I bambini e la guerra:
le testimonianze dei
nonni
ENTRA
Fine presentazione
Due testimoni oculari del
bombardamento del 25
gennaio 1944 ad Amelia
La signora Fermina Fabrizi
La signora Maria Ricciarelli
Testimonianza della signora Fermina Fabrizi
Nel 1944 avevo 10 anni e mezzo e frequentavo la quarta elementare. Non venivo a scuola ad Amelia, perché abitavo in
campagna, a Montenero e frequentavo la scuola di Camerata. Però quell’ anno, non ricordo perché, avevo scuola un giorno
la mattina ed un giorno il pomeriggio. Mamma, per non tenermi in mezzo alla strada, mi portava dalle Maestre Pie.
Mi diceva:-Intanto impari a tenere l’ago e poi non stai in mezzo ai pericoli della guerra. A mezzogiorno mi venivano a
riprendere, perché io alle due e mezza dovevo andare a scuola. La mattina del 25 gennaio mi sono alzata e mamma mi ha
detto di prepararmi, perché sarebbe arrivato papà, che mi avrebbe accompagnato ad Amelia. Papà lavorava a Neramontoro e
quando faceva la notte usciva dal lavoro alle sei e arrivava in bicicletta a Montenero alle otto. Ma quella mattina non avevo
assolutamente voglia di venire ad Amelia. Ricordo che mamma mi rimproverò dicendomi che sarei rimasta in mezzo alla
strada…senonché arrivò papà e ci mettemmo a tavola per fare colazione. Mangiavamo le fave, i fagioli, le patate lesse, la
pizza sotto al fuoco. D’improvviso abbiamo sentito tremare tanto i vetri ed un gran botto. Papà dalla finestra vide una gran
colonna di fumo e disse :-Oh Dio, che è successo ad Amelia? Avevamo sentito gli aeroplani, ma era da tanto tempo che li
sentivamo e non era successo mai niente. Papà si è infilato la giacca, ha preso la bicicletta ed è venuto ad Amelia. Quando è
tornato a casa non ci ha detto subito cosa fosse successo: in silenzio mi ha abbracciato e ha detto a mamma:-E’ andata bene!
Mamma allora gli ha chiesto:-Perché, che è successo? Lui rispose:-Hanno bombardato le Maestre Pie. Mio padre poi tornò
ad Amelia e trovò mio zio Ulisse che piangeva, così lo aiutò a scavare per cercare sotto le macerie la sua bambina. La prima
cosa che papà trovò fu la cartella, poi il cappottino. Venne il buio e dovettero interrompere gli scavi. La mattina dopo
tirarono fuori le ragazze morte, le suore, il calzolaio e tutte le vittime. Noi stavamo a casa e vedevamo arrivare in campagna
le persone in continuazione, a piedi, in bicicletta, con i carretti, l’asino, per cercare rifugio dai parenti. Anche le suore che
erano sopravvissute erano andate via da Amelia; erano morte quelle che stavano nelle camerate di sopra,che erano anziane o
malate. Ancora ho quello spettacolo davanti agli occhi…fu bombardata anche la zona di Nocicchia, dove morirono delle
persone.
L’ anno dopo tornai a scuola a Sant’Agostino, perché ancora stavano sistemando l’ edificio bombardato, poi abbiamo
frequentato la scuola a via della Piaggiola. Solo parecchio dopo, nel 1958, è stato inaugurato il nuovo edificio delle Maestre
Pie.
Durante la guerra non posso dire di aver sofferto la fame, perché noi vivevamo in campagna ed avevamo un pezzo di terra nel
quale mamma coltivava fave, fagioli, patate e dal quale ricavavamo un po’ d’olio…inoltre i genitori di papà avevano un bel
terreno fertile e tutto ciò che ci mancava ce lo davano loro. Ricordo che alla fine della guerra mi potei comperare un paio di
scarpe nuove e me le portò Carletto il corriere da Roma. Durante la guerra portavo stivaletti con la punta ed il tacco rinforzati
col ferro per non farli consumare e con la suola di cuoio. Gli altri bambini portavano gli zoccoli di legno di pino, con la parte
superiore fatta di tessuto, spesso preso dai sacchi dei tedeschi. Tutto sommato, ero una delle più fortunate!
Testimonianza registrata fedelmente trascritta
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Testimonianza della signora Maria Ricciarelli
Tutte le guerre portano la povertà, la distruzione e la morte. Voi vedete in televisione qualche episodio della guerra, ma non
potete avere un’idea precisa di cosa fosse nella realtà. La guerra la devono raccontare quelli che l’hanno vissuta e possono
dare delle testimonianze attendibili…
Eravamo veramente poveri…mia madre mi raccontava (io non lo ricordavo) che verso i tre anni le chiedevo da mangiare e lei
non aveva niente da darmi. Questo non perché fossimo poverissimi: i miei genitori lavoravano tutti e due e quindi avevano
un po’ di denaro. Non si trovavano proprio i generi alimentari. Noi avevamo una tessera, che veniva assegnata ad ogni
famiglia in base al numero delle persone. Quando andavamo al negozio dei generi alimentari e per esempio prendevamo un
chilo di pane, ci staccavano un bollino. Comperavamo pane, olio, le cose più importanti e non ci potevamo permettere delle
cucine elaborate. Quando erano finiti questi bollini bisognava aspettare la distribuzione delle nuove tessere: era tutto
razionato. Eravamo veramente poveri.
