Le Antropologie filosofiche nella Relazione con il Sacro, il Religioso e il Teologale. Dal “Frammento divino” alla “Persona”: Induismo, Buddhismo, Giudaismo, Cristianesimo, Islam, Confucianesimo, Taoismo La Metodologia Il tema che qui si propone è vastissimo, e perciò stesso di difficile sintesi. Occorre pertanto limitare il quadro di riferimento ad alcune coordinate essenziali, chiarendone il senso e gli obiettivi. Si tratta infatti di fornire ai partecipanti una carrellata di nozioni che consentano alcune riflessioni non superficiali sul grande tema dell’uomo in relazione con la dimensione religiosa. Metodologicamente, prima di entrare in ognuno dei cinque grandi plessi teorico-religiosi e teologali, ho ritenuto di proporre una riflessione sintetica sul tema generalissimo della categoria del “sacro”. Le Antropologie e il “sacro” L’uomo ha avuto da sempre “a che fare” con il sacro, il religioso e il teologale, cioè con le tre dimensioni che si possono dire di “oltrepassamento” della condizione umana, in ogni antropologia. Ognuna di queste dimensioni, si può dire, è concettualmente “contenuta” nella successiva, proprio nell’ordine sopra proposto: il sacro come estensione che comprende il religioso, il religioso come estensione che comprende il teologale. Ogni tempo e cultura si è affacciata in modi diversi al timore e tremore … del sacro. Del “sacro” Innanzitutto, entrando nel merito, si tratta di chiarire brevemente l’etimologia e i campi semantici del termine “Sacro”, soprattutto delle aree linguistiche greco-latine e italiana. Lo ιερός [forte, potente, vigoroso, sacro] e il sacer; l’άγιος e il sanctum, il sacro e il santo [come sancito, separato, etc.], il sacro e l’esecrando, il sacro e il pro-fano, ciò che sta di fronte al fanum, al tempio, Das Heilige, etc.. Il sacro è aggettivo e sostantivo nel contempo, è una amplissima polisemia. Il senso comune della realtà prevede/contempla l’esperienza del sacro, che è, contrariamente all’opacità delle esperienze quotidiane, un’esperienza assoluta di realtà. Bibliografia essenziale sul “sacro” All’interno della questione del Sacro, si propone una ipotesi di lettura della fenomenologia del Sacro, nel senso del “come il Sacro appare” e si configura, in particolare nelle riflessioni e ricerche di Rudolf Otto. Ci riferiremo innanzitutto al volume di R. Otto Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino, e la sua relazione al razionale, [Das Heilige. Über das Irrazionale in der Idee des Gottlichen und sein Verhaltnis zum Razionalem, Breslau 1917, II ed. rivista dall’autore nel 1936], trad. it. di Ernesto Bonaiuti, ed. Zanichelli, Bologna 1926, Feltrinelli, Milano 1966 e 1984. Per concentrare l’attenzione sulla fenomenologia, saranno presi in considerazione, in particolare i capp. I – VII e XX. A latere sarà fornita una bibliografia completa su tutti i temi qui trattati. Il Sacro come Esperienza assoluta dell’Essere R. Otto indaga l’essenza autonoma del fatto religioso sia sulla base dell’osservazione della coscienza religiosa individuale, sia circa l’imporsi oggettivo e irresistibile del suo manifestarsi come Esperienza assoluta dell’Essere. Per lui il manifestarsi del sacro è un “ritorno alle cose stesse” nella loro datità originaria, secondo i principi fenomenologici espressi da Husserl, cui il nostro faceva in parte riferimento. Per Otto la religione comincia con se stessa, cosicché bisogna indagare su ciò che ne costituisce l’intima essenza, cioè la Categoria del Sacro. La nozione di Separazione Senza il Sacro, dunque, non vi sarebbe religione: sacro e religione, entrambi, infatti, hanno qualche attinenza semantica con la nozione di Separazione. Sacro come “recinto” che sta-di-fronte-al-tempio; religioso come un qualcosa che lega [Agostino] o che re-lega, separando. Religione, inoltre, è termine ampiamente polisemico. [Cf. dimensioni ed elementi teologico-metafisico-razionali ivi presenti, ed elementi e dimensioni a-razionali, ineffabili, incomprensibili, altrettanto presenti, anche se non spesso contemporaneamente, sempre per rapporto alla coscienza individuale]. Il Mysterium Tremendum et Fascinans Ciò è chiamato da Otto Numinosum, il quale è extra- razionale ed extra-etico, e suscita un Sentimento creaturale, di dipendenza, un senso di debolezza di fronte ad una realtà indicibile e superiore: cf. Gn 18, 27 dove Abramo dice a JHWH: “[…] mi sono fatto forza di parlare con te, io, che sono terra e cenere”. Il Numinosum per Otto è composto da suoi peculiari momenti e dimensioni, come vedremo. Otto, comunque, completa la definizione così: il sacro è Mysterium tremendum et fascinans. Mysterium Tremendum … Vi è innanzitutto un rapporto fra Mysterium e Tremendum: senza il Tremendum il Mysterium è solo Mirum, non ancora Admirandum, Mysterium [cfr. etimologia dal verbo greco μύω, ειν,“nascondo, nascondere”, e del sanscrito muš, “nascosto, occulto, segreto”], perché genera meraviglia, stupore, incertezza, sbigottimento, … Cfr. Agostino, Confessiones, XI, 9, 1 “Quid est illud, quod interlucet mihi et percutit cor meum sine lesione! Et inhorresco, et inardesco. Inhorresco in quantum dissimilis ei sum. Inardesco, in quantum similis ei sum”. … et Mirum spavento a causa di ciò che è Mirum, cioè completamente ALTRO [das Ganz anderes], ciò che stupisce, che desta meraviglia, che fa restare senza parole, che sconcerta, che è stupefacente. Ancora: è il greco θάτερον, l’hindu anyad, il latino alienum, o aliud valde. È tipico della mistica e delle teologie “negative” o apofatiche nelle quali il numinoso non si può dire con un discorso descrittivo-concettuale (sufismo, mistica renana del XIV secolo, buddismo, etc.). … et Tremendum TREMENDUM, che fa tremare, (ma non è la paura naturale), che genera timore reverenziale, e può partire dal demoniaco, ma anche dalle potenze della natura (ad es. cratofanie litiche), o da un mix fantasticoletterario [il gorgo del Maelstrœm in E.A. Poe, le saghe mitologiche di H.P. Lovecraft, J.R.R. Tolkien, etc.], e infine portare ad un senso di estrema debolezza soggettiva di fronte al Sacro, che è tremendum, che si manifesta … Cfr. nel Dies irae, IX – XIII sec. vari e Tommaso da Celano, il “Rex tremendae majestatis . La Maiestas … come MAIESTAS, energia super-umana. Il TREMENDUM si trova nella Bibbia come emat Jahwè, cioè “terrore di Dio”, nel δείμα πανικόν, “la paura del divino” e nell’ οργή Θεού, cioè l’”ira del dio” dei greci. Provoca la sensazione dell’annichilimento e della debolezza di fronte al mistero assoluto. Cfr. il nihil dei mistici cristiani medievali, il sūniam, cioè “il vuoto”, e il sūniata, cioè “la vacuità” dei mistici buddisti. Cfr. R. Otto, Il Sacro, cit., pp. 40 – 41: gli Inni del Numinoso. Il Fascinans FASCINANS, affascinante, ma