AGOSTINO
Tratto dal sito: www.areteconsulenzafilosofica.it/didattica
“Hai fatto inquieto il nostro cuore”
La vita di un santo filosofo
• Agostino nasce a Tagaste (Algeria orientale) nel
354 da una coppia di piccoli possidenti, formata
dal padre Patrizio e dalla madre Monica,
quest’ultima di fede cristiana.
• Morto il padre, si reca a Cartagine dove compie i
suoi studi superiori e conosce una donna, di cui
non si sa il nome, che gli dà un figlio , Adeodato
nel 372.
La vita di un santo filosofo 2
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•
•
Durante il soggiorno a Cartagine aderisce al manicheismo (da Mani di
Babilonia, 216-277), dottrina religioso filosofica a carattere sincretistico –
mette assieme cristianesimo, marcionismo, gnosi valentiniana, zoroastrismo che pone all’origine del mondo due principi avversi: un dio del bene (Buon
principio o Padre della maestà) e un dio del male (il Dio dell’Antico
Testamento), il cui luogo di confronto e di conflitto sarebbe il nostro mondo e i
cui due elementi opposti sarebbero lo spirito-bene e la materia-male. Il
credente manicheo doveva così impegnarsi a far prevalere lo spirito sulla
materia, liberandosi dai vincoli delle tenebre per rivolgersi al mondo della
luce.
In questo periodo la lettura dell’Ortensio ciceroniano suscita in lui la curiosità
per la filosofia (quella greca sarà da Agostino sempre approcciata in
traduzione)
Dopo un breve periodo passato nuovamente a Tagaste, torna a Cartagine nel
375 e lì apre una scuola di eloquenza.
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• Tra il 382 e il 383 si trasferisce a Roma alla ricerca di un luogo più
adatto per insegnare – gli studenti cartaginesi erano particolarmente
turbolenti – ma fallisce l’obiettivo, visto che alcuni studenti romani
spariscono senza averlo pagato.
• Nel 384 è a Milano, allora capitale dell’impero, città nella quale ottiene
una cattedra di retorica grazie ad alcuni amici manichei
• L’ascolto delle prediche di Ambrogio, vescovo di Milano, lo convince
circa la profondità delle Scritture cristiane, comprese nel loro senso
allegorico e morale, quindi alla ricerca dello spirito del testo oltre il
puro significato letterale. Raggiunto dalla madre, matura una sincera
adesione al cristianesimo. Ciò avviene anche per merito del prete
Simpliciano, che gli racconta della conversione di Mario Vittorino,
filosofo platonico grazie alla cui opera di traduzione egli aveva potuto
avvicinarsi ai testi di Platone e dei neoplatonici, e dell’amico
Ponticiano che lo fa partecipe della vita e della spiritualità monacale.
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• Subito dopo la conversione si ritira con la madre a
Cassiciaco (Cassago Brianza), forse per un
problema di salute che lo costringe ad
abbandonare l’insegnamento e qui compone i
primi dialoghi – Contro gli accademici, La vita
felice, L’ordine e i Soliloqui – in cui emerge
accanto alla nuova prospettiva cristiana, la
passione filosofica.
• Nella Pasqua del 387 (25 aprile) riceve a Milano
da Ambrogio il battesimo.
La vita di un santo filosofo 5
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Tornato a Roma e poi a Cartagine, è ordinato sacerdote nel 391 a Ippona (Algeria nord
orientale) e, per acclamazione popolare, vescovo della stessa città nel 395.
Già nel 392 aveva affrontato una disputa contro il manicheo Fortunato, e nello stesso
anno aveva cominciato a schierarsi contro i donatisti, cioè i seguaci di Donato di Case
Nere, vescovo di Numidia, che anni prima si era opposto alle decisioni del concilio di
Elvira del 305-306. In tale concilio si era deciso di riaccogliere nella Chiesa coloro (i
cosiddetti lapsi = perduti, dal labor = scivolare) che durante le persecuzioni avevano
tradito (da tradere = consegnare) cioè avevano consegnato le Scritture alle autorità
romano-pagane per aver salva la vita. Secondo i donatisti tali persone non potevano
essere riammesse (a meno che non fossero state nuovamente battezzate) e men che
meno assumere cariche importanti come era accaduto al vescovo di Cartagine Ceciliano,
ex traditore. A tale impostazione rigida e intransigente si era opposta la Chiesa di Roma
e con lei Agostino, che affronta i donatisti con numerosi scritti e giunge ad ottenere un
notevole successo contro di loro in una disputa pubblica nel 411. Come afferma
l’Esposito, le opere contro i donatisti soggiaciono ad una singolare contraddizione: da
un lato Agostino sostiene che nessuno può decidere chi deve stare nella Chiesa e chi no,
perché lo stesso Gesù aveva detto che sarebbe stato suo compito separare il grano dalla
zizzania; dall’altro il vescovo di Ippona invoca contro gli stessi donatisti un
provvedimento di esclusione dalla Chiesa da attuare anche con la forza dell’esercito
romano, da lui stesso chiamato ad intervenire.
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• L’ultima grande disputa fu contro i seguaci del monaco britannico
Pelagio (360 ca-427) secondo cui gli uomini non erano predestinati
(concetto di Sant'Agostino elaborato da una sua interpretazione molto
personale del pensiero di San Paolo), ma potevano, invece, solamente
con la propria volontà (liberum arbitrium) e per mezzo di preghiere ed
opere buone, evitare il peccato e giungere alla salvezza eterna: non era
necessario l'intervento della Grazia divina…Il pelagianismo inoltre
negava la trasmissione del peccato originale, che aveva danneggiato
solo Adamo e non tutto il genere umano (cfr. www.eresie.it, Pelagio).