Io avevo un solo cappottino, che ancora ricordo: blu con il colletto rosso di velluto. Me lo aveva cucito mamma, che faceva
la sarta. Possedevo poi un solo paio di scarpe, che mi aveva fatto un calzolaio di Amelia, ricavandole da una borsa di pelle di
mia madre. Alcuni facevano i vestiti anche con la tela del paracadute.
La guerra ha portato povertà alla mia famiglia anche per le distruzioni operate. La città di Terni per esempio ha subito più di
cento bombardamenti ed è stata letteralmente rasa al suolo. Tutto ciò che voi vedete a Terni pensate che è stato ricostruito
completamente dopo la fine della guerra. Mio padre aveva tre appartamenti a Terni, di cui prima della guerra percepiva gli
affitti…sono stati completamente distrutti ed in uno di questi ha perso la vita un’intera famiglia. Uno stava vicino alla Chiesa
di San Francesco ed un altro a lato di Corso Tacito, dove ora c’è il mercato coperto. Mio padre era molto avanti con gli anni
ed aveva smesso di lavorare, ma naturalmente dopo ha dovuto ricominciare, perché avevamo perso tutto. Quindi la guerra è
stata miseria, povertà, distruzione e morte.
Gli unici che stavano bene dal punto di vista alimentare erano i contadini o anche chi aveva l’orto “di guerra”con il grano, le
patate…poteva sfamarsi.
Nel 1944 avevo sei anni e ricordo molto bene il bombardamento della scuola del 25 gennaio, nonostante la giovane età. Mi
rivedo davanti quelle scene come se stessero accadendo in questo momento, tanto grande è stato lo spavento. Frequentavo la
prima elementare e la mia insegnante era una suora. Noi andavamo a scuola regolarmente, perché i nostri genitori ad Amelia
erano abbastanza tranquilli, in quanto non c’era nulla di tanto importante da poter essere bombardato. C’erano stati dei
mitragliamenti: gli aerei anglo americani volavano a bassa quota e se vedevano un mezzo di trasporto tedesco cercavano di
colpirlo. In realtà gli alleati volevano distruggere tutte le vie di comunicazione che potevano essere utilizzate dai tedeschi per
il trasporto delle armi verso il fronte meridionale e così cercarono di colpire il ponte di Amelia. Era una giornata assolata ed
eravamo tutte intente a lavorare sui banchi; all’improvviso si sente la sirena che avvertiva dell’avvicinarsi di una formazione
aerea. Noi non ci spaventammo, perché non c’erano mai stati dei bombardamenti.
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Le suore però ci hanno detto:-Ragazze, usciamo fuori, ci mettiamo in fila e andiamo nella legnaia.
Era una specie di cantina dove il legnaiolo spaccava la legna per la stufa. Eravamo piccole ed abbiamo tutte ubbidito
mettendoci in fila. Le grandi non hanno però dato ascolto alla maestra ed essendosi spaventate molto sono scappate nell’atrio
della scuola, trovandovi la morte. La bomba infatti è proprio caduta nell’atrio e lì vicino c’era l’ufficio della Direttrice Jole
Orsini, che è morta. Appena uscite dall’aula noi non ci siamo potute più muovere, perché ci siamo trovate davanti ad un
fumo nero che ci impediva la visuale e ci chiudeva la gola con un polverone che ci faceva tossire. Sono accadute delle scene
di panico ed alcune bambine piangevano, mentre le suore le consolavano; siamo rimaste lì per un bel po’. Nel frattempo ad
Amelia si era sparsa la notizia dell’accaduto e tutti i genitori sono accorsi per poter soccorrere le loro figlie. Il Vescovo
Monsignor Lojali e Don Danilo, allora seminarista, accorsero ad aiutare…anche dei soldati tedeschi aiutarono a scavare. Ai
soccorritori si presentò uno spettacolo terrificante: una gran montagna di macerie. Non sapevano che sotto il soffitto delle
aule era rimasto quasi intatto! Hanno scavato con le mani e con qualsiasi mezzo a loro disposizione. Così venne aperto un
pertugio, dal quale un po’ alla volta siamo uscite fuori. Tutti si sono affollati vicino all’apertura. Portavamo un grembiulino
bianco che era diventato nero; in compenso i nostri capelli erano tutti bianchi. Mia cugina era stata ferita alla fronte e ad una
gamba; nel frattempo mia madre ci ha visto e ci ha ricondotte a casa, tra mille difficoltà. Io abitavo a fianco della Chiesa di
Sant’ Agostino e per Santa Monica si era creata una voragine: quasi tutta la strada era sprofondata. Quando siamo andate in
ospedale per far medicare mia cugina ci hanno dovuto mandar via, perché dovevano far fronte ad emergenze ben più
gravi…quella ferita ricordo che si rimarginò dopo moltissimo tempo: forse si era infettata con la polvere o con chissà quale
componente chimico.
Mio padre, che lavorava fuori porta, è corso a casa e non ci ha trovate, perché eravamo in ospedale ed ha creduto che fosse
successo il peggio…poi finalmente abbiamo ricomposto tutta la famiglia. Da quel momento tutti sono scappati!
