CENT’ANNI FA NASCEVA DON GNOCCHI Nella pagina accanto, una bella foto di don Carlo Gnocchi. A destra e qui sopra, due immagini dei funerali (1 marzo 1956): la commozione della gente e degli alpini che sorreggono i mutilatini. Così don Carlo ha vissuto la sua 24 morte Don Carlo Gnocchi, nasce a San Colombano al Lambro il 25 ottobre 1902 e muore a Milano il 28 febbraio 1956. La Fondazione che porta il suo nome compie cinquant’anni di Giovanni Barbareschi * Sono l’amico prete che don Carlo Gnocchi ha voluto vicino a sé per - sono parole sue - «vivere la sua morte». Verso la fine di dicembre del 1955 la richiesta di don Carlo al Cardinal Montini: «Faccia in modo che don Giovanni, prete mio amico, sia esonerato da ogni altro incarico e possa stare con me fino alla morte». All’inizio di gennaio 1956 ho chiesto con insistenza che fosse il Cardinal Montini in persona a comunicare a don Carlo la gravità del suo stato. Quando il Cardinal Montini uscì dalla camera di don Carlo piangeva. Entro immediatamente e dico: «don Carlo, sei una persona importante, fai piangere il tuo Vescovo». Mi risponde: «Non sono importante, sono uno che muore». E sono stato con don Carlo giorno e notte così, fino alla sua morte: per me è stata l’esperienza più forte e più significativa della mia umana vicenda. Quando la gravità del male aveva fatto capire che ormai i giorni erano pochi, don Carlo ha voluto celebrare quella che sarebbe stata la sua ultima Messa. Lui a letto con addosso la vestaglia blu che metteva solo e unicamente nei momenti più importanti, io all’altarino da campo, sul quale c’erano: come calice la sua teca e una piccola reliquia di Santa Teresa del Bambino Gesù, oggetti molto cari a don Carlo perché li aveva sempre tenuti con sé quando era cappellano militare in Grecia e in Russia, e il crocefisso che la mamma gli aveva regalato per la sua prima Messa. «Adesso domandiamo perdono a Dio con le nostre parole» e ciascuno ha detto le sue parole. «Iniziamo con: parola dell’uomo. Leggiamo qualche passo un po’ bello. Hai portato Teilhard de Chardin?». Teilhard de Chardin era un teologo, uno scienziato, che aveva espresso un desiderio: «Sarei felice di poter morire il giorno di Pasqua». È stato proprio così: è morto la domenica di Pasqua, 15 marzo 1955. Non era malato, aveva celebrato in casa di amici e dopo la celebrazione si è seduto sulla poltrona, ha chinato la testa, è morto. E don Carlo che mi dice: «Io a Pasqua non ci arrivo». Era la fine di febbraio. Le frasi lette di Teilhard de Chardin sono queste: «Poiché ancora una volta o Si- gnore non ho né pane né vino... Ti offrirò, io Tuo prete, sull’altare della Terra intera, il lavoro e la sofferenza del Mondo... Tutto ciò che oggi diminuirà, tutto ciò che oggi morirà, Signore io Te lo offro come materia del mio sacrificio... Con quelle mani invisibili prepara per la grande opera che Tu mediti lo sforzo terrestre di cui io Ti presento in questo momento la totalità... Ripeti: questo è il mio Corpo... Comanda: questo è il mio Sangue!» Poi ha voluto che leggessi il capitolo 13 della lettera ai Corinti: «La carità è paziente, la carità è generosa, la carità non è invidiosa...». Quale passo di Vangelo ha voluto quello di Giovanni 15,13: «Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per le persone alle quali vuol bene». Prima della consacrazione, secondo il vecchio canone, il memento dei vivi. Ciascuno ricorda questa persona, quest’altra, e lui i suoi mutilatini, “la mia baracca”. Usava proprio queste parole. Poi il memento dei morti: la mamma, il papà, «non l’ho conosciuto bene, lo conoscerò in Paradiso». I commenti li faceva durante la celebrazione. «E poi - diceva a me - e poi il tuo papà». E i preti che avevamo conosciuto... ciascuno ricordava. Terminata la consacrazione, aveva voluto che io portassi la cassetta con inciso un coro di monaci che cantava: adoro Te devote latens Deitas. Ha chiesto che venissero ripetute le parole in cruce latebat sola Deitas. Finita la Messa, dopo dieci minuti di silenzio contemplativo, mi dice: «Manca ancora qualcosa». Gli ho fatto allora ascol- tare Stelutis alpinis, la canzone dei morti, dei suoi alpini morti. Così l’ultima Messa di don Carlo. Nei giorni successivi parlavamo serenamente di vita e di morte. Un giorno, stringendomi la mano, don Carlo mi dice: «Vorrei ricevere in piena coscienza l’estrema unzione (così si chiamava allora il sacramento degli infermi). Penso che potresti chiamare don Sergio Pignedoli». Mons. Pignedoli era Vescovo ausiliare di Milano e grande amico di don Carlo. Il cappellano della clinica, mons. Pariani, consiglia di procedere al rito per breviorem. Don Carlo si oppone e chiede il rito completo in tutta la sua gestualità, cominciando dai piedi, perché «sono i piedi che mi hanno portato a casa dalla Russia», e aggiunge le parole poetiche dell’amico Davide Turoldo: «Sono i sensi il tempio di una incrollabile fede». Sabato 25 febbraio, alle ore 22.25, detta il suo testamento al notaio, dott. Giacomo Chiodi Daelli. Non