La disputa contro Pelagio e i semipelagiani – che ammattevano la
necessità della grazia divina ma ritenevano che essa fosse concessa
solo a coloro che con le proprie forze avessero già deciso di vivere in
modo virtuoso - tenne impegnato Agostino fino alla morte,
sopravvenuta nel 430, mentre Ippona era sotto l’assedio dei Vandali.
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•
La sua opera di polemista manifesta un indefettibile amore per la Chiesa e per il
deposito della fede da essa custodito. Tale attaccamento, unito ad un’opera instancabile
di annuncio e pratica del Vangelo, lo rese amatissimo dal suo popolo e da tutti i
cristiani, che presto ne sancirono la santità. Dal punto di vista strettamente filosofico e
teologico, il suo contributo non si limitò agli scritti polemici, ma indagò tutti i grandi
temi relativi al senso della vita e del mondo e produsse la monumentale sintesi della
Città di Dio (413-427), le Confessioni (397-401, primo scritto di genere autobiografico),
numerosi testi di commento alle Scritture (per es. il De Genesi ad litteram, 401-414), di
teologia (come il De trinitate, iniziato nel 399 e finito dopo il 420) e di morale (tra gli
altri il De bono coniugali e De sancta virginitate – entrambi del 401 – e il De patientia
del 417), non mancando pure di intervenire su temi oggi diremmo pedagogici ( De
magistro del 388 e De catechizandis rudibus del 399-400). Insomma si tratta di un
grande sforzo di intelligenza della fede e di costruzione di una visione complessiva della
realtà, in un felice connubio di tradizione platonica e rivelazione cristiana, che rimane
nella memoria d’Occidente come un pilastro di civiltà e di sapienza ancora capace di
stimolare l’uomo a muoversi sulla via che conduce alla realizzazione più piena di sé in
Dio
Una filosofia “coinvolgente”
Per Agostino, che aveva conosciuto da vicino le
scuole filosofiche neoplatoniche, e il concetto di
filosofia come esercizio spirituale, la filosofia, in
strettissimo rapporto con la teologia, tratta della
destinazione ultima dell’uomo, di un uomo che
vive fino in fondo il dramma della vita in questo
mondo e che, facendo esperienza del mondo, anela
ad una perfetta realizzazione e felicità. Ma questo
uomo non è l’Uomo in generale, bensì è l’uomoAgostino con le sue inquietudini, con la tendenza
alla dispersione e con la sua voglia di redenzione.
Il soggetto
• Non c’è dunque problema filosofico che non
coinvolga direttamente il soggetto che parla, vive
e fa filosofia. Da questa impostazione proviene
anche, al di là del suo più noto scritto, Le
confessioni, il tono appunto di confessione, di
apertura della propria anima a Dio e al prossimo
che possiede la gran parte dei suoi scritti,
apportatori anche per questo di una significativa
novità stilistica nel panorama della storia della
filosofia.
Una filosofia polemica 1 (contro i
manichei)
Tre grandi polemiche hanno attraversato la vita di Agostino:
La prima è quella contro i manichei, a favore dell’unità e
spiritualità del principio divino e contro ogni idea di
malignità del mondo sensibile. In opposizione a quel
gruppo di seguaci del saggio persiano Mani che lo aveva
affascinato in gioventù, Agostino affronta anche il
problema della consistenza ontologica del male: il male
non ha un suo principio perché non ha essere, ma esiste
solo in quanto privazione di essere. Laddove manca il
bene, lì c’è male:
Il male
“Il male di cui cercavo l’origine non è una
sostanza, perché se fosse una sostanza,
sarebbe un bene. E invero o sarebbe una
sostanza incorruttibile e perciò senz’altro
un bene grande, o una sostanza corruttibile
e perciò un bene, perché altrimenti non
potrebbe andare soggetta a corruzione.
Perciò vidi chiaramente come Tu facesti
buone tutte le cose” (Confessioni, VII, 12)
Mali fisici e morali
• In realtà i mali possono essere distinti in fisici e morali
1) I fisici o derivano dalla struttura gerarchica dell’universo, in cui v’è il
superiore e l’inferiore (laddove quest’ultimo, lungi dal corrompere la
creazione, la completa infatti “si possono giudicare migliori le cose
superiori che non le inferiori, ma, con giudizio ben più sano, c’è da
affermare migliore l’universo che non le cose superiori - Confessioni,
VII, 13), oppure sono necessari all’armonia cosmica come le ombre
lo sono per far risaltare la luce e dunque fanno parte di una totalità
che è in sé bene
2) I morali derivano dal peccato, che è un errore della volontà la quale si
volge a ciò che è inferiore (aversio a Deo, conversio ad creaturam),
piuttosto che a ciò che è superiore.
Una filosofia polemica 2 (contro i
donatisti)
La polemica contro i donatisti si mostra a favore di una Chiesa pellegrina
e misericordiosa nei confronti di chi aveva sbagliato. Essa tuttavia
determina, come sua conseguenza ulteriore, l’idea di una possibile
collaborazione tra Chiesa e Stato per stroncare l’eresia. Infatti, in
alcune loro frange, i donatisti si facevano portatori di un’escatologia
intransigente che sosteneva l’assoluta purezza della città divina e la sua
assoluta separazione, anche in questo mondo, dalla città umana con un
conseguente atteggiamento ribellistico nei riguardi delle autorità
costituite.
