Pagine di storia eoliana Lipari, il Cristianesimo e il culto di San Bartolomeo di Michele Giacomantonio 2013 Le domande a cui rispondere Al di là delle scarse e scarne notizie sulle incursioni piratesche e sui fenomeni vulcanici le Eolie – soprattutto dal III al IX secolo d.C. – si impongono all’attenzione del mondo colto e devoto per le vicende del Cristianesimo legate soprattutto al culto di San Bartolomeo che fece per alcuni secoli di Lipari una delle più frequentate mete dei pellegrinaggi del Mediterraneo occidentale e forse una delle cause dell’aggressione dell’838 da parte dell’armata mussulmana capeggiata da Fadhl-ibn-Jàqub. Per questo le domande che ci porremo sono : come si stabilì e si affermò nelle Eolie il culto di San Bartolomeo? quando arrivò il Cristianesimo a Lipari permettendo di parlare di una Chiesa Liparese? Qual’era il significato e la presenza del cristianesimo nelle Eolie al tempo del sacco dell’838 d.C.? Chi era San Bartolomeo Uno dei dodici apostoli di Cristo conosciuto anche ( nel vangelo di Giovanni) con il nome di Natanaele, nativo di Cana, che morì verso la metà del I secolo probabilmente in Siria. Il vero nome dell'apostolo è Natanaele. Il nome Bartolomeo deriva probabilmente dall'aramaico «bar», figlio e «talmai», agricoltore o, secondo un’altra versione, “tholmai” colui che smuove le acque. Bartolomeo giunse a Cristo tramite l'apostolo Filippo. Dopo la resurrezione di Cristo, Bartolomeo fu predicatore itinerante (in Armenia, India e Mesopotamia). Divenne famoso per la sua facoltà di guarire i malati e gli ossessi e fu condannato ad essere scorticato vivo e poi crocefisso. Due immagini del martirio di San Bartolomeo Le terre di missione di San Bartolomeo Il corpo di S. Bartolomeo a Lipari: la testimonianza di Gregorio di Tours La testimonianza più antica che parla dell’arrivo e della presenza a Lipari del corpo di S. Bartolomeo è quella di Gregorio di Tours, vescovo e storico, che scrive tra il 572 e il 590: “La storia del martirio di Bartolomeo narra che egli patì in India [ secondo altre versioni: in Asia]. Dopo lo spazio di molti anni dal suo martirio, essendo sopraggiunta una nuova persecuzione contro i Cristiani, e vedendo i pagani che tutto il popolo accorreva al suo sepolcro e a lui rivolgeva preghiere e offriva incensi, presi da odio , sottrassero il suo corpo e, e ponendolo in un sarcofago di piombo, tenuto a galla dalle acque che lo sostenevano, da quel luogo fu traslato ad un’isola che si chiama Lipari, e ne fu data notizia ai Cristiani perché lo raccogliessero: e raccoltolo e sepoltolo, su di questo edificarono una grande chiesa. In questa chiesa è ora invocato e manifesta di giovare a molte genti con le sue virtù e le sue grazie». Due immagini di San Gregorio de Tours Lipari non è la sola a rivendicare il corpo del santo ma… Teodoro il Lettore, storico bizantino, scrive intorno al 530 che le reliquie di San Bartolomeo erano state inviate dall’imperatore d’Oriente Anastasio, forse nel 507, a Dara nella Mesopotamia settentrionale. In un tempo in cui vigeva il commercio delle reliquie è difficile dire chi possedeva il corpo originario o, magari, solo una parte di esso. Se Lipari o Dara, o Doliche o la Frigia… Ma è importante che già nel VI secolo – praticamente negli stessi anni in cui cadeva Dara (573 d.C.) - con riferimenti a molti anni prima , veniva collegata Lipari al culto ed al corpo di San Bartolomeo. E su per giù sono gli stessi anni a cui si fanno risalire le testimonianze delle altre «rivendicazioni» Una tradizione antica Quindi già nel VI secolo si comincia a sviluppare nel mondo cristiano una tradizione che afferma : 1. che il corpo fu gettato in mare e tenuto a galla dalle acque che lo sostenevano; 2. che il corpo fu traslato all’isola di Lipari; 3. che fu data notizia ai cristiani perché lo accogliessero; 4. che il corpo fu accolto e sepolto e su di esso fu edificata una grande chiesa. La testimonianza di S.Teodoro Studita (759-826) Un’altra testimonianza del legame fra S. Bartolomeo e Lipari ce la dà S. Teodoro Studita (759-826). Anche questa testimonianza riprende la tradizione miracolosa dell’arca che galleggia dal Medio Oriente sino alle Eolie arricchendola con la coreografia di una scorta di martiri ed aggiungendo altri particolari alla tradizione: 1 Lipari c’è un vescovo che si chiama Agatone e che è ritenuto “santissimo”; 2. l’arca giunta in prossimità della riva si riesce a trainare a terra solo con l’aiuto di due “vitelle caste”. S. Teodoro Studita monaco bizantino, compositore di liturgie, combatté contro gli iconosclasti S.Teodoro immagina che Lipari , il cui nome suona come «reliquia» inviti il Santo E’ come se l’isola dal nome appropriato abbia gridato con voci misteriose verso di lui che vi era pervenuto:’ Vieni a me l’infelice, tesoro tre volte beato dello Spirito tutto santo, vieni a me la disprezzata, perla di immenso valore, vieni a me la postulante, o tu che da altri foste gettato via con suprema ingiustizia; stabilisci in me e molte dimore in me si costruiranno , sii mio patrono e sarò molto abitata; rendi celebre il tuo nome in me e da ogni parte si parlerà di me; mentre altri hanno respinto te portatore di luce, io che vivo nel buio mi protendo verso la tua luce; mentre gli altri si sono fatte beffe di te, nutrimento di parole viventi, io invece come una piccola cagna bramo di ricevere le briciole delle tue reliquie’. Un primo miracolo nelle Eolie del Santo Infine, dice ancora S.Teodoro, quando finalmente l’arca del Santo fu a riva si verificò un miracolo: Poiché allora Vulcano, com’è chiamato, essendo adiacente all’isola, incombeva rovinoso sugli abitanti del circondario, fu allontanato durante le tenebre e in qualche modo fu bloccato a distanza, a sette stadi in direzione del mare, tanto che fino ad oggi è manifesta a quelli che guardano tale promontorio la collocazione del fuoco obbligato ad allontanarsi”. Una terza narrazione é quella di San Giuseppe l’Innografo (816-886) La testimonianza del monaco nato in Sicilia ma vissuto in Grecia – considerato uno dei più grandi poeti innografici e liturgici della Chiesa Ortodossa - ripete la versione di S. Teodoro Studita e mette in bocca al vescovo Agatone un inno all’Apostolo Il canto del vescovo Agatone «Benvenuto, o porto di salvezza per coloro che lottarono nel mare delle calamità, benvenuto o divino fiume del Paraclito, che sei inondato dalle sorgenti della verità e sfoci in