consente di tirare le fila per formulare la risposta al quesito sulla legittimità dello Psicologo a certificare quanto egli ha accertato nell’esercizio della professione e nel rispetto dei suoi doveri d’ufficio (“E’ possibile per gli Psicologi certificare?”). La risposta non può non essere affermativa, nel segno del riconoscimento in capo agli Psicologi del Servizio Distrettuale di Psicologia della potestà di certificare la diagnosi da essi elaborata in ambito Psicologico, nei termini di cui ai citati artt. 1 e 3 della legge 56/89. Diverso orientamento risulterebbe “contra legem”, perché verrebbe ad essere inflitto un vulnus ai diritti della professione di Psicologo ed al diritto di svolgere le mansioni del profilo professionale e della qualifica di appartenenza. Per quanto, concerne, infine, il secondo interrogativo (“E’ possibile, per gli Psicologi, certificare una diagnosi codificata?”) la risposta è del pari affermativa. La certificazione codificata non solo è possibile, ma costituisce un atto dovuto, nel rispetto delle norme che disciplinano le competenze delle professioni appartenenti al ruolo sanitario. Le diagnosi psicologiche e le rispettive certificazioni degli Psicologi vanno eventualmente codificate congiuntamente ai certificati medici riguardanti le diagnosi delle patologie organiche qualora vengano riscontrate. Diversamente si dovrebbe ipotizzare una sottrazione di competenze nei confronti degli Psicologi ovvero una subalternità degli Psicologi, scientificamente non accettabile. In ambedue i casi si verrebbe a concretizzare fattispecie in cui possono ravvisarsi elementi di illegittimità. Questa complessiva risposta al “secondo interrogativo” poco sopra riportato, peraltro, è applicabile a tutti gli Psicologi iscritti all’Albo, e non solo a quelli operanti all’interno del Servizio Sanitario Pubblico. A tutti gli Psicologi professionisti, infatti (indipendentemente dal fatto che siano essi dipendenti, convenzionati o liberi professionisti) , è consentito emettere una diagnosi, e ciò in virtù di quanto loro riconosciuto dall’articolo 1 della Legge 56/89 che, testualmente, afferma che “La professione di psicologo comprende l'uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazioneriabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito”. E’ tuttavia evidente che la “diagnosi” che qui si riconosce come di competenza dello Psicologo deve essere necessariamente qualificabile come una “diagnosi psicologica”, e non può ovviamente “sconfinare” in altri settori che di competenza dello Psicologo chiaramente non sono. Inoltre, una specifica attenzione in fase di certificazione diagnostica deve essere prestata da ogni Psicologo al fine di non incorrere nella violazione di norme che attribuiscono in via esclusiva specifiche competenze ad altre figure professionali, ad esempio prescrivendo un periodo di astensione dall’attività lavorativa o certificando uno stato di tossicodipendenza (facoltà che le attuali normative vigenti attribuiscono infatti, in via esclusiva, ai Medici). E’ invece di competenza dello Psicologo clinico, a maggior ragione se abilitato anche all’esercizio della Psicoterapia, qualunque diagnosi a carattere psicopatologico, eventualmente (come sopra si rilevava) anche con l’utilizzo dei codici del D.S.M.-IV o dell’I.C.D.-10, anche se ovviamente una “diagnosi psicologica” correttamente compiuta va ben oltre una semplice “codificazione nosografia” e deve invece estendersi alla rilevazione di tutte le principali problematiche, risorse e necessità del soggetto e dell’ambiente che lo circonda. Si rammenta infatti, con specifico riferimento alla figura dello Psicologo-psicoterapeuta, che l’art. 3 della legge 56/89 equipara di fatto lo Psicoterapeuta non medico a quello non medico per tutti i tipi di attività, eccezion fatta (comma 2) per “ogni intervento di competenza esclusiva della professione medica” tra i quali rientrano ovviamente, oltre ai due tipi di intervento documentale già poco sopra citati (cioè appunto la prescrizione di un periodo di astensione dall’attività lavorativa o la certificazione di uno stato di tossicodipendenza), anche competenze di ancor più chiara esclusività degli Iscritti all’Ordine dei Medici-chirurghi e egli Odontoiatri quali ad esempio l’effettuazione sulle persone di interventi di tipo cosiddetto “intrusivo” (operazioni chirurgiche, incisioni, iniezioni endovenose ecc.) o la somministrazione di qualunque tipo di farmaco . Per tornare invece a questioni riguardanti specificatamente l’attività professionale dello Psicologo, vorrei sottolineare come mi siano state in svariate occasioni rivolte dai Colleghi domande relative all’obbligo o meno di consegna ai pazienti, o ad altri Committenti che ne fanno richiesta, dei protocolli originali dei tests psicologici effettuati, e come tali domande di chiarimenti si siano, in questi ultimi tempi, particolarmente intensificate anche alla luce dei vari provvedimenti legislativi in materia di tutela della privacy. Ritengo opportuno, pertanto, portare a conoscenza di tutti i Colleghi di alcuni elementi che possono, probabilmente, rivestire al riguardo un interesse di carattere generale, tale da giustificarne perciò la pubblicazione in questa sede. Innanzitutto, occorre al riguardo ricordare ciò che affermano su questo problema gli articoli 15, 16, 17, 21 e 25 del nostro Codice Deontologico. Articolo 15 Nel caso di collaborazione con altri soggetti parimenti tenuti al segreto professionale, lo Psicologo può condividere soltanto le informazioni strettamente necessarie in relazione al tipo di collaborazione. Articolo 16 Lo Psicologo redige le comunicazioni scientifiche, ancorché indirizzate ad un pubblico di professionisti tenuti al segreto professionale, in modo da salvaguardare in ogni caso l’anonimato del destinatario della prestazione. Articolo 17 La segretezza delle comunicazioni deve essere protetta anche attraverso la custodia e il controllo di appunti, note, scritti o registrazioni di qualsiasi genere e sotto qualsiasi forma, che riguardino il rapporto professionale. Tale documentazione deve essere conservata per almeno i cinque anni successivi alla conclusione del rapporto professionale, fatto salvo quanto previsto da norme specifiche. Lo Psicologo deve provvedere perché, in caso di sua morte o di suo impedimento, tale protezione sia affidata ad un collega ovvero all’Ordine professionale. Lo Psicologo che collabora alla costituzione ed all’uso di sistemi di documentazione si adopera per la realizzazione di garanzie di tutela dei soggetti interessati. Articolo 21 Lo Psicologo, a salvaguardia dell’utenza e della professione, è tenuto a non insegnare l’uso di strumenti conoscitivi e di intervento riservati alla professione di Psicologo, a soggetti estranei alla professione stessa, anche qualora insegni a tali soggetti discipline Psicologiche. È fatto salvo l’insegnamento agli studenti del corso di laurea in Psicologia, ai tirocinanti, ed agli specializzandi in materie Psicologiche. Articolo 25 Lo Psicologo non usa impropriamente gli strumenti di diagnosi e di valutazione di cui dispone. Nel caso di interventi commissionati da terzi, informa i soggetti circa la natura del suo intervento professionale, e non utilizza, se non nei limiti del mandato ricevuto, le notizie apprese che possano recare ad essi pregiudizio. Nella comunicazione dei risultati dei propri interventi diagnostici e valutativi, lo Psicologo è tenuto a regolare tale comunicazione anche in relazione alla tutela Psicologica dei soggetti. Dall’esame complessivo di tali articoli emergono chiaramente due indicazioni generali: 1) L’uso dei tests Psicologici, inteso come “possibilità