Bibliografia: Vittorio Alfieri
• Edizioni critiche (Centro Nazionale di Studi Alfieriani
di Asti): Filippo, a cura di Carmine Jannaco (1952);
Mirra, a cura di Martino Capucci (1974), Saul, a cura di
C. Jannaco e Angelo Fabrizi (1982).
• Ezio Raimondi, Le pietre del sogno. Il moderno dopo il
sublime, Bologna, Il Mulino, 1985; Giuseppe Antonio
Camerino, Alfieri e il linguaggio della tragedia, Napoli,
Liguori, 1999. Suggestiva e fondamentale rimane la
lettura di Giacomo Debenedetti, Vocazione di Vittorio
Alfieri, Roma, Editori Riuniti, 1977.
Bibliografia: Alessandro Manzoni
• L’edizione critica del Conte di Carmagnola, a cura di G. Bardazzi, Milano
1985. Oggi si dispone anche di quella a cura di Giuseppe Sandrini,
uscita nel 2004 a Milano, presso il Centro Nazionale di Studi
Manzoniani, nell’ambito dell’Edizione Nazionale ed Europea delle
Opere di Alessandro Manzoni. Tra le numerose edizioni economiche,
si segnala quella a cura di Gilberto Lonardi, con note di Paola
Azzolini, Venezia, Marsilio, 1989.
• L’edizione critica dell’Adelchi, a cura di Isabella Becherucci, è uscita nel
1998, a Firenze, presso l’Accademia della Crusca. Anche in questo
caso, tra le numerose versioni economiche disponibili, si suggerisce
quella curata da G. Lonardi e annotata da P. Azzolini (Venezia,
Marsilio, 2005 - I ed.1987).
• Sulla drammaturgia manzoniana: G. Lonardi, Ermengarda e il Pirata,
Bologna, Il Mulino, 1991; Carlo Annoni, Lo spettacolo dell’uomo interiore.
Teoria e poesia del teatro manzoniano, Milano, Vita e Pensiero1997.
Cronologia essenziale
V. Alfieri
• Filippo 1775-76 e 1780-82
• Saul 1782 (con correzioni fino al 1788)
• Mirra 1784-87
A. Manzoni
• Il Conte di Carmagnola 1816-20
• Adelchi 1820-22
Uno sguardo all’etimologia
• Il sostantivo ‘teatro’ proviene dal latino theatrum, che a
sua volta ricalca il greco théatron, derivante da theaomai,
che significa ‘guardo’, ‘sono spettatore’ .
• Il termine tragedia – tramite il latino tragoedia – deriva dal
greco tragoidia, che significa letteralmente ‘canto del
montone’ o ‘canto per il (in onore del) montone’,
poiché – probabilmente – le prime tragedie vennero
rappresentate in occasione delle feste in onore del dio
Dioniso (o Bacco), ispiratore dell’arte drammatica,
durante le quali venivano portati in corteo e sacrificati
capri e montoni .
La rinascita della tragedia (I)
• 1514-15, Giangiorgio Trissino, Sofonisba (prima
rappresentazione, in francese, nel 1554 a Blois, per
volere di Caterina de’ Medici).
• 1515, Giovanni Rucellai, Rosmunda
• 1524, Alessandro de’ Pazzi, Dido in Cartagine (dopo
avere tradotto in latino l’Elettra e l’Edipo, e in volgare lo
stesso Edipo e l’Ifigenia in Aulide e il Ciclope).
• 1522 ca. Luigi Alamanni, Antigone
• 1525 ca. Ludovico Martelli, Tullia (ed. postuma 1533).
La rinascita della tragedia (II)
• 1541, Giambattista Giraldi Cinzio, Orbecche
• 1542, Sperone Speroni, Canace
• 1546, Pietro Aretino, Orazia
• 1587, Torquato Tasso, Torrismondo
Giraldi, Orbecche, III 2 (vv. 1104 e ss.)
La mia figliuola, in cui sola avea posto
tutta la speme mia, tutto il mio bene,
per cui sola i’ sperava questo poco
di viver che m’avanza esser contento,
mostrato m’ha quanto sia stato folle
il mio pensiero e quanto infide e ingrate
siano le donne tutte e ch’al lor peggio
s’appiglian sempre. Costei che poteva
aver Selino, un de’ gran re del mondo,
per suo marito, ha preso un che di vile
sangue creato insin da’ suoi primi anni
ne la mia corte s’è nodrito.
[...]
Avrò per figlia una che me da padre
non tiene? E per fedele un che me ’nganna?
Semplice ben sarei più d’ogni sciocco
s’io mi lasciassi por questa su gli occhi
e non mostrassi a l’uno e a l’altro quanto
aver poco rispetto a un re sia grave.
Vedrà quel traditor, vedrà la figlia
(se figlia si dee dir femina tale)
ciò che posson gli scettri e le corone
e s’io saprò mostrare ad ambo loro
(com’a molti ho mostrato) esser re vero.
Sperone Speroni, Canace, vv. 616-658
[…] ’l mio peccato,
non malizia mortale,
ma fu celeste forza
che ogni nostra virtù vince et ammorza.