Papà partì ed andò a Macchie a chiedere ospitalità ad una famiglia, quindi caricammo un letto e qualche pentola su un carro
trainato dai buoi e andammo “sfollati”. Questo viaggio fu abbastanza movimentato: sul ponte di Amelia arrivarono
nuovamente degli apparecchi e ci siamo fermati tutti a pregare davanti alla Madonnina detta “La Mestaiola”, che si trova
ancora alla fine del ponte, sul bivio per Macchie. C’erano anche le monache di San Magno che andavano profughe in
campagna. Abitavamo in sei in un unico stanzone: mia madre, mio padre, mio nonno, mia zia, mia cugina ed io, in una
soffitta nella quale dormivamo e cucinavamo. Rimanemmo “sfollati” per sei mesi, nei quali ricordo di aver mangiato una
pasta nera, tanto cattiva. Ad un certo punto mia madre non aveva più il sale ed i cibi erano proprio immangiabili; così si recò
da una famiglia che si procurava non so come questo alimento così prezioso e lo comperò. I miei genitori continuarono a
lavorare anche da “sfollati”: mamma faceva la sarta e papà il muratore. Quando siamo tornati, dopo sei mesi, ci siamo recati
in Comune per recuperare il cappottino e la cartella che erano stati ritrovati sotto le macerie: per noi erano proprio oggetti di
valore!
Testimonianza registrata fedelmente trascritta
Intervista alla signora Emma Cerasi
25 gennaio 1944: bombardamento di Amelia
Ricordo particolarmente quel giorno non solamente per il bombardamento, ma anche per uno dei più piccoli
ortaggi, che usiamo quasi tutti i giorni per preparare gustosi cibi: “La cipolla”.
In
quei giorni nel pomeriggio frequentavo la terza classe della Scuola Media Inferiore, in un locale del
Collegio Boccarini. Don Vecchietti, che ricordo con tanto affetto, era il mio insegnante di lettere e per
compito ci aveva dato da svolgere un tema sulla “cipolla”.
Io scrivevo abbastanza bene e con facilità, ma la “cipolla” non mi diceva niente, forse perché non mi
piaceva. Andavo su e giù per la stanza pensando che cosa avrei potuto scrivere, ma nessuna idea mi veniva
in testa; anzi, come si usa dire, “non sapevo dove sbattere la testa”. Intanto pregavo il Signore affinché mi
avesse fatto capitare qualcosa per non andare a scuola. In quel momento non sapevo che le mie speranze,
per qualcosa di tremendo, si sarebbero realizzate.
Erano le ore dieci, quando sentii il rumore dei caccia B29 (vecchi aerei da bombardamento) che stavano
sorvolando Amelia, a quota molto bassa. Cominciai ad aver paura, ma essendo molto curiosa non corsi a
mettermi al riparo, ma andai sulla piazza, fuori dalla porta di Amelia e non dimenticherò mai lo spettacolo
che si presentò ai miei occhi. Sganciate da enormi aerei, scendevano grosse bombe, simili a gigantesche
caramelle. Poi sentii esplosioni terribili: lo spostamento d’aria mi gettò a terra. La gente era come
impazzita, fuggiva da tutte le parti.
Dopo un po’ giunse trafelato mio padre, che mi raccolse e insieme a mio fratello mi mandò nella località
chiamata “Orgamazza”. Ero confusa e spaventata e quel giorno, piena di rabbia, cominciai a capire che
cosa fosse veramente la guerra e cominciai a pormi tante domande sul comportamento degli uomini.
Domande alle quali non so ancora rispondere.
Mio padre, avendo visto colpire la scuola Elementare delle Maestre Pie Venerini, si precipitò lassù, perché
l’altro mio fratello e la mia matrigna erano lì. Era malato di cuore e faceva la strada con molta fatica.
Quando a metà strada se li vide davanti, si mise a piangere come un bambino, perché temeva di averli persi.
Dopo aver saputo che in quella scuola erano morte tante bambine, non riusciva a riprendersi. Considerava la
guerra una cosa assurda e incomprensibile e non sapeva darsi pace per ciò che stava accadendo. Forse
sentiva che la sua morte era vicina. Infatti morì il 3 marzo dello stesso anno, dopo essere stato investito da
un camion tedesco.
Ora saprei cosa scrivere sulla “cipolla” e quando la uso non posso fare a meno di ricordare quel tremendo 25
gennaio del 1944.
Testimonianza raccolta dall’alunno Samuele Cardarelli
E’ venuto a visitarci a scuola un sopravvissuto ad Auschwitz.
Ci ha raccontato che nel 1938 i fascisti emisero la legge che gli ebrei non potevano andare a scuola ed il suo papà perse
il lavoro, anche se era un professionista.
Un giorno un ragazzo seguì sua sorella per le vie di Roma e le fece un po’di domande,ma lei non gli rispose. Tuttavia
quando stava tornando a casa quel ragazzo la seguì di nascosto.
Il 7 aprile 1944,cioè il giorno della Pasqua ebraica, quella persona vendette la sua famiglia per 5.000£ e vennero le S.S.
nella casa dove si nascondevano, mentre stavano pregando.
