TRICEVERSA
Revista do Centro Ítalo-Luso-Brasileiro
de Estudos Linguísticos e Culturais
ISSN 1981 8432
www.assis.unesp.br/cilbelc
TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009
CILBELC
“POSSO, RISPOSE IL MAGO, E ME NE VANTO,/ FARLA DIVENTAR SASSO, ARBOR,
PANTERA,/MA SINCERA E FEDEL… NON POSSO TANTO”: CASI DI MISOGINIA
GARBATA NELLA FAVOLISTICA SETTECENTESCA DI TRADIZIONE ESOPICA
Alice Di Stefano
Università di Roma “Tor Vergata”
RIASSUNTO
Nell’ambito del successo del genere
esopico nel Settecento e della sua
ripresa in chiave satirica e della critica
dei costumi, l’articolo si pone come
analisi di un tema particolarmente
fortunato  e già molto presente nella
tradizione favolistica cinquecentesca 
quale quello riguardante le donne e la
loro malizia. Un tema ricorrente nella
nostra letteratura, che gli apologhi
arricchiscono di immagini ma non
cambiano nella sostanza.
PAROLECHIAVE
Favole; Settecento; satira
ABSTRACT
In the bowl of the Aesopic gender
success in the Seven hundred and its
retaken in satiric key and the critical
one of habits, the article presents
itself as analysis of a subject
particularly well disseminated and still
very present in the tradition of the
sixteenth fabulary: what concerns the
women and their malice. A recurrent
subject in our literature enriched of
images by the apologists, but they
don’t change it substantially.
KEYWORDS
Fable; 18 th Century; satire.
Nel XVIII secolo, in Italia, nell’ambito di una più vasta operazione di
recupero dei modelli classici, anche il genere esopico venne ripreso e, pur
limitatamente, variato, con intenzioni ed esiti altri rispetto alla tradizione.
Soprattutto su imitazione di testi stranieri, le composizioni in versi di
impianto allegorico, che continuavano a giovarsi del travestimento animale
per castigare i costumi e correggere i comportamenti umani, assunsero nuovi
colori grazie all’introduzione di temi e personaggi solitamente estranei alla
forma prescelta che, caricati di nuovi significati, vennero utilizzati a fini di
satira
dando
luogo
ad
una
letteratura
dalle
connotazioni
ironiche
strettamente legata alla contemporaneità. Il modello antico fu ripreso ma
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come alleggerito nel suo movente didascalico (nel gioco imitativo nostrano,
poi, la critica alle consuetudini sociali che all’estero si rese evidente venne
come stemperata adattandosi al minor rigore anche in campo morale tipico
del paese) rispetto ai tentativi antecedenti, in sintonia con le poetiche
settecentesche improntate al principio dell’utile dulci che conducevano quasi
naturalmente ad una poesia fatta di grazia e piacevolezza, per un garbo
diffuso non solo a livello formale.
In questo recupero oculato e moderatamente novatore di un genere già
di per sé adattabile a diversi contesti, confluirono diversi spunti nonché veri e
propri topoi letterari che si erano andati stratificando nel corso dei secoli, e,
nella felice mescolanza anche stilistica di elementi eterogenei, si arrivò ad
un’ingente, spontanea nonché variegata produzione di testi, accomunati,
spesso, non più che da una generica dicitura di Favole esopiche.
Il successo del modello, riformulato alla luce di varie suggestioni (dalla
poesia epigrammatica alla lirica d’amore), fu accompagnato in tutta Europa
da una notevole discussione teorica che coivolse personalità anche lontane
come ad esempio quelle del francese Houdar de La Motte e del tedesco
Ephraim Lessing.1 In Italia, fra i tanti autori che si dedicarono al genere, sulla
scia di una moda nella moda, insieme a una miriade di imitatori d’Esopo assai
poco rilevanti, si trovano figure importanti di scrittori all’epoca già noti.
Proprio l’incidenza di questo fenomeno, che vide il riuso in chiave quasi
parodica di una forma tanto codificata, che si piegò alla critica sociale
mediante argute seppure godibili allegorie, potrà colpire il lettore odierno
che tenti di cogliere lo spirito della cosiddetta Repubblica delle lettere.
Il piccolo contributo che segue, a carattere esclusivamente tematico, si
pone a testimonianza (in mise en abîme) di questo contesto storico-sociale
oltre che letterario attestando contemporaneamente lo scambio a livello
internazionale (per altri generi più raro o addirittura inesistente), che si rese
evidente, frequente e proficuo seppur mediato dal paradigma classico.
1
Sulla teoria della favola nel Settecento cfr. NOEL,Thomas. Theories of the fable in the
Eighteenth century. Columbia University Press, New York-London, 1975 nonché CALDIERI,
Erminia. Lo specchio obliquo: La favola nella teoria della letteratura del XVIII secolo. Napoli:
SEN, 1983.
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L’Inghilterra, ad esempio, fece spesso da filtro alle favole d’invenzione
più riuscite, scavalcando talvolta gli esempi preesistenti, da quelli
rinascimentali ai lafonteniani. Gli scritti di autori come Pope o Swift e persino
alcuni testi tratti dallo Spettatore si imposero all’attenzione di molti autori di
apologhi come Lorenzo Pignotti, Giovanni Salvatore de Coureil (per il quale
tale influsso è stato ampiamente attestato dalla critica), Giosuè Matteini e
Aurelio de’ Giorgi Bertola (che ebbe forse più presente il modello tedesco ma
che per la teoria si confrontò di necessità con gli scrittori inglesi nonché
francesi).
Le pagine che seguono stanno a conferma del successo di tale ripresa e,
in parte, di questo scambio tra paesi postisi sotto lo stesso modello:
universale, poiché passibile di rielaborazione, e sempre attuale, specie se
recuperato in funzione satirica. A tal riguardo, notevole appare la
riconversione da genere per fanciulli o comunque gnomico a genere per
adulti: l’ironia a volte sottilissima che caratterizza le favole nonché lo stile
pungentemente aforistico, infatti, destinarono le composizioni ad un pubblico
smaliziato e consapevole che poteva rispecchiarsi in poesie ben strutturate
nonché “ornate” dal punto di vista formale.
