Liceo Classico“Aristosseno” Taranto RUPI E DIRUPI DI MASSAFRA RUPI E DIRUPI DI MASSAFRA Introduzione Massafra Le Cripte Le Gravine La vegetazione RUPI E DIRUPI DI MASSAFRA INTRODUZIONE Il progetto tende a sensibilizzare i giovani al desiderio di conoscere le proprie radici, per riscoprire i valori del proprio territorio che per troppo tempo sono rimasti sommersi e inspiegabilmente dimenticati. Vivere il proprio ambiente, attraverso le sue tracce storiche, culturali, artistiche, religiose, naturalistiche, economiche, civiche, folcloristiche, può contribuire a capire se stessi e a gestire con una maggiore solidarietà sociale il proprio territorio e la propria testimonianza umana. Diventa inoltre una fertile attività didattica di spontaneo aggiornamento, oltre che per gli alunni, anche per i docenti coinvolti. MASSAFRA L’abitato Il territorio MASSAFRA Massafra è una cittadina pugliese, che occupa l’area nord-occidentale della provincia di Taranto, tra la Murge Jonica e il mare, a 110 m d’altitudine. Dista dal capoluogo 17 km. La cartina mette in rilievo la rete stradale di collegamento tra Massafra e il resto del territorio. Importanti sono la SS 7, la via Appia dei Romani, che delimita a sud Massafra e collega Brindisi a Roma; la SS 106 che costeggia il mare Jonio fino Reggio Calabria; la A 14 (autostrada del Sole) che la connette a Bari e prosegue fino a Bologna, seguendo le linee di costa del Mar Adriatico. approfondimenti Il suo è territorio abbastanza vasto, circa 12.500 ettari; degradante verso lo Jonio con quote di livello massime di 480 metri L’abitato Massafra L’ABITATO Il Ponte vecchio fu costruito su progetto dell’architetto Sante Simone di Conversano, che curo’ anche la lottizzazione del nuovo nucleo cittadino, il Borgo. Inaugurato nel 1864 sotto il nome di Ponte San Marco, solo successivamente venne dedicato a Garibaldi, in occasione del centenario della nascita dell’Eroe. Tale struttura rese possibile l’espansione dell’abitato sull’altro ciglio della gravina. PONTE VECCHIO Il ponte Vecchio a cinque arcate e il ponte Nuovo a tre arcate collegano i due nuclei della città L’abitato di Massafra è costituito da grotte, vicinanze, caselamiate o a cannizzo e palazzi L’abitato di Massafra si è sviluppato inizialmente in verticale, lungo le pareti delle gravine principali, e di quelle minori, del Muro, della Serra, dei SS Medici, di S. Leonardo, di S. Nicola ed altre. L’unità abitativa era costituita dalle grotte, naturali o scavate nel tufo, formate da più vani, distribuiti su piani diversi, dotate di sistema di canalizzazione delle acque piovane con vasche e cisterne, collegate da sentieri, scalette e cunicoli. Nell’insieme formavano dei villaggi, che presentavano oltre alle abitazioni degli ambienti destinati sia alle attività lavorative sia al culto cristiano . Solo successivamente, intorno al XIV – XV secolo, essendo esaurito lo spazio gravinale per lo scavo di nuove abitazioni rupestri, l’abitato si estese sull’altipiano, edificando a partire dagli spalti ”case-lamiate” o “a cannizzo” sulle grotte sottostanti. Si sviluppa in questo periodo una particolare architettura ipogea, unica in Italia, la “vicinanza”. Come risulta dagli atti notarili del ‘700, si otteneva con la tecnica costruttiva “in negativo”, scavando sul pianoro un vano scoperto, chiamato “cava” o “tufara” o “zoccata”, di forma quadrangolare o rettangolare, fino alla profondità di quattro o cinque metri. Alcune vicinanze presentavano un muro di parapetto, che recingeva lo scavo, chiamato “defensa”. Secondo Padre Abatangelo, studioso locale dell’habitat rupestre, questa particolare architettura nasce su modello delle case di età tardo-romana, realizzate nel V secolo in ambienti ipogei dell’Africa settentrionale, in particolar modo della Tunisia. Su tre facciate della zoccata si scavavano in orizzontale da tre a nove case- grotte, che potevano appartenere ad un unico nucleo familiare o a più nuclei, per cui le “corti vicinanziali” potevano essere anche “corti convicinali”. Sulla quarta facciata si risparmiava nella roccia una scala di accesso. Ricerche recenti, testimonierebbero l’esistenza di questo modello costruttivo in zona, già dal V secolo, importato, secondo lo studioso Roberto Caprara, da un gruppo di profughi africani sfuggiti alle persecuzioni dei Vandali e che avrebbero dato origine alla città La conferma a tale ipotesi viene dal ritrovamento della Cripta-pozzo in contrada Carucci, tra Massafra e Crispiano, unico caso di chiesa ipogea e non rupestre del territorio, la cui prima escavazione sembra risalire al V-VI secolo, visto che l’unità di misura utilizzata è il piede romano di 29,64 cm, (a partire dal VI secolo si riscontra come unità di misura il piede bizantino di 31,2 cm). Nei secoli successivi si continuò a scavare nuove case grotte su “facciata