La prima domanda: si può rendere conto della differenza tra la percezione di un volto
reale e la percezione di un volto dipinto nei termini di una differenza di grado?
Un volto dipinto è qualcosa che si riconosce come un volto perché condivide le
proprietà m, n, p, … anche se non riusciamo a scorgere le proprietà x, y, z, … che
normalmente caratterizzano un volto?
L’analogia con il vedere qualcosa nella nebbia: ma è un’analogia che regge? Vediamo
male un volto dipinto?
Le ragioni che sembrano giustificare questa tesi: se guardo un dipinto, per quanto
accurato, vedrò comunque un insieme di proprietà M di P meno ricco e articolato
di quello che vedrei se osservassi direttamente P
La coppa di peltro è dipinta con
estrema cura, eppure vediamo
bene che è soltanto dipinta:
manca qualcosa di ciò che di
consueto ci parla il linguaggio
della realtà. La coppa ha
un’apparenza di tridimensionalità,
ma il suo apparirci orientata nel
piano ha in sé ancora molti tratti
che la svelano nella sua natura
soltanto pittorica.
Per Newall, di questo “soltanto” si può rendere conto così: elencando le proprietà
di P che non sono dipinte in questa natura morta
Una digressione apparente: la prospettiva humeana. Quando
Hume cerca di differenziare che cosa distingua la percezione dal
ricordo o dall’immaginazione, è costretto dal suo stesso
impianto teorico a fare affidamento ad un criterio meramente
quantitativo: la vivacità delle immagini mentali. Un’immagine
viva è una percezione, una più languida un ricordo o una
finzione immaginativa
We find by experience, that when any impression has been present with the
mind, it again makes its appearance there as an idea; and this it may do after
two different ways: either when in its new appearance it retains a considerable
degree of its first vivacity, and is somewhat intermediate betwixt an impression
and an idea: or when it entirely loses that vivacity, and is a perfect idea. The
faculty, by which we repeat our impressions in the first manner, is called the
MEMORY, and the other the IMAGINATION. It is evident at first sight, that the
ideas of the memory are much more lively and strong than those of the
imagination, and that the former faculty paints its objects in more distinct
colours, than any which are employed by the latter. When we remember any
past event, the idea of it flows in upon the mind in a forcible manner; whereas
in the imagination the perception is faint and languid, and cannot without
difficulty be preserved by the mind steddy and uniform for any considerable
time. Here then is a sensible difference betwixt one species of ideas and
another. But of this more fully hereafter.[D. Hume, A Treatise on Human Nature,
Part II, Sect. 5.]
Un problema che mostra la debolezza della soluzione
humeana: vivacità e nitidezza sono caratteri che
appartengono in misura variabile anche alla percezione, ma
una percezione vaga e confusa non è un ricordo o una
finzione immaginativa.
In fondo, ciò che caratterizza la tesi humeana è la convinzione
che non vi siano caratteristiche peculiari del ricordo o
dell’immaginazione e che ricordo e immaginazione siano
determinati nella loro natura dalla relazione genetica di
dipendenza dalla percezione – il ricordo o l’immaginazione di
un oggetto sono quel che resta della percezione di
quell’oggetto
Il problema di Hume: Hume cerca di differenziare
percezione, ricordo e immaginazione facendo leva su
un tratto – la vivacità – che è comunque già una
variabile interna alla scena percettiva. Il risultato è
che dovremmo chiamare un ricordo ciò che
intravediamo nella nebbia, ma non è evidentemente
così
Newall in fondo fa una cosa simile: ci invita a pensare che una
raffigurazione di x sia fenomenologicamente diversa da una
percezione diretta di x solo perché è più povera. Ciò che ci è
visibilmente presente è un insieme di dati che di per sé non
giustifica pienamente la tesi che la percezione porta con sé – le
immagini innescano appunto un vedere non veridico
dell’oggetto percepito. Ma se così stanno le cose, se la
percezione di un’immagine è un vedere non veridico, allora
dobbiamo dire che la coppa di peltro raffigurata è riconosciuta
erroneamente perché sono date solo alcune delle sue
proprietà – quelle che bastano per far sì che la nostra mente
tragga una conclusione affrettata e ritenga di vedere ciò che
non è in realtà effettivamente presente
Il duplice presupposto delle analisi di Newall è ora sotto i nostri occhi:
proprio come Hume riteneva che il ricordo fosse quel che resta di una
percezione, così Newall ritiene che la percezione di un oggetto dipinto sia
una scommessa azzardata, fatta sulla base di pochi dati. Vedere una coppa
di peltro nel quadro di Claesz vuol dire dunque alla lettera vedere male –
trarre a livello percettivo una conclusione che non avremmo dovuto trarre.
Di qui il primo presupposto: non vi sono per Newall tratti che caratterizzino
gli oggetti raffigurati qua raffigurati. Vedere un calice di peltro raffigurato
vuol dire solo credere di vedere un calice vero
Ma anche un secondo presupposto: quando vediamo un quadro, abbiamo
solo due possibili oggetti del vedere. Il primo è un vedere non veridico:
crediamo di vedere un calice reale, anche se non c’è. Il secondo è un vedere
veridico: vediamo – quando la vediamo – una tela coperta da pigmenti.
La seconda domanda: vedo un manichino in una vetrina e ad un
tratto mi sorge il dubbio che sia una persona vera. Guardo meglio
e mi accorgo che le cose stanno proprio così e una percezione
nega l’altra e assume il senso di una negazione – non un
manichino, ma una ragazza. O viceversa.