Mentre è tuttora in auge lo studio degli autori esopiani tardo antichi o
rinascimentali, un’attenzione ridotta è sempre stata data alla schiera dei
rimatori che nel Settecento contribuirono in questa maniera laterale ma
comunque significativa allo scambio con l’estero, considerati per lo più
epigoni di un genere fossilizzato, sentito forse come troppo codificato,
statico, e perciò relegato alla mera imitazione; né di conseguenza si è dato
troppo rilievo alle componenti di novità, allo scarto che, seppure in molti casi
derivato a sua volta da altri modelli, costituì un passo in avanti rispetto alla
tradizione: e per la volontà di contravvenire sottilmente alla maniera di La
Fontaine, modello forte e fondante anche per l’uso di un materiale di
derivazione mista (da Aviano a Bidpai), e per la tendenza a creare una
letteratura originale di gusto satirico.2
2
Gli studi sulla favola esopica così come si sviluppò nel Settecento sono tutti piuttosto datati
e manca a tutt’oggi una ricostruzione esaustiva ed articolata del fenomeno comprensiva di
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Al di là della sperimentazione metrica che caratterizzò alcuni favolisti,
in determinati autori, anche minimi, notevole risulta l’apporto personale sul
piano tematico e contenutistico: in questo senso, il taglio qui prescelto aiuta
a meglio individuare gli elementi di novità, soffermandosi maggiormente sulle
eccezioni alla regola esopica e dando quasi per scontate le favole con
protagonisti animali, il cui impianto allegorico, appena variato, venne
applicato a diverse combinazioni, passando da un autore all’altro, da una
tradizione all’altra, da un luogo geografico ad un altro.
Tra i temi che nel Settecento contribuirono a rinnovare la favolistica di
tradizione esopica conferendole, insieme ad un maggiore spessore poetico, un
tratto di incisività sulla realtà contemporanea, c’è quello, non del tutto
marginale, riguardante le donne.
In Italia, accanto a composizioni più propriamente dedicate alla satira
dei costumi, testi appuntati in particolare contro la moda in cui la
componente femminile era parte essenziale e costitutiva (è il caso delle
composizioni sul trucco e i posticci, l’arte cioè di mascherare età e difetti, e
per esteso arte di ingannare, le quali vantavano modelli illustri già a partire
dal boccacciano Corbaccio),3 stanno diversi interventi caratterizzati da spunti
di misoginia pura, che traggono la loro ispirazione da esempi preesistenti,
avulsi, per lo più, dalla produzione di stampo didascalico.
Gli apologhi esplicitamente contro le donne saranno collegati, non di
rado, a quei motivi antifemminili che da sempre avevano attraversato la
letteratura italiana improntando i componimenti ad uno stile comico. Tra i
favolisti, che per il resto si rifacevano a modelli stranieri, furono soprattutto
un’antologia di testi che possa essere rappresentativa delle innovazioni apportate al genere.
Detto questo, rappresenta un ineludibile riferimento critico (grazie alla sua postfazione) la
raccolta Favolisti del Settecento, a cura di Mario Sansone. Firenze: Sansoni, 1943. Sulla
fortuna del genere in Italia, invece, tuttora fondamentale e ricco di notizie è il dettagliato
contributo di FILOSA, Carlo. La favola e la letteratura esopiana dal Medioevo ai nostri giorni.
Milano: Vallardi, 1952.
3
Sull’argomento, cfr., in parte, il mio “Zanzare alla toletta e pipistrelli a teatro. Esiti
favolistici di galanteria settecentesca”, in Critica letteraria, v.XXXIV, n. 131, p.351-376,
2005, nonché la monografia dedicata ad un autore particolarmente duro nei confronti della
malizia femminile e delle sue manifestazioni, ammiratore di Pignotti e come lui seguace della
letteratura satirica inglese: Giosuè Matteini (DI STEFANO,A. Schiaffi, pugni e spranghe
elettriche: Le Favole e novelle di Giosuè Matteini. Roma: Aracne, 2006).
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quelli cosiddetti “berneschi” o giocosi a introdurre questo tipo di accenni dai
tratti polemici tramandando una “prassi” tutta interna al rituale nostrano.4
Si perpetua più che altro una tradizione, allora, con tutti i suoi cliché, a
partire da Carlo Cantoni,5 fisico di professione e letterato per diletto, che tra
le sue Favole pubblicate postume nel 1752 presenta composizioni quali
“Stravaganza della moda” o “La cuffia Proteo”, in cui, nell’intreccio di motivi
attinenti all’attualità, gli straordinariamente veloci cambiamenti nelle usanze
in fatto di vestiario sono attribuiti all’“instabile” “donnesco cervel”, causa di
4
Nell’ambito della favolistica di imitazione classica si registrano diversi casi di misoginia
riconducibili al filone medievale che aveva arricchito nonché contaminato il serbatoio di
storie e immagini già proprio della tradizione. Limitatamente alla produzione cinquecentesca,
in Gabriele Faerno (per cui cfr. FAERNO,G. Le favole. A cura di L. Marcozzi. Roma: Salerno,
2005), si trova “Uxor summersa, et vir” (fav. 41, p.141): “Un uomo, risalendo la corrente
contraria, cercava il cadavere di sua moglie annegata in un fiume; la folla, accorsa, lo invitò
a cercare a valle, ma egli:  Giammai  rispose  finché fu viva, mia moglie fu sempre
tanto odiosa e in disaccordo con gli altri, nel contegno e nel comportamento, che anche
adesso che è morta non può far altro che andare contro la corrente  Una moglie importuna
e insopportabile, alterca anche da morta” in traduzione italiana. Il tema della donna
annegata (cfr. anche “La femme noyée” di La Fontaine derivata però dalla fav. 53 di
Verdizotti) era proprio della favolistica latina medievale anche se Faerno sembra riprenderlo
direttamente dalla facezia 60 (“De eo qui uxorem in flumine peremptam quaerebat”) di
Poggio Bracciolini (altro modello importante per la letteratura apologica in generale), che,
eliminando il lungo antefatto delle versioni precedenti, aveva dato rilievo alla figura del
protagonista maschile.
Persino Bernardino Baldi, autore coevo di favole brevi a carattere fisico-naturalistico,
presenta composizioni in argomento come quella del filosofo che “volendo mostrar quali
fossero le donne nelle cose d’amore, trattosi nel sole e correndo, mostrò l’ombre a coloro che
gli avevano fatto la domanda” (cfr. BALDI, Bernardino. Cento apologhi. In: Versi e prose
scelte. Firenze: le Monnier, 1859. p.404-416, p.415). Tra le Favole di Leonardo, infine, se ne
legge una a sfondo esplicitamente misogino che ben si inserisce nel solco della tradizione
rievocata: “Sendo uno infermo in articulo di morte, esso sentì battere la porta e domandato
da uno de’ sua servi chi era che batteva l’uscio, esso servo rispose essere una che si chiamava
Madonna Bona. Allora l’infermo, alzato le braccia al cielo, ringraziò Dio con alta voce, poi
disse ai servi che lasciassino venire presto questa, acciò che potessi vedere una donna bona
innanzi che esso morissi, imperocché in sua vita ma’ ne vide nessuna” (cfr. DA VINCI,
Leonardo. Aforismi, novelle e profezie. Introduzione di M. Baldini, Newton Compton. Roma:
1993).
5
L’autore, nativo di Novellara, iniziò a scrivere favole già a partire dagli anni Venti e Trenta
ponendosi, in Italia, tra i primi favolisti del secolo (per l’identificazione di Cantoni come
primo favolista cfr. MALAGOLI, Giuseppe. Carlo Cantoni umorista e favoleggiatore del sec.