mare tra onde di pietà (…) Colei che da povera è diventata ricca; infatti oggi ho ricevuto in dono un tesoro grandissimo. Io non apparirò manchevole di nulla, in confronto alla famosa Roma, che ha come suoi abitanti i beati Pietro e Paolo; ho infatti Bartolomeo come abitante. Voi tutte mie isole, rallegratevi con me oggi, voi tutte città, gioite con me per sempre. Presso di voi giacciono i corpi di molti santi, a me ne basterà uno al posto di tutti”. Altri elementi della tradizione: la data e il luogo di arrivo delle spoglie Altri elementi forti anch’essi di un’antica tradizione dicono che il Santo sarebbe giunto il 13 febbraio del 264 d.C., nella piccola spiaggia di Portinenti, e che la sua bara sarebbe rimasta lì fino ai nostri giorni. Il primo documento a noi noto, che riporta gli estremi del giorno e del mese, è però del 1617 e si tratta di un atto notarile di mons. Alfonso Vidal (1599-1617) del 9 giugno di quell’anno. La più antica fonte letteraria che espressamente menziona la baia di Portinenti è il «Disegno storico» di Pietro Campis che è del 1694. La scena dell’arrivo a Portinente in un dipinto su ceramica Agatone I , figura storica o mito? Che quel vescovo Agatone che accolse le spoglie di S.Bartolomeo nel 264, sia una figura storica vi sono molti dubbi. Anzi qualcuno e, Luigi Bernabò Brea fra questi, lo esclude. Eppure il can. Carlo Rodriquez nel suo saggio «Breve cenno storico sulla Chiesa Liparese» del 1841 parla di manoscritti greci conservati nel Monastero di Grotta Ferrata che confermerebbero la data dell’arrivo dell’Apostolo e la presenza del vescovo Agatone che sarebbe morto a 90 anni nel 313. Dopo Agatone, sempre secondo il Rodriquez, non si conoscono altri vescovi fino al vescovo Augusto nel 501. Una riproduzione del dipinto della Cattedrale La Chiesa di Lipari fu fondata da San Paolo? Ma quando giunge il cristianesimo a Lipari? «E’ credenza – scriveva il Can. Carlo Rodriquez nel 1841– che la fede cristiana si fosse stabilita in Lipari sin dal tempo degli Apostoli; e Paolo (l’Apostolo) venuto in Reggio, si reputa per mera tradizione passato da Messina , e per la vicinanza di quella provincia a quest’isola qui esservi condotto, predicare il Vangelo ed innalzare alla cima del sacerdozio per la prima volta Liparese Chiesastico. Ma niun documento esiste per rafforzare opinione siffatta…». Iacolino: « Un mito rinascimentale» Osserva Iacolino che il fatto che nell’autunno del 60 “ S.Paolo aveva compiuto quel celebre quanto avventuroso viaggio da Cesarea sino a Roma toccando Malta, Siracusa e Reggio Calabria diede motivo, in età rinascimentale, ai cittadini di Siracusa, di Reggio, di Messina e di Lipari di ritenere che i loro padri antichi avessero dall’Apostolo attinto i primi rudimenti della fede e che lui stesso nei loro rispettivi paesi avesse costituito le prime accolte di neofiti e insediato i primi vescovi. Anche se Lipari era un punto abituale di transito o di sosta nell’intreccio dei traffici che - ad agevolare – ma allo stesso tempo a contrastare – la penetrazione della nuova fede c’era, assai diffusa fra la gente di cultura ellenista, una sorta di religione sincretica. Le «religioni della salvezza» Questa religione assommava i culti di Iside, di Demetra, di Serapide e – in particolare a Lipari – di Dionisio; culti misterici che ben rispondevano ai bisogni spirituali del popolo minuto e dei ceti aristocratici, ed erano per molti aspetti assai vicino alle credenze cristiane. Nel loro insieme si potevano definire “religioni della salvezza” giacché davano conforto alle angustie quotidiane e, attraverso l’iniziazione, le pratiche devote e l’osservanza di prescrizioni etiche e rituali, assicuravano la beatitudine dell’oltretomba. Quindi si può pensare che anche a Lipari già fin dei primi decenni della nuova era si sentiva parlare della nuova religione cristiana, magari in modo confuso e mischiato con elementi di queste “religioni della salvezza”. Dionisio dio del vino e della vite e poi dio del teatro e degli spettacoli La posizione di Bernabò Brea su Sant’Agatone «E’ del tutto inconsistente, dal punto di vista storico, un primo vescovo, Sant’Agatone, che risalirebbe al III secolo, al tempo cioè della persecuzione di Valeriano. La sua figura è probabilmente immaginaria. Il nome sarebbe stato preso da quello del vescovo, assai più tardo, ricordato da San Gregorio Magno, l’unico dei primi vescovi di Lipari il cui nome fosse ricordato da fonti letterarie. Sant’Agatone compare infatti solo in fonti tarde e criticamente inattendibili e cioè nel complesso di leggende composte fra il VII ed il IX secolo, che fiorirono intorno ai santi martiri di Lentini Alfio, Cirino e Filadelfio. Il primo vescovo di cui si abbia notizia certa è Augusto che partecipa a due concili tenuti a Roma al tempo del Papa Simmaco….». Cioè inizio del VI secolo. La posizione di Duchesne Eppure Bernabò Brea non può trascurare l’opinione di uno studioso autorevole come Mons. L. Duchesne ( 1843- 1922) archeologo e storico della Chiesa me quindi aggiunge: «Il Duchesne osserva peraltro che il vescovado di Lipari deve essere assai più antico di questa prima data in cui è documentato. Ritiene infatti poco verosimile che nei tempi tristi e torbidi del V secolo si siano fondati vescovati in queste regioni d’Italia e ritiene, come quasi dimostrato, che ogni vescovato constatato prima della guerra gotica, vuol dire prima del 525, deve risalire almeno al IV secolo più o meno inoltrato”. A questo punto si impongono due domande cruciali Ma allora a quando risale l’avvento del Cristianesimo a Lipari e la costituzione di una Chiesa Liparense? Ed proprio vero che il S. Agatone dato come primo vescovo di Lipari sia una figura leggendaria confusa con l’Agatone di cui parla S. Gregorio Magno alla fine del VI secolo? Le testimonianze epigrafiche Per sapere che la Chiesa esiste a Lipari ben prima del 501 abbiamo testimonianze epigrafiche cristiane in lingua greca. E’ della seconda metà del V secolo una scritta marmorea per la morte di una giovane ventenne chiamata Proba dove si parla dell’esistenza della “Santa e Cattolica Chiesa dei Liparéi”. Un’altra epigrafe riguarda un fedele morto nel 470. La lapide è oggi al Museo di Lipari e proviene dall’area di Sopra la Terra o Maddalena. Una terza epigrafe è quella di Asella che risale al 394 che rivela moduli culturali e di costume così squisitamente cristiani da far pensare che quando essa fu scritta