[…]
Vili seco, io nol nego,
e disoneste fur le opere mie;
ma n’ebbi quel che non pur non sperai,
ma mai non disiai.
Spinse allor le mie membra
non propria elezione,
ma uno impeto fatal che intorno al core
mi s’avolse in quel punto e in vece d’alma
mosse il mio corpo frale
e sforzollo a far cosa
orribile a chi l’ode,
a chi la fe’ odiosa.
[...]
Or vivo e con l’empiezza
del mio grave peccato,
che spense il nome e la ragion fraterna,
do cagione a mio padre
di divenir spietato,
crudelmente extinguendo
col sangue de’ suoi figli
la sua pietà paterna.
Orazi e Curiazi (da Livio, Hist., I 24-25)
Cavalier d’Arpino, Combattimento tra gli
Orazi e i Curiazi, Roma, Palazzo dei
Conservatori, 1612
Jacques-Louis David, Il giuramento
degli Orazi, Parigi. Louvre, 1785
Pietro Aretino, Orazia, III, vv. 1627 e ss.
III, vv. 1627 e ss.
Io vo’ inferir che pare orribil cosa
l’avere Orazio la sorella uccisa,
perché il velame de la crudeltade
l’atto ricopre: che da ragion mosso
fece ciò ch’egli ha fatto e ch’io farei
contra me stesso, non che d’un mio figlio,
quando che io in me medesmo ardissi
ombrar col duolo il comun gaudio e solo.
V, vv. 2438 ss.
Ben sa de i sommi Dei la providenza
che il tutto è intervenuto perché Celia
gran cagion dienne a lui, giovane altiero.
Devea la crudeltà, dal suo marito
usata in tòr del mondo i fratei suoi,
ispegner la pietà, ch’ella ebbe tanta
de la morte di tale, e saria viva,
e ’l cor proprio d’Orazio, che sospinto
fu al giusto atto da reale sdegno.
T. Tasso, Torrismondo, 1587
Situazione di partenza
Re dei Goti → Alvida >< Rosmonda (scambio)
↓
Re di Svezia prende Alvida come figlia
I movimento
Re di Norvegia (Germondo) → Alvida
↓
Torrismondo (re dei Goti)
↔ Alvida
II movimento
Ipotesi di Torrismondo → Alvida >< Rosmonda (scambio)
Scoperta della verità da parte di Torrismondo (Alvida è sua sorella)
Conclusione
Suicidio di Alvida e Torrismondo
La tragedia secentesca
• 1627-28, Federico della Valle, Reina di
Scotia, Ester, Iudit
• 1657, Carlo de’ Dottori, Aristodemo
→ la drammaturgia gesuitica
Giuditta e Oloferne
Caravaggio, 1599-1600
Artemisia Gentileschi, 1620
La tragedia del XVIII secolo
• 1713, Scipione Maffei, Merope
• 1744, Saverio Bettinelli, Gionata figlio di Saulle
• 1779, Alessandro Verri, La congiura di Milano
V. Alfieri, Del principe e delle lettere (1778-1786) I 8
“Leggono adunque veramente nel principato i pochi uomini rinchiusi
nelle città; e fra questi, il minor numero di essi; cioè quei pochissimi
che, non bisognosi di esercitare arte nessuna per campare, non
desiderosi di cariche, non adescati dai piaceri, non traviati dai vizi,
non invidiosi dei grandi, non vaghi di far pompa di dottrina, ma
veramente pieni di una certa malinconia riflessiva, cercano ne’ libri
un dolce pascolo all’anima e un breve compenso alle umane
miserie; le quali forse assai più vivamente vengono sentite da chi il
minor danno ne sopporta. […] Leggere, come io l’intendo, vuol dire
profondamente pensare; pensare vuol dire starsi; e starsi vuol dire
sopportare. […] Non nego però che a lungo andare lo spirito dei libri
non s’incorpori, direi così, nello spirito dei popoli che nella loro
lingua gli hanno; e penetra questo spirito in tutti gl’individui, o sia per
tradizione o sua per lettura effettiva […] e penetra a tal segno che in
capo a qualche secolo si trova poi mutata affatto l’opinione di tutti”.
Il teatro tragico alfieriano
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21 tragedie
1775-1790
Endecasillabi sciolti
Intrecci brevi ed essenziali: pochi personaggi,
sviluppo lineare, dialogo d’azione + monologo o
soliloquio
• Tema fondamentale: la tirannide (cioè la
negazione della libertà) come causa suprema
dell’infelicità umana (arbitrio >< pietà)
• Rispetto delle tre ‘unità aristoteliche’
V. Alfieri, Vita (1790-1803), IV 4
“(I) Ideare dunque io chiamo il distribuire il soggetto in atti e
scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, e in due
paginucce di prosaccia farne quasi l’estratto a scena per scena
di quel che diranno e faranno. (II) Chiamo poi stendere,
qualora ripigliando quel primo foglio, a norma della traccia
accennata ne riempio le scene dialogizzando in prosa come
viene la tragedia intera, senza rifiutar un pensiero, qualunque ei
siasi, e scrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza
punto badare el come. (III) Verseggiare finalmente chiamo
non solamente il porre in versi quella prosa, ma col riposato
intelletto assai tempo dopo scernere tra quelle lungaggini del
primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia, e leggibili.