XVIII. In: Giornale storico della letteratura italiana. anno XI, vol. XXI, fasc. 62, 1893, p.265299). Nel libro delle sue Poesie (Milano: Malatesta, 1752), edito postumo a cura di un
pronipote (forse per “soverchia umiltà” dell’autore che non pubblicò mai nulla in vita), le
favole sono mescolate ad altre composizioni: la sezione degli Apologhi ed altri componimenti
faceti raccoglie 117 testi, per lo più sonetti, in cui l’autore sviluppa i temi della satira ai
costumi contemporanei in accordo con i topoi della letteratura di tipo bernesco. Le favole in
senso stretto (circa sessanta) i cui modelli dichiarati sono appunto Burchiello, Pulci, Berni,
Aretino e Tassoni, sono composizioni dotate di una certa originalità, perizia formale e
“popolare schiettezza” (per cui cfr. FILOSA,1952, p.165).
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mal costume nel primo dei due sonetti, ispiratore di idee balzane persino
nelle cuffie, nel secondo:
STRAVAGANZA DELLA MODA
Le donne d’oggidì per parer belle
le calze han ricamate, e le scarpette,
e per mostrarle a chi non vi riflette
alzan presso al ginocchio le gonnelle.
La Moda al buon costume è sì ribelle,
che insegna tali usanze, e le permette
infino alle fantesche orride inette,
che votan deschi, e lavano scudelle.
Natura in collocar la fede vera
del buon senno nel capo è ognor costante,
e all’altre membra ivi il buon senno impera,
si può sconcerto udir più stravagante?
Il donnesco cervel vacua, e leggiera
lasciò la testa, e giù calò alle piante. (CANTONI, 1752)
LA CUFFIA PROTEO
Ha gran genio la cuffia e par che goda
di mutare oggidì spesso figura;
si vede or longa, or corta, or di misura
mezzana, or con le falde, or con la coda;
or si apre sciolta ed or così si annoda,
che il volto delle belle al guardo fura,
quinci nel variar di sua struttura
si può chiamar il Proteo della moda.
Chiedo alla cuffia: “Il gentil sesso e bello
perché vuole, che appaia multiforme,
e si diversa in questo modo e in quello?”
Ella risponde che seguendo l’orme
del femminile instabile cervello
ogn’ora le convien di cangiar forme. (CANTONI,1752)
Brevissima e fulminante, nella sua chiusa di ammiccante ironia, è invece
“Venere confortata”, sempre dello stesso autore, in cui (con un tocco di
classicità maggiore e più puntuali riferimenti al mito rispetto alla favola
precedente) la proverbiale volubilità femminile discende da illustri personaggi
mitologici:
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VENERE CONFORTATA
Dal feroce cinghiale ucciso Adone
disperata piagnea
la bella Citerea,
accorse a consolarla allor Giunone
e le disse per unico conforto:
Marte non è già morto. (CANTONI, 1752)
Il poeta ormai vecchio, infine, ne “L’amor profano e l’amicizia”,
composizione più seriosa nonché nostalgica, concluderà ripensando alle donne
della propria vita, infedeli e immeritevoli, specie se paragonate alla lealtà di
un amico sincero.
Nella raccolta di Leandro Borin,6 “accademico ricovrato” padovano, le
cui favole si evidenziano per l’estrema facilità e naturalezza del dettato, si
trova una deliziosa composizione, “Il mago”, in cui la malizia dell’autore
trova forme di leggiadria e freschezza impensate. La dissacrazione della
componente magica e fantastica dell’immaginario soprattutto epico trova il
suo svolgimento qui in una storia di ambientazione stregonesca in cui proprio
l’uso alleggerito di termini della tradizione finisce col creare una forma di
ironia quanto mai puntuale:
IL MAGO
Irto il crin, lungo il manto, e torvo il viso,
con verga in mano, e pentole all’intorno
tra fumi avvolto ricoprenti il giorno
stavasi un mago in cupa grotta assiso.
Quand’ecco a se venir vede improviso
giovin piangente scalzo e disadorno,
che gli dice; Io ti sturbo, e ti frastorno,
6
Cfr. BORIN, Leandro. Poesie varie. Venezia: Valle, 1791, in cui si trovano sia le Favole
d’invenzione dell’autore, del 1766 (da cui sono tratti gli esempi qui riportati), sia le Favole
cinquanta di autori antichi ridotte in altrettanti sonetti e moralizzate da un accademico
ricovrato, riduzioni di favole classiche già pubblicate a Padova nel 1744. Il conte Borin (per
cui cfr. FILOSA, 1952, p.166) manifestò un gusto particolare per il racconto in versi fatto di
delizioso humour satirico e vivace mobilità inventiva. Nella raccolta di favole originali (tutti
sonetti), accanto a motivi e personaggi appartenenti ad un mondo poetico consolidato quale
quello della favola esopica, trovarono luogo spunti tematici nuovi e figure d’importazione. Il
topos dell’instabilità femminile in amore, ad esempio, venne sviluppato in consonanza con
istanze di provenienza inglese, con riferimento, in particolare, allo Spettatore. L’opera,
caratterizzata da un linguaggio colorito e vivo, a tratti irriverente, con allusioni esplicite e
termini “bassi”, acquista una sua importanza soprattutto in relazione alla sua altezza
cronologica collocandosi prima delle Favole di Giovanni Battista Roberti e di quelle di due
autori del calibro di Lorenzo Pignotti e Aurelio De’ Giorgi Bertola, considerati da sempre primi
in ordine d’importanza nella produzione favolistica nostrana.
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ma tollera un meschin tradito e irriso:
tradito e irriso io son da menzognera
donna infedel: deh amico usa l’incanto,
rendila a’ voti miei fida, e sincera.
Posso, rispose il mago, e me ne vanto,
farla diventar sasso, arbor, pantera,
ma sincera, e fedel... non posso tanto. (BORIN, 1791)
Morale tagliente, dunque, quella proposta dall’autore, che ritrova una
sua ulteriore conferma nella ripresa di una storia e di un titolo più che
celebri:
si
affaccia
anche
la
polemica
contro
le
donne,
infatti,
nell’esasperazione parodica della favola per eccellenza, “Il lupo e l’agnello”,
che si chiude nell’accostamento di tipici “donneschi sorrisetti” ai “soghigni
amabili e cortesi” dell’infido lupo:
IL LUPO E L’AGNELLO
In tempo che già morta, anzi fetente
se ne stava una pecora al suolo,
disse il lupo a un agnel: Guarda figliuolo
com’ella dorme saporitamente.
Badiam, che qualche mosca impertinente
non fermi, soggiungea, sovr’essa il volo;
e noi non diam, ti prego, un passo solo
per non svegliar la povera dormiente.
L’agnel l’udia, né mai formò sospetti,
perché a’ soghigni amabili, e cortesi
sempre quel tristo mescolava i detti.
