Liceo Classico“Aristosseno”
Taranto
RUPI E DIRUPI
DI
MASSAFRA
RUPI E DIRUPI DI MASSAFRA
Introduzione
Massafra
Le Cripte
Le Gravine
La vegetazione
RUPI E DIRUPI DI MASSAFRA
INTRODUZIONE
Il progetto tende a sensibilizzare i giovani al desiderio di conoscere
le proprie radici, per riscoprire i valori del proprio territorio che per
troppo tempo sono rimasti sommersi e inspiegabilmente dimenticati.
Vivere il proprio ambiente, attraverso le sue tracce storiche,
culturali, artistiche, religiose, naturalistiche, economiche, civiche,
folcloristiche, può contribuire a capire se stessi e a gestire con una
maggiore solidarietà sociale il proprio territorio e la propria
testimonianza umana.
Diventa inoltre una fertile attività didattica di spontaneo
aggiornamento, oltre che per gli alunni, anche per i docenti coinvolti.
MASSAFRA
L’abitato
Il territorio
MASSAFRA
Massafra è una cittadina pugliese, che occupa l’area nord-occidentale
della provincia di Taranto, tra la Murge Jonica e il mare, a 110 m
d’altitudine.
Dista dal capoluogo 17 km. La cartina mette in rilievo la rete stradale
di collegamento tra Massafra e il resto del territorio.
Importanti sono la SS 7, la
via Appia dei Romani, che
delimita a sud Massafra e
collega Brindisi a Roma; la
SS 106 che costeggia il mare
Jonio fino Reggio Calabria; la
A 14 (autostrada del Sole)
che la connette a Bari e
prosegue fino a Bologna,
seguendo le linee di costa
del Mar Adriatico.
approfondimenti
Il suo è
territorio
abbastanza
vasto, circa
12.500 ettari;
degradante
verso lo Jonio
con quote di
livello massime
di 480 metri
L’abitato
Massafra
L’ABITATO
Il Ponte vecchio fu
costruito
su
progetto
dell’architetto
Sante Simone di
Conversano, che
curo’ anche la
lottizzazione del
nuovo
nucleo
cittadino, il Borgo.
Inaugurato
nel
1864 sotto il nome
di
Ponte
San
Marco,
solo
successivamente
venne dedicato a
Garibaldi,
in
occasione
del
centenario
della
nascita dell’Eroe.
Tale struttura rese
possibile
l’espansione
dell’abitato
sull’altro
ciglio
della gravina.
PONTE VECCHIO
Il ponte Vecchio
a cinque arcate
e il ponte Nuovo
a tre arcate
collegano i due
nuclei della
città
L’abitato di
Massafra è
costituito da
grotte,
vicinanze, caselamiate o a
cannizzo e
palazzi
L’abitato di Massafra si è sviluppato inizialmente in verticale, lungo le pareti delle gravine
principali, e di quelle minori, del Muro, della Serra, dei SS Medici, di S. Leonardo, di S.
Nicola ed altre.
L’unità abitativa era costituita dalle
grotte, naturali o scavate nel tufo,
formate da più vani, distribuiti su piani
diversi,
dotate
di
sistema
di
canalizzazione delle acque piovane con
vasche e cisterne, collegate da sentieri,
scalette e cunicoli.
Nell’insieme formavano dei villaggi, che
presentavano oltre alle abitazioni degli ambienti
destinati sia alle attività lavorative sia al culto
cristiano . Solo successivamente, intorno al XIV –
XV secolo, essendo esaurito lo spazio gravinale per
lo scavo di nuove abitazioni rupestri, l’abitato si
estese sull’altipiano, edificando a partire dagli spalti
”case-lamiate” o “a cannizzo” sulle grotte
sottostanti.
Si sviluppa in questo periodo una
particolare architettura ipogea, unica
in Italia, la “vicinanza”.
Come risulta dagli atti notarili del ‘700, si
otteneva con la tecnica costruttiva “in
negativo”, scavando sul pianoro un vano
scoperto, chiamato “cava” o “tufara” o
“zoccata”, di forma quadrangolare o
rettangolare, fino alla profondità di quattro o
cinque metri.
Alcune vicinanze presentavano un muro di
parapetto, che recingeva lo scavo, chiamato
“defensa”.
Secondo Padre Abatangelo, studioso locale
dell’habitat rupestre, questa particolare
architettura nasce su modello delle case di
età tardo-romana, realizzate nel V secolo in
ambienti ipogei dell’Africa settentrionale, in
particolar modo della Tunisia. Su tre facciate
della zoccata si scavavano in orizzontale da
tre a nove case- grotte, che potevano
appartenere ad un unico nucleo familiare o a
più nuclei, per cui le “corti vicinanziali”
potevano essere anche “corti convicinali”.
Sulla quarta facciata si risparmiava nella
roccia una scala di accesso.
Ricerche recenti,
testimonierebbero
l’esistenza di questo
modello costruttivo in
zona, già dal V secolo,
importato, secondo lo
studioso Roberto
Caprara, da un gruppo
di profughi africani
sfuggiti alle
persecuzioni dei
Vandali e che
avrebbero dato origine
alla città
La conferma a tale ipotesi viene dal ritrovamento della Cripta-pozzo in
contrada Carucci, tra Massafra e Crispiano, unico caso di chiesa ipogea
e non rupestre del territorio, la cui prima escavazione sembra risalire al
V-VI secolo, visto che l’unità di misura utilizzata è il piede romano di
29,64 cm, (a partire dal VI secolo si riscontra come unità di misura il
piede bizantino di 31,2 cm).
