CONGRESSO INTERNAZIONALE
TEOLOGICO PASTORALE
FIERACITY MILANO
30 MAGGIO – 1 GIUGNO 2012
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INDICE
Lectio introduttiva del card. Bagnasco
p. 5
S.Em. Card. G.Ravasi
p. 7
Dott. Luigino Bruni
p. 16
S. Em. Card. Dionigi Tettamanzi
p. 34
Prof. Morandè Court
p. 45
Prof. Blanca Castilla
p. 54
S. Em. Card. Sean O’Malley
p. 64
S. Em. Card. Ennio Antonelli
p. 73
Risposte del Papa Benedetto XVI il 2 giugno
p. 82
Omelia del Papa Benedetto XVI il 3 giugno
p. 85
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La Lectio divina dell'Arcivescovo di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
Il cardinale Angelo Bagnasco ha avviato la seconda giornata del Congresso
internazionale teologico pastorale con la Lectio divina. Di seguito il testo
dell'intervento.
Carissimi Fratelli e Sorelle
1.
È motivo di gioia partecipare all’Incontro Mondiale delle Famiglie: ed è
una grazia poter insieme professare l’unica fede, lodare e pregare il Signore
Gesù, incontrare il Santo Padre Benedetto XVI che ci confermerà con la sua
presenza e la sua parola.
Giunte da tutte le parti della Terra, le famiglie saranno in questi giorni una profezia per il mondo.
Diranno con la forza della testimonianza la gioia della vocazione al matrimonio e alla famiglia,
diranno sui tetti che la famiglia è il motore della vita, che è cuore pulsante e patrimonio
dell’umanità. Sì, è patrimonio ineguagliabile, l’unico che ci consente di proiettarci nel futuro in
quanto permette di tenere insieme le differenze dell’umano, quelle relative ai sessi e quelle relative
all’età: è il grembo insostituibile in cui spunta la vita, si afferma l’identità e la maturità delle
persone, la loro progressiva apertura alla vita sociale; è la prima scuola di fede.
Per questo, se la società distrae l’attenzione dalla famiglia, va anche contro se stessa perché
indebolisce la coesione, la serenità e il suo futuro. Ma non si tratta solamente di sostenere l’istituto
famigliare, urge anche ricuperare la “cultura della famiglia”, vale a dire un modo di pensare
comune, dove la bellezza e la dignità della famiglia naturale siano percepiti come il nucleo
generatore dell’umano e del vivere insieme. Per questo è unica e ineguagliabile.
E’ necessaria una cultura che guardi con particolare stima alla famiglia fondata sul matrimonio;
che la sostenga in ogni modo riconoscendola come la propria matrice più profonda e vitale. Essa
ha le sue radici nel cuore stesso di Dio Uno e Trino.
Gesù ha rivelato al mondo che Dio è uno e unico, ma non è solitudine: è comunione, AmorePadre, Amore-Figlio, Amore-Spirito Santo. L’uomo porta in sé questa impronta, il segno della sua
Origine. Per questo è relazione e comunione, e la famiglia è la prima, fondamentale forma di vita
sociale.
2.
Il brano evangelico, appena ascoltato, getta una luce sulla “sequela Christi”. Molti sono i
doveri che la vita della famiglia comporta e ai quali deve rispondere: il pane quotidiano,
l'educazione dei figli, il lavoro, gioie e prove. E' richiesto impegno e fatica, e si registrano successi e
delusioni. La fede non ci esime dalle responsabilità e dai pesi dell’esistenza, ma ci richiama ad
alcune verità.
Innanzitutto, Gesù ci ricorda che non siamo mai soli: Egli ci parla del Padre. Il Signore non
intende provvedere agli uomini come fa con gli uccelli del cielo e con i gigli del campo, ma
assicura ad ogni uomo di stargli a fianco, di camminare con lui, di sostenerlo con il suo amore. E
questo cambia l’orizzonte delle cose.