il cristianesimo fosse presente a Lipari da almeno un secolo. Ma è veramente inconsistente storicamente la figura di Agatone I ? Come si può vedere la documentazione archeologica ci ha portato alla fine del IV secolo se non addirittura alla fine del III. Ed a questo punto che ci chiediamo se sia del tutto inconsistente la figura di Agatone I. Proprio il Duchense, nel passo citato da Bernabò Brea, continua : “Potremmo giungere sino alla metà del sec. III se fosse prudente fidarsi della leggenda bizantina di Leontini”. E proprio su questa leggenda dobbiamo puntare la nostra attenzione. La leggenda di Lentini: la critica Questa leggenda di Lentini si chiama “Passio de Sanctis Martyribus Alphio, Philadelphio, Cirino Leontinis in Sicilia”e parla del supplizio di tre martiri fra il 254 e il 259 al tempo delle persecuzioni dell’imperatore Valeriano, scritta dal monaco siculo-greco Basilio nel 964. A parte il fatto che narra di fatti accaduti ben sette secoli prima, presenta numerosi problemi critici che danno scarsa attendibilità a ciò che vi è narrato e descritto: pletorica la massa dei personaggi, troppi i misteriosi interventi dall’alto e le guarigione miracolose, frequenti le fantasiose apparizioni di santi amplificate sino all’inverosimile. La leggenda di Lentini : il contenuto Un ampio estratto di questa leggenda si può trovare in G.Iacolino, Le isole Eolie nel risveglio delle memorie sopìte (Il primo millennio cristiano) pagg 72-85. Qui ci limitiamo alle linee essenziali. La leggenda parla di tre fratelli ( Alfio,Filadelfio e Cirino) nativi di un fantomatico paese dei Masconi che al tempo dell’imperatore Licino e del suo consigliere Valeriano, dopo essersi convertiti al Cristianesimo, vengono denunciati, arrestati e torturati. Spediti a Roma e consegnati a Valeriano sono rimandati in Sicilia a Taormina per essere giudicati dal prefetto Tertillo che solitamente dimorava a Lentini. Qui una nobildonna cristiana Tecla riesce a convincere Alessandro, braccio destro di Tertillo, a rilasciare i giovani. Ma lo stesso Alessandro, a questo punto cade in sospetto al tiranno e deve fuggire. Ed è in questa fuga che Alessandro incontra Agatone , vescovo di Lipari, anch’esso in fuga dalla sua isoletta. Nelle due immagini piccole in alto un trittico dei tre santi Alfio, Filadelfio e Cirino e un quadro che li raffigura in carcere. Sotto a sinistra una veduta di Lentini e a destra il santuario dei tre martiri a Trecastagni La leggenda di Lentini: la fuga di Agatone da Lipari A questo proposito Basilio narra : “C’era nell’isola dei Liparitani un Vescovo che si chiamava Agatone, uomo pio, timorato di Dio e abbastanza erudito nelle Sacre Scritture. Ora siccome con violenza grandissima e con enorme ferocia l’empio Diomede perseguitava colà i cristiani e ne uccideva molti, costui cercò anche del Vescovo Agatone per dargli la morte. Però Iddio il quale conosce ogni cosa prima che avvenga, dispose anche questo fatto straordinario : il beato Agatone, vedendo quel che avveniva in quest’isola e nelle altre isole vicine dove i ministri del demonio uccisero tutti i Cristiani, consultatosi con i principali cittadini, abbandonò il suo paese e con tre serventi s’imbarcò su un vascello e navigò verso la Sicilia…”. La leggenda di Lentini: Agatone mette le basi della Chiesa di Lentini Agatone sbarca ai piedi del monte Téreo e trova riparo in una spelonca sulle pendici del monte. Qui incontra Alessandro che si era dato alla macchia, lo istruisce nella cose della fede e lo battezza imponendogli il nuovo nome di Neofito. Più tardi gli conferisce il presbiterato e lo propone vescovo di Lentini. Intanto i tre giovani erano stati ripresi ed avevano subito il martirio. Gettati in un pozzo i loro corpi sono recuperati da Tecla. Il tiranno Tertillo muore trucidato personalmente dai tre fratelli discesi dal cielo. La chiesa madre di Lentini dedicata a Sant’Alfio a destra. A sinistra un’altra statua dei tre santi La leggenda di Lentini: Agatone torna a Lipari Così la Chiesa ritrova la sua libertà e a Lentini la popolazione si converte per opera di Agatone e procede nel suo cammino di fede sotto la guida sapiente del giovane vescovo Neofito. “Dopo alcuni giorni i primi cittadini di Lipari e altri del Clero, avendo per divina rivelazione saputo che il beato Agatone era in Mesopoli di Lentini, presi da grande nostalgia, vennero alla casa di Tecla, e a lui dicono che la persecuzione contro i Cristiani è cessata e che essi ormai vivono tranquilli”. E così Agatone torna a Lipari. Secondo Iacolino Basilio avrebbe rispettato la verità di fondo Al di là della prolissità e delle iperboliche digressioni , secondo Iacolino, il monaco Basilio avrebbe rispettato la verità di fondo. Della persecuzione da cui Agatone è fuggito esistono riscontri storici, così come della successiva pacificazione ai tempi dell’imperatore Gallieno. Se quella di Basilio è fantasia perché allora non far risalire la genesi della Chiesa Leontinese a quella di Siracusa che, rispetto alla periferica Chiesa di Lipari, vantava più nobili memorie e più solide tradizioni? Perché scegliersi un promotore fuggiasco per paura della persecuzione? Perché il ruolo che a Lentini esercitò il vescovo di Lipari doveva avere radici storiche da non potere sottacersi. Una tesi suffragata dallo storico Gaspare Lancia di Brolo Questa tesi è suffragata dello storico benedettino Domenico Gaspare Lancia di Brolo, vissuto nel XIX secolo. Egli ritiene che “ l’autore di questi atti non abbia fatto altro se non stendere, nei medesimi luoghi dove avvennero i fatti narrati, le tradizioni che, poche scritte e molte orali, correvano su questi santi nella stessa Lentini, però, allargandole e infiorandole con discorsi e dettagli che, sebbene esagerati, non dovevano essere privi di fondamento: perciò ritengo questi atti, con tutti i loro difetti, essere tanto più preziosi per la nostra storia quanto ogni altra memoria di quell’epoca è perita”. La plausibilità dell’anno 264 Comunque ammesso che San Bartolomeo sia giunto a Lipari quando vescovo era Agatone e ammesso che Agatone I potrebbe anche essere una figura storica che governò la Chiesa di Lipari dal 251 al 313 ci sarebbe da chiedersi come mai è rimasta nella memoria una data così precisa : non solo l’anno ma anche il mese e il giorno. Per quanto riguarda l’anno, se riconosciamo il collegamento con Agatone I qualsiasi anno diventa plausibile se compreso fra il 251 ed