di zoccata”, cioè sulle pareti ancora vergini di vicinanze preesistenti, ma contemporaneamente si edificarono case e palazzi, con la tecnica “in positivo”, usando conci di tufo estratti dalle cave. Queste costruzioni sub divo si adattarono alle grande aperture delle vicinanze scavate nel tufo, costringendo il fabbricato a contorcimenti planimetrici intorno alla “zoccata”. Si sviluppò in questo modo una cittadella medievale, composta da casette bianche e palazzi signorili tra archi, viuzze, gradinate, ballatoi, dominata dal castello, dalla chiesa Ex Madre, da santuari e conventi. Solo verso la metà del secolo scorso la città ebbe un successivo ampliamento espandendosi sull’altro versante della gravina di S. Marco grazie alla realizzazione del ponte Garibaldi. Massafra è un centro agricolo, famoso per la produzione di olive, uva da vino, ortaggi, frutta, cereali, fichi, mandorle e foraggi, per l’allevamento di ovini, bovini e suini. Sono fiorenti anche le industrie olearie, enologiche, metalmeccaniche, del mobile, dell’abbigliamento , della birra, dei materiali da costruzione (cave di tufo) e le attività commerciali di vario genere. Massafra LE CRIPTE Cripta S. Antonio Abate Cripta della Bona Nova Si trova sotto la sede del vecchio Ospedale Civile M. Pagliari (costruito nel 1800 ), a cui si accede ora attraverso una porticina da via Messapia, in definitiva dai sotterranei a volta della costruzione subdivo. In origine il suo ingresso si apriva sulla spalla orientale di un piccolo burrone. Cripta S. Antonio Abate La cripta di forma trapezoidale, alquanto irregolare, ha due entrate, ciò ha indotto alcuni studiosi a ritenere che in origine vi fossero due ambienti diversi, uno con strutturazione liturgica per il rito latino e l’altro per quello greco, separati e resi comunicanti in tempi successivi per ampliare lo spazio dell’aula. Non tutti gli esperti sono d’accordo con questa tesi. La sua prima escavazione si fa risalire al secolo XI / XII con successivi rimaneggiamenti; la volta è piatta, le pareti presentano archivolti e nicchie ed affreschi che risalgono a periodi diversi e abbracciano un arco di tempo che va dall’ XI-XII al XVII secolo. La cripta è stata utilizzata a partire dal secolo scorso come deposito di calcina e in seguito come lavanderia. Gli affreschi si presentano offuscati da uno strato a tratti leggero e a tratti corposo di calcare, di solfato di calcio e di miceli fungini, le immagini diventano più nitide nelle giornate umide, perché il vapore acqueo, condensando lungo le pareti grottali, le bagna e le deterge, mettendone in rilievo i particolari. Di fronte alla entrata principale vi è l’abside del rito ortodosso, si pensa separato in origine dal naoss con dei ceri; l’altare si presenta discosto dalla superficie muraria, perché il celebrante voltava le spalle ai fedeli e le strutture del bema fungevano da amplificatori. Il muro absidale presenta, appena accennato, un Cristo Pantocratore dell’XI - XII sec., che benedice alla greca con la mano destra, nell’altra mano ha un’iscrizione del Vangelo. Lo stile non è bizantino. A destra del medesimo S. Giovanni Battista, nell’atto di benedire. Possiamo notare che indossa un vestito di colore chiaro, con un cappuccio rosso scuro ed un mantello bluastro bordato di corda probabilmente rossa. Questa figura spicca su uno sfondo bicolore, giallo nella parte inferiore e rosso in quella superiore, dove è possibile leggere S. IOAN BB. A sinistra del Pantocratore la Madonna della Deesis, su uno sfondo ripartito in tre colori: blu, giallo e rosso, partendo dal basso. Indossa una tunica rosa intenso con scollatura bordata di incrostazioni di oro e pietre preziose. Il mantello è blu scuro. Nella rappresentazione il busto è frontale, il viso di tre quarti e le braccia sono rivolte verso il centro della nicchia dove è rappresentato il Cristo Pantocratore. Sotto l’arcosolio absidale sinistro è raffigurata una Crocifissione. Il capo reclino ed i piedi incrociati del Cristo connotano un’iconografia latina. I soggetti si stagliano su uno sfondo decorato a fasce orizzontali ( dal basso: blu, ocra, rosso, blu ), contornato da linee blu, ocra e rosso che seguono il profilo della nicchia, la quale, all’esterno, è marcata da una fascia con motivi triangolari rossi e blu a tratto tremolante. Il Cristo rappresentato frontalmente indossa una fascia ocra sui fianchi, ha il capo reclinato sulla spalla destra, barba a punta e capelli lunghi. L’aureola ocra è arricchita da un motivo a raggiera. Gli occhi contornati da sottili sopracciglia sono allungati ad arco ed esprimono infinita tristezza. Nell’immagine sono presenti due piccoli Angeli, che raccolgono le stille di sangue che gocciolano dalle mani inchiodate. Si rileva una differenza qualitativa tra il volto di Cristo e quello degli altri personaggi. Le