La famiglia di Piero Terracina, che allora aveva 15 anni, venne deportata con un treno che conduceva ad Auschwitz,
dove non si bevve né si mangiò per sette giorni.
Da Roma sono stati presi 1023 ebrei e ne sopravvissero solo 16.
Il campo si trovava in una zona paludosa e quando pioveva i prigionieri dovevano scavare dei solchi per far sì che
l’acqua andasse via.
Lì si facevano lavori come spostare pezzi di aerei,lavorare nel fango e nelle fornaci.
Quei lavori erano davvero oppressivi e per evitarli Terracina si nascose, con il rischio di essere scoperto e ucciso, per
essere poi bruciato nei forni crematori.
Quando seppe che suo zio doveva essere ucciso nelle camere a gas Terracina scoppiò a piangere e quella fu l’ultima
volta che pianse.
Mentre era nel campo di concentramento si sentiva disperato e pensava solo che lui sarebbe morto, ma in quel posto,
nonostante la sofferenza, ha saputo apprendere valori come l’amicizia.
Una volta liberato dai russi nel 1945 venne a sapere dai suoi amici che dei suoi familiari era rimasto solo lui.
Girò per molti ospedali russi conoscendo altri amici,tra cui un’ infermiera che lo aiutò.
Per me quest’uomo ha saputo affrontare tutto ciò con molta forza,anche quando appena arrivati ad Auschwitz la
madre gli disse che non si sarebbero visti mai più.
Non è giusto che degli uomini si accaniscano contro altri privandoli della loro vita e della loro dignità, solo per
disprezzo della loro razza.
Quando è scoppiata la seconda guerra mondiale io avevo sei anni, abitavo in campagna a Santa
Maria.
A scuola andavo dalle suore di Santa Maria. Mi ricordo quando faceva freddo e pioveva: avevo le
scarpe tutte rotte, dato che mio padre non poteva ricomprarle.
Quando con i miei fratelli tornavamo da scuola dovevamo aiutare i nostri genitori nei lavori dei campi
e con gli animali.
Il momento del pranzo e della cena era sempre bello,anche se mangiavamo solo patate, legumi,
polenta, minestra e la domenica pasta fatta in casa e carne.
Una mattina arrivarono nel nostro casale i tedeschi, che si impadronirono della nostra casa; ci
prendevano tutte le cose da mangiare: olio, vino, cipolle, farina, patate, pecore e maiali .
Ho assistito ai bombardamenti, che mi terrorizzavano.
Un giorno ce ne fu uno a 150 metri dalla nostra casa. Un altro giorno, mentre stavo nei campi, ho
visto le truppe americane avanzare, mi sono nascosto dietro un albero, ma un soldato mi vide e si
avvicinò, mi prese in braccio , mi abbracciò e mi mise il suo elmetto.
Da quel giorno le cose iniziarono ad andare meglio.
Testimonianza raccolta dall’alunno Giulio Persichetti
Facevo la quarta elementare dalle maestre Pie Venerini.
Il giorno 25 gennaio 1944, mentre ero a lezione, sentimmo gli aerei e suonò la sirena.
Ci fecero uscire per andare nel rifugio, ma non facemmo in tempo, perché caddero le bombe che
distrussero l'edificio e la chiesa di Santa Lucia.
Sul soffitto si era aperto un buco, da lì iniziarono a scavare per tirarci fuori.
Io fui la seconda.
Mi tirò fuori il signor Federici Domenico.
Avevo il grembiule pieno di sangue, perché avevo un taglio sulla testa.
Passai sulle macerie e forse sul corpo di qualche mia compagna, ma il ricordo è molto confuso.
Andai a casa da sola e mamma mi portò all'ospedale.
Gli aerei continuavano a girare, quindi fuggimmo di nuovo e restammo "sfollati" in campagna
per sei mesi.
Ricordo anche che mia sorella Rosa Anna faceva la quinta elementare ed era con un'amica,
Consilia, sulla porta della scuola e le gridava di uscire. Consilia si mise a contare gli aerei, rimase
sotto il bombardamento, mentre lei si salvò, perché entrò nel portone di una casa vicino alla
scuola.
Testimonianza raccolta dall’alunna Quintavalle Marta
Il marito della signora Erina, bisnonna dell’alunno Giovannini Devis, si chiamava Nicola ed è stato soldato nella seconda
guerra mondiale.
Quando erano fidanzati, lui è stato richiamato per la guerra.
Dopo un periodo trascorso sotto le armi in Italia si sono sposati, perché aveva saputo che sarebbe andato in Africa.
Infatti è partito per Napoli per imbarcarsi per l’Africa.
La signora dopo un mese ha scritto al marito di essere incinta, ma questa è stata l’ultima lettera che lui ha potuto ricevere.
Per sei anni la bisnonna ha cresciuto il figlio da sola, senza sapere se il marito era ancora vivo; anzi nel paese, all’insaputa
della bisnonna, si vociferava che lui era morto.
Il bisnonno nel frattempo fu prigioniero dai Francesi a Tobuk (Africa).
Alla fine della guerra la bisnonna ha ricevuto una lettera dalla Croce Rossa Italiana che le comunicava che suo marito era
vivo, ma ancora prigioniero.