Ma infin contr’esso i denti ingordi stesi
sel divorò. Donneschi sorrisetti
rado anche voi col cuore andate intesi. (BORIN, 1791)
Ancora l’amore in primo piano, insieme alle lusinghe della seduzione
femminile, ne Il bue da macello in cui al povero animale che si lamenta delle
torture inflittegli dagli uomini l’autore non potrà che replicare: “Bove hai
ragion; ma i vezzi lusinghieri/ di donna amata, e le di lei parole/ sono
all’orecchio uman cani più fieri”.
L’irrazionalità della passione amorosa ritornerà infine ne “Il temerario
fortunato”, storia di un giovane innamorato, che, una volta ravveduto, si
56
TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009
renderà conto del pericolo inutilmente corso per Irene, donna bugiarda e
infedele.
Simili
attacchi
alla
sincerità
delle
donne,
nella
dissacrazione
programmatica del sentimento amoroso, erano presenti del resto nella lirica
coeva
per
composizioni,
nate
sulla
scia
di
una
specifica
corrente
anticlassicista, elaborate attraverso la costruzione “in negativo” del modello
petrarchesco che ricalcando gli stilemi del cantore di Laura, sbeffeggiava
contemporaneamente la tradizione platonica idealizzante e la linea poetica
da quella derivata.
Almeno due gli esempi settecenteschi ad opera di altrettanti (si noti),
pur “occasionali”, autori di favole: l’ “Amor di donna” (con l’elenco dei
requisiti della donna ideale) di Clemente Bondi, e un sonetto anepigrafo, dal
significativo incipit “Aver spesso di pianto umido il ciglio”, di Giuseppe Passeri
(con la serie verbale “sciolta” solo in finale di sonetto).7
AMOR DI DONNA
Donna, che bella sia, ma che non menta
vezzi non suoi dall’artifizio tolti,
che abbia docile ingegno, e cor che senta,
gli atti soavi, e nobilmente colti;
che a scegliere in amor sia giusta e lenta,
sensi serbando all’onestà rivolti,
poi costante e fedel, di un sol contenta,
sdegni il piacer di parer bella a molti;
trova, dissi ad Amor, pietoso Dio
trovami questa donna, ovunque l’hai,
perch’io la cerco, ed amar voglio anch’io.
Rise egli, e disse: Ah se altra amar non sai,
và, rinunzia all’amor: nel regno mio
una tal donna non si vide mai.8 (BONDI, 1817)
Aver spesso di pianto umido il ciglio,
7
Collegate a queste sono senz’altro le composizioni (almeno da Berni in poi) in cui la
descrizione della donna viene compiuta nel rovesciamento dei canoni di bellezza
petrarcheschi, secondo una tradizione programmaticamente anticlassicista, fra il burlesco e il
gusto barocco, che eleggeva ad antimodelli figure femminili dai denti bluastri e i capelli
d’argento, in esplicita opposizione alle descrizioni obbligate delle infinite nipotine di Laura.
8
BONDI, Clemente. Saggio di sentenze, proverbi, epigrammi ed apologhi seri e scherzevoli.
Milano: Stella, 1817.
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non trarre un giorno mai lieto, e sereno,
ognora paventar nuovo periglio,
e scor frattanto alle speranze il freno;
a vento lusinghier senza consiglio
fidar le vele, e dispiegarle appieno;
poi coll’infranto, e lacero naviglio
di sconosciuto mar trovarsi in seno;
dopo tante tempeste, e tanti affanni
qualche lieve mercede al suo dolore
chieder da due spietati occhi tiranni;
e per mercede di un costante ardore
non ottener, che tradimenti, e inganni,
son le vicende di chi siegue Amore. 9 (PASSERI, 1766)
Un altro scrittore di favole dimostratosi particolarmente sensibile
all’argomento misogino è Gian Carlo Passeroni,10 noto per il monumentale
Cicerone, che nella sua vasta opera d’imitazione esopiana presenta tutta una
serie di composizioni su e contro l’universo femminile.
Già ne “Il cervo alla fonte”, l’apologo classico di riferimento è arricchito
mediante un duplice appello rivolto alle donne:
Donne, voi, che di beltate
sì superbe e altere andate,
forse un dì ne piangerete.
Voi che meste e afflitte or siete,
perché avete il viso smorto,
voi vedrete un dì che a torto
vi lagnaste, se un tal viso
vi conduce in paradiso. (PASSERONI, 1779-88.)
9
PASSERI, Giuseppe. Saggio di poesie. Napoli: Vincenzo Flauto, 1766.
PASSERONI, Gian Carlo. Favole esopiane. Milano: Bianchi-Galeazzi-Bertarelli, 1779-88. Nei
sette tomi di favole pubblicati dall’autore tra il 1779 e il 1788 sono raccolte in tutto più di
trecento composizioni: dalle circa novanta del primo tomo alle dieci dell’ultimo, in quantità
decrescente, l’opera affronta il corpus esopico classico trattando in metri diversi motivi
propri della tradizione favolistica più attestata. Tuttavia, verso la fine dell’opera, trovano
spazio poesie più lunghe, fitte di commenti su questioni d’attualità e di interesse generale.
Nonostante ne rilevasse indubitabili lungaggini e prolissità, Bertola nel suo Saggio sopra la
favola ebbe indulgenza verso il Passeroni favolista che lodò per le doti di “ingenuità” e
“lepidezza” evidenziando, per lo stile, il legame con i poeti berneschi: “Il signor abate
Passeroni non si è atterrito del La Fontaine, né certo il dovea con quel suo ingegno tutto
esopiano. Ardirò io accennarne i difetti? Un giudice sommo non sa trovarglieli o glieli perdona
in grazia di tanta eccellenza in altre parti: e chi non vorrebbe socchiuder gli occhi o perdonar
con Parini? […] Il signor Passeroni preferisce di aggirarsi in una sfera più angusta e più bassa in
cui si lusinga d’incontrarsi più facilmente con Esopo; ma forse s’incontra più spesso co’
berneschi”.
10
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Sulla slealtà, “Il cane fedele” che ricorre ironicamente all’autorità di
Traiano Boccalini (“un politico de’ fini”) per facili versi contro il gentil sesso:
Se le donne, per le quali
son sollecito, ai regali
resistesser, come al pane
resistè quel bravo cane,
ci sarebbe in questa etate
molto meno infedeltate.
Né Trajano Boccalini,
ch’è un politico de’ fini,
scritto avria, che al giorno d’oggi
non ritrovasi ne’ poggi,
nelle valli, oppur ne’ piani
fedeltà se non tra’ cani. (PASSERONI, 1779-88.)
Sull’avidità “La padrona e le serve”, favola caratterizzata da un lungo
prologo dal tono misogino che tratteggia, attraverso strofette dedicate alle
varie età della donna, l’intera parabola dal nubilato alla vedovanza, sempre
dominata dall’opportunismo tipicamente femminile:
Il risparmio è soda base
d’ogni stabile edifizio;
e le donne, a mio giudizio,
quelle son, che fan le case:
de’ palagi son le donne
i pilastri e le colonne.
Sono econome perfette;
se talora buttan via,
ciò procede da albagia,
ed in conto non si mette;
ma nel resto è a mia notizia,
ch’esse peccan d’avarizia.