aureole della Madonna e di S. Giovanni Evangelista sono contornate da un motivo di perlinatura. Dietro il capo della Vergine si legge l’iscrizione dipinta M. T. I due dolenti sono rappresentati di tre quarti con le braccia aperte e vesti scure. Sulla parete destra dell’ingresso attuale vi è appena leggibile la raffigurazione di S. Caterina di Alessandria. Si individuano la testa con corona e aureola ocra bordata di rosso e il corpo rivestito di un manto rosso. con decorazioni vegetali Di fronte all’ingresso attuale vi è l’altare in stile latino, su cui si può osservare l’affresco dedicato a S. Antonio Abate, incorniciato in un quadro con cornice dorata e abbellito con decorazioni vegetali a sfondo verde smeraldo, tipicamente barocco. Si pensa sia stato realizzato nel ‘700. Al Santo erano attribuite speciali doti di guaritore per l’herpes zoster,, chiamato volgarmente “ fuoco di S. Antonio ”, malattia probabilmente molto diffusa in età barocca. S. Antonio era considerato inoltre il protettore degli animali, che venivano condotti in questa chiesa e benedetti ogni anno il 17 gennaio. Nel vano a sinistra dell’ingresso attuale , si presentano al visitatore tre nicchie Nella prima è raffigurato il Papa Beato Urbano V, al centro del trittico è rappresentato S. Giacomo da Compostela, Il terzo è S. Antonio Abate Beato Urbano V, seduto su un seggio con pastorale a ricami, vestito con una tunica ocra ed un manto rosso cupo, mentre benedice con la mano destra alla greca; ha nella mano sinistra una tavoletta quadrata su cui sono scolpiti i volti di S.S. Pietro e Paolo, di cui, secondo la tradizione, avrebbe ritrovato le teste . L’immagine reca l’iscrizione: ORVBANUS PA(PA) QV( INTVS) O(RDINIS) V(ENEDICTORVM) S. Giacomo da Compostela, nella scritta IACOBV(S), con capelli biondi, barba a pizzo, manto rosso scuro e veste grigia mentre benedice, anche lui alla greca con la mano destra.Presenta i simboli iconografici dei pellegrini: nella mano sinistra un lungo bastone ricurvo all’estremità, una conchiglia, sulle spalle una tracolla di cuoio terminante con una borsa. S. Giacomo è infatti il protettore dei pellegrini e la sua immagine è ricorrente nelle chiese rupestri collocate sulle vie di transito dei pellegrini da e per l’Oriente. S. Antonio Abate, vestito da frate, rappresentato con un bastone e delle campanelle per scacciare il demonio. Con la mano sinistra regge una pergamena su cui è scritto: A(B)STINE(N)CIA (E)T PACIE(N)CIA VICIT D(A)EMONES. In una nicchia ad archivolto sono affrescati due Santi al di sotto di un motivo dipinto a doppia nicchia trilobata. A sinistra, su fondo rosso e blu, in posizione frontale, troviamo S. Leonardo, identificato dall’iscrizione DUS. Possiede una corona di perline blu, barba lunga, veste gialla e rossa. In mano ha le catene, simbolo di schiavitù e prigionia. Al suo fianco, a caratteri poco leggibili, vi è una Santa con corona rossa e perline blu, dipinta su sfondo azzurro e giallo. Non si sa con precisione chi sia, si potrebbe trattare di S. Caterina o S. Margherita o S. Barbara o S. Elena imperatrice. Dell’immagine s’intravede in qualche modo il mantello rosso e la parte superiore del viso, quindi la fronte, i capelli e la corona. Nell’arcosolio a sud del bema un affresco rappresenta l’Annunciazione. Tutto l’insieme compositivo è racchiuso in una nicchia ad archivolto. I personaggi distinguibili nell’affresco sono tre, la Madonna con una veste rossa ed un mantello blu che regge con la mano destra un testo sacro aperto con resti dell’iscrizione: “Ecce Ancilla Domini..”; l’Arcangelo Gabriele con la veste rossa ed il mantello verde bordato di oro, le cui ali sembrano costrette nei confini della nicchia, rappresentato in un piano inferiore a Maria; la Sapienza con caratteristiche umane, ma cerchiata di rosso per distinguerla dalle cose terrene ed esaltare la presenza divina. Si vede inoltre una mano non appartenente a nessuno dei personaggi menzionati, che fa supporre la presenza di un quarto personaggio non distinguibile sul fondo. Alla cripta si accede dal retro dell’ex complesso ospedaliero, attraverso degli ampi vani voltati a botte con archi di rinforzo a sesto acuto, oggi abbandonati. Ospitano oggetti di varia provenienza, quali una vasca in pietra ed una capovolta di alluminio zincato. Il soffitto in tufo presenta delle prese d’aria, realizzate per la ventilazione del sito. LE CRIPTE LA CRIPTA DELLA BONA NOVA Cripta, in stile latino, la cui escavazione pare risalga al VII secolo, situata sul sagrato del santuario della Madonna della Scala. Inizialmente a tre navate, fu tagliata per costruire la scala e mutilata per quasi il cinquanta per cento. Si presenta interamente affrescata e in buono stato di conservazione. Sulla parete antistante l’ingresso si staglia l’affresco della “Bona Nova”, risalente