Agostino invece, facendo leva sulla commistione dei due ambiti nella
concreta vita mondana, sosteneva la possibilità di una convergenza di
fini nella realtà effettuale, pur rimanendo chiara la superiorità della
comunità ecclesiale nei confronti di ogni altro consesso civile.
Una filosofia polemica 3 (contro i
pelagiani)
La polemica contro i pelagiani fu invece in
opposizione ad ogni presunzione di
autosufficienza dell’uomo e a favore del
riconoscimento della grazia divina quale
vero e indispensabile perno della redenzione
umana.
Contro Pelagio
• La lotta antipelagiana caratterizza la parte
finale della vita di Agostino e contribuisce
ad una soluzione finale del problema del
rapporto tra libertà e grazia.
Una filosofia (neo) platonica
• La lettura dei neoplatonici nella traduzione di Mario
Vittorino darà una connotazione fondamentale alla
riflessione Agostiniana. Avvenuta nello stesso periodo
della conversione al cristianesimo, consoliderà nel vescovo
di Ippona la convinzione nella distinzione tra due mondi –
sovrasensibile e sensibile – e nella destinazione dell’anima
umana al sovrasensibile, che nell’aderirvi avrebbe dovuto
compiere un cammino di purificazione nel quale sarebbe
venuta via via in primo piano l’iniziativa di Dio e
avrebbero progressivamente perso di importanza la
capacità e l’impegno umano.
Due fasi della riflessione agostiniana
• In particolare possiamo distinguere nella biografia
filosofica del santo due periodi:
• 1) 386-397: il primo periodo, influenzato dalle
letture neoplatoniche, e contraddistinto da un
grande fiducia nella filosofia. La vera filosofia
coincide con la vera religione.
• 2) 397-430 è il periodo della svolta che si gioca
attorno al tema della grazia, in cui filosofia e
religione tendono a prendere strade diverse e si
accentua il ruolo della teologia nel cammino della
salvezza umana.
Salvezza e felicità
• Il tema della felicità in Agostino viene sempre più a sovrapporsi a
quello della salvezza, che non è altro che la felicità concepita sub
specie aeternitatis (dal punto di vista dell’eternità).
• Nella prima fase della sua riflessione – cfr. soprattuto il De vita beata
del 386 - del tale questione viene affrontata nella tradizione delle
filosofia stoica e neoplatonica, che affida propriamente alla filosofia il
compito di
• A) emancipare l’uomo dai desideri e dai beni che non si possono
conseguire e che si ha timore di perdere
• B) raggiungere l’ideale della vita filosofica ritirata dal mondo alla
ricerca ell’unico bene che non può essere sottratto: la sapienza
• C) essa ci da la misura di noi stessi, di ciò che possiamo avere e
deisiderare e di ciò che dobbiamo abbandonare, secondo l’ideale greco
del “nulla di troppo.
L’unico difetto della filosofia
• E’ quello di essere eccessivamente elitaria e dunque di
non raggiungere la gran massa delle persone che
rimangono costrette nella prigione dell’infelicità.
• Qui entra in gioco il cristianesimo, il cui messaggio non
differisce sostanzialmente da quello filosofico (“insegnare
l’esistenza di un principio imprincipiato del mondo”, la
vastità del suo intelletto e tutto ciò che da esso proviene
per la nostra salvezza; insegnare la necessità di distaccarsi
dal sensibile e di purificare l’anima con la virtù), ma che
ha la capacità di essere appreso e accolto da interi popoli.
• Dunque se la filosofia salva qualcuno, la fede cristiana
salva le moltitudini, cioè permette loro di raggiungere –
anche in questa vita – una piena realizzazione di sé
Dopo il 397
• La prospettiva muta radicalmente attorno al 397.
alla radice vi è un mutamento della concezione
della felicità, ora legata più intimamente alla
visione biblica. Di fronte alla promessa del regno
divino, la felicità filosofica, incentrata
sull’autodominio in vista di un disciplina del
desiderio (desiderare solo ciò che si può avere)
appare estremamente riduttiva. Nel De Trinitate
(399) il “vivere come si vuole” della tradizione
stoica e neoplatonica, appare un “sopportare
volontariamente” ciò che non si può evitare.
La felicità vera
• In questo periodo emerge una concezione molto più esigente
della felicità. Il desiderio non deve essere disciplinato, se non
si vuole cadere in una mistificazione. Non il desiderio deve
essere misurato sulla felicità possibile, ma la felicità si misura
sulla soddisfazione del desiderio, per quanto impossibile
possa essere. E tale desiderio non può fermarsi alla soglia
della morte, dell’errore e della sofferenza, ma vuole vincerle
e superarle. Per tale motivo la vita terrena non basta più, così
come la filosofia e il suo orgoglio di fornire una via di
salvezza centrata sull’uomo diventano inservibili. Solo Dio
può realizzare a fondo tutti i desideri umani, e solo la vita
promessa può raggiungere le mete che ora ci sono precluse.
In conclusione nessuno è felice se non è salvo e nessuno è
salvo se Dio non lo ha salvato.
Felicità e corpo
Che la felicità alberghi nell’animo del sapiente è una
pia illusione della filosofia pagana, che non tiene
conto dell’ostacolo rappresentato dalla
corruttibilità del corpo, dalla sua ribellione ai
giusti insegnamenti dell’anima. Ma da dove viene
tale corruttibilità e intrattabilità? Dal peccato che
ha degradato la natura umana. Il peccato è
innanzitutto quello dei protoparenti (peccato
originale) che si è trasmesso attraverso la
generazione biologica a tutta l’umanità. Con il
peccato l’uomo ha perso l’immortalità.
