Testimonianze dei Sopravvissuti alla strage del Vajont Testimoni: Micaela, Gino, Renzo, Vincenzo, Matelda. Gino Mazzorana Gino è stato un bambino sfortunato perché ha vissuto in prima persona la catastrofe del Vajont, in cui ha perso tutta la sua famiglia. Gino Mazzorana • • • • • • La sera del 9 ottobre 1963 abitavo a Longarone, avevo dieci anni ed ero a letto con mio fratello più piccolo di solo tre anni, quando ho sentito un rumore forte e la casa tremare tutta. Pensavo fosse il terremoto, subito dopo ho sentito un vento ancora più forte che sembrava non finire mai, poi l’acqua che arrivava da tutte le parti. Giunsero finalmente i soccorritori, ricordo le tenui luci delle pile, che, sentendo le mie grida, cominciarono a scavare con le mani liberandomi dalle macerie. Ero a circa 100 metri di distanza dalla mia abitazione, verso la parte del paese rimasta miracolosamente in piedi ed è lì che mi portarono, nell'abitazione del signor Marogna. Mi vestirono con abiti del figlio che aveva la mia stessa età e poi, accortisi che mi usciva del sangue da un orecchio, mi caricarono sulle spalle camminando sulle macerie. Durante il tragitto ricordo che vedendo quello che rimaneva di un’auto dissi -Questa è la macchina del mio papà ma lui non lo vedrò più.- Probabilmente avevo ricordato il numero della targa della sua auto. Mi portarono dal medico condotto dl paese vicino e dopo avermi visitato mi fece ricoverare presso l’ospedale di Pieve di Cadore dove rimasi non so per quanto tempo. Di quel periodo non ho ricordi, nemmeno dei medici, degli infermieri, delle medicine o delle bende. Ricordo solo le visite dei parenti e conoscenti e, soprattutto, della Principessa Titti di Savoia. Quella notte ho perso i genitori, mio fratellino ed uno zio. . Renzo Scagnet • Racconta, Renzo Scagnet, che visse questo bruttissimo momento quando aveva solo 8 anni, e non si rese neppure conto di ciò che era successo. Renzo Scagnet Quella sera maledetta io, otto anni, dormivo in camera con mia sorella di dieci anni al terzo piano della mia casa. Mia mamma, al piano di sotto, stava lavando i piatti perché mio papà aveva appena cenato dato che, lavorando nella ditta che aveva con il mio padrino – Ditta Capraro-Scagnet era appena arrivato da Piacenza con l’autotreno. Dopo aver caricato il cemento a Castellavazzo, doveva partire per Agordo. La mamma sentì un forte vento, i vetri che sbattevano, la luce sparì e la casa si aprì dallo spostamento d’aria, vide le stelle e poi arrivò l’acqua. Mentre veniva sballottata dalle onde, si fece il segno della croce dicendo -Questa è la fine del mondo!- La forza dell’acqua la portò a nord, al bivio con Castellavazzo. Con una macchina fu portata a Pieve di Cadore. Fu la prima arrivata, nessuno sapeva ancora niente di quello che era successo tanto che le chiesero se, per caso, non avesse subito percosse o fosse stata gettata in un fosso. Le diagnosticarono grave shock traumatico, ferite multiple, ematoma su tutto il viso con vaste ferite lacero- contuse al cuoio capelluto Io non mi sono accorto di nulla, per fortuna! Quando mi sono svegliato, ero un po’ intontito, ho fatto per accendere la luce e sono scivolato. Non mi rendevo conto di quello che era successo essendo al buio. Sentivo l’acqua che mi arrivava alle caviglie e tante urla di aiuto, tanto che mi misi anch'io a gridare aiuto. Mi hanno coperto con una coperta e, con la prima vettura disponibile, mi hanno portato all’ospedale di Pieve di Cadore. Mi hanno riscontrato un grave shock traumatico, contusione cranica con ematoma escoriato alla regione temporale sinistra più ferite multiple. Mia sorella, purtroppo è deceduta e l’hanno trovata a Sedico-Bribano, a 30 chilometri di distanza. Mio papà fu trovato a Fortogna. Dopo 40 giorni di ospedale siamo