al XIV secolo, che mostra l’influenza giottiana della scuola tosco-umbra, infatti si differenzia dall’icona presente nel santuario per il movimento e la fluidità delle vesti, l’espressione dolce del volto, soprattutto della Madonna, e la posizione del Bambino, che è tenuto col braccio destro. L’immagine rappresenta come quella del santuario, la Madonna della Guida. Sul piano di calpestio è collocata una piccola mensola in pietra che funge da altare. In basso, sotto la pavimentazione, è stata trovata una tomba i cui resti sono stati esposti in una bara di vetro e successivamente trasportati al cimitero. In questa valle tra l’altro venivano effettuate le impiccagioni dei condannati a morte, per questo era anche chiamata “Valle delle forche”. Interessante e ben conservato è il trittico dei S.S. Lucia, Vito e Caterina d’Alessandria, sempre del XIV secolo, dai colori accesi, molto decorato S. Lucia è rappresentata con un vassoio dorato contenente i suoi occhi; S, Vito con una croce nella mano destra e due cani ai piedi; S. Caterina recante sul capo una corona regale, al collo una collana di pietre preziose e la ruota del martirio nella mano sinistra. I volti dei tre santi sono frontali, a testimonianza di una iconografia non più bizantina, ma locale. Evidenziati i piedi calzanti scarpe a punta, grazie al movimento delle mani libere che tengono leggermente sollevate le vesti. Altri affreschi interessanti, ma non altrettanto ben conservati, sono il Cristo Pantocratore tra la Madonna e S. Giovanni Battista, S. Matteo, S, Giorgio a cavallo e un Vescovo, forse S. Cataldo. LE CRIPTE LE GRAVINE La città di Massafra e il suo territorio sono inserite in un suggestivo ambiente naturale costituito da “lame e gravine”. Le prime sono formazioni calcaree bianche cristalline, le seconde arenarie calcaree con brecce compatte, bianche o giallo – rossastre. La loro formazione risale presumibilmente al “Neozoico” grazie alla circolazione sotterranea delle acque, ricche di anidride carbonica. Nelle gravine e nei terreni bassi o nelle grotte troviamo resti fossili marini. Con la retrocessione del mare, il territorio emerse definitivamente nel “Quaternario”. In genere le gravine hanno una lunghezza che va da uno a 10 chilometri, una larghezza media da 10 a 300 metri ed una profondità massima di 50 metri. Le pareti sono bucherellate da grotte naturali e artificiali, molte delle quali usate dall’uomo che le ha anche modellate in rapporto alle proprie esigenze esistenziali, abitative, economiche, culturali. Infatti specie nelle zone dove gli agglomerati umani erano presenti, esistono strutturazioni ed impianti urbani con reti pluviali, idriche, fognanti e di percorso, scavati nella roccia con sistemi di estrema praticità. Le gravine sono perciò, contenitori anche delle testimonianze storiche della civiltà dell’uomo con i segni delle abitazioni, delle chiese e delle officine scavate nel tufo, adattate in grotte naturali, modellate appositamente e distribuite sulle varie pareti e che poi rappresentano la prima fase di tutta l’espansione urbana della città fino ai nostri giorni. LE GRAVINE Gravina Madonna della Scala Gravina San Marco A Massafra si contano varie gravine, tra cui: Velo, S. Caterina, S. Marco, Madonna della Scala, Monte S. Elia, Colombato, Palombaro, Portico del Ladro, Capo di Gavito, Giulieno, Canale Lungo. Di queste le antropizzate sono: S. Marco, Madonna della Scala e S. Caterina. GRAVINA SAN MARCO La gravina di San Marco è chiamata “Il Paradiso di Massafra” per la sua bellezza scenografica, entro la quale si organizzano, tra sentieri tortuosi e vegetazione spontanea, varie iniziative in ricordo di antiche processioni con giochi di luce, suoni e colori spettacolari. Il paesaggio è dominato dalla presenza del castello, intorno a cui si sviluppava l’intero abitato nel periodo medioevale. Deve il suo nome ad una cripta–basilica a tre navate, incavata su di un dirupo e dedicata a San Marco. Sono presenti altre cripte, la Candelora, S. Marina, S. Biagio e la casa dell’Igumeno (il capo della comunità con poteri civili e religiosi), un palazzo a tre piani scavato nella roccia. È caratterizzata da un agglomerato rupestre, abitato sin dal V-VI secolo d.C., su cui sono sorte successivamente le case lamiate e le case palazziate. Terrazzamenti naturali e in parte costruiti dall’uomo Tempo fa fu creato un itinerario rupestre che collegava i centri grottali di particolare interesse storico, artistico e paesaggistico. Il solco unitario prosegue rettilineo dividendo in due parti il centro abitato, collegato da tre ponti. LE GRAVINE MADONNA DELLA SCALA GRAVINA MADONNA DELLA SCALA INGRESSO . Le gravine sono un interessante e suggestivo fenomeno geologico. Dal ritrovamento di fossili marini, si ha la certezza che le gravine costituivano gli scoli delle acque