Peccato e libertà
• Con il peccato l’uomo ha perso anche la sua
libertà. Prima del peccato egli disponeva
della libertà di poter non peccare; dopo il
peccato egli si trova nella condizione di non
poter non peccare; nella redenzione finale
egli acquisirà la libertà di non poter
peccare. Tale libertà è acquisibile solo per
grazia.
Grazia e predestinazione: la prima
riflessione
Analizzando la vicenda di Giacobbe ed Esaù nelle Questioni sulla lettera ai romani
Agostino osserva:
• [60.] “Infatti prima ancora che nascessero e facessero alcunché di bene o di male,
perché restasse valido il disegno di Dio secondo la sua elezione, non per riguardo alle
opere ma a colui che l’aveva chiamato fu detto a lui: Il maggiore sarà servo del minore,
come sta scritto: Ho amato Giacobbe e odiato Esaù. È un testo che turba diversi lettori
in quanto indurrebbe a credere che l’apostolo
Paolo abbia negato il libero arbitrio della volontà per il quale si merita Dio praticando
il bene e la pietà e lo si offende quando si compie il male e si agisce da empi.
Ciò affermano in base al fatto che Dio avrebbe amato l’uno e odiato l’altro prima che i due,
non ancora nati, avessero compiuto qualsiasi opera, tanto buona che cattiva.
Rispondiamo che ciò accadde per la prescienza di Dio, mediante la quale egli, anche di
chi non è ancora nato, sa quale sarà [nella vita].
Ma qualcuno potrebbe obiettare ancora: In colui che amò Dio scelse dunque le sue opere,
anche se non esistevano, in quanto egli conosceva in antecedenza quali sarebbero state.
Ora, se scelse tali opere, come può dire l’Apostolo che l’elezione non fu fatta in base
alle opere? Occorre pertanto capire bene la cosa: come cioè le opere buone sono
compiute in forza della carità, la quale è in noi per un dono dello Spirito Santo.
Grazia e predestinazione: la prima
riflessione
•
Lo asserisce lo stesso Apostolo: La carità di Dio è stata riversata nei nostri cuori ad
opera dello Spirito Santo, che ci è stato dato. Se pertanto chi compie in noi il bene è la
carità, che possediamo per un dono di Dio, nessuno può gloriarsi delle opere quasi che
siano roba sua.
Cosa ha dunque scelto Dio?
Se infatti è lui che dona lo Spirito Santo, ad opera del quale l’amore compie il bene, e lo
dona a chi vuole, in base a che cosa ha scelto a chi donare? Dove infatti non ci sono
meriti non può esserci elezione: prima del merito si è tutti uguali e non si può parlare di
elezione là dove c’è completa parità. Giova però ricordare che lo Spirito Santo non
viene dato se non a chi crede: con la conseguenza che Dio certamente non sceglie le
opere, che sono dono suo, concesso a noi quando ci viene dato lo Spirito Santo affinché
mediante la carità compiamo il bene. Dio tuttavia sceglie la fede nel senso che, se uno
non crede in lui e non rimane nella volontà di ricevere il dono di Dio, di fatto non lo
riceve: non riceve lo Spirito Santo ad opera del quale si riversa in noi la carità e con essa
si può compiere il bene.
Dio quindi nella sua prescienza non sceglie le opere di alcuno, essendone lui il datore,
ma nella stessa prescienza ne sceglie la fede.
Colui del quale in antecedenza ha conosciuto che gli crederà, questo stesso sceglie per
accordargli lo Spirito Santo, per cui, operando il bene, consegue anche la vita eterna”.
La prima soluzione del problema
• La grazia è assolutamente gratuita e le opere non
sono meritorie, poiché si opera solo in virtù della
grazia.
• Dio però non è ingiusto e sceglie con una ratio
• La ratio della scelta divina sta nella fede umana:
Dio concede la grazia a coloro che SCELGONO
di credere in lui, cioè di aderire alla chiamata della
grazia che è rivolta a tutti.
• Questa scelta è pre-conosciuta da Dio, che dunque
pre-destina qualcuno come Giacobbe alla salvezza
e qualcun altro, come Esaù, no.
Grazia e libero arbitrio
• In questa prima fase, quindi la grazia divina
e la giustizia di Dio sono conciliate con il
libero arbitrio umano. Dio concede la grazia
a chi crede e chi crede è proprio colui che
chiede la grazia. L’onniscienza divina, e
dunque la conoscenza anticipata di ciò che
avverrà, spiega poi perché nelle Scritture
alcuni sembrano destinati a ricevere la
grazia e altri no.
Il cambio di rotta del 396-7: le
Questioni a Simpliciano
• In questo periodo Agostino muta opinione circa il rapporto
tra lì’iniziativa umana e la grazia divina. Se prima Dio
ancora “premiava” la fede dell’uomo, ora il vescovo di
Ippona giunge a dire: “Nessuno infatti crede se non è
chiamato. Ora, è Dio nella sua misericordia a chiamare, e
lo fa indipendentemente dai meriti della fede, perché i
meriti della fede seguono e non precedono la chiamata […]
Se la misericordia non precede chiamando, nessuno può
credere per iniziare da qui ad essere giustificato e ottenere
la facoltà d bene operare. Dunque la grazia viene prima di
qualunque merito” (Questioni a Simpl., I, 2,7)
La fine della libertà
• La nuova visione della grazia comporta
un’accentuazione del teocentrismo agostiniano.