il 313. Se poi consideriamo che in tempi assai vicini al 260 in alcuni territori dell’oriente ferveva un clima di livore antiromano ed anticristiano mentre in occidente l’imperatore Gallieno (260-268) istaurava un’era di pacificazione religiosa, la data del 264 potrebbe essere probabile. Perché il 13 di febbraio? Quanto al mese e al giorno Iacolino avanza una tesi. Nell’Italia romana era diffusissimo il “culto dei padri” che venivano onorati nelle feste “parentalia”. Le parentalia si celebravano dal 13 al 21 febbraio mentre a partire dal secolo IV, in onore del Genius del popolo romano (genius loci) si tenevano giochi per due giornate consecutive, l’11 e 12 febbraio. Si potrebbe ritenere che a Lipari fosse praticata almeno una delle sue celebrazioni, forse quella del Genius loci ( l’11 e 12 febbraio) e che, conclusasi tale festività pagana, i fedeli dell’isola facessero commemorazione del loro Genius loci impersonato dall’Apostolo San Bartolomeo. In seguito si motivò l’adozione di codesto giorno collegandolo all’arrivo del sacro corpo a Lipari. S. Bartolomeo nel Giudizio Universale Come arrivarono le spoglie del Santo… al di là della leggenda Più facile è immaginare come avvenne il viaggio descritto dalla leggenda in un periodo in cui si era sviluppata nella cristianità un’ansia per il recupero delle “memorie” della loro religione e per «cose», in genere, cui si diceva erano state trasmesse le virtù carismatiche e taumaturgiche dei rispettivi santi. Si può supporre – osserva Iacolino - che non lontano dall’arcipelago, nel basso Tirreno, nel III secolo che potrebbe essere anche il 264, ad una nave liparea, con equipaggio cristiano, venne fatto d’accostare una nave forestiera. Era questo un accadimento consueto. Con sorpresa i marinai nostri appresero della “disponibilità” di un “carico” di corpi santi . Forse resti di oscura provenienza, ma si giurava dall’altra parte, essere stati recuperati o trafugati sui lidi d’Oriente. L’acquisto della reliquia Fra i corpi trasportati, affermavano i venditori, vi era anche il corpo di San Bartolomeo. Espressa l’ opzione per il corpo dell’Apostolo, l’imbarcazione liparea deve aver scortato l’imbarcazione forestiera sino alla propria isola e qui, nella rada di Pertinente, in tutta riservatezza, deve essere avvenuto lo sbarco e la consegna del prezioso carico. Dopo di che gli stranieri andarono per la loro strada forse verso altri lidi per consegnare altre reliquie. Il Vascelluzzo in argento contiene una reliquia del Santo Alla base della scelta del Patrono Questa ipotesi di una opportunità che si era posta di ottenere la reliquia – reale o supposta - di un Santo così prestigioso, apostolo e martire, collegato ad un sentimento di forte attenzione in una comunità cristiana ancora molto ristretta e caratterizzata da una identità che voleva distinguersi dal paganesimo greco e romano ancora dominante, forse convince di più di altre supposizioni che vogliono il culto di san Bartolomeo in qualche modo connesso o derivato da culti pagani preesistenti come quelli di Efesto, Dionisio e di Apollo. La reliquia del dito nel braccio in argento in pellegrinaggio a Ustica La consistenza della Chiesa liparese nel III secolo Quanti potevano essere i cristiani nella Lipari del III secolo? Sulla consistenza della popolazione di Lipari sappiamo solo che nel I secolo a. C. le Eolie contavano approssimativamente 1.200 abitanti e due secoli dopo il numero doveva essere di poco cresciuto. Di questi circa un migliaio risiedevano nella città alta e, in minima parte, in pianura. Gli altri, contadini e pastori, erano sparsi qua e là per le isole minori. E’ credibile che a metà del III secolo il nucleo dei cristiani di Lipari risultasse composto da non più di cento o duecento aderenti. Comunque per quanto esiguo fosse il numero dei cristiani, un capo spirituale della famiglia dei credenti non poteva mancare, ed erano gli stessi fedeli che autonomamente lo eleggevano. Era, inoltre , la stessa insularità del luogo che richiedeva la presenza costante di un moderatore deputato all’esercizio del culto che chiamarono presbyteros, che vuol dire anziano, o episcopos che significa sovrintendente o presidente. L’ecclesia dei primi cristiani A Lipari, come altrove, i credenti si ritrovavano insieme ai fratelli di fede nelle domeniche che era il «giorno del Signore» cioè il primo giorno della settimana dopo il sabato quando Gesù si era mostrato risorto, nei giorni festivi e nelle veglie notturne o vigilie che li precedevano ( giacché sulla scorta della tradizione ebraica la festività cominciava al tramonto della vigilia), in un locale chiuso e appartato per leggere le scritture, per cantare i salmi, per celebrare la cena eucaristica, per ascoltare il magistero del vescovo e per programmare gli interventi caritativi che la stessa assemblea segnalava. Il vescovo stava a capo della mensa assiso su di uno scanno sostenuto da pedana, con schienale e braccioli. Era questo seggio che si chiamava cathédra. Il luogo dove si teneva l’adunanza si chiamava semplicemente ecclesia, termine con cui si indicava l’adunanza dei fedeli e il luogo in cui si teneva. A Lipari i primi cristiani si riunivano alla Maddalena? La chiesa come edificio non aveva la funzionalità né le forme architettoniche, né le dimensioni di quelle che vediamo oggi. In origine, il luogo del raduno comunitario, altro non era che una vasta sala, o cenaculum, al piano terreno o al primo piano di una casa patrizia di campagna, oppure un’edicola funeraria o uno dei tanti ipogei cimiteriali di periferia e, ove ne esistevano, le catacombe, che erano pur esse cimiteri privati. Tutto fuori mano amavano fare i primi cristiani, oltre l’estremo limiti dell’abitato. E ciò al semplice scopo di non suscitare le reazioni dei pagani. Alla luce di queste considerazioni si può pensare che l’ambiente della prima ecclesia dei Liparei fosse una villa aristocratica che sorgeva sull’elevato dosso della Maddalena. Lì accanto dovette essere innalzato ben presto un edificio funerario o, fors’anche, venne scavato un ipogeo o delimitato uno spazio cimiteriale dove potessero trovare decorosa sepoltura i membri della comunità. Uno degli ipogei che ancora sussiste …nell’abbandono I luoghi dei primi cristiani Quello di convivere con i morti nella prospettiva della resurrezione dei corpi e del giudizio di Dio, era una caratteristica dei cristiani di allora che definivano koimetérion ( cimiteri) cioè dormitori quelli che i pagani chiamavano necropoli. Ad avvalorare la tesi che la prima ecclesia fosse alla Maddalena si potrebbe citare la tradizione locale che vuole che la “cassa” di San Bartolomeo sia approdata a Portinente e che le spoglie siano state tumulate là dove oggi sorge la chiesetta di S. Bartolomeo extra moenia. Proprio nel luogo dove oggi sorge questa chiesetta, e nella piazzetta antistante dovette sorgere nel IV secolo dopo l’editto di Costantino ( a.313), la prima sede episcopale e la prima Cattedrale di Lipari. Un edificio modesto che col passare dei decenni, con l’accrescimento dei fedeli e per la diffusione della fama dei poteri taumaturgici della reliquia, subì trasformazioni e ingrandimenti fino a divenire quel “templum magnum” nel VI secolo di cui parla Gregorio di Tours. La Cattedrale è trasferita al Castello Più tardi, negli anni a cavallo tra il IV e V secolo, quando il Cristianesimo era ormai penetrato nella storia e nel costume degli isolani, è probabile ( anche se non ci sono riscontri storici), che la Cattedrale sia stata trasferita nella città alta ed abbia preso il posto di dove un tempo vi era il tempio di Efesto. Si sarebbe trattato di una basilica ad aula unica, con volta ogivale. Nell’altra chiesa di San Bartolomeo si continuò a custodire il corpo del Santo e quelli dei vescovi liparitani. La Cattedrale al Castello Le Eolie anticamera dell’Inferno Ancora un secolo e per la recrudescenza dei fenomeni vulcanici, in una Italia in cui imperversavano i barbari, l’arcipelago delle Lipari venne sempre più percepito, soprattutto dal mondo cristiano, come vestibolo dell’inferno e colonia di Satana, donde i demoni uscivano per operare mali d’ogni sorta. E’ lo stesso S. Gregorio Magno (590-604) che nei suoi Dialoghi parla di un episodio riguardante la dannazione di Teodorico re degli Ostrogoti (493-526) che aveva compiuto atti gravi verso i cattolici , si era macchiato di gravi delitti come l’uccisione del filosofo Severino Boezio e del patrizio Simmaco ed in un carcere di Ravenna aveva fatto rinchiudere il papa Giovanni I che vi morì di stenti. A sinistra, il Castello di Verona e il mausoleo dedicato a Teodorico. A destra, un mosaico con la corte dell’imperatore Il racconto di Gregorio Magno «Il mio domestico Giuliano mi fece questa narrazione al tempo del re Teodorico. Il padre di mio suocero si era recato in Sicilia a riscuotere certe somme, e stava ritornando in Italia. La sua nave approdò in un’isola che si chiama Lipari. E proprio colà ci viveva un eremita di grande virtù…Appena l’uomo del Signore li vide, tra le altre cose di cui parlò, rivolse loro questa domanda: Sapete voi che il re Teodorico è morto? Subito quegli gli risposero: Non sia mai! Noi tutti lo abbiamo lasciato in buona salute e niente di tutto questo ci è pervenuto sin’ora. E il servo di Dio soggiunse: Eppure è morto; proprio ieri, all’ora nona, trascinato tra papa Giovanni e il patrizio Simmaco, seminudo e scalzo e con le mani legate dietro, fu gettato in questo vicino calderone di Vulcano». Il dipinto della Cattedrale raffigurante Teodorico precipitato nel Vulcano mentre il monaco San Calogero mostra la punizione divina del re ai poveri che ha in cura Il commento del Papa “Che cos’altro dobbiamo dedurre se non che, in qualsiasi luogo del mondo, nelle isole di questa terra si sono aperte le bocche dei tormenti col fuoco che si riversa? Queste bocche – come raccontano coloro che le hanno viste – squarciandosi di continuo le fenditure, si allargano affinché, dato che si approssima la fine del mondo, quanto più è certo che colà dovranno raccogliersi i destinati al fuoco eterno, tanto più appaia evidente che quei medesimi luoghi dei tormenti si vanno dilatando. Il che l’onnipotente Dio ha voluto rendere manifesto a correzione di coloro che vivono in questo mondo affinché le menti degli infedeli(…) vedano i luoghi dei tormenti, luoghi cui essi stessi si rifiutano di credere sebbene ne abbiano sentito parlare” Anticamera dell’inferno? Forse oggi Gregorio Magno avrebbe qualche dubbio. Oppure no… Le isole luogo di confino e di…eremiti Queste credenze erano alimentate da eremiti che nelle nostre isole venivano di tempo in tempo a soggiornarvi. Uomini virtuosi, fuggiti dal mondo che reputavano invivibile o scacciati dalla loro terra d’origine, che qui trovavano il ristoro dell’anima immergendosi nel raccoglimento e sperimentando virtù e carismi nell’aspro confronto con i demoni. Intanto le isole continuavano ad essere luogo di confino e tanto più cresceva la fama di anticamere dell’inferno tanto più appariva grave la pena inflitta a chi qui veniva inviato in esilio. La memoria di San Calogero Le Eolie diventano fra il V e il X secolo, uno dei punti di raccolta di monaci itineranti, ecclesiastici rifugiati, eremiti contemplativi. Della gran parte di questi anacoreti non si conserva il nome ma solo l’appellativo generico di Calogero, voce greca che vuol dire buon vecchio o vecchio benefico. E questo appellativo non tardò a diventare nome comune. La leggenda più accreditata racconta che Lipari e Sciacca ne ebbero uno in comune ( tra il 521 e il 561). Questo Calogero si fece taumaturgo e operò molti miracoli, riscoperse le terme di ponente che da lui presero il nome. I Liparesi conservarono per lui un’ammirata memoria e gli attribuirono persino l’estinzione del cratere della Forgia Vecchia a Pirrera, verificatasi verso il IX-X secolo e quindi almeno tre secoli dopo la sua scomparsa. Pala del 700 conservata nella chiesa di San Giuseppe che raffigura la Trinità in alto, la Madonna al centro e sotto i tre santi protettori delle Eolie S.Bartolomeo, S. Calogero e Sant’Agatone A San Calogero sono collegate le terme liparesi Alle origini della devozione della Madonna del Terzito a Salina Sempre ad uno di questi monaci , in quegli anni ( VI secolo) a Salina e precisamente alle falde del Monte dei Porri, si deve l’avvio di una tradizione e di un culto dedicato alla Vergine Maria. Questo monaco aveva costruito un piccolo oratorio e dipinto all’interno l’immagine della Madonna. Questo culto verrà ripreso nel 700 e poi nel 1622 qualificandosi come devozione a Maria SS. Del Terzito. Due visitatori vengono alle Eolie per cercarvi la bocca dell’Inferno L’idea che le Eolie fossero l’anticamera dell’inferno continuò nei secoli come dimostrano due documenti. Il primo, cui abbiamo già fatto cenno, riguarda un viaggio nell’estate