verso il mare, ciò ha sollecitato studi approfonditi degli idrologi. LE GRAVINE Tra le rocce calcaree una rigogliosa vegetazione spontanea costituita da più di 600 specie di piante. Questa varietà di specie rappresenta per gli studiosi una importante banca biologica. Nella gravina la vegetazione assume la classica fisionomia della macchia mediterranea, con delle varianti a secondo delle condizioni edafiche, orografiche e microclimatiche. La specie indubbiamente più diffusa è rappresentata dal lentisco; ad esso si affiancano, sempre nello strato arbustivo, altre specie con pari caratteristiche quali: il mirto, la fillirea, l’alaterno, e tra i bassi arbusti il rosmarino e il timo. Veduta della stratificazione naturale delle rocce della gravina Madonna della Scala. La gravina della Madonna della Scala o Valle delle Rose si estende dalla via Appia, proseguendo fino alla provincia di Noci, costeggiando le masserie Torelli e Sant’Angelo, terminando in prossimità della masseria Pizziferri. L’andamento della gravina appare più o meno rettilineo con qualche sinuosità. E’ lunga 4 Km, profonda 40 m , larga da 30 a 40 m ed è stata originata dall’antico letto del fiume Patemisco. Queste immagini mettono in rilievo il vallone della gravina. Agglomerato rupestre abitato con periodi di intermittenza dal V al XVI secolo, ma secondo alcuni studiosi fin dal Neolitico, come testimonierebbero lame di selce e frammenti di ceramica rinvenuti nella grotta del Ciclope. Il villaggio è costituito da grotte sistemate a più piani che attestano con le loro caratteristiche architettoniche, le strutture e gli impianti, la presenza di una grossa comunità. Infatti in molte spelonche si notano i segni di attività umane (mulini, forni, frantoi, abitazioni, canalizzazioni, stradette, gradini, ecc). Suggestive le aperture scavate nelle masse rocciose che rappresentano l’ingresso delle abitazioni e che venivano chiuse da grosse pietre per difendersi dagli animali o da invasori. Sono presenti tra l’altro dei cunicoli che permettevano la comunicazione interna tra una grotta e l’altra. In molte grotte si trovano profondi pozzi esplorabili attraverso scale, sui quali gli archeologi hanno incentrato i loro studi e su cui hanno formulato varie ipotesi di utilizzo: vasche terragne, pile di raccolta, pozzi in comunione tra proprietari diversi. L’attività di questi studiosi è però intralciata dallo scarso senso civico degli uomini, che noncuranti dell’importanza del luogo continuano a gettare rifiuti in gravina e negli stessi pozzi. Gli insediamenti civili sono complessi criptologici vasti con un numero consistente di grotte costituite da più vani, talora distribuiti su piani diversi, collegati da sentieri e scalette, dotate di sistemi di canalizzazione delle acque piovane con vasche e cisterne. Le grotte non erano tutte uguali, alcune erano munite di molte entrate. Questa in particolare è munita di un ampio ingresso, di due corridoi, di una scala interna e di una finestra ( sul lato destro della foto ). Di solito si trovano locali con la tipica alcova, suddivisa da un pilastro centrale. L’alcova più grande era riservata al capofamiglia, che conservava in un pozzetto, sopra cui dormiva, le derrate alimentari o il raccolto, che costituivano la ricchezza della famiglia. L’alcova più piccola era destinata alla donna e alla sua prole. Secondo gli studiosi una donna partoriva, al tempo, ogni quindici mesi, per cui aveva un bimbo nella “naca”, uno in grembo e l’altro che le trotterellava intorno. Non potendo andare a lavorare, la donna badava ai figli, l’uomo si occupava del sostentamento della famiglia con i prodotti della terra e con la caccia. Sulle pareti e sui soffitti delle grotte si trovano dei fori comunicanti, a guisa di maniglia, da cui far pendere la “naca” dell’ultimo nato, per impedire l’aggressione da parte di animali, in assenza della madre. Fori e maniglie servivano anche per sospendere ripiani di legno, su cui venivano poggiati prodotti caseari o carni insaccate per la stagionatura e per la conservazione. Alcune nicchie più semplici e di proporzioni ridotte servivano per deporvi i recipienti dell’acqua, per collocare i torchietti per la spremitura dell’uva o per appoggiarvi i contenitori dell’olio, del miele e dei legumi. A sinistra dell’ingresso c’è quasi sempre il focolare, di questo ne esistono due tipi, alcuni con la cappa scavata nella roccia, altri a camino.I soffitti erano piatti e con un’altezza massima di circa 2,5 m. L’unica fonte di luce e di areazione era la porta, ma in alcune abitazione si sono ritrovate delle finestrelle. Sia le porte che le finestre erano provviste di grondaie con relative canalette, atte a convogliare le acque piovane in appositi silos collocati sui fianchi della porta d’ingresso. Il primogenito ereditava dal padre una parete in