Nei secoli successivi si
continuò a scavare nuove case
grotte su “facciata di zoccata”,
cioè sulle pareti ancora vergini
di vicinanze preesistenti, ma
contemporaneamente si
edificarono case e palazzi, con
la tecnica “in positivo”, usando
conci di tufo estratti dalle cave.
Queste costruzioni sub divo si adattarono alle grande aperture delle vicinanze
scavate nel tufo, costringendo il fabbricato a contorcimenti planimetrici intorno
alla “zoccata”.
Si sviluppò in questo modo una cittadella medievale, composta da casette
bianche e palazzi signorili tra archi, viuzze, gradinate, ballatoi, dominata dal
castello, dalla chiesa Ex Madre, da santuari e conventi.
Solo verso la metà del secolo scorso la città ebbe un successivo ampliamento
espandendosi sull’altro versante della gravina di S. Marco grazie alla
realizzazione del ponte Garibaldi.
Massafra è un centro agricolo, famoso per la produzione
di olive, uva da vino, ortaggi, frutta, cereali, fichi,
mandorle e foraggi, per l’allevamento di ovini, bovini e
suini. Sono fiorenti anche le industrie olearie, enologiche,
metalmeccaniche, del mobile, dell’abbigliamento , della
birra, dei materiali da costruzione (cave di tufo) e le
attività commerciali di vario genere.
Massafra
LE CRIPTE
Cripta S. Antonio Abate
Cripta della Bona Nova
Si trova sotto la sede del vecchio
Ospedale Civile M. Pagliari (costruito
nel 1800 ), a cui si accede ora
attraverso una porticina da via
Messapia, in definitiva dai sotterranei
a volta della costruzione subdivo. In
origine il suo ingresso si apriva sulla
spalla orientale di un piccolo burrone.
Cripta
S. Antonio Abate
La cripta di forma trapezoidale, alquanto
irregolare, ha due entrate, ciò ha indotto
alcuni studiosi a ritenere che in origine vi
fossero due ambienti diversi, uno con
strutturazione liturgica per il rito latino e
l’altro per quello greco, separati e resi
comunicanti in tempi successivi per
ampliare lo spazio dell’aula.
Non tutti gli esperti sono d’accordo con
questa tesi.
La sua prima escavazione si fa risalire al secolo XI
/ XII con successivi rimaneggiamenti; la volta è
piatta, le pareti presentano archivolti e nicchie ed
affreschi che risalgono a periodi diversi e
abbracciano un arco di tempo che va dall’ XI-XII al
XVII secolo.
La cripta è stata utilizzata a partire dal secolo
scorso come deposito di calcina e in seguito come
lavanderia.
Gli affreschi si presentano offuscati da uno strato a tratti leggero e a tratti
corposo di calcare, di solfato di calcio e di miceli fungini, le immagini
diventano più nitide nelle giornate umide, perché
il vapore acqueo,
condensando lungo le pareti grottali, le bagna e le deterge, mettendone in
rilievo i particolari.
Di fronte alla entrata
principale vi è l’abside del
rito ortodosso, si pensa
separato in origine dal
naoss con dei ceri; l’altare
si presenta discosto dalla
superficie muraria, perché
il celebrante voltava le
spalle ai fedeli e le strutture
del bema fungevano da
amplificatori.
Il muro absidale presenta, appena accennato, un Cristo Pantocratore dell’XI - XII
sec., che benedice alla greca con la mano destra, nell’altra mano ha un’iscrizione
del Vangelo. Lo stile non è bizantino.
A destra del medesimo
S. Giovanni Battista,
nell’atto di benedire.
Possiamo notare che
indossa un vestito di
colore chiaro, con un
cappuccio rosso scuro
ed
un
mantello
bluastro bordato di
corda probabilmente
rossa.
Questa figura spicca
su uno sfondo bicolore,
giallo
nella
parte
inferiore e rosso in
quella superiore, dove
è possibile leggere S.
IOAN BB.
A sinistra del Pantocratore la Madonna della Deesis, su uno
sfondo ripartito in tre colori: blu, giallo e rosso, partendo dal
basso. Indossa una tunica rosa intenso con scollatura
bordata di incrostazioni di oro e pietre preziose. Il mantello è
blu scuro. Nella rappresentazione il busto è frontale, il viso di
tre quarti e le braccia sono rivolte verso il centro della nicchia
dove è rappresentato il Cristo Pantocratore.
Sotto l’arcosolio absidale sinistro è raffigurata
una Crocifissione. Il capo reclino ed i piedi
incrociati del Cristo connotano un’iconografia
latina.
I soggetti si stagliano su uno
sfondo
decorato
a
fasce
orizzontali ( dal basso: blu, ocra,
rosso, blu ), contornato da linee
blu, ocra e rosso che seguono il
profilo della nicchia, la quale,
all’esterno, è marcata da una
fascia con motivi triangolari rossi
e blu a tratto tremolante. Il Cristo
rappresentato
frontalmente
indossa una fascia ocra sui
fianchi, ha il capo reclinato sulla
spalla destra, barba a punta e
capelli lunghi. L’aureola ocra è
arricchita da un motivo a raggiera.
Gli occhi contornati da sottili
sopracciglia sono allungati ad
arco
ed
esprimono
infinita
tristezza. Nell’immagine sono
presenti due piccoli Angeli, che
raccolgono le stille di sangue che
gocciolano dalle mani inchiodate.