In secondo luogo, siamo sollecitati ad impegnarci con serietà ma senza dimenticare che
esistono dei limiti che nessuna fatica può superare, obiettivi che sono fuori della portata umana.
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Perdere il senso del limite ha portato il mondo su strade sbagliate e dannose: il progresso, la
libertà, la competizione, il consumo…senza misura, prima o dopo si ritorcono contro l’uomo. In
quel “non si può allungare la vita” , di cui parla il Vangelo, è riassunta la saggezza e l’intelligenza
delle cose.
Ma il testo riporta anche una parola che sembra una sentenza: “A ciascun giorno la sua
pena”. Non viene raccomandato il vivere alla giornata come stile di vita senza una opportuna
previdenza, senza programmare le cose per quanto possibile. Si tratta piuttosto di non affidare la
nostra vita alla programmazione anziché a Dio. Se è giusto e doveroso cercare di prevedere e di
provvedere, è altrettanto necessaria la fiducia nel Signore. Non tutto può essere catalogato nei
nostri schemi e nei nostri tempi: dobbiamo essere pronti al domani, ma sapendo che esso è nelle
mani del Padre.
Infine, Gesù invita a cercare “anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia”. Se molti sono i beni
a cui dobbiamo pensare, non tutti hanno il medesimo valore: e il Signore ci chiede di avere
sguardo e cuore anzitutto per Lui. Egli ci ama ed è con noi, il suo amore vuole raggiungere ogni
uomo, dilatarsi su tutta la terra. Quando l’anima è raccolta in Lui - il Regno di Dio - allora può
affrontare ogni responsabilità terrena: la luce e la forza di Dio, la speranza affidabile che è Cristo,
saranno con lei. E allora tutto diventa possibile e si riempie di eterno.
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LA FAMIGLIA TRA OPERA DELLA CREAZIONE
E FESTA DELLA SALVEZZA
Card. Gianfranco RAVASI
Non può restare nascosta una casa collocata sul crinale di un monte:
parafrasando una celebre immagine del Discorso della Montagna (Mt 5,14),
poniamo al centro della nostra riflessione un simbolo radicale nella stessa storia
dell’umanità, la casa, un segno che s’affaccia bel 2092 volte col vocabolo ebraico
bajit/bêt nell’Antico Testamento e 209 volte nel Nuovo Testamento sotto le
parole analoghe oíkos e oikía, accompagnate da uno sciame di circa quaranta
termini derivati. Dal crinale, dove svetta la casa simbolica che vogliamo
delineare, si diramano due versanti che costituiscono il titolo stesso del nostro
tema: da un lato, ecco l’alfa della creazione, che si distende lungo la traiettoria
della storia; dall’altro lato, ascende il versante arduo dell’omega, ossia della festa piena della
salvezza, l’escatologia, la meta attesa ove il “non ancora” della storia si trasformerà nell’“ora”
perfetta della redenzione compiuta e la Gerusalemme terrena si muterà nella nuova Gerusalemme
celeste.
Le fondamenta della “casa”-famiglia
Toda casa es un candelabro / donde arden con aislada llama las vidas. Forse questo verso era
sbocciato nella mente del giovane Jorge Luis Borges, il famoso scrittore argentino, mentre
ventiquattrenne passeggiava per una “strada ignota” della sua città, dato che la raccolta poetica
s’intitola appunto Fervore a Buenos Aires (1923). Ed effettivamente le mura dei palazzi celano al loro
interno tante fiamme “appartate” (aislada), cioè vite isolate nelle loro solitudini o nei loro drammi,
famiglie unite nell’amore o scavate dalle divisioni, benestanti o curve sotto l’incubo della povertà o
dell’assenza di lavoro. La “casa”, infatti, in molte lingue non è soltanto l’edificio di mattoni, di
pietra e di cemento o la capanna o la tenda in cui si dimora (e la mancanza di una casa è un
elemento drammatico di dispersione esistenziale), ma è anche chi vi abita, è il “casato” fatto di
persone vive e di generazioni. Anzi, talora la “casa” per eccellenza è persino il tempio, residenza
terrestre di Dio.
