G. Verga CAVALLERIA RUSTICANA da “Vita dei campi” (1880) LA SITUAZIONE INIZIALE Turiddu[1] Macca, il figlio della gnà[2] Nunzia, come tornò da fare il soldato, ogni domenica si pavoneggiava in piazza coll’uniforme da bersagliere e il berretto rosso, che sembrava quello della buona ventura, quando mette su banco colla gabbia dei canarini (…). Egli aveva portato anche una pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli sul dietro dei calzoni, levando la gamba, come se desse una pedata. Ma con tutto ciò Lola di Massaro Angelo non si era fatta vedere né alla messa, né sul ballatoio ché si era fatta sposa con uno di Licodia, il quale faceva il carrettiere e aveva quattro muli di Sortino in stalla. Dapprima Turiddu come lo seppe, santo diavolone! voleva trargli fuori le budella dalla pancia , voleva trargli, a quel di Licodia! però non ne fece nulla, e si sfogò coll’andare a cantare tutte le canzoni di sdegno che sapeva sotto la finestra della bella. (…) Finalmente s’imbatté in Lola che tornava dal viaggio alla Madonna del Pericolo, e al vederlo, non si fece né bianca né rossa quasi non fosse stato fatto suo. (…) “E’ giusto;” rispose Turiddu “ora che sposate compare Alfio, che ci ha quattro muli in stalla, non bisogna farla chiacchierare la gente. Mia madre, invece, poveretta, la dovette vendere la nostra mula baia, e quel pezzetto di vigna sullo stradone, nel tempo ch’ero soldato. Passò quel tempo che Berta filava, e voi non ci pensate più al tempo in cui ci parlavamo dalla finestra del cortile, e mi regalaste quel fazzoletto, prima d’andarmene, che Dio sa quante lagrime ci ho pianto dentro nell’andar via lontano tanto che si perdeva persino il nome del nostro paese. Ora addio, gnà Lola, facemu cuntu ca chioppi e scampau, e la nostra amicizia finiu[3]. \\\ [1] Turiddu: Salvatorillo. [2] gnà: è l’aferesi del “duena” spagnolo, che dà “gnà” per le donne di bassa condizione, e “donna” per le donne alle quali si dà del “vossìa” e del “voscienza”. [3] facemu cuntu ca chioppi e scampau, e la nostra amicizia finiu: facciamo conto che sia piovuto, e poi spiovuto, e la nostra amicizia è finita. L’ESORDIO (…) La gnà Lola si maritò col carrettiere; e la domenica si metteva sul ballatoio, colle mani sul ventre per far vedere tutti i grossi anelli che le aveva regalati suo marito. (…) “Voglio fargliela proprio sotto gli occhi a quella cagnaccia” borbottava. Di faccia a compare Alfio ci stava massaro Cola, il vignaiolo, il quale era ricco come un maiale, dicevano, e aveva una figliuola in casa. Turiddu tanto disse e tanto fece che entrò camparo da massaro Cola, e cominciò a bazzicare per la casa e a dire le paroline dolci alla ragazza. (…) Lola che ascoltava ogni sera , nascosta dietro il vaso di basilico, e si faceva pallida e rossa, un giorno chiamò Turiddu. LA RIVELAZIONE “Avete ragione di portarle dei regali,” gli disse a vicina Santa “perché mentre voi siete via vostra moglie vi adorna la casa!”