tutto il testamento lo ha scritto lui. Molto l’ho scritto io, poi glielo ho letto, poi abbiamo apportate correzioni. Ma una frase è proprio tutta sua. Quando dà a me, esecutore testamentario, l’ordine di distribuire l’immagine-ricordo: «Ai ricoverati delle nostre case, a tutti e a ciascuno, distribuisca, segno della mia fraterna tenerezza, l’immagine ricordo. Altri potrà servirli meglio che io non abbia saputo o potuto fare, nessun altro, forse, amarli più che io non abbia fatto». La domenica mattina, 26 febbraio, chiede di poter vedere due persone: Stella Colombo, che da tanti anni era sua domestica, e don Carlo Dameno, col quale aveva condiviso l’esperienza di coadiutore nella parrocchia di San Pietro in Sala a Milano. Due incontri brevi, ma molto intensi: a don Dameno ricorda che lo aveva chiesto testimone ufficiale alla stesura del suo testamento per sottolineare che le difficoltà di comprensione che c’erano state erano totalmente superate. A Stella Colombo dice espressamente: «Grazie per tutto quello che hai fatto per me dopo la morte della mia mamma e scusa se non ero mai contento della minestra che con tanto amore mi preparavi». Quella domenica pomeriggio esprime un forte desiderio: «Non puoi portarmi a Lourdes? Ne sarei felice». Avuta risposta negativa dai medici, si 25 decide che il giorno dopo, 27 febbraio, alle ore 15, in tutte le case dell’Istituto si sarebbe pregato per lui recitando il rosario, mentre Mariuccia Meda, da tempo sua attiva collaboratrice, avrebbe accompagnato una rappresentanza dei mutilatini a Lourdes e due mutilatine, Marisa Ghezzi e Antonietta Tea, avrebbero recitato il rosario nella stanza di don Carlo. Per la sua ultima confessione mi dice: «Trovami un prete», e aggiunge: «Portami anche un libretto col quale possa prepararmi: cercalo tra i libretti della mia mamma, quei libretti che con la loro semplicità riescono a muovere i sentimenti...». Ho portato il libretto, ho trovato il prete, padre Fossati, un gesuita che lui già conosceva da tempo. Quando vede pa- La vita 1902: nasce il 25 ottobre a San Colombano al Lambro, terzogenito di Enrico Gnocchi (marmista) e Clementina Pasta (sarta), entrambi ferventi cattolici. 26 dre Fossati lui mi guarda ed esclama: «Tu non andare fuori», e poi rivolgendosi al padre: «Ma proprio non può stare qui? Lui mi aiuterebbe molto perché da più di un mese, parlando tra noi, ci stiamo preparando a questo incontro». Nonostante la sua insistenza ho ritenuto meglio uscire e lasciarli soli. Dopo un quarto d’ora padre Fossati esce, col volto rigato di lacrime. Anche don Carlo piangeva ma era sereno, illuminato. Qualche giorno prima di morire mi chiede: «Sei pronto a rischiare la prigione per me? Io voglio dare la cornea a due mutilatini. Se ti senti, vai a cercare un oculista che accetti e si tenga a disposizione». Era, allora, un atto insolito, non accettato dalla legge e disputato tra i moralisti. Proprio per questo mi colpì l’elogio che la domenica successiva - 4 marzo - Pio XII fece di questo atto, nel discorso dell’Angelus. Ricordo il giorno della morte. Era sotto la tenda ad ossigeno, diceva solo qualche parola e solo a me. Alla mattina alle 6 chiede il piccolo crocifisso che sua mamma gli aveva dato per la prima Messa e vuole che venga appeso sulla tenda ad ossigeno per poterlo sempre vedere. Lo appendiamo con del cerotto. Don Carlo lo guardava continuamente e gli parlava con gli occhi. Nel pomeriggio, verso le ore 16, con la mano mi fa capire che vuole dirmi qualcosa. Sollevo la tenda un momento, mi avvicino a lui. Mi stringe forte la mano e mi dice: «Grazie di tutto quello che hai fatto per me». Sono state le ultime parole di don Carlo all’amico prete. Verso le 18 e 15 respirava con molta fatica. Lo guardavamo senza poter fare nulla per lui, isolato nella sua tenda. A un certo punto, con sforzo straordinario, si appoggia con i pugni al materasso, esclama con voce chiara: «Vieni, vieni !», strappa il crocifisso appeso col cerotto alla tenda ad ossigeno, lo bacia e perde così conoscenza. Con gli alpini in Russia «Passa ultimo e frettoloso un giovane ufficiale. Riconosce il cappellano. Ciao, gli dice sottovoce, hai il Signore? Sì. Dammelo da baciare. Un balenio metallico della piccola teca tratta di sotto la divisa; un bacio intenso e poi via animosamente. Ricomincia il colloquio e il cammino a due. Il cappellano parla al suo grande Compagno... e quando la domanda si fa più pressante, la gioia più intensa, il dolore più fondo, la mano corre istintivamente alla piccola teca che racchiude il Cristo... Così vai e non sai bene se sia Egli che ti porta o tu che porti Lui... Quando nelle notti passate all’addiaccio, immense e rotte dagli incubi, hai la fortuna di portare Cristo, Egli ti si addormenta leggermente sul cuore». (da “Cristo con gli alpini”) (*) esecutore testamentario di don Gnocchi 1904: il padre muore di silicosi. 1908-1915: la famiglia si trasferisce a Milano e poi a Montesiro. La morte per tubercolosi dei due fratelli rafforza il legame con la madre. 