Suggestivo, al riguardo, è il rimando di allusioni che regge l’oracolo del profeta Natan: al re
Davide che vuole erigere una “casa” (bajit) al Signore, ossia un tempio in Gerusalemme, Dio
replica affermando che sarà lui stesso a edificare per il re una “casa” (bajit), una discendenza
familiare, quindi un “casato” che aprirà una storia destinata ad approdare al Messia (2Sam 7). La
“casa” simbolica che stiamo per costruire partecipa di questa visione: è lo spazio che custodisce
«l’intima comunione di vita e di amore…, la prima e vitale cellula della società», come il Concilio
Vaticano II definisce la famiglia (GS 48; AA 11). È il segno dell’esistenza umana che si compie nella
libera relazione interpersonale d’amore, come suggeriva lo scrittore inglese Gilbert K. Chesterton
nel suo scritto Fancies versus Fads (1923): «La famiglia è il test della libertà umana perché è l’unica
cosa che l’uomo libero fa da sé e per sé».
Già Aristotele, nella sua Politica, considerava la famiglia come la struttura istituita dalla
natura stessa per provvedere all’esistenza piena della persona. È spesso ripresa la nota che il
famoso antropologo Claude Lévi-Strauss ha posto nel cuore del suo saggio sulla famiglia nella
raccolta Razza e storia e altri studi di antropologia (1952): «La famiglia come unione più o meno
durevole, socialmente approvata, di un uomo, una donna e i loro figli… è un fenomeno universale,
reperibile in ogni e qualunque tipo di società». Questa convinzione è sperimentalmente confermata
anche nella società contemporanea, nonostante le apparenze contrarie, come si evince dalla quarta
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indagine degli “European Values Studies” (2009). Da essa risulta che l’84% dei cittadini europei (e
il 91% degli italiani) considera fondamentale la famiglia e inaspettatamente 46 paesi su 47 la
collocano al primo posto tra le realtà sociali più importanti, prima ancora del lavoro, delle relazioni
amicali, della religione e della politica.
La “casa” è, perciò, un emblema vivo e vivente che attinge all’antropologia autentica, non
solo religiosa, la quale vede nella creatura umana non una monade chiusa in sé stessa, ma una
cellula in relazione con un corpo più vasto, un orizzonte aperto che accoglie e si espande. In
pratica, come vedremo, l’umanità si rivela “duale”, dotata di una necessità strutturale di dialogo
con l’altro. Ha, quindi, un suo fondo di verità l’enfatica intemerata che lo scrittore francese André
Gide scagliava nella sua opera Nutrimenti terrestri (1897): «Famiglie, vi odio! Focolari chiusi, porte
serrate, geloso possesso della felicità!». Purtroppo, venendo meno alla sua vocazione sociale, la
famiglia adotta spesso – soprattutto nella vicenda contemporanea – come emblema la porta
blindata, così da rinchiudersi in se stessa, perdendo il suo respiro genuino, la sua identità
primigenia, ignorando chi sta fuori di quella cortina di ferro protettiva che si tramuta in prigione.
Andando oltre, dobbiamo ricordare che la “casa”-famiglia è anche, come si diceva,
l’analogia per definire il tempio ove si raduna la famiglia che ha per padre Dio. È per questo che
uno dei vocaboli per indicare il santuario di Sion è appunto bajit e nel Nuovo Testamento entra in
scena la kat’oíkon ekklesía, l’ecclesia domestica, ove lo spazio vitale di una famiglia si può trasformare
in sede dell’eucaristia, della presenza di Cristo assiso alla stessa mensa (1Cor 16,19; Rm 16,5; Col
4,15; Fm 2; cf. LG 11). Indimenticabile è la scena dipinta dall’Apocalisse: «Ecco: sto alla porta e
busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con
me» (3,20).