che attira spaventando, o spaventa attirando, intrecciandosi con il tremendum, e può portare anche all’estasi/beatitudine [sia nelle concezioni misticoreligiose occidentali sia in quelle orientali]. Un altro aspetto riferito alla dimensione del fascinans è la sua funzione apotropaica [αποτρέπειν], cioè dell’ammansimento del divino. Cfr. Ibidem, pp. 46 – 47: Inno di Bernard di Cluny, Dante, Canto XXXIII Paradiso, Divina Commedia, G. Leopardi, I canti, idillio “L’infinito”, 1819, etc.. Il Portentosum e il Sanctum Vi è infine, il PORTENTOSUM, cioè ciò che è superiore per potenza inimmaginabile. Otto introduce poi anche la categoria del SANCTUM, che si oppone al contaminato, e concerne essenzialmente il divino cristiano. Le espressioni di questo SACRO-SANTO sono: il culto, la preghiera comunitaria, la celebrazione del rito, ma anche il terrificante, il sublime, il misterioso, le espressioni artistiche, specialmente musicali, etc.. La categoria del “sacro” Per Otto l’esperienza del sacro si manifesta alla coscienza, anch’esso termine plurivoco e polisemico, cui vanno attribuiti vari significati: a) quello comune come consapevolezza di sé, autocoscienza, etc., b) quello filosofico ed etico come un conoscersi e un giudicarsi, e più estesamente come “centro etico” della persona. Ma nell’autore tedesco la nozione resta non chiarita fino in fondo, poiché egli propone una specie di “schema del religioso” che inquadra l’incontro fra ragione e irrazionalità, senza approfondire molto oltre. A Otto va riconosciuto, comunque, il grande merito di avere approfondito la complessità e l’interdisciplinarietà della categoria del Sacro. Sacro, Religioso, Teologale … se abbiamo lavorato insieme sul concetto di “sacro”, prima di procedere oltre, occorre definire in estrema sintesi termini di … - “religioso”, inteso come appartenente a un sistema storicamente dato di dottrina religiosa e, - “teologale”, come concetto di riferimento a una fede individuale in una credenza religiosa. - Si può dire dunque che i tre termini, senz’altro contigui, non possono in alcun modo essere utilizzati come sinonimi. Perché l’antropologia filosofica? È solitamente ascritto a Kant l’inizio dell’uso di questo sintagma per parlare dell’uomo in termini sistematici [cfr. Anthtropologie in pragmatischer Hinsicht, 1798], anche se il termine fu utilizzato anche prima: da O. Casmann, “Psychologia anthropologica”, 1596; dall’enciclopedista G. Durand, “Encyclopedia universalis”, alla voce “Anthropologia”, suddivise i temi in biologica e mentale, sec. XVIII; da C. Wolff, “Psychologia empirica”, 1734. Dal secolo XIX l’antropologia è diventato termine polisemico, poiché è utilizzato anche nei sintagmi “etnicoculturale” e “fisica”. Una comparazione fra antropologie Dopo la carrellata rapida sulla categoria del “sacro”, ed esserci dati ragione di un’antropologia filosofica, proviamo a considerare la possibilità di studiare in sequenza, sia pure in estrema sintesi, operando anche delle comparazioni, le principali antropologie religiose. Necessariamente dobbiamo fare una scelta, non potendo trattare tutte le prospettive religiose presenti nel mondo: esamineremo dunque la prospettiva induista, quella buddhista, la prospettiva cristiana, la prospettiva giudaica e quella musulmana. L’Induismo La domanda che ci si può fare è la seguente: si dà un’antropologia induista? Domanda retorica, perché ogni corrente di pensiero ha un pensiero sull’uomo, ma noi occidentali siamo condizionati esplicitamente e implicitamente dalla nostra concezione della persona umana, così come l’abbiamo ereditata dalla grande tradizione filosofica greco-latina e dal retaggio biblicoevangelico. Anche nella tradizione induista, dunque, si può individuare un’antropologia sulla “struttura dell’umano”, caratterizzata da aspetti per noi certamente sorprendenti e inusuali. Esiste il “soggetto uomo”? Infatti, noi che siamo abituati a concepire noi stessi e ogni uomo come soggetto, nell’induismo troviamo tutt’altro: Per l’induismo l’uomo è “tat tvam asi, cioè “io sono quello”, sono parte del tutto, indifferenziato, … e quindi non corrisponde all’idea greco-latina e anche biblica di una soggettività irriducibile, che dice unicità e personalità individua …: ad exemplum citiamo la classica dizione di Severino Boezio [VI sec.]: “Persona est rationalis naturae individua substantia”. Nulla di tutto ciò nell’induismo! L’ ātman L’uomo è dunque essenzialmente ātman, semplice soffio vitale del brahman, l’assoluto trascendente totale che è “ignoto per coloro che lo conoscono e noto per quelli che non lo conoscono” [kena upanişad, 2,3] in una forma teologica che potremmo dire apofatica. Questo brahman non si adora, né si implora: si prende semplicemente atto che esiste, ed informa di sé ogni creatura con il suo soffio divino. Il brahman è l’unico esistente, mentre tutto il resto è “māyā”, cioè magia, gioco, illusione. Il brahman L’uomo deve dunque accorgersi di essere solo parte di questo brahman, cioè di “essere parte di quello”, e allora non ha molta importanza tutto il resto: la condizione umana, le caste, noi diremmo … le classi, le categorie sociali, la ricchezza, la povertà. L’uomo è come una goccia d’acqua che si fonde nell’oceano … … e deve dire “io sono Brahman [aham Brahmasmi]. Aham, cioè “io”, consta di due lettere importanti dell’alfabeto sanscrito; la prima lettera, la “a”, l’ultima, la “ha”, mentre la nasalizzazione finale “mmm” percorre tutte le lettere nel mezzo. Nell’io c’è dunque tutto l’alfabeto, e cioè tutto l’umanamente conoscibile e dicibile. Si tratta del suono primordiale! Il karman e il sámsāra Dal periodo delle Upanişad [1300-200 a. C. circa] emerge un altro elemento fondamentale, la legge del karmaņ, cioè la legge morale a base “retributiva”: ogni essere umano che agisce [dall’etimo sanscrito kŗ, agire, fare] provoca un debito, che può essere positivo o negativo: in qualche modo questo debito deve essere pagato attraverso il karmaņ, una sorta di peso che incombe sull’intelletto agente [direbbe un aristotelico], o sull’anima umana … … alla morte dell’essere umano resta … il debito “registrato” dal karmaņ, che deve essere onorato nel prosieguo, in una vita o in più vite ulteriori, costituenti il sámsāra, cioè il ciclo delle reincarnazioni, vite caratterizzate da duhkha, il dolore. La dottrina religiosa delle Upanişad più antiche suggerisce allora di agire senza agire, ovvero di agire con distacco, potremmo dire, usando un paradigma teologico agostiniano “agere sine concupiscentia”, tema ricorrente e trasversale, come vedremo anche nel buddhismo! Il dharma … ma per raggiungere la liberazione [mokşa], la sapienza induista suggerisce di seguire il dharma, cioè la legge morale, la