PARROCCHIA MARIA SS. ADDOLORATA
OPERA DON GUANELLA – BARI
Le opere di
misericordia
DARE DA MANGIARE
AGLI AFFAMATI
Anno Pastorale
2015-2016
«Dacci oggi il nostro pane quotidiano» (Mt 6,11). La
preghiera che il Signore Gesù ha trasmesso ai suoi
discepoli e che i cristiani ripetono quotidianamente
contiene la richiesta del pane rivolta a Dio.
Il nome del Dio a
cui si rivolge
questa preghiera
basilare nel
cristianesimo è
«colui che dà il
pane a ogni
carne» (Sal
136,25), cioè a
ogni vivente, a
ogni creatura.
La richiesta del
Padre nostro
riguarda il pane
materiale, il cibo
essenziale per
vivere, simbolo di
tutto ciò di cui
l’uomo ha bisogno
per vivere.
L’orante che pronuncia questa richiesta,
prega non solo per sé, ma a nome di tutti: il
figlio che chiede il pane al Padre “nostro”
non può dimenticare il fratello che ne è
sprovvisto.
Qui l’indicativo di Dio diviene imperativo dell’uomo:
chiedere il pane a Dio comporta entrare nella
responsabilità per chi non ha il pane. Dio, infatti, dona
il pane all’uomo, ma anche tramite l’uomo: questi ne è
il destinatario, ma anche il mediatore.
Al pane donato da
Dio corrisponde il
pane condiviso
dall’uomo.
Potremmo anche
dire, riprendendo le
parole di Gesù ai suoi
discepoli di fronte
alle folle stanche e
affamate: «Voi stessi
date loro da
mangiare» (Mc 6,37).
Questo comando, rivolto ai primi discepoli, si
estende a tutta la chiesa nella storia e
raggiunge noi oggi.
Assistiamo così al
passaggio dal dono di Dio
alla responsabilità
dell’uomo: una
responsabilità che è al
cuore dell’eucaristia e del
giorno del Signore, la
domenica, che da sempre
sono connessi a una
prassi di carità, di visite ai
malati, di portare cibo a
chi ne è sprovvisto, di fare
collette per i poveri.
Già nella celebrazione della parola di Dio narrata
in Neemia 8 si afferma che, dopo aver ascoltato e
capito la proclamazione della Torà, «tutto il popolo
andò a mangiare, a bere e a mandare porzioni [ai
poveri]» (Ne 8, 12).
«Nell’eucaristia ... non è soltanto questo o quel gesto del corpo di
Cristo che agisce su di noi, ma è questo corpo stesso nella sua pienezza
di fonte di grazia che viene in noi; e non per un contatto più o meno
superficiale ed effimero, ma nel modo più intimo e più durevole che
esista in questo ordine: l’assimilazione di un alimento»1.
1. PIERRE BENOIT, Esegesi e teologia, Edizione Paoline, Roma 1964, p. 194.
Ma dall’eucaristia parte anche il movimento
“estroverso” di una chiesa che incontra il Cristo nei
poveri e cerca di sostenerli con cibo e presenza,
con nutrimento e relazione, condividendo,
donando e facendo giustizia.
E questo ricordando quanto
afferma Giacomo: «Se un
fratello o una sorella sono senza
vestiti e sprovvisti del cibo
quotidiano e uno di voi dice loro:
“Andatevene in pace,
riscaldatevi e saziatevi”, ma non
date loro il necessario per il
corpo, a che cosa serve ?»
(Gc 2,15-16).
Per procedere a una
rilettura di
quest’opera di
misericordia occorre
anzitutto riflettere
sulla valenza
simbolica dell’atto di
mangiare. Per l’uomo
il mangiare è atto
primordiale e
riconoscimento
iniziale del mondo.
IL SUO LEGAME CON LA VITA È ESSENZIALE
DA QUANDO IL BAMBINO È FETO NEL
VENTRE MATERNO FINO ALLA MORTE.
L’atto di mangiare è rinvio all’attività culturale dell’uomo:
implica il lavoro, la preparazione del cibo, la socialità (nel
raccogliere e preparare il cibo, come nel consumarlo),
la convivialità.
A tavola non si
condivide solo
il cibo, ma si
scambiano
anche parole e
discorsi
nutrendo così
le relazioni,
ovvero ciò che
dà senso alla
vita sostentata
dal cibo.
Il mangiare implica dunque anche la creazione
culturale più straordinaria: il linguaggio.
Legato com’è all’oralità e al desiderio, l’atto di
mangiare investe la sfera affettiva ed emozionale
dell’uomo.
È dunque un
simbolo
antropologico di
pregnanza unica che
coglie l’uomo nelle
sue profondità più
intime e nascoste e
lo situa nel legame
con la terra, con il
cosmo, con la polis,
con la società, con il
mondo.
«Non esiste per l’uomo un assenso più totale a tutto ciò
che lo circonda dell’atto di mangiare. È il modo umano di
dire il proprio sì, perché è nello stesso tempo il sì del corpo
e dell’anima ... Ogni boccone di pane è in qualche modo
un boccone di mondo che accettiamo di mangiare»2.
2. GUSTAVE MARTELET, Genesi dell’uomo nuovo. Vie teologiche per un
rinnovamento cristiano, Queriniana, Brescia 1976, pp. 31-33.
L’atto di mangiare rinvia l’uomo al suo essere corpo sia come
bisogno che come legame con l’universo: mangiando, infatti, noi
assimiliamo il mondo in noi e lo trasformiamo. Il mangiare inoltre
ricorda all’uomo la sua caducità, il suo essere mortale: si mangia per
vivere, ma il mangiare non riesce a farci sfuggire alla morte.
Il cibo va anche
preparato. “Dare da
mangiare” significa
anche “fare da
mangiare”,
cucinare. Il fare da
mangiare è arte di
passaggio dal crudo
al cotto, dalla
natura alla cultura;
è lavoro, e può
divenire capolavoro.
E cucinare e preparare il cibo per qualcuno equivale a
dire: “Io voglio che tu viva”, “Io non voglio che tu
muoia”. Fare da mangiare è la più concreta
manifestazione di amore.
Se tra gli umani
esiste un amore
incondizionato,
questo è quello
della madre nei
confronti del
proprio figlio e la
madre non solo
dà il cibo, ma è il
cibo per il figlio,
perlomeno fino
allo svezzamento.
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