Fulvio Frati
Deontologia in Psicologia Clinica e
Psicoterapia: aspetti operativi nei rapporti
clinici ed istituzionali
Il Piano Sanitario Nazionale per il triennio 2003-2005
pone in grande evidenza
la necessità di garantire ai cittadini italiani un
SISTEMA SANITARIO “EQUO”
anche perché, come riconosce lo stesso Ministro della Salute,
negli ultimi anni tale “equità”
che dovrebbe guidare le politiche sanitarie
é stata invece spesso sottovalutata rispetto alle esigenze di
EFFICIENZA e di BUDGET
Si sono così venute a creare nelle organizzazioni sanitarie italiane
sia pubbliche che private
molteplici “iniquità di sistema”, quali ad esempio:
differenze quali-quantitative nei servizi erogati in varie aree del
Paese;
disuniformi e lunghe liste d'attesa anche per patologie che non
possono aspettare;
scarso rispetto per il malato;
sprechi ed inappropriatezza delle richieste e delle prestazioni;
condizionamento delle libertà di scelta dei malati;
insufficiente attenzione posta al finanziamento e all'erogazione dei
servizi per cronici ed anziani.
Ma…
poiché tali problemi non riguardano solo l’Italia,
ma tutta l’area “occidentale-industrializzata”
nel 1999
il cosiddetto “Gruppo di Tavistock”
ha sviluppato alcuni principi etici generali che si rivolgono
a tutti coloro che hanno a che fare con la sanità e la salute.
Sulla base del lavoro di questi studiosi, pertanto, possiamo evidenziare
i 9 principi etici fondamentali:
1) Diritti. I cittadini hanno diritto alla salute e alle azioni conseguenti per
la sua tutela.
2) Equilibrio. La cura del singolo paziente è centrale, ma anche la salute
e gli interessi della collettività vanno tutelati. In altri termini non si può
evitare il conflitto tra interesse dei singoli e interesse della collettività.
Ad esempio, la somministrazione di antibiotici per infezioni minori può
giovare al singolo paziente, ma nuoce alla collettività perché aumenta la
resistenza dei batteri agli antibiotici.
3) Visione “olistica” del paziente, il che significa prendersi cura di tutti i
suoi problemi ed assicurargli continuità di assistenza (dobbiamo sforzarci
continuamente di essere ad un tempo “specialisti” e “generalisti”).
4) Collaborazione degli operatori della sanità tra loro e con il paziente,
con il quale è indispensabile stabilire un rapporto di partenariato: “Nulla
che mi riguardi senza di me” è, secondo Maureen Bisognano (Institute of
Health Care Improvement, Boston), il motto che dobbiamo attribuire ad
ogni nostro paziente e che ci deve in primo luogo guidare, e che quindi
maggiormente dobbiamo rispettare, in ogni nostra interazione con lui.
5) Miglioramento. Non è sufficiente fare bene, dobbiamo fare meglio,
accettando il nuovo e incoraggiando i cambiamenti migliorativi. Vi è
ampio spazio per migliorare, giacché tutti i sistemi sanitari soffrono di
“overuse, underuse, misuse” delle prestazioni (uso eccessivo, uso
insufficiente, uso improprio).
6) Sicurezza. Il principio moderno di “Primum non nocere” significa
lavorare quotidianamente per massimizzare i benefici delle prestazioni,
minimizzarne i danni, ridurre gli errori in medicina.
7) Onestà, trasparenza, affidabilità, rispetto della dignità personale sono
essenziali a qualunque sistema sanitario e a qualunque rapporto tra
medico e paziente.
Altri due principi che alcuni propongono di aggiungere ai 7 sopraelencati
sono:
8) la responsabilizzazione di chi opera in sanità
9) la libera scelta da parte del paziente.
Il nostro Piano Nazionale Sanitario ha deciso di ispirare
la propria condotta a questi 9 principi
per esempio
attraverso il passaggio dalla precedente visione basata essenzialmente sul
principio della “Sanità” a quella più nuova e moderna basata invece sul
principio della “Salute”
Tale transizione dalla “Sanità” alla “Salute” è fondata, in particolare, sui
seguenti principi essenziali per il Servizio Sanitario Nazionale e per tutte
le strutture pubbliche e private ad esso afferenti:
il diritto alla salute;
l'equità all'interno del sistema;
la responsabilizzazione dei soggetti coinvolti;
la dignità ed il coinvolgimento “di tutti i cittadini”;
la qualità delle prestazioni;
l'integrazione socio-sanitaria;
lo sviluppo della conoscenza e della ricerca;
la sicurezza sanitaria dei cittadini.
Il diritto alla salute e alle cure, indipendentemente dal reddito, costituisce
da tempo parte integrante dei principi che costituiscono l'ossatura del
nostro sistema sociale,
ma non ha trovato fino ad oggi una sufficiente attuazione
Nella nuova ed attuale visione esso costituisce un obiettivo
assolutamente prioritario, pertanto è indispensabile:
1.
garantire i Livelli Essenziali di Assistenza concordati fra Stato e
Regioni;
2.
assicurare un'efficace prevenzione sanitaria;
3. diffondere la cultura della “promozione della salute”.
Oltre al documento elaborato dagli studiosi del Gruppo di Tavistock
esistono altri importanti codici etici internazionali di più specifico
interesse psicologico clinico e psichiatrico:
1. “Dichiarazione sui diritti dei ritardati mentali” (1971, O.N.U.);
2.
“Principi per la protezione delle persone malate di mente e per il
miglioramento delle cure psichiatriche” (1991, O.N.U.);
3. “Medicina Psichiatrica Legale: 10 principi di base” (1996, O.M.S.)
4.
“Dichiarazioni di Helsinki” (1964, 1975, 1989, World Medical
Association);
5.
“Dichiarazioni sull'uso e l'abuso degli psicofarmaci” (1975, 1983,
World Medical Association);
6.
“Dichiarazione sulle questioni etiche riguardanti i malati mentali”
(1995, World Medical Association);
7. “Dichiarazioni delle Hawaii” (1977, 1983, 1996, World Psychiatric
Association);
8. “Dichiarazione di Atene sui diritti dei malati di mente” (1989, World
Psychiatric Association);
In ambito più strettamente Europeo, invece, vanno citati
1. la “Raccomandazione sulla protezione legale dei malati di mente
ospedalizzati contro la loro volontà” (R.83, 1983);
2. la “Raccomandazione sulla psichiatria ed i diritti umani” (R.1235,
1994);
3. la “Convenzione sui diritti umani e la biomedicina (art. 7, 1996 );
(tutti i tre emanati dal Consiglio d' Europa);
4. le “Good Clinical Trial Practice” emanate nel 1987 dalla Comunità
Europea.
Per quanto riguarda invece le normative del nostro Paese
La Costituzione della Repubblica Italiana tutela la riservatezza come
diritto fondamentale dell’uomo:
•
vietando ogni forma di ispezione o perquisizione personale (articolo
13);
•
proclamando l’inviolabilità del domicilio (articolo 14);
•
garantendo “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni
altra forma di comunicazione“ (articolo15).
L’UNIONE EUROPEA
con la direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione
n. 95/46/CE del 24 ottobre 1995,
obbliga gli stati membri ad assicurare
“la protezione delle libertà e dei diritti fondamentali
delle persone fisiche, in particolare della loro vita privata,
rispetto al trattamento dei dati personali”.
In attuazione di una specifica direttiva del
Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione
Europea, il 31.12.1996 è stata emanata nel nostro
Paese la legge 675/96 “Tutela delle persone e di
altri soggetti rispetto al trattamento dei dati
personali“, che si è posta a salvaguardia dei diritti
dei cittadini rispetto all’uso dei dati personali,
compresi quelli forniti ai Servizi Sanitari pubblici
e privati ed alle organizzazioni sanitarie che li
compongono.
Negli anni tra il 1997 ed il 2002, poi, la
normativa italiana sulla tutela dei dati personali
si è arricchita di varie disposizioni legislative
ulteriori, che hanno avuto soprattutto il compito
di cercare di definire e di regolamentare
l’equilibrio che deve sussistere tra il dovere della
Società di acquisire quel minimo di informazioni
sui propri cittadini necessarie a garantire il
funzionamento della Pubblica Amministrazione
ed il legittimo diritto di ogni singolo cittadino a
veder salvaguardata la propria “privacy”.
Dal 1° Gennaio 2004 la
Legge n. 675/96 “Tutela delle persone e di altri
soggetti rispetto al trattamento dei dati personali”
è stata quindi sostituita dal
Decreto legislativo 30 Giugno 2003, n. 196
“Codice in materia di protezione dei dati
personali”,
che riorganizza e completa tutte le precedenti
disposizioni nazionali emanate su questa materia.
Secondo l’attuale normativa, i dati personali sono
“proprietà” del soggetto al quale si riferiscono (che
viene definito con il termine di “interessato”), e
pertanto “Chiunque ha diritto alla protezione dei
dati personali che lo riguardano” (D.Lgs. 30-62003 n. 196 “Codice in materia di protezione dei dati
personali” – Art. 1 “Diritto alla protezione dei dati
personali”).
Quindi, salvo eccezioni previste tassativamente
dalla legge, i “dati personali” possono essere
utilizzati, trattati e conservati solo per gli scopi,
per il tempo e con i modi autorizzati
dall’interessato.
ALCUNE DEFINIZIONI
FONDAMENTALI
(Fonte: Art. 4 del D.Lgs. 30-6-2003 n. 196
“Codice in materia di protezione dei dati
personali”)
• Interessato: la persona fisica, la persona giuridica,
l'ente o l'associazione cui si riferiscono i dati
personali;
• Dati identificativi: i dati personali che permettono
l’identificazione diretta dell’interessato;
• Dato personale: qualunque informazione relativa a
persona fisica, persona giuridica, ente od
associazione, identificati o identificabili, anche
indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra
informazione, ivi compreso un numero di
identificazione personale.
• Dati sensibili: i dati personali idonei a rivelare l'origine
razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di
altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti,
sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere
religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati
personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita
sessuale;
• Dati giudiziari: i dati personali idonei a rivelare
provvedimenti di cui all'articolo 3, comma 1, lettere da a)
a o) e da r) a u), del D.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, in
materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni
amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi
pendenti, o la qualità di imputato o di indagato ai sensi
degli articoli 60 e 61 del codice di procedura penale.
• Trattamento: qualunque operazione o complesso di operazioni,
effettuati anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la
raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la
consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione,
il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la
diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non
registrati in una banca di dati;
• Titolare: la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica
amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione od organismo cui
competono, anche unitamente ad altro titolare, le decisioni in ordine alle
finalità, alle modalità del trattamento di dati personali e agli strumenti
utilizzati, ivi compreso il profilo della sicurezza;
• Responsabile: la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica
amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione od organismo
preposti dal titolare al trattamento di dati personali;
• Incaricati: le persone fisiche autorizzate a compiere operazioni di
trattamento dal titolare o dal responsabile.
• Comunicazione: il dare conoscenza dei dati
personali a uno o più soggetti determinati diversi
dall'interessato, dal rappresentante del titolare nel
territorio dello Stato, dal responsabile e dagli
incaricati, in qualunque forma, anche mediante la loro
messa a disposizione o consultazione;
• Diffusione: il dare conoscenza di dati personali a
soggetti indeterminati, in qualunque forma, anche
mediante la loro messa a disposizione o consultazione.
• Dato anonimo: il dato che in origine, o a seguito di
trattamento, non può essere associato ad un interessato
identificato o identificabile;
• Blocco: la conservazione di dati personali con sospensione
temporanea di ogni altra operazione del trattamento;
• Banca di dati: qualsiasi complesso organizzato di dati
personali, ripartito in una o più unità dislocate in uno o più
siti;
• Garante per la tutela delle riservatezza dei dati
personali: l’ Autorità istituita dalla legge 31 dicembre 1996,
n. 675 , di cui si specificano compiti e funzioni negli artt.
153 e seguenti del D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 “Codice in
materia di protezione dei dati personali”.
Il D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 definisce quindi cinque capisaldi per il
trattamento dei dati personali. Secondo quanto da esso esplicitamente
stabilito, i dati devono:
• essere raccolti e registrati per scopi determinati, espliciti e legittimi ed
utilizzati solo compatibilmente con tali scopi;
• essere esatti ed aggiornati;
• essere pertinenti, completi, e non eccedenti rispetto al fine per cui sono
stati conferiti;
• essere conservati in una forma che consenta l’identificazione
dell’interessato per un tempo non superiore agli scopi per cui sono stati
raccolti o trattati;
• essere trattati lecitamente e correttamente.