Iniziamo, allora, a far sorgere la “casa” simbolica e vivente che sta su quella vetta dalla
quale si dipartono i due versanti della felicità della creazione e della festa della salvezza. È
necessario partire dalle fondamenta solide, gettate sulla roccia del monte (cf. Mt 7, 24-25). La base è
ovviamente costituita dalla coppia che è la radice dalla quale si leva il tronco della famiglia. Non è
possibile ora né è necessario definire questo fondamento attraverso una compiuta teologia nuziale.
Ci accontenteremo di rimandare a un testo biblico che è l’incipit stesso delle Scritture e, quindi,
della creazione. Esso è desunto da quella pagina che contiene il progetto che il Creatore ha
accarezzato come suo ideale e che ha proposto alla libertà della creatura umana. Questo disegno
primordiale emerge nel capitolo 2 della Genesi e si affida a una sorta di collana di perle lessicali
ebraiche, che ora cercheremo di far brillare in modo essenziale davanti ai nostri occhi attraverso un
settenario di termini.
La prima parola è ‘ezer, letteralmente un “aiuto” offerto nel momento più critico e, quindi,
diventa risolutivo e indispensabile. Nel nostro caso c’è un incubo che sta attanagliando l’uomo
appena uscito dalle mani di Dio: è la solitudine-isolamento, che spegne quella vitalità ad extra
strutturale per la persona. «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un ‘ezer che gli
corrisponda», esclama infatti il Creatore (Gen 2,18). Come è noto, non è sufficiente all’uomo avere
accanto gli animali, che sono pure una simpatica presenza nell’orizzonte terrestre: «l’uomo non
trovò in essi un aiuto (‘ezer) che gli corrispondesse» (2,20). Come ha cercato di rendere questo
termine un esegeta, Jean-Louis Ska, ciò di cui ha bisogno l’uomo è «un allié qui soit son
homologue». È, dunque, un aiuto vivo e personale, un alleato nel quale egli possa fissare gli occhi
negli occhi, anche in un dialogo silenzioso perché – come suggerisce un testo attribuito al grande
Pascal – nella fede come nell’amore i silenzi sono più eloquenti delle parole; nei due innamorati
che si guardano negli occhi in silenzio l’inesprimibile si fa esplicito, l’ineffabile si rivela.
Ecco, allora, la seconda formula ke-negdô, tradotta di solito con un “simile” o
“corrispondente” aiuto. In realtà, il suo significato di base suona letteralmente così: “come di
fronte”. È appunto quella parità di sguardi a cui si accennava. Finora l’uomo ha guardato verso
l’alto, cioè verso la trascendenza, verso quel Dio che gli ha infuso il respiro vitale, gli ha donato «la
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fiaccola» della coscienza che «scruta le profondità dell’intimo» (Pr 20,27), lo ha insignito della
libertà, collocandolo all’ombra dell’«albero della conoscenza del bene e del male». L’uomo ha poi
guardato in basso, verso quegli animali che rivolgevano a lui il loro muso in attesa di ricevere un
nome (Gen 2,19-20). Ora, invece, cerca un volto davanti a sé, un “tu”, «il primo dei beni, un aiuto
adatto a lui e una colonna d’appoggio», come dice il Siracide (36,26), ma come meglio esclama la
donna del Cantico dei cantici, un essere col quale è possibile comporre una piena reciprocità di
donazione: «Il mio amato è mio e io sono sua… Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16;
6,3: l’originale ebraico è musicalmente rimato e ritmato sul suono –ô– e –î– che denotano i due
pronomi interpersonali, “lui” e “io”, dôdî lî wa’anî lô… ’anî ledodî wedodî lî).