andati, provvisoriamente, dagli zii, a Igne, una frazione. Rimasi molto scioccato quando vidi che al posto di Longarone c’era un deserto di rottami dove lavoravano ruspe, gru, camion, soldati e, soprattutto, c’erano molti cadaveri. Dopo il grande disastro Vincenzo Teza • • • • • • • • Mi chiamo Teza Vincenzo e sono nato a Longarone il 7 novembre del 1942. Alla data del 9 ottobre 1963 la mia abitazione era in Pirago, al n° 55, dove abitavo con la mia famiglia; mio padre Giovanni di 48 anni, mia madre Corinna di 47 anni, i miei fratelli Mario (19 anni), Tullio (14 anni ) e Luigi (10 anni), la mia sorellina Maria Rosa (7 anni), oltre alla nonna Luigia di 69 anni. Ero poco più che un bambino quando mio padre ebbe un grave infarto, si salvò ma rimase invalido e io, Vincenzo, il più grande dei cinque fratelli, ebbi la responsabilità di dover aiutare la famiglia intera. Avevo 14 anni ma questo non mi impedì di prendere la valigia e andare in Germania, sino a Bayreut, per fare il lavoratore stagionale. E’ lì che all’alba del 10 ottobre del 1963 la signora delle pulizie mi svegliò di soprassalto, insieme al mio datore di lavoro, Paiola Luigino, per avvisarci che al nostro paese era successo qualcosa di molto grave. Partimmo entrambi per l’Italia con il cuore in gola facendoci coraggio l’un l’altro poiché il mio datore aveva anch'egli moglie e figli a Longarone. Arrivai a Pirago, e quello che mi si presentò davanti agli occhi fu una cosa indicibile. • L’intero paese scomparso. • Il solo il campanile della chiesa rimase in piedi e sembra tutt'oggi dire che in quella spianata piena di detriti e odore di morte, fino a poco prima c’era un paese, il mio. • Cercai come gli altri pochi sopravvissuti, tutti poveri emigranti, il luogo dove era la mia casa ma trovai solo pochi gradini e su quei gradini il passaporto pieno di fango di mio fratello Mario, rientrato da pochissimi giorni dalla Germania, la vecchia bicicletta piena di fango di un'altro mio fratello, un compito d’esame di scuola e due foto. E il fango. • In quel momento capii. • A 21 anni rimasi da solo, l’intera mia famiglia fu sterminata e con la mia famiglia anche tutti gli zii, cugini, parenti ed amici. • Ero rimasto completamente solo. Micaela Micaela era una bambina il giorno del disastro. Non ricorda nulla del periodo trascorso in ospedale, dopo la tragedia. Micaela • C'era una strana aria, in quei primi giorni di ottobre, a Longarone. Si sentivano strani discorsi. La gente bisbigliava continuamente, ma non capivamo bene di cosa, almeno noi bambini. ricordo un discorso sentito così, di sera tra mamma e papà, un discorso fatto quando noi bambini, eravamo in cinque, non eravamo presenti. Ricordo quella sera che la mamma diceva al papà: "Non sarebbe meglio mandare i bambini a Belluno?" Mi sono fermata ad origliare. Perché la mamma voleva mandarci via? Cosa avevamo fatto? La voce di papà rispose: "Cosa vuoi che importi? Se cade la diga, parte anche Belluno! Se dobbiamo morire, meglio farlo tutti assieme!!" Era un discorso troppo duro e forte, almeno per me. Incomprensibile! Guardavo la diga e pensavo: "Come può farci del male, farci morire?" Non ho ricordi dei due mesi passati all'ospedale di Pieve di Cadore. Non so assolutamente niente di quello che e' successo in quel periodo, anche perché tutto quello che riguarda le cartelle cliniche e la storia medica non solo mia, ma, presumo, di tutti i superstiti ricoverati lassù, non esiste più, dato che i documenti riguardanti il nostro ricovero e quant'altro sono spariti, distrutti! A quel tempo, l'ospedale era privato; diventando poi statale, l'incaricato dell'archivio ha ritenuto non importante per nessuno la nostra posizione medico - ospedaliera. Questo e' l'inizio del mio personale Vajont. THE END Lavoro svolto da Alessandro e Alessandro