Segue poi come di ogni altro componimento, il dover
successivamente limare, levare, mutare”.
V. Alfieri, Vita, IV 2
“Noi Italiani non avendo altro verso che
l’endecasillabo per ogni componimento eroico,
bisognava creare una giacitura di parole, un
rompere sempre variato di suono, un fraseggiare
di brevità e di forza, che venissero a distinguere
assolutamente il verso sciolto tragico da ogni
verso sciolto e rimato sì epico che lirico”
Encyclopédie, vol. V,
ad vocem Elocution (1755)
“Essere eloquenti […] significa comunicare
rapidamente e imprimere con forza nell’animo
altrui il sentimento profondo da cui si è
penetrati. Questa definizione è tanto più giusta,
in quanto si applica alla stessa eloquenza del
silenzio e a quella del gesto”.
Alfieri, Filippo
• Tempi di composizione: 1775-76, 1780-81, 1785-87, 1789
• Fonte principale: César Vichard, Dom Carlos (1672) →
alterazione dei fatti storici
• Personaggi protagonisti: Filippo II re di Spagna, Elisabetta
(seconda moglie di Filippo; Isabella nella tragedia di A.), Carlo
(figlio di Filippo e Maria di Portogallo)
Alfieri, Filippo
• Tempi di composizione:
1775-76, 1780-81, 1785-87,
1789
• Fonte principale: César
Vichard, Dom Carlos (1672)
→ alterazione dei fatti storici
• Personaggi protagonisti:
Filippo II re di Spagna,
Elisabetta (seconda moglie di
Filippo; Isabella nella tragedia
di A.), Carlo (figlio di Filippo
e Maria di Portogallo)
I fatti storici
• 1543 matrimonio tra Filippo II e Maria di Portogallo
• 1545 nascita di Carlo e morte di Maria
• 1554-1558 matrimonio tra Filippo e Maria I
d’Inghilterra
• 1559 pace di Cateau-Cambrésis, matrimonio tra Filippo
e Elisabetta di Valois, figlia di Enrico II
• 1568 ribellione dei Paesi Bassi capitanata da Guglielmo
I d’Orange, e repressione spagnola; morte in carcere di
Carlo accusato di avere ordito una congiura contro il
padre.
F. Schiller, Sul sublime, 1794-96
Il tratto distintivo dell’umanità è la volontà. […] Per
questo non esiste nulla di più indegno per l’uomo che il
subire violenza, giacché la violenza lo annienta. Chi usa
violenza ci contende la nostra stessa umanità; chi la
subisce vilmente abdica alla propria umanità. […] Questa
è la condizione in cui si trova l’uomo. Circondato da
infinite forze che gli sono tutte superiori, e che agiscono
da dominatrici, l’uomo, in virtù della sua natura, reclama il
diritto a non subire violenza alcuna.
Verdi, Don Carlo (1865-86), IV 2
Elisabetta Giustizia, giustizia, Sire!
Giustizia, giustizia! Ho fé nella lealtà del
Re. Son nella Corte tua crudelmente
trattata e da nemici oscuri incogniti
oltraggiata. Lo scrigno ov’io chiudea,
Sire, tutt’un tesor, i gioielli… altri oggetti
a me più cari ancor, l’hanno rapito a me!
Giustizia, giustizia! La reclamo da Vostra
Maestà!
Filippo Quello che voi cercate, eccolo!
Elisabetta Ciel!
Filippo A voi d’aprirlo piaccia...
Ebben, io l’aprirò.
Elisabetta Ah, mi sento morir!
Filippo Il ritratto di Carlo! Non trovate
parola? Il ritratto di Carlo!
Elisabetta Sì
Filippo Fra i vostri gioielli?
Elisabetta Sì!
Filippo Che! confessar l’osate a me?
Elisabetta Io l’oso! Sì! Ben lo sapete,
un dì promessa al figlio vostro fu la mia
man! Or v’appartengo… a Dio
sommessa, ma immacolata qual giglio
son! Ed or si sospetta l’onor
d’Elisabetta. Si dubita di me… e chi
m’oltraggia è il Re!
Filippo, I 2, 25-110
Le molteplici ‘ragioni’ di Carlo nel dialogo con Isabella
• Primo livello: la corte austera e iniqua (34 e 38)
• Secondo livello: “le mie angosce / principio han tutte dal funesto
giorno, / che sposa in un data mi fosti, e tolta” (68-70)
• Terzo livello: “Suddito, e figlio / di assoluto signor” ho
sopportato tutto in silenzio; la volontà di Filippo è stata per me
una legge (75 e ss.)
• Quarto livello: Filippo, benché sia mio padre, mi odia e induce
all’odio nei miei confronti (89 e ss.) → domanda: un padre può
odiare suo figlio?
• Quinto livello: “Qual havvi affetto, che pareggi, o vinca / quel
dolce fremer di pietà?” (53 ss.)