di utilizzarli mediante la loro somministrazione e/o interpretazione”, è assolutamente riservato agli Psicologi o, per quanto riguarda i test clinici, alle poche altre figure professionali abilitate (ad es. psichiatri, neurologi ecc.); 2) L’uso delle informazioni fornite dai test Psicologici, e quindi la comunicazione dei loro esiti, è, per quanto in parte estendibile anche ad altre figure professionali direttamente interessate, comunque limitato al minimo strettamente ritenuto di volta in volta necessario dallo stesso Psicologo che ha direttamente somministrato tali test. A tali vincoli nell’uso dei test e delle informazioni da essi ricavate imposte dal codice deontologico si aggiungono, tuttavia, altri vincoli (in alcuni casi ancora più “limitanti”) imposti dalle stesse Case editrici che ne curano la stampa e la diffusione nel nostro Paese. Ad esempio, la casa editrice Organizzazioni Speciali (O.S.) di Firenze, sicuramente una delle maggiori in Italia in questo specifico settore, vincola ogni utilizzatore dei test da essa pubblicati alla sottoscrizione di uno specifico “modulo di registrazione” comportante tutta una serie di precisi limiti ed assunzioni di responsabilità. Riportiamo perciò, qui di seguito, una significativa parte del testo di tale modulo, che deve essere sottoscritto da ogni professionista al momento in cui egli provvede per la prima volta all’acquisto di qualunque strumento Psicologico prodotto dall’O.S: MODULO DI REGISTRAZONE DEGLI UTENTI O.S. 2001 " Per l'uso dei materiali O.S., acquistati presso di Voi, ci impegnamo a rispettare le condizioni che seguono. 1) L'utilizzazione dei materiali deve essere condizionata a princìpi di riservatezza e il loro uso legato alle norme contenute nei manuali che li corredano. In nessun caso serviranno come strumento di conversazioni, di conferenze, di pubblicazioni divulgative, ecc. 2) I materiali saranno conservati in modo da impedirne l'accesso a persone non autorizzate perché non qualificate. 3) I materiali non verranno rivenduti né prestati a qualsiasi organizzazione o individuo senza il consenso delle O.S. Organizzazioni Speciali, consenso che deve essere richiesto in precedenza. 4) Tutti i moduli dei test Psicologici una volta che siano usati e che abbiano servito allo scopo proposto verranno realmente distrutti. 5) Tutti i materiali O.S. sono protetti dalle norme vigenti sui diritti d'autore e quindi non riproducibili in alcun modo (fotocopiato, computer o altro mezzo) senza autorizzazione; in particolare, le griglie di correzione e le tabelle di valutazione non vengono vendute ma cedute in licenza d'uso e pertanto non possono essere trasferite ad altri od utilizzate in una forma differente da quella predisposta da O.S. Abbiamo opportunamente valutato come queste condizioni siano state disposte al fine di tutelare la ricerca e prendiamo di conseguenza nota che (intendendo esemplificare e non limitare) ogni riproduzione anche parziale dei materiali O.S. o di loro singole parti (questionari, fogli di risposta, e/o di notazione, griglie, scale di valutazione, ecc.) eseguita con duplicatore, fotocopiatrice, computer o con ogni altro mezzo, è rigorosamente vietata in quanto costituirebbe violazione dei diritti d'autore. Di conseguenza, ove ci fosse utile usare parti o modificazioni dei test Psicologici vendutici, ve ne chiederemo autorizzazione riferendo alla Vostra favorevole predisposizione a queste concessioni quando siano dirette a consentire l'esecuzione di lavori sperimentali di rigorosa serietà scientifica. Qualunque autorizzazione comunque da Voi rilasciata deve essere portata e approvata in forma scritta". Le sopra riportate clausole 1, 2 e 4 meritano di essere particolarmente evidenziate. 1) L'utilizzazione dei materiali deve essere condizionata a princìpi di riservatezza e il loro uso legato alle norme contenute nei manuali che li corredano. In nessun caso serviranno come strumento di conversazioni, di conferenze, di pubblicazioni divulgative, ecc. Questa clausola sintetizza e ribadisce, con un’incisività per alcuni aspetti ancora maggiore, le indicazioni e le limitazioni relative all’uso delle informazioni provenienti dall’utilizzo dei tests presenti nei sopra riportati articoli 15,16,17 e 25 del vigente Codice Deontologico degli Psicologi Italiani. 2) I materiali saranno conservati in modo da impedirne l'accesso a persone non autorizzate perché non qualificate. Il significato di questa clausola appare sostanzialmente sovrapponibile a quello ribadito dal sopra riportato articolo 21 del nostro Codice Deontologico. 4) Tutti i moduli dei test Psicologici una volta che siano usati e che abbiano servito allo scopo proposto verranno realmente distrutti. Quest’ultima clausola richiesta dalla O.S. agli acquirenti dei propri strumenti Psicologici appare addirittura definitiva, risolutiva rispetto al problema evidenziato all’inizio del presente articolo. Il termine “realmente” in essa contenuto evidenzia infatti la necessità, al termine del loro uso, di una distruzione “fisica” dei moduli originali dei tests O.S. utilizzati, e quindi la totale impossibilità di una loro consegna sia al paziente sia ad altri eventuali terzi committenti. Inoltre, da quanto sopra emerso appare evidente che solo lo Psicologo che li ha materialmente utilizzati può valutare il momento in cui tale distruzione deve essere effettivamente attuata. Naturalmente, le ultime considerazioni qui evidenziate si riferiscono specificatamente ai test Psicologici editi in Italia dalle Organizzazioni Speciali di Firenze, che pur essendo una tra le maggiori case editrici che nel nostro Paese pubblicano test Psicologici non è certamente la sola. Come comportarsi, pertanto, qualora la domanda di consegna ai pazienti, o ad altri Committenti che ne fanno richiesta, dei protocolli originali dei tests psicologici effettuati, riguardi reattivi che sono pubblicati in Italia da altre Case editrici? A tal fine, a mio avviso, ci soccorre l’ultimo comma dell’art. 25 del vigente Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, già sopra riportato, che testualmente afferma che “Nella comunicazione dei risultati dei propri interventi diagnostici e valutativi, lo Psicologo è tenuto a regolare tale comunicazione anche in relazione alla tutela psicologica dei soggetti”. E’ infatti evidente che, invece, un esame diretto dei dati presenti nei protocolli originali dei tests psicologici da parte dei singoli soggetti che a tali tests si sono sottoposti esporrebbe sicuramente questi ultimi (a meno che essi non siano, ipotesi evidentemente assai “residuale” rispetto a quanto di norma generalmente accade, Psicologi regolarmente iscritti all’Albo e perciò abilitati all’esercizio della Professione) a pesanti rischi di interpretazione scorretta di tali dati, non avendo ovviamente essi le necessarie competenze tecniche per comprenderli correttamente e mettendo quindi, con ciò, direttamente a repentaglio la propria stessa serenità ed il proprio equilibrio interiori. Per tali motivi, almeno per quanto riguarda i test a carattere clinico – anche se essi non sono editi in Italia dall’O.S. e da altre Case Editrici che ne prevedano anch’esse la “materiale distruzione” alla fine del loro utilizzo da parte del Professionista – è evidente che lo Psicologo non debba di regola consegnare direttamente il proprio “materiale di lavoro” ai propri clienti, limitandosi invece a far pervenire loro una comunicazione adeguatamente “filtrata” sia che si tratti di una “restituzione” orale dell’esito di un test o di un processo psicodiagnostica sia che si tratti di una relazione o di una certificazione espresse in forma scritta. LA CERTIFICAZIONE