Dopo un po’ è tornato dalla guerra; il figlio, che aveva sei anni, non conosceva il padre: per un po’ di tempo lo chiamava
“signore”.
Lui raccontò delle sofferenze che aveva subito, ma nel periodo della prigionia era stato bene, perché essendo un falegname si
adoperava a fare dei lavori nelle case dei colonnelli e quindi poteva mangiare da loro.
Durante la guerra si era anche ammalato, infatti aveva delle piaghe tropicali che lo facevano soffrire.
La bisnonna racconta che il primo bombardamento a Terni fu spaventoso, da Capitone si poteva vedere e sentire benissimo.
All’inizio si sentiva l’allarme e tutti correvano nei boschi per rifugiarsi lì.
Tra i tanti bombardamenti uno per la nostra famiglia fu il più grave.
Infatti il suocero di Erina andò una mattina ad Amelia per recarsi dal calzolaio.
Ma il destino fu inesorabile, perché in quel preciso momento Amelia fu bombardata e rimase ucciso, lo trovarono dopo otto
giorni in una cisterna insieme al calzolaio e a suo figlio.
Loro si trovavano vicino alla scuola delle “Maestre Pie”, dove tante bambine persero la vita.
Un altro episodio drammatico che la bisnonna ricorda, è quando è caduto un aereo nelle campagne di Capitone e tutto il
paese andò a vedere ciò che era successo.
Infatti trovarono il pilota inglese ancora vivo e lo portarono al comando di Amelia, ma gli altri suoi compagni rimasero
uccisi.
Testimonianza raccolta dall’alunno Giovannini Devis
Durante la 2° guerra mondiale, per un periodo fui distaccato presso il comando della Marina
Militare di Napoli.
Un giorno su di una jeep percorrevo una delle vie principali del centro della città, quando gli
aerei Americani cominciarono il bombardamento.
Una bomba colpì un camion carico di munizioni che stava entrando in un tunnel.
L’esplosione fu incredibile e in un attimo la distruzione e la morte furono intorno a me.
Scesi dalla jeep per prestare aiuto ai numerosi feriti. Raccolsi quattro persone ferite
gravemente,tra di loro un ragazzo che nell’esplosione aveva perso una gamba.
Appena mi resi conto di questo corsi nuovamente nel tunnel come per istinto a cercare l’arto
amputato.
Lo trovai e lo adagiai sulla jeep diretta in ospedale .
Dentro di me pensai che forse i medici avrebbero potuto riattaccare la gamba al povero ragazzo.
Non ho più saputo per il resto della mia vita cosa successe poi al ragazzo, ma poiché non sono
mai stato un uomo particolarmente coraggioso ho scoperto allora che in situazioni straordinarie
una persona può scoprire in se stessa doti sconosciute.
Di: Vezio Padovano
Raccontato da: Antonello Padovano
Scritto dall’alunna: Alexandra Padovano
Quando è scoppiata la guerra il nonno aveva dodici anni.
Abitava a Greccio e lavorava in una fattoria. Anche lì c’erano i tedeschi, si cucinavano il riso con
lo zucchero.
Quando i tedeschi e gli americani si scontravano con gli aerei i bossoli gli cadevano vicino.
Un giorno mentre nonno pascolava una cavalla , dei bossoli sono caduti lì vicino e la cavalla
dallo spavento, per scappare, ha perfino spezzato la corda che la teneva legata.
Una volta vicino alla fattoria dove lavorava nonno un camion tedesco pieno di munizioni fu
mitragliato da un aereo americano, prese fuoco per due giorni ; ogni tanto si sentivano le
munizioni scoppiare.
Nonno aveva dodici anni e doveva solo pensare a lavorare, senza giocare e divertirsi.
Testimonianza raccolta dagli alunni Tommaso e Lorenzo Attili
La mia bisnonna Giulioli Delfina raccontava sempre delle esperienze vissute durante la Seconda Guerra
Mondiale. Tra le tante brutte avventure di quel periodo, ne rammentava spesso una. Raccontava che il 25
gennaio 1944 era una bellissima mattina di sole, lei aveva 13 anni e faceva le medie. Quel giorno
non era andata a scuola, sentì i rumori degli aerei e dopo poco iniziarono a scoppiare le bombe.
Lei raccontava che suo zio e sua zia abitavano a Santa Monica. Una bomba aveva colpito la casa, in
quel momento nell’edificio c’erano la zia e due cugini: una femmina e un maschio più piccolo, che stava
ancora a letto. La femmina si chiamava Antonietta e il fratello Aldo; la casa era stata colpita dalla bomba
ed era crollata, Antonietta in quel momento si trovava in un angolo e si era vista di fronte le pareti che
crollavano, sul muro di questo angolo c’ era una Madonnina.
Antonietta urlava, invece la sua mamma e Aldo erano rimasti sotto le macerie, dopo era arrivato il padre con
altri uomini e avevano tirato fuori la mamma, Aldo e Antonietta.
Aldo era stato fortunato, perché quando era crollata la casa gli si era girato il materasso ed era restato
coperto: non si era fatto niente.
Invece la mamma, di nome Tullia, era rimasta ferita e sanguinava, però, visto che gli ospedali erano tutti
pieni, l’ hanno portata da sua cognata.