Ma qual è il prezzo che egli deve così pagare? Una
fatale svalutazione dell’iniziativa e della libertà
umana. Se Dio decide chi si salva a prescindere
anche dallo sforzo di fede, all’uomo non rimane
alcun margine di scelta. Sembra che il suo destino
sia da sempre stato già scritto. Tale interpretazione
della vicenda umana in rapporto con Dio è stata
accolta e valorizzata soprattutto da parte
protestante e calvinista.
Sommersi e salvati
• Ma se tutti siamo predestinati, coloro che si dannano sono
stati da Dio predestinati al male? Agostino coglie il
problema posto dall’evidente contraddizione di Dio buono
che predestina alla dannazione. La sua soluzione sottolinea
la rilevanza negativa per il destino dell’uomo del peccato
originale. Il peccato originale è una macchia che
meriterebbe di per sé la dannazione per tutta l’umanità.
Data questa giusta pena per la colpa, interviene la
misericordia di Dio che in modo eccezionale e
imperscrutabile salva qualcuno, NONOSTANTE il
peccato.
Chi è salvo e chi no?
• Ma a questo punto il problema si ripropone?
Perché alcuni vengono salvati, cioè non
viene loro comminata la giusta pena, e
alcuni no? A tale domanda, avendo escluso
dall’inizio che il merito umano possa
contribuire alla salvezza, Agostino è
costretto a rispondere che ciò appartiene ad
una sapienza divina nascosta agli uomini.
Non c’è salvezza universale
• Quindi se la filosofia che, all’inizio, poteva
condurre solo pochi alla felicità, ora non
può condurvi nessuno, poiché a nessuno è
aperta la via alla felicità e alla salvezza per
meriti propri, ora anche il cristianesimo, che
salvava interi popoli, è un po’ limitato nella
sua efficacia, nel senso che anch’esso
appare essere appannaggio di alcuni ma non
di tutti ( ad imperscutabile scelta di Dio).
“Egli vuole che tutti gli uomini siano
salvi” (1Tim 2,4)?
• La frase succitata riporta un’affermazione
chiara di S. Paolo che contraddice
apertamente quanto Agostino va
sostenendo. Qui Agostino fa ricorso al tutte
le sue risorse argomentative per dimostrare
che S. Paolo in realtà dice quello che egli
vuole dire.
L’interpretazione Agostiniana
• Nell’Enchiridion (27,103) e ne La correzione della grazia
(14,44) Agostino afferma che in realtà la frase paolina vuol
dire che “tutti coloro che sono salvi lo sono per mezzo di
Dio”. Tale interpretazione viene sostenuta con un esempio
molto sottile: se in una città vi fosse un solo insegnante di
grammatica, si potrebbe dire che egli insegna a tutta la
città, non però per significare che tutta la città (compresi
gli infanti e i moribondi) studia grammatica, ma che coloro
che nella città lo fanno, lo fanno per mezzo di quel solo
insegnante di grammatica. Dunque coloro che si salvano si
salvano solo per mezzo dell’unico Dio.
Piccola analisi
• Di fronte a questo esempio, in una disputa
pubblica, rimarremmo certamente senza
parole…(Agostino infatti vinceva nelle
dispute pubbliche). In realtà qui parla più il
retore che il filosofo. Vediamo perché:
(PAOLO) Dio vuole che tutti siano salvi =
DIO
salvi
Piccola analisi 2
2) (AGOSTINO) Dio vuole che si salvi qualcuno e
quel qualcuno non può essere salvo se non per
mezzo di Dio =
DIO
salvi Non salvi
In realtà anche Paolo non esclude, anzi ritiene apertamente, che chi si salva lo
faccia per mezzo di Dio-Gesù Cristo, e ciò è perfettamente implicito anche
nell’interpretazione genuina della sua affermazione.
Piccola analisi 3
• Ma Paolo vuol dire qualcosa di più: Dio vuole salvare tutti
e questo Agostino non vuole accettarlo.
L’esempio dell’insegnante di grammatica viene utilizzato dal
vescovo di Ippona per sostenere la sua tesi.
Esso tuttavia stabilisce un dato di fatto:l’insegnante insegna
a tutta la città. Su tale base è possibile interpretare in senso
lato il “tutti”, sapendo che in condizioni normali non è
possibile che un insegnante insegni a tutti i cittadini di una
città.
Tale interpretazione non funziona nel caso di una volontà,
- si ricordi che la frase di Paolo è “Dio vuole che tutti siano
salvi” -.
Piccola analisi 4
Ora facciamo una modifica all’esempio di Agostino per rendere la spiegazione più fedele
allo spirito della frase paolina: “l’insegnante non insegna a tutta la città”, ma “vuole
insegnare a tutta la città”
Siccome nulla impedisce di volere una cosa che realisticamente appare impossibile, qui si
pongono due alternative per interpretare il senso della frase. Essa può voler dire:
1)l’insegnante vuole che tutti coloro che studiano grammatica nella città lo facciano per
mezzo suo
2)l’insegnante vuole insegnare a tutta la città (cioè coinvolgere tutti i cittadini nel suo
insegnamento)
Se la frase di Paolo fosse interpretabile nel senso da proposto da Agostino (1), il caso 2,
perfettamente possibile (è possibile che l’insegnante voglia qualcosa di molto difficile
da realizzare), sarebbe escluso con una scelta del tutto arbitraria, perché arbitrariamente
la frase che lo esprime andrebbe a significare non 2 ma 1 senza nessun elemento che ci
indirizzi a 1. Tale elemento esiste invece nella frase l’insegnante insegna a tutta la città,
poiché, come stato di fatto, è assai improbabile che si realizzi il significato letterale
della frase. Viceversa è non c’è niente che impedisca ad un soggetto di voler insegnare a
tutta la città.