Da ragazze sono avare,
perché dicon quasi tutte,
belle sieno elleno o brutte:
io mi voglio maritare;
e giusto è, che ai beni or pensi,
che si chiamano castrensi.
Quando poi preso ha marito
una donna, fra sé dice:
quella è femmina infelice,
che appagando ogni appetito,
non s’ingegna, e non ha l’arte
di ripor qualcosa a parte.
….
59
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Quando lascia in bruna gonna
il marito una di loro,
non si scema già dell’oro
l’appetito in quella donna,
ma in lei cresce non di raro
l’empia sete del danaro. (PASSERONI, 1779-88)
Ne “Il Noce e la Donna”, sarà addirittura teorizzata l’opportunità di
picchiare le donne attraverso il paragone con il noce che dà più frutti quando
viene percosso (proprio come l’asino “che non fa, tanto è cocciuto,/ ben se
non quando è battuto”):
Non sai tu, le fu risposto,
con distinta e chiara voce,
che la femmina, ed il noce
senza busse usi non sono
a far mai nulla di buono? (PASSERONI, 1779-88)
Ancora una storia simile ne “La donna e lo scolare” che tratta di una
truffa tentata ai danni di un giovane il quale tuttavia non si lascerà ingannare
dalle moine della protagonista:
Ecco dove i piagnistei
delle donne a finir vanno:
ecco donde origin hanno
i sospiri, e i loro omei:
piangon quel che tor non ponno
ai baggei, che ben lor vonno. (PASSERONI, 1779-88)
Allusioni al comportamento provocatorio muliebre ne “Il Pavone ed il
Soldato” in cui l’animale irride un giovane soldato per il suo elmo guernito di
piume di cappone. Dopo aver vanitosamente mostrato la coda all’uomo
(“come spiegasi un ventaglio;/ paragon che viene a taglio”) il pavone finirà
tuttavia per piangere, depredato proprio dal soldato del suo unico tesoro.
Questa la conclusione dell’autore:
Questa accusa ed altrettali
del pavone in ver mi pare,
che dovrieno spaventare
quelle femmine, le quali
pompa fan di quello appunto,
che dovrien… qui si fa punto. (PASSERONI, 1779-88)
60
TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009
Anche la loquacità delle donne sarà presa di mira da diversi favolisti tra
cui Luigi Fiacchi11 (detto il Clasio) che, ne “Il Passeraio”, accennerà, in più,
all’incapacità femminile di tenere i segreti (altro motivo periodicamente
presente nella letteratura tout court):
La donna nella lingua ha certa molla,
che sempre è tesa e mai non si riposa;
onde non mai di cicalar satolla
torni ben, torni mal, dice ogni cosa:
svela gli altrui segreti e svela i suoi
e se si san si maraviglia poi. (FIACCHI, 1807)
In questa storia, alcune passerine verranno catturate dai villani per
mezzo di un “diavolaccio” (strumento per “dar ne’ boschi agli augelletti
impaccio”). La mattina seguente, la discussione fra le superstiti per stabilire
colpe e responsabilità:
E qui strepitan molto in pieno coro
contro i costumi rei, ch’or son frequenti,
onde tanto dolor ne venne a loro,
che son poi sì modeste e sì prudenti:
e pur una non vi è, che a sé l’ascriva,
e dica: il nostro mal da noi deriva. (FIACCHI, 1807)
Tra i favolisti più innovativi del panorama settecentesco si pone
senz’altro Aurelio de’ Giorgi Bertola.12 L’autore, nel trarre molti spunti dalla
11
FIACCHI, Luigi. Favole coll’aggiunta de’ sonetti pastorali. Firenze: Stamperia di Borgo
Ognissanti, 1807. 2 v. Accademico della Crusca, filologo nonché professore di matematica e
filosofia sotto l’arciduca Leopoldo, Luigi Fiacchi (detto il Clasio) è considerato uno dei
maggiori favolisti insieme a Pignotti e Bertola. Lo stile delle sue favole, tuttavia, pubblicate
per la prima volta nel 1795 a Firenze e, in edizione accresciuta, nel 1802 e nel 1807 (con
cento componimenti totali), non fu particolarmente improntato alla satira né rivolto alla
critica dei costumi come quello degli altri poeti. Dalle sue composizioni, infatti, emergono un
amore per la natura e un’attenzione agli animali che sembrano vivere in maniera
indipendente rispetto al gusto per la scrittura di tipo ironico che in generale caratterizzò il
genere esopico durante tutto il corso del Settecento: lo spirito che guida queste Favole risulta
dilettevole, leggero e informato da un’estrema semplicità nel dettato, aderente in tutto agli
intenti pedagogici dell’autore toscano.
12
DE’ GIORGI BERTOLA, Aurelio. Cento favole. Bassano: Remondini, 1785. Bertola, chiamato il
“cigno riminese”, era considerato uno (se non il primo) dei maggiori favolisti del secolo.
Notevoli, nella sua opera, sono gli influssi stranieri, soprattutto tedeschi, che l’autore seppe
far confluire con grazia nei propri testi anche sulla scorta delle teorie enucleate nel noto e
qui già citato Saggio sopra la favola. Su Bertola cfr. Un europeo del Settecento. Aurelio De’
Giorgi Bertola riminese, Atti del convegno, Rimini, 10-12 dicembre 1998, a cura di Andrea
Battistini. Longo: Ravenna, 2000, oltre a Studi su Aurelio Bertola nel II centenario della
nascita. Bologna: STEB, 1954. Sul diffusissimo (e italianissimo) fenomeno dei cicisbei, invece,
cfr. VALMAGGI, Luigi. I cicisbei. Contributo alla storia del costume italiano nel secolo XVIII,
Torino, Chiantore, 1927. Per la concezione della donna nel Settecento cfr. invece GUERCI,
61
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letteratura straniera, appuntò spesso la propria attenzione su questioni di
moda con favole d’ambientazione “moderna” che affrontavano in maniera
pacata, graziosa e brillante anche fenomeni di rilievo sociale quali quello del
cicisbeismo. Un esempio notevole è costituito da “I due cagnolini”, favola “a
dialogo” (di impianto cioè drammatizzante, assai caratteristica di questo
autore) che tratta indirettamente e con finezza delle frequentazioni erotiche
ben tollerate dalla nobiltà coeva:
DORILÌ “Che t’avvenne? Perché piangi?”
LESBINO “Perché piango? Ah Dorilì!
Era in grembo alla padrona,
quando giunse non so chi,
che la mano le imprigiona,
e v’imprime baci e baci:
chi potea quegli atti audaci
in silenzio sopportare?
Ben mi parve d’abbajare.
Ah non mai l’avessi fatto!
L’ossa mie furono a un tratto
scosse tutte e malmenate
da percosse replicate:
e jer l’altro che mordei
il marito, ella mi dette
quattro fresche ciambellette.”
DORILÌ “Passi i giorni fra le gonne,
né conosci ancor le donne?