Testimonianza raccolta dall’alunna Sbaraglia Arianna
Marisa Fedrighi raccontava che il pomeriggio era piovuto e aveva fatto anche un po’ di neve. La
sua mamma faceva la casalinga e si chiamava Pina, mentre suo padre era prigioniero in un
campo di concentramento in Africa. Pina aveva imparato a ricamare da ragazza e quindi faceva
dei cambi con i contadini. In quel tempo per comprare il cibo serviva la tessera, tranne che per
la verdura. Dopo il bombardamento erano andati “ sfollati” ai Cappuccini, dove i contadini
avevano messo a disposizione uno stanzino molto piccolo ed dormivano tutti nello stesso letto.
Testimonianza raccolta dall’alunna Angeluzzi Chiara
Mio nonno mi racconta che lui non ha fatto la guerra come soldato, perché era ancora troppo
giovane, ma l’ha vissuta suo padre, che era maresciallo dei carabinieri ed è stato fuori casa per tre
anni. Però mio nonno non si ricorda delle cose accadute al padre al fronte, perché al bisnonno
non piaceva raccontare le cose brutte che gli erano accadute. Nonno mi racconta che alcuni anni
prima della guerra venne ad abitare a Collicello un signore tedesco, benvoluto da tutti i paesani.
Per ringraziarli dell’ospitalità, quando i militari tedeschi mettevano le mine anti-carro per far
saltare il ponte di Collicello, lui di notte andava a togliere le micce. Un altro episodio è che
durante la guerra, quando arrivarono gli americani, di notte tre militari statunitensi per sfuggire
alla cattura si rifugiarono a casa di mio nonno, che li nascose nella stalla delle mucche. Tra
questi militari c’era un ragazzo di colore e nonno fu la prima volta che vide una persona di
colore. Questi militari, quando partirono, per ringraziarli lasciarono una coperta, la gavetta e
della cioccolata. Verso la fine della guerra un giorno la sorella di mio nonno si ammalò di una
grave crisi respiratoria, il dottore la fece portare in ospedale, ma durante il tragitto i tedeschi
fecero un posto di blocco e non li fecero passare, così mia zia morì. Da quel giorno mio nonno
incolpa i tedeschi per quello che le è successo. Mio nonno mi dice sempre che la guerra è una
bruttissima cosa.
Testimonianza raccolta dall’alunna Agabiti Debora
Nella mia famiglia la 2° guerra mondiale è stata vissuta da mio nonno e da mia nonna.
Mio nonno non c'è più, ma ha raccontato a mio padre tante vicende vissute sia sul fronte
albanese, sia in Italia, con la caduta del fascismo. Tra tutte mio padre mi racconta
questa. Un giorno tutti i soldati del plotone di mio nonno, rientrati dopo due giorni al
fronte senza viveri, tra morti e feriti, stavamo in una tenda, adibita a mensa, aspettando
del cibo. Un soldato stava tagliando del pane e le briciole cadevano per terra; mio nonno
si mise sotto il tavolo a raccoglierle, ma un capitano se ne accorse, estrasse la pistola e
voleva addirittura ucciderlo, perché aveva disubbidito uscendo dalla fila.
Testimonianza raccolta dall’alunno Giontella Lorenzo
Mia nonna invece mi ha raccontato molte cose. Lei abitava in campagna e in quel
periodo aveva circa quindici anni; la vita era molto dura, dovevano lavorare nei campi. Il
cibo era poco le scarpe erano un paio di zoccoli fatti con la gomma dei camion. Solo la
domenica, quando, e non sempre, si andava alla Santa Messa, si mettevano le scarpe e un
vestito nuovo. Poi il fascismo, la guerra, la ritirata dei tedeschi hanno fatto il resto.
Proprio in questo periodo mia nonna racconta le vicende più terribili ! Le giornate, le notti
nei rifugi creati nei boschi, la paura quando venivano i bombardieri. Un giorno avevano
bombardato il ponte sul Tevere ad Orte, invece alcune bombe erano cadute nelle
campagne vicino alla loro casa. Durante la ritirata una compagnia di tedeschi aveva
occupato la loro casa, loro avevano fatto in tempo a portare nei boschi maiali, mucche e
olio. I tedeschi arrabbiati avevano preparato nella stalla dei cappi, se li prendevano li
impiccavano. Per loro fortuna il giorno dopo i tedeschi, incalzati dagli angloamericani,
lasciarono casa e proseguirono verso il nord. A distanza di tanti anni quando mia nonna
mi racconta queste cose le viene da piangere, mi dice sempre di ringraziare e pregare Dio
per non far succedere più tutto questo.
Testimonianza raccolta dall’alunno Giontella Lorenzo
Nel tempo della seconda guerra mondiale noi avevamo una tessera per cmprare le cose
indispensabili, o nel mercato nero ( il mercato “illegale”) compravamo le cose a più prezzo.
Un giorno ero a casa vicino al lavandino, ho sentito un gran botto e con lo spostamento
d’ aria caddi a terra .
Avevano bombardato Amelia: la scuola delle Maestre Pie; lì c’era la figlia di mia sorella:
Fermina.
Mia sorella scappò a scuola, scavò in fretta e portò via Fermina dalle macerie.
E’ stato un orrendo spettacolo, che non dimenticherò mai.