religione della verità. Il dharma è l’ordine, cioè il giusto rapporto con Dio e con la società: il dharma non è altro che l’imperativo morale assoluto, che non dipende da alcuno, ma che sta lì come una legge universale [sanātana dharma], legge eterna che non recede e non passa mai, dando la regola a tutte le cose, e agli uomini, secondo la propria natura. Accanto al dharma eterno e assoluto esiste però anche un dharma relativo, personale e “castale” [Brāhman, Kşatryia, Vaiśya, Sūdra, intoccabili] che tiene conto di una differenza soggettiva e gruppale tra gli esseri umani. Le differenze con le antropologie religiose mediterranee … ecco che qui cogliamo in pieno la differenza fondamentale tra la tradizione antropologica induista e quella “mediterranea” [cioè greco-latina e biblica], che pone la nozione di persona come struttura univoca e portatrice di pari dignità, distinguendo dalla nozione di struttura di personalità [fondamenti irriducibili della differenza soggettiva] come vedremo più avanti. … che poi storicamente le differenze di casta, classe, categorie sociali siano stati presenti, e lo siano ancora anche in Occidente, questo è un altro tema, di grande complessità. L’Induismo e il resto … Questa grande cultura religiosa, pur se caratterizzata da specificità e chiusure notevoli, negli ultimi due secoli ha dialogato con grande fervore profondità con il resto … con il cristianesimo in particolare, e soprattutto con due figure grandi: Ramakŗşņa Paramahamsa [1836-1886], che affermò un massimo di comprensione e di “ecumenismo” interreligioso, e il Mahātman Gandhi [1869-1948], che elaborò e praticò i tre grandi princípi: a) dell’aderenza alla verità, b) della nonviolenza, c) dell’universale elevazione di tutti. Il Buddhismo Il Buddhismo si distacca dalla tradizione induista verso il VII-VI secolo a. C., e si diffonde nelle “terre del riso, del drago e del serpente”. Non attecchisce, invece, nelle “terre del frumento”. Si adatta alle più varie culture, declinandosi in diversi modi: il Theravāda [detto anche Hînayāna], o “degli anziani” [Sri Lanka e Indocina], il Mahāyāna, o del “grande veicolo” [Giappone, Cina, Laos e Vietnam], e il Tantrismo [Tibet e Mongolia]. Ne fu il fondatore, come è noto, il nobile principe Siddharta, detto anche Gautama, o Sākyamuni, o Tathāgata, e infine il Buddha, cioè l’Illuminato, che visse tra il 560 e il 480 a. C.. Il Dharma Il Dharma è la via mediana [il Tathāgata, uno dei nomi del Buddha, come di ”colui che ha trovato la Verità”] insegnata dal Buddha stesso: dottrina improntata a una filosofia religiosa di stampo laico. Il Buddha è consapevole dei limiti umani e pone come prospettiva una via che rifugga dalle posizioni estreme, a) di una ricerca spasmodica del piacere e del successo e, al contrario, b) di un’ascesi insopportabile … e sembrano quasi qui risuonare le esortazioni aristoteliche, ma anche epicuree e stoiche, e più tardi cristiane, alla moderazione e al governo delle passioni … Il dolore Tutto è dolore, afferma il Buddha, e pertanto bisogna scoprire la fonte del dolore, che nell’uomo è rappresentata dal desiderio. L’uomo è dunque formato dagli elementi dell’attaccamento all’esistenza [i khanda o skanda]: - rūpa, cioè la corporeità, costituita dagli elementi della materia minerale e biologica; - vedanā, cioè le sensazioni, vale a dire quanto percepiscono i cinque sensi esterni e l’intelletto; - saňňā, la consapevolezza che nasce dalle sensazioni; La finitudine - samskāra, cioè le forze interiori, la volontà individuale, le reazioni emotive, …; - vijňāna, le conoscenze delle cose e del mondo. Tutto ciò, per il buddhismo è destinato a finire, e perciò l’uomo deve avere la consapevolezza delle finitudine, del limite, dell’inconsistenza, dell’impermanenza, e infine … della futilità e irrazionalità di ogni superba e vanitosa ambizione di possesso, e di potere fine a se stesso. Le cause del dolore Le cause del dolore sono la sete di tutte le cose: piacere [kāma], di esistere [bhava], di non-essere [vibhava]. Stupisce forse la “terza sete”, ma non più di tanto, perché vi può essere anche la brama superba dello scomparire, non accettando la condizione umana. In altre parole il buddhismo insegna l’accettazione dell’esistenza, contro ogni superbia individuale, epperò il dominio delle passioni. Per il Buddha lo stesso ātman, l’io empirico che tendiamo tanto ad esaltare, non-esiste, è an-attā. La “persona” La nozione di “persona” per il buddhismo, dunque, anche se declinata come ātman, è soltanto una parola che dice sulle prime- inconsistenza ontologica, perché esiste soltanto il dolore che nasce dalla “sete”. Possiamo notare, intanto, un sostanziale rovesciamento della nozione “mediterranea” di persona, la cui consistenza ontologica, da Platone-Aristotele e dagli antichi Padri della chiesa, è fuori discussione. Ecco però il passaggio successivo, decisivo … … il buddhismo non nega la persona sotto il profilo metafisico-ontologico, perché si pone su un piano diverso, facendo un’affermazione semplicemente spirituale! L’impermanenza … … la persona umana esiste, eccome!, ma è impermanente, limitata, alla fine inconsistente. Certamente anche nella cultura occidentale troviamo analogie, soprattutto in certe scuole filosofiche, come nella tradizione scettica o cinica, e anche in alcuni autori moderni e contemporanei di sensibilità empirista, presente soprattutto nell’area Anglosassone. Se la “persona” è impermanente, non lo è comunque il suo karma, nozione induista presente anche nel buddhismo. Il karma persiste e opera nella onnipotenza che ogni atto esprime. Si può dire che per il buddhismo l’atto prevale sul soggetto, al contrario di quanto presente stabilmente da millenni nella nostra forma mentis di occidentali. Il karma Ogni volizione che determina un atto umano libero lascia nel mondo, potremmo dire nell’essere delle cose, una traccia indelebile [con il linguaggio teologico della tradizione cristiana si direbbe: sub specie aeternitatis oppure in mente Dei]. Il karma, dunque, condiziona la catena causale, anche se segreta [da cui forse deriva la nostra esigenza argomentativa di introdurre il concetto di “caso”]; questa catena causale è in parte personale, determinata da atti liberi, e in molta parte impersonale, perché agiti da atti liberi o determinati dalla natura, che restano sconosciuti all’osservatore. La causa e l’effetto La causa del dolore è alla fine un “circolo vizioso”, un circolo prodotto da una catena di cause/effetti, dove però non avviene quello che noi occidentali pensiamo, almeno da prima di Hume, l’hoc propter hoc: secondo il buddhismo causa ed effetto fanno parte di un unico atto dell’accadere delle cose, per cui se l’effetto rinvia alla causa, la causa