Si rileva una differenza qualitativa tra il volto di Cristo e quello degli altri personaggi.
Le aureole della Madonna e di S. Giovanni Evangelista sono contornate da un motivo di perlinatura.
Dietro il capo della Vergine si legge l’iscrizione dipinta M. T.
I due dolenti sono rappresentati di tre quarti con le braccia aperte e vesti scure.
Sulla parete destra dell’ingresso attuale vi è appena leggibile la
raffigurazione di S. Caterina di Alessandria. Si individuano la
testa con corona e aureola ocra bordata di rosso e il corpo
rivestito di un manto rosso.
con decorazioni vegetali Di fronte all’ingresso attuale vi è l’altare in stile latino, su cui si può
osservare l’affresco dedicato a S. Antonio Abate, incorniciato in un quadro con cornice dorata e
abbellito con decorazioni vegetali a sfondo verde smeraldo, tipicamente barocco.
Si pensa sia stato realizzato nel ‘700. Al Santo erano attribuite speciali doti di guaritore per l’herpes
zoster,, chiamato volgarmente “ fuoco di S. Antonio ”, malattia probabilmente molto diffusa in età
barocca. S. Antonio era considerato inoltre il protettore degli animali, che venivano condotti in questa
chiesa e benedetti ogni anno il 17 gennaio.
Nel vano a sinistra dell’ingresso attuale ,
si presentano al visitatore tre nicchie
Nella prima è raffigurato il Papa Beato
Urbano V, al centro del trittico è
rappresentato S. Giacomo da
Compostela, Il terzo è S. Antonio Abate
Beato Urbano V, seduto su un
seggio con pastorale a ricami,
vestito con una tunica ocra ed un
manto rosso cupo, mentre
benedice con la mano destra alla
greca; ha nella mano sinistra una
tavoletta quadrata su cui sono
scolpiti i volti di S.S. Pietro e
Paolo, di cui, secondo la
tradizione, avrebbe ritrovato le
teste . L’immagine reca
l’iscrizione: ORVBANUS
PA(PA) QV( INTVS)
O(RDINIS) V(ENEDICTORVM)
S. Giacomo da Compostela, nella
scritta IACOBV(S), con capelli biondi,
barba a pizzo, manto rosso scuro e
veste grigia mentre benedice, anche lui
alla greca con la mano destra.Presenta
i simboli iconografici dei pellegrini: nella
mano sinistra un lungo bastone ricurvo
all’estremità, una conchiglia, sulle
spalle una tracolla di cuoio terminante
con una borsa. S. Giacomo è infatti il
protettore dei pellegrini e la sua
immagine è ricorrente nelle chiese
rupestri collocate sulle vie di transito
dei pellegrini da e per l’Oriente.
S. Antonio Abate, vestito da
frate, rappresentato con un
bastone e delle campanelle
per scacciare il demonio.
Con la mano sinistra regge
una pergamena su cui è
scritto: A(B)STINE(N)CIA
(E)T PACIE(N)CIA VICIT
D(A)EMONES.
In una nicchia ad archivolto
sono affrescati due Santi al di
sotto di un motivo dipinto a
doppia nicchia trilobata. A
sinistra, su fondo rosso e blu, in
posizione frontale, troviamo S.
Leonardo, identificato
dall’iscrizione DUS. Possiede
una corona di perline blu, barba
lunga, veste gialla e rossa. In
mano ha le catene, simbolo di
schiavitù e prigionia.
Al suo fianco, a caratteri poco leggibili, vi è una Santa con corona rossa e perline
blu, dipinta su sfondo azzurro e giallo. Non si sa con precisione chi sia, si potrebbe
trattare di S. Caterina o S. Margherita o S. Barbara o S. Elena imperatrice.
Dell’immagine s’intravede in qualche modo il mantello rosso e la parte superiore del
viso, quindi la fronte, i capelli e la corona.
Nell’arcosolio a sud del bema un affresco rappresenta l’Annunciazione. Tutto l’insieme
compositivo è racchiuso in una nicchia ad archivolto.
I personaggi distinguibili nell’affresco
sono tre, la Madonna con una veste
rossa ed un mantello blu che regge
con la mano destra un testo sacro
aperto con resti dell’iscrizione: “Ecce
Ancilla Domini..”; l’Arcangelo Gabriele
con la veste rossa ed il mantello verde
bordato di oro, le cui ali sembrano
costrette nei confini della nicchia,
rappresentato in un piano inferiore a
Maria; la Sapienza con caratteristiche
umane, ma cerchiata di rosso per
distinguerla dalle cose terrene ed
esaltare la presenza divina. Si vede
inoltre una mano non appartenente a
nessuno dei personaggi menzionati,
che fa supporre la presenza di un
quarto personaggio non distinguibile
sul fondo.
Alla cripta si
accede dal retro
dell’ex complesso
ospedaliero,
attraverso degli
ampi vani voltati a
botte con archi di
rinforzo a sesto
acuto, oggi
abbandonati.
Ospitano oggetti di varia provenienza, quali una vasca in pietra ed una capovolta di
alluminio zincato. Il soffitto in tufo presenta delle prese d’aria, realizzate per la
ventilazione del sito.
LE CRIPTE
LA CRIPTA DELLA BONA NOVA
Cripta, in stile latino, la cui escavazione pare
risalga al VII secolo, situata sul sagrato del
santuario della Madonna della Scala.