Passiamo, così, al terzo vocabolo che in questo caso è un simbolo: è quella “costola” sulla
quale si sono ricamate tante ironie antifemminili. L’intervento creativo divino avviene all’interno
di un “sonno”, che nella Bibbia è segno di un’esperienza trascendente, è la sede delle rivelazioni e
delle visioni, è l’ambito in cui Dio è protagonista rispetto alla sua creatura. Ebbene, lo svelamento
del valore di quell’azione divina ha luogo al risveglio, quando l’uomo intona quel canto d’amore
primigenio che verrà declinato nella storia in infinite forme e formule differenti: «Questa volta è
osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne» (2,23). Carne e ossa sono le componenti strutturali del
corpo umano che, nell’antropologia biblica, è il segno della persona nella sua pienezza
comunicativa (non abbiamo un corpo ma siamo un corpo). Si spiega, così, il simbolo della “costola”:
essa indica la piena parità strutturale e costitutiva tra uomo e donna. Non per nulla, in sumerico ti
designa sia la “costola” sia la “vita” trasmessa dalla donna. E questo ci conduce spontaneamente al
quarto termine che si intreccia intimamente con la quinta locuzione ed entrambi risuonano in Gen
2,24: «L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno un’unica
carne».
È evidente che l’Adamo (in ebraico con l’articolo ha-’adam), protagonista del passo, è
l’Uomo di tutti i tempi e di tutte le regioni del nostro pianeta: egli con la sua donna dà origine a
una nuova famiglia, definita appunto attraverso i due vocaboli che ora sottolineiamo. Da un lato,
c’è il verbo dabaq, “unirsi”, che letteralmente raffigura una stretta sintonia, un attaccamento fisico e
interiore, tant’è vero che lo si adotta persino per descrivere l’unione mistica con Dio: «Il mio essere
si tiene stretto (dabaq) a te», canta l’orante del Sal 63,9. Per questo san Paolo afferma che «chi si
unisce a una prostituta forma con essa un solo corpo…, ma chi si unisce al Signore forma con lui
un solo spirito» (1Cor 6,16-17). Col verbo dabaq si ha, quindi, l’atto sessuale sia nella sua
dimensione corporea sia nella sua celebrazione d’amore, di donazione totale della coppia. D’altro
lato, ecco appunto la formula finale “un’unica carne “ (basar ’ehad) che definisce visivamente quel
dabaq e che apre il discorso forse alla componente successiva della “casa” che stiamo innalzando:
infatti, per l’esegeta tedesco Gerhard von Rad, l’“unica carne” è anche il figlio che nascerà dai due
e che porterà in sé, unendole, non solo geneticamente, ma anche spiritualmente le due realtà dei
suoi genitori.
Possiamo, allora, concludere il disegno delle fondamenta della “casa”-famiglia con l’ultimo
sguardo a questa coppia e al loro nome che ci presenta le ultime due parole: la donna «la si
chiamerà ’isshah , perché da ’ish [l’uomo] è stata tratta» (2,23). Non c’è bisogno di spiegare come
l’autore sacro abbia voluto ricordarci che queste due persone che costituiscono la coppia sono
uguali nella loro dignità radicale, ma differenti nella loro identità individuale: ’ish è l’uomo nella
sua realtà specifica e ’isshah è lo stesso termine ma al femminile, svelando così come la donna e
l’uomo siano entrambi persone umane, pur nella diversità dei loro generi sessuali. La pienezza
dell’umanità è in questa uguaglianza fatta di reciprocità necessaria, dialogica e complementare. La
persona umana è, quindi, “duale” ed è così che realizza la sua autentica “identità”.