Conclusione
• Non vi è pertanto niente che induca a
pensare che Paolo, dicendo che Dio vuole
salvare tutta l’umanità, abbia voluto
intendere proprio che tutti i componenti del
genere umano siano salvi.
Agostino: perché?
• Perché Agostino non accetta Paolo? Perché
evidentemente, dice lui, se Dio volesse che tutti gli
uomini fossero salvi, tutti gli uomini sarebbero
effettivamente salvi, infatti se così non fosse
verrebbe meno il postulato irrinunciabile
dell’onnipotenza di Dio. Ma il fatto che tutti siano
salvi è negato dalle stesse Scritture, che parlano in
diversi luoghi di dannazione eterna per alcuni
uomini. Dunque il passo di Paolo va interpretato
così come egli propone.
Qual è il problema?
• In realtà la soluzione ci sarebbe:
Dio vuole che tutti siano salvi, ma lascia al contempo la
libertà agli uomini di accogliere o meno questa sua
volontà.
Ma anche tale soluzione non è accettabile da Agostino perché
affida implicitamente agli uomini la decisione sulla loro
salvezza, sminuendo ancora il ruolo di Dio e la croce di
Cristo. Entrambi invece, per Agostino devono essere
assolutamente efficaci e irresistibili. Quando Dio chiama,
nulla può frapporsi, non vi è nessuna libertà umana in
grado di impedire alla volontà e alla grazia di Dio di fare il
suo corso
La predestinazione
• Dati questi presupposti la dottrina della
predestinazione appare un esito obbligatorio
della riflessione agostiniana.
Filosofia e teologia; ragione e fede
Il disincanto sulle possibilità della filosofia in ordine al
raggiungimento della felicità, non fa cadere Agostino
nell’irrazionalismo. Anzi, malgrado venga rifiutata ogni
erudizione fine a se stessa, il sapere viene ritenuto necessario
per comprendere meglio la Rivelazione, le Scritture e il
messaggio di Dio, oltre che per confutare le eresie e le dottrine
dei pagani. Dunque bisogna comprendere perché la ragione
come facoltà distintiva dell’uomo, ci pone delle domande e vuol
spiegazioni. Ma il fondamento in base al quale chiedere e
comprendere rimane la fede, l’adesione profonda al messaggio
di Cristo, diremmo, la passione per il Vangelo senza la quale
non vi può nemmeno essere cultura: “Se non avrete creduto non
comprenderete” (Isaia 7,9 nella versione dei Settanta in
Agostino, De libero arbitrio, 4).
La scienza umana e la sapienza
divina
Il valore del sapere umano è quello di essere
strumento da mettere al servizio della fede e
della caritas che hanno come oggetto
privilegiato Dio. Quindi la scienza non è da
rifiutarsi, salvo che nelle situazioni in cui
pretende di essere autosufficiente, genera
orgoglio e di conseguenza allontana da Dio
De doctrina christiana: il linguaggio
e la realtà
Il De doctrina christiana (iniziato nel 397 e
concluso nel 427) approfondisce il tema
della conoscenza e di ciò che noi possiamo
sapere.
Ogni conoscenza ha per oggetto o COSE o
SEGNI
Le COSE e i SEGNI
• Le cose sono conosciute tramite i segni. Posso
cioè conoscere un albero solo se dispongo della
parola albero o di un qualsiasi altro segno per
indicarlo.
I segni però sono a loro volta delle cose.
Ma sono delle cose speciali, poiché hanno la facoltà
di RIMANDARE a qualcos’altro, cioè alla cosa
che essi significano. Il segno “albero” rimanda
all’albero che ho vedo qui in giardino.
Segni e segni
• Vi sono segni che rimandano ad altro in modo
naturale e non intenzionale: per esempio il fumo
rimanda al fuoco, senza che qualcuno abbia avuto
bisogno di dirmi che dove c’è fumo c’è qualcosa
che brucia.
• Altri segni invece sono intenzionali, cioè vi è una
volontà precisa che ha stabilito che la parola
albero rimandi all’albero concreto che vedo. Con
questi segni gli uomini elaborano e si scambiano
conoscenze, emozioni, pensieri.
Studiare i segni
• Lo studio dei segni è importante, perché
Dio si è rivelato per mezzo di questi segni
intenzionali nelle Scritture. Conoscere
dunque i linguaggi e le loro sfumature è
indispensabile per comprendere
correttamente un messaggio vitale per noi e
la nostra salvezza
Le nostre conoscenze
• Pertanto le nostre conoscenze vanno ricondotte a
Dio e tutti i nostri studi hanno come fine il
supremo dei beni, la comprensione del messaggio
divino della salvezza.
• Se nel primo Agostino cultura e filosofia erano
finalizzate al raggiungimento della sapienza, che
di per sé garantiva realizzazione e felicità,
• successivamente cultura e filosofia perdono la loro
autonomia diventando esclusivamente strumenti
indiretti per rispondere alla chiamata divina della
salvezza.
L’anima
• Il fine della conoscenza è Dio, ma a Dio si giunge
attraverso la possibilità di rientrare in se stessi e di
valorizzare le facoltà della nostra anima.
• Dio è l’oggetto privilegiato della conoscenza, è il
fine ultimo del processo conoscitivo perché è la
realtà somma, il bene assoluto. Tuttavia è vero che
il processo della conoscenza inizia con il rapporto
che noi abbiamo con le cose sensibili.