Nel caso di un dipinto vedo la tela e i pigmenti e vedo ciò che
raffigurano – perché non si crea la coscienza dell’altrimenti, del
“non paesaggio con alberi e cielo, ma tela con pigmenti di varia
natura”?
La risposta di Newall: vedo la raffigurazione in trasparenza. Dietro
ai pigmenti intravedo la raffigurazione: il paesaggio traspare dietro
alla disposizione accurata dei pigmenti sulla tela.
Ma si può davvero parlare in questo caso di trasparenza? Ci sono
almeno due problemi:
-Si tratta evidentemente di un uso metaforico del termine
“trasparenza” perché i pigmenti e la tela non sono ovviamente
trasparenti in senso proprio e non lasciano intravedere l’oggetto
raffigurato dietro di essi;
- dietro al vetro della finestra si vede l’oggetto in carne ed ossa e il
vetro si vede solo nella diminuita chiarezza di ciò che dietro ad esso
traspare. Ma le cose stanno così nel caso di un quadro? Vediamo
davvero i pigmenti e, attraverso di essi, la cosa stessa che è dipinta?
La trasparenza poggia sulla capacità di districare due voci diverse in un unico
dato sensibile: la voce che ci parla di ciò che sta dietro al vetro e la voce che
invece ci consente di vedere il vetro nella modificazione dell’aspetto di ciò
che dietro ad esso traspare.
Se ci disponiamo nella prospettiva della raffigurazione questa sembra ancora
una volta invitarci a sostenere che quando guardiamo un quadro il nostro
sistema percettivo sembra comportarsi come accade di fronte ad una lastra
di vetro: ciò che vediamo deve essere distinto nelle due voci che danno vita
al fenomeno percettivo – da una parte i pigmenti e la tela e, dietro ad essi, la
scena che rappresentano, una scena che deve essere colta al netto della
dimensione pittorica.
Dal punto di vista fenomenologico le cose non stanno così: non vediamo veridicamente
i pigmenti e non veridicamente un pezzo di mondo, ma vediamo un oggetto raffigurato
qua raffigurato e lo vediamo fatto di colori e di linee tracciate dalla mano di chi l’ha
dipinto o disegnato. Vediamo i pigmenti trasformati nel corpo di una determinata
raffigurazione. Non vediamo la tela i pigmenti, ma vediamo per esempio un calice di
peltro fatto di colori ad olio. Vediamo un oggetto che non ha una consistenza reale, ma
che appare per quello che è – un calice fatto di colori lucidi, distesi da un pennello
sottile.
Un’analogia musicale: quando qualcuno suona un violino, non sentiamo la nota come
una manifestazione del violino (mentre sentiamo un determinato rumore come
manifestazione del frantumarsi di un calice di vetro), ma questo non toglie che il suono
non sia percepito come un evento privo di una sua materialità che si rivela nel timbro
come- e nel timbro avvertiamo il legno del violino piuttosto che il metallo dei fiati.
La terza domanda: quando guardiamo un quadro
abbiamo un esempio di un vedere non veridico,
come quando crediamo di vedere un serpente e
vediamo un ramo?
Che cosa crediamo di vedere quando guardiamo
un dipinto?
Rispetto a che cosa il vedere un’immagine si deve
qualificare come un vedere non veridico?
Il vedere non veridico è tale rispetto a ciò che propriamente c’è – la tela coperta da
pigmenti. Dovremmo vedere una tela coperta di pigmenti. Ma non si comprende perché
non dovremmo vedere anche il modo in cui questi pigmenti si dispongono a formare
configurazioni di ogni genere.
Certo, in questo caso qualcosa muta. Quando guardiamo un quadro non diciamo di
vedere configurazioni di pigmenti, ma di vedere le configurazioni stesse nel loro
essere fatte dai pigmenti – e le configurazioni sono oggetti che hanno una datità
meramente percettiva: ci sono per la vista, ma non necessariamente per il tatto e
sono determinate nelle loro strutturazioni dal modo in cui si danno visivamente.
La quarta domanda: la teoria della depiction è un argomento che appartenga ad una
riflessione di carattere filosofico?
“Un problema filosofico ha la forma: ‘Non mi ci raccapezzo’” (L. Wittgenstein)
“Qual è il tuo scopo in filosofia? Indicare
alla mosca la via d’uscita dalla bottiglia”
(L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, 1953,
oss. 309).
Quali sono le ragioni per le quali
potremmo essere indotti a pensare che la
teoria della depiction può dire la sua sul
terreno dell’analisi filosofica?
Una ragione realistico-causale: ciò che c’è realmente è la tela coperta da
pigmenti ed è questa cosa materiale che determina causalmente la nostra
percezione: analizzare il nesso di depiction è utile per spiegare che cosa ci
consente di vedere immagini.
Una seconda ragione: il nesso di depiction sembra giustificare una concezione
segnica delle immagini. La tela, coperta da pigmenti, è il segno che rimanda
ad altro. Un segno convenzionale (Goodman), che deve essere studiato nella
sua natura sistemica (Kulvicki), un segno naturale (Hyman) o un segno
causalmente efficiente (Newall) – ma un segno, appunto
Le immagini bastano a se stesse perché sono oggetti
particolari – oggetti che si consumano con gli occhi
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