Filippo, I 2, 5-110: alcune parole chiave
• Corte nemica (28), austera (38), empia e infame (96-97)
• Padre signore (31), padre irato (62), quel padre (74), il
cor del padre (88, 90), qual padre (95), si adira di essere
padre (101-102)
• Pietà (37, 51, 53, 55, 60)
• Odio (28, 88, 90, 92, 100, 108: snaturato inaudito odio
paterno)
• Pianto (48, 59, 77, 86-87)
• Destino: dura sorte (47-48), fortuna (57), dura
necessità (64-65)
La ‘posizione’ di Carlo (I 4)
nel dialogo con Perez
193-196
Altro nemico / non ho, che il padre; che onorar di un tanto /
nome i suoi vili non vogl’io, né il deggio. / Silenzio al padre, agli
altri sprezzo oppongo.
204-210
Chiuso inaccessibil core / di ferro egli ha. Le mie difese lascia /
alla innocenza; al ciel, che pur talvolta / degnarla suol di alcun
benigno sguardo. / Intercessor, s’io fossi reo, te solo / non
sdegnerei: qual di amistade prova / darti maggior poss’io?
Filippo, II 2, 23-165
• Prima domanda di Filippo a Isabella: il dilemma tra
paternità e regalità, tra “ragion di sangue” e “ragion di
stato”
• Seconda domanda di Filippo a Isabella: il suo
‘sentimento’ per Carlo
→ La (supposta) rivelazione del tradimento (60-117)
• Terza domanda di Filippo a Isabella: quale sorte meriti
un figlio colpevole (98)
• Il consiglio di Isabella: (1) primato della paternità, (2)
necessità di rigettare la logica del sospetto a favore di
quella dell’ascolto, (3) possibilità di contemperare
giustizia, ira e dolcezza
Filippo, II 2, 23-165: la sincerità del re
Stimo il tuo parere più di ogni altro (29-30)
Voglio che tu sia giudice di mio figlio (58-59 e 98100)
Chi più di me vorrebbe che Filippo non fosse
colpevole? (107-108)
Ascolto in me anche la voce del padre (117-118)
Poiché tu credi Filippo innocente, sembra quasi
tale anche a me (163-165)
Filippo, II 2, 156-162
Oh trista
Sorte dei re! Del proprio cor gli affetti,
Non che seguir, né pur spiegar, ne lice.
Spiegar? Che dico? Né accennar: tacerli,
Dissimularli, le più volte è forza. –
Ma, vien poi tempo, che diam loro il varco
Libero, intero. – Assai, più che nol pensi,
Chiara ogni cosa il tuo dir fammi…
Lo sviluppo del dramma
• II 4 Carlo ammette la sua ‘colpa’: 186-194 e 229-246 (“In cor
pietade io sento / de’ lor mali”). Filippo promette il perdono
(265-277)
• II 5 Filippo e Gomez
• III 1 7-18 e 29-34: Carlo sospetta una finzione da parte di
Filippo, mentre Isabella lo rimprovera (“L’ira ti accieca; un odio
in lui supponi, / che allignar non vi può”).
• III 5 il consiglio notturno: Filippo, Gomez, Leonardo, Perez
– Cfr. sptt. Il discorso di Perez (204-260)
• IV 2 Carlo e Filippo: “Ma che fec’io? […] Ecco il mio sol
misfatto: / sete hai di sangue”
• IV 5 (202-234) Gomez e Isabella: l’unica colpa di Carlo è “esser
figlio di un orribil padre”; lo “snaturato odio paterno” nasce da
“vile invidia”.
L’epilogo del dramma: il V atto
• V 3 Filippo: “tutto io so: quella che voi d’amore, / me di furor
consuma, orrida fiamma”; “vendetta vuolsi”; “mi giova intanto /
goder qui di vostr’onta” → la colpa è un amore che Filippo
interpreta come offesa, come violazione della dedizione assoluta
che egli pretende per sé (cfr. v. 184: “geloso orgoglio”).
• V 4 Morte di Perez e di Carlo; volontà di Filippo di tenere in vita
Isabella (“Mi fia sollievo il tuo lungo dolore”); suicidio di
Isabella; conclusione di Filippo (“Ma, felice son io?”).
Sull’accusa di tentato parricidio
Lettera di Ranieri Calzabigi, 20 agosto 1783
Avrei desiderato che fosse meglio sviluppata l’accusa del re contro il
figlio d’averlo voluto trucidare. Non ben si rileva se l’attentato sia
fondato sul vero, o se sia puro pretesto del padre per rendere il principe
reo ed odioso.
Sull’accusa di tentato parricidio
Lettera di Vittorio Alfieri, 6 settembre 1783
Non ho voluto mai schiarire nel corso di quella tragedia l’accusa del
parricidio dal padre apposto al figliuolo, per due ragioni: prima, perché dal
totale carattere e di Carlo e di Filippo mi parea che troppo chiaramente
risultasse ai leggitori e spettatori che Carlo era innocente di tale orribile
misfatto: seconda, e a parer mio più forte, che volendo io a Filippo dare
del feroce e cupo carattere del Tiberio di Tacito, non poteva io meglio il
mio intento ottenere, che spandendo moltissima oscurità, dubbiezza,
contraddizione apparente, e sconnessione di ordine di cose in tutta la
condotta di Filippo. […] Tuttavia da questo disordine stesso ho voluto
trane una delle pennellate più importanti del carattere di quell’inaudito
padre, che mescendo il vero col falso, e valendosi del verisimile come
vero, pervenne pure ad offuscar talmente l’intelletto de’ suoi
contemporanei, che la morte violenta di Carlo da alcuni è negata, da altri
stimata giusta e meritevole.