La conoscenza sensibile
• La conoscenza sensibile, cioè quegli atti
conoscitivi che colgono attraverso i nostri cinque
sensi le cose esterne non garantiscono mai la loro
verità. Infatti nulla che è in continuo movimento è
percepibile nella sua verità. Infatti una cosa che
muta non è mai qualcosa ma è sempre
qualcos’altro da ciò che uno ha conosciuto in un
dato momento. Infatti da quel momento è già
cambiata.
Ragione
• Se la conoscenza fosse fatta di organi
corporei che conoscono oggetti corporei
nulla sarebbe conosciuto. Platonicamente la
conoscenza deve giungere all’essenza non
corporea delle cose, al loro essere stabile,
tramite la ragione, che è organo non
sensibile. E la ragione è facoltà dell’anima.
L’anima vigila
• L’anima attraversando il corpo, vigila sui
quanto accade nei sensi, vigila sulle
modificazioni dei sensi date dagli oggetti
esterni, ed elabora da sé le immagini degli
oggetti sensibili.L’anima cioè trova in sé
immagini corrispondenti alle modificazioni
sensibili, che corrispondono alla verità
razionale di quegli oggetti.
Criteri
• Le verità razionali corrispondono alle idee
platoniche e rappresentano i criteri con cui l’anima
valuta e giudica la realtà. Ma da dove provengono
tali verità stabili ed eterne (come per esempio
quelle matematiche) con cui giudicare la realtà.
• Non dall’anima stessa perché essa non è
completamente immutabile (è immutabile nello
spazio ma muta nel tempo)?
Illuminazione (De magistro, 388-90)
• I criteri ultimi della conoscenza provengono da
Dio, che è sede delle idee (le idee di Platone sono
per Agostino i pensieri di Dio). È quindi Dio che
illumina la nostra anima fornendole i parametri
per conoscere la realtà al di là della sua continua
incessante mutevolezza. Dio è luce per l’intelletto
umano che permette di illuminare razionalmente i
dati della sensibilità, che, dal canto suo, non è
altro che uno stimolo per la ragione a ritrovare in
sé la verità delle cose.
Conoscono solo i credenti?
• Dio illumina costitutivamente l’anima
umana, anche quella degli atei o dei fedeli
di culti non cristiani, che ben possono
giungere a verità matematiche e anche oltre
– come fece Platone - .I credenti fanno però
un passo in più, non solo passano dalla
sensibilità alle idee razionali, ma da queste
giungono alla loro fonte, cioè a Dio.
Perché dall’anima si può passare a
Dio?
Noli foras ire, in teipsum redi, in interiore homine
habitat veritas. Et si tuam naturam mutabilem
inveneris, trascende et teipsum. Illuc ergo tende,
unde ipsum lumen rationis accenditur.
Non uscire fuori, rientra in te stesso: nell'uomo
interiore abita la verità. E se scoprirai mutevole la
tua natura, trascendi anche te stesso. Tendi là dove
si accende la stessa luce della ragione. (De vera
religione 39, 72)
L’anima può trascendere se stessa fino a Dio perché
è a immagine di Dio.
Anima e Trinità
• L’anima è immagine della Trinità divina (De
Trinitate), infatti
1) L’anima “è” come il Padre
2) Dal suo essere genera l’intelligenza di sé, come
dal Padre si genera il Figlio
3) Il rapporto tra essere e intelligenza si esprime
come volontà (l’essere vuole capire e
l’intelligenza vuole essere riempita dall’essere),
così come dal Padre e dal Figlio procede lo Spirito
Dio in noi
• Da queste ed altre analogie, Agostino deduce che
Dio è in noi stessi, cioè ha lasciato in noi tracce
indelebili di sé che noi possiamo rinvenire. Questo
ritrovare Dio in noi, ci riconduce da noi a Dio.
• Tu autem eras interior intimo meo et superior
summo meo.
Tu eri più dentro in me della mia parte più interna
e più alto della mia parte più alta. (Confessioni 3,
6, 11).
Dio creatore
Ricondurre tutto a Dio è un’operazione che
non si limita a trovare la causa e il fine
ultimo della nostra esistenza, ma di tutto
l’universo.
Dio è creatore di tutte le cose, questa è la
conclusione di Agostino in linea con il
dettato della Genesi.
Obiezione scettica
• Se la creazione è connotata dal divenire, lo
può essere anche il Creatore? No di certo,
risponde Agostino. Ma lo scettico potrebbe
obiettare che almeno un mutamento in Dio
vi è stato, poiché Dio ha deciso di creare
l’universo che PRIMA non c’era. Di qui la
domanda ironica: “Che cosa faceva Dio
prima della creazione?”
La risposta ironica e quella seria
• Agostino potrebbe altrettanto ironicamente
rispondere: “Preparava la geenna per chi
scruta i misteri profondi”, ma preferisce
prendere seriamente la questione.
• In realtà, dice Agostino, la domanda è mal
posta, perché il tempo è un modo di essere
delle creature, dunque è creatura esso
stesso.
Il tempo creato
• Pertanto il tempo inizia ad esistere con la
creazione e insieme alla creatura, e nulla ha
a che fare con l’essenza di Dio che è fuori
dal tempo, immutabile ed eterna (essendo
l’eternità diversa da un tempo infinito, e
coincidendo piuttosto con la totale assenza
di tempo).
Che cosa è il tempo?
• Ma allora che cos’è il tempo? È un
problema assai difficile per Agostino: “Se
nessuno mi interroga lo so; se volessi
spiegarlo a chi mi interroga, non lo so…”
(Confessioni, XI,14,17)
Qual è il problema “tempo”?