1915-1925: entra prima nel Seminario minore di San Pietro Martire a Seveso, poi in quello liceale di Monza e termina gli studi al Seminario teologico di corso Venezia a Milano. 1925: il 6 giugno viene ordinato sacerdote dal cardinale Tosi nel Duomo di Milano e celebra la prima Messa a Montesiro. 1925-1926: è nominato coadiutore nella parrocchia di Santa Maria Assunta di Cernusco sul Naviglio. 1926: il 22 giugno è trasferito nella parrocchia milanese di San Pietro in Sala, di cui curerà l’oratorio fino al 1936. Nel 1933 diventa cappellano della Legione Universitaria Fascista di Milano. Nel 1934 la Federazione Oratori Milanesi pubblica Andate e insegnate, che raccoglie diciannove sue conferenze. 1936: il 22 settembre diviene padre spirituale presso l’istituto “Gonzaga” dei Fratelli delle Scuole Cristiane. 1937: esce la prima edizione di Educazione del cuore. 1939: muore la mamma. 1940: da giugno, all’inizio della guerra, è cappellano militare volontario nella formazione “Val Tagliamento” della divisione alpina “Julia” in Albania, Grecia e Montenegro. 1941: il 6 novembre torna al “Gonzaga”. 1942: il 26 maggio parte per il fronte russo con gli alpini della “Tridentina”. 1943: in maggio è in Italia e, dopo l’8 settembre, viene perseguitato dai nazifascisti per la sua militanza nelle Fiamme Verdi del Cln. Viene pubblicato Cristo con gli alpini. 1944: il 17 ottobre è arrestato e condotto a San Vittore: uscirà 27 LA TRAGICA ESPERIENZA DELLA RITIRATA DALLA RUSSIA nito, per il dono della vita, che Gesù, messo a morte innocente in croce, ha meritato per gli uomini; e fatto della convinzione che migliaia di alpini, morti essi pure senza colpa, in quelle piste inospitali del Don, avevano contribuito ad accrescere quella pagina della salvezza nella storia. Ma sono bastati quei pochi anni per scavare nella Chiesa un solco d’esaltazione del valore e della bellezza della vita umana, per ricostruire - nella Chiesa - un poema, un canto alla vita, pari al poema che la Divisione Tridentina aveva vissuto in Russia, in lotta col mistero del male per aprire una porta verso casa, a centinaia di migliaia di disperati. Bisognerebbe conoscere il segreto di questo meraviglioso canto alla bellezza della vita umana e alla gloria di Dio per capire il vero carisma di don Gnocchi, cioè la grazia che lo distingue Passione per la vita lottando con il di Aldo Del Monte * male La mia attenzione, pensando a don Carlo Gnocchi, si sofferma ancora, in grande sintonia, su quanto afferma mons. Pasquale Macchi che allude al fatidico febbraio 1943 come stagione definitiva per la santità di don Gnocchi: «Fulminato dai tratti sfigurati di un bambino, vittima degli orrori della guerra, progressivamente matura la sua “risposta” alla tragedia del dolore innocente, una risposta attinta dalla frequente meditazione del mistero della Croce, cifra di quell’amore che non solo restituisce la vita, ma la dona in abbondanza. Nella Croce Gesù rivela il volto di un padre che offre la vita perché l’uomo si salvi, cioè perché possa giungere a quella pienezza per la quale è stato pensato e creato fin dall’origine. Questa prospettiva può spiegare un’opera che, pur inserendosi nel solco di iniziative analoghe, intende porsi al servizio di una restaurazione piena della persona umana, di una sua rigenerazione. Non si accontenta di assistere e di confortare la vita che già c’è, ma si batte per recuperare e intensificare quella che non c’è più ma che ci potrebbe essere. Di qui l’attenzione premurosa alla promozione di tutte le dimensioni che concorrono a un’umanità completa e, in particolare, la cura nella formazione di ciò che è distintivo e qualificante un essere umano: la sua coscienza». Il mio primo incontro con don Gnocchi è legato alla lettura di L’educazione del cuore con la scoperta in lui di una visione nuova del mistero del divino che si dieci giorni dopo, per un deciso intervento del card. Schuster. 1945: a gennaio ripara a Canonica d’Adda, in una Casa di don Orione, e poi a Rho, presso i Padri Oblati. Dopo la Liberazione, giunge a Villa Amalia di Erba, dove è sfollato il “Gonza- 28 incontra con il mistero dell’umano, sostanza di rinnovazione di se stesso, e di giovani fra i quali il Signore lo chiama a vivere e lo dispone anche a morire. La vita per la vita! A questo punto devo confessare che fui profondamente coinvolto da due grandi temi decisivi nella vita di don Carlo: lo scontro con il mistero del male che si placa nella Croce di Gesù, dove don Carlo trova il riscatto del dolore innocente. Credo di poterne parlare avendo condiviso con lui la ritirata di Russia. La ricordo come lo scatenamento diabolico di tutte le potenze che possono dare la morte: la fame, il freddo, il congelamento all’addiaccio, la ferocia delle armi, il camminare quando non se ne può più; tutto il cosmo fattosi cattiveria infernale che ti chiude il cuore, ti toglie il respiro, ti soffoca la voce, ti lascia due occhi pungenti che perlustrano come chiodi la coltre bianca della