V. Alfieri, Vita, IV 9
“Fin dal marzo di quell’anno [1782] mi era dato
assai alla lettura della Bibbia, ma non però
regolatamente con ordine. Bastò non dimeno
perch’io m’infiammassi del molto poetico che si
può trarre da cotesta lettura, e che non potessi
più stare a segno s’io con una qualche
composizione biblica non dava sfogo a
quell’invasamento che n’avea ricevuto. Ideai
dunque, e distesi, e tosto poi verseggiai il Saulle”.
V. Alfieri, Parere sulle tragedie, 1789
Le antiche colte nazioni, o sia che fossero più religiose di noi, o che in
paragone dell’altre stimassero maggiormente se stesse, fatto si è che quei
loro soggetti, in cui era mista una forza soprannaturale, esse li
reputavano i più atti a commuovere in teatro. […] Ma io benissimo so
che quanto piacevano tali specie di tragedie a quei popoli altrettanto
dispiacciono ai nostri. […] Il nostro secolo, niente poetico, e tanto
ragionatore, non vuole queste bellezze in teatro. […] Saul, ammessa da
noi la fatal punizione di Dio per aver egli disobbedito ai sacerdoti, si
mostra, per quanto a me pare, quale esser dovea. Ma per chi anche non
ammettesse questa mano di Dio, […] basterà l’osservare che Saul
credendo d’essersi meritata l’ira di Dio, per questa sola sua opinione
fortemente concepita e creduta, potea egli benissimo cadere in questo
stato di turbazione. […] In questa tragedia l’autore ha sviluppata, o
spinta assai più oltre che nell’altre sue, quella perplessità del cuore
umano, […] per cui un uomo appassionato di due passioni fra loro
contrarie, a vicenda vuole e disvuole una cosa stessa.
C. Calcaterra, Il barocco in Arcadia e altri studi sul Settecento,
Bologna, Zanichelli, 1950
“ Ardentissima era in Piemonte la discussione se il regime
ebraico non fosse stato nulla più che un governo dispotico e
tirannico, simile ad altri reggimenti orientali, come sostenevano il
Boulanger e il Montesquieu, ovvero un governo teocratico, che
avesse veramente attinto leggi e autorità da Dio. […] Da questa
temperie di studi biblici [...] venne a lui l’idea centrale di
rappresentare in Saul il terribile dramma umano, cui aveva dato
luogo la forma di governo teocratico, già propria degli israeliti.
Tutti gli studi biblici dei subalpini mettevano innanzi quel Re
come una delle figure più drammatiche della storia ebraica. In lui
era rappresentato il cozzo tra l’uomo e Dio” .
Alfieri, Saul, II 2: “Piangete tutti”
Cfr. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, red. 1817, II 19 (lettera da
Ventimiglia, 19 e 20 febbraio)
“Eccolo quel demonio mio persecutore; torna a incalzarmi, a
premermi, a investirmi, e m’accieca l’intelletto, e mi ferma perfino le
palpitazioni del cuore, e mi fa tutto ferocia, e vorrebbe il mondo
finito con me. – Piangete tutti – e perché mi caccia fra le mani un
pugnale, e mi precede, e si volge guardando se io lo sieguo, e mi
addita dov’io devo ferire? Vieni tu dall’altissima vendetta del Cielo? E
così nel mio furore e nelle mie superstizioni io mi prostendo su la
polvere a scongiurare orrendamente un Dio che non conosco, che
altre volte ho candidamente adorato, ch’io non offesi, di cui dubito
sempre – e poi tremo, e l’adoro. Dov’io cerco aiuto? Non in me, non
negli uomini: la Terra io la ho insanguinata, e il Sole è negro”.
Alfieri, Saul, I 1: “Empio spirto”
Cfr. Verdi, Macbeth, I 3 (libretto di F. M. Piave, 1847)
Banco
Oh, come s’empi costui d’orgoglio,
Nella speranza d’un regio soglio!
Ma spesso l’empio spirto d’Averno
Parla, e c’inganna, veraci detti,
E ne abbandona poi maledetti
Su quell’abisso che ci scavò.
Alfieri, Saul, III 4: “Di che pianger ora?”
Cfr. Dante, Inferno, XXXIII 37-42
Quando fui desto innanzi la dimane,
Pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
Ch’eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
Pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
E se non piangi, di che pianger suoli?
Saul, IV 3, 95-96
O ria di regno insaziabil sete,
Che non fai tu? Per aver regno, uccide
Il fratello il fratel; la madre i figlio;
La consorte il marito; i figlio il padre…
Virgilio, Eneide, III 56-57: Quid non mortalia pectora cogis,
/ Auri sacra fames!