Inizialmente a tre navate, fu tagliata per costruire
la scala e mutilata per quasi il cinquanta per
cento.
Si presenta interamente affrescata e in buono stato di
conservazione. Sulla parete antistante l’ingresso si staglia
l’affresco della “Bona Nova”, risalente al XIV secolo, che
mostra l’influenza giottiana della scuola tosco-umbra,
infatti si differenzia dall’icona presente nel santuario per il
movimento e la fluidità delle vesti, l’espressione dolce del
volto, soprattutto della Madonna, e la posizione del
Bambino, che è tenuto col braccio destro. L’immagine
rappresenta come quella del santuario, la Madonna della
Guida.
Sul piano di calpestio è collocata una piccola mensola in
pietra che funge da altare.
In basso, sotto la pavimentazione, è stata trovata una
tomba i cui resti sono stati esposti in una bara di vetro e
successivamente trasportati al cimitero. In questa valle tra
l’altro venivano effettuate le impiccagioni dei condannati
a morte, per questo era anche chiamata “Valle delle
forche”.
Interessante e ben conservato è il trittico
dei S.S. Lucia, Vito e Caterina
d’Alessandria, sempre del XIV secolo,
dai colori accesi, molto decorato
S. Lucia è rappresentata con un
vassoio dorato contenente i suoi occhi;
S, Vito con una croce nella mano
destra e due cani ai piedi; S. Caterina
recante sul capo una corona regale, al
collo una collana di pietre preziose e la
ruota del martirio nella mano sinistra.
I volti dei tre santi sono frontali, a
testimonianza di una iconografia non
più bizantina, ma locale. Evidenziati i
piedi calzanti scarpe a punta, grazie
al movimento delle mani libere che
tengono leggermente sollevate le
vesti.
Altri affreschi interessanti, ma
non altrettanto ben conservati,
sono il Cristo Pantocratore tra
la Madonna e S. Giovanni
Battista, S. Matteo, S, Giorgio a
cavallo e un Vescovo, forse S.
Cataldo.
LE CRIPTE
LE GRAVINE
La città di Massafra e il suo territorio sono inserite in un suggestivo ambiente naturale
costituito da “lame e gravine”. Le prime sono formazioni calcaree bianche cristalline, le
seconde arenarie calcaree con brecce compatte, bianche o giallo – rossastre. La loro
formazione risale presumibilmente al “Neozoico” grazie alla circolazione sotterranea delle
acque, ricche di anidride carbonica.
Nelle gravine e nei terreni bassi o nelle grotte troviamo resti fossili marini. Con la
retrocessione del mare, il territorio emerse definitivamente nel “Quaternario”.
In genere le gravine hanno una lunghezza che va da uno a 10 chilometri, una larghezza
media da 10 a 300 metri ed una profondità massima di 50 metri.
Le pareti sono bucherellate da grotte naturali e artificiali, molte delle quali usate dall’uomo
che le ha anche modellate in rapporto alle proprie esigenze esistenziali, abitative,
economiche, culturali.
Infatti specie nelle zone dove gli agglomerati umani erano presenti, esistono strutturazioni
ed impianti urbani con reti pluviali, idriche, fognanti e di percorso, scavati nella roccia con
sistemi di estrema praticità.
Le gravine sono perciò, contenitori anche delle testimonianze storiche della civiltà
dell’uomo con i segni delle abitazioni, delle chiese e delle officine scavate nel tufo, adattate
in grotte naturali, modellate appositamente e distribuite sulle varie pareti e che poi
rappresentano la prima fase di tutta l’espansione urbana della città fino ai nostri giorni.
LE GRAVINE
Gravina Madonna della Scala
Gravina San Marco
A Massafra si contano varie gravine, tra cui: Velo, S. Caterina, S. Marco,
Madonna della Scala, Monte S. Elia, Colombato, Palombaro, Portico del
Ladro, Capo di Gavito, Giulieno, Canale Lungo. Di queste le antropizzate
sono: S. Marco, Madonna della Scala e S. Caterina.
GRAVINA SAN MARCO
La gravina di San Marco è chiamata “Il
Paradiso di Massafra” per la sua bellezza
scenografica,
entro
la
quale
si
organizzano, tra sentieri tortuosi e
vegetazione spontanea, varie iniziative in
ricordo di antiche processioni con giochi
di luce, suoni e colori spettacolari.
Il paesaggio è dominato dalla presenza
del castello, intorno a cui si sviluppava
l’intero abitato nel periodo medioevale.
Deve il suo nome ad una cripta–basilica a
tre navate, incavata su di un dirupo e
dedicata a San Marco. Sono presenti altre
cripte, la Candelora, S. Marina, S. Biagio e
la casa dell’Igumeno (il capo della
comunità con poteri civili e religiosi), un
palazzo a tre piani scavato nella roccia.
È caratterizzata da un agglomerato rupestre,
abitato sin dal V-VI secolo d.C., su cui sono
sorte successivamente le case lamiate e le
case palazziate.
Terrazzamenti naturali e in
parte costruiti dall’uomo
Tempo fa fu creato un itinerario rupestre che collegava i centri grottali di particolare
interesse storico, artistico e paesaggistico. Il solco unitario prosegue rettilineo
dividendo in due parti il centro abitato, collegato da tre ponti.
LE GRAVINE
MADONNA
DELLA SCALA
GRAVINA MADONNA DELLA SCALA
INGRESSO
.