Il D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 individua inoltre con
precisione i soggetti a cui competono diritti e doveri
rispetto al trattamento dei dati personali:
• L’interessato: è la persona a cui si riferiscono i dati personali;
• Il titolare: è la persona fisica o giuridica su cui ricadono gli obblighi e le
responsabilità, anche penali, dell’attuazione della normativa;
• Il responsabile: è la persona che gestisce il controllo e l’organizzazione delle
procedure nei rapporti con l’interessato (nel caso di servizi con competenze
cliniche, dato il sovrapporsi delle norme sul segreto professionale, il
responsabile è il medico direttore della struttura o chi ne fa le veci);
• L’incaricato (o gli incaricati): è colui che materialmente rileva, tratta o
accede ai dati seguendo le istruzioni del responsabile;
• Il Garante per la tutela delle riservatezza dei dati personali: è l’autorità
indipendente a cui la legge attribuisce compiti di intervento e vigilanza
sull’operato dei soggetti pubblici e privati relativamente ai dati personali ed al
loro trattamento.
Il D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 è quindi ispirato alla
semplificazione delle procedure in materia di protezione
dei dati personali, all’introduzione di nuove garanzie per
i cittadini ed alla razionalizzazione delle norme esistenti.
Il provvedimento, sulla base dell’esperienza di 6 anni,
riunisce in unico contesto la legge 675/1996 e gli altri
decreti legislativi, regolamenti e codici deontologici che
si sono succeduti in questi anni, e contiene anche
importanti innovazioni tenendo conto della
“giurisprudenza” del Garante e della direttiva
dell’Unione Europea n. 2000/58 sulla riservatezza nelle
comunicazioni elettroniche.
Il D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 è diviso in tre parti:
• la prima dedicata alle disposizioni generali, riordinate in modo tale da
trattare tutti gli adempimenti e le regole del trattamento con riferimento
ai settori pubblico e privato;
• la seconda è la parte speciale dedicata a specifici settori: questa
sezione,oltre a disciplinare aspetti in parte inediti (informazione
giuridica, notificazioni di atti giudiziari, dati sui comportamenti debitori),
completa anche la disciplina attesa da tempo per il settore degli
organismi sanitari e quella dei controlli sui lavoratori;
• la terza affronta la materia delle tutele amministrative e giurisdizionali
con il consolidamento delle sanzioni amministrative e penali e con le
disposizioni relative all’Ufficio del Garante.
Il Codice, che rappresenta il primo tentativo al mondo di conformare le
innumerevoli disposizioni relative anche in via indiretta alla privacy, è
entrato in vigore quasi integralmente il 1° Gennaio 2004. Vediamo
perciò ora, in sintesi, alcuni dei punti rilevanti del testo, che in molte
parti recepisce e codifica le numerose pronunce emanate e i pareri forniti
in questi anni dal Garante.
Notificazione. Una delle principali semplificazioni introdotte dal
D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 riguarda l’adempimento della notificazione
al Garante, ovvero dell’atto con cui l’impresa, il professionista o la
pubblica amministrazione segnala all’Autorità i trattamenti di dati che si
intendono effettuare. Mentre con l’originale impianto della legge
675/1996, e le successive modificazioni, dovevano notificare tutti i
soggetti non esplicitamente esentati, nel testo unico si rovescia
l’impostazione e si indicano solo i pochi casi nei quali la notifica va
effettuata. La notifica dovrà essere effettuata solo in particolari casi di
trattamento di dati sensibili (specie se sanitari) con determinate modalità
d’uso, ma anche per trattamenti particolarmente a rischio, effettuati con
strumenti elettronici, nel campo della profilazione dei consumatori,
oppure in relazione a procedure di selezione del personale e ricerche di
marketing, nonché in ipotesi di utilizzo di informazioni commerciali e
relative alla solvibilità. Non solo diminuiscono le ipotesi di notifica
obbligatoria, ma vengono snellite anche le modalità della stessa: solo per
via telematica, seguendo le indicazioni del Garante quanto all’utilizzo
della firma digitale.
E’ l’Art. 37 del D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 ad
indicarci chi deve inviare
al Garante per la Privacy
la notificazione con cui l’Impresa,
il Professionista o la Pubblica Amministrazione
segnala i trattamenti di dati che si intendono
effettuare.
Vediamo pertanto, nel dettaglio, cosa prevede tale Articolo.
37. Notificazione del trattamento.
1. Il titolare notifica al Garante il trattamento di dati personali cui
intende procedere, solo se il trattamento riguarda:
a) dati genetici, biometrici o dati che indicano la posizione
geografica di persone od oggetti mediante una rete di
comunicazione elettronica;
b) dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, trattati
a fini di procreazione assistita, prestazione di servizi sanitari per
via telematica relativi a banche di dati o alla fornitura di beni,
indagini epidemiologiche, rilevazione di malattie mentali, infettive e
diffusive, sieropositività, trapianto di organi e tessuti e
monitoraggio della spesa sanitaria;
c) dati idonei a rivelare la vita sessuale o la sfera psichica trattati
da associazioni, enti od organismi senza scopo di lucro, anche
non riconosciuti, a carattere politico, filosofico, religioso o
sindacale;
…………..
d) dati trattati con l'ausilio di strumenti elettronici volti a
definire il profilo o la personalità dell'interessato, o ad
analizzare abitudini o scelte di consumo, ovvero a monitorare
l'utilizzo di servizi di comunicazione elettronica con
esclusione dei trattamenti tecnicamente indispensabili per
fornire i servizi medesimi agli utenti;
e) dati sensibili registrati in banche di dati a fini di selezione
del personale per conto terzi, nonché dati sensibili utilizzati
per sondaggi di opinione, ricerche di mercato e altre ricerche
campionarie;
f) dati registrati in apposite banche di dati gestite con
strumenti elettronici e relative al rischio sulla solvibilità
economica, alla situazione patrimoniale, al corretto
adempimento di obbligazioni, a comportamenti illeciti o
fraudolenti.
Consenso. Il nuovo Codice della privacy sviluppa il principio
del bilanciamento degli interessi con uno snellimento degli
adempimenti a carico delle aziende. L’area del consenso viene
sostanzialmente confermata per ipotesi già esistenti (artt. 11, 12 e
20 della legge 675/1996), con la previsione di alcune altre ipotesi
di esonero con riferimento a settori specifici (tra le altre, quelle di
utilizzo per perseguire un legittimo interesse del titolare con
particolare riferimento all’attività dei gruppi bancari e per i
trattamenti effettuati da associazioni no profit con riferimento a
soci e aderenti).
Informativa. Rimane fermo l’adempimento dell’informativa
agli interessati preventiva al trattamento dei dati. Il Garante può,
comunque, individuare modalità semplificate in
particolare per i servizi telefonici di assistenza e informazione al
pubblico (call center).
Sanità. In ambito sanitario si semplifica l’informativa da rilasciare ai
pazienti e si consente di manifestare il consenso al trattamento dei dati
con un’unica dichiarazione resa al medico di famiglia o all’organismo
sanitario (il consenso vale anche per la pluralità di trattamenti a fini di
salute erogati da distinti reparti e unità dello stesso organismo, nonché
da più strutture ospedaliere e territoriali). E’ comunque necessario che
le informazioni essenziali vengano date per iscritto, con linguaggio
chiaro e che siano complete ed esaustive. Non è pertanto accettabile
che l’informativa sia redatta come una semplice liberatoria formale,
poiché il consenso dell’interessato al trattamento deve essere libero ed
informato. Il D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 prevede quindi che le
strutture sanitarie pubbliche adottino le misure adeguate per facilitare
l’esercizio dei diritti dell’interessato. Per il settore sanitario vengono
inoltre codificate misure per il rispetto dei diritti del paziente: distanze
di cortesia, niente appelli nominativi dei pazienti in sala di attesa,
certezze e cautele nelle informazioni telefoniche e nelle informazioni
sui malati ricoverati, estensione delle esigenze di riservatezza anche
agli operatori sanitari non tenuti al segreto professionale.
Lavoro. Viene confermata l’elaborazione di un codice di deontologia
e buona condotta che dovrà fissare regole per l’informativa ed il
consenso anche degli annunci per finalità di occupazione (selezione del
personale) e della ricezione dei curricula. Il Codice affronta anche la
questione dei controlli a distanza con la riaffermazione di quanto
sancito dall’ articolo 4 dello Statuto dei lavoratori (legge 300/1970).Il
lavoratore domestico è tenuto a mantenere la necessaria riservatezza
per tutto quanto si riferisce alla vita familiare.
Telecomunicazioni. Il Codice si inserisce nella linea di tendenza
europea e stabilisce un nuovo e più ridotto termine massimo per la
conservazione dei dati del traffico telefonico per ragioni di
accertamento e repressione reati, prescrivendo un termine di trenta
mesi rispetto a quello attuale di 5 anni, secondo modalità che dovranno
essere stabilite con decreto ministeriale. Ridotto periodo di
conservazione, anonimato e necessità del consenso per il trattamento
dei dati sulla localizzazione dei cellulari.
Trattamento in ambito giudiziario. Vengono meglio
garantite le parti nei processi. Il Codice prevede infatti che
l’interessato possa chiedere, nel processo, di apporre sulla
sentenza un’annotazione con la quale si avvisa che, nel caso di
pubblicazione del verdetto su riviste giuridiche o su supporti
elettronici o in caso di diffusione mediante reti telematiche,
devono essere omessi i dati dell’interessato. Con disposizione
espressa si attribuisce maggiore tutela ai minori nel processo, non
solo in quello penale, ma anche nei settori civili e amministrativi.
Internet, videosorveglianza, direct marketing. Per
settori così delicati il codice conferma la previsione di appositi
codici deontologici specifici.
Pubblica amministrazione. Il Codice innova anche,
accogliendo indicazioni del Garante, nella materia della
notificazione degli atti giudiziari e degli atti amministrativi e
impone la regola della busta chiusa per i casi di notifica
effettuata a persona diversa dal destinatario. Viene sancita
espressamente la necessità per gli enti pubblici di approvare
regolamenti per i trattamenti dei dati sensibili, ma solo con il
parere conforme del Garante.
Liste elettorali. Le liste elettorali, con il nuovo Codice, non
possono essere più usate per promozione commerciale: solo per
scopi collegati alla disciplina elettorale e per finalità di studio
(ricerca statistica, scientifica o storica o a carattere socio
assistenziale).
Il D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003 prevede infine una serie di sanzioni
amministrative, civili o penali per chi ne viola le disposizioni:
ad esempio, l’articolo 161 di questo Codice punisce con sanzioni
amministrative che vanno dai tremila ai novantamila euro l’omessa
o inidonea informativa all'interessato; l’articolo 163 punisce con la
sanzione amministrativa del pagamento di una somma da diecimila
euro a sessantamila euro l’omessa o incompleta notificazione al
Garante ai sensi dei propri articoli 37 e 38; l’articolo 167 punisce con
la reclusione da sei mesi a tre anni chi procede ad illecito trattamento
di dati personali in violazione di quanto disposto dagli articoli 17, 20,
21, 22, commi 8 e 11, 25, 26, 27 e 45 di questo D.Lgs.; varie altre
sanzioni amministrative o penali sono inoltre previste, sempre nel Titolo
III, per più specifiche violazioni di singole norme di questo Codice.
Da tutte queste norme deriva altresì il risarcimento ai sensi
dell’articolo 2050 del Codice Civile a chiunque cagioni danni a terzi
nel trattamento dei dati personali.
In sintesi, quindi,
il D.Lgs. n. 196 del 30-6-2003, che unifica ed aggiorna la
disciplina sorta nel nostro Paese con la Legge 675/1996 e
quindi sviluppatasi con le modifiche ed integrazioni di
quest’ultima
(tra le quali vanno citate almeno il Decreto del Presidente della
Repubblica n. 318 del 28 luglio 1999 pubblicato sulla G.U. Serie
Generale del 14 settembre 1999, n. 216 e la Legge 325 del 3
novembre 2000 pubblicata sulla G. U. n. 262 del 9 novembre 2000)
costituisce ormai un complesso di norme che ogni
titolare di studio professionale o di altra struttura
lavorativa è chiamato a conoscere e ad osservare, e per
la violazione delle quali sono previste pesanti sanzioni.
Art. 11 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo è strettamente tenuto al segreto professionale.
Pertanto non rivela notizie, fatti o informazioni apprese in
ragione del suo rapporto professionale, né informa circa le
prestazioni professionali effettuate o programmate, a meno che
non ricorrano le ipotesi previste dagli articoli seguenti.
Art. 12 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo si astiene dal rendere testimonianza su fatti di cui è
venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto professionale.
Lo psicologo può derogare all’obbligo di mantenere il segreto
professionale, anche in caso di testimonianza, esclusivamente in
presenza di valido e dimostrabile consenso
del destinatario della sua prestazione.