del 729 ed ha per protagonista Willibald di Wessex quando era solo un giovane monaco di ritorno da un pellegrinaggio a Gerusalemme. Il secondo riguarda un viaggio del monaco Gregorio nell’ottobre del 787 che passa per le Eolie mentre ritornava dal Concilio Niceno II. La visita di San Villibaldo Willibald l’isola “Vulcana” dove c’è l’inferno di Teodorico. Abbiamo già visto che Willibald sale sul cratere per vedere come è fatto l’inferno. Un cratere che probabilmente non è quello di Vulcano ma del Monte Pelato “Dopo avere osservato codesti vapori prodotti dall’ardore di questo orrendo e tremendo fuoco e codesti straordinari spettacoli di fumo igneo e nauseabondo, levate subito le ancore, navigarono verso la chiesa di San Bartolomeo che trovasi sulla costa del mare. E vennero a quei monti che si chiamano Didimi: e là, stando in preghiera, rimanevano per un’intera notte. E di là ripreso il viaggio…”. C’è solo da osservare che la chiesa di San Bartolomeo è quella extra moenia che probabilmente inglobava anche San Giuseppe. Questa è la chiesa di Marina corta disegnata dall’abate Maurando che era al seguito del Barbarossa nel 1544. Probabilmente è il «templo magno» dedicato a S.Bartolomeo di cui parla Gregorio di Tours. «Quando un iniquo trapassò di vita...» L’altra testimonianza invece non è interessata ai fenomeni naturali ma a trarre, da questi, insegnamenti morali. “Se qualcuno non vi presti fede – suggerisce il monaco in relazione al pentimento – consideri l’isola di Lipari che tanto va soggetta al fuoco, in guisa da far bollire il mare, e ad ingoiare le navi che ivi si trovano, mentre ne scorre liquefatta la picea lava, e si producono tremendi tuoni da quell’isoletta. E allora tutta Lipari è scossa e trema; l’arena del mare si alza tutta infuocata fin dal profondo e sollevasi ad infinite altezze, e viene trasportata da qualunque vento per sorte spiri, e va qua e là a cadere. Alcuni dicono ancor questo, che quando si ha notizia che qualche empio o iniquo trapassò di vita, allora que’ luoghi soffrono eruzioni di fuoco e tuoni, quasi che ivi sian condannate a punizione quelle anime….”. Il culto dei defunti e l’isola di Vulcano Questa nomea delle Eolie come porta dell’Inferno ha un seguito. Infatti passa qualche secolo e nel 998 l’abate di Cluny Sant’Odilone fissa il 2 novembre come giornata del suffragio dei defunti da celebrarsi in tutti i monasteri della sua congregazione. In seguito l’usanza attecchì in diverse diocesi d’Europa fino a che , a cominciare dal secolo XVI, la Chiesa ha stabilito la commemorazione di tutti i defunti come pratica universale. Ora questa pratica in qualche modo è legata all’isola di Vulcano come narra San Pier Damiano (1007-1072), benedettino, abate, dottore e cardinale di Santa Romana Chiesa, nella sua “Vita Sancti Odilonis abbatis cluniacensis et confessoris, ordinis Sancti Benedicti”. A Vulcano si odono i tormenti delle anime dei malvagi…. Narra S.Pier Damiano che un religioso oriundo della città di Rodez, ritornando da Gerusalemme è costretto, per i venti, ad approdare a Vulcano qui incontra un eremita che gli chiede se conosca l’abate Odilone e il suo monastero. Avutane assicurazione l’eremita fa questo racconto: «Ci sono qua vicino dei luoghi dai quali fuoriescono enormi cumuli di fiamme vorticose, e in questi luoghi le anime dei malvagi sono sottoposte a diversi tormenti a seconda della qualità dei loro peccati. Ad accrescere le loro sofferenze ci sono deputati un gran numero di demonii i quali ogni giorno rinnovano le pene, e continuamente sottopongono le anime a reiterate torture. Questi diavoli io li ho spesse volte sentiti urlare con alti lamenti e piangere con voce dolente per la ragione che, con le orazioni e le elemosine di certuni che concordemente tramano contro di essi, di frequente dalle loro mani vengono strappate le anime dei condannati. Il decreto dell’abate Odilone da il via alla commemorazione dei defunti il 2 novembre Tra l’altro, questi demoni fanno assai dure rimostranze nei confronti della comunità cluniacense e del suo abate, giacché a causa di questi vengono privati delle prede che di diritto gli appartengono. Pertanto, nel nome terribile di Dio io ti scongiuro di riferire fedelmente ai venerabili confratelli le cose che ti ho detto, e di ricordargli anche da parte mia che devono sempre più perseverare nelle elemosine e nelle orazioni, e principalmente con l’intenzione di liberare dalle mani dei demonii tutti coloro che da essi vengono tormentati, cosicché dalle quotidiane perdite ne venga pianto al nemico del genere umano e si moltiplichi l’esultanza del cielo». San Pier Damiani assicura che fu proprio questo racconto a convincere l’abate Odilone ad emanare il decreto per i suoi monasteri istituendo la commemorazione dei defunti il 2 novembre. Sant’Odilone abate di Cluny L’abazia di Cluny nella storia Il sacco di Lipari dell’838 Che Lipari e le Eolie fossero conosciute come l'entrata dell'inferno e del purgatorio con i diavoli che parlavano alle persone, forse interessava ed impressionava i cristiani ma non toccava minimamente gli arabi che in quegli anni – come abbiamo visto - invadevano ed occupavano la Sicilia. Diverse volte assalirono e depredarono Lipari ma il sacco dell’838 fu il più tragico e toccò la fantasia di molti scrittori del tempo. Fu un attacco devastante ed un eccidio generalizzato. Da questo si salvarono un certo numero di famiglie del contado che per generazioni e generazioni continuarono a sopravvivere e “tre o quattro monaci che quei barbari avevano stimati degni di commiserazione o di disprezzo” (dal manoscritto Lugdunense). I saraceni si accanirono sulla chiesa di San Bartolomeo In particolare i saraceni si accanirono sulla Chiesa di San Bartolomeo dove c'era il corpo di San Bartolo - e molti extra voto visto che Lipari era divenuta, proprio grazie al Santo, meta di numerosi pellegrinaggi. Sulla devastazione della chiesa, la dispersione delle ossa, il loro recupero e la traslazione da Lipari a Benevento che ne seguì, abbiamo diverse fonti contemporanee o di poco posteriori, una delle quali, peraltro, di gran lunga preminente – afferma Bernabò Brea - dal punto di vista storico su tutte le altre. E’ il cosiddetto manoscritto Lugdunense steso da un anonimo chierico, riportato in Acta Santorum del 1741, che si rifà al racconto di Bartolomeo, vescovo di Narbona che era presente nell'839 alla riposizione delle spoglie del Santo