Testimonianza raccolta dall’alunno Popoli Alessio
Mia nonna è nata nel 1933, quindi quando scoppiò la seconda guerra mondiale aveva più o meno
la mia età.
Ricorda che due suoi zii erano stati chiamati in guerra e la famiglia stava sempre in ansia,
perché notizie su di loro ne arrivavano poche.
La vita era molto dura, anche perché i generi alimentari scarseggiavano.
Da Amelia andarono “sfollati” in campagna, si stabilirono a Capo di Sopra, contrada
Sertari.
Al fischio dall’ allarme andavano tutti nei rifugi.
Loro avevano una grotta rischiarata solo dalla luce delle candele, dove trascorrevano la
notte, dormendo su delle balle imbottite di paglia.
Avevano molta paura quando sentivano i bombardamenti e quando scoppiavano i bengala
lanciati dagli aerei per illuminare il cielo.
Ricorda anche quando un bombardamento distrusse il ponte grande e per andare ad Amelia
erano costretti a passare a piedi per un sentiero che dallo scoglio dell’ Aquilone portava
fino a via Orvieto.
Questi ricordi sono molto tristi, ma ancora molto vivi nelle persone che hanno vissuto
quel tragico periodo.
Testimonianza raccolta dall’alunno Bernardi Umberto
Nel 1940 il papà di nonna Maria, di nome Ferruccio, è stato chiamato per andare in guerra.
Partì da Amelia per Brindisi, dove c'erano le navi ad aspettare i soldati per attraversare il mare e sbarcare in
Grecia.
Nonno era un soldato chiamato “camicia nera”, perché all'epoca l'Italia era comandata da Emanuele 3° di
Savoia e da Benito Mussolini.
Gli eserciti di combattimento erano due: uno a nome del re e uno di Mussolini.
Ferruccio raggiunse l'Albania ,la Grecia e la Serbia.
Aveva in consegna un mulo, con cui trasportava il cibo per i soldati.
Era una stagione molto brutta e piovosa, restavano spesso intrappolati nel fango delle strade campestri.
Ferruccio è stato fortunato, perché cadde da uno sgabello per prendere un fucile e fu ricoverato all'ospedale di
Lubiana.
Mentre veniva a casa con il treno su un ponte minato ebbero un incidente e, cadendo in un fiume, perse i
documenti.
Nonno Ferruccio rientrò in Italia e fu ricoverato all' ospedale di Udine; altri soldati di altre compagnie furono
fatti prigionieri e trasportati in Russia e non rimandati in Italia dal regime comunista.
Nonno fu ripreso nell'esercito e mandato a fare la guardia a un vagone di esplosivo nel porto di Civitavecchia.
Era il 1944 e l'Italia era in piena guerra per liberare il nostro paese dai Tedeschi: erano venuti in aiuto
Americani e Inglesi, che bombardarono il porto di Civitavecchia. Nonno Ferruccio si salvò un'altra volta, ma
di un suo compagno di Fornole non si seppe più nulla.
Nello stesso anno fu bombardata anche Amelia.
Testimonianza raccolta dall’alunno Poggiani Gabriele
Mio nonno ha partecipato alla seconda guerra mondiale ed è stato richiamato molto giovane, a 19
anni circa, nel 1939.
Si viveva molto male, il cibo scarseggiava ed anche l’acqua.
Si doveva stare molto attenti, perché da un momento all’altro venivano attaccati dai tedeschi.
Mio nonno è tornato a 27 anni, nel 1946.
Lui mi ha raccontato che fu preso prigioniero in Grecia dai tedeschi per quattro anni circa.
I tedeschi hanno portato tutti i prigionieri nel campo di concentramento e li tenevano in una buca
per non farli scappare, con una rete.
Davano loro da mangiare i rifiuti: bucce di patate ed altri scarti da buttare via.
Testimonianza raccolta dall’alunna Butano Alessia
Durante la Seconda Guerra Mondiale mia nonna viveva a Sambucetole; nel periodo del
bombardamento lei viveva dentro la macchia insieme agli animali, perché aveva paura delle
bombe.
Lì c’erano i tedeschi che avevano occupato tutto il territorio .
Il papà di nonna di notte partiva di nascosto per riprendere il cibo che lui aveva nascosto dietro
un muro per non farlo prendere ai tedeschi .
Ma un giorno loro entrarono nelle case e uccisero tutto il loro bestiame lo misero dentro a un
pentolone e lo mangiarono, così tutta la famiglia rimase senza cibo.
Nonna, che era piccola, aspettava che i tedeschi mangiassero e da loro si faceva dare un po’ di
cibo; mangiavano le gallette fatte con un pane sottile e duro.
Quando fecero esplodere i depositi delle munizioni tutto il paese andò nei rifugi sotto terra, così
tutti si salvarono.
Testimonianza raccolta dall’alunno Pernazza Jacopo
Durante la Seconda Guerra Mondiale si viveva male , erano momenti critici sia per il lavoro, sia
per vivere e non c’era da mangiare .
Nel tempo di guerra c’era la tessera e quando andavi al negozio staccavano i bollini e ti davano
quello che ti spettava, ma non era sufficiente per vivere .
Maggiormente si facevano lavori pesanti nei boschi, si tagliava la legna e ci si ricavava il carbone
.