cui scavare la sua casa. In questo modo l’abitazione si ampliava e si arricchiva di strutture, tra cui diversi pilastri che dividevano i vani e così simili ai nostri pilastri portanti. Gli altri figli, invece, dovevano provvedere da soli a cercare altre grotte. Al figlio maggiore toccavano, però altre ai diritti anche alcuni doveri, come quello di assistere in vecchiaia i genitori. Nell’immagine un tipo di abitazione ereditata, a sinistra con ingresso a sistema architravato, affiancata all’ingresso a doppio arco della casa paterna. Particolarmente diffuso era l’allevamento dei colombi, che nella parte alta della “Grotta del Ciclope” disegnano ancora oggi voli circolari e i cui escrementi, curiosamente vengono depositati a cerchio sul terreno sottostante. Questi escrementi erano ritenuti nel passato una ricca merce di scambio quale sostanza fertilizzante. Cripta situata nello squarcio iniziale della gravina. L’ingresso è a tre navate architravate, le due laterali fanno ala a quella centrale con arco ribassato. Questo è visibilmente strombato rispetto alla parete in primo piano e incuneato in un arco a pieno centro, delicatamente disegnato dai capitelli accennati che si dipartono dai pilastri. Sulla parete di fondo della navata centrale si notano degli affreschi rappresentanti un crocifisso su cui poggia il dipinto policromo di una madonna. In questa immagine, sullo sfondo, si evidenziano la “grotta del Ciclope” e “la farmacia del mago Greguro”. . La prima è la più grande grotta del villaggio, pare che fosse utilizzata come ricovero per gli animali e in un più lontano passato forse era un luogo di culto, visto che su una parete è stato trovato inciso un sole con un foro al centro. La seconda è un edificio grottale sopraelevato con numerose porte e finestre alle quali si può accedere solo attraverso una scaletta. Il suo stile architettonico è molto particolare e si differenzia notevolmente dagli altri edifici, probabilmente a causa della sua funzione La casa del mago Greguro era formata da molti ambienti collegati da corridoi, alcuni dei quali portavano alle stanze adibite a laboratorio. I vani scavati nella roccia, erano raggiungibili a mezzo di scale retraibili in corda. Una delle tante entrate di cui è munito l’edifici o grottale del mago Sulle pareti interne della casa del mago sono ben visibili i loculi che forse ospitavano le varie erbe officinali. LA GRAVINA MADONNA DELLA SCALA ALCUNE PIANTE DELLA GRAVINA MADONNA DELLA SCALA ACANTO ALBERO DI GIUDA BOCCA DI LEONE ELIANTEMO IONICO FERULA FICO D’INDIA LENTISCO NOCE OLIVO ACANTO L’Achantus mollis è un’erba perenne dei luoghi ombrosi del Mediterraneo.Ha foglie oblunghe, a rosetta, fiori in lunga spiga terminale, cilindrica, con corolle biancorosee, molto belle da vedersi, tanto che è coltivata anche come pianta ornamentale. Una varietà presente nelle gravine è l’acanto spinoso, che ha foglie con lobi spinosi.Questa pianta vegeta in terreni ricchi, profondi, ben drenati.Un tempo aveva un grande interesse medicinale, infatti foglie, fiori e frutti venivano considerati diuretici, efficaci nelle irritazioni viscerali e utili per curare scottature, punture di insetti, dermatosi, per le proprietà emollienti e vulnerarie. Fin dall’età classica le foglie di acanto hanno costituito un motivo naturalistico, largamente usato per la decorazione di cornici e membrature architettoniche, soprattutto del capitello corinzio, nel quale sono elemento fondamentale e caratteristico, mentre la pianta nella sua interezza, stilizzata in varia foggia, viene prodotta in rilievo o a colori, come ornamento di superfici. ALBERO DI GIUDA ll Cercis siliquastrum è un albero che appartiene alla famiglia delle Leguminosae e trae il suo nome dal greco kerkis (spola da tessitore) per la forma del frutto. Il nome popolare nasce da un equivoco: siccome l’albero è originario dell’area mediterranea e anticamente veniva indicato come un albero che veniva dalla Giudea, la confusione tra Giudea e Giuda ha fatto credere che fosse per l’appunto l’albero al quale si impiccò Giuda. E’ un piccolo albero spogliante, con la corteccia nerastra; può arrivare a 10-15 metri di altezza, ha un valore ornamentale perché, prima ancora del fogliame, produce numerosi fiori di un bel rosa intenso, tendente al violaceo, che in gruppi sono inseriti direttamente sul ramo, (certe volte direttamente sul tronco) nello stesso punto in cui sono sbocciati l’anno precedente. Sotto la corolla del fiore ci sono lunghi baccelli rossastri che contengono il seme e che persistono dopo la caduta delle foglie. Le foglie stesse sono di forma arrotondata, cordate con nervatura palmata, lisce e verde scuro sulla pagina superiore, glauche su quella inferiore. I ramoscelli si sviluppano seguendo un percorso a zigzag. La pianta si propaga per seme o per polloni