Valuta, comunque, l’opportunità di fare uso di tale consenso,
considerando preminente la tutela psicologica dello stesso.
Art. 13 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Nel caso di obbligo di referto o di obbligo di denuncia, lo psicologo
limita allo stretto necessario il riferimento di quanto appreso in
ragione del proprio rapporto professionale, ai fini della tutela
psicologica del soggetto.
Negli altri casi, valuta con attenzione la necessità di derogare
totalmente o parzialmente alla propria doverosa riservatezza,
qualora si prospettino gravi pericoli perla vita o per la salute
psicofisica del soggetto e/o di terzi.
Art. 14 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo, nel caso di intervento su o attraverso gruppi, è tenuto
ad informare, nella fase iniziale, circa le regole che governano tale
intervento.
È tenuto altresì ad impegnare, quando necessario, i componenti del
gruppo al rispetto del diritto di ciascuno alla riservatezza.
Art. 15 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Nel caso di collaborazione con altri soggetti parimenti tenuti al segreto
professionale, lo psicologo può condividere soltanto le informazioni
strettamente necessarie in relazione al tipo di collaborazione.
Il Codice Deontologico, in quest’ultimo articolo, lascia al singolo
Psicologo la più completa autonomia nella specifica valutazione di quali
siano, di volta in volta e caso per caso, “le informazioni strettamente
necessarie in relazione al tipo di collaborazione” che è opportuno
condividere con gli altri operatori che si occupano del medesimo caso.
Come muoversi?
E’ opportuno tenere presente il principio fondamentale di tutto il Codice
Deontologico stesso: quello sancito in primo luogo dal primo comma del
suo articolo 3 e più volte ripreso all’interno di vari articoli successivi tra i
quali appunto gli artt. 12 e 13 sopra integralmente riportati:
Il prIncIpIo della “tutela” e
della salvaguardia
del benessere psicologico
e psicofisico del soggetto stesso
SEGRETO PROFESSIONALE
Il segreto professionale viene sancito dal codice penale e dai codici
deontologici ed attiene al diritto/dovere del singolo professionista
di non rivelare a terzi fatti, informazioni o dati appresi da un determinato
soggetto in ragione del rapporto professionale instaurato con lo stesso,
a meno che non sussista una “giusta causa”.
PRIVACY
Diritto di ogni persona alla riservatezza dei propri dati
sia personali, sia sensibili,
come essi sono definiti dalla Legge 675/96
e dalle sue successive modifiche ed integrazioni.
In base all’ art. 11 della legge 675/96
il trattamento dei dati personali di tipo generico
da parte di soggetti privati
è ammesso solo con il consenso espresso dell’interessato.
Il consenso è validamente prestato solo se è espresso liberamente,
in forma specifica e documentata per iscritto,
e se sono state date all’interessato (cliente-committente)
– per iscritto ovvero verbalmente –
le seguenti informazioni (art. 10 della Legge):
• sulle finalità (per l’espletamento dell’incarico professionale) e modalità
del trattamento cui sono destinati i “dati personali”;
• sulla necessità del conferimento di tutti quei dati che sono
indispensabili per l’assolvimento dell’incarico professionale;
• circa l’ambito professionale di comunicazione o diffusione dei dati
stessi;
• sui diritti dell’interessato (cliente-utente) circa il trattamento dei suoi
dati personali: diritti elencati nell’art. 13 della legge;
• il nome e l’indirizzo del “responsabile” – ove sia una persona diversa
dal libero professionista quale “titolare” dei dati – del trattamento dei
dati.
Per quanto riguarda invece i dati personali definiti “sensibili”, con
provvedimento n. 4/2000 emesso in data 20.09.2000 dal “Garante”
(e pubblicato sul n.229 della “Gazzetta ufficiale” del 30.09.2000)
i liberi professionisti iscritti in Albi o Elenchi professionali sono stati
autorizzati in via generale – dal 01 ottobre 2000 fino al 31 dicembre
2001 – a trattare i “dati sensibili”
di cui all’art. 22, comma 1°, della legge n. 675/1996.
Per gli Psicologi assume particolare rilievo il provvedimento n. 2/2000
emesso in data 20.09.2000 dal “Garante” (e pubblicato sul n. 229 della
“Gazzetta ufficiale” del 30.09.2000) con il quale si prevede che
l’autorizzazione al trattamento di dati idonei a rivelare
lo stato di salute e la vita sessuale
“è rilasciata, anche senza richiesta: a) ai medici-chirurghi, ai
farmacisti, agli odontoiatri, agli psicologi e agli altri esercenti le
professioni sanitarie iscritti in albi o in elenchi”. Si precisa che “in tali
casi l’ autorizzazione è rilasciata al fine di consentire ai destinatari di
adempiere o di esigere l’ adempimento di specifici obblighi o di eseguire
specifici compiti previsti da leggi, dalla normativa comunitaria o da
regolamenti (…) . Il trattamento può riguardare anche la compilazione
di cartelle cliniche, di certificati e di altri documenti relativi alla
gestione amministrativa la cui utilizzazione sia necessaria
per i fini su indicati”.
È quindi necessario
che lo Psicologo faccia sottoscrivere al proprio cliente,
all’atto del conferimento dell’incarico professionale,
una dichiarazione autorizzatoria
(che esprima cioè il suo consenso)
al trattamento sia dei dati di tipo generico
sia di quelli considerati “sensibili”.
I dati e le informazioni la cui riservatezza è tutelata dalle norme
cosiddette sulla “privacy” riguardano un’insieme ancora più ampio di
quello ricompreso nel concetto di “segreto professionale”, che concerne
invece unicamente quanto appreso durante l’esercizio della propria
attività professionale specifica.
Il concetto di “privacy” indica allo Psicologo che non è sufficiente non
divulgare dati ed informazioni da esso appresi ad esempio all’interno dei
colloqui con i propri clienti, mediante la somministrazione di reattivi o
tramite incontri con i loro familiari, ma che non deve trapelare
all’esterno dello studio professionale o della Struttura sanitaria o
assistenziale la benché minima informazione relativa alla stessa
sussistenza di qualunque tipo di rapporto professionale tra lo
Psicologo ed il paziente stesso.
Art. 16 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo redige le comunicazioni scientifiche, ancorché
indirizzate ad un pubblico di professionisti tenuti al segreto
professionale, in modo da salvaguardare in ogni caso
l’anonimato del destinatario della prestazione.
Art. 25 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo non usa impropriamente gli strumenti di diagnosi e
di valutazione di cui dispone.
Nel caso di interventi commissionati da terzi, informa i soggetti
circa la natura del suo intervento professionale, e non utilizza, se
non nei limiti del mandato ricevuto, le notizie apprese che
possano recare ad essi pregiudizio.
Nella comunicazione dei risultati dei propri interventi
diagnostici e valutativi, lo psicologo è tenuto a regolare tale
comunicazione anche in relazione alla tutela psicologica dei
soggetti.
LA DIAGNOSI E LA
CERTIFICAZIONE
PSICOLOGICA
PER GLI PSICOLOGI
PROFESSIONISTI
Qualche tempo fa, una Collega dirigente del Servizio Distrettuale
di Psicologia di una Azienda U.S.L. ha rivolto al proprio Ordine
Regionale di appartenenza alcuni quesiti, relativi alla possibilità per gli
Psicologi delle A.U.S.L. di certificare una diagnosi Psicologica e, in
particolare, di certificare una diagnosi “codificata”. Si riporta pertanto
qui di seguito, considerato l’interesse che tali quesiti e le relative risposte
possono suscitare anche in molti altri Colleghi che operano non solo nel
Servizio pubblico ma anche al di fuori di esso, l’estratto della lettera di
questa Collega al proprio Ordine Regionale e la relativa risposta ad essa
fornita.
IL QUESITO RIVOLTO
Si richiede un parere scritto in merito alla certificazione della
diagnosi da inserire nei protocolli e procedure per gli Psicologi che
operano nei Servizi di questa Azienda U.S.L.
Tale richiesta nasce dall’esigenza di informare i Colleghi del Servizio
di Psicologia dell’Azienda e pubblicare tali note nell’Archivio di
Psicologia dell’Azienda.
Si ricorda che nella stesura delle procedure relative alle visite
psichiatriche e psicologiche individuate e approvate per il servizio di
Igiene Mentale viene richiesta una diagnosi sul paziente da poter
inserire all’interno del sistema informativo codificabile con D.S.M.-IV
o I.C.D.-10.
Dalla riunione con i Colleghi sono stati posti i seguenti interrogativi:
-
E’ possibile per gli Psicologi certificare?
- E’ possibile certificare una diagnosi codificata?
LA RISPOSTA DELL’ORDINE
Si rileva innanzitutto che il parere richiesto al riguardo verte, essenzialmente,
sulla titolarità della potestà certificatrice e sulla individuazione dei soggetti legittimati
a certificare.
Prima di affrontare nel merito la questione, nei limiti correlati alla esigenza di
fare chiarezza sulla puntuale situazione del Servizio Distrettuale di Psicologia, giova
premettere che la potestà certificatrice ha carattere sussidiario, nel
senso che essa in tanto esiste, è riconosciuta ed è esercitata in
quanto, a monte, sono definite ed attribuite ex lege competenze e
funzioni.
Tale potestà certificatrice spetta, come più avanti è evidenziato, alla pubblica
amministrazione, ovvero ai soggetti ad essa equiparati. Quanto sollevato e
sintetizzato nei due punti di domanda a conclusione della Vostra richiesta - se cioè
“per gli Psicologi” che operano per conto del Servizio sia “possibile certificare” e se
sia “possibile certificare una diagnosi codificata”, richiede, prioritariamente, che sia
definito il contesto entro cui il problema va correttamente collocato ed esaminato
“ratione materiae” ed entro cui vanno ricercati principi, criteri e previsioni normative
dai quali desumere le soluzioni appropriate e legittimamente fondate.
Il contesto di riferimento, alla luce dell’ordinamento positivo, risulta
connotato:
- dalla natura di pubblica amministrazione della AUSL;
- dalla natura pubblica delle funzioni e dei compiti istituzionali che
obbligatoriamente debbono essere svolti dalla AUSL e, quindi, dal Servizio
Distrettuale di Psicologia, ai fini della tutela della salute;
- dalle specifiche competenze assegnate e riconosciute alla professione di
Psicologo dall’art. 1 della Legge 18 febbraio 1989, n. 56, nonché dalle
competenze di psicoterapeuta nei termini previsti dall’art. 3 della medesima
legge;
- dai contenuti, contrattualmente stabiliti, del profilo professionale e della
qualifica di appartenenza degli Psicologi che operano per conto dell’Azienda
USL nell’ambito del Servizio Distrettuale di Psicologia;
- dall’esercizio della professione di Psicologo, professione regolamentata dalla
citata legge, e dalla connessa titolarità a certificare le risultanze delle relative
prestazioni;
- dall’obbligo del segreto professionale di cui agli artt. 622 c. p. e 200 c. p. p.,
confermato dall’art. 4 della legge 56/89.
Tutto ciò premesso, si può a questo punto precisare che i certificati
possono essere distinti in due categorie. Una riguarda i certificati
qualificati “propri” e l’altra gli “impropri”.
I primi consistono in dichiarazioni di scienza relativi a fatti dei
quali il titolare della potestà certificatrice ha diretta ed immediata
conoscenza per ragioni d’ufficio, ed hanno lo scopo di “testificare”
quanto risulta da registri, elenchi e da atti e documenti tenuti dalla P. A.
(certificati anagrafici, certificati del casellario giudiziario, del catasto,
etc.).
Tali certificati determinano certezza legale “erga omnes”,
superabile soltanto attraverso una sentenza che dichiari la falsità del
contenuto.
I certificati, invece, cosiddetti “impropri” hanno un contenuto
diverso in quanto esso è la risultante di una attività di accertamento
condotta da parte dell’ufficio pubblico competente di fatti obiettivi
riscontrati a seguito di ispezioni, di esami o di indagini specifici, in
conformità ai quali, ad esempio, per l’argomento che qui interessa,
viene formulata una diagnosi, una terapia e quant’altro di pertinenza.
A tal proposito, da taluni studiosi viene individuata anche la
categoria dei certificati cosiddetti estimativi (certificati di sana e
robusta costituzione, certificati di idoneità psichica e fisica ai fini
del conseguimento di determinate licenze, etc.).
Laddove vi è il diritto soggettivo ad esercitare la professione
vi è strettamente congiunto il diritto a certificare il contenuto ed
il risultato delle prestazioni effettuate.
Il legislatore non ha ancora provveduto ad aggiornare le
varie disposizioni di legge sulla potestà certificatrice in ambito
Psicologico di cui sono titolari gli Psicologi iscritti all’Albo
professionale.