stessa sarà stata effetto di una causa precedente, e così via … … arduo, e non poco per noi questo modo di procedere della filosofia religiosa del buddhismo, per il quale tutto il cosmo e le vite di tutti sono concatenati in una infinita relazione che agisce nel tempo e nello spazio [R. Panikkar, Il silenzio di Dio. La risposta del Buddha, Borla, Roma 1985, pp. 48-60]. Il nirvāņa Vi è però una soluzione al dolore: il karma non può condizionare indefinitamente … l’uomo può liberarsene … cercando di raggiungere uno stato di imperturbabilità, una specie di atarassía, direbbe un filosofo stoico occidentale … Questo stato è detto nirvāņa, e può essere conseguito anche durante la vita terrena. Significa letteralmente “spegnimento delle passioni, superamento dell’ansia e dell’angoscia, raggiungimento di uno stato indicibile” [Suttanipāta]. L’uomo, quando raggiunge il nirvāņa, raggiunge la realtà vera, nel superamento dell’io individuale. Lo specchio del “reale” Negli Udāna, 8, 1, 3, vi è un testo che riportiamo: “[…] vi è, o monaci, il non-nato, il non-fatto, il noncomposto. Monaci, se questo non-nato, non-divenuto, non-fatto, non-composto non fossero, non si conoscerebbe modo di sfuggire a questo nato, divenuto, fatto, composto. Perciò, o monaci -dato che vi è un nonnato[…]- si conosce rifugio da questo nato, divenuto, fatto, composto”. Che dire di queste misteriose parole? E allora, vediamo come il Buddhismo guida i suoi fedeli … L’ottuplice sentiero Vi è un ottuplice sentiero per chi vuole progredire verso la saggezza: 1. la retta fede o visione, che è un rendersi-conto; 2. il retto proposito di entrare nel distacco dai beni materiali; 3. la retta parola nell’evitare la menzogna perseguendo la verità; 4. la retta azione, evitando di fare danno alle altre creature; 5. il retto sistema di vita, evitando l’inganno agli altri; 6. il retto sforzo, teso come ascesi spirituale del pensiero; 7. la retta attenzione, che è la meditazione; 8. la retta concentrazione per il distacco dalle meschinità, dalla superbia del proprio “io”, dalla ricerca del piacere … e dei vantaggi individuali. Il Giudaismo La domanda che ci si deve immediatamente fare è questa: il Giudaismo, radice e tronco da cui è sorto il Cristianesimo e successivamente, anche se in parte l’Islam, è una religione o una cultura etnica, o addirittura un popolo? Si può dire che è l’una e l’altro, in una commistione unica e sorprendente! Nel Giudaismo il Popolo è legato a Dio da un’Alleanza, e quindi il popolo è un “soggetto sacerdotale”. La Storia e la Legge Per il Giudaismo il futuro è carico di tutto il passato e del presente, perché l’umanità sta dentro una storia lineare e progressiva (quanta differenza con le grandi religioni orientali!) … e il popolo ebraico è primariamente all’interno di un’Alleanza con il Dio-Signore [Jahwe], fin dai tempi di Noè e poi dell’Esodo, quando Mosè ricevette da Dio stesso le Tavole della Legge. Vi è dunque una Legge da osservare, così come è sintetizzata nei 10 Comandamenti e nel Libro, la Torah o Pentateuco, e poi la Bibbia. I vari giudaismi e la fede storica La tradizione ebraica si esprime in varie “declinazioni”, che vanno dall’ortodossia più estrema, a posizioni più liberali e progressiste. Se andiamo a bene vedere, lo stesso Israele odierno è l’unica nazione e paese del Vicino oriente governato democraticamente , con una presenza laburista molto forte e l’esperienza dei Kibbutzim, indubbiamente di tipo socialista partecipativo e umanitario. E speriamo che la “Primavera araba” si inserisca, anche se con le difficoltà a tutti note, in un contesto di dialogo evolutivo con Israele,e venga meno la nefasta dizione di “entità sionista”. La centralità di Dio Dio il Signore è al centro della tradizione giudaica. Il tetragramma JHWH accompagna questo popolo da tremila anni, un Dio che non si può nemmeno nominare, lasciando alla filosofia e alla teologia dogmatica il compito di “studiarLo” … nella sua unicità e centralità. Dio cerca la compagnia e l’amicizia dell’uomo, in ciò marcando una enorme differenza con l’Islam e una vicinanza notevole con il Cristianesimo, che pone come dogma centrale la mediazione dell’umano-divino in Gesù Cristo. Dio fa il più grande regalo all’uomo con la Torah, il libro che è parola di Dio. L’uomo Il giudaismo concepisce l’uomo in modo fondamentalmente positivo: lo stesso peccato originale ha causato solo la sua limitatezza e mortalità, non gli ha tolto la capacità di discernere il bene e il male. L’uomo è dunque creatura di Dio, fatto a immagine e … somiglianza [Genesi 1, 27]. Il giudaismo, a differenza del cristianesimo, non ha subito influenze significative dalla filosofia greca, per cui l’uomo è concepito in modo fortemente “unitario”, laddove corpo, anima e spirito sono solo tre “nomi” diversi per dire “persona”. La Tradizione I due maggiori gruppi religiosi del giudaismo dei tempi di Gesù erano i Farisei, molto presenti tra il popolo, osservanti ligi della Legge di Dio: costoro credono nella resurrezione dei morti e nell’immortalità dell’anima, e i Sadducei , più legati alle classi superiori, che invece la escludono. Nel corso dei secoli la Tradizione giudaica, soprattutto dopo la diaspora, dopo il 70 e il 135 d. C., si è espressa in grandi testi, come il Talmud, cioè la “Via da seguire” e i suoi commenti, declinati nella Mishnah, cioè l’insegnamento da ripetere sempre. Dal XII/XIII sec. d. C. si sviluppò anche la Kabbala, tradizione esegetica di tipo esoterico e aritmologico . La preghiera e il Sabato La preghiera è un momento fondamentale della religione giudaica: essa è quotidiana, settimanale con il grande giorno del Sabato, e annuale, nelle festività che la Bibbia stessa comanda. La preghiera è innanzitutto “memoriale dell’Esodo”, e poi invocazione a Dio, lode, istanza dell’uomo che, fidente, si rivolge al Signore Altissimo. Il Sabato è una vera imitazione del “riposo di Dio” nel settimo giorno della creazione, mentre le feste annuali sono legate, come in altre culture, al ciclo delle stagioni. Il Cristianesimo Si tratta del credo religioso più diffuso al mondo, presente in tutti i continenti, ma specialmente a partire dal plesso Mediterraneo e settentrionale del pianeta, dove paradossalmente da qualche decennio, o secolo, è entrato in una grave crisi. Un grande sviluppo, invece si registra in Asia e nel sud del mondo, sia nella confessione cattolica, ma forse ancora di più in quelle riformate. Come si sa, l’origine è ascritta all’Evangelo di Gesù di Nazaret, detto il Cristo, così come è narrato in varie versioni, canoniche e apocrife, e come è presentato nelle Lettere cattoliche, tra le quali spiccano quelle di Paolo. Il Cristianesimo accoglie poi, fin dalle sue origini, almeno dal