PSICOLOGICA DA PARTE DEGLI PSICOLOGI LIBERI PROFESSIONISTI Un’ultima riflessione in quest’ambito riguarda infine la possibilità di certificazione Psicologica da parte degli Psicologi liberi professionisti. Anche per essi, ovviamente, il rilascio di un certificato che sintetizzi il lavoro Psicologico effettuato con un proprio paziente è sicuramente consentito, sebbene facendo sempre attenzione a non ignorare alcune limitazioni concernenti ciò che per legge è esplicitamente affidato ad altre categorie professionali (ad esempio, come si è già detto, non certificando in prima persona una diagnosi di uso abituale di sostanze stupefacenti, che il D.M. 186/1990 definisce come una procedura di tipo “medico-legale”, oppure non quantificando mai precisi “periodi di riposo” o addirittura di “astinenza da lavoro”, che sono anch’essi esplicitamente definiti per Legge come compiti di esclusiva competenza degli esercenti la professione medica). Oltre a ciò, comunque, è sempre opportuno anche per lo Psicologo libero professionista, in fase di redazione e di rilascio di una dichiarazione o un certificato di questo tipo (ma analoghe raccomandazioni sono comunque valide anche per gli Psicologi dipendenti che spesso sono anch’essi chiamati a produrre certificazioni o relazioni sui casi da essi seguiti), attenersi sempre ad alcuni importantissimi accorgimenti, al fine di tutelarsi rispetto ad un uso improprio che di tali relazioni, dichiarazioni o certificazioni possa essere eventualmente fatto dal soggetto o da terzi. Vediamo quindi di elencare almeno alcuni tra i principali di questi accorgimenti: 1) Utilizzare sempre carta intestata recante il nome, il cognome, la qualifica ed almeno l’indirizzo dello studio del Professionista, meglio se con anche specificato l’Ordine territoriale al quale si è iscritti ed il proprio numero di Repertorio (ad es.: Dott.ssa Maria Rossi, Psicologo – Psicoterapeuta, Studio: Piazza Duomo, 1 – 00100 Roma – Iscritta all’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna con num. di Repertorio 1083); 2) Iniziare sempre la stesura di tale certificato con una frase che riprenda l’intestazione sopra citata e che giustifichi la legittimità di quanto successivamente espresso, quale ad esempio la seguente o analoga: “Io sottoscritta Dott.ssa Maria Rossi, Psicologo – Psicoterapeuta con Studio in Piazza Duomo, 1 a Roma, Iscritta all’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna con num. di Repertorio 1083, dichiaro a mezzo della presente di aver seguito professionalmente la Sig.ra Lucia Bianchi, nata a Roma il 14 Settembre 1955, dal mese di settembre 2001 al mese di maggio 2003, al fine di …..”; 3) Di concordare sempre preventivamente, con il soggetto richiedente tale certificazione o relazione, l’utilizzo sostanziale che ne verrà fatto, anche al fine di redigerne il testo in ottemperanza a quanto stabilito dall’art. 25 del vigente Codice Deontologico degli Psicologi italiani (articolo qui già integralmente riportato in precedenza); 4) Di non riferirsi mai, all’interno del testo di tale certificato o relazione, a prestazioni professionali eventualmente effettuate verso altre persone che non siano il soggetto al quale la relazione si riferisce, a meno che non se ne sia preventivamente ottenuto un esplicito “consenso informato” scritto. Tale rischio è particolarmente evidente ed insidioso, ad esempio, nel caso (tutt’altro che infrequente) in cui uno dei componenti di una coppia che abbia seguito insieme un percorso terapeutico o di sostegno richieda poi al professionista una certificazione inerente tale percorso, magari per presentarla poi in Tribunale durante una causa di separazione o di divorzio: uno Psicologo che rediga una relazione su una terapia di coppia su richiesta di uno solo dei due componenti la coppia stessa, e poi glie la consegni, senza il preventivo permesso scritto dell’altro componente la coppia medesima incorre infatti non solo in grave conseguenze disciplinari, ma anche in gravi conseguenze penali per violazione sia della normativa sulla privacy che di quella sul segreto professionale; 5) Di non riferirsi mai, all’interno del testo di tale certificato o relazione, a caratteristiche psicologiche o psicopatologiche di altre persone che non siano il soggetto direttamente richiedente la certificazione stessa (eccezion fatta per una relazione su di un soggetto minore richiesta da chi legittimamente ne detiene la potestà genitoriale, su di un soggetto interdetto richiesta da chi legittimamente ne detiene la tutela o, infine, nel caso di una relazione richiesta da un Giudice di un Tribunale per il quale il professionista ricopre il ruolo di C.T.U.); 6) Di fondare le proprie valutazioni ed i propri giudizi professionali, all’interno del testo del certificato o della relazione che lo Psicologo rilascia e sulla base di quanto esplicitamente stabilito dall’art. 7 del C.D. vigente, solo sulla base di elementi “fondati sulla conoscenza professionale diretta ovvero su una documentazione adeguata ed attendibile” in possesso dello Psicologo stesso; 7) Di concludere sempre il certificato o la relazione che lo Psicologo rilascia con un frase del tipo “Si rilascia la presente certificazione, in carta libera, a richiesta dell’interessato, per tutti gli usi consentiti dalla Legge” o analoga (specificando di norma il nominativo della persona alla quale si rilascia materialmente il certificato stesso se quest’ultima – ad esempio nei casi già citati di soggetti minorenni o interdetti – non corrisponde al soggetto al quale invece il testo della relazione o del certificato si riferisce direttamente); 8) Di apporre sempre in calce a tale relazione o certificazione la data della sua stesura, la propria firma autografa ed eventualmente anche il proprio timbro; 9) Di redigere sempre tali certificati, dichiarazioni o relazioni, in copia almeno duplice, una delle quali rimarrà in possesso dello Psicologo dopo che lo stesso le avrà fatto apporre in calce, dalla persona alla quale materialmente consegnerà l’altra o le altre copie, la dicitura “Per ricevuta”, la data di consegna e la firma autografa e leggibile della persona che ha ritirato l’altra o le altre copie; 10) Di conservare nei propri archivi tale copia firmata “per ricevuta” in modo tale che non ne sia consentito l’accesso o la visione a terzi, sulla base di quanto previsto dalle vigenti norme penali e deontologiche, in questa sede già ripetutamente citate, in materia di privacy e di segreto professionale. LA CARTELLA CLINICA: ASPETTI NORMATIVI, MEDICO-LEGALI ED AMMINISTRATIVI. Come devono comportarsi gli Psicologi professionisti quando un paziente chiede loro copia della cosiddetta “cartella clinica”? Innanzitutto occorre precisare che, dal punto di vista giuridico, la qualificazione della cartella clinica varia a seconda che l’estensore sia un’istituzione pubblica o privata convenzionata oppure una struttura sanitaria privata non convenzionata. Nei primi due casi, come si può desumere da alcune pronunce della Corte di Cassazione, la cartella clinica viene considerata un atto pubblico e il sanitario che la redige è un pubblico ufficiale. La cartella clinica in quanto tale è per sua definizione, all’atto stesso della sua compilazione, un atto pubblico. Un atto è definito pubblico in quanto atto formale destinato a far fede di un fatto produttivo di effetti giuridici, accertato direttamente - originariamente con le formalità prescritte da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni ed attribuzioni (art.2699 c.c.). Esso, in base all’art.2700 c.c., costituisce prova, sino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha redatto. Come atto pubblico (art 2699 