Can che aspiri alle dolcezze
de’ bocconi più squisiti,
agli amanti fa carezze,
e non morde che i mariti.” (BERTOLA, 1785)
Sempre dall’impianto “teatrale”, con personificazione però di oggetti
inanimati, “La toletta e il libro” che ironizza in maniera assai leggera, tramite
i due emblematici protagonisti, sulla pochezza d’ingegno delle nobildonne con
smanie di lettura, inserendosi nella polemica ormai dominante contro la
“donna erudita”:
TOLETTA: “Chi sei tu che il mio governo
a turbar vieni in mal ora?”
LIBRO: “Un filosofo moderno
che istruisce la signora”.
Luciano. La discussione sulla donna nell’Italia del Settecento. Torino: Tirrenia, 1987; per la
rappresentazione poetica dei rapporti fra i due sessi, cfr. MARI, Michele. Venere celeste e
Venere terrestre: L’amore nella letteratura italiana del Settecento. Modena: Mucchi, 1988.
62
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TOLETTA: “Oh mi di’ cosa le insegni?”
LIBRO: "Ogni effetto e ogni cagione,
a pesar popoli e regni,
a purgar la sua ragione."
TOLETTA: “Strane voci! Ho qui servite
e le suocere e le nonne,
né da lor giammai le ho udite,
e pur eran savie donne”.
LIBRO: “Altri tempi, ed altra usanza,
altri studj, altri costumi;
già fu il secol d’ignoranza;
questo è il secolo de’ lumi”.
TOLETTA: “E il suo spirto è dunque giunto
del sapere all’alta sfera?”
LIBRO: “Sol da un mese...”
TOLETTA: “Ah! un mese è appunto,
ch’è più pazza che non era”. (BERTOLA, 1785)
“Le due cornacchie”, di Bartolomeo Chiappa,13 è un altro esempio di
composizione ammaestrativa lieve e allo stesso tempo fortemente misogina. Il
frequente ricorso alla rima baciata, all’interno di questa poesia che ha per
oggetto la rappresentazione della conflittualità fra donne, sembra conferire la
giusta intonazione al quadretto di vita rappresentato che si concluderà con
un’interrogativa di sapore retorico riferita a più quotidiani (e reali) scontri
domestici (“L’imagin vostra, Nuore e Cognate/ nelle cornacchie non
ravvisate?).14
“Fille e la farfalla”, dello stesso autore, ricalca invece una composizione
di Lorenzo Pignotti,15 “La farfalla ossia il petit-maitre”, pur condensando,
13
CHIAPPA, Bartolomeo. Favole. Padova: Stamperia Penada, 1795. L’autore, padre somasco a
Padova, pubblicò una prima raccolta nel 1795 (contenente trentatré componimenti) cui seguì
un’edizione accresciuta nel 1800, che venne dedicata con somma gratitudine “al chiarissimo
Melchior Cesarotti”.
14
Lo stereotipo misogino presente anche in Baldi: “Un viandante sentendo gracchiare una
cornacchia, si maravigliava come non si stancasse. Ma ripensando poi: Non m’accorgeva
(disse) ch’ella è femmina” (cfr. B. BALDI, 1859, p.405).
15
PIGNOTTI, Lorenzo. Favole e novelle. Bassano: Remondini, 1785 e, in edizione accresciuta,
Milano: Pirotta e Maspero, 1807. Pignotti, medico di fama nonché professore di fisica a
Firenze (e poi a Pisa, dal 1775), era considerato all’epoca il principe dei favolisti (sull’autore
cfr. soprattutto FRITTELLI, Ugo. Lorenzo Pignotti favolista: Contributo alla storia della favola
in Italia. Firenze: Barbera, 1901 e P. Toldo, op. cit., passim) per la ricchezza delle sue
composizioni (che recitava personalmente nei salotti con grande successo), tutte piuttosto
lunghe, complesse e caratterizzate da un lessico e una sintassi articolati, in accordo con il
modello proposto da La Fontaine. Pignotti coltivò con particolare interesse lo studio della
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stemperandole, la polemica contro la moda e la satira contro le donne lì
accentuate.
L’apologo è un testo sull’incostanza femminile, nato sulla scia della
favolistica galante e “libertina” di derivazione francese in cui frequenti erano
le personificazioni di entità morali a indicare la partecipazione ai dissidi del
mondo da parte di tutta una mitologia minore (la farfalla, qui, è figlia di
Incostanza).
Nelle Favole esopiche di Carlo Felici si legge “La Balia ed il Lupo”, favola
già presente in Esopo nonché in Babrio e Aviano (e già ripresa da La Fontaine
con “Le loup, la mère et l’enfant”), resa qui in maniera assai piacevole con il
suo andamento da filastrocca a dare maggiore ritmo alla storia.16
letteratura straniera, soprattutto inglese: prova ne sono i due poemetti scritti in ricordo di
Shakespeare e Pope, La tomba di Shakespeare (del 1779) e L’ombra di Pope (del 1781),
spesso inclusi nelle edizioni dei suoi apologhi. Nel 1808, inoltre, l’autore pubblicò La treccia
rubata, libera traduzione in sestine del The rape of the Lock di Pope, in cui il poeta
introdusse in ogni canto “qualche mitologica leggenda o qualche favola, o qualche apologo,
volgendolo poi a senso politico o morale” (cfr. LENTA, Giovanni. Pope in Italia e il Ricciolo
rapito. Firenze: Le Monnier, 1931, p.54). Diverse suggestioni derivate dalla letteratura
d’oltralpe influenzarono anche lo stile delle ottanta composizioni “anacreontiche” che
costituiscono il nucleo principale delle Favole e novelle, chiuse da venticinque storie
“esopiane”. Unico autore a vantare traduzioni in francese, in inglese e addirittura in latino
dei suoi apologhi, venne apprezzato anche da Leopardi che, proprio trattando del suo stile,
espresse un giudizio sulla produzione favolistica settecentesca: “Nelle favole del Pignotti e
forse in altre ancora, per la più parte è svanito il fine delle favola, ch’è d’istruire i fanciulli.
[…] Quelle favole dalla loro prima istituzione esopiana si son ridotte a satirette non inurbane
o a meri giochi d’ingegno, cioè similitudini e novellette piacevoli e alquanto istruttive per gli
uomini maturi” (cfr. LEOPARDI, Giacomo. Zibaldone di pensieri. Edizione critica a cura di G.
Pacella. Milano: Garzanti, 1991. v.1, p.179).