Disposizioni che debbono essere interpretate in conformità ai
criteri logico sistematici [art. 12 delle preleggi] per essere
coerenti alla recente istituzione della professione di Psicologo e
alla costituzione dell’Ordine professionale avvenuta nel 1994.
I certificati cosiddetti “impropri”, ed anche quelli c. d. estimativi, in
ragione del loro contenuto, non determinano alcuna certezza legale erga
omnes, ma assolvono ad obiettivi ed a scopi strumentali che la legge
stabilisce puntualmente ogni qual volta ritiene prevalente tutelare
l’interesse generale.
In tale prospettiva, tali certificati sono destinati a conferire rilevanza
giuridica ai fatti accertati.
Dall’insieme delle disposizioni di legge che disciplinano la materia si
enucleano taluni principi, anche non scritti, secondo cui:
- la potestà certificatrice è propria delle pubbliche autorità ovvero dei
soggetti riconosciuti equiparati;
- soltanto gli atti di certificazione da loro emessi hanno efficacia e
producono determinati effetti giuridici;
- soltanto le amministrazioni, gli uffici ed i soggetti che svolgono
pubbliche funzioni o che espletano attività di pubblico interesse sono
legittimati a rilasciare certificati il cui contenuto non può che essere
funzionalmente consequenziale all’attività espletata, in conformità alle
competenze istituzionali.
C’è ancora da aggiungere che gli Psicologi, nell’esercitare la
professione regolamentata dalla legge 56/89, svolgono attività di
pubblico interesse e, pertanto, essi debbono essere annoverati tra i su
richiamati soggetti equiparati.
L’esposizione fin qui svolta consente di tirare le fila per formulare
la risposta al quesito sulla legittimità dello Psicologo a certificare
quanto egli ha accertato nell’esercizio della professione e nel rispetto
dei suoi doveri d’ufficio (“E’ possibile per gli Psicologi certificare?”).
La risposta non può non essere affermativa, nel segno del
riconoscimento in capo agli Psicologi del Servizio Distrettuale di
Psicologia della potestà di certificare la diagnosi da essi elaborata in
ambito Psicologico, nei termini di cui ai citati artt. 1 e 3 della legge
56/89.
Diverso orientamento risulterebbe “contra legem”, perché verrebbe
ad essere inflitto un vulnus ai diritti della professione di Psicologo ed al
diritto di svolgere le mansioni del profilo professionale e della qualifica
di appartenenza.
Per quanto, concerne, infine, il secondo interrogativo (“E’
possibile, per gli Psicologi, certificare una diagnosi codificata?”)
la risposta è del pari affermativa.
La certificazione codificata non solo è possibile, ma
costituisce un atto dovuto, nel rispetto delle norme che
disciplinano le competenze delle professioni appartenenti al
ruolo sanitario.
Le diagnosi psicologiche e le rispettive certificazioni degli
Psicologi vanno eventualmente codificate congiuntamente ai
certificati medici riguardanti le diagnosi delle patologie
organiche qualora vengano riscontrate.
Diversamente si dovrebbe ipotizzare una sottrazione di
competenze nei confronti degli Psicologi ovvero una subalternità
degli Psicologi, scientificamente non accettabile.
In ambedue i casi si verrebbe a concretizzare fattispecie in
cui possono ravvisarsi elementi di illegittimità.
Questa complessiva risposta al “secondo interrogativo” poco sopra
riportato, peraltro, è applicabile a tutti gli Psicologi iscritti all’Albo,
e non solo a quelli operanti all’interno del Servizio Sanitario
Pubblico. A tutti gli Psicologi professionisti, infatti
(indipendentemente dal fatto che siano essi dipendenti,
convenzionati o liberi professionisti) , è consentito emettere una
diagnosi, e ciò in virtù di quanto loro riconosciuto dall’articolo 1
della Legge 56/89 che, testualmente, afferma che “La professione di
psicologo comprende l'uso degli strumenti conoscitivi e di intervento
per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazioneriabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona,
al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì
le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito”. E’
tuttavia evidente che la “diagnosi” che qui si riconosce come di
competenza dello Psicologo deve essere necessariamente qualificabile
come una “diagnosi psicologica”, e non può ovviamente “sconfinare”
in altri settori che di competenza dello Psicologo chiaramente non
sono.
Inoltre, una specifica attenzione in fase di certificazione
diagnostica deve essere prestata da ogni Psicologo al fine di non
incorrere nella violazione di norme che attribuiscono in via
esclusiva specifiche competenze ad altre figure professionali, ad
esempio prescrivendo un periodo di astensione dall’attività
lavorativa o certificando uno stato di tossicodipendenza (facoltà
che le attuali normative vigenti attribuiscono infatti, in via
esclusiva, ai Medici). E’ invece di competenza dello Psicologo
clinico, a maggior ragione se abilitato anche all’esercizio della
Psicoterapia, qualunque diagnosi a carattere psicopatologico,
eventualmente (come sopra si rilevava) anche con l’utilizzo dei
codici del D.S.M.-IV o dell’I.C.D.-10, anche se ovviamente una
“diagnosi psicologica” correttamente compiuta va ben oltre una
semplice “codificazione nosografia” e deve invece estendersi alla
rilevazione di tutte le principali problematiche, risorse e necessità
del soggetto e dell’ambiente che lo circonda.
Si rammenta infatti, con specifico riferimento alla figura
dello Psicologo-psicoterapeuta, che l’art. 3 della legge 56/89
equipara di fatto lo Psicoterapeuta non medico a quello non
medico per tutti i tipi di attività, eccezion fatta (comma 2)
per “ogni intervento di competenza esclusiva della
professione medica” tra i quali rientrano ovviamente, oltre ai
due tipi di intervento documentale già poco sopra citati (cioè
appunto la prescrizione di un periodo di astensione
dall’attività lavorativa o la certificazione di uno stato di
tossicodipendenza), anche competenze di ancor più chiara
esclusività degli Iscritti all’Ordine dei Medici-chirurghi e
egli Odontoiatri quali ad esempio l’effettuazione sulle
persone di interventi di tipo cosiddetto “intrusivo”
(operazioni chirurgiche, incisioni, iniezioni endovenose ecc.)
o la somministrazione di qualunque tipo di farmaco .
Per
tornare
invece
a
questioni
riguardanti
specificatamente l’attività professionale dello Psicologo, vorrei
sottolineare come mi siano state in svariate occasioni rivolte dai
Colleghi domande relative all’obbligo o meno di consegna ai
pazienti, o ad altri Committenti che ne fanno richiesta, dei
protocolli originali dei tests psicologici effettuati, e come tali
domande di chiarimenti si siano, in questi ultimi tempi,
particolarmente intensificate anche alla luce dei vari
provvedimenti legislativi in materia di tutela della privacy.
Ritengo opportuno, pertanto, portare a conoscenza di tutti i
Colleghi di alcuni elementi che possono, probabilmente,
rivestire al riguardo un interesse di carattere generale, tale da
giustificarne perciò la pubblicazione in questa sede.
Innanzitutto, occorre al riguardo ricordare ciò che
affermano su questo problema gli articoli 15, 16, 17, 21 e 25 del
nostro Codice Deontologico.
Articolo 15
Nel caso di collaborazione con altri soggetti parimenti tenuti al segreto professionale, lo
Psicologo può condividere soltanto le informazioni strettamente necessarie in relazione al tipo di
collaborazione.
Articolo 16
Lo Psicologo redige le comunicazioni scientifiche, ancorché indirizzate ad un pubblico di
professionisti tenuti al segreto professionale, in modo da salvaguardare in ogni caso l’anonimato
del destinatario della prestazione.
Articolo 17
La segretezza delle comunicazioni deve essere protetta anche attraverso la custodia e il controllo
di appunti, note, scritti o registrazioni di qualsiasi genere e sotto qualsiasi forma, che riguardino il
rapporto professionale.
Tale documentazione deve essere conservata per almeno i cinque anni successivi alla conclusione
del rapporto professionale, fatto salvo quanto previsto da norme specifiche.
Lo Psicologo deve provvedere perché, in caso di sua morte o di suo impedimento, tale protezione
sia affidata ad un collega ovvero all’Ordine professionale.
Lo Psicologo che collabora alla costituzione ed all’uso di sistemi di documentazione si adopera
per la realizzazione di garanzie di tutela dei soggetti interessati.
Articolo 21
Lo Psicologo, a salvaguardia dell’utenza e della professione, è tenuto a non insegnare l’uso
di strumenti conoscitivi e di intervento riservati alla professione di Psicologo, a soggetti
estranei alla professione stessa, anche qualora insegni a tali soggetti discipline
Psicologiche.
È fatto salvo l’insegnamento agli studenti del corso di laurea in Psicologia, ai tirocinanti,
ed agli specializzandi in materie Psicologiche.
Articolo 25
Lo Psicologo non usa impropriamente gli strumenti di diagnosi e di valutazione di cui
dispone.
Nel caso di interventi commissionati da terzi, informa i soggetti circa la natura del suo
intervento professionale, e non utilizza, se non nei limiti del mandato ricevuto, le notizie
apprese che possano recare ad essi pregiudizio.
Nella comunicazione dei risultati dei propri interventi diagnostici e valutativi, lo Psicologo
è tenuto a regolare tale comunicazione anche in relazione alla tutela Psicologica dei
soggetti.
Dall’esame complessivo di tali articoli emergono chiaramente due
indicazioni generali:
1) L’uso dei tests Psicologici, inteso come “possibilità di utilizzarli
mediante la loro somministrazione e/o interpretazione”, è
assolutamente riservato agli Psicologi o, per quanto riguarda i test
clinici, alle poche altre figure professionali abilitate (ad es.
psichiatri, neurologi ecc.);
2) L’uso delle informazioni fornite dai test Psicologici, e quindi la
comunicazione dei loro esiti, è, per quanto in parte estendibile
anche ad altre figure professionali direttamente interessate,
comunque limitato al minimo strettamente ritenuto di volta in
volta necessario dallo stesso Psicologo che ha direttamente
somministrato tali test.
A tali vincoli nell’uso dei test e delle informazioni da essi ricavate
imposte dal codice deontologico si aggiungono, tuttavia, altri
vincoli (in alcuni casi ancora più “limitanti”) imposti dalle stesse
Case editrici che ne curano la stampa e la diffusione nel nostro
Paese.
Ad esempio, la casa editrice Organizzazioni Speciali (O.S.) di Firenze, sicuramente
una delle maggiori in Italia in questo specifico settore, vincola ogni utilizzatore dei
test da essa pubblicati alla sottoscrizione di uno specifico “modulo di registrazione”
comportante tutta una serie di precisi limiti ed assunzioni di responsabilità.
Riportiamo perciò, qui di seguito, una significativa parte del testo di tale modulo, che
deve essere sottoscritto da ogni professionista al momento in cui egli provvede per la
prima volta all’acquisto di qualunque strumento Psicologico prodotto dall’O.S:
MODULO DI REGISTRAZONE DEGLI UTENTI O.S. 2001
" Per l'uso dei materiali O.S., acquistati presso di Voi, ci impegnamo a rispettare le
condizioni che seguono.
1) L'utilizzazione dei materiali deve essere condizionata a princìpi di riservatezza e
il loro uso legato alle norme contenute nei manuali che li corredano. In nessun caso
serviranno come strumento di conversazioni, di conferenze, di pubblicazioni
divulgative, ecc.
2) I materiali saranno conservati in modo da impedirne l'accesso a persone non
autorizzate perché non qualificate.
3) I materiali non verranno rivenduti né prestati a qualsiasi organizzazione o
individuo senza il consenso delle O.S. Organizzazioni Speciali, consenso che deve
essere richiesto in precedenza.
4) Tutti i moduli dei test Psicologici una volta che siano usati e che abbiano servito
allo scopo proposto verranno realmente distrutti.
5) Tutti i materiali O.S. sono protetti dalle norme vigenti sui diritti d'autore e
quindi non riproducibili in alcun modo (fotocopiato, computer o altro mezzo) senza
autorizzazione; in particolare, le griglie di correzione e le tabelle di valutazione non
vengono vendute ma cedute in licenza d'uso e pertanto non possono essere
trasferite ad altri od utilizzate in una forma differente da quella predisposta da O.S.
Abbiamo opportunamente valutato come queste condizioni siano state disposte al
fine di tutelare la ricerca e prendiamo di conseguenza nota che (intendendo
esemplificare e non limitare) ogni riproduzione anche parziale dei materiali O.S. o
di loro singole parti (questionari, fogli di risposta, e/o di notazione, griglie, scale di
valutazione, ecc.) eseguita con duplicatore, fotocopiatrice, computer o con ogni
altro mezzo, è rigorosamente vietata in quanto costituirebbe violazione dei diritti
d'autore. Di conseguenza, ove ci fosse utile usare parti o modificazioni dei test
Psicologici vendutici, ve ne chiederemo autorizzazione riferendo alla Vostra
favorevole predisposizione a queste concessioni quando siano dirette a consentire
l'esecuzione di lavori sperimentali di rigorosa serietà scientifica. Qualunque
autorizzazione comunque da Voi rilasciata deve essere portata e approvata in forma
scritta".