Codice civile) la cartella clinica “fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”. Ne deriva tra l’altro l’applicabilità degli articoli del codice penale in tema di falsità in atti pubblici: falso materiale (art. 476 c.p.) qualora venga apportata una successiva alterazione al contenuto della cartella clinica e falso ideologico (art. 479 c.p.) qualora vengano riportati nella cartella dati coscientemente non veritieri o attestazioni non corrispondenti alla verità. In particolare, i requisiti pubblico sono i seguenti: dell’atto 1. deve essere redatto da un pubblico ufficiale; 2. quest’ultimo deve essere autorizzato ad attribuire pubblica fede all’atto stesso nel luogo in cui si è formato; 3. devono essere rispettate le formalità prescritte derivanti dal codice e da leggi speciali. Anche il ritardo nella compilazione può produrre addebito penale, per omissione di atti d’ufficio (art 328 c.p.). Infatti, per quanto attiene al continuo ed immediato aggiornamento della cartella clinica, la sentenza del 23.3.87 della V sez. penale della Corte di Cassazione definisce quanto segue: “La cartella clinica adempie la funzione di diario del decorso della malattia e di altri fatti clinici rilevanti, per cui gli eventi devono essere annotati contestualmente al loro verificarsi. Pertanto la cartella clinica acquista il carattere di definitività in relazione ad ogni singola annotazione ed esce dalla disponibilità del suo autore nel momento stesso in cui la singola annotazione viene registrata”. Ne consegue che (all’infuori della correzione dei meri errori materiali) “le modifiche e le aggiunte integrano un falso punibile, anche se il soggetto abbia agito per ristabilire la verità, perché violano le garanzie di certezza accordate agli atti pubblici”. . E ancora, con sentenza del 21.4.83, lo stesso organismo ribadisce: “La cartella clinica, della cui regolare compilazione è responsabile il primario, adempie la funzione di diario del decorso della malattia e di altri fatti rilevanti. Attesa la sua funzione di diario, i fatti devono essere annotati contestualmente al loro verificarsi. Ne consegue che l’annotazione postuma di un fatto clinico rilevante integra il reato di falso materiale in atto pubblico di cui all’ articolo 476 c.p. La cartella clinica acquista il carattere di definitività in relazione ad ogni singola annotazione ed esce dalla sfera di disponibilità del suo autore nel momento in cui la singola annotazione venga registrata. Ogni annotazione assume pertanto autonomo valore documentale e piena efficacia nel tratto giuridico non appena viene trascritta, con la conseguenza che una successiva alterazione da parte del compilatore costituisce falsità punibile, ancorchè il documento sia ancora nella sua materiale disponibilità, in attesa della trasmissione alla direzione sanitaria per la definitiva custodia.” Pertanto nel caso si debba procedere alla correzione di errori materiali all’atto della stesura è necessario coprire con un tratto ciò che si intende eliminare (che deve comunque risultare leggibile) mentre se si vuole procedere alla correzione in epoca successiva è necessario aggiungere un’annotazione, che si pone come autonoma dichiarazione, recante la data reale di stesura e la firma dell’estensore. Per quanto riguarda invece la cartella clinica redatta presso studi o case di cura private non convenzionate, essa costituisce un promemoria privato dell’attività diagnostica e terapeutica svolta e non riveste carattere nè di atto pubblico nè di certificazione. Dal punto di vista penalistico pertanto, pur essendo l’attività libero-professionale svolta dal medico all’interno di una casa di cura privata inquadrabile come servizio di pubblica necessità, la falsità ideologica della cartella clinica redatta in questo contesto non è punibile ai sensi dell’art. 481 c.p. Tuttavia l’unica disciplina di dettaglio, in cui si fornisce una sintetica descrizione del contenuto minimale della cartella clinica, riguarda le cartelle cliniche delle case di cura private (DPCM 27.6.86 “Atto di indirizzo e coordinamento dell’ attività amministrativa delle regioni in materia di requisiti delle case di cura private”, art 35): “In ogni casa di cura privata è prescritta, per ogni ricoverato, la compilazione della cartella clinica da cui risultino le generalità complete, la diagnosi di entrata, l’anamnesi familiare e personale, l’esame obiettivo, gli esami di laboratorio e specialistici, la diagnosi, la terapia, gli esiti e i postumi”. Ed ancora: “ Le cartelle cliniche, firmate dal medico curante e sottoscritte dal medico responsabile di raggruppamento, dovranno portare un numero progressivo ed essere conservate a cura della direzione sanitaria. Fatta salva la legislazione vigente in materia di segreto professionale, le cartelle cliniche ed i registri di sala operatoria devono essere esibiti, a richiesta, agli organi formalmente incaricati della vigilanza. In caso di cessazione dell’attività della casa di cura le cartelle cliniche dovranno essere depositate presso il servizio medico-legale della U.S.L. territorialmente competente.” Non esistono, quindi, indicazioni particolarmente precise e dettagliate per la stesura della cartella clinica: e questo, se da un lato è comprensibile in considerazione delle peculiari caratteristiche ed esigenze delle diverse branche della medicina e dei diversi reparti ospedalieri, dall’altro rende evidentemente più complessi l’informatizzazione del documento, la condivisione delle informazioni e l’impiego dei dati per studi epidemiologici. Secondo la dottrina giuridica, infatti, la cartella clinica, costituita dall’insieme delle informazioni anagrafiche, sanitarie, sociali, ambientali e giuridiche concernenti un determinato paziente, non è solo uno strumento utile all’assistenza del malato, ma anche un atto ufficiale indispensabile a garantire la certezza del diritto e una preziosa fonte documentaria per le ricerche di carattere storico-sanitario.. In quanto formazione di documento originale, la compilazione della cartella clinica non costituisce di per sé trattamento di dati personali e non richiede quindi alcuna particolare autorizzazione, bastando a legittimarla la richiesta di prestazioni da parte del paziente. Qualunque altra organizzazione dei dati (per esempio la costituzione di un archivio informatizzato) rientra invece nella regolamentazione della legge 675/96. In quanto atto pubblico e, contemporaneamente, documento clinico, il contenuto della cartella è protetto dal segreto d’ufficio e dal segreto professionale. Tale documento deve essere pertanto conservato in modo da impedirne l’accesso a persone non coinvolte nella terapia. Il paziente titolare della cartella ha in ogni momento accesso al suo contenuto, ed è l’unico soggetto titolato a chiederne copia con le uniche eccezioni degli eredi legittimi, del rappresentante legale della persona minore o dichiarata legalmente incapace e, in certi casi, delle compagnie di assicurazioni. Poiché la cartella clinica costituisce atto pubblico nella sua integrità, la copia della cartella va effettuata sull’originale in toto: non è in alcun modo giustificabile il rilascio di un “estratto”. Risulta inoltre del tutto illegale qualunque creazione di fascicoli diversi, riferiti allo stesso paziente, che registrino una qualunque attività diagnostica o terapeutica al di fuori della cartella clinica. La cartella clinica deve essere conservata illimitatamente (circolare Min.San. n. 61 del 19.12.86), e i dati su cui si basa la refertazione diagnostica devono essere conservati per almeno 5 anni nel caso di preparati citologici e istologici (D.P.C.M. 10.2.84) e per almeno 10 anni nei