Abbiamo, dunque, inanellato un settenario di vocaboli che reggono la base da cui sorge la
famiglia, ossia la coppia: ‘ezer-aiuto indispensabile, che è ke-negdô, ci sta di fronte alla pari,
simbolicamente raffigurato nella “costola”, cioè nella stessa componente strutturale dell’essere
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umano; l’uno e l’altra si abbracciano (dabaq), divenendo “una carne unica” (basar ’ehad) e recando i
nomi uguali ma non identici di ’ish e di ’isshah. A suggello facciamo risuonare un appello intenso
del Talmud, la grande raccolta della tradizione religiosa giudaica: «State molto attenti a far
piangere una donna perché Dio conta le sue lacrime! La donna è uscita dalla costola dell’uomo,
non dai piedi perché dovesse essere pestata, né dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per
essere uguale, un po’ più in basso del braccio per essere protetta, e dal lato del cuore per essere
amata». Nel cristianesimo, poi, questa unità d’amore riceve un suggello trascendente ulteriore che
l’apostolo Paolo chiama “mistero” (Ef 5,32) e la teologia “sacramento”. In modo illuminante il
teologo martire del nazismo Dietrich Bonhoeffer così commenterà questo trapasso: «Il matrimonio
è più del vostro amore reciproco… Finché siete voi soli ad amarvi, il vostro sguardo si limita nel
riquadro isolato della vostra coppia. Entrando nel matrimonio siete invece un anello della catena
di generazioni che Dio chiama al suo regno».
Le pareti di pietre vive
Quando san Pietro tratteggia «l’edificio spirituale» della comunità ecclesiale, descrive le sue
ideali pareti come costituite da líthoi zóntes, «pietre vive», che s’aggregano attorno alla «pietra
viva» fondamentale che è Cristo (1Pt 2,4-5). Raccogliamo questa simbologia e la applichiamo alla
casa che stiamo innalzando, quella della famiglia. Anche nel Cantico dei cantici, che è per
eccellenza il poema dell’amore, si leva un “muro” al quale è appoggiato l’amato e questa parete è
detta in ebraico kotel (Ct 2,9), che è lo stesso termine con cui oggi si denomina il muro del tempio di
Gerusalemme davanti al quale l’Israele prega il Signore. Ebbene, quali sono le “pietre vive” che
compongono le pareti della famiglia innalzandola verso l’alto, l’oltre, il futuro? Sono i figli. È
curioso notare che, statisticamente parlando, la parola che ricorre più volte nell’Antico Testamento
– al di là delle congiunzioni, gli articoli, le preposizioni e gli avverbi, e dopo il nome divino Jhwh
(6828 volte) – è il vocabolo ben, “figlio”, che risuona per 4929 volte!
Il legame di ben con la casa risulta diretto e intimo se si tiene conto che il verbo “costruire,
edificare” in ebraico è banah, e la rappresentazione più incisiva di questo vincolo stretto è nella
miniatura poetica del Salmo 127: «Se il Signore non costruisce (banah) la casa, invano vi faticano i
costruttori… Ecco eredità del Signore sono i figli (ben), è un suo premio il frutto del grembo. Come
frecce in mano a un guerriero sono i figli (ben) avuti in giovinezza. Beato l’uomo che ne ha colma la
faretra: non sarà umiliato quando verrà alla porta a trattare coi suoi nemici». Certamente il Salmo
riflette una società di stampo agrario ove le braccia per il lavoro nei campi e negli scontri tribali
erano decisive. La scena finale è tipicamente orientale: il padre, simile a uno sceicco, attorniato
dalla sua folta e vigorosa prole, quasi fosse una guardia del corpo, incute timore quando si
presenta alla porta davanti ai suoi avversari. Già nella Sapienza di Ani, un testo egizio del XIII
secolo a.C., si leggeva: «L’uomo i cui figli sono numerosi è salutato rispettosamente e temuto a
causa dei suoi figli». La pienezza della famiglia è tendenzialmente affidata alla discendenza.
Tuttavia, per approfondire questo tema in chiave teologica, raccogliamo l’invito stesso di
Cristo che spinge, per parlare della famiglia, a risalire ap’ archés, “in principio”, e ritorniamo alla
Genesi, a un passo del primo racconto della creazione posto proprio in apertura alla Bibbia. Là si
legge questa frase: «Dio creò l’uomo a sua immagine, / a immagine di Dio lo creò / maschio e
femmina li creò» (1,27). Lo schema del parallelismo tipico della letteratura semitica rivela che
“immagine di Dio” ha come parallelo esplicativo proprio la coppia “maschio e femmina”. Dio,
allora, è sessuato e accanto a lui si asside una compagna divina, come l’Ishtar-Astarte babilonese?