Le sopra riportate clausole 1, 2 e 4 meritano di essere particolarmente
evidenziate.
1) L'utilizzazione dei materiali deve essere condizionata a princìpi di
riservatezza e il loro uso legato alle norme contenute nei manuali che li
corredano. In nessun caso serviranno come strumento di conversazioni,
di conferenze, di pubblicazioni divulgative, ecc.
Questa clausola sintetizza e ribadisce, con un’incisività per alcuni
aspetti ancora maggiore, le indicazioni e le limitazioni relative all’uso
delle informazioni provenienti dall’utilizzo dei tests presenti nei sopra
riportati articoli 15,16,17 e 25 del vigente Codice Deontologico degli
Psicologi Italiani.
2) I materiali saranno conservati in modo da impedirne l'accesso a
persone non autorizzate perché non qualificate.
Il significato di questa clausola appare sostanzialmente sovrapponibile a
quello ribadito dal sopra riportato articolo 21 del nostro Codice
Deontologico.
4) Tutti i moduli dei test Psicologici una volta che siano usati e che
abbiano servito allo scopo proposto verranno realmente distrutti.
Quest’ultima clausola richiesta dalla O.S. agli
acquirenti dei propri strumenti Psicologici appare
addirittura definitiva, risolutiva rispetto al problema
evidenziato all’inizio del presente articolo. Il termine
“realmente” in essa contenuto evidenzia infatti la
necessità, al termine del loro uso, di una distruzione
“fisica” dei moduli originali dei tests O.S. utilizzati, e
quindi la totale impossibilità di una loro consegna sia al
paziente sia ad altri eventuali terzi committenti.
Inoltre, da quanto sopra emerso appare evidente che
solo lo Psicologo che li ha materialmente utilizzati può
valutare il momento in cui tale distruzione deve essere
effettivamente attuata.
Naturalmente, le ultime considerazioni qui evidenziate si riferiscono specificatamente ai test
Psicologici editi in Italia dalle Organizzazioni Speciali di Firenze, che pur essendo una tra le
maggiori case editrici che nel nostro Paese pubblicano test Psicologici non è certamente la sola.
Come comportarsi, pertanto, qualora la domanda di consegna ai pazienti, o ad altri Committenti
che ne fanno richiesta, dei protocolli originali dei tests psicologici effettuati, riguardi reattivi che
sono pubblicati in Italia da altre Case editrici?
A tal fine, a mio avviso, ci soccorre l’ultimo comma dell’art. 25 del vigente Codice Deontologico
degli Psicologi Italiani, già sopra riportato, che testualmente afferma che “Nella comunicazione
dei risultati dei propri interventi diagnostici e valutativi, lo Psicologo è tenuto a regolare tale
comunicazione anche in relazione alla tutela psicologica dei soggetti”. E’ infatti evidente che,
invece, un esame diretto dei dati presenti nei protocolli originali dei tests psicologici da parte dei
singoli soggetti che a tali tests si sono sottoposti esporrebbe sicuramente questi ultimi (a meno
che essi non siano, ipotesi evidentemente assai “residuale” rispetto a quanto di norma
generalmente accade, Psicologi regolarmente iscritti all’Albo e perciò abilitati all’esercizio della
Professione) a pesanti rischi di interpretazione scorretta di tali dati, non avendo ovviamente essi
le necessarie competenze tecniche per comprenderli correttamente e mettendo quindi, con ciò,
direttamente a repentaglio la propria stessa serenità ed il proprio equilibrio interiori. Per tali
motivi, almeno per quanto riguarda i test a carattere clinico – anche se essi non sono editi in Italia
dall’O.S. e da altre Case Editrici che ne prevedano anch’esse la “materiale distruzione” alla fine
del loro utilizzo da parte del Professionista – è evidente che lo Psicologo non debba di regola
consegnare direttamente il proprio “materiale di lavoro” ai propri clienti, limitandosi invece a far
pervenire loro una comunicazione adeguatamente “filtrata” sia che si tratti di una “restituzione”
orale dell’esito di un test o di un processo psicodiagnostica sia che si tratti di una relazione o di
una certificazione espresse in forma scritta.
LA CERTIFICAZIONE
PSICOLOGICA DA PARTE
DEGLI PSICOLOGI LIBERI
PROFESSIONISTI
Un’ultima riflessione in quest’ambito riguarda infine la
possibilità di certificazione Psicologica da parte degli Psicologi
liberi professionisti. Anche per essi, ovviamente, il rilascio di un
certificato che sintetizzi il lavoro Psicologico effettuato con un
proprio paziente è sicuramente consentito, sebbene facendo
sempre attenzione a non ignorare alcune limitazioni
concernenti ciò che per legge è esplicitamente affidato ad altre
categorie professionali (ad esempio, come si è già detto, non
certificando in prima persona una diagnosi di uso abituale di
sostanze stupefacenti, che il D.M. 186/1990 definisce come una
procedura di tipo “medico-legale”, oppure non quantificando
mai precisi “periodi di riposo” o addirittura di “astinenza da
lavoro”, che sono anch’essi esplicitamente definiti per Legge
come compiti di esclusiva competenza degli esercenti la
professione medica).
Oltre a ciò, comunque, è sempre opportuno anche
per lo Psicologo libero professionista, in fase di
redazione e di rilascio di una dichiarazione o un
certificato di questo tipo (ma analoghe
raccomandazioni sono comunque valide anche per
gli Psicologi dipendenti che spesso sono anch’essi
chiamati a produrre certificazioni o relazioni sui
casi da essi seguiti), attenersi sempre ad alcuni
importantissimi accorgimenti, al fine di tutelarsi
rispetto ad un uso improprio che di tali relazioni,
dichiarazioni o certificazioni possa essere
eventualmente fatto dal soggetto o da terzi.
Vediamo quindi di elencare almeno alcuni tra i
principali di questi accorgimenti:
1) Utilizzare sempre carta intestata recante il nome, il cognome, la
qualifica ed almeno l’indirizzo dello studio del Professionista,
meglio se con anche specificato l’Ordine territoriale al quale si è
iscritti ed il proprio numero di Repertorio (ad es.: Dott.ssa Maria
Rossi, Psicologo – Psicoterapeuta, Studio: Piazza Duomo, 1 – 00100
Roma – Iscritta all’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna
con num. di Repertorio 1083);
2) Iniziare sempre la stesura di tale certificato con una frase che
riprenda l’intestazione sopra citata e che giustifichi la legittimità di
quanto successivamente espresso, quale ad esempio la seguente o
analoga: “Io sottoscritta Dott.ssa Maria Rossi, Psicologo –
Psicoterapeuta con Studio in Piazza Duomo, 1 a Roma, Iscritta
all’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna con num. di
Repertorio 1083, dichiaro a mezzo della presente di aver seguito
professionalmente la Sig.ra Lucia Bianchi, nata a Roma il 14
Settembre 1955, dal mese di settembre 2001 al mese di maggio
2003, al fine di …..”;
3) Di concordare sempre
preventivamente, con il soggetto
richiedente tale certificazione o relazione,
l’utilizzo sostanziale che ne verrà fatto,
anche al fine di redigerne il testo in
ottemperanza a quanto stabilito dall’art.
25 del vigente Codice Deontologico degli
Psicologi italiani (articolo qui già
integralmente riportato in precedenza);
4) Di non riferirsi mai, all’interno del testo di tale certificato o
relazione, a prestazioni professionali eventualmente effettuate verso
altre persone che non siano il soggetto al quale la relazione si
riferisce, a meno che non se ne sia preventivamente ottenuto un
esplicito “consenso informato” scritto. Tale rischio è particolarmente
evidente ed insidioso, ad esempio, nel caso (tutt’altro che
infrequente) in cui uno dei componenti di una coppia che abbia
seguito insieme un percorso terapeutico o di sostegno richieda poi al
professionista una certificazione inerente tale percorso, magari per
presentarla poi in Tribunale durante una causa di separazione o di
divorzio: uno Psicologo che rediga una relazione su una terapia di
coppia su richiesta di uno solo dei due componenti la coppia stessa,
e poi glie la consegni, senza il preventivo permesso scritto dell’altro
componente la coppia medesima incorre infatti non solo in grave
conseguenze disciplinari, ma anche in gravi conseguenze penali per
violazione sia della normativa sulla privacy che di quella sul segreto
professionale;
5) Di non riferirsi mai, all’interno del testo di tale
certificato o relazione, a caratteristiche psicologiche
o psicopatologiche di altre persone che non siano il
soggetto direttamente richiedente la certificazione
stessa (eccezion fatta per una relazione su di un
soggetto minore richiesta da chi legittimamente ne
detiene la potestà genitoriale, su di un soggetto
interdetto richiesta da chi legittimamente ne detiene
la tutela o, infine, nel caso di una relazione richiesta
da un Giudice di un Tribunale per il quale il
professionista ricopre il ruolo di C.T.U.);
6) Di fondare le proprie valutazioni ed i
propri giudizi professionali, all’interno del
testo del certificato o della relazione che lo
Psicologo rilascia e sulla base di quanto
esplicitamente stabilito dall’art. 7 del C.D.
vigente, solo sulla base di elementi “fondati
sulla conoscenza professionale diretta
ovvero su una documentazione adeguata ed
attendibile” in possesso dello Psicologo
stesso;
7) Di concludere sempre il certificato o la
relazione che lo Psicologo rilascia con un frase
del tipo “Si rilascia la presente certificazione, in
carta libera, a richiesta dell’interessato, per tutti
gli usi consentiti dalla Legge” o analoga
(specificando di norma il nominativo della
persona alla quale si rilascia materialmente il
certificato stesso se quest’ultima – ad esempio
nei casi già citati di soggetti minorenni o
interdetti – non corrisponde al soggetto al quale
invece il testo della relazione o del certificato si
riferisce direttamente);
8) Di apporre sempre in calce a tale relazione o
certificazione la data della sua stesura, la propria
firma autografa ed eventualmente anche il proprio
timbro;
9) Di redigere sempre tali certificati, dichiarazioni o
relazioni, in copia almeno duplice, una delle quali
rimarrà in possesso dello Psicologo dopo che lo
stesso le avrà fatto apporre in calce, dalla persona
alla quale materialmente consegnerà l’altra o le
altre copie, la dicitura “Per ricevuta”, la data di
consegna e la firma autografa e leggibile della
persona che ha ritirato l’altra o le altre copie;
10) Di conservare nei propri
archivi tale copia firmata “per
ricevuta” in modo tale che non ne
sia consentito l’accesso o la visione
a terzi, sulla base di quanto
previsto dalle vigenti norme penali
e deontologiche, in questa sede già
ripetutamente citate, in materia di
privacy e di segreto professionale.
LA CARTELLA CLINICA:
ASPETTI NORMATIVI,
MEDICO-LEGALI ED
AMMINISTRATIVI.
Come devono comportarsi
gli Psicologi professionisti
quando un paziente chiede
loro copia della
cosiddetta “cartella
clinica”?
Innanzitutto occorre precisare che,
dal punto di vista giuridico, la qualificazione
della cartella clinica varia a
seconda che l’estensore sia un’istituzione
pubblica o privata convenzionata
oppure una struttura sanitaria
privata non convenzionata. Nei primi
due casi, come si può desumere da
alcune pronunce della Corte di Cassazione,
la cartella clinica viene considerata
un atto pubblico e il sanitario
che la redige è un pubblico ufficiale.
La cartella clinica in quanto tale è per sua
definizione, all’atto stesso della sua
compilazione, un atto pubblico. Un atto è
definito pubblico in quanto atto formale destinato
a far fede di un fatto produttivo di effetti
giuridici, accertato direttamente - originariamente
con le formalità prescritte da un pubblico ufficiale
nell’esercizio delle sue funzioni ed attribuzioni
(art.2699 c.c.). Esso, in base all’art.2700 c.c.,
costituisce prova, sino a querela di falso, della
provenienza del documento dal pubblico ufficiale
che lo ha redatto.
Come atto pubblico (art 2699 Codice civile) la cartella
clinica “fa piena prova, fino a querela di falso, della
provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo
ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti
e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti
in sua presenza o da lui compiuti”. Ne deriva tra l’altro
l’applicabilità degli articoli del codice penale in tema di
falsità in atti pubblici: falso materiale (art. 476 c.p.)
qualora venga apportata una successiva alterazione al
contenuto della cartella clinica e falso ideologico (art.