restanti casi, con l’eccezione dei resoconti radiologici e di medicina nucleare (D.M. 14.2.97) da conservare illimitatamente. Responsabile dell’archiviazione definitiva dei dati è la Direzione Sanitaria dell’ospedale, mentre responsabile della regolare compilazione delle cartelle e della loro conservazione all’interno dell’unità operativa finchè il paziente vi sia ricoverato è il primario, direttore dell’unità operativa (DPR 27.3.69). Egli può tuttavia delegare ai collaboratori tali compiti, nell’osservanza delle misure di sicurezza (DPR 318/99 art. 9). Per la conservazione delle cartelle cliniche e dei relativi referti è consentita sia la microfilmatura (legge n.15/68, DPCM 11.9.74) che l’archiviazione su supporto ottico, purchè nel rispetto delle prescrizioni dell’AIPA (legge 537/93, DPR n. 445 del 28.12.00, delibera AIPA n. 42 del 13.12.01, legge 59/97). L’illegittima divulgazione del contenuto della cartella clinica può condurre a conseguenze di ordine penale per violazione del segreto professionale (codice penale art. 622) o di quello d’ufficio (art. 326 c.p.), quest’ultimo applicabile solo al personale strutturato, il primo applicabile anche allo studente frequentatore ed al laureato tirocinante. È illegittima la circolazione della cartella clinica a persone/enti diversi dai seguenti (Legge 675/96, D.Lvo 282 del 30.7.99): - il diretto interessato, il tutore o chi esercita la patria potestà - persone diverse dall’ interessato (ivi compreso il medico curante) solo se fornite di delega - l’Autorità giudiziaria - gli enti previdenziali (INAIL, INPS ecc.), limitatamente alle materie di competenza - il S.S.N. - gli eredi legittimi - i medici a scopo scientifico- statistico (purchè in forma anonima). La cartella clinica, quale comunemente intesa, rappresenta quindi il complesso documentale afferente ad ogni individuo ricoverato in ambito ospedaliero, in cui sono contenuti dati anagrafici, le annotazioni tecniche riguardanti l’esame clinico, l’insieme delle ricerche diagnostiche espletate, la diagnosi formulata, le cure intraprese, e l’evoluzione della malattia nel periodo della degenza. Lo strumento-cartella in vigore nei Servizi sanitari territoriali, e non in quelli ospedalieri, può quindi essere ugualmente definito “cartella clinica”? Vediamo, intanto, cos’è la cartella nei Servizi Territoriali. Si tratta, per lo più - fatte le debite eccezioni (es. introduzione di cartelle cliniche computerizzate) - di un insieme di materiale cartaceo, riunito in un unico contenitore, su cui vengono annotati i vari dati relativi al paziente/utente, nonché la storia del suo rapporto con il servizio, in termini sia oggettivi (dati socioanamnestici del soggetto e della sua famiglia, esami richiesti ed effettuati e loro esito, date dei colloqui fatti e date a cui non si è presentato, interventi terapeutici intrapresi e loro evoluzioneesito), sia più soggettivi, attinenti cioè il colloquio, registrati dall’operatore (contenuto libero dei colloqui con il soggetto ed i suoi familiari, impressioni dell’operatore relativamente all’iter terapeutico, note per i colleghi che condividono il caso, o promemoria per i colloqui successivi) in cui ampia può essere la discrezionalità dell’operatore nel riportare i fatti. Da quanto su esposto, quindi, si evince come lo strumento cartella in vigore nei Servizi territoriali sia, di fatto, composto di due parti : - una “cartella clinica” vera e propria che riporta dati oggettivi ; - una parte di testi liberi, con carattere di ampia soggettività e di riservatezza. Riassumendo: La cartella clinica in uso nei Servizi socio-sanitari pubblici, anche ambulatoriali, è il fascicolo in cui si raccolgono i dati anamnestici e obbiettivi riguardanti il paziente, quelli sul decorso della malattia, i risultati degli accertamenti e delle terapie praticate. E’ un documento, quindi, nel quale si esprime e si manifesta l’attività dell’ente e che, oltre a rappresentare uno strumento di lavoro, ha rilevanza giuridica perché non persegue solo finalità pratiche e statistiche di ordine interno ma consacra una determinata realtà (visite, natura e gravità della malattia, terapia) che può essere fonte di diritti ed obblighi per lo Stato e per lo stesso paziente . Come atto pubblico, quindi, la cartella clinica è un bene patrimoniale indisponibile (art. 830 C.C.): pertanto deve essere conservata illimitatamente e, per quanto riguarda la sua conservazione, è soggetta al regime generale dei beni pubblici stabilito dall’art. 8 del DPR 30.09.63 N. 1409 sugli Archivi di Stato. Inoltre, il ritardo nella sua compilazione potrebbe comportare la sussistenza del reato di omissione di atti d’ufficio, punibile ai sensi dell’art. 328 C.P. La cartella clinica acquista il carattere di definitività in relazione ad ogni singola annotazione, che quindi esce dalla sfera di disponibilità del compilatore non appena viene riportata. Le modifiche o aggiunte in un atto pubblico dopo che è stato definitivamente formato integrano il falso anche se il soggetto ha agito per ristabilire la verità effettuale, in quanto a causa dell’aggiunta postuma l’atto viene a rappresentare e documentare fatti diversi da quelli che rappresentava e documentava nella versione originale. A conferma di ciò si richiama la sentenza della Corte di Cassazione n. 9623 dell’11.11.83. In quell’occasione la Corte puntualizzò che la cartella, della cui compilazione è responsabile il primario, adempie alla funzione di diario del decorso della malattia e di altri fatti clinici rilevanti che, attesa la funzione del diario, devono essere annotati contestualmente al loro verificarsi. Ne consegue che l’annotazione postuma di un fatto clinico rilevante integra il reato di falso materiale di cui all’art. 476 del C.P. In base al parere espresso dal nostro Consulente Legale, Avv. Federico Gualandi, la Cartella Clinica propriamente detta – usata nelle strutture ospedaliere in regime di ricovero - è un documento definito in base a precise normative di Legge e deve rispettare, nella sua redazione, criteri obbligatori dai quali non può prescindere. Essa può essere richiesta in copia integrale alle direzioni sanitarie in base alla legge 241/90. L’insieme degli appunti redatti durante le sedute dallo Psicologo sia egli dipendente di un’AUSL oppure libero professionista - non si configura, invece, come Cartella Clinica ai sensi di legge e non è, quindi, consegnabile in base a richieste di accesso ai sensi della L. 241/90. Questo insieme di appunti registrati rappresenta soltanto una sorta di “diario clinico” o “fascicolo personale” e non costituisce un documento formale, ma soltanto uno strumento ad uso esclusivo del professionista per facilitare e rendere più agevole la conduzione del lavoro psicologico e/o terapeutico. Addirittura, per essere corretti, detti appunti non dovrebbero essere conservati, in caso di strutture pubbliche, nella “cartella” del paziente, ma dovrebbero essere tenuti esclusivamente dal professionista che li ha redatti. Soltanto a seguito di regolare ordinanza di sequestro emessa dal Giudice, relativamente a tutto il materiale riferito ad un paziente, il professionista deve necessariamente fornire quanto formalmente richiesto all’autorità giudiziaria. Detto questo, precisiamo anche che il professionista è comunque tenuto a relazionare sulla diagnosi, sulla tipologia e sulla tempistica degli interventi effettuati, anche psicoterapeutici, senza però minimamente entrare nel merito dei contenuti delle sedute. I requisiti fondamentali della compilazione della cartella I due requisiti fondamentali della compilazione della cartella sono la chiarezza e la veridicità . I due requisiti fondamentali della