Si mangiava pizza di mais e polenta, perché la farina di grano era difficile trovarla .
L’unico mezzo di trasporto a quei tempi per la famiglia di mio nonno era l’asino.
Ci si caricava la legna per portarla a vendere ad Amelia , con il ricavato si comprava il cibo.
Testimonianza raccolta dall’alunno Lorenzoni Amedeo
Il signor Vincenzo, di anni 93, mi ha raccontato più volte che durante la guerra ha sofferto la
fame e il freddo.
Per due anni è stato l’autista di un maresciallo dell’ esercito in Africa.
Si è sposato con una ragazza del posto, che è morta di parto.
Il signor Vincenzo racconta tra le lacrime che la suocera non gli ha mai fatto vedere sua figlia.
Fortunatamente il maresciallo, che lo aveva preso in simpatia, lo ha rimandato via.
La signora Adele si era sposata con un soldato, con il quale aveva avuto una bella bambina che,
purtroppo, morì sotto il bombardamento della scuola Maestre Pie Venerini.
Ogni volta che la incontro mi dice che assomiglio tanto alla sua bambina.
Il marito fu chiamato a combattere a Narni: lei lo pregò di non partire, perché aveva paura di
perdere anche lui, ma dovette andare e rimase ucciso da una bomba.
In seguito Vincenzo e Adele si sono sposati,hanno avuto due figli e una vita serena, ma non
possono dimenticare tutte le sofferenze che la guerra ha provocato loro.
Testimonianze raccolte dall’alunna Gubbiotti Elena
Mio nonno ha partecipato alla 2° Guerra Mondiale: in Albania, nel fronte greco-albanese.
Si trovava lì, perché nel ’39 l’Italia occupò l’Albania quasi senza combattere. Cercarono poi di
conquistare la Grecia; la mattina del 28 ottobre del ’40 iniziarono i combattimenti.
Nella batteria di mio nonno ci furono, quel giorno,quattro morti e cinque feriti.
Dovettero indietreggiare, lasciando sul campo morti e armi, perché i greci si difendevano con
cannoni e mitragliatrici.
Un reggimento era composto da tre battaglioni,ciascun battaglione era composto da cinque
compagnie.
Ogni soldato riceveva in dotazione un moschetto con due caricatori, una maschera antigas, una
bomba a mano; come cibo avevano in dotazione una scatoletta di carne e una galletta, potevano
mangiarle solo in casi di emergenza e su ordine dei superiori. Di solito il rancio veniva servito
due volte al giorno: pasta, spezzatino con patate, fagioli, minestroni…
Testimonianza raccolta dall’alunno Boccio Lorenzo
TESTIMONIANZA DI
GUBBIOTTI GIULIANA
Mia nonna Gubbiotti Giuliana si ricorda che al tempo di guerra aveva cinque anni e non
frequentava la scuola elementare, ma andava all’asilo.
Il giorno che hanno bombardato fortunatamente nonna si trovava con la mamma a casa, perché la
mamma andava sempre fuori, nelle campagne amerine e portava con sé sua figlia.
Mentre mia nonna e sua madre tornavano a casa sentivano dire dalla gente: “Hanno bombardato
la scuola delle Maestre Pie Venerini”. Lì sono morte la direttrice Jole Orsini ed anche parecchie
bambine e ragazze.
Testimonianza raccolta dall’alunna Paolocci Martina
Mia nonna all' epoca della guerra era una bambina di quattro o cinque anni, mentre nonno
era più grande di qualche anno; si ricordano che ad Amelia c' erano molti tedeschi.
Questi non erano tutti cattivi, perché a mia nonna portavano delle caramelle e a mio
nonno facevano fare delle passeggiate a cavallo.
Mio nonno, prima che arrivassero i tedeschi, nascose il maiale nella grotta per non
farselo portare via.
I miei nonni ricordano che nelle campagne di Amelia videro un aereo inglese abbattuto.
Durante il bombardamento della scuola di Jole Orsini morì anche la sorella della madre di
mia zia, insieme ad altre ragazze.
Testimonianza raccolta dall’alunno Pallante Jacopo
Avevo sedici anni ed abitavo a Foce.
I tedeschi avevano occupato alcune case e trasportavano le munizioni da Foce a Montecastrilli.
Nascondevano le armi lungo le strade con rami e foglie .
I soldati tedeschi erano cordiali con la popolazione di Foce; regalavano cioccolatini e scatolette di
carne ai bambini .
La zona era sottoposta a numerosi mitragliamenti da parte dei soldati anglo-americani, perché
sapevano che lì c’era un deposito di munizioni, con molti soldati tedeschi.
Il 25 gennaio 1944 fu la giornata più brutta nella zona di Amelia: alle ore 10.30 del mattino la
parte Est della città fu bombardata. Fu colpita la Chiesa di S. Elisabetta (ora S. Lucia ), la vicina
scuola femminile e parte dell’ospedale.
Restarono uccise 12 alunne, la direttrice Jole Orsini, un operaio e tre suore.
In seguito a questo bombardamento l’ospedale fu trasferito presso il monastero di Foce.
Testimonianza raccolta dall’alunno Paolocci Andrea
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I bambini e la guerra: le testimonianze dei nonni