Giovanni Battista Roberti, già autore del poemetto satirico-didascalico La Moda (Venezia:
Fenzo, 1746), pubblicò un libro di Favole esopiane con un discorso e con tre lettere poetiche
(Venezia: Vitto, 1776) poi divenuto Favole esopiane (Bassano: Remondini, 1782). Al tempo
della prima uscita, con un numero ridotto di testi, suscitò polemiche il Discorso accluso alle
composizioni: qui erano ripercorse le discussioni straniere sul genere ed era affrontata la
questione della verosimiglianza nelle favole; le teorie esposte, tuttavia, apparivano in
contrasto con il risultato degli apologhi in cui la rappresentazione artefatta della natura, dava
spunto a critiche e osservazioni. Al 1775 (appena un anno dopo la pubblicazione delle Favole),
risalgono i Quattro discorsi d’un pappagallo e d’una gazza di Francesco Cassoli, attacco
parodico nei confronti di Roberti e soprattutto del suo programmatico Discorso (cfr. CASSOLI,
Francesco. I quattro discorsi d’un pappagallo e d’una gazza. Parma: Fratelli Borsi, 1775, ora
in Ragionamento sulle traduzioni poetiche e Discorsi d’un pappagallo e d’una gazza. Torino,
Edizioni RES, 1991. p.85-162). Nonostante le critiche mosse da più parti, tuttavia, nonché
precedute da quelle dell’autore stesso, nelle centodue favole di Roberti si ritrovano diversi
pregi a partire dall’impostazione delle morali: ben scritte, concise e massimamente
convincenti.
16
FELICI, Carlo. Favole esopiche. Roma: Salomoni, 1790. Tutti apologhi classici scrisse, o
reinterpretò, l’abate laziale che battezzò la sezione d’apertura del libro con la dicitura
significativa di All’ombra d’Esopo. Una tinta di umile sentire cattolico, del resto, informa
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Il malizioso commento finale a proposito della falsità delle donne si
inserisce in questo caso con insolita precisione:
Non creder ciò che femina
ti sussurra all’orecchia:
prometter, non attendere
è loro usanza vecchia. (FELICI, 1790)
Nella raccolta di Felici, gli attacchi rivolti alle donne passano attraverso
il filtro delle favole greco-latine che di esempi a riguardo non erano certo
prive. Anche “I Caproni e Giove” riprende, innovandola, una favola di
tradizione che si conclude, in un discorso fra maschi, con il consiglio agli
animali da parte di Giove:
Lasciate che v’uguaglino
nel mento e nella scorza
purché non vi somiglino
nel capo e nella forza. (FELICI, 1790)
La traccia misogina è importante anche in una raccolta come quella di
Giovanni De Coureil, autore di origini francesi ma toscano di adozione che
risentì fortemente di suggestioni straniere: “Selima”, da Thomas Gray, è una
favola in ottave che riprende e quasi traduce “On the death of a Favourite
Cat, drowed in a tub of Gold Fishes” con la storia della gattina vanitosa tanto
da ritenersi più bella di Giunone e Citera.
Il testo di De Coureil, oltre a compiere un’“italianizzazione” stilistica
della fonte mediante l’uso di una mitologia più vicina alla letteratura
nostrana, sottolinea maggiormente il motivo dell’avidità femminile:
tutta la raccolta di Felici, dedicata all’ammaestramento della gioventù e ispirata a principi
pedagogici legati all’attività didattica dell’autore, professore di belle lettere nel seminario
vescovile di Frascati. Si tratta insomma di una raccolta che si offre con la massima onestà
nella sua formula piana di imitazione a scopo morale, nutrita in più di quello che è stato
definito un “tono familiarmente dimesso” (Filosa). Esopo in persona comparirà a circa metà
libro come protagonista di una favola a correzione di una gioventù superficiale; nella favola
intitolata “Fedro”, invece, Felici si paragonerà all’autore latino riconoscendo con umiltà i
propri debiti nei confronti delle fonti utilizzate: “O buona l’opera,/ o inetta sia/ d’altri è
l’istoria la rima è mia”.
“De nutrice et infante” apre il libro di favole di Babrio nonché quello di Aviano che già nel
“Prologo” aveva accennato alla falsità delle donne. Per Aviano e la sua fortuna cfr. (per la
collana di “Favolisti latini medievali e umanistici”) Il Novus Avianus di Venezia. A cura di
Caterina Mordeglia. Genova: Dip. di Archeologia, Filologia Classica e Loro Tradizioni, 2004, in
cui è detto che il motivo misogino in questione era stato sfruttato ampiamente nel Medioevo
collezionando parecchie versioni (v. p.60).
65
TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009
Era femmina alfine, ora pensate
se un pesce d’oro le faceva gola!
Né a biasimarla, amici, v’affrettate
che, a ben pensarvi, ella non è la sola;
in faccia all’oro restano incantate
le donne tutte e ogni virtù s’invola;
ed è tal la possanza de’ quattrini,
che cangia le Lucrezie in Taidi e Frini. (DE COUREIL, 1787)
“La Fringuella, il Canario, il Rosignolo e il Barbagianni” torna e insiste
sul tema: sulle donne che amano sopra ogni cosa la ricchezza, cioè,
frequentissimo anche nella raccolta di favole di John Gay da cui De Coureil
riprese non poche suggestioni:17
La favola v’insegna, o giovinetti,
che vaglion poco i pianti ed i sospiri,
a intenerire i femminili petti;
fole gli affanni son, fole i sospiri!
Spera invano di corre il dolce frutto,
chi il borsellino ha rifinito e asciutto.
Volete dal bel sesso amore e fede?
Profondete i regali a larga mano,
che in cor di donna ogni altro affetto cede
della ricchezza al desiderio insano.
Oro, vuol’esser oro! e poi son tutte
d’un istessa natura o belle o brutte. (DE COUREIL, 1787)
Sulla leggerezza femminile intervenne lo stesso Pignotti con diverse
favole su fanciulle che ad Amore preferiscono Vanità dedicandosi interamente
alla cura della propria bellezza. Una spia di tale comportamento anche ne “La
scimia e il gatto” che, attraverso l’immagine dello specchio, sfiora questioni
donnesche:
Di vaghi fiocchi e fregj aurei lucente
terso cristallo in stanza ampia brillava
dalla parete serica pendente,
che con dolce magia tutte arrestava
17
Cfr. DE COUREIL, Giovanni Salvatore. Favole, novelle ed altre poesie. Pisa: Pieraccini,
1787. Sull’autore, cfr. PARRA, Anton Ranieri. Un francese italianato traduttore dall’inglese:
G. S. De Coureil. Livorno: Bastogi, 1975 e, sulla sua attività favolistica, il mio “Un favolista
cosmopolita del Settecento: Giovanni Salvatore De Coureil”. In: Atti e Memorie
dell’Accademia di Scienze e Lettere “La Colombaria”, v.LXVIII, anno 2003, Firenze, Leo S.
Olschki, p.227-257.
Per i testi originali delle favole di Gay cfr. GAY, John. Poetry and prose. Edited by Vinton A.
Dearing. Oxford: Clarendon Press, 1974.