. LA SPANNUNG Turiddu, adesso che era tornato il gatto, non bazzicava più di giorno per la stradicciuola, e smaltiva l’uggia all’osteria, cogli amici; e la vigilia di Pasqua avevano sul desco un piatto di salsiccia. Come entrò compare Alfio, soltanto dal modo in cui gli piantò gli occhi addosso, Turiddu comprese che era venuto per quell’affare e posò la forchetta sul piatto. “Avete comandi da darmi, compare Alfio?” gli disse. “Nessuna preghiera, compare Turiddu, era un pezzo che non vi vedevo, e volevo parlarvi di quella cosa che sapete voi”. Turiddu da prima gli aveva presentato il bicchiere, ma compare Alfio lo scansò colla mano. Allora Turiddu si alzò e gli disse: “Son qui, compar Alfio”. Il carrettiere gli buttò le braccia al collo[1]. (…). Con queste parole si scambiarono il bacio della sfida. Turiddu strinse fra i denti l’orecchio del carrettiere, e così gli fece la promessa solenne di non mancare [1] gli buttò le braccia al collo: fa parte del rito della sfida. Si scambiano il bacio della sfida e Turiddu stringe fra i denti l’orecchio del carrettiere per impegnare la sua parola. LO SCIOGLIMENTO Entrambi erano buoni tiratori; Turiddu toccò la prima botta, e fu a tempo a prenderla nel braccio; come la rese, la rese buona, e tirò all’anguinaia (…). Come egli (compare Alfio) stava in guardia tutto raccolto per tenersi la sinistra sulla ferita, che gli doleva, e quasi strisciava per terra col gomito, acchiappò rapidamente una manata di polvere e la gettò negli occhi dell’avversario. “Ah!” urlò Turiddu accecato “son morto”. Ei cercava di salvarsi facendo salti disperati all’indietro: ma compare Alfio lo raggiunse con un’altra botta allo stomaco e una terza alla gola. “E tre!” questa è per la casa che tu mi hai adornato(…). Turiddu annaspò un pezzo di qua e di là fra i fichidindia e poi cadde come un masso. Il sangue gli gorgogliava spumeggiando nella gola, e non poté profferire nemmeno: “Ah! Mamma mia!” CAVALLERIA RUSTICANA Melodramma in un atto Testi di Giovanni Targioni-Tozzetti Musiche di Pietro Ma scagni Prima esecuzione: 17 maggio 1890, Roma LE PASSIONI ELEMENTARI DI UN’UMANITA’ PRIMITIVA G. Verga esordì con romanzi a sfondo autobiografico, che documentano il suo nativo Romanticismo. Verso i quarant’anni, lo scrittore venne liberandosi da codesto “soggettivismo romantico” e volse la sua visione alla vita di provincia, attratto da quel mondo di passioni elementari in cui pulsava un’umanità primitiva. LA FERREA LOGICA DELLA SOFFERENZA Il Verga maturo si venne orientando verso una fede triste ed assoluta secondo la quale la sofferenza è la logica ferrea, oggettiva, implacabile della vita stessa. L’UMANITA’ COLLETTIVA I protagonisti sono confusi in una umanità collettiva, poiché tutti sono umiliati da quella che è la norma fissa, fatale, universale: la sofferenza, triste equilibrio intrinseco la mondo stesso. L’ASSENZA DELL’IDILLIO Nello sconsolato mondo verghiano non c’è mai posto per l’idillio e, dove a questo solo si accenna, esso è subito oppresso da un’atmosfera di cruccio; dal travaglio quotidiano; dalla preoccupazione della lotta senza tregua col mondo. LA LINGUA «“Cavalleria rusticana” e “La lupa” furono i primi due bozzetti della “Vita dei campi”: è possibile rendersene conto per alcune testimonianze di carattere linguistico. In essi, il dialetto siciliano urta e ribolle e borbotta un po’ troppo bruscamente ancora» (Luigi Russo). Un confronto fra G. D’Annunzio, “Dalfino”, da Terra vergine (1882) e G. Verga, “Cavalleria rusticana”, da Vita dei campi (1880) I MODI ESPRESSIVI G. D’Annunzio, Racconti (a cura di P. Gibellini, P. Redaelli), La Scuola, Brescia, 1992, pp. 33-48. • Per Verga, che aveva • Per D’Annunzio tali rifiutato di esprimersi in elementi non sono che dialetto siciliano, si preziosismi al pari degli trattava di riprodurre “la altri, atti al più ad offrire