Le gravine sono un interessante e suggestivo
fenomeno geologico. Dal ritrovamento di fossili
marini, si ha la certezza che le gravine
costituivano gli scoli delle acque verso il mare,
ciò ha sollecitato studi approfonditi degli
idrologi.
LE GRAVINE
Tra le rocce calcaree
una
rigogliosa
vegetazione
spontanea costituita
da più di 600 specie
di piante. Questa
varietà di specie
rappresenta per gli
studiosi
una
importante
banca
biologica.
Nella gravina la vegetazione assume la classica
fisionomia della macchia mediterranea, con delle varianti
a secondo delle condizioni edafiche, orografiche e
microclimatiche. La specie indubbiamente più diffusa è
rappresentata dal lentisco; ad esso si affiancano, sempre
nello strato arbustivo, altre specie con pari caratteristiche
quali: il mirto, la fillirea, l’alaterno, e tra i bassi arbusti il
rosmarino e il timo.
Veduta della stratificazione
naturale delle rocce della
gravina Madonna della Scala.
La gravina della Madonna della Scala o Valle delle
Rose si estende dalla via Appia, proseguendo fino
alla provincia di Noci, costeggiando le masserie
Torelli e Sant’Angelo, terminando in prossimità
della masseria Pizziferri. L’andamento della
gravina appare più o meno rettilineo con qualche
sinuosità. E’ lunga 4 Km, profonda 40 m , larga da
30 a 40 m ed è stata originata dall’antico letto del
fiume Patemisco.
Queste immagini mettono in
rilievo il vallone della
gravina.
Agglomerato rupestre
abitato con periodi di
intermittenza dal V al
XVI
secolo,
ma
secondo alcuni studiosi
fin dal Neolitico, come
testimonierebbero lame
di selce e frammenti di
ceramica rinvenuti nella
grotta del Ciclope.
Il villaggio è costituito da grotte sistemate a più piani che attestano con le loro caratteristiche
architettoniche, le strutture e gli impianti, la presenza di una grossa comunità. Infatti in molte
spelonche si notano i segni di attività umane (mulini, forni, frantoi, abitazioni, canalizzazioni,
stradette, gradini, ecc).
Suggestive le aperture scavate nelle masse rocciose che rappresentano l’ingresso delle
abitazioni e che venivano chiuse da grosse pietre per difendersi dagli animali o da invasori.
Sono presenti tra l’altro dei cunicoli che permettevano la comunicazione interna tra una grotta
e l’altra.
In molte grotte si trovano profondi pozzi esplorabili attraverso scale, sui quali gli
archeologi hanno incentrato i loro studi e su cui hanno formulato varie ipotesi di
utilizzo: vasche terragne, pile di raccolta, pozzi in comunione tra proprietari diversi.
L’attività di questi studiosi è però intralciata dallo scarso senso civico degli uomini, che
noncuranti dell’importanza del luogo continuano a gettare rifiuti in gravina e negli
stessi pozzi.
Gli insediamenti civili sono complessi
criptologici vasti con un numero
consistente di grotte costituite da più
vani, talora distribuiti su piani diversi,
collegati da sentieri e scalette, dotate
di sistemi di canalizzazione delle
acque piovane con vasche e cisterne.
Le grotte non erano tutte uguali,
alcune erano munite di molte
entrate.
Questa in particolare è munita di un
ampio ingresso, di due corridoi, di
una scala interna e di una finestra
( sul lato destro della foto ).
Di solito si trovano locali con la tipica
alcova, suddivisa da un pilastro centrale.
L’alcova più grande era riservata al
capofamiglia, che conservava in un
pozzetto, sopra cui dormiva, le derrate
alimentari o il raccolto, che costituivano la
ricchezza della famiglia. L’alcova più
piccola era destinata alla donna e alla sua
prole.
Secondo gli studiosi una donna partoriva, al
tempo, ogni quindici mesi, per cui aveva un
bimbo nella “naca”, uno in grembo e l’altro
che le trotterellava intorno.
Non potendo andare a lavorare, la donna
badava ai figli, l’uomo si occupava del
sostentamento della famiglia con i prodotti
della terra e con la caccia.
Sulle pareti e sui soffitti delle
grotte si trovano dei fori
comunicanti, a guisa di
maniglia, da cui far pendere
la “naca” dell’ultimo nato,
per impedire l’aggressione
da parte di animali, in
assenza della madre. Fori e
maniglie servivano anche per
sospendere ripiani di legno,
su cui venivano poggiati
prodotti caseari o carni
insaccate per la stagionatura
e per la conservazione.
Alcune nicchie più
semplici
e
di
proporzioni
ridotte
servivano per deporvi
i recipienti dell’acqua,
per
collocare
i
torchietti
per
la
spremitura dell’uva o
per appoggiarvi i
contenitori dell’olio,
del miele e dei
legumi.
A sinistra dell’ingresso c’è quasi sempre il
focolare, di questo ne esistono due tipi, alcuni
con la cappa scavata nella roccia, altri a
camino.I soffitti erano piatti e con un’altezza
massima di circa 2,5 m. L’unica fonte di luce e
di areazione era la porta, ma in alcune
abitazione si sono ritrovate delle finestrelle. Sia
le porte che le finestre erano provviste di
grondaie con relative canalette, atte a
convogliare le acque piovane in appositi silos
collocati sui fianchi della porta d’ingresso.