• Il problema è che non ci sarebbe tempo senza un
mutamento delle cose, ma le categorie con cui lo
misuriamo implicano sempre la loro (delle cose)
inesistenza.
• Infatti il passato non è più
• Il futuro non è ancora
• Il presente è l’impalpabile istante in cui il futuro si
trasforma in passato.
• Come facciamo a misurare allora qualcosa di così
sfuggente e che mai è presente, ha consistenza davanti a
noi?
La misura interiore del tempo
• Se noi lo misuriamo esso deve essere a noi
presente, deve avere una sua consistenza.
Ebbene tale consistenza esso la trova nella
nostra anima.
• È la nostra anima che trattiene il passato
attraverso la memoria, attende il futuro
attraverso l’attesa e vede il presente
nell’attenzione o visione.
Una distensione dell’anima
• Dunque il tempo è misurato nella anima che ha la
capacità di “distendersi” nel passato e nel futuro,
mantenendo la sua consapevolezza presente. È
l’anima che raccoglie i dati del passato impedendo
loro di disperdersi nel non-essere; si pensa nel
futuro facendo a sé presenti le cose che ancora non
sono, e infine pone attenzione alle cose del
presente fissandole di fronte a sé. Quindi il tempo
è propriamente una distensio animi. Di qui la
possibilità che abbiamo di misurarlo negli oggetti
esterni che mutano incessantemente.
Creazione e mutamento
• Come si rapporta l’atto della creazione con lo
sviluppo successivo del creato? Agostino è ben
lontano dal pensare ad un’evoluzione della natura
e delle cose in senso moderno, tuttavia egli intende
da un lato giustificare la linea razionale del
mutamento delle cose, che pur essendo indice di
una mancanza di essere, non può essere fuori dal
piano voluto da Dio, dall’ altro giustificare le
novità che intervengono nel creato dopo la
creazione e in particolare quelle, di notevole
rilevanza religiosa, relative ai miracoli.
Rationes seminales
• Ebbene, Dio nell’atto della creazione, ha inserito
nel mondo della “ragioni seminali”, dei semi, o
modelli embrionali di tutte le cose che
compariranno successivamente, garantendone così
un’ordinata successione. In tal modo Dio non solo
è creatore, ma governa e amministra il mondo che
da lui ha preso ad essere. Tali semi hanno appunto
il carattere di modello, cioè discendono
direttamente dai pensieri di Dio (le idee
platoniche), sono i pensieri di Dio nel creato.
I miracoli
• I miracoli non mutano nulla nella volontà di
Dio, e non sono contro la natura e le sue
leggi volute da Dio, sono semplicemente
delle ragioni seminali che si attivano
successivamente alle altre che hanno dato
vita al mondo, ma pur sempre in modo
preordinato dall’universale prescienza
divina.
Tempo e storia: la città di Dio
• Accanto ad una riflessione sul tempo, Agostino dà
vita ad una monumentale opera sulla storia,
stimolata dagli eventi epocali che egli si trova a
vivere (il sacco di Roma del 410 ad oper di
Alarico, episodio che fece grandissima
impressione sui contemporanei e che li indusse a
percepire con preoccupazione l’imminenza della
fine di una civiltà). Tale opera è intitolata La città
di Dio
I cristiani e la fine dell’impero
• Agostino ne La città di Dio risponde alle
accuse fatte ai cristiani di aver indebolito in
modo irrecuperabile il mos maoirum dei
romani, accelerando la fine del mondo
civilizzato di Roma. Il vescovo di Ippona
insiste sulla intrinseca debolezza di una
compagine sostenuta da una prospettiva
pagana, ripercorrendo la storia di Roma e
dubitando del valore intrinseco dell’impero.
Una teologia della storia
• La polemica di Agostino diviene occasione
per lo sviluppo di una visione teolgoica
della storia, in cui quest’ultima è
interpretata come qualcosa che si sviluppa
linearmente e non ciclicamente come
ritenevano i pagani. La storia è lo sviluppo
dell’umanità e del mondo che va da un
inizio (creazione) ad una fine (Giudizio) e il
cui centro è l’Incarnazione di Cristo.
La fine della storia e il tempo
interinale
• Ora, le difficoltà dell’impero romano
testimoniano il progressivo avvicinamento
dell’umanità al momento della fine, ma fino
a quando tale fine non sarà arrivata, siamo
collocati in un tempo interinale, in cui due
forme di vita e di pensiero si
sovrappongono: la città terrena e la città
divina.
La città di Dio e la città terrena
• È fondata sulla visione cristiana del mondo
che promuove l’amore di Dio fino al
disprezzo di sé e che ha la sua primizia nella
Chiesa di Cristo; la città terrena è iò mondo
profano, che promuove l’amore di sé che
giunge fino al disprezzo di Dio e che sarà
giudicata e abbandona alla fine alla sua
giusta condanna.
La grazia e la Chiesa
• La grazia in ultimo è quel dono che ci fa
appartenere all’una piuttosto che all’altra
città. La primizia della città di Dio nn è la
Chiesa visibile, in cui ancora santi e
peccatori convivono, ma la Chiesa
invisibile, quella dei santi che realmente
vivono secondo il modello evangelico.
Il Giudizio
• Il giudizio finale purificherà tutto il mondo
e anche la Chiesa, la quale per ora rimane
una comunità in cammino, che anela alla
salvezza e ad un mondo nuovo ma che non
lo realizza, essendo la realizzazione di tale
stato redento dell’umanità opera esclusiva
di Dio.
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