compilazione, al di là della soggettività sempre possibile, sono la chiarezza e la veridicità. Il primo requisito, quello della chiarezza, appare opportuno per evitare incertezze di interpretazione del documento ma, in genere, non costituisce illecito penale: la Cassazione (29 maggio 1961) ha affermato che l'incompletezza e l'ambiguità non equivalgono a falsità, in quanto non attengono alla veridicità del documento. Il secondo requisito invece, quello della veridicità, risponde ad un requisito di legge. Il sanitario, infatti, che attesti il falso, incorre - a seconda della qualità dell'alterazione - in uno dei seguenti reati: · art.476 c.p. "Falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici": il Pubblico Ufficiale che nell'esecuzione delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso, è punito con la reclusione da uno a sei anni; · art.479 c.p. "Falsità ideologica commessa da Pubblico Ufficiale in atti pubblici": il Pubblico Ufficiale che, ricevendo o formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un atto è stato da lui compiuto, o è avvenuto in sua presenza, o attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero ometta o alteri dichiarazioni da lui ricevute o comunque attesta falsamente fatti di cui l'atto è destinato a provare la verità; soggiace alle pene stabilite all'art.476 c.p. Le falsità, quindi, che possono essere realizzate su documenti, sono di due tipi: a) falsità materiale: attività di falsificazione che possono essere effettuate sull'atto già terminato (es. cancellature, aggiunte); b) falsità ideologica: attività di falsificazione che possono essere realizzate nel momento in cui l'atto viene formato. Le cancellature, le aggiunte in caso di erronea trascrizione debbono, pertanto, essere effettuate in modo tale che sia possibile comprendere quanto precedentemente annotato (es. non utilizzare decoloranti o altri mezzi diretti a variare gli scritti apposti, ma tracciare una riga sull'errore, e trascrivere a fianco o sopra; riportare una nota di correzione accanto allo scritto precedente). Eventuali errori, pertanto, non devono essere corretti cancellandone le tracce o, peggio, rifacendo la cartella, ma devono essere rettificati con la data del momento in cui l’annotazione correttiva è stata redatta. Al fine di osservare le vigenti disposizioni in tema di rispetto e di tutela della riservatezza, la cartella clinica non deve in alcun modo contenere notizie relative a persone diverse dal paziente (soprattutto nel caso in cui tali notizie configurassero reati) se non come fatti riferiti e solo se pertinenti alla gestione del caso. Inoltre, poiché le notizie registrate devono essere quelle strettamente necessarie alla migliore gestione del caso, le informazioni sui famigliari dovranno essere riportate solo se collegate ai problemi del paziente. In conclusione, la cartella clinica deve rappresentare un documento e uno strumento di lavoro che contenga tutto quanto è necessario e sufficiente a svolgere nel modo migliore l’intervento che il paziente richiede ed autorizza, senza omissioni ma anche senza dati eccedenti. Pertanto, la cartella deve essere aggiornata contestualmente al verificarsi dei fatti che attesta (per esempio: se si fa un colloquio o un’ anamnesi, ciò va registrato senza ritardo); La cartella non deve contenere correzioni che impediscano di vedere l'errore commesso (che va quindi corretto con tratto di penna e riscrittura a lato e non con sovrascrittura) né, tantomeno, rifacimenti; la cartella non deve contenere giudizi personali dell'operatore che non siano di carattere professionale (per esempio non è accettabile scrivere "il paziente ha un atteggiamento manipolatorio“, ma, eventualmente si potranno registrare i fatti che sono rilevanti rispetto all'attendibilità del paziente: ad es. "il paziente fornisce dell'accaduto versioni differenti a differenti operatori"); la cartella non deve contenere giudizi che spettano ad altri (per esempio non si può scrivere "il paziente è dedito ad attività illegali" ma eventualmente "il paziente non riferisce fonti di reddito compatibili con le spese dichiarate" oppure "riferisce condanna per furto“); la cartella non deve contenere come fatti assodati elementi riferiti a terzi (quindi non si deve scrivere "moglie prostituta" ma "il paziente riferisce che la moglie sarebbe dedita alla prostituzione); la cartella non deve contenere informazioni irrilevanti per gli obiettivi della diagnosi e della cura (per esempio non si scriverà "un fratello omosessuale affetto da AIDS" ma "un fratello affetto da AIDS" essendo l’omosessualità altrui clinicamente irrilevante). Occorre inoltre informare i pazienti che riferiscono in maniera circostanziata comportamenti illegittimi altrui che il segreto professionale, di fronte a un possibile reato, riguarda solo l'interessato e non altre persone, nei confronti delle quali invece gli addetti a pubblico servizio hanno l'obbligo di denuncia. Perciò prima di scrivere, ad esempio, che il soggetto di cui ci si sta occupando "riferisce di non aver conseguito l'astinenza da eroina perché la medesima gli viene fornita dall'insegnante di italiano" occorre accertarsi che l'interessato intenda effettivamente rilasciare tale dichiarazione che comporterà, ovviamente, l'immediata denuncia alla magistratura”, e ciò ovviamente, in primo luogo, per evitare di essere poi disconfermati dal paziente in altra sede con le conseguenze, facilmente prevedibili, di perdita o comunque grave compromissione della possibilità di reciproca e proficua collaborazione. Art. 17 Codice Deontologico degli Psicologi italiani La segretezza delle comunicazioni deve essere protetta anche attraverso la custodia e il controllo di appunti, note, scritti o registrazioni di qualsiasi genere e sotto qualsiasi forma, che riguardino il rapporto professionale. Tale documentazione deve essere conservata per almeno i cinque anni successivi alla conclusione del rapporto professionale, fatto salvo quanto previsto da norme specifiche. Lo psicologo deve provvedere perché, in caso di sua morte o di suo impedimento, tale protezione sia affidata ad un collega ovvero all’Ordine professionale. Lo psicologo che collabora alla costituzione ed all’uso di sistemi di documentazione si adopera per la realizzazione di garanzie di tutela dei soggetti interessati. Deve quindi essere ben chiaro che si parla di due cose ben diverse, e che tra loro presentano problematiche ben distinte, quando si usano i termini di consenso informato al trattamento dei dati personali e/o sensibili oppure di consenso informato al trattamento sanitario. Il consenso informato al trattamento sanitario All’interno della cartella clinica deve collocarsi anche il consenso informato, ovvero l’annotazione relativa al fatto che il sanitario ha informato il paziente sul suo stato di salute, ne ha ottenuto il consenso al trattamento e si è accertato di essere stato compreso. CONSENSO INFORMATO AL TRATTAMENTO SANITARIO Figura di consenso elaborata in relazione ai diritti, riconosciuti al paziente: 1. Di conoscere i dati sanitari che lo riguardano 2. Di esserne informato in modo completo In particolare riguardo: La diagnosi La prognosi La natura delle eventuali problematiche evidenziatesi I benefici e i rischi delle procedure diagnostiche e terapeutiche Le possibili alternative e le conseguenze del rifiuto del trattamento Prestare o negare il proprio consenso in relazione ai trattamenti sanitari che stiano per essere eseguiti o che siano prevedibili nello sviluppo della patologia in atto L’informazione fa parte della buona condotta professionale, costituisce un vero e proprio dovere contrattuale, è integrativa