479 c.p.) qualora vengano riportati nella cartella dati
coscientemente non veritieri o attestazioni non
corrispondenti alla verità.
In
particolare, i requisiti
pubblico sono i seguenti:
dell’atto
1. deve essere redatto da un pubblico
ufficiale;
2. quest’ultimo deve essere autorizzato ad
attribuire pubblica fede all’atto stesso
nel luogo in cui si è formato;
3. devono essere rispettate le formalità
prescritte derivanti dal codice e da leggi
speciali.
Anche il ritardo nella compilazione può produrre addebito
penale, per omissione di atti d’ufficio (art 328 c.p.). Infatti,
per quanto attiene al continuo ed immediato aggiornamento
della cartella clinica, la sentenza del 23.3.87 della V sez.
penale della Corte di Cassazione definisce quanto segue:
“La cartella clinica adempie la funzione di diario del
decorso della malattia e di altri fatti clinici rilevanti, per cui
gli eventi devono essere annotati contestualmente al loro
verificarsi. Pertanto la cartella clinica acquista il carattere di
definitività in relazione ad ogni singola annotazione
ed esce dalla disponibilità del suo autore nel momento
stesso in cui la singola annotazione viene registrata”.
Ne consegue che (all’infuori
della correzione dei meri errori
materiali) “le modifiche e le aggiunte
integrano un falso punibile, anche se
il soggetto abbia agito per ristabilire
la verità, perché violano le garanzie
di certezza accordate agli atti pubblici”.
.
E ancora, con sentenza del 21.4.83, lo stesso organismo
ribadisce: “La cartella clinica, della cui regolare
compilazione è responsabile il primario, adempie la
funzione di diario del decorso della malattia e di altri
fatti rilevanti. Attesa la sua funzione di diario, i fatti
devono essere annotati contestualmente al loro
verificarsi. Ne consegue che l’annotazione postuma di
un fatto clinico rilevante integra il reato di falso
materiale in atto pubblico di cui all’ articolo 476
c.p. La cartella clinica acquista il carattere di definitività
in relazione ad ogni singola annotazione ed esce
dalla sfera di disponibilità del suo autore nel momento
in cui la singola annotazione venga registrata.
Ogni annotazione assume pertanto
autonomo valore documentale e piena
efficacia nel tratto giuridico non appena
viene trascritta, con la conseguenza che una
successiva alterazione da parte del
compilatore costituisce falsità punibile,
ancorchè il documento sia ancora nella sua
materiale disponibilità, in attesa della
trasmissione alla direzione sanitaria per la
definitiva custodia.”
Pertanto nel caso si debba procedere alla
correzione di errori materiali all’atto della
stesura è necessario coprire con un tratto ciò
che si intende eliminare (che deve comunque
risultare leggibile) mentre se si vuole
procedere alla correzione in epoca successiva
è necessario aggiungere un’annotazione, che
si pone come autonoma dichiarazione,
recante la data reale di stesura e la firma
dell’estensore.
Per quanto riguarda invece la cartella clinica
redatta presso studi o case di cura private non
convenzionate, essa costituisce un promemoria
privato dell’attività diagnostica e terapeutica svolta
e non riveste carattere nè di atto pubblico nè di
certificazione.
Dal punto di vista penalistico pertanto, pur essendo
l’attività libero-professionale svolta dal medico
all’interno di una casa di cura privata inquadrabile
come servizio di pubblica necessità, la falsità
ideologica della cartella clinica redatta in questo
contesto non è punibile ai sensi dell’art. 481 c.p.
Tuttavia l’unica disciplina di dettaglio, in cui si fornisce
una sintetica descrizione del contenuto minimale
della cartella clinica, riguarda le cartelle cliniche delle
case di cura private (DPCM 27.6.86 “Atto di indirizzo
e coordinamento dell’ attività amministrativa delle
regioni in materia di requisiti delle case di cura private”,
art 35):
“In ogni casa di cura privata è prescritta, per ogni
ricoverato, la compilazione della cartella clinica da cui
risultino le generalità complete, la diagnosi di entrata,
l’anamnesi familiare e personale, l’esame obiettivo, gli
esami di laboratorio e specialistici, la diagnosi, la
terapia, gli esiti e i postumi”.
Ed ancora: “ Le cartelle cliniche, firmate dal
medico curante e sottoscritte dal medico
responsabile di raggruppamento, dovranno portare
un numero progressivo ed essere conservate a cura
della direzione sanitaria. Fatta salva la legislazione
vigente in materia di segreto professionale,
le cartelle cliniche ed i registri di sala operatoria
devono essere esibiti, a richiesta, agli organi
formalmente incaricati della vigilanza. In caso di
cessazione dell’attività della casa di cura le cartelle
cliniche dovranno essere depositate presso il
servizio medico-legale della U.S.L.
territorialmente competente.”
Non esistono, quindi, indicazioni
particolarmente precise e dettagliate per la
stesura della cartella clinica: e questo, se da
un lato è comprensibile in considerazione
delle peculiari caratteristiche ed esigenze
delle diverse branche della medicina e dei
diversi reparti ospedalieri, dall’altro
rende evidentemente più complessi
l’informatizzazione del documento,
la condivisione delle informazioni e
l’impiego dei dati per studi epidemiologici.
Secondo la dottrina giuridica, infatti,
la cartella clinica, costituita dall’insieme
delle informazioni anagrafiche,
sanitarie, sociali, ambientali e giuridiche
concernenti un determinato
paziente, non è solo uno strumento
utile all’assistenza del malato, ma
anche un atto ufficiale indispensabile
a garantire la certezza del diritto e
una preziosa fonte documentaria per
le ricerche di carattere storico-sanitario..
In quanto formazione di documento originale, la
compilazione della cartella clinica non costituisce
di per sé trattamento di dati personali e non richiede
quindi alcuna particolare autorizzazione, bastando a
legittimarla la richiesta di prestazioni da parte del
paziente.
Qualunque altra organizzazione dei dati (per
esempio la costituzione di un archivio
informatizzato) rientra invece nella
regolamentazione della legge 675/96.
In quanto atto pubblico e, contemporaneamente,
documento clinico, il contenuto della cartella è
protetto dal segreto d’ufficio e dal segreto
professionale.
Tale documento deve essere pertanto conservato
in modo da impedirne l’accesso a persone non
coinvolte nella terapia.
Il paziente titolare della cartella ha in ogni
momento accesso al suo contenuto,
ed è l’unico soggetto titolato a chiederne copia
con le uniche eccezioni degli eredi legittimi, del
rappresentante legale della persona minore o
dichiarata legalmente incapace e, in certi casi,
delle compagnie di assicurazioni.
Poiché la cartella clinica costituisce atto
pubblico nella sua integrità, la copia della
cartella va effettuata sull’originale in toto:
non è in alcun modo giustificabile il rilascio
di un “estratto”.
Risulta inoltre del tutto illegale qualunque
creazione di fascicoli diversi, riferiti allo
stesso paziente, che registrino una qualunque
attività diagnostica o terapeutica al di fuori
della cartella clinica.
La cartella clinica deve essere
conservata illimitatamente (circolare
Min.San. n. 61 del 19.12.86), e i dati su
cui si basa la refertazione diagnostica
devono essere conservati per almeno
5 anni nel caso di preparati citologici
e istologici (D.P.C.M. 10.2.84) e per
almeno 10 anni nei restanti casi, con
l’eccezione dei resoconti radiologici e
di medicina nucleare (D.M. 14.2.97)
da conservare illimitatamente.
Responsabile dell’archiviazione definitiva dei dati è la
Direzione Sanitaria dell’ospedale, mentre responsabile
della regolare compilazione delle cartelle e della loro
conservazione all’interno dell’unità operativa finchè il
paziente vi sia ricoverato è il primario, direttore
dell’unità operativa (DPR 27.3.69). Egli può tuttavia
delegare ai collaboratori tali compiti, nell’osservanza
delle misure di sicurezza (DPR 318/99 art. 9).
Per la conservazione delle cartelle cliniche e dei relativi
referti è consentita sia la microfilmatura (legge n.15/68,
DPCM 11.9.74) che l’archiviazione su supporto ottico,
purchè nel rispetto delle prescrizioni dell’AIPA (legge
537/93, DPR n. 445 del 28.12.00, delibera AIPA n. 42
del 13.12.01, legge 59/97).
L’illegittima divulgazione del contenuto
della cartella clinica può condurre
a conseguenze di ordine penale
per violazione del segreto professionale
(codice penale art. 622) o di
quello d’ufficio (art. 326 c.p.), quest’ultimo
applicabile solo al personale strutturato, il
primo applicabile anche allo studente
frequentatore ed al laureato tirocinante.
È illegittima la circolazione della cartella clinica a
persone/enti diversi dai seguenti (Legge 675/96,
D.Lvo 282 del 30.7.99):
- il diretto interessato, il tutore o chi esercita la patria
potestà
- persone diverse dall’ interessato (ivi compreso il
medico curante) solo se fornite di delega
- l’Autorità giudiziaria
- gli enti previdenziali (INAIL, INPS ecc.),
limitatamente alle materie di competenza
- il S.S.N.
- gli eredi legittimi
- i medici a scopo scientifico- statistico
(purchè in forma anonima).
La cartella clinica, quale comunemente intesa,
rappresenta quindi il complesso documentale
afferente ad ogni individuo ricoverato in ambito
ospedaliero, in cui sono contenuti dati anagrafici, le
annotazioni tecniche riguardanti l’esame clinico,
l’insieme delle ricerche diagnostiche espletate, la
diagnosi formulata, le cure intraprese, e l’evoluzione
della malattia nel periodo della degenza.
Lo strumento-cartella in vigore nei Servizi
sanitari territoriali, e non in quelli ospedalieri,
può quindi essere ugualmente definito “cartella
clinica”?
Vediamo, intanto, cos’è la cartella nei Servizi Territoriali. Si
tratta, per lo più - fatte le debite eccezioni (es. introduzione di
cartelle cliniche computerizzate) - di un insieme di materiale
cartaceo, riunito in un unico contenitore, su cui vengono annotati
i vari dati relativi al paziente/utente, nonché la storia del suo
rapporto con il servizio, in termini sia oggettivi (dati socioanamnestici del soggetto e della sua famiglia, esami richiesti ed
effettuati e loro esito, date dei colloqui fatti e date a cui non si è
presentato, interventi terapeutici intrapresi e loro evoluzioneesito), sia più soggettivi, attinenti cioè il colloquio, registrati
dall’operatore (contenuto libero dei colloqui con il soggetto ed i
suoi familiari, impressioni dell’operatore relativamente all’iter
terapeutico, note per i colleghi che condividono il caso, o promemoria per i colloqui successivi) in cui ampia può essere la
discrezionalità dell’operatore nel riportare i fatti.
Da quanto su esposto, quindi, si evince
come lo strumento cartella in vigore nei
Servizi territoriali sia, di fatto, composto
di due parti :
- una “cartella clinica” vera e propria
che riporta dati oggettivi ;
- una parte di testi liberi, con carattere di
ampia soggettività e di riservatezza.
Riassumendo:
La cartella clinica in uso nei Servizi socio-sanitari
pubblici, anche ambulatoriali, è il fascicolo in cui si
raccolgono i dati anamnestici e obbiettivi riguardanti il
paziente, quelli sul decorso della malattia, i risultati degli
accertamenti e delle terapie praticate.
E’ un documento, quindi, nel quale si esprime e si
manifesta l’attività dell’ente e che, oltre a rappresentare
uno strumento di lavoro, ha rilevanza giuridica perché non
persegue solo finalità pratiche e statistiche di ordine
interno ma consacra una determinata realtà (visite, natura e
gravità della malattia, terapia) che può essere fonte di
diritti ed obblighi per lo Stato e per lo stesso paziente .
Come atto pubblico, quindi, la cartella clinica
è un bene patrimoniale indisponibile (art.
830 C.C.): pertanto deve essere conservata
illimitatamente e, per quanto riguarda la sua
conservazione, è soggetta al regime generale
dei beni pubblici stabilito dall’art. 8 del DPR
30.09.63 N. 1409 sugli Archivi di Stato.
Inoltre, il ritardo nella sua compilazione
potrebbe comportare la sussistenza del
reato di omissione di atti d’ufficio, punibile
ai sensi dell’art. 328 C.P.
La cartella clinica acquista il carattere di
definitività in relazione ad ogni singola
annotazione, che quindi esce dalla sfera di
disponibilità del compilatore non appena viene
riportata. Le modifiche o aggiunte in un atto
pubblico dopo che è stato definitivamente
formato integrano il falso anche se il soggetto
ha agito per ristabilire la verità effettuale, in
quanto a causa dell’aggiunta postuma l’atto
viene a rappresentare e documentare fatti diversi
da quelli che rappresentava e documentava nella
versione originale.