Il primogenito ereditava dal padre una parete in cui scavare la sua casa. In questo modo l’abitazione
si ampliava e si arricchiva di strutture, tra cui diversi pilastri che dividevano i vani e così simili ai
nostri pilastri portanti.
Gli altri figli, invece, dovevano provvedere da soli a cercare altre grotte. Al figlio maggiore toccavano,
però altre ai diritti anche alcuni doveri, come quello di assistere in vecchiaia i genitori.
Nell’immagine un tipo di abitazione ereditata, a sinistra con ingresso a sistema architravato,
affiancata all’ingresso a doppio arco della casa paterna.
Particolarmente diffuso era
l’allevamento dei colombi, che
nella parte alta della “Grotta del
Ciclope” disegnano ancora
oggi voli circolari e i cui
escrementi,
curiosamente
vengono depositati a cerchio
sul terreno sottostante. Questi
escrementi erano ritenuti nel
passato una ricca merce di
scambio
quale
sostanza
fertilizzante.
Cripta situata nello squarcio iniziale della gravina. L’ingresso è a tre navate architravate, le due
laterali fanno ala a quella centrale con arco ribassato. Questo è visibilmente strombato rispetto
alla parete in primo piano e incuneato in un arco a pieno centro, delicatamente disegnato dai
capitelli accennati che si dipartono dai pilastri. Sulla parete di fondo della navata centrale si
notano degli affreschi rappresentanti un crocifisso su cui poggia il dipinto policromo di una
madonna.
In questa immagine, sullo sfondo, si
evidenziano la “grotta del Ciclope” e
“la farmacia del mago Greguro”.
.
La prima è la più grande grotta del villaggio,
pare che fosse utilizzata come ricovero per gli
animali e in un più lontano passato forse era
un luogo di culto, visto che su una parete è
stato trovato inciso un sole con un foro al
centro.
La seconda è un edificio grottale
sopraelevato con numerose porte e finestre
alle quali si può accedere solo attraverso una
scaletta.
Il suo stile architettonico è molto particolare e
si differenzia notevolmente dagli altri edifici,
probabilmente a causa della sua funzione
La casa del mago Greguro era formata da molti ambienti collegati da corridoi, alcuni dei quali
portavano alle stanze adibite a laboratorio. I vani scavati nella roccia, erano raggiungibili a
mezzo di scale retraibili in corda.
Una
delle
tante
entrate
di cui è
munito
l’edifici
o
grottale
del
mago
Sulle pareti interne della casa
del mago sono ben visibili i
loculi che forse ospitavano le
varie erbe officinali.
LA GRAVINA MADONNA
DELLA SCALA
ALCUNE PIANTE DELLA GRAVINA
MADONNA DELLA SCALA
ACANTO
ALBERO DI GIUDA
BOCCA DI LEONE
ELIANTEMO IONICO
FERULA
FICO D’INDIA
LENTISCO
NOCE
OLIVO
ACANTO
L’Achantus mollis è un’erba perenne dei
luoghi ombrosi del Mediterraneo.Ha foglie
oblunghe, a rosetta, fiori in lunga spiga
terminale, cilindrica, con corolle biancorosee, molto belle da vedersi, tanto che è
coltivata anche come pianta ornamentale.
Una varietà presente nelle gravine è
l’acanto spinoso, che ha foglie con lobi
spinosi.Questa pianta vegeta in terreni
ricchi, profondi, ben drenati.Un tempo
aveva un grande interesse medicinale,
infatti foglie, fiori e frutti venivano
considerati diuretici, efficaci nelle irritazioni
viscerali e utili per curare scottature,
punture di insetti, dermatosi, per le
proprietà emollienti e vulnerarie.
Fin dall’età classica le foglie di acanto
hanno costituito un motivo naturalistico,
largamente usato per la decorazione di
cornici e membrature architettoniche,
soprattutto del capitello corinzio, nel quale
sono
elemento
fondamentale
e
caratteristico, mentre la pianta nella sua
interezza, stilizzata in varia foggia, viene
prodotta in rilievo o a colori, come
ornamento di superfici.
ALBERO DI GIUDA
ll Cercis siliquastrum è un albero che appartiene alla
famiglia delle Leguminosae e trae il suo nome dal greco
kerkis (spola da tessitore) per la forma del frutto. Il nome
popolare nasce da un equivoco: siccome l’albero è
originario dell’area mediterranea e anticamente veniva
indicato come un albero che veniva dalla Giudea, la
confusione tra Giudea e Giuda ha fatto credere che
fosse per l’appunto l’albero al quale si impiccò Giuda.
E’ un piccolo albero spogliante, con la corteccia nerastra;
può arrivare a 10-15 metri di altezza, ha un valore
ornamentale perché, prima ancora del fogliame, produce
numerosi fiori di un bel rosa intenso, tendente al
violaceo, che in gruppi sono inseriti direttamente sul
ramo, (certe volte direttamente sul tronco) nello stesso
punto in cui sono sbocciati l’anno precedente. Sotto la
corolla del fiore ci sono lunghi baccelli rossastri che
contengono il seme e che persistono dopo la caduta
delle foglie. Le foglie stesse sono di forma arrotondata,
cordate con nervatura palmata, lisce e verde scuro sulla
pagina superiore, glauche su quella inferiore. I ramoscelli
si sviluppano seguendo un percorso a zigzag.
La pianta si propaga per seme o per polloni radicali e
può cominciare a fiorire quando ha cinque anni.