Ovviamente no, sapendo con quanta nettezza la Bibbia rifiuti come idolatrica questa concezione
diffusa tra gli indigeni Cananei della Terrasanta. Dio resta trascendente, ma è creatore e la
fecondità della coppia umana è “immagine” viva ed efficace dell’atto creativo divino, ne è un
segno visibile; la coppia che genera è la vera “statua” (non quella di pietra o d’oro che il Decalogo
proibisce) che raffigura il Dio creatore e salvatore.
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L’amore fecondo è, perciò, il simbolo della realtà intima di Dio e proprio per questo il
racconto della Genesi, secondo la cosiddetta “Tradizione Sacerdotale”, è tutto scandito sulle
sequenze genealogiche (1,28; 2,4; 9,1.7; 10; 17,2.16; 25,11; 28,3; 35, 9.11; 47,27; 48,3-4): la capacità di
generare della coppia umana è la via sulla quale si snoda la storia della salvezza. Possiamo, anzi,
dire che l’intera Bibbia è per molti versi un’ininterrotta storia di famiglie. È, però, da notare che,
accanto all’“immagine” (selem), si parla anche di “somiglianza” (demût), un modo per sottolineare
la non-identità totale fra divinità e umanità; esiste una distanza, marcata proprio da questo
secondo vocabolo: «Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza» (1,26). Il
mistero di Dio ci trascende, ci precede e ci eccede.
Sta di fatto, però, che la relazione generativa umana diverrà l’analogia illuminante per
scoprire il mistero di Dio: fondamentale al riguardo è la visione trinitaria cristiana che introduce in
Dio un Padre, un Figlio e lo Spirito d’amore. Dio-Trinità è comunione di amore e la famiglia ne è il
riflesso vivente. E come i tre umani, uomo-donna-figlio, sono “una cosa sola”, così Padre-FiglioSpirito sono un unico Dio. Le parole di Giovanni Paolo II, pronunciate il 28 gennaio 1979, durante
il suo viaggio apostolico in Messico, sono illuminanti: «Il nostro Dio nel suo mistero più intimo
non è una solitudine, ma una famiglia, dal momento che ci sono in lui la paternità, la filiazione e
l’essenza della famiglia che è l’amore. Quest’amore, nella famiglia divina, è lo Spirito Santo. Così, il
tema della famiglia non è affatto estraneo all’essenza divina». L’analogia trinitaria, come è noto, ha
poi una declinazione cristologico-ecclesiale da parte di san Paolo riguardo al “mistero” dell’unione
nuziale (Ef 5,21-33).
Infine, dobbiamo ricordare che sulle pareti di pietre vive della casa familiare sono incise
due epigrafi che delineano l’impegno vitale morale dei suoi abitanti. Sono i due comandamenti
capitali della famiglia. Da un lato, ecco il precetto nuziale della fedeltà: «Non commetterai
adulterio» (Es 20,14), ricondotto da Cristo alla pienezza del progetto divino originario dell’amore
totale e indissolubile (Mt 5,27-28; 19,3-9). D’altro lato, ecco il comandamento sociale: «Onora tuo
padre e tua madre» (Es 20,12), dove la figura paterno-materna incarna tutta la complessa rete delle
relazioni sociali, essendo appunto la famiglia la cellula germinale del tessuto comunitario. E
naturalmente queste due ideali epigrafi ricevono il loro commento in tante pagine bibliche e in
tanti insegnamenti del magistero ecclesiale sulla famiglia, a partire dalle celebri “tavole
domestiche” paoline (Ef 5,21-6,9; Col 3,18-4,1).