a Benevento. I saraceni disperdono in mare le ossa dell’Apostolo “ In quest’isola – dice il manoscritto – (…), l’Apostolo di Dio era circondato dalla venerazione dovutagli nella splendida basilica, di mirabile struttura, costruita in suo onore e nel corso di moltissimi anni aveva manifestato la sua presenza con i molti benefici (…). Improvvisamente, essendo stata la Sicilia devastata e sconvolta dai Saraceni, anche l’isola [di Lipari], a seguito di un’incursione nemica, fu quasi completamente spopolata. Mentre il vescovo del luogo ed il clero, con la popolazione e i monaci, subivano una sorte miseranda o portati via in cattività o passati al fil di spada, [i Saraceni] irrompono anche nel monastero dove riposava il venerabile corpo dell’Apostolo, aggrediscono i monaci, distruggono ogni cosa e, sotto la zelante istigazione del diavolo, disperdono in mare anche le stesse venerande ossa dell’Apostolo, frammiste ad altre ossa, affinché mai le sue reliquie potessero essere ritrovate e riconosciute. I monaci raccolgono le ossa che brillano alla luce delle stelle Ma per la clementissima provvidenza di Dio onnipotente furono risparmiati ivi tre o quattro vecchi monaci, che i barbari avevano considerato degni di commiserazione o di disprezzo a causa della loro età. E ad essi, desolati e piangenti, il beato Apostolo si degnò di presentarsi in apparizione e rincuorandoli con dolce consolazione, li invitò a ricercare solleciti le sue ossa rigettate sulla riva e ad adoperarsi a raccoglierle.(…)’Andate nel segreto silenzio della notte lungo la riva del mare, e dove vedrete un raggio brillare come la luce di una stella, raccoglietele con confidenza e nascondetele diligentemente, perché possano essere di giovamento ai fedeli’. Andarono dunque, e raccoltele sull’indizio del promesso splendore, di nuovo le collocarono con ogni gioia e diligenza sotto il segreto di un altare. Arriva intanto una nave di beneventani che con le buone o le cattive vogliono il corpo del Santo Intanto arriva a Lipari una nave di beneventani che trovano l’isola spopolata e corrono alla chiesa del Santo. «La grande fama della virtù dell’Apostolo aveva fatto sì che essi desiderassero, se fossero riusciti a trovarlo, trasferire alla propria città il patrocinio di tanto glorioso pegno, cosa che già da lungo tempo avevano sperato e avevano tentato con molte preghiere ed anche con doni. E avendo trovato quei vecchi afflitti e dopo averli consolati con cristiana pietà, chiedono decisamente ad essi di mostrare loro il dono desiderato. Ma poiché quelli si scusavano e non volevano che questo luogo [cioè l’isola di Lipari] fosse privato di un così grande patrocinio, i beneventani li aggrediscono in modo più brusco, minacciandoli con le spade snudate di una morte immediata se non mostravano loro con somma celerità ciò che essi chiedevano». Un argomento… «di estrema necessità» «Vinti da questo argomento di estrema necessità, esibirono il divino tesoro, pregando ardentemente che, dovunque esso fosse trasferito, fosse concesso anche a loro di seguirlo e di restare con esso. Il che essi immediatamente e molto volentieri accettando e avendolo confermato con giuramento, svuotano il loculo del venerando pegno, e temendo le insidie del nemico, velocissimamente discendono [alla nave]. E in verità non appena, saliti sulla nave, avevano cominciato a solcare il mare con favorevole soffiare del vento, si trovarono ad essere inseguiti dalle navi dei nemici che continuavano ad avvicinarsi pericolosissimamente L’Apostolo favorisce la fuga verso Benevento Il racconto del manoscritto Lugdonense continua raccontando i miracoli che accompagnano la nave dei beneventani che sfuggono ai saraceni. Prima il soffio del vento favorevole per i fuggitivi che portano in salvo le reliquie del santo e sfavorevole per gli arabi anche se vanno nella medesima direzione. Poi, mentre dormono durante una sosta, l’Apostolo che sveglia il capitano per avvisarlo del sopraggiungere dei pirati e consentire loro così di accelerare la partenza e raggiungere felicemente il porto di Benevento dove vengono accolti dal Pontefice e dalla cittadinanza. A Benevento viene dedicata una basilica all’Apostolo «Era in quei giorni, in quelle parti, esule, per l’iniqua ostilità di alcuni, - conclude il manoscritto - un uomo di grande fede e di venerabile vita, vescovo narbonese, che, per invito del presule della predetta città, dedicò al Signore la nuova basilica dell’Apostolo, vi ripose le beate reliquie e secondo le consuetudini vi celebrò messe solenni. Ed anche, per benedizione di Cristo, inviò parti dei più pegni a molte località delle Gallie, e specialmente alla città di Lugdunum [Lione], dove già la memoria del venerando Apostolo era venerata riverentemente nella venerabile cripta dei martiri. E da lui noi, minimi fra tutti i fedeli, abbiamo appreso, per sicura relazione, tutte queste cose, delle quali per grazia del Signore, abbiamo curato di tramandare la memoria, ad edificazione dei lettori”. Benevento. Qui sotto il Duomo a fianco del quale nell’839 fu costruito un sacello per porre il corpo di S. Bartolomeo. A destra l’attuale chiesa del Santo a Benevento Altre versioni sulla traslazione Vi sono altre tradizioni della traslazione che non divergono dalla prima che in particolari del tutto secondari e talvolta aggiungono anche qualche elemento nuovo, ma sono meno diffuse, meno precise, e accentuano fortemente l’elemento miracolistico. Così la versione del monaco Martino di Benevento precisa che l’attacco saraceno avvenne nell’aprile dell’838, che uno dei monaci a custodia del sepolcro si chiamava Teodoro, che il corpo dell’Apostolo era tumulato nella basilica sulla rocca, in palese contrasto con la testimonianza di Willibald di un secolo prima che aveva visitato il corpo nella basilica sul mare. La versione contenuta nel Legendorum Vallicellense che si conclude con la data in cui il corpo fu accolto in Benevento e riposto “nell'altare nell'anno dell'Incarnazione del Signore 839, il 25 del mese di ottobre”. La contesa fra Roma e Benevento Con l’arrivo a Benevento non si conclude il lungo pellegrinare del corpo del Santo e continuano ad aumentare il numero delle città che rivendicano il possesso almeno di una parte di esso. Ricordiamo innanzitutto la lunga contesa storica fra Benevento e Roma. Il problema è se il corpo dell’Apostolo sia rimasto a Benevento dopo l’839 o invece sia stato trasferito a Roma, sull’isola