II-III secolo anche le scritture dell’Antico Testamento, mutuate quasi concordemente dal Giudaismo, che insieme con gli scritti sopra citati costituiscono la Bibbia cristiana. Vi sono alcune differenze nei Canoni biblici accettati dalle Chiese Cattolica e Ortodossa e dalle Chiese riformate. La Dottrina cristiana I Trattare del Cristianesimo in ambiente storicamente cristiano-cattolico potrebbe sembrare molto facile, tanto da suggerire di “saltare” letteralmente molti passaggi teorici, che si riterrebbe di dare per scontati. Grave errore! Infatti la conoscenza media attuale della dottrina cristiana e della sua antropologia, al di fuori di quel circa 36% di credenti-praticanti [dati Italia] è molto bassa, perlopiù “orecchiata” dai mezzi di comunicazione o memorizzata da lontani catechismi infantili. Perciò, se pure nei limiti di questi incontri, qualcosa qui ricorderemo … La Dottrina cristiana II … è basata su un “monoteismo dinamico”, e comporta due dogmi essenziali e imprescindibili: a) la Trinitarietà di Dio, che, pur rimanendo unico si dinamizza nelle relazioni tra il Padre, il Figlio generato, non-creato, e lo Spirito, che è Dio stesso, procedendo dal Padre e dal Figlio [Credo Niceno-Costantinopolitano, 325381 d. C.]; b) la doppia Natura, umano-divina nell’unica Persona di Cristo-Gesù. Il dibattito in merito occupò almeno i primi cinque secoli dell’era cristiana, fino al Concilio di Calcedonia del 451 d. C., e lasciò strascichi robusti fino ai nostri tempi, soprattutto sul dogma relativo alla figura di Gesù Cristo. L’essere umano Creato da Dio nell’anima spirituale, l’uomo è libero di comportarsi come gli consente la sua struttura autoconsapevole e provvista di senso morale. L’antropologia cristiana è un’antropologia mediterranea, greco-latina e biblica, mutuata essenzialmente dal Nuovo Testamento, dalle Lettere di Paolo, dal platonismo, per il tramite di s. Agostino e di s. Anselmo, e dall’aristotelismo, soprattutto con s. Tommaso d’Aquino. Soprattutto Agostino e Tommaso sono considerati i fondatori dell’antropologia cristiana, che si caratterizza come sintesi delle due grandi tradizioni. La fenomenologia e il trascendentalismo Per comprendere l’antropologia cristiana, a parer mio, occorrono due approcci: a) quello fenomenologico e b) quello trascendentale. Ambedue le visuali sono richieste, perché la prima cerca di raccogliere i dati del comportamento e dell’agire umano, la seconda cerca di fornire delle spiegazioni che hanno a che fare con una visione essenzialmente teleologica del cristianesimo stesso, e quindi della vita delle persone. Occorre, però, prima partire da due nozioni sinottiche: a) la struttura della persona e, b) la struttura della personalità. La struttura della persona Fisicità (interfecondità) Psichismo (organismo psichico, passioni, emozioni, etc.) Spiritualità (senso del sacro, religiosità, fedi, etc.) Questa suddivisione permette di dare ragione del principio di uguaglianza tra tutti gli uomini, poiché a ogni latitudine, tempo e in ogni cultura l’uomo “è fatto così”. … e dunque Questa tabella dimostra con evidenza l’uguaglianza strutturale, che la Scrittura dice fatta a “tzelèm - demùt”, cioè a immagine e somiglianza di Dio [Gen 1, 27], dice dunque pari dignità tra tutti gli uomini, e pari valore ontologico, cioè relativo all’Essere … … e come peraltro confermano le epistemologie scientifiche contemporanee. La struttura della personalità Genetica (cromosomica e mitocondriale) Ambiente (familiare, sociale, culturale) Educazione (formazione, crescita della dimensione psicologico - affettiva, etc.). Quest’altra struttura, dimensione, punto di approccio, dice l’irriducibile differenza di ciascuno rispetto a ciascun altro, perfino nei gemelli monozigoti, spiegando così la plausibilità razionale e morale di ruoli, funzioni, carriere, vite diverse, ma tutte improntate dalla medesima dignità del valore. Due stati d’animo … entrambi da evitare per capire l’antropologia cristiana: a) di quello di chi non vuole ammettere che l’uomo sia sostanzialmente diverso dagli [altri?] animali e che, perciò, rifiuta di riconoscere che l’uomo costituisca un problema metafisico autentico; b) di chi troppo facilmente accetta l’esistenza di un elemento metafisico nell’uomo, come se la sua esistenza fosse immediatamente evidente … Occorre dunque un atteggiamento equilibrato, sola condizione per una corretta ricerca di carattere filosofico. Il modo migliore di approcciare questo argomento è forse applicare una specie di epoché di stampo husserliano. La dimensione corporea e psichica È indubbio che l’uomo possiede delle caratteristiche fisiche e psichiche date, e aggiungiamo pure, dopo il nostro preludio sul tema del sacro, anche spirituali. Con il corpo e la psiche l’uomo si nutre, si riproduce, apprende, comunica, si diverte, diventa … socievole, e perciò il corpo ha una funzione che potremmo dire mondanizzante, ma ha anche una funzione epistemologica, conoscitiva; sviluppa una funzione economica, di possesso; perfino una funzione ascetica … il corpo/psiche diventa quindi una sorta di epifania dello spirito … La vita umana La vita non è una macchina progettata e costruita secondo schemi complicati, ma alla fine spiegabili e comprensibili nella loro totalità; la vita possiede le caratteristiche della complessità, e quindi di una possibilità di comprensione sempre limitata e sempre in divenire: basti pensare ai progressi della ricerca biologica e medica, che non conoscono soste e rinviano sempre ad ulteriori traguardi di conoscenza … La vita è dunque qualcosa di diverso dalla concezione meccanicistica, è flusso, è impeto, è tendenza, è eros … è movimento immanente … è finalità. E qui siamo in uno dei punti caratterizzanti dell’antropologia cristiana. La conoscenza Sia la conoscenza sensitiva, sia quella intellettiva compongono il flusso della conoscenza che l’uomo sviluppa verso se stesso [autoconoscenza] e il mondo. L’uomo, inoltre, possiede una conoscenza immaginativa e un’attività estetica. La conoscenza possiede alcune caratteristiche fondamentali: a) il suo rapporto con il mondo [Weltlichkeit]; b) la prospetticità individuale e personale [soggettività]; l’intenzionalità; la storicità. La volontà e la libertà Nella tradizione antropologica cristiana, la volontà è considerata, insieme con l’intelletto una delle due facoltà spirituali dell’uomo. Essa è costitutiva dell’essere umano, e lo rende capace di scelte libere, sempre nella misura della relatività esistenziale. È declinata in modo diverso in ambito cattolico/ortodosso e in ambito riformato, dove viene considerata maggiormente condizionata da Dio stesso: nel luteranesimo, in particolare, vige la credenza in elementi molto forti di predestinazione