Marco 13,12: [Si leverà nazione contro nazione e regno
contro regno.] Il fratello consegnerà a morte il fratello, il
padre il figlio e i figli insorgeranno contro i genitori e li
metteranno a morte.
E. Raimondi, Le pietre del sogno, 1985
“Il Saul è la strana interpretazione alfieriana di una crisi
di identità, di una scissione dell’Io, dove sono
compresenti paradossalmente Re Lear e Amleto, dove il
personaggio dominante è drammaticamente conteso dal
dubbio sulla perdita di se stesso, del suo ruolo di
sovrano e del suo Io vivente. [...] Alfieri si rende conto
che ci sono delle forze oscure, che la notte è dentro
all’uomo, che distruzioni operano al suo interno”.
Alfieri, Vita, IV 14
“Mi capitò alle mani nelle Metamorfosi di Ovidio quella caldissima e
veramente divina allocuzione di Mirra alla di lei nutrice, la quale mi fece
prorompere in lagrime, e quasi un subitaneo lampo mi destò l’idea di
porla in tragedia; e mi parve che toccantissima ed originalissima tragedia
potrebbe riuscire, ogni qual volta potesse venir fatto all’autore di
maneggiarla in tal modo che lo spettatore scoprisse da sé stesso a poco a
poco tutte le orribili tempeste del cuore infuocato ad un tempo e
purissimo della più assai infelice che non colpevole Mirra, senza che ella
neppure la metà ne accennasse, non confessando quasi a sé medesima,
non che ad altra persona nessuna, un sì nefando amore. […] Sentii fin da
quel punto l’immensa difficoltà ch’io incontrerei nel dover far durare
questa scabrosissima fluttuazione dell’animo di Mirra per tutti gl’interi
cinque atti, senza accidenti accattati d’altrove. E questa difficoltà che
allora viepiù m’infiammò, e quindi poi nello stenderla, verseggiarla e
stamparla sempre più mi fu sprone a tentare di vincerla, io tuttavia dopo
averla fatta, la conosco e la temo quant’ella s’è”
Ovidio, Metam. X 298-518
• Proemio
• Monologo di Mirra: “sono soggetta a una perversa passione”
(malus ardor – spes interdicta)
• La scelta del pretendente (“uno simile a te”)
• Il tentato suicidio e il dialogo con la nutrice (“Parla con me e
lascia che ti aiuti” – “E’ un’infamia quella che vuoi conoscere…
Beata te, o madre, per lo sposo che hai”)
• La reiterata consumazione della colpa (“scellerato connubio”)
• La scoperta del padre, la fuga di Mirra e la sua preghiera agli dei
(“Perché io non contamini i vivi con la mia presenza e i defunti
con la mia morte, scacciatemi dal regno degli uni e degli altri”)
• La trasformazione in albero e la nascita di Adone
Ovidio, Metam. X
Proemio: “Sto per cantare un fatto atroce… una tale mostruosità… un
obbrobrio tanto grande! … Perfino Cupido sostiene che non furono
le sue frecce a ferirti, o Mirra, e rifiuta la responsabilità di aver
scatenato codesto incendio criminoso. Fu una delle tre Furie che
indirizzò verso di te il fumo di un tizzone Stigio e il fiato dei serpenti
gonfi di veleno! Se è un delitto odiare il padre, questo tipo d’amore è
delitto maggiore dell’odio”.
Monologo di Mirra: “Dove mi trascina il mio pensiero? Che cosa sto
meditando? Vi prego, o Dei, e tu Pietà e voi, leggi sacre degli avi,
impedite questo misfatto, opponetevi al delitti (scelus) che voglio
compiere… Ma non è vero che la Pietà condanni questo tipo di
amore: gli altri animali si congiungono senza commettere colpa… La
mentalità scrupolosa degli uomini ha imposto leggi restrittive e sono
esse a vietare con cattiveria quello che la natura concede… Oh! Se
anche lui provasse una folle passione simile (similis furor) alla mia!
Ovidio, Metam. X
La nutrice: “La prega di confidarle il suo tormento, qualunque esso
sia… Mirra si sottrae alle sue preghiere gemendo… La nutrice
finalmente capisce e un brivido di gelido terrore le penetra fin
nelle ossa mentre i bianchi capelli le si rizzano in testa; pronuncia
un diluvio di parole per tentare di dissuaderla dall’empia
passione. La fanciulla riconosce che i suoi ammonimenti sono
giusti, ma è decisa a morire se non otterrà l’oggetto dei suoi
desideri [divorata da un fuoco indomabile… Mirra non riesce a
immaginare altro mezzo per placare l’amore se non la morte].
Allora la nutrice si risolve a dire: ‘Vivi e avrai tuo…’ ma non osa
pronunciare la parola ‘padre’, e si arresta lì, avvalorando la
promessa con un giuramento”.