Tiberina nell’anno 1000 come riferisce Pompeo Sarnelli che scrisse nel 1691. A Trasferirlo sarebbe stato l’imperatore Ottone III per adempiere ad una penitenza che gli era stata ingiunta. Secondo il Sarnelli, i Beneventani, “con pietosa astuzia gli mostrarono, invece del corpo dell’Apostolo, quello di S.Paolino di Nola (…) Ottone sel’ prese, e partì con tal fraude ingannato”. La spedizione dei Pisani nel 1035 Il secondo episodio è relativo alla incursione dei pisani nel 1035 nell’isola di Lipari riferita da Paolo Tronci. Durante questa incursione i pisani, dalla Chiesa dedicata all’Apostolo San Bartolomeo, avrebbero prelevato le reliquie della testa e di una mano che lì si conservavano. Queste reliquie “ con la dovuta venerazione” vennero trasportate a Pisa e conservate nella Chiesa Maggiore. Il Tronci conosce bene la storia di Benevento e di Roma ma osserva “che non si deve reputare cosa ripugnante, che quando il Corpo del medesimo Santo, fu traslato da Lipari, ne fosse ivi restata parte, per buona fortuna de’ Pisani”. Le reliquie rimaste a Lipari: il dito pollice e un pezzo di pelle Infine un terzo episodio riguarda il dito pollice del Santo che insieme ad un pezzo della sua pelle sono le uniche reliquie rimaste a Lipari. Ma mentre per la reliquia della pelle sappiamo come questa è pervenuta e cioè che fu donata al Vescovo Mons. Angelo Paino, dal Patriarca e dal Capitolo di Venezia nel 1926, più incerta è la provenienza del dito. Potrebbe essere rimasta qui dopo i due prelevamenti ad opera dei beneventani nell’838 e dei pisani nel 1035. A questo proposito si può notare che dalla mano prelevata dai pisani manca proprio il dito pollice. Una storia a proposito di questo pollice affiora qualche decennio dopo il sacco del 1544. La riporta Pietro Campis nella sua Historia ed afferma di ricavarla da un manoscritto, andato perduto, di don Benedetto Gualtieri, arcidiacono di Lipari. Una storia sul dito pollice tramandata dal Campis Durante la «ruina» del Barbarossa fu rubata e portata a Costantinopoli una cassettina che conteneva delle reliquie fra cui il pollice di S. Bartolomeo. Lì uno spagnolo che aveva riguadagnato la sua libertà acquistò quelle reliquie per cinquecento monete d’oro e le portò con se a Napoli dove venne colpito da una grave malattia e ricoverato all’Ospedale di San Giacomo. Sentendosi prossimo alla morte consegnò la cassettina con le reliquie al cappellano perché le facesse recapitare ai liparesi dietro compenso di cinquecento monete d’oro che sarebbero andate in beneficio all’Ospedale. Per caso si trovava a passare da Napoli don Martino d’Acugna (1585-1593) che era stato da poco consacrato vescovo di Lipari Il vescovo versò la somma e portò le reliquie a Lipari dove, nel 1585 le restituì alla Cattedrale. Oggi la reliquia del dito pollice è inserita in una teca d’argento che viene esposta sull’altare del Santo nelle quattro ricorrenze annuali delle festività a lui dedicate La reliquia della pelle arrivò a Lipari la mattina del 22 agosto del 1926 su una torpediniera della Regia Marina che diede fondo nella baia di Portinente. Essa venne riposta nel Vascelluzzo d’argento quando fu realizzato nel 1930 e benedetta il 23 agosto di quell’anno in Cattedrale da Mons. Bernardino Re. FINE Vescovi di Lipari S. Agatone vescovo dal 251 al 313. Il can. Carlo Rodriquez in “Breve cenno storico sulla Chiesa Liparese” del 1848 estratto dal Giornale letterazio nn 225 e 226 scrive che da manoscritti greci conservati nel Monastero di Grottaferrata e tradotti in latino dal can. Agatino di Castiglione e tenuti nella Chiesa di Lentini si afferma che nel 254 Agatone governava la Chiesa di Lipari. Lo stesso Rodriquez afferma che non si hanno altre notizie di vescovi che governarono questa diocesi sino ad Augusto con un vuoto quindi di 217 anni. Costantino che partecipa al I Concilio Romano. Questo vescovo ed i successivi quattro fino ad Augusto che per lui si chiamerebbe Agostino sono citati da Alfredo Adornato in “Due millenni di storia eoliana”, Messina, 2000. Aldoino che nel 364 partecipa al Sinodo di Sicilia. Nicolao che nel 384 partecipa al Concilio di Capua Enrico che nel 439 partecipa al concilio Regense . Ilario partecipa al Concilio Romano 483 Augusto (Agostino?) che partecipa a due concili tenuti a Roma ( il III e il VI , secondo altri il II e il III ) uno nell’ottobre 501 e uno nel novembre 502. Agatone II 589 deposto nel 592 da papa Gregorio Magno perché “aprì varco a vizi tutti”(Rodriquez). Paolino di Tauriana dal 592 assume il governo della Diocesi di Lipari per ordine di papa Gregorio senza abbandonare la diocesi di Tauriana. Paolino muore nel 599. Marcello che parteciperebbe ai Comcili romani III e IV. E’ quanto afferma Adornato ma il Rodriquez afferma che nel 596 Lipari ebbe un altro vescovo di cui si ignorano il nome e le gesta. Pellegrino da Lentini intervenne in un Concilio Lateranense. Altro Vescovo nativo di Lentini di cui si sconosce il nome è citato da P. Diego di Lipari Minore osservante in un manoscritto che probabilmente si trasferisce a Salina dove incontra Willibald. Comunque sempre a Salina tre giorni dopo il Natale del 700 consacra a Valdichiesa il tempio alla Madonna del Terzito (come afferma il Pirri nella sua “Sicilia Sacra”, libro 3, nota 8. Il Rodriquez afferma che dopo questo vescovo non ce ne furono altri a causa dell’invasione saracena. Ma l’invasione saracena sarebbe avvenuta almeno intorno all’838. Ed infatti sulla base dello storico austriaco E. Kislinger si può sostenere che dei vescovi che si ritenevano potessero essere designati vescovi in partibus infidelium , in realtà fossero vescovi reali. Dopo il 732 anche la diocesi di Lipari passa sotto il controllo di Costantinopoli. Basilio 787 secondo sinodo di Nicea. Leone fine VIII secolo e inizio IX comunque prima dell’815 Samuele che dal novembre 879 al marzo 880 partecipa al sinodo di Costantinopoli tenuto da Fazio. E sicuramente Samuele fu l’ultimo vescovo di Lipari di questa prima fase di vita della diocesi. Dovranno passare almeno altri 230 anni perché si parli di un nuovo vescovo di Lipari. Infatti se anche fosse vero che Lipari non rimase disabitata per il sacco dell’838 e che nell’881-882 essa nera saldamente in mano ai bizantini che avevano ripreso possesso della Sicilia con Maniace, certamente lo divenne nell’888 quando i bizantini subirono una grave sconfitta a Milazzo o nel 902 quando abbandonarono Rometta.