radicali e può cominciare a fiorire quando ha cinque anni. Il suo ambiente di coltura è il terreno calcareo in pieno sole; in città vive bene perché è in grado di tollerare l’aria inquinata, non sopporta inverni rigidi e prolungati, proprio perché è una pianta dell’area mediterranea. Ecco perché ha trovato nella gravina un ambiente ideale: da una parte non la danneggia l’inquinamento di Massafra, dall’altra non deve mai affrontare vere gelate come quelle dell’Italia centrosettentrionale. Suggestiva l’immagine di questo albero fiorito nei pressi della “ farmacia del mago Greguro “, che forse ne utilizzava i germogli per ricavare pozioni stimolanti la circolazione arteriosa. BOCCA DI LEONE Il nome che i botanici danno a questa pianta è Anthirrinum latifolium. È un’erba perenne erbacea, alta dai 30 ai 90 cm., che fiorisce da maggio a settembre. Ha il fusto eretto, le foglie ghiandolari quasi glabre, lunghe da una volta e mezzo a due volte e mezzo la larghezza. Ha brattee ovate, di 5-12 mm; fiori con peduncolo lungo 3-8 mm, in racemi terminali; corolla gialla, dal labbro superiore bilobato e inferiore trilobato, con un rigonfiamento che racchiude la fauce. Il calice è profondo, diviso in 5 lobi quasi uguali, ovali, ottusi, lunghi da 7 a 9 mm. La capsula misura dai 13 ai 17 mm, ed è oblungo-ovale, con peli ghiandolari. Cresce sui terreni rocciosi e sui muri nel bacino del Mediterraneo nord-occidentale. ELIANTEMO IONICO Il nome che i botanici danno a questa pianta è Helianthemum jonium, cioè fiore del sole (dal greco hlios = sole ed antos = fiore). Questa pianta è un cespuglio nano con fusto legnoso e ingrossato alla base, dal quale si dipartono molti rametti sottili. La sua radice è ben sviluppata. Presenta fiori con cinque petali gialli con macchia aranciata alla base, riuniti in cime unilaterali. Hanno numerosi stami e fioriscono da aprile fino a giugno. I suoi frutti sono capsule loculicide. Le foglie sono lineari, piccole, con margini ripiegati e con stipole piccole e strette. Nonostante il suo attributo jonium questa pianta è diffusa, oltre che sullo Jonio, anche in Basilicata e in Romagna. Si ritrova abbondante nel territorio tarantino sia nella gravina di Massafra sia sulla sabbia, in parte consolidata, del litorale alto e roccioso a qualche km. da Campomarino, tra cespugli di rosmarino, di timo e di ginepro. FERULA ll nome che i botanici danno a questa pianta è Ferula communis. È un’erba perenne della famiglia delle Ombrellifere, conosciuta anche col nome di finocchiaccio. Può essere alta fino a due metri, con foglie molto grandi e divise, ricche ombrelle all’apice del fusto e dei rami.E’ una tipica pianta mediterranea, molto comune nelle parti calde d’Italia, sui muri e sugli incolti. Sulla sua radice vive da parassita il fungo di ferola.Talvolta gli animali ingeriscono la parte aerea della pianta, che provoca il cosiddetto mal della ferula, cioè un’intossicazione con manifestazioni emorragiche. A differenza del finocchio non ha pertanto alcuna proprietà medicinale.Con i fusti della pianta, i pastori fanno sgabelli e altri utensili. Il fusto giovane è verde e flessibile al secondo anno è secco e leggerissimo. Pare che in passato i pastori si servissero del fusto giovane per portare il fuoco dalla propria abitazione al pascolo, perché il suo midollo brucia lentamente; di quello secco per appoggiarsi lungo il cammino. Secondo una leggenda locale Prometeo portò il fuoco sulla Terra servendosi del fusto di ferula. FICO D’INDIA Il nome scientifico di questa pianta è Opuntia ficus-barbarica E’ una pianta carnosa, molto ramificata, spesso arborescente, con internodi appiattiti (cladodi), di 20-50 per 10-20 cm. Nelle ascelle di foglioline caduche si trovano piccoli pulvini formati da fragili setole gialle uncinate, accompagnate talvolta da una o due robuste spine giallo-sbiadite, lunghe meno di 1cm. Ha fiori di 6-10 cm di diametro, addensati sui margini dei cladodi, con numerosi petali e stami gialli. I suoi frutti sono simili al fico, di 59 cm. ricoperti da pulvini di setole con apice infossato: la succosa polpa è commestibile. E’ coltivata per i suoi frutti ma anche come pianta impenetrabile per siepi; spesso inselvatichita è localmente spontaneizzata (la sua zona d’origine è l’America tropicale). LENTISCO Il nome che i botanici danno a questa pianta è: Pistacia lenticus.Il Lentisco appartiene alla famiglia delle Anarcadiaceae, è un arbusto che cresce spontaneamente nei boschi e nelle macchie costiere del Mediterraneo; fu portato più di quattro secoli fa dal Sudamerica in Francia e dalla Francia in Italia.Le sue foglie sono di color verde scuro, di forma ovale e raggruppate a coppia, sono persistenti, ossia rimangono sulla pianta per tutto l’anno.I suoi frutti sono di un vivace rosso corallo o rosa, sono grossi come un pisello e