A conferma di ciò si richiama la sentenza della
Corte di Cassazione n. 9623 dell’11.11.83. In
quell’occasione la Corte puntualizzò che la
cartella, della cui compilazione è responsabile il
primario, adempie alla funzione di diario del
decorso della malattia e di altri fatti clinici
rilevanti che, attesa la funzione del diario,
devono essere annotati contestualmente al loro
verificarsi. Ne consegue che l’annotazione
postuma di un fatto clinico rilevante integra il
reato di falso materiale di cui all’art. 476 del
C.P.
In base al parere espresso dal nostro
Consulente Legale, Avv. Federico Gualandi,
la Cartella Clinica propriamente detta –
usata nelle strutture ospedaliere
in regime di ricovero - è un documento
definito in base a precise normative di
Legge e deve rispettare, nella sua redazione,
criteri obbligatori dai quali non
può prescindere. Essa può essere richiesta in
copia integrale alle direzioni sanitarie in
base alla legge 241/90.
L’insieme degli appunti redatti
durante le sedute dallo Psicologo sia egli dipendente di un’AUSL
oppure libero professionista - non
si configura, invece, come Cartella
Clinica ai sensi di legge e non è,
quindi, consegnabile in base a
richieste di accesso ai sensi della L.
241/90.
Questo insieme di appunti registrati rappresenta
soltanto una sorta di “diario clinico” o “fascicolo
personale” e non costituisce un documento
formale, ma soltanto uno strumento ad uso
esclusivo del professionista per facilitare e
rendere più agevole la conduzione del lavoro
psicologico e/o terapeutico.
Addirittura, per essere corretti, detti appunti non
dovrebbero essere conservati, in caso di strutture
pubbliche, nella “cartella” del paziente, ma
dovrebbero essere tenuti esclusivamente dal
professionista che li ha redatti.
Soltanto a seguito di regolare
ordinanza di sequestro
emessa dal Giudice, relativamente a
tutto il materiale riferito ad un
paziente, il professionista
deve necessariamente fornire quanto
formalmente
richiesto all’autorità giudiziaria.
Detto questo, precisiamo anche che
il professionista è comunque tenuto
a relazionare sulla diagnosi, sulla
tipologia e sulla tempistica degli
interventi effettuati, anche
psicoterapeutici, senza però
minimamente entrare nel merito dei
contenuti delle sedute.
I requisiti fondamentali della compilazione
della cartella
I due requisiti fondamentali
della compilazione della cartella
sono
la

chiarezza
e
la
 veridicità .
I due requisiti fondamentali della
compilazione, al di là della soggettività
sempre possibile, sono la chiarezza e la
veridicità. Il primo requisito, quello della
chiarezza,
appare opportuno per
evitare incertezze di interpretazione del
documento ma, in genere, non
costituisce illecito penale: la Cassazione
(29 maggio 1961) ha affermato che
l'incompletezza
e
l'ambiguità
non
equivalgono a falsità, in quanto non
attengono alla veridicità del documento.
Il secondo requisito invece, quello della veridicità, risponde ad un
requisito di legge. Il sanitario, infatti, che attesti il falso, incorre - a
seconda della qualità dell'alterazione - in uno dei seguenti reati:
·
art.476 c.p. "Falsità materiale commessa da pubblico
ufficiale in atti pubblici": il Pubblico Ufficiale che nell'esecuzione
delle sue funzioni, forma, in tutto o in parte, un atto falso, è punito
con la reclusione da uno a sei anni;
·
art.479 c.p. "Falsità ideologica commessa da Pubblico
Ufficiale in atti pubblici": il Pubblico Ufficiale che, ricevendo o
formando un atto nell'esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente
che un atto è stato da lui compiuto, o è avvenuto in sua presenza, o
attesta come da lui ricevute dichiarazioni a lui non rese, ovvero
ometta o alteri dichiarazioni da lui ricevute o comunque attesta
falsamente fatti di cui l'atto è destinato a provare la verità; soggiace
alle pene stabilite all'art.476 c.p.
Le falsità, quindi, che possono essere
realizzate su documenti, sono di due tipi:
a) falsità materiale: attività di falsificazione
che possono essere effettuate sull'atto già
terminato (es. cancellature, aggiunte);
b) falsità ideologica: attività di falsificazione
che possono essere realizzate nel momento
in cui l'atto viene formato.
Le cancellature, le aggiunte in caso di
erronea trascrizione debbono, pertanto,
essere effettuate in modo tale che sia
possibile comprendere quanto
precedentemente annotato (es. non
utilizzare decoloranti o altri mezzi diretti a
variare gli scritti apposti, ma tracciare una
riga sull'errore, e trascrivere a fianco o
sopra; riportare una nota di correzione
accanto allo scritto precedente).
Eventuali errori, pertanto, non devono
essere corretti cancellandone le tracce o,
peggio, rifacendo la cartella, ma devono
essere rettificati con la data del momento
in cui l’annotazione correttiva è stata
redatta.
Al fine di osservare le vigenti
disposizioni in tema di rispetto e di tutela
della riservatezza, la cartella clinica non
deve in alcun modo contenere notizie
relative a persone diverse dal paziente
(soprattutto nel caso in cui tali notizie
configurassero reati) se non come fatti
riferiti e solo se pertinenti alla gestione
del caso.
Inoltre, poiché le notizie registrate
devono essere quelle strettamente
necessarie alla migliore gestione del caso,
le informazioni sui famigliari dovranno
essere riportate solo se collegate ai
problemi del paziente.
In conclusione, la cartella clinica deve
rappresentare un documento e uno
strumento di lavoro che contenga tutto
quanto è necessario e sufficiente a
svolgere nel modo migliore l’intervento
che il paziente richiede ed autorizza,
senza omissioni ma anche senza dati
eccedenti.
Pertanto,
 la cartella deve essere
aggiornata contestualmente al
verificarsi dei fatti che attesta
(per esempio: se si fa un colloquio
o un’ anamnesi, ciò va registrato
senza ritardo);
 La cartella non deve contenere
correzioni che impediscano di vedere
l'errore commesso
(che va quindi corretto con tratto di
penna e riscrittura a lato e non con
sovrascrittura)
né, tantomeno, rifacimenti;
 la cartella non deve contenere giudizi
personali dell'operatore che non siano di
carattere professionale
(per esempio non è accettabile scrivere "il
paziente ha un atteggiamento manipolatorio“,
ma, eventualmente si potranno registrare i
fatti che sono rilevanti rispetto all'attendibilità
del paziente: ad es. "il paziente fornisce
dell'accaduto versioni differenti a differenti
operatori");
 la cartella non deve contenere giudizi
che spettano ad altri
(per esempio non si può scrivere "il paziente è
dedito ad attività illegali" ma eventualmente
"il paziente non riferisce fonti di reddito
compatibili con le spese dichiarate" oppure
"riferisce condanna per furto“);
 la cartella non deve contenere
come fatti assodati
elementi riferiti a terzi
(quindi non si deve scrivere "moglie
prostituta" ma "il paziente riferisce
che la moglie sarebbe dedita alla
prostituzione);
 la cartella non deve contenere
informazioni irrilevanti per gli obiettivi
della diagnosi e della cura
(per esempio non si scriverà "un fratello
omosessuale affetto da AIDS" ma "un fratello
affetto da AIDS" essendo l’omosessualità
altrui clinicamente irrilevante).
 Occorre inoltre informare i pazienti che riferiscono in maniera
circostanziata comportamenti illegittimi altrui che il segreto
professionale, di fronte a un possibile reato, riguarda solo
l'interessato e non altre persone, nei confronti delle quali invece
gli addetti a pubblico servizio hanno l'obbligo di denuncia.
Perciò prima di scrivere, ad esempio, che il soggetto di cui ci si sta
occupando "riferisce di non aver conseguito l'astinenza da eroina
perché la medesima gli viene fornita dall'insegnante di italiano"
occorre accertarsi che l'interessato intenda effettivamente rilasciare
tale dichiarazione che comporterà, ovviamente, l'immediata
denuncia alla magistratura”, e ciò ovviamente, in primo luogo, per
evitare di essere poi disconfermati dal paziente in altra sede con le
conseguenze, facilmente prevedibili, di perdita o comunque grave
compromissione della possibilità di reciproca e proficua
collaborazione.
Art. 17 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
La segretezza delle comunicazioni deve essere protetta anche
attraverso la custodia e il controllo di appunti, note, scritti o
registrazioni di qualsiasi genere e sotto qualsiasi forma, che
riguardino il rapporto professionale.
Tale documentazione deve essere conservata per almeno i cinque
anni successivi alla conclusione del rapporto professionale, fatto
salvo quanto previsto da norme specifiche.
Lo psicologo deve provvedere perché, in caso di sua morte o di suo
impedimento, tale protezione sia affidata ad un collega ovvero
all’Ordine professionale.
Lo psicologo che collabora alla costituzione ed all’uso di sistemi di
documentazione si adopera per la realizzazione di garanzie di tutela
dei soggetti interessati.
Deve quindi essere ben chiaro che si parla di due cose
ben diverse, e che tra loro presentano problematiche ben
distinte, quando si usano i termini di
consenso informato al trattamento
dei dati personali e/o sensibili
oppure di
consenso informato al trattamento
sanitario.
Il consenso informato al
trattamento sanitario
All’interno della cartella clinica deve collocarsi
anche il consenso informato, ovvero
l’annotazione relativa al fatto che il sanitario ha
informato il paziente sul suo stato di salute, ne ha
ottenuto il consenso al trattamento e si è accertato
di essere stato compreso.
CONSENSO INFORMATO AL TRATTAMENTO
SANITARIO
Figura di consenso elaborata in relazione ai diritti, riconosciuti al paziente:
1.
Di conoscere i dati sanitari che lo riguardano
2.
Di esserne informato in modo completo
In particolare
riguardo:
La diagnosi
La prognosi
La natura delle eventuali problematiche evidenziatesi
I benefici e i rischi delle procedure diagnostiche e terapeutiche
Le possibili alternative e le conseguenze del rifiuto del trattamento
Prestare o negare il proprio consenso in relazione ai trattamenti sanitari che
stiano per essere eseguiti o che siano prevedibili nello sviluppo della patologia in
atto
L’informazione fa parte della buona
condotta professionale, costituisce un vero e
proprio dovere contrattuale, è integrativa
della prestazione sanitaria tanto da
diventare prestazione sanitaria essa stessa,
dalla sua omissione possono derivare
responsabilità professionali e pretese
risarcitorie (Cass. 29.3.76 n. 1132, 26.3.82
n. 1773, 25.11.94 n. 10014).
Di fatto il consenso informato rilasciato in forma scritta,
anche se può essere utile sotto il profilo probatorio, è
obbligatorio solo nei seguenti casi:
-sperimentazione clinica (D.L.vo 230/95 art 108, DM
15.7.97)
-- terapia con emoderivati e plasmaderivati (DM 15.1.91
art 19, DM 1.9.95 art 4)
- trapianto di organi (legge 468/67 art 2 per donazione di
rene da vivente, legge 91/99 per eventuale dissenso a
espianto da cadavere)
- impiego di medicinali al di fuori delle indicazioni
ministeriali (legge 94/98).
Benchè anche per altre tipologie di prestazioni possa
essere consigliabile l’acquisizione di un consenso scritto
(ad esempio atti chirurgici, procedure diagnostiche o
terapeutiche invasive, trattamenti oncologici, utilizzo di
mezzi di contrasto, NMR, trattamenti con radiazioni
ionizzanti, trattamenti che provochino la perdita anche
temporanea della capacità di procreare), il codice di
deontologia medica (art 32) attribuisce al consenso in
forma scritta una funzione integrativa e non sostitutiva
del processo di informazione, e la presenza di un modulo
sottoscritto dal paziente non esclude il sindacato del
giudice sull’effettività del consenso.
L’idea centrale
attorno attorno alla quale si imperniano tutti i principi
etici e deontologici di specifico interesse per gli Psicologi
che operano nell’ambito della tutela della salute delle persone è
quella del “consenso al trattamento” da parte del singolo paziente:
Rispetto della volontà del paziente
da parte dello Psicologo
e di ogni altro operatore sanitario
La dottrina del consenso al trattamento sanitario si affermò nel secondo
dopoguerra come conseguenza delle efferatezze compiute dalla medicina
nazista. Come risultato della ripulsa nei confronti della sperimentazione
umana condotta nei campi di concentramento, in quasi tutti i Paesi
occidentali venne inserito nell'ordinamento legale il principio che
nessun essere umano può essere sottoposto contro la sua volontà
a cure o sperimentazioni mediche.