Ovidio, Metam. X
Verso la consumazione: “L’infelice fanciulla non riesce a gioire
completamente; il suo spirito è in preda a un angoscioso
presagio, ma non può nemmeno sottrarsi al giubilo: tanto grande
è la confusione dei suoi sentimenti (Tanta est discordia mentis)…
Quanto più si avvicina al compimento del suo delitto, tanto più
ne ha orrore (Quoque suo propior sceleri est, magis horret) e si pente
della sua audacia e vorrebbe poter tornare indietro senza essere
riconosciuta. Ma la mano della vecchia la sostiene nella sua
esitazione e l’accompagna”.
Il mito di Mirra
• Igino (I sec. aC-I sec. dC), Fabulae (LVII)
l’ira di Afrodite è scatenata dalla madre di Mirra,
che aveva sostenuto la figlia essere più bella della
dea
• Pseudo-Apollodoro (autore del I-II sec.),
Bibliotheca (III 14.4)
Smirna, figlia del re assiro Teia, viene punita da
Afrodite per la sua scarsa devozione con una
passione perversa per il padre
Adelaide Ristori (1822-1906), Ricordi e studi artistici, 1887
Quel dover dimostrare gl’immani contrasti che si
succedono senza tregua nell’anima di questa infelice,
in perpetua lotta co’ suoi feroci martirii; quel dover dare
a divedere che tutto ciò che è in lei di reo non è suo;
ma sue sono bensì la virtù, la forza che sa trovare
per strapparsi dal cuore quella rea passione, con
l’incrudelire perfino contro se stessa, togliendosi la vita;
e il dover far scoppiare, tratto tratto, il fuoco di questa
fatale passione, rendendone terribili tanto gli effetti
quanto gli impeti incompresi, mi sembrava cosa
impossibile a riprodursi.
F. De Sanctis, Janin e la Mirra (1855), poi in Saggi critici
Mirra ama di un amore abbominevole e lo sa, e teme che una
parola, uno sguardo, un gesto non la tradisca, e quanto più si
sforza e meno riesce ad occultare la fiamma: ella muore nel
momento stesso che il segreto le sfugge di bocca. La tragedia
così è una lunga lotta interiore, una collisione straziante di cui
solo Mirra ha coscienza, chiusa nella sua anima, e rivelantesi a
quando a quando in un gesto, in uno sguardo. Abbiamo
dunque innanzi una tragedia mimica in cui il gesto ha più
valore della parola. Spesso la parola nega e il gesto afferma;
essendo i gesti atti involontari, che denunciano
inesorabilmente quello che abbiamo al di dentro anche a
dispetto delle parole.
I. Teotochi Albrizzi, Risposta all’abate Artega,
1799, in V. Alfieri, Tragedie, VI, 1803
La nostra compassione non è sempre risvegliata all’aspetto della
sofferenza, e talvolta non è ella più viva, più sollecita, se ignoriamo
la causa del dolore, che espresso vediamo nel volto o nella favella
di alcuno? […] Osservisi ancora che l’Autore non ha voluto
scoprirci la reità della fanciulla che dopo averci sommamente
interessati per lei. I suoi mali, la sua costante virtù, i suoi nobili
sentimenti, tutto ci conduce ad amare quella giovinettà in maniera
che compassione, più assai che orrore, ci fa il suo delitto quando
finalmente veniamo a saperlo. L’autore volle così favorirla che
neppure un sol momento ha sofferto che la vedessimo rea, benché
di reità, se così posso dirla, innocente. Ella non comincia a
mostrarsi rea che quando la tragedia finisce.
Mirra, I 2: monologo di Cecri
• Idea (1784) Cecri: mezzo pentimento d’aver offeso
Venere coll’estoller tanto la bellezza della figlia.
• Stesura (1785) Cecri: Gli Dei, credo invidi della sorte
nostra, quest’unica figlia, che di suo padre e di me la
delizia era, come troppo bella e perfetta cosa invidiata
ce l’hanno. Tu Venere, forse, di cui io nel baldanzoso
affetto di madre, in quei teneri trasporti d’esultanza, osai in
beltade agguagliartela, e non cederti allora, tu forse di
mio ardire sdegnata in tale stato l’hai posta.
Mirra, I 2: monologo di Cecri (175-85)
Red. (A)
I Numi invidi, credo,
di nostra sorte, questa rara figlia
del genitor letizia, e mia, ci vonno,
ritor: ma perché darcela? Tu Dea
di questa a te devota isola e sacra,
Venere, tu di sua beltade forse
sdegnata meco, a tal misero stato
lei riduci; e la mia già forse troppo
stolta di madre baldanzosa gioia
or fai scontarmi in lagrime di sangue
Red. (B)
Di nostra sorte i Numi invidi forse,
torre or ci von sì rara figlia, a entrambi
i genitor solo conforto e speme?
Era pur meglio il non darcela, o Numi.
Venere, o tu sublime Dea di questa
a te divota isola sacra, a sdegno
la sua troppa beltà forse ti muove?
Forse quindi al par d’essa in fero stato
me pur riduci? Ah! la mia troppa e
stolta
di madre amante baldanzosa gioia,
tu vuoi ch’io sconti in lagrime di
sangue?
Mirra, II 2: la proposta di matrimonio (201-204)
• Idea (1784) Altro non desidera – Mirra, s’intende
– che d’esser tratta fuori di Pafo
• Stesura (1785) Mirra: oggi tua, purché domani le
vele al vento si diano, e lungi da queste rive mi
trasportino i venti per sempre.