66
TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009
fise le donne almen per qualche istante
che passavano a caso ad esso avante. (PIGNOTTI, 1785)
In composizioni simili, tuttavia, anche gli uomini erano colti volentieri
nelle loro debolezze. Al di là dei cicisbei, particolarmente dediti alla cura del
corpo, apologhi più classici trattarono di vanità maschile come ad esempio “Il
giovane vano” del già citato Borin o “Lo specchio magico” di Luigi Grillo, un
autore che, ne “Le donne e ‘l secreto”, si espresse, di nuovo, sull’incapacità
delle donne (ma anche degli uomini) di mantenere i segreti: 18
Deve l’Etna esser pesante
sulle spalle del gigante;
ma un secreto l’è non meno
della donna sopra il seno:
e s’è ver che tanto pesa,
io la scuso, se ‘l palesa.
Ma fra quei del nostro sesso
quanti son che fan l’istesso;
e se questi avesser gonne,
si diria che sono donne. (GRILLO, 1789)
Anche su mogli e vedove, infine, favole che seguono la tradizione: “La
moglie vana e lo specchio”, ancora di Grillo, ripropone il motivo dell’infedeltà
femminile attraverso la rivelazione dei sogni di una giovane sposa.
Su donne che hanno perso il marito, Cantoni, oltre a “Le disperazioni
della vedova”, classica rappresentazione delle facili consolazioni di una donna
orbata del consorte, offre “La vedova saggia”, ironico resoconto (svolto nella
forma del sonetto cosiddetto “minore”) di un dialogo fra sorelle, con
appropriati quanto ammiccanti paragoni animali:
D’una vedova, che sola
si viveva da romita,
18
Cfr. GRILLO, Luigi. Favole esopiane in versi. Parigi: Molini, 1789. La raccolta riunisce
composizioni tratte per lo più da autori classici: pochi, infatti, i testi originali tra le centosei
favole del libro, apologhi semplici, in cui il metro, grazie al frequente impiego di versi
sdruccioli, conferisce ritmo al racconto. Lo stesso autore, nella Prefazione, ricondusse il suo
rifarsi ad un “metro anacreontico” allo scopo di “render vibrata” la favola coltivando, nel
richiamo implicito ad Orazio, la speranza di aver agito secondo i codici propri del genere:
“Felice me, se al morale, che giova, seppi accoppiare il dolce, il semplice, il naturale e
l’elegante, pregj che concorrono a rendere perfetti sì fatti componimenti”.
Libretto esemplare per ciò che concerne l’imitazione di Esopo in senso stretto, specialmente
nella forma, l’opera si segnala per il tono discorsivo impresso alle storie e, nonostante la
definizione del titolo, per l’adozione di modelli di provenienza francese (da cui il frequente
inserimento di prologhi a fare da introduzione ai racconti).
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TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009
senza aver chi la consola,
la sorella si marita;
e le canta questa fola:
Deh la tortora tu immita,
cui se morte il maschio invola,
mena sempre casta vita.
Ma la vedova co’ doni
di natura esperta, e bella
dice a lei le sue ragioni:
E perché, cara sorella,
da immitar non mi proponi
o colomba o passerella? (CANTONI, 1752)
Questo tipo di composizioni, in ogni caso, si poneva nel filone di quelle
favole che avevano avuto ne “La jeune Veuve” di La Fontaine il loro primo
modello: quasi tutti i favolisti si cimentarono con questo soggetto (derivato in
realtà da Abstemius) fino a Luigi De’ Rilli Orsini19 che con “La sposa e la
morte” rielaborò felicemente il motivo dell’istinto di conservazione, attivo e
ben vivo a dispetto di qualsiasi legame amoroso:
Pel moribondo sposo suo diletto
volea perire una fedel consorte,
ma impallidì, quando in feroce aspetto,
vidde appressar l’inesorabil morte.
Per lui giungesti, e non per me, nel letto
miralo steso; ella esclamò ben forte;
così l’uom trema al prossimo periglio
cui lontano fissò sprezzante il ciglio. (DE’ RILLI ORSINI, 1790)
Ancora sul motivo dell’allegra vedovanza, infine, che va a ulteriore
conferma della leggerezza e incostanza delle donne, si pronunciò Domenico
19
Cfr. DE’ RILLI ORSINI, Luigi. Favole. Roma: Puccinelli, 1790. Sulla linea dei precetti di
Orazio (“Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci,/ lectorem delectando, periterque
monendo”), si pongono, per esplicita affermazione dell’autore, le cinquanta favole che
costituiscono il nucleo principale del libro, completato da una sezione di dodici traduzioni da
La Fontaine. La raccolta contiene molti testi scritti nei metri della tradizione (sonetti, ottave,
capitoli, sestine) fra cui si segnala però un’alta percentuale di sonetti caudati caratterizzati
dall’uso reiterato di finali tronche. Sulle poesie, infine, si ricordino le parole di lode da parte
di Francesco Gianni, il celebre poeta-improvvisatore nonché amico del conte romano De’ Rilli
Orsini, poste alla fine del libro: “Un facile non basso, un laconico non oscuro, un semplice non
imitabile”.
68
TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009
Somigli,20
favolista
d’occasione
ma
noto
soprattutto
come
poeta
all’improvviso, in termini tuttavia assai più “familiari”:
Signore vedovelle spiritose,
ditemi un po’ cosa vi dice il cuore?
Eh via non arrossite, io so che spose
bramate farvi dopo due mezz’ore;
deh non fate bocchino al parlar mio,
perché i miei polli li conosco anch’io. (SOMIGLI, 1782)
Importante, dunque, anche se inserita nel solco di un tracciato già dato,
è la pista misogina interna alla favolistica post-lafonteniana, densa di espliciti
attacchi alle donne, espressi nelle forme più varie: dalla composizione
trasfigurata e trasfigurante con richiami alla mitologia e al mondo classico, al
testo popolaresco e “basso”, dal sonetto di tradizione, al dialogo di sapore
teatrale e gusto anacreontico, sempre in accordo, in ogni caso, con la
sperimentazione (anche metrica) tipica del periodo e con la ripresa
intenzionale del modo esopico a fini di satira e di correzione nei confronti dei
costumi contemporanei.
I modelli medievali, avendo così attraversato i secoli, contaminandosi e
arricchendosi con il mutare della moda e delle mode, una volta incontratisi
con il gusto moderno pur mantenendo lo spirito che li caratterizzava, hanno
conservato una loro vitalità anche nel secolo dei Lumi dando nuova linfa alla
produzione di favole coeva.
Tutti contro le donne, insomma, nel Settecento, nel tentativo, vano, di
screditare chi in realtà aveva fornito da sempre e continuava a fornire
materia non indifferente di invenzione poetica.
20
Cfr. SOMIGLI, Domenico. Rime. Firenze: Allegrini, 1782. La raccolta, in due volumi,
dell’attore fiorentino Domenico Somigli, oltre ad alcune “Rime eroiche, morali e religiose”,
comprende una sezione di “Componimenti berneschi” in “stile faceto”, per lo più sonetti,
iscritti nel filone della poesia giocosa di tradizione. Qui stanno le favole che si segnalano per
l’accentuata vena satirica che le caratterizza mettendole in relazione con diversi esperimenti
favolistici coevi.
69
TriceVersa, Assis, v.3, n.1, maio-out.2009
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