steppa e a chi passa - ma passa ancora qualcuno? - gridano che stai morendo. Il Signore aveva consentito che fin dai primi passi di quel tragico febbraio don Gnocchi si trovasse a fare i conti con la morte bianca. È semplicissimo! Come fa un cappellano a non attardarsi qualche minuto in più, vicino a un alpino che muore disperato, ma che alla fine, per le parole di carità di don Carlo, sa dire di sì al Cristo che muore Innocente in Croce? Il mistero del male è irrazionale, è imprevedibile, ha un volto satanico, tuttavia è incapace di spegnere del tutto la logica del piano di Dio. ga”, ma poco dopo è nominato assistente ecclesiastico dell’Università Cattolica (carica retta fino al 1948). L’8 dicembre accoglie i primi “mutilatini” e orfani nella villa di Arosio, in provincia di Como, donata dal senatore Borletti. Eppure bisogna viverci dentro per saperne qualcosa. Don Carlo si distacca spaventato dal suo alpino che muore in pace. Ma non trova più la coda del suo reparto. Accelera il passo, per rendersene conto, ma rotola a terra sfinito e il ghiaccio della notte minaccia di diventare la sua tomba, non ce la fa più a rialzarsi. È allora che il Signore lo viene a cercare. Due alpini, con una slitta vuota, sono anch’essi in ritardo sul reparto. Vedono una croce rossa per terra. È il loro cappellano. Lo raccolgono, lo rifocillano con dello zucchero; e presto il cappellano si ritrova tra i suoi. Il mistero del male è fosco, è atroce… ma è un mistero! Chi lo capisce, l’ho già detto, non ce la fa a spegnere ogni raggio di luce. L’ho provato anch’io. Ma a destra, a sinistra, davanti, e dietro ti eleva delle pareti incrostate di scheletri, di occhi pungolanti, che sembrano tutte diavolerie gridate contro Dio, mentre gli rubano la vita. Ogni uomo che si spegne sembra una bestemmia contro Dio. Allora l’animo del cappellano si innamora di Cristo che muore in croce per dare la vita agli uomini e – parimenti – si innamora del mistero degli 1946: esce il volume Restaurazione della persona umana. 1947: fonda la Casa di Cassano Magnago (Varese). 1948: i “mutilatini” sono trasferiti alla Piccola Casa della Divina Provvidenza. Il 12 ottobre nasce la “Pro Infanzia Mutilata”. 1949: il 26 marzo arriva il riconoscimento giuridico dell’Opera che si chiamerà “Fondazione Pro Infanzia mutilata”. Nascono i Collegi di Inverigo (Co) e Parma. 1950: sorgono i Collegi di Roma, Pessano (Brianza,) Salerno, uomini che, intanto, riparano a quelle bestemmie in quanto sono viventi, perché «la gloria di Dio è l’uomo vivente». La santità di don Carlo è di tutta la vita; il suo carisma vero per dare la vita nasce in quello scontro infernale con il mistero del male o della morte. Ma la lotta con il male è condizione per restaurare la vita. Se don Gnocchi non fosse stato di persona testimone di quel mistero del male e non si fosse miracolosamente - lo dice lui stesso - salvato da quella furia diabolica di morte, non sarebbe stato preso da quella “passione divina per la vita”, da trasformare la sua sopravvivenza in un così originale ministero per la gloria di Dio. Ho conosciuto e condiviso lo scontro con il mistero del male, che ha plasmato don Gnocchi. La peculiarità dell’opera di don Gnocchi, a mio avviso, non sta nella caratterizzazione dei mutilatini o degli orfani di guerra, che egli è andato a scovare, ad uno ad uno, fra le montagne lombarde, perché figli di alpini caduti in Russia. Nel cuore di don Carlo lo Spirito Santo, in quelle notti tempestose, ha acceso un fuoco grande, fatto di un amore infiPasso dei Giovi (Genova) e Torino. 1952: l’11 febbraio i Collegi divengono “Centri medico-sociali” e l’Opera prende il nome di “Pro Juventute”. 1954: il 25 marzo si inaugura il Centro nazionale di fisiologia del Foro Italico, a Roma, e l’Isti- da indefiniti altri schemi di carità e di santità. È ovvio, tutta la sua opera nasce e si sviluppa nell’alveo della Chiesa. Ma si costruisce non con l’obolo dei credenti, bensì con il fiducioso ingaggio della riabilitazione scientifica, con il ricorso alle possibilità finanziarie delle istituzioni civili, che affidano l’esecuzione del progetto non a Congregazioni religiose o a Istituti di perfezione ecclesiale, ma a semplici laici guidati saggiamente verso mete impreviste. «Non ti converrebbe pensare anche ad un Istituto di laici consacrati?» gli chiesi io in un lungo colloquio all’Università Cattolica del S. Cuore. «Don Aldo, mi fai pensare, - mi rispose don Carlo - ma è proprio scritto che tutte le nostre “baracche” dobbiamo affidarle alla Chiesa? E i laici cosa fanno?» * Vescovo emerito di Novara A CHE PUNTO È IL PROCESSO PER LA SUA BEATIFICAZIONE Cammino di santità con151 di Ennio Apeciti * testimoni L’inchiesta diocesana in vista della beatificazione e canonizzazione di don Carlo Gnocchi prese l’avvio ufficiale nel Palazzo arcivescovile di Milano alla presenza del cardinale Carlo Maria Martini il 5 maggio 1987, quando fu insediata la commissione incaricata di raccogliere quanto potesse servire a conoscere la vita, le opere e la spiritualità di don Carlo. Il lavoro della commissione si concluse il 27 febbraio 1991, con una solenne cerimonia nella cappella del Centro S. Maria Nascente, dove sono custodite le spoglie mortali di don Carlo. In quei quattro anni la commissione aveva tenuto 188 sessioni, durante le quali aveva ascolta- tuto di Pozzolatico (Firenze). 