Il suo ambiente di coltura è il terreno calcareo in pieno
sole; in città vive bene perché è in grado di tollerare l’aria
inquinata, non sopporta inverni rigidi e prolungati,
proprio perché è una pianta dell’area mediterranea. Ecco
perché ha trovato nella gravina un ambiente ideale: da
una parte non la danneggia l’inquinamento di Massafra,
dall’altra non deve mai affrontare vere gelate come
quelle
dell’Italia
centrosettentrionale.
Suggestiva
l’immagine di questo albero fiorito nei pressi della “
farmacia del mago Greguro “, che forse ne utilizzava i
germogli per ricavare pozioni stimolanti la circolazione
arteriosa.
BOCCA DI LEONE
Il nome che i botanici danno a questa
pianta è Anthirrinum latifolium.
È un’erba perenne erbacea, alta dai 30 ai
90 cm., che fiorisce da maggio a
settembre. Ha il fusto eretto, le foglie
ghiandolari quasi glabre, lunghe da una
volta e mezzo a due volte e mezzo la
larghezza. Ha brattee ovate, di 5-12 mm;
fiori con peduncolo lungo 3-8 mm, in
racemi terminali; corolla gialla, dal labbro
superiore bilobato e inferiore trilobato, con
un rigonfiamento che racchiude la fauce. Il
calice è profondo, diviso in 5 lobi quasi
uguali, ovali, ottusi, lunghi da 7 a 9 mm. La
capsula misura dai 13 ai 17 mm, ed è
oblungo-ovale, con peli ghiandolari.
Cresce sui terreni rocciosi e sui muri nel
bacino del Mediterraneo nord-occidentale.
ELIANTEMO IONICO
Il nome che i botanici danno a questa
pianta è Helianthemum jonium, cioè fiore
del sole (dal greco hlios = sole ed
antos = fiore).
Questa pianta è un cespuglio nano con
fusto legnoso e ingrossato alla base, dal
quale si dipartono molti rametti sottili. La
sua radice è ben sviluppata.
Presenta fiori con cinque petali gialli con
macchia aranciata alla base, riuniti in
cime unilaterali. Hanno numerosi stami e
fioriscono da aprile fino a giugno. I suoi
frutti sono capsule loculicide. Le foglie
sono lineari, piccole, con margini ripiegati
e con stipole piccole e strette.
Nonostante il suo attributo jonium questa
pianta è diffusa, oltre che sullo Jonio,
anche in Basilicata e in Romagna. Si
ritrova abbondante nel territorio tarantino
sia nella gravina di Massafra sia sulla
sabbia, in parte consolidata, del litorale
alto e roccioso a qualche km. da
Campomarino, tra cespugli di rosmarino,
di timo e di ginepro.
FERULA ll nome che i botanici danno a
questa pianta è Ferula communis. È un’erba
perenne della famiglia delle Ombrellifere,
conosciuta anche col nome di finocchiaccio.
Può essere alta fino a due metri, con foglie
molto grandi e divise,
ricche ombrelle
all’apice del fusto e dei rami.E’ una tipica
pianta mediterranea, molto comune nelle
parti calde d’Italia, sui muri e sugli incolti.
Sulla sua radice vive da parassita il fungo di
ferola.Talvolta gli animali ingeriscono la parte
aerea della pianta, che provoca il cosiddetto
mal della ferula, cioè un’intossicazione con
manifestazioni emorragiche. A differenza del
finocchio non ha pertanto alcuna proprietà
medicinale.Con i fusti della pianta, i pastori
fanno sgabelli e altri utensili. Il fusto giovane
è verde e flessibile al secondo anno è secco
e leggerissimo. Pare che in passato i pastori
si servissero del fusto giovane per portare il
fuoco dalla propria abitazione al pascolo,
perché il suo midollo brucia lentamente; di
quello secco per appoggiarsi lungo il
cammino. Secondo una leggenda locale
Prometeo portò il fuoco sulla Terra
servendosi del fusto di ferula.
FICO D’INDIA
Il nome scientifico di questa
pianta è Opuntia ficus-barbarica
E’ una pianta carnosa, molto
ramificata, spesso arborescente,
con internodi appiattiti (cladodi),
di 20-50 per 10-20 cm. Nelle
ascelle di foglioline caduche si
trovano piccoli pulvini formati da
fragili setole gialle uncinate,
accompagnate talvolta da una o
due robuste spine giallo-sbiadite,
lunghe meno di 1cm. Ha fiori di
6-10 cm di diametro, addensati
sui margini dei cladodi, con
numerosi petali e stami gialli. I
suoi frutti sono simili al fico, di 59 cm. ricoperti da pulvini di setole
con apice infossato: la succosa
polpa è commestibile.
E’ coltivata per i suoi frutti ma
anche come pianta impenetrabile
per siepi; spesso inselvatichita è
localmente spontaneizzata (la
sua zona d’origine è l’America
tropicale).