della prestazione sanitaria tanto da diventare prestazione sanitaria essa stessa, dalla sua omissione possono derivare responsabilità professionali e pretese risarcitorie (Cass. 29.3.76 n. 1132, 26.3.82 n. 1773, 25.11.94 n. 10014). Di fatto il consenso informato rilasciato in forma scritta, anche se può essere utile sotto il profilo probatorio, è obbligatorio solo nei seguenti casi: -sperimentazione clinica (D.L.vo 230/95 art 108, DM 15.7.97) -- terapia con emoderivati e plasmaderivati (DM 15.1.91 art 19, DM 1.9.95 art 4) - trapianto di organi (legge 468/67 art 2 per donazione di rene da vivente, legge 91/99 per eventuale dissenso a espianto da cadavere) - impiego di medicinali al di fuori delle indicazioni ministeriali (legge 94/98). Benchè anche per altre tipologie di prestazioni possa essere consigliabile l’acquisizione di un consenso scritto (ad esempio atti chirurgici, procedure diagnostiche o terapeutiche invasive, trattamenti oncologici, utilizzo di mezzi di contrasto, NMR, trattamenti con radiazioni ionizzanti, trattamenti che provochino la perdita anche temporanea della capacità di procreare), il codice di deontologia medica (art 32) attribuisce al consenso in forma scritta una funzione integrativa e non sostitutiva del processo di informazione, e la presenza di un modulo sottoscritto dal paziente non esclude il sindacato del giudice sull’effettività del consenso. L’idea centrale attorno attorno alla quale si imperniano tutti i principi etici e deontologici di specifico interesse per gli Psicologi che operano nell’ambito della tutela della salute delle persone è quella del “consenso al trattamento” da parte del singolo paziente: Rispetto della volontà del paziente da parte dello Psicologo e di ogni altro operatore sanitario La dottrina del consenso al trattamento sanitario si affermò nel secondo dopoguerra come conseguenza delle efferatezze compiute dalla medicina nazista. Come risultato della ripulsa nei confronti della sperimentazione umana condotta nei campi di concentramento, in quasi tutti i Paesi occidentali venne inserito nell'ordinamento legale il principio che nessun essere umano può essere sottoposto contro la sua volontà a cure o sperimentazioni mediche. In Italia questo principio è sancito dall' art. 32 della Costituzione, che afferma che nessuno può essere sottoposto a trattamento medico contro la propria volontà tranne che casi regolamentati dalla legge e che, in ogni modo, la legge non può oltrepassare i limiti imposti dal rispetto della dignità umana. Lo stesso principio è chiaramente riaffermato dalla Legge n.833/78, artt. 33 e 34. Inoltre: il principio del “ consenso informato” viene esplicitamente ribadito anche da numerosi articoli del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, in primo luogo in relazione alle attività di ricerca e, quindi, con specifico riferimento all’attività clinica. Gli articoli al riguardo più significativi sono, in particolare, l’art.9, l’art. 12, l’art. 24, l’art. 31, l’art. 32 e l’art. 39. Art. 9 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Nella sua attività di ricerca lo psicologo è tenuto ad informare adeguatamente i soggetti in essa coinvolti al fine di ottenerne il previo consenso informato, anche relativamente al nome, allo status scientifico e professionale del ricercatore ed alla sua eventuale istituzione di appartenenza. Egli deve altresì garantire a tali soggetti la piena libertà di concedere, di rifiutare ovvero di ritirare il consenso stesso. Nell’ipotesi in cui la natura della ricerca non consenta di informare preventivamente e correttamente i soggetti su taluni aspetti della ricerca stessa, lo psicologo ha l’obbligo di fornire comunque, alla fine della prova ovvero della raccolta dei dati, le informazioni dovute e di ottenere l’autorizzazione all’uso dei dati raccolti. Per quanto concerne i soggetti che, per età o per altri motivi, non sono in grado di esprimere validamente il loro consenso, questo deve essere dato da chi ne ha la potestà genitoriale o la tutela, e, altresì, dai soggetti stessi, ove siano in grado di comprendere la natura della collaborazione richiesta. Deve essere tutelato, in ogni caso, il diritto dei soggetti alla riservatezza, alla non riconoscibilità ed all’anonimato. Art. 12 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo si astiene dal rendere testimonianza su fatti di cui è venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto professionale. Lo psicologo può derogare all’obbligo di mantenere il segreto professionale, anche in caso di testimonianza, esclusivamente in presenza di valido e dimostrabile consenso del destinatario della sua prestazione. Valuta, comunque, l’opportunità di fare uso di tale consenso, considerando preminente la tutela psicologica dello stesso. Art. 24 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo, nella fase iniziale del rapporto professionale, fornisce all’individuo, al gruppo, all’istituzione o alla comunità, siano essi utenti o committenti, informazioni adeguate e comprensibili circa le sue prestazioni, le finalità e le modalità delle stesse, nonché circa il grado e i limiti giuridici della riservatezza. Pertanto, opera in modo che chi ne ha diritto possa esprimere un consenso informato. Se la prestazione professionale ha carattere di continuità nel tempo, dovrà esserne indicata, ove possibile, la prevedibile durata. Art. 31 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Le prestazioni professionali a persone minorenni o interdette sono, generalmente, subordinate al consenso di chi esercita sulle medesime la potestà genitoriale o la tutela. Lo psicologo che, in assenza del consenso di cui al precedente comma, giudichi necessario l’intervento professionale nonché l’assoluta riservatezza dello stesso, è tenuto ad informare l’Autorità Tutoria dell’instaurarsi della relazione professionale. Sono fatti salvi i casi in cui tali prestazioni avvengano su ordine dell’autorità legalmente competente o in strutture legislativamente preposte. Art. 32 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Quando lo psicologo acconsente a fornire una prestazione professionale su richiesta di un committente diverso dal destinatario della prestazione stessa, è tenuto a chiarire con le parti in causa la natura e le finalità dell’intervento. Art. 39 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo presenta in modo corretto ed accurato la propria formazione, esperienza e competenza. Riconosce quale suo dovere quello di aiutare il pubblico e gli utenti a sviluppare in modo libero e consapevole giudizi, opinioni e scelte. Strettamente collegata al tema del consenso informato, vi è la poi questione del diritto del paziente alla scelta del trattamento. Esso viene esplicitato, in modo estremamente chiaro, nel testo dell’art. 18 del vigente C.D. degli Psicologi del nostro Paese, e quindi successivamente ripreso ed specificato nei successivi articoli 27, 29 e 37. Art. 18 Codice Deontologico degli Psicologi italiani In ogni contesto professionale lo psicologo deve adoperarsi affinché sia il più possibile rispettata la libertà di scelta, da parte del cliente e/o del paziente, del professionista cui rivolgersi. Art. 27 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo valuta ed eventualmente propone l’interruzione del rapporto terapeutico quando constata che il paziente non trae alcun beneficio dalla cura e non è ragionevolmente prevedibile che ne trarrà dal proseguimento della cura stessa. Se richiesto, fornisce al paziente le informazioni necessarie a ricercare altri e più adatti interventi. Art. 29 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo può subordinare il proprio