1955: l’11 settembre inizia la costruzione dell’Istituto Pilota di Milano e partono i lavori per l’ampliamento del Centro “La Rotonda” di Inverigo. Don Carlo inizia a manifestare i sintomi della sua malattia. to 151 testimoni, che appartenevano alle più diverse aree della realtà ecclesiale milanese e italiana: un cardinale, un vescovo, 30 sacerdoti, 14 suore, 9 religiosi, 98 laici. Il cardinale era Giovanni Colombo, compagno di don Carlo in Seminario, che si dichiarò «entusiasta» del processo canonico, poiché nutriva per lui «alta stima e profondo rispetto». Il vescovo di Novara, monsignor Aldo Del Monte, rilasciò un’appassionata testimonianza sulla terribile esperienza del tempo di guerra. I sacerdoti interrogati nel corso del processo ricordavano sempre l’entusiasmo di don Carlo: «Egli era convinto di quello che 1956: in gennaio gli viene diagnosticato un tumore maligno allo stomaco. Viene ricoverato nella clinica milanese “Columbus”, dove muore alle 18.45 del 28 febbraio. Le cornee vengono trapiantate su due “mutilatini”. Il 30 febbraio, al funerale presieduto dall’Arcivescovo in Duomo, accorre una folla immensa. Durante il rito viene distribuito il testamento Pedagogia del dolore innocente, pubblicato postumo. (dagli Atti Pubblici per la Causa di Canonizzazione, a cura di Annamaria Braccini) 29 diceva e affascinava i bambini che lo ascoltavano con un linguaggio coinvolgente, senza alcuno sforzo d’erudizione, capace di creare un’atmosfera divina anche quando trattava temi delicati». Così testimoniava don Angelo Albani, che aggiungeva: «Da lui ho imparato a esser sacerdote». Fu interrogato anche monsignor Ernesto Castiglioni, successore di don Gnocchi come direttore spirituale del Collegio Gonzaga: l’entusiasmo di don Carlo - testimoniò Castiglioni - era trascinante, perché era nutrito di speranza. Un prete che «sapeva stare con i giovani», dichiarò don Giulio Ghetta, cappellano militare in Albania con don Carlo: sapeva stare con i giovani soldati anche quando il loro atteggiamento militar-giovanile si mostrava ostile al «prete»; sapeva ribattere alle battute salaci di quei giovani La 30 Fondazione «senza animosità», ma piuttosto mostrandosi «orgoglioso d’essere sacerdote». Tra le preziose testimonianze di religiose e religiosi, mi sembra sintetica quella di suor Flora dalla Pozza: «Ancora dopo trent’anni è viva in me l’esperienza della serenità e della disponibilità di don Carlo. Egli riusciva a comunicare questa serenità, che era in lui costante. Così come costante era la sua disponibilità, il non pensare mai a se stesso, la semplicità, soprattutto nel rapporto con i bambini, che richiamava la semplicità delle Beatitudini». Non meno significative le dichiarazioni dei Fratelli delle Scuole Cristiane. Ricordo le parole di fratel Alfredo Prina: «Il mezzo che don Carlo usava nell’ascoltare le persone e che lo favoriva era la sua affabilità, l’assenza di asprezza, il suo essere sempre equilibrato e sereno. Non ho mai visto don Carlo usare toni aspri, né ho colto sulle sue labbra scatti d’ira o di dispetto; piuttosto si coglieva il suo dispiacere, quando i ragazzi gli dicevano di aver fatto o visto qualcosa di poco edificante». «Era un uomo di preghiera», dichiarò fratel Giovannino Verri. Chi potrebbe farsi voce sintetica dei quasi cento laici interrogati durante il processo? Ripenso alla deposizione di Giulio Andreotti, che incontrò don Gnocchi nell’immediato dopoguerra, quando egli era sottosegretario alla Presidenza del Consiglio: «Don Carlo mi venne a trovare a mi disse: “Ecco, questo è l’argomento su cui non ti darò pace” e mi fece vedere in foto un bimbo nei cui occhi era la guerra». Fu l’inizio di una feconda collaborazione, che divenne sincera amicizia. I due, d’altra parte, erano legati da quella rara capacità di osare, propria di coloro che - come diceva don Carlo ad Andreotti - sanno che «delle persone bisogna guardare sempre quello che faranno, non quello che hanno fatto». Non tutti hanno rilasciato deposizioni entusiaste. E forse era inevitabile: è proprio degli esseri umani avere pareri discordanti, tanto più quando si tratta di valutare le persone, il loro agire e le sue motivazioni. Lo stesso don Carlo scriveva in una lette- Istituita cinquant’anni fa da don Carlo Gnocchi per assicurare cura, riabilitazione e integrazione sociale ai mutilatini, la Fondazione ha ampliato nel tempo il proprio raggio d’azione a favore di ragazzi affetti da complesse patologie e anche di pazienti che necessitano di inter- ra stesa dopo una drammatica riunione: «L’incontro di ieri sera mi ha confermato nella dura legge che presiede ai rapporti tra uomo e uomo: la