raggruppati a grappoli; non sono persistenti come le foglie, ma rimangono comunque attaccate all’arbusto per lungo tempo durante l’inverno. Viene chiamato anche “falso pepe”, perché, se si strofinano tra le mani le sue foglie e i suoi frutti, si sprigiona un forte odore di pepe.Dalla sua resina, la manne du Liban, si ricava un tipo di mastice chiamato “mastice di Chio”, che in America Meridionale viene usato come gomma da masticare, perché rinforza denti e gengive, e profuma l’alito. I suoi frutti hanno molteplici usi, infatti, da questi si può ricavare una forte bevanda, e un olio commestibile (estratto facendo bollire i frutti appena maturi e filtrandoli poi con la tela di un sacco), dato che sono ricchi di vitamine. L’olio stesso veniva usato fino ad alcuni anni fa per accendere le lampade ad olio, per friggere e fare il sapone.Persino le foglie servivano per la concia delle pelli.A Taranto, gli allevatori di ostriche usavano affondare nei luoghi di riproduzione di questi mitili, come nel secondo seno del Mar Piccolo, alla zona del piano, fascine di lentisco sui cui rami si attaccavano le larve delle ostriche. I rami successivamente venivano tagliati a pezzetti e legati alle corde che costituivano i cosiddetti “pergolati”. NOCE È l’immagine di un grande albero di noce, presente in gravina, dall’aspetto brullo, sembra infatti secco. Secondo una storiella locale, sotto quest’albero si riunivano nelle notti di luna piena le “ masciare “, vale a dire le streghe della gravina, pare che invocassero gli spiriti maligni, per poter compiere i loro sortilegi. Il suo nome scientifico è Juglans regia, in cui l’attributo regia (dal regius latino) è giustificato dalla superiorità che i suoi frutti hanno rispetto a quelli di altre specie.Il suo habitat di provenienza è quello delle regioni temperate dell’Asia centro-occidentale.Il noce è un albero che può raggiungere i 30 metri di altezza e 1,5 di diametro. Il suo tronco ha una corteccia grigia e liscia che si screpola con l’età. I suoi rami formano una chioma quasi rotonda di grandi foglie composte, imparipennate, con foglioline ovali e glabre di un bel verde lucido nella pagina superiore e più chiare nella pagina inferiore. Esse emanano un leggero aroma che è dovuto alla presenza di una sostanza volatile. Fiorisce in aprile e maggio, con due tipi di fiori: quelli maschili di colore verde brunastro, raccolti in amenti penduli, e quelli femminili, in gruppetti di quattro o meno, all’estremità dei rametti nuovi.Il frutto è una drupa, con la polpa verde ricca di tannino, che è una sostanza amara e fortemente colorante, tanto che in passato veniva utilizzato per colorare in bruno i tessuti ed ii capelli. Il suo seme è appunto la noce, che è commestibile e contiene il 50% di grassi, da cui si estrae un olio usato in farmacia. Dalle foglie poste in infusione si ricava una soluzione astringente. Dal mallo dei frutti freschi, lasciati in infusione in alcool per una quarantina di giorni, è possibile ottenere un ottimo amaro, chiamato “nocino”.Un uso importantissimo è quello relativo al legno, molto pregiato per la sua durezza e la bellezza della trama, soprattutto dopo lucidatura. OLIVO L’ Olea europea è la pianta più tipica della macchia mediterranea, la cui origine tuttavia sembra essere caucasica.E’ un albero caratterizzato da un tronco contorto, dalla corteccia grigia e liscia, quando è giovane, rugosa e giallo bruna con l’età, che può prolungarsi per centinaia di anni. La sua ampia chioma è formata da foglie persistenti, coriacee, opposte, di colore verde glauco superiormente e grigio argenteo inferiormente, per la presenza di peli stellati che limitano la traspirazione.I fiori primaverili sono piccoli e bianchi e lasciano il posto a frutti autunnali, bruni e succosi, le olive. delle drupe, da cui si estrae l’olio. L’economia locale e di tutta la Puglia si basa sulla coltivazione dell’olivo, non solo per l’olio molto pregiato, ma anche per il legno, durissimo e a trama fine, ideale per fabbricare mobili di valore. I rami secchi e le parti meno pregiate del tronco servono ad alimentare caminetti e forni di pietra, perché bruciano a lungo, liberando molta energia, data la compattezza del legno. I fornai usavano esclusivamente rami di olivo per la cottura di pane, friselle e biscotti, perché bruciando liberano un aroma particolarmente gradevole che ne esalta il sapore.E’ una pianta poco esigente, vive anche sui terreni rocciosi, infatti la si ritrova sia sui crinali della gravina sia sul pianoro sovrastante. LA VEGETAZIONE Classe 3° M Linguistico Internazionale Alunni : Docenti : Assistente Tecnico: Emanuele Zaccaria Dirigente Amministrativo: Maria Grazia Cammalleri Dirigente Scolastico: Antonio Michele Sportelli Angela Grassi – Roberto Fedele – Vanessa Cazzati Dilva De Simei – Carmela Sorrentino