intervento alla condizione che il paziente si serva di determinati presidi, istituti o luoghi di cura soltanto per fondati motivi di natura scientifico-professionale. Art. 37 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo accetta il mandato professionale esclusivamente nei limiti delle proprie competenze. Qualora l’interesse del committente e/o del destinatario della prestazione richieda il ricorso ad altre specifiche competenze, lo psicologo propone la consulenza ovvero l’invio ad altro collega o ad altro professionista. Questo diritto del cliente/paziente/utente alla libera scelta del proprio trattamento sanitario si articola in 2 distinti momenti: 1. il primo di essi concerne il diritto alla libera scelta del professionista o della struttura terapeutica a cui rivolgersi per ottenere una prima risposta alle proprie necessità; 2. il secondo riguarda il diritto del cliente ad esprimersi e decidere in prima persona sia la prosecuzione o la conclusione del rapporto in corso sia lo scegliere, con la più completa autonomia decisionale, di rivolgersi ad altre possibili alternative terapeutiche e professionali delle quali nel frattempo egli abbia ravvisato la congruità con i propri bisogni. E’ quindi, questo, un diritto delicato e complesso che implica almeno tre ordini di diversi problemi: 1. la scelta del “tipo di approccio” con il quale affrontare la domanda del cliente; 2. la scelta del singolo professionista, o dell’equipe di singoli professionisti, ai quali affidare la gestione del caso; 3. la responsabilità dei fornitori di servizi (siano essi singoli professionisti, organizzazioni sanitarie pubbliche o private, équipes di lavoro preesistenti o costituitesi “ad hoc”) rispetto al paziente, rispetto alle cosiddette “obbligazioni positive” a cui questo diritto rimanda.. Gran parte delle questioni etiche e deontologiche riguardanti l’attività dello Psicologo in ambito sanitario si trovano di fatto allocate nel “vasto capitolo delle psicoterapie”. Tali questioni vengono affrontate dal Codice Deontologico vigente in quasi tutti i suoi “Capi” (eccezion fatta, probabilmente, solo per l’ultimo, il Capo V relativo alle sue “Norme di attuazione”), ma in particolare assumono un’evidenza estremamente chiara negli artt. 22, 23, 25, 26, 28 e 30 (tutti ricompresi nel “Capo II – Rapporti con l’utenza e la committenza”) Art. 22 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo adotta condotte non lesive per le persone di cui si occupa professionalmente, e non utilizza il proprio ruolo ed i propri strumenti professionali per assicurare a sé o ad altri indebiti vantaggi. Art. 23 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo pattuisce nella fase iniziale del rapporto quanto attiene al compenso professionale. In ambito clinico tale compenso non può essere condizionato all’esito o ai risultati dell’intervento professionale; in tutti gli ambiti lo psicologo è tenuto al rispetto delle tariffe ordinistiche, minime e massime. Art. 25 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo non usa impropriamente gli strumenti di diagnosi e di valutazione di cui dispone. Nel caso di interventi commissionati da terzi, informa i soggetti circa la natura del suo intervento professionale, e non utilizza, se non nei limiti del mandato ricevuto, le notizie apprese che possano recare ad essi pregiudizio. Nella comunicazione dei risultati dei propri interventi diagnostici e valutativi, lo psicologo è tenuto a regolare tale comunicazione anche in relazione alla tutela psicologica dei soggetti. Art. 26 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo si astiene dall’intraprendere o dal proseguire qualsiasi attività professionale ove propri problemi o conflitti personali, interferendo con l’efficacia delle sue prestazioni, le rendano inadeguate o dannose alle persone cui sono rivolte. Lo psicologo evita, inoltre, di assumere ruoli professionali e di compiere interventi nei confronti dell’utenza, anche su richiesta dell’Autorità Giudiziaria, qualora la natura di precedenti rapporti possa comprometterne la credibilità e l’efficacia. Art. 28 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Lo psicologo evita commistioni tra il ruolo professionale e vita privata che possano interferire con l’attività professionale o comunque arrecare nocumento all’immagine sociale della professione. Costituisce grave violazione deontologica effettuare interventi diagnostici, di sostegno psicologico o di psicoterapia rivolti a persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale. Parimenti costituisce grave violazione deontologica instaurare le suddette relazioni nel corso del rapporto professionale. Allo psicologo è vietata qualsiasi attività che, in ragione del rapporto professionale, possa produrre per lui indebiti vantaggi diretti o indiretti di carattere patrimoniale o non patrimoniale, ad esclusione del compenso pattuito. Lo psicologo non sfrutta la posizione professionale che assume nei confronti di colleghi in supervisione e di tirocinanti, per fini estranei al rapporto professionale. Art. 30 Codice Deontologico degli Psicologi italiani Nell’esercizio della sua professione allo psicologo è vietata qualsiasi forma di compenso che non costituisca il corrispettivo di prestazioni professionali. Uno dei nodi principali tra etica e psicoterapia riguarda sicuramente lo “sfruttamento del paziente” Esso si verifica ogni qual volta che lo psicoterapeuta approfitta della propria peculiare posizione per trarne un beneficio non previsto dal contratto terapeutico. Sia che provochi o non provochi un danno al paziente, esso rappresenta sempre una rottura dell'alleanza terapeutica ed è quindi assolutamente contrario all' “ethos medico”. Tra i vari tipi di sfruttamento del paziente che lo Psicoterapeuta può mettere in atto, possiamo distinguere: lo “SFRUTTAMENTO SESSUALE” ; lo “SFRUTTAMENTO EMOZIONALE” ; lo “SFRUTTAMENTO ECONOMICO” . Sfruttamento sessuale 2 differenti tipi di valutazione 1) Valutazione “pragmatica”: Il sesso esplicito tra psicoterapeuta e paziente dovrebbe essere vietato in quanto potrebbe danneggiare il paziente (Strasburger LH et al., 1992). 2) Valutazione “etica”: Sempre e comunque il sesso esplicito tra psicoterapeuta e paziente dovrebbe essere vietato, perché contrario all‘ “ethos” medico (Schulz-Ross RA et al., 1992). Gutheil ha proposto 4 ragioni per condannare “eticamente” (e non solo “pragmaticamente”) il rapporto sessuale tra psicoterapeuta e paziente: infrange la relazione fiduciaria tra i due; si sviluppa in una situazione di potere fortemente asimmetrica; non tiene conto della vulnerabilità psicologica del paziente; vi è un'eccessiva rilevanza di fenomeni intrinseci al processo terapeutico (Gutheil TG, 1994). Sfruttamento EMOZIONALE Si verifica tutte le volte che uno psicoterapeuta utilizza il proprio paziente per ricavarne un illecito tornaconto emotivo. Non è però facile dire quali situazioni costituiscano un reale sfruttamento emozionale e quali facciano parte del piacere che lecitamente un terapeuta deve trarre dal lavoro svolto positivamente con il proprio paziente. Esempio: Il terapeuta indirizza il paziente affinché soddisfi, nella propria vita reale, i desideri che egli ripone verso di lui …. Sfruttamento ECONOMICO Il paziente può essere sfruttato economicamente o a causa di tariffe troppo elevate o per il prolungarsi inutile della cura. Si tratta di una preoccupazione etica abbastanza recente: è possibile che si sia sviluppata anche per effetto di una “pressione da parte di terzi”. Essa è stata infatti particolarmente evidenziata dalle assicurazioni private americane. Non va comunque minimizzata. GraZIe per l’attenZIone