difficoltà, spesso l’impossibilità di comprendere le intenzioni e le situazioni del nostro prossimo». Come reagire, allora? Credo risponda lo stesso don Carlo in un’altra lettera: «A un certo punto nessuno è più obbligato a fare il bene per forza». L’amore non è un dovere volontaristico, ma un desiderio cordiale. L’unico desiderio di don Carlo fu di servire. Ancora una volta provo questa affermazione citando una sua lettera: «Se mi gloriassi o Le mettessi fuori il conto di tutto questo non avrei agito, come ho creduto di fare, unicamente per la gloria del Signore. Sono lieto di aver fatto così». E ne spiegava il motivo. Anche San Paolo aveva sperimentato amarezze e prove, eppure, mentre si trovava in catene, scrisse ai cristiani di Filippi: «Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo sia annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene». Era la convinzione di don Carlo, che aveva fatto sue le parole di Paolo: «Per me, infatti, il vivere è Cristo». (*) Responsabile dell’Ufficio per le cause dei santi della diocesi di Milano venti riabilitativi neurologici, ortopedici, cardiologici e respiratori. Dall’81 l’attività si è estesa all’assistenza degli anziani e negli ultimi anni anche ai malati oncologici in fase terminale. Riconosciuta Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico, la Fondazione ha alle proprie LA PRO JUVENTUTE: 50 ANNI DI UNA STORIA DI CARITÀ Scoprire Cristo uomo percosso dal dolore nell’ di Angelo Bazzari * Sono trascorsi cinquant’anni dal riconoscimento ufficiale della Pro Juventute, ora Fondazione Don Carlo Gnocchi. Essa sembra oggi sommersa dalla tumultuosa vivacità e dalla crescente espansione della propria attività. Di qui l’impellente bisogno di ricomporsi, di approfondirsi, di riformarsi per riprendere con grande coraggio e nuove energie il proprio cammino di servizio. Apprestarsi a ricordare il centenario della nascita di don Carlo e i cinquant’anni di attività dell’Opera che oggi porta il suo nome (segno ulteriore della necessità di saldarsi sempre più alle origini e immergersi sempre meglio nella spiritualità del fonda- tore) diventa per tutti noi operatori della Don Gnocchi non solo occasione per un salutare tuffo nel passato, comunque necessario per approfondire chi siamo e recuperare idealità ed entusiasmo, ma anche un dovere, un testimone da raccogliere per continuare a coniugare insieme il vangelo della carità con il vangelo della vita vestita di quotidianità. Una carità della vita che è donazione, interpretazione di un dono illimitato, incondizionato, che è un darsi senza ritorno, un investirsi senza secondi fini. Ricordare e celebrare don Carlo non significa solo evocare sentimenti o ritornare a rivisitare un museo, pur eccellente e pregiato; significa piuttosto cercare le motivazioni vere, originarie, le ispirazioni più sincere, l’innervarsi più vitale, non solo della Fondazione, ma anche di una società come questa, che ci consegna molte incertezze, molte precarietà, ma che ci lascia anche lo spazio di amarla, di immaginarla e di sognarla un po’ diversa. È infatti il sogno la radice più profonda di ogni nuovo progetto, l’orizzonte più stimolante di ogni agire umano, la bussola preziosa per navigare nel mare della vita umana, reale e virtuale. La radice La Fondazione Don Gnocchi è stata concepita nel sogno: «Sogno, dopo la guerra - scriveva don Carlo dal fronte, nel lontano 1942 - di potermi dedicare per sempre a un’opera di carità, quale che sia, o dipendenze quasi 3000 operatori ed eroga le proprie prestazioni in regime di accreditamento con il Servizio sanitario nazionale in venti Centri, distribuiti in nove regioni. Lo scorso anno ha ottenuto il riconoscimento di Organizzazione non governativa per un più diretto inter- vento nei Paesi in via di sviluppo: interventi sono in corso in Bosnia, Kosovo, Eritrea, Zimbabwe e Tibet. tri per anziani non autosufficienti, un Hospice per malati terminali, trentasei ambulatori territoriali di riabilitazione (2700 posti-letto complessivi). I CENTRI IN ITALIA Due Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, dodici Centri di riabilitazione polifunzionale, cinque Cen- L’ATTIVITÀ Riabilitazione post-acuta nei filoni ortopedico, neurologico, cardiolo- meglio quale Dio me la vorrà indicare. Desidero e prego dal Signore una sola cosa: servire per tutta la vita i suoi poveri. Ecco la mia carriera. Purtroppo non so se di questa grazia sono degno, perché si tratta di un privilegio…». Uomo fino in fondo, don Carlo visse le contraddizioni di chi non fugge dalla storia di tutti e sente sulla propria pelle il senso di impotenza davanti al male. «Anch’io - dice in Cristo con gli alpini - ho sempre cercato le vestigia di Cristo sulla terra, con avida, insistente speranza. E mi era parso veder balenare il suo sguardo negli occhi casti e ridenti dei bimbi, nel pallido e stanco sorriso dei vecchi, nel crepuscolo fatale dei morenti…». Ed è proprio la morte di un alpino tra le sue braccia che gli fa gridare: «Ho veduto