delle anime [derivante dal “primo” Agostino]. I limiti della libertà Le passioni umane costituiscono i limiti della libertà. Variamente declinate nella tradizione, è accettata una classificazione classica, che le vede elencate a sei coppie contrapposte, più una, l’ira. Esse sono: amore/odio; piacere/dolore; desiderio/fuga; coraggio/paura; speranza/disperazione; gioia/tristezza. Il linguaggio, la società, la cultura Infine, per la tradizione antropologica cristiana, il linguaggio è il fondamento che caratterizza l’essere umano, e lo eleva al di sopra di tutti gli altri esseri viventi, essendo autocoscientemente libero, e moralmente sensibile: cosicché egli possiede una specie di mandato sul mondo, che egli deve difendere e rispettare. A tela scopo l’uomo si è organizzato nel tempo, in società, fondando città e istituendo la politica, sviluppando cultura e lavorando per trasformare il mondo in cui vive. L’Islam Islam significa “abbandono/abbandonarsi a Dio”. Conosciamo le origini storico-teologiche di questa grande dottrina religiosa che interessa molto più di un miliardo di persone. Essa sorge in un ambiente molto duro e ostile, il deserto, e tiene conto della concretezza necessaria per una vita capace di svolgersi in quelle condizioni estreme. L’Islam non possiede -nel suo estrinsecarsi teoretico- le sottigliezze del rabbinismo talmudico o della teologia cristiana. Praticità e rifiuto delle astrazioni ne sono caratteristiche fondanti. Mohamed Il mondo nel quale nasce l’Islam è un mondo fatto di silenzi e di grandi distanze, nel quale è importante ciò che si ode, l’ascolto, il “detto”. Gli adepti dell’Islam sono persone concrete e amanti dei fatti, mentre si spostano con le loro carovane lungo i sentieri del deserto. La vicenda ha origine nell’ambiente aspro della penisola arabica attorno ai primi del VII secolo d. C.. Mohamed è un carovaniere come tanti, ma è anche un uomo molto religioso e mistico … Allah-Dio Il credo musulmano si forma in pochi decenni, costola robusta della tradizione monoteista già presente e operante tutto intorno: gli ebrei sono presenti a Mecca e a Yathrib, o Medina; cristiane sono popolazioni che vivono a nord e a sud dell’Arabia: lo sono gli etiopici e gli abitanti dei regni bizantini; sono cristiani i monaci itineranti del deserto, sono monofisiti, nestoriani, ebioniti … Certamente Mohamed incontra alcuni di questi, certamente discute con loro dell’unico “Dio”, che egli chiama Allah, ma che “assomiglia” in modo vigoroso al Dio dell’Antico Testamento e al Signore Padre del Cristo. Mohamed discute forse anche di “cristologia” dissentendo sulla natura divina di Gesù, già evidenziata e sancita dal “credo di Calcedonia” del 451. Per Mohamed la natura di Gesù non è α̕τρέπτος, α̕διαι̃ρητος, α̕χορίστος, α̕συγγχύτος , cioè non è duplice, ma indivisa, indistinta e di due generi, l’umano e il divino, perché Gesù è “solo” il più grande dei profeti, nabijm, prima della venuta e dell’annuncio di Gabriele a Mohamed. La rivelazione della Parola è in corso. Il Qur’an Il “Qur’an” ora parla. Il Corano, che è la “proclamazione” della Volontà e della Verità di Dio, parla dicendo quello che i fedeli devono fare per essere tali. La fede nel Corano è il rispetto della Shahada, professione del monoteismo di Dio, unica possibilità di salvazione dell’anima. Essa non è basata sui desideri dell’uomo, ma solo sulla Parola di Dio stesso. La Sharia ne costituisce l’applicazione politico-legale. Ma l’uomo, per l’Islam che cos’è? L’azione divina Intanto l’uomo deve sapere che … “Nella creazione dei cieli e della terra, nell’alternarsi del giorno e della notte, nella nave che solca i mari carica di ciò che è utile agli uomini, nell’acqua che Allah fa scendere dal cielo, rivivificando la terra morta e disseminandovi animai di ogni tipo, nel mutare dei venti e delle nuvole costrette a restare tra il cielo e la terra, in tutto ciò vi sono segni per la gente dotata di intelletto”. [Cor, Sura 2, 164] … un esempio classico di come il Corano pone la questione della fede … echi biblici di Sapienza 13, 1-9? L’uomo teomorfico E dunque l’uomo è innanzitutto un “essere intelligente che crede in Dio”, un fedele … … anzi, in lui vi è una specie di teomorfismo, una divinizzazione progressiva … mentre recita: La ilaha illa Allah, wa Muhamaddam rasul Allah, cioè “non c’è dio se non il Dio e Mohammed è il suo profeta”. E poi Allahu akbar, “Dio è il più grande”, e infine, Insha Allah, “se Dio vuole”, come affidamento totale nelle mani di Dio stesso di ogni momento della vita umana e delle sorti del mondo. La responsabilità dell’agire Il muslim, l’abbandonato a Dio, è dunque teomorfico, ha forma divina, perché Dio agisce in lui, anche indipendentemente dalla sua propria volontà. Nella “via media” dell’Islam proposta da Al Gazali [XI/XII secolo d. C.], accettata dal sunnismo e in parte dalla linea sciita, più dogmatica, ritiene che Dio sia anche l’autore vero delle azioni umane, che però ricadono nella responsabilità soggettiva perché comunque partecipate a livello razionale e del sentimento religioso. Si può dire che nel luteranesimo vi sono echi islamici ? La Parola come Dio stesso Si può dire che il Corano, cioè la Parola di Dio, in qualche modo corrispondente al Verbum cristiano, e cioè a Cristo stesso, mentre viene recitata dal fedele, lo trasforma rendendolo simile a Dio-Allah, che pure è e resta incomparabilmente distante e inaccessibile. La recitazione del Corano è quindi un atto sacro, e anche qui potremmo trovare una se pur lontana analogia con il sacramento eucaristico cristiano, un entrare diretto in comunione con Dio. Il grande miracolo “Se anche si riunissero tutti gli uomini e i jinn per produrre qualcosa di simile a questo Corano non ci riuscirebbero, quand’anche si aiutassero gli uni con gli altri” [Cor 17, 88-89]. Questa è l’enfasi con la quale il musulmano descrive il “suo” libro, che è il Libro stesso di Dio. L’uomo “coranico” è dunque convinto che il Libro sia come o più della sua sposa, e ivi si immerge e cerca di somigliargli, recitando le sure e le formule, fino a subirne l’effetto mistico, e perfino magico-sacrale. L’uomo Se il Corano è la parola stessa di Dio, l’uomo è stato creato da Dio e ha una consistenza che è fatta di sperma, di polvere e di terra [Cor 80, 17-22; 15, 28ss e 71,17]. L’embrione fu fatto di queste cose, per diventare uomo, essere destinato a morire e a essere resuscitato nel Giorno del Giudizio [Cor 91, 7-10; 21, 35]. Non vi è nell’anima dell’uomo il peccato, ma in lui Dio pone sia malizia sia pietà, per metterlo alla prova. La sottomissione per la salvezza Il fedele deve dunque sottomettersi alla legge di Dio che è nel Corano, dove minuziosamente sono ordinate le azioni da compiere e