• Versificazione (1786-7) No; questo è il giorno;
ed oggi / sarò tua sposa. – Ma doman le vele /
daremo ai venti, e lascerem per sempre /
dietro noi queste rive.
Mirra, III 3: Ciniro a Cecri (261-269)
• Stesura (1785) Ciniro: E se Venere è seco adirata, chi sa
che nel core malgrado essa qualche indegna passione
non l’ha inspirata, che così la martira ed a morte la
mena? Chi sa se il volerci, il chiederci per grazia e per
pietà di lasciarci non è il generoso sforzo dell’alto ed
innocente suo animo, che per involversi in qualche
malnato, represso e nascosto fuoco, a sì tosta e dura
partita la sforza.
Racine, Fedra (1677), prefazione
trad. di G. Ungaretti
“Fedra non è assolutamente colpevole né assolutamente
innocente. È vincolata dal proprio destino e dalla collera
degli Dei a una passione illegittima di cui lei per prima
ha orrore. Compie tutti gli sforzi possibili per vincerla.
Preferisce lasciarsi morire che dichiararla. E quando è
costretta a rivelarla, e parla con una vergogna che indica
bene come il suo crimine sia una punizione degli Dei e
non un impulso espresso dalla sua volontà”.
G. Debenedetti, Vocazione di Vittorio Alfieri
“Il motivo, l’incentivo tragico è il segreto della protagonsita: la sua
inconfessabilità, prima a se stessa, poi a tutti. Il tema della Mirra
non è l’amor di Mirra per il padre, non è l’orrore dell’incesto
temuto e paurosamente, irresistibilmente, selvaggiamente bramato:
è la condanna, l’asfissia di dover ringhiottire proprio ciò che la fa
così spaventosamente viva. Non è tanto la pena d’amore, quanto il
grafico dello spaventoso travaglio di doverlo confinare al di sotto
della coscienza. È l’agitazione folle, inane dell’individuo a cui è
vietato di coincidere con la sua sostanza più vera e animatrice. È la
paura di dichiararsi: e ogni gesto, ogni parola è un tradirsi per
evitare di denunciarsi. Mirra non è la tragedia di un sentimento in
conflitto con la realtà, con le leggi del mondo e dell’umano, è la
modulazione di un senso di colpa”.
G. Debenedetti, Vocazione di Vittorio Alfieri
“Nella Mirra la sceneggiatura è il tema stesso della tragedia: è la continua
elusione del gorgo tragico, è quello stesso movimento di fuga sa se stessa in
cui consiste il dramma della protagonista, e nel quale il poeta di specchia,
trasfonde la sua intima sostanza. [...] Mirra è una mera, pietosa menzogna,
in cui l’Alfieri riesce a rendere irriconoscibili i propri dati interni nella loro
identità, per così dire storica e reale. [...] Il rapporto che l’Alfieri ha
proiettato in Mirra è un legame, un impeto d’amore a cui la realtà nega di
manifestarsi, disconosce il diritto di esistere. La sua poetica arte di mentire,
cioè di riconoscersi sotto mentite spoglie, inverte i dati: fa che il suo oscuro
rapporto di figlio verso la madre, diventi un rapporto di figlia verso il
padre. Di autentico è rimasta l’impossibilità, in un affetto ascendente, di
varcare certi limiti [...], dove forse in lui la sola degenerazione era stata
quella di arroventarsi, di disperarsi, di vedere qualche cosa di mostruoso in
quell’affetto, solo perché gli era stato negato, represso dalle circostanze
materiali, e dal particolare temperamento della donna alla quale era rivolto,
la cui vocazione era più di sentirsi moglie che madre”.
G. Debenedetti, Vocazione di Vittorio Alfieri
“Queste forze [da cui il teatro alfieriano è nel complesso ispirato] son
quelle di un figlio offeso nella’more. Diremo [...] che si potrebbe
chiamare l’offesa del figliastro. E che l’offesa ci sia, è provato dal fatto
che tutto il teatro alfieriano, eccettuata Mirra, e ne sappiamo il perché, è
polemica ed invettiva; ma una invettiva che si conosce in certo modo
sacrilega, tanto è vero che sente quasi sempre il bisogno di cercarsi
un’espiazione nella morte. C’è come un dovere di morire. [...] Registrata
nel fondo dell’essere un’offesa, un torto di cui non gli era possibile
cercare o trovare diretta riparazione, abbia elaborato lentamente un
‘tipo’, contro cui appuntare questa sete di ritorsione, questo bisogno di
liberazione dall’offesa. Quello che nell’inconfessato, inconfessabile
romanzo familiare era stato l’usurpatore della madre, il patrigno, nel
romanzo civile, nella segreta, arcaica equazione tra la madre e la patria,
diventa l’usurpatore del comando, il tiranno. [...] Così il re, il principe, in
quanto paralizza la libera esplicazione degli attivi e creativi affetti
ascendenti che legano il cittadino alla patria, come figlio alla madre,
diventa senz’altro, in una rigida tipologia, il tiranno”.
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