il Cristo!». Il Dio della “prossimità assoluta” gli si dà nella carne martoriata di un soldato ferito. È la vera “conversione” di don Carlo, destinata a cambiare radicalmente la sua vita e a mostrargli, con estrema chiarezza, l’ambito specifico del suo apostolato. «Da quel giorno - dirà - la memoria esatta dell’irrevocabile incontro mi guidò d’istinto a scoprire i segni caratteristici del Cristo sotto la maschera essenziale e profonda di ogni uomo percosso e denudato dal dolore». L’orizzonte Sarà la Provvidenza, nel dopoguerra, dopo la promessa fatta ai suoi alpini di occuparsi dei loro figli, a indicargli in quale specifica “vigna” avrebbe dovuto impegnare il resto della propria vita: gli orfani, i mutilatini, i mulattini, i poliomielitici, nella convinzione che «bisogna rifare l’uomo e, per farlo, bisogna restituirgli anche la dignità, la dolcezza e la varietà del vivere, quel rispetto della personalità individuale e quella possibilità di esplicare completamente il potenziale della propria ricchezza personale» e certo anche che «nell’esercizio dell’assistenza sociale, l’opus perfectum si trova soltanto nel connubio tra la giusti- gico e respiratorio; riabilitazione per disabili lungo-assistiti; assistenza agli anziani in prevalenza non autosufficienti; assistenza di malati oncologici in fase terminale. Le prestazioni riabilitative sono erogate in regime di ricovero a tempo pieno, day-hospital, extramurale, ambulatoriale e domiciliare. Ampio spazio è riservato alla ricerca scientifica, specie nei Centri di Milano e Pozzolatico (Firenze). In particolare, l’Irccs S. Maria Nascente di Milano, dotato di un Centro di bioingegneria istituito in collaborazione con il Politecnico, è specializ- 31 Con gli occhi di don Carlo «T Una terapista della Fondazione impegnata in Kosovo. Sotto, un ragazzo nel laboratorio d’informatica del centro pilota di Milano. Nell’altra pagina, sopra, attività di riabilitazione in uno dei centri; sotto due anziani ospiti dell’istituto Palazzolo. zia e la carità, tra lo Stato e l’individuo, perché l’attività assistenziale, in quanto riguarda prevalentemente l’ora del bisogno, della prova e del dolore umano, è forse una di quelle che più da vicino attingono il sacrario misterioso della persona umana, dinnanzi al quale lo Stato, e tanto più quello democratico, deve riverentemente arrendersi ed agire». Oggi come cinquant’anni fa, la Fondazione deve diventare, nel messaggio e nel suo stile di agire, un segno capace di dire a una società - dove spesso ha ragione solo chi ha potere e voce, mentre chi non ce la fa deve soccombere e perire - che se non vuole ripiombare nella barbarie deve saper ripartire dagli ultimi e da chi è più indifeso, per ricomprendere l’uomo e il senso ultimo delle istituzioni civili. La bussola L’occasione del centenario della nascita di don Carlo deve insomma ricordare a noi e a tutti il dovere di curvarci verso gli infelici più bisognosi e più meritevoli del nostro interessamento, perchè l’esempio della pietà coraggiosa di don Gnocchi continui a commuoverci, a parlarci, a indurci a ripetere il suo gesto amoroso verso tanti piccoli, grandi sventurati e ancora una volta - come ammoniva il cardinale Montini nella cerimonia di traslazione della salma di don Carlo dal cimitero monumentale alla cappella del Centro “S. Maria Nascente”, nel lontano 1960 - ci insegni che il bene è più forte del male; che in una società civilmente e cristianamente ordinata le sventure altrui sono un dovere comune; che non vi è opera più nobile e non vi è gioia zato nella ricerca nei settori biomedico e biotecnologico e nella sperimentazione clinica finalizzata alla individuazione di nuove metodiche e tecnologie per il recupero dei deficit motori e neurocognitivi e la riduzione delle condizioni di disabilità. La formazione è svolta attraverso 32 più commovente, di quella che si prodiga in favore dei più deboli. Ecco allora - di fronte alle sfide del nuovo millennio - la nostra missione: promuovere e realizzare una “nuova cultura” di attenzione ai bisogni dell’uomo per “farci carico” del sofferente nella sua dimensione globale di persona, continuando a ispirarci ai principi della carità scuole elementari speciali, corsi di formazione professionale per disabili, Centri socio educativi e Centri di formazione professionale. In qualità di Irccs, la Fondazione ha inoltre attivato una serie di percorsi di formazione in convenzione con Università e Regione Lombardia: corsi di lau- cristiana e declinando nell’oggi i valori di don Gnocchi, da sempre riferimento ideale per ogni ripensamento organizzativo e per future progettualità a livello nazionale e internazionale. Solo così, davanti a malanni troppo gravi ed esigenti, nei nostri Centri in Italia o nelle trincee del bisogno sparse in tutto il mondo, potremo continuare a dare pre- rea in Ingegneria biomedica (con il Politecnico di Milano), per Terapista della riabilitazione, Tecnico di neurofisiopatologia, Terapia occupazionale, per Infermiere ed Educatore