quelle da evitare, a partire dai cinque obblighi fondamentali: a) la professione di fede, b) la preghiera, c) l’elemosina, d) il pellegrinaggio a La Mecca, e) il digiuno nel mese di Ramadan. Nel mondo dei sufi, i mistici sottolineano particolarmente la meditazione e il digiuno, atti ad un’elevazione più adatta all’incontro con Dio. Molti “Islam” L’Islam storico non si suddivide solamente nelle due grandi tradizioni del sunnismo e dello sciismo, ma comprende molte altre declinazioni e scuole teologiche: basti qui dire che vi sono sfumature innumerevoli tra una visione assolutamente dogmatica e letteralista del rispetto del Corano, e visioni che si distaccano dall’interpretazione letterale [ad es. nella linea as’arita], accogliendo molti testi come metafore o allegorie, diminuendo di molto il tema della predestinazione del destino delle anime e attribuendo molto valore alle scelte personali e all’esercizio della volontà individuale, che è relativamente libera [ad es. nella linea mu’tazilita]. Il risveglio attuale dell’Islam pone a noi occidentali un’esigenza di conoscenza per un confronto non banale sotto il profilo intellettuale, e produttivo sotto quello delle relazioni e della politica. Le origini - Il Confucianesimo Notizie certe dell’antichità cinese ci pervengono fin dal XIII sec. a. C., ma i dati archeologici risalgono al XXI sec.. Come per le filosofie mediterranee, il tema della Natura è centrale anche per la riflessione dell’antica Cina. La natura infatti aiuta l’uomo a capire il “mistero di Dio”, che in qualche modo si pone anche in quella cultura. La grande legge della natura è la “mutazione”, il cambiamento tra due poli che contrappongono e si completano: il caldo e il freddo, l’umido e il secco, la luna e il sole, il giorno e la notte, il maschio e la femmina, i monti e gli abissi … lo yin e lo yang … Il “Cielo” Dal XXII sec. a. C. il nome del “divino” divenne il “Cielo” (T’ien), ed è un “dio personale”, rappresentato in modo antropomorfico. Il “Cielo” è un “Dio che premia e punisce”, perciò l’uomo deve cercare di comprendere quale sia la “volontà del Cielo”, mediante la “divinazione”, che può essere praticata solo da esperti nelle cose sacre e misteriose. L’arte divinatoria è presente in molti testi, tra cui il “Libro delle mutazioni” (i king). Il ruolo degli antenati Oltre alla “divinazione”, per gli antichi Cinesi era importante soprattutto il “ruolo degli antenati”, che restavano, secondo le antiche credenze, coinvolti nelle vicende dei successori, con una partecipazione spirituale e con “occhi vigilanti”. Verso il VI-V a. C., in un periodo molto difficile per la Cina, cominciano a svilupparsi due scuole religiose che cercano (e riescono) a superare la tendenza arcaica, che era molto individualista: si tratta del Confucianesimo (Confucio) e del Taoismo (LaoTzu). Confucio e i suoi scritti Kung-Fu-Tzu (551-479 a. C.), non è un fondatore o un rivoluzionario: egli preferisce considerarsi un riordinatore, un chiarificatore dell’antica tradizione cinese … Egli quindi raccoglie i testi antichi: Il Libro delle mutazioni, ma anche Il Libro degli annali, e Il Libro delle odi, Il Libro dei riti … Confucio non distingue tra religioso e profano, egli seleziona i testi e si propone come maestro, non come personalità divinizzabile, ché per lui l’unico “Dio” è e resta il “Cielo”. Le grandi intuizioni religiose I Il “Cielo” Del Cielo Confucio parla con rispetto, sempre per allusioni, perché si tratta dell’Assoluto, che di per sé è inconoscibile e immenso, cui si deve una “preghiera continua”, poiché “Tutto è sotto il Cielo, tutto è voluto dal Cielo”. Ma l’uomo è troppo lontano dal Cielo per poterne parlare con cognizione, e quindi deve occuparsi della propria vita, ordinarla secondo la volontà del Cielo che va chiesta con la preghiera. Le grandi intuizioni religiose II L’Ordine della Natura Per Confucio la Natura è ordinata e razionale, e l’uomo deve armonizzarsi ad essa. Come la Natura provvede ai viventi, così l’uomo deve comportarsi con benevolenza verso i suoi simili e i viventi tutti. Vi è un’armonia universale che deve essere ammirata e imitata, per cui l’uomo deve adeguarsi sempre di più con tutto se stesso e con le azioni che compie. Perfino la scrittura ideografica riflette questo sentimento interiore. Le grandi intuizioni religiose III Il cosmo confuciano nasce, oltre che dallo yin e o yang, - - anche dai cinque elementi: legno, fuoco, terra, metallo e acqua. Ai cinque elementi si riallacciano i cinque colori, i cinque sapori e i cinque punti cardinali: Legno – fuoco – terra – metallo – acqua Verde – rosso – giallo – bianco – nero Acido – amaro – dolce – acre – salato Est – sud – centro – ovest – nord La rettificazione dei nomi Per Confucio ogni parola deve corrispondere al suo contenuto, senza equivoci (pensiamo all’enorme distante tra questa visione del mondo e quella mediterranea dell’ermenèia e della polisemia!). Questa finalità si può raggiungere solo mediante la “rettificazione dei nomi” (cheng-ming). Vi è un bisogno concreto di rigorizzare il linguaggio, per cui Confucio invita sempre a elencare, numerare, precisare; ad es. vi sono: 5 i visceri dell’uomo, reni, polmoni, bile, fegato, cuore; 3 le virtù, rettitudine, fermezza, dolcezza; 8 le branche delle attività umane, agricoltura, commercio, sacrifici, lavori pubblici, istruzione, amministrazione della giustizia, cura degli ospiti ed esercito. Le due virtù Per Confucio occorre un’armonia sociale gerarchica: Così come al di là di tutto vi è il Cielo, sotto di esso vi è il Figlio del Cielo, l’imperatore, e sotto di lui il capofamiglia. Pertanto l’armonia sociale si attua mediante le due virtù della Rettitudine (i) e l’Umanità (jen): i è la virtù della rettitudine, l’imperativo categorico (“kantiano”), jen è invece la virtù della sensibilità umana, l’amare il prossimo (quasi evangelicamente, potremmo dire). La virtù i è la morale pratica, mentre la virtù jen è un’imitazione del cielo, per curarsi di chi sta sotto nella scala sociale. La famiglia è il modello dei rapporti armoniosi. Il rito e le cinque relazioni sociali Il rito, per Confucio, realizza l’ordine in ogni situazione, e contribuisce ad armonizzare i cinque tipi di relazioni sociali: a) tra principe e suddito, b) tra padre e figlio, c) tra fratello maggiore e fratello minore, d) tra marito e moglie, e) tra amico e amico. Se chi sta in alto si comporta armoniosamente con chi sta in basso realizza “il volere del Cielo”. L’azione concreta è atto sacro quando risponde al “volere del Cielo”, cosicché per Confucio tutta la vita è organizzabile in modo armonioso e rispettoso del mondo e degli uomini tutti. Diverse categorie di uomini Tra gli uomini i saggi sono superiori agli altri, e