LENTISCO
Il nome che i botanici danno a questa pianta è: Pistacia
lenticus.Il
Lentisco
appartiene
alla
famiglia
delle
Anarcadiaceae, è un arbusto che cresce spontaneamente nei
boschi e nelle macchie costiere del Mediterraneo; fu portato
più di quattro secoli fa dal Sudamerica in Francia e dalla
Francia in Italia.Le sue foglie sono di color verde scuro, di
forma ovale e raggruppate a coppia, sono persistenti, ossia
rimangono sulla pianta per tutto l’anno.I suoi frutti sono di un
vivace rosso corallo o rosa, sono grossi come un pisello e
raggruppati a grappoli; non sono persistenti come le foglie,
ma rimangono comunque attaccate all’arbusto per lungo
tempo durante l’inverno. Viene chiamato anche “falso pepe”,
perché, se si strofinano tra le mani le sue foglie e i suoi frutti,
si sprigiona un forte odore di pepe.Dalla sua resina, la manne
du Liban, si ricava un tipo di mastice chiamato “mastice di
Chio”, che in America Meridionale viene usato come gomma
da masticare, perché rinforza denti e gengive, e profuma
l’alito. I suoi frutti hanno molteplici usi, infatti, da questi si può
ricavare una forte bevanda, e un olio commestibile (estratto
facendo bollire i frutti appena maturi e filtrandoli poi con la
tela di un sacco), dato che sono ricchi di vitamine. L’olio
stesso veniva usato fino ad alcuni anni fa per accendere le
lampade ad olio, per friggere e fare il sapone.Persino le foglie
servivano per la concia delle pelli.A Taranto, gli allevatori di
ostriche usavano affondare nei luoghi di riproduzione di
questi mitili, come nel secondo seno del Mar Piccolo, alla
zona del piano, fascine di lentisco sui cui rami si attaccavano
le larve delle ostriche. I rami successivamente venivano
tagliati a pezzetti e legati alle corde che costituivano i
cosiddetti “pergolati”.
NOCE
È l’immagine di un grande albero di noce, presente in
gravina, dall’aspetto brullo, sembra infatti secco. Secondo
una storiella locale, sotto quest’albero si riunivano nelle notti
di luna piena le “ masciare “, vale a dire le streghe della
gravina, pare che invocassero gli spiriti maligni, per poter
compiere i loro sortilegi. Il suo nome scientifico è Juglans
regia, in cui l’attributo regia (dal regius latino) è giustificato
dalla superiorità che i suoi frutti hanno rispetto a quelli di altre
specie.Il suo habitat di provenienza è quello delle regioni
temperate dell’Asia centro-occidentale.Il noce è un albero che
può raggiungere i 30 metri di altezza e 1,5 di diametro. Il suo
tronco ha una corteccia grigia e liscia che si screpola con
l’età. I suoi rami formano una chioma quasi rotonda di grandi
foglie composte, imparipennate, con foglioline ovali e glabre
di un bel verde lucido nella pagina superiore e più chiare nella
pagina inferiore. Esse emanano un leggero aroma che è
dovuto alla presenza di una sostanza volatile. Fiorisce in
aprile e maggio, con due tipi di fiori: quelli maschili di colore
verde brunastro, raccolti in amenti penduli, e quelli femminili,
in gruppetti di quattro o meno, all’estremità dei rametti nuovi.Il
frutto è una drupa, con la polpa verde ricca di tannino, che è
una sostanza amara e fortemente colorante, tanto che in
passato veniva utilizzato per colorare in bruno i tessuti ed ii
capelli. Il suo seme è appunto la noce, che è commestibile e
contiene il 50% di grassi, da cui si estrae un olio usato in
farmacia. Dalle foglie poste in infusione si ricava una
soluzione astringente. Dal mallo dei frutti freschi, lasciati in
infusione in alcool per una quarantina di giorni, è possibile
ottenere un ottimo amaro, chiamato “nocino”.Un uso
importantissimo è quello relativo al legno, molto pregiato per
la sua durezza e la bellezza della trama, soprattutto dopo
lucidatura.
OLIVO
L’ Olea europea è la pianta più tipica della macchia
mediterranea, la cui origine tuttavia sembra essere
caucasica.E’ un albero caratterizzato da un tronco
contorto, dalla corteccia grigia e liscia, quando è
giovane, rugosa e giallo bruna con l’età, che può
prolungarsi per centinaia di anni. La sua ampia
chioma è formata da foglie persistenti, coriacee,
opposte, di colore verde glauco superiormente e
grigio argenteo inferiormente, per la presenza di peli
stellati che limitano la traspirazione.I fiori primaverili
sono piccoli e bianchi e lasciano il posto a frutti
autunnali, bruni e succosi, le olive. delle drupe, da
cui si estrae l’olio. L’economia locale e di tutta la
Puglia si basa sulla coltivazione dell’olivo, non solo
per l’olio molto pregiato, ma anche per il legno,
durissimo e a trama fine, ideale per fabbricare mobili
di valore. I rami secchi e le parti meno pregiate del
tronco servono ad alimentare caminetti e forni di
pietra, perché bruciano a lungo, liberando molta
energia, data la compattezza del legno. I fornai
usavano esclusivamente rami di olivo per la cottura
di pane, friselle e biscotti, perché bruciando liberano
un aroma particolarmente gradevole che ne esalta il
sapore.E’ una pianta poco esigente, vive anche sui
terreni rocciosi, infatti la si ritrova sia sui crinali della
gravina sia sul pianoro sovrastante.
LA VEGETAZIONE

Classe 3° M
Linguistico Internazionale

Alunni :

Docenti :

Assistente Tecnico:
Emanuele Zaccaria

Dirigente Amministrativo:
Maria Grazia Cammalleri

Dirigente Scolastico: Antonio Michele Sportelli
Angela Grassi – Roberto Fedele – Vanessa Cazzati
Dilva De Simei – Carmela Sorrentino
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Rupi e dirupi di Massafra