professionale (con l’Università degli Studi), corsi post-laurea su “Tecnologie per l’autonomia e l’integrazione sociale delle persone disabili” (con l’Università Cattolica di Milano). DOVE OPERA LOMBARDIA: Milano (Centro S. Maria Nascente Irccs, Centro Girola-Fondazione Don Gnocchi, Istituto Luigi Palazzolo-Fondazione Don cetti che non siano parole, ma esempi; dare esempi che non siano vanto, ma sacrifici; dare sacrifici che non siano momentanei, ma perenni. E raccogliere così il monito del testamento di don Carlo, per poter dire anche noi dei nostri ospiti che «altri potrà servirli meglio che io non abbia saputo o potuto fare; nessun altro, forse, amarli più che io non abbia fatto». Nata insomma nel sogno, nel sogno la Fondazione continua il proprio impegno, coerente e profetico, per divenire sempre più credibile testimone del Dio vivente, nel più grande servizio della Chiesa universale. E se poi una persona sola sogna, il suo non è altro che un sogno; ma se invece sono molti a sognare insieme - ammoniva dom Helder Camara - siamo allora agli inizi di una nuova realtà. i chiedo un grande favore, non negarmelo: sei pronto a rischiare la prigione per me? Io voglio donare le mie cornee. Fra poco non ci sarò più... Prendi i miei occhi: anche questi sono per i miei ragazzi». Milano, febbraio 1956: don Carlo Gnocchi, sentendosi vicino alla fine, così si rivolge all’amico don Barbareschi perché contatti il professor Cesare Galeazzi, primario oftalmico, chiedendogli di sfidare la legge. A quel tempo, infatti, i trapianti di cornea in Italia erano proibiti. E fu proprio il clamore del gesto voluto da don Gnocchi a spingere il Parlamento ad approvare la prima normativa in materia di trapianti. Le cornee del “papà dei mutilatini” furono trapiantate a due ragazzi non vedenti: Silvio Colagrande e Amabile Battistello (nella foto sotto con mons. Bazzari). Entrambi hanno riacquistato la vista grazie a quell’atto di generosità: Amabile si è sposata ed è oggi madre; Silvio ha raggiunto la laurea, si è sposato anche lui ed ha proseguito il proprio cammino professionale all’interno della Fondazione Don Gnocchi, dove tuttora opera in qualità di direttore del Centro “S. Maria alla Rotonda” di Inverigo (Co). Ecco il suo ricordo. «Avevo perso quasi completamente la vista all’età di sette anni: uno zampillo di calce viva mi aveva colpito agli occhi mentre stavo giocando, causando un’ustione gravissima con la compromissione della cornea. Poi, al centro Pro Juventute che don Carlo aveva aperto a Roma, avevo imparato il linguaggio Braille, nell’attesa di un trapianto possibile soltanto all’estero. Il 27 febbraio 1956, vigilia del giorno della morte di don Gnocchi, tutti i suoi alunni non vedenti furono chiamati per una visita oculistica. Quando entrai nell’ambulatorio, riconobbi la voce del professor Galeazzi. Dopo la visita mi fu semplicemente detto che occorreva andare a Milano, destinazione l’Istituto Oftalmico. Non mi dissero altro. Mi resi conto di quanto mi era accaduto soltanto il giorno dopo, al risveglio dall’anestesia: ricordo che ero completamente bendato e un peso mi circondava la testa. Sentivo la voce dell’infermiera che mi raccomandava di restare immobile. Rimasì così per cinque giorni e cinque notti, vegliato perché anche nel sonno non facessi bruschi movimenti. Venne in ospedale a trovarmi anche l’allora Arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, che poi divenne Papa: la sua voce mi è sempre rimasta impressa. L’occhio operato riacquistò in breve sei decimi di diottrie: rimasi però in ospedale alcuni mesi prima di essere dimesso e tornare a Inverigo per riprendere gli studi elementari. Questa volta, però, leggendo e scrivendo come tutti gli altri alunni. Da allora i miei occhi non hanno avuto più bisogno di nulla: oggi porto gli occhiali solo per correggere una lieve sfocatura in lontananza. Sono rimasto legato alla Fondazione Don Gnocchi non solo per finire gli studi, ma anche per lavorarci: mi è sembrato l’unico modo di rispondere a quel gesto ricevuto senza neanche una parola». * Presidente Fondazione Don Carlo Gnocchi Gnocchi); Pessano con Bornago (Mi, Centro S. Maria al Castello); Monza (Mi, Hospice S. Maria delle Grazie); Lodi (Centro Fondazione Don Gnocchi); Inverigo (Co, Centro S. Maria alla Rotonda); Salice Terme (Pv, Centro S. Maria alle Fonti); Malnate (Va, Centro S. Maria al Monte); Rovato (Bs, Centro S. Maria in Santo Stefano). PIEMONTE: Torino (Centro S. Maria ai Colli). LIGURIA: Sarzana (Polo riabilitativo del Levante ligure, Ospedale S. Bartolomeo). EMILIA ROMAGNA: Parma (Centro S. Maria ai Servi). TOSCANA: Pozzolatico (Fi, Centro S. Maria agli Ulivi Irccs); Colle Val d’Elsa (Si, Centro S. Maria alle Grazie); Marina di Massa (Ms, Centro S. Maria alla Pineta). LAZIO: Roma (Centro S. Maria della Pace). MARCHE: Falconara Marittima (An, Centro Egidio Bignamini-Fondazione Don Gnocchi). CAMPANIA: Salerno (Centro S. Maria al Mare). BASILICATA: Acerenza (Pz, Centro M. Gala-Fondazione Don Gnocchi). 33