per diventare superiori occorre lo studio; ma per diventare saggi occorre soprattutto il perfezionamento morale, che si ottiene attraverso la sincerità del pensiero, l’ampliamento della conoscenza, osservando e meditando sulle cose e sul loro senso. Gli antenati, tra i morti, sono una specie di sintesi di tutta la genealogia della specie e in sé portano e trasmettono la sapienza della vita e del cosmo. Il Taoismo - due Vie opposte Pare che Lao-Tzu si sia incontrato con Confucio, confrontando due personalità molto diverse, grandezza morale e acutezza estrema … Essi discussero della carità come virtù ma non condivisero che si trattasse di una specie di “capacità di rallegrarsi di ogni cosa nell’amore universale tra gli uomini e tra tutti gli esseri” (Confucio). Lao-Tzu invece sostenne che la natura stessa pone un ordine cosmico, preferendo una visione religiosa cosmocentrica, piuttosto che sociocentrica, come Confucio. Gli Insegnamenti di Lao-Tzu Tre sono i grandi testi su cui si fonda il taoismo: Il Tao-te-king, un libro di poesie sul Tao (la via) e sul Te (la virtù), il cui autore la tradizione afferma essere lo steso Lao-Tzu. Il Kuang-tszu e il Lien-tzu, raccolte di frammenti di sapienza. Prendono il nome dal loro presunto autore. Il Tao è costituito da quattro concetti chiave: il Tao stesso, Yin e Yang, il Te, il Wu Wei. Il Tao La parola Tao significa via, capo, parola, metodo, e perfino religione. È la strada e la meta (cioè Dio, l’Assoluto). Il Tao è indicibile, sfuggendo sempre a una definizione generale, che rischierebbe di allontanare dalla possibilità umana ogni ipotesi di conoscenza. “Il Tao che si può dire non è il vero Tao”, così inizia il Tao-te-king … varie immagini simboleggiano il Tao, come la luna, la valle, gli abissi, l’acqua stessa. Il Tao è immanente e trascendente, è il non-essere che genera l’essere … Yin e Yang I Si tratta delle due grandi polarità che concorrono alla vita, e non sono in opposizione come nel caso delle polarità “occidentali”, come luce-tenebre, bene-male, polo positivo e polo negativo nel campo dell’elettricità, etc.. Polo positivo (Yang) e negativo (Yin) non hanno alcuna accezione di rilevanza morale all’occidentale, ma significano le parti che insieme compongono la realtà: essi sono rappresentati da una linea continua e una linea spezzata, come una dialettica tra cammino e sosta, mantenimento e rifiuto, conservazione e rinnovamento. Yin e Yang II Bellissimo l’apologo del contadino, raccontato nella tradizione taoista, secondo cui, ad ogni fortuna o rovescio della sorte, era solito dire agli amici che, o lo commiseravano, o si compiacevano con lui, sempre: “Può darsi” (sottintendendo, che sia buona sorte o che sia mala sorte). Bene e male si generano a vicenda, felicità e disgrazia si succedono, sono causa e premessa l’uno dell’altro. Osserviamo dunque come tale visione del mondo e della vita umana siano radicalmente diverse dalla concezione “occidentale”, greco-latina. Yin e Yang III Come nel buddhismo ci troviamo di fronte a a una causalità che non è lineare, storica, come nella tradizione mediterranea (forse più biblica che greco-latina) ma ciclica: lo yin e lo yang, potremmo dire, dialettizzano, così, come nel confucianesimo fanno altrettanto i cinque elementi, nel principio della dipendenza reciproca: il legno genera il fuoco, questo genera la terra, la terra genera il metallo, che a sua volta genera l’acqua, la quale genera di nuovo il legno. Nessuno dei cinque elementi può “vincere” sugli altri, perché ciò bloccherebbe il ciclo e causerebbe la fine della vita. Yin e Yang IV Il Tao, però, si differenzia profondamente dal Buddhismo, perché, contrariamente a questi, non ritiene il dipanarsi del ciclo della vita un male da superare con la tendenza all’annullamento del desiderio, e infine della vita stessa nel Nirvana, ma è la vita stessa, intrinseco bene. Il Tao pare prospettare una specie di fatalismo, ma non è così perché il Tao stesso è profonda saggezza, che va rispettata, in quanto dettata dalla Sapienza divina che governa e guida il mondo e gli uomini. Il te Il te è la virtù, concetto corrispondente in qualche modo, sia all’aretè greca, sia alla virtus latina, intese però nel senso prevalente di un agire efficacemente positivo. Una sorta di fortezza temperante, prudente e giusta, potremmo dire con linguaggio scolastico, una connectio virtutum. Il te aiuta l’uomo nell’arte di vivere, evitando le forzature e la presunzione di potere tutto, di conquistare tutto, moderando l’uso delle forze e agendo con saggezza. Il wu wei I Il Tao agisce non agendo, lasciando libere le diecimila (infinite) cose che, come l’acqua trovano il loro bene, individuando la strada, il percorso, il metodo giusto. Quanto ciò insegna a noi occidentali, sempre in affanno per fare, conquistare, avanzare … e talvolta, a causa di questo, ci ammaliamo, ci fermiamo stanchissimi, regrediamo! Il Tao insegna che è il buco nel mozzo della ruota che rende funzionale la ruota, così come lo spazio dentro al vaso, il vaso stesso! Il wu wei II Il saggio agisce facendo il vuoto dentro se stesso, lasciando agire le cose, non forzandole, cosicché il wu wei lo porterà dalla parte giusta. (Troviamo qui echi dei misticismi cristiano e islamico?)* Il saggio non possiede nulla e non insegna con arroganza, egli dice “Tralascia la santità e ripudia la sapienza e il popolo si avvantaggerà, tralascia la carità e ripudia la giustizia ed esso tornerà alla pietà filiale e alla clemenza paterna, tralascia l’abilità e ripudia il lucro e più non vi saranno ladri e briganti” … È un apparente invito all’inazione, ma in realtà è un invito alla riflessione, indispensabile per poi lasciarsi trasportare dal Tao, che è il Sapiente. * Misticismo renano e sufismo. Il wu wei III Il saggio, dice il Tao, è come lo specchio che riceve tutto ma non trattiene. Anche Lao-Tzu, come Confucio, fu in qualche modo “divinizzato”, ma il suo insegnamento, così come quello dei grandi sapienti di ogni tempo e luogo testimonia di una sola sapienza umana, che in vari modi, è a disposizione delle anime attente, delle menti fervide e dei puri di cuore. E ora un elenco di antropologie “laiche” per un po’ di … compiti per casa: Uomo economico: Marx, Uomo istintivo: Freud, Uomo angosciato: Kierkegaard Uomo utopico: Bloch, Uomo ex-sistente: Heidegger, Uomo fallibile: Ricoeur, Uomo ermeneutico: Gadamer, Uomo problematico: Marcel, Uomo culturale: Gehlen, Uomo religioso: Luckmann Uomo meccanico: Anders Che cos’è dunque l’Uomo? … essere culturale, linguistico, persona, frammento di divino, immagine e somiglianza, primate intelligente ed evoluto, spirito incarnato, … continuiamo insieme, con la curiosità e lo stupore della ricerca che non finisce mai …