In Italia questo principio è sancito dall' art. 32 della Costituzione,
che afferma
che nessuno può essere sottoposto a trattamento medico contro la propria
volontà tranne che casi regolamentati dalla legge e che, in ogni modo, la
legge non può oltrepassare i limiti imposti dal rispetto della dignità
umana.
Lo stesso principio è chiaramente riaffermato
dalla Legge n.833/78, artt. 33 e 34.
Inoltre:
il principio del “ consenso informato” viene esplicitamente ribadito
anche da numerosi articoli del Codice Deontologico degli Psicologi
Italiani, in primo luogo in relazione alle attività di ricerca e, quindi, con
specifico riferimento all’attività clinica.
Gli articoli al riguardo più significativi sono, in particolare, l’art.9, l’art.
12, l’art. 24, l’art. 31, l’art. 32 e l’art. 39.
Art. 9 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Nella sua attività di ricerca lo psicologo è tenuto ad informare adeguatamente i
soggetti in essa coinvolti al fine di ottenerne il previo consenso informato, anche
relativamente al nome, allo status scientifico e professionale del ricercatore ed
alla sua eventuale istituzione di appartenenza. Egli deve altresì garantire a tali
soggetti la piena libertà di concedere, di rifiutare ovvero di ritirare il consenso
stesso.
Nell’ipotesi in cui la natura della ricerca non consenta di informare
preventivamente e correttamente i soggetti su taluni aspetti della ricerca stessa, lo
psicologo ha l’obbligo di fornire comunque, alla fine della prova ovvero della
raccolta dei dati, le informazioni dovute e di ottenere l’autorizzazione all’uso dei
dati raccolti. Per quanto concerne i soggetti che, per età o per altri motivi, non
sono in grado di esprimere validamente il loro consenso, questo deve essere dato
da chi ne ha la potestà genitoriale o la tutela, e, altresì, dai soggetti stessi, ove
siano in grado di comprendere la natura della collaborazione richiesta.
Deve essere tutelato, in ogni caso,
il diritto dei soggetti alla riservatezza,
alla non riconoscibilità ed all’anonimato.
Art. 12 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo si astiene dal rendere testimonianza su fatti di cui è
venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto professionale.
Lo psicologo può derogare all’obbligo di mantenere il segreto
professionale, anche in caso di testimonianza, esclusivamente in
presenza di valido e dimostrabile consenso del destinatario della sua
prestazione. Valuta, comunque, l’opportunità di fare uso di tale
consenso, considerando preminente la tutela psicologica dello
stesso.
Art. 24 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo, nella fase iniziale del rapporto professionale, fornisce
all’individuo, al gruppo, all’istituzione o alla comunità, siano essi
utenti o committenti, informazioni adeguate e comprensibili circa le
sue prestazioni, le finalità e le modalità delle stesse, nonché circa il
grado e i limiti giuridici della riservatezza.
Pertanto, opera in modo che chi ne ha diritto possa esprimere un
consenso informato.
Se la prestazione professionale ha carattere di continuità nel tempo,
dovrà esserne indicata, ove possibile, la prevedibile durata.
Art. 31 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Le prestazioni professionali a persone minorenni o interdette sono,
generalmente, subordinate al consenso di chi esercita sulle
medesime la potestà genitoriale o la tutela.
Lo psicologo che, in assenza del consenso di cui al precedente
comma, giudichi necessario l’intervento professionale nonché
l’assoluta riservatezza dello stesso, è tenuto ad informare l’Autorità
Tutoria dell’instaurarsi della relazione professionale.
Sono fatti salvi i casi in cui tali prestazioni avvengano su ordine
dell’autorità legalmente competente o in strutture legislativamente
preposte.
Art. 32 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Quando lo psicologo acconsente a fornire una prestazione
professionale su richiesta di un committente diverso dal destinatario
della prestazione stessa, è tenuto a chiarire con le parti in causa la
natura e le finalità dell’intervento.
Art. 39 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo presenta in modo corretto ed accurato la propria
formazione, esperienza e competenza. Riconosce quale suo dovere
quello di aiutare il pubblico e gli utenti a sviluppare in modo libero
e consapevole giudizi, opinioni e scelte.
Strettamente collegata al tema del consenso
informato, vi è la poi questione del diritto del
paziente alla scelta del trattamento. Esso viene
esplicitato, in modo estremamente chiaro, nel
testo dell’art. 18 del vigente C.D. degli
Psicologi del nostro Paese, e quindi
successivamente ripreso ed specificato nei
successivi articoli 27, 29 e 37.
Art. 18 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
In ogni contesto professionale lo psicologo deve adoperarsi affinché
sia il più possibile rispettata la libertà di scelta, da parte del cliente
e/o del paziente, del professionista cui rivolgersi.
Art. 27 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo valuta ed eventualmente propone l’interruzione del
rapporto terapeutico quando constata che il paziente non trae alcun
beneficio dalla cura e non è ragionevolmente prevedibile che ne
trarrà dal proseguimento della cura stessa.
Se richiesto, fornisce al paziente le informazioni necessarie a
ricercare altri e più adatti interventi.
Art. 29 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo può subordinare il proprio intervento alla condizione
che il paziente si serva di determinati presidi, istituti o luoghi di
cura soltanto per fondati motivi di natura scientifico-professionale.
Art. 37 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo accetta il mandato professionale esclusivamente nei
limiti delle proprie competenze.
Qualora l’interesse del committente e/o del destinatario della
prestazione richieda il ricorso ad altre specifiche competenze, lo
psicologo propone la consulenza ovvero l’invio ad altro collega o ad
altro professionista.
Questo diritto del cliente/paziente/utente alla libera scelta del
proprio trattamento sanitario si articola in 2 distinti momenti:
1. il primo di essi concerne il diritto alla libera scelta del professionista
o della struttura terapeutica a cui rivolgersi per ottenere una prima
risposta alle proprie necessità;
2. il secondo riguarda il diritto del cliente ad esprimersi e decidere in
prima persona sia la prosecuzione o la conclusione del rapporto in
corso sia lo scegliere, con la più completa autonomia decisionale, di
rivolgersi ad altre possibili alternative terapeutiche e professionali
delle quali nel frattempo egli abbia ravvisato la congruità con i propri
bisogni.
E’ quindi, questo, un diritto delicato e complesso
che implica almeno tre ordini di diversi problemi:
1. la scelta del “tipo di approccio” con il quale affrontare la domanda
del cliente;
2. la scelta del singolo professionista, o dell’equipe di singoli
professionisti, ai quali affidare la gestione del caso;
3. la responsabilità dei fornitori di servizi (siano essi singoli
professionisti, organizzazioni sanitarie pubbliche o private, équipes
di lavoro preesistenti o costituitesi “ad hoc”) rispetto al paziente,
rispetto alle cosiddette “obbligazioni positive” a cui questo diritto
rimanda..
Gran parte delle questioni etiche e deontologiche riguardanti l’attività
dello Psicologo in ambito sanitario si trovano di fatto allocate nel
“vasto capitolo delle psicoterapie”.
Tali questioni vengono affrontate dal Codice Deontologico vigente in
quasi tutti i suoi “Capi” (eccezion fatta, probabilmente, solo per l’ultimo,
il Capo V relativo alle sue “Norme di attuazione”), ma in particolare
assumono un’evidenza estremamente chiara
negli artt. 22, 23, 25, 26, 28 e 30
(tutti ricompresi nel “Capo II – Rapporti con l’utenza e la committenza”)
Art. 22 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo adotta condotte non lesive per le persone di cui si
occupa professionalmente, e non utilizza il proprio ruolo ed i propri
strumenti professionali per assicurare a sé o ad altri indebiti
vantaggi.
Art. 23 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo pattuisce nella fase iniziale del rapporto quanto attiene
al compenso professionale.
In ambito clinico tale compenso non può essere condizionato
all’esito o ai risultati dell’intervento professionale; in tutti gli ambiti
lo psicologo è tenuto al rispetto delle tariffe ordinistiche, minime e
massime.
Art. 25 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo non usa impropriamente gli strumenti di diagnosi e di
valutazione di cui dispone.
Nel caso di interventi commissionati da terzi, informa i soggetti
circa la natura del suo intervento professionale, e non utilizza, se
non nei limiti del mandato ricevuto, le notizie apprese che possano
recare ad essi pregiudizio.
Nella comunicazione dei risultati dei propri interventi diagnostici e
valutativi, lo psicologo è tenuto a regolare tale comunicazione anche
in relazione alla tutela psicologica dei soggetti.
Art. 26 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo si astiene dall’intraprendere o dal proseguire qualsiasi
attività professionale ove propri problemi o conflitti personali,
interferendo con l’efficacia delle sue prestazioni, le rendano
inadeguate o dannose alle persone cui sono rivolte.
Lo psicologo evita, inoltre, di assumere ruoli professionali e di
compiere interventi nei confronti dell’utenza, anche su richiesta
dell’Autorità Giudiziaria, qualora la natura di precedenti rapporti
possa comprometterne la credibilità e l’efficacia.
Art. 28 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Lo psicologo evita commistioni tra il ruolo professionale e vita privata che
possano interferire con l’attività professionale o comunque arrecare
nocumento all’immagine sociale della professione.
Costituisce grave violazione deontologica effettuare interventi diagnostici,
di sostegno psicologico o di psicoterapia rivolti a persone con le quali ha
intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in
particolare di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale. Parimenti
costituisce grave violazione deontologica instaurare le suddette relazioni
nel corso del rapporto professionale.
Allo psicologo è vietata qualsiasi attività che, in ragione del rapporto
professionale, possa produrre per lui indebiti vantaggi diretti o indiretti di
carattere patrimoniale o non patrimoniale,
ad esclusione del compenso pattuito.
Lo psicologo non sfrutta la posizione professionale
che assume nei confronti di colleghi in supervisione e
di tirocinanti, per fini estranei al rapporto professionale.
Art. 30 Codice Deontologico degli Psicologi
italiani
Nell’esercizio della sua professione allo psicologo è vietata
qualsiasi forma di compenso che non costituisca il corrispettivo di
prestazioni professionali.
Uno dei nodi principali tra etica e psicoterapia riguarda sicuramente
lo “sfruttamento del paziente”
Esso si verifica ogni qual volta che lo psicoterapeuta
approfitta della propria peculiare posizione
per trarne un beneficio non previsto dal contratto terapeutico.
Sia che provochi o non provochi un danno al paziente, esso
rappresenta sempre una rottura dell'alleanza terapeutica
ed è quindi assolutamente contrario all' “ethos medico”.
Tra i vari tipi di sfruttamento del paziente che lo
Psicoterapeuta può mettere in atto, possiamo
distinguere:
lo “SFRUTTAMENTO SESSUALE” ;
lo “SFRUTTAMENTO EMOZIONALE” ;
lo “SFRUTTAMENTO ECONOMICO” .
Sfruttamento sessuale
2 differenti tipi di valutazione
1) Valutazione “pragmatica”:
Il sesso esplicito
tra psicoterapeuta e paziente
dovrebbe essere vietato in quanto
potrebbe danneggiare il paziente
(Strasburger LH et al., 1992).
2) Valutazione “etica”:
Sempre e comunque
il sesso esplicito
tra psicoterapeuta e paziente
dovrebbe essere vietato,
perché contrario
all‘ “ethos” medico
(Schulz-Ross RA et al., 1992).
Gutheil ha proposto 4 ragioni per condannare “eticamente” (e
non solo “pragmaticamente”) il rapporto sessuale tra
psicoterapeuta e paziente:
 infrange la relazione fiduciaria tra i due;
 si sviluppa in una situazione di potere fortemente
asimmetrica;
 non tiene conto della vulnerabilità psicologica del
paziente;
 vi è un'eccessiva rilevanza di fenomeni intrinseci al
processo terapeutico (Gutheil TG, 1994).
Sfruttamento EMOZIONALE
Si verifica tutte le volte che uno psicoterapeuta
utilizza il proprio
paziente per ricavarne un illecito tornaconto emotivo.
Non è però facile dire quali situazioni costituiscano un reale sfruttamento
emozionale e quali facciano parte del piacere che lecitamente un
terapeuta deve trarre dal lavoro svolto positivamente
con il proprio paziente.
Esempio:
Il terapeuta indirizza il paziente affinché soddisfi,
nella propria vita reale, i desideri che egli ripone verso di lui ….
Sfruttamento ECONOMICO
Il paziente può essere sfruttato economicamente o a causa
di tariffe troppo elevate o per il prolungarsi inutile della cura.
Si tratta di una preoccupazione etica abbastanza recente:
è possibile che si sia sviluppata anche per effetto di una “pressione
da parte di terzi”. Essa è stata infatti particolarmente evidenziata
dalle assicurazioni private americane. Non va comunque minimizzata.
GraZIe per l’attenZIone
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Deontologia in psicologia clinica e psicoterapia:aspetti operativi nei