fisionomia dell’intelletto, qualche tocco di colore, il giro di pensieri dei suoi dal momento che la personaggi incolti perché presenza del narratore tutto il racconto apparisse colto e raffinato è all’interno dell’ambiente ovunque avvertibile, nella rappresentato e l’opera selezione del lessico, nei desse l’illusione di essersi paragoni, nelle immagini, fatta da sé, senza nelle ricercate descrizioni l’intervento di un autore paesaggistiche. esterno. Protagonisti a confronto • Turiddu[1] Macca, il figlio della gnà[2] Nunzia, come tornò da fare il soldato, ogni domenica si pavoneggiava in piazza coll’uniforme da bersagliere e il berretto rosso, che sembrava quello della buona ventura, quando mette su banco colla gabbia dei canarini (…). Egli aveva portato anche una pipa col re a cavallo che pareva vivo, e accendeva gli zolfanelli sul dietro dei calzoni, levando la gamba, come se desse una pedata. Ma con tutto ciò Lola di Massaro Angelo non si era fatta vedere né alla messa, né sul ballatoio ché si era fatta sposa con uno di Licodia, il quale faceva il carrettiere e aveva quattro muli di Sortino in stalla. Dapprima Turiddu come lo seppe, santo diavolone! voleva trargli fuori le budella dalla pancia , voleva trargli, a quel di Licodia! però non ne fece nulla, e si sfogò coll’andare a cantare tutte le canzoni di sdegno che sapeva sotto la finestra della bella. • Nella spiaggia lo chiamavano Dalfino; e il nomignolo gli stava a capello, perché dentro l’acqua pareva proprio un delfino, con quella schiena curvata dal remo e annerita dalla canicola, con quella grossa testa lanosa, con quel vigore sovrumano di gambe e di braccia che gli facea far guizzi e salti e tonfi da raccapriccire. Bisognava vederlo buttarsi giù con un urlo dallo scoglio de’ Forrioni, come un aquilastro ferito all’ala, e poi ricomparire venti braccia più in là, fuor dell’acqua verde, con tanto d’occhiacci aperti contro il sole: bisognava vederlo! Duelli a confronto • • • • • • Entrambi erano buoni tiratori; Turiddu toccò la prima botta, e fu a tempo a prenderla nel braccio; come la rese, la rese buona, e tirò all’anguinaia (…). Come egli (compare Alfio) stava in guardia tutto raccolto per tenersi la sinistra sulla ferita, che gli doleva, e quasi strisciava per terra col gomito, acchiappò rapidamente una manata di polvere e la gettò negli occhi dell’avversario. “Ah!” urlò Turiddu accecato “son morto”. Ei cercava di salvarsi facendo salti disperati all’indietro: ma compare Alfio lo raggiunse con un’altra botta allo stomaco e una terza alla gola. “E tre!” questa è per la casa che tu mi hai adornato(…). Turiddu annaspò un pezzo di qua e di là fra i fichidindia e poi cadde come un masso. Il sangue gli gorgogliava spumeggiando nella gola, e non poté profferire nemmeno: “Ah! Mamma mia!” • - Addio, Zarra; vado. • La baciò sulla bocca; poi si diede a correre sulla rena verso la Dogana, e il sangue gli s’era inferocito. Incontrò il fnanziaere proprio sotto la lanterna; gli si fece addosso come una tigre e lo sgozzò d’un colpo senza fargli dire né pure gesummaria. Poi, mentre la gente accorreva, si gettò in mare contro i cavalloni furibondi, sparì, ricomparve lottante con quel suo vigore sovrumano; e lo videro su la cima bianca dei marosi, come un delfino, ricomparire, sparire, perdersi per sempre nel crepuscolo incerto, tra i fischi dello scirocco e le grida disperate di comare ‘Gnese. •