Le tre stanze della “casa”-famiglia
Una casa è costituita da spazi diversi in cui si consuma l’esistenza dei suoi abitanti. Noi ora
evochiamo tre locali simbolici e lo facciamo in modo molto essenziale, consapevoli in realtà che in
essi si nascondono opere e giorni ora monotoni ora esaltanti. La prima è la stanza del dolore. Aveva
ragione Tolstoj quando, nel suo celebre romanzo Anna Karenina, affermava che «le famiglie felici si
somigliano tutte; le famiglie infelici sono infelici ciascuna a modo suo». La Bibbia stessa ne è
testimone costante, a partire dalla brutale violenza fratricida di Caino su Abele e dalle liti tra i figli
e le spose degli stessi patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, per passare poi alla tragedia che
insanguina la famiglia di Davide col figlio Assalonne aspirante parricida, fino a giungere alle
molteplici difficoltà che costellano quel mirabile racconto familiare che è il libro di Tobia o a
quell’amara confessione di Giobbe abbandonato e isolato: «I miei fratelli si sono allontanati da me,
persino i miei familiari mi sono diventati estranei… Il mio alito fa schifo a mia moglie, faccio
ribrezzo ai figli del mio grembo» (19, 13.17). Lo stesso Gesù nasce all’interno di una famiglia di
profughi, entra nella casa di Pietro ove la suocera è malata, si lascia coinvolgere dal dramma della
morte nella casa di Giairo o in quella di Lazzaro, ascolta il grido disperato della vedova di Nain o
del padre dell’epilettico di un villaggio ai piedi del monte della Trasfigurazione.
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Nelle loro case incontra pubblicani come Matteo-Levi e Zaccheo, o peccatrici come la donna
che s’introduce nella casa di Simone il lebbroso; conosce le ansie e le tensioni delle famiglie
travasandole nelle sue parabole: dai figli che lasciano le case per tentare l’avventura (Lc 15,11-32)
fino ai figli difficili dai comportamenti inspiegabili (Mt 21,28-31) o a quelli vittima di violenza (Mc
12,1-9). E si interessa anche di nozze che corrono il rischio di diventare imbarazzanti per assenza di
vino o di ospiti (Gv 2,1-10; Mt 22,1-10), così come conosce l’incubo per lo smarrimento di una
moneta in una famiglia povera (Lc 15,8-10). Si potrebbe continuare a lungo nel descrivere la vastità
della stanza del dolore, naturalmente giungendo fino ai nostri giorni quando le pareti domestiche
registrano spesso la decostruzione dell’intero edificio familiare in una sorta di terremoto. La lista
delle antiche lacerazioni dei divorzi, ribellioni, infedeltà, aborti e così via si allarga a nuovi
fenomeni socio-culturali come l’individualismo, la privatizzazione, i sorprendenti e non di rado
sconcertanti percorsi bioetici della fecondazione in vitro, dell’utero in affitto, della coppia
omosessuale e delle relative adozioni, delle teorie sul “gender”, della clonazione, della
monogenitorialità, della pornografia e via dicendo.
Una lista di realtà che scuote l’impianto tradizionale della famiglia e che rende la casa un
qualcosa di “liquido”, plasmabile in forme molli e mutevoli che impongono continue riflessioni di
natura culturale, sociale ed etica. Noi ci fermiamo qui, affidando ad altri questa visita ardua allo
spazio delle difficoltà e degli interrogativi, uno spazio dai confini incerti che lo rendono
contenitore di “mondovisioni” diverse, di veri e propri “multiversi” incontenibili. Accanto, però,
troviamo subito un altro locale ove ferve l’opera umana, ma che, purtroppo, non di rado ai nostri
giorni si fa deserto e sembra aprire le sue porte quasi automaticamente alla camera della sofferenza
appena descritta. Parliamo, infatti, della stanza del lavoro. Nel progetto divino della creazione da cui
siamo partiti l’uomo era invitato a “prendere possesso” (kabash) e a “governare” (radah) il creato,
simbolicamente rappresentato come un giardino ricco, fertile e popoloso: «Riempite la terra,
prendetene possesso e governate i pesci del mare, gli uccelli del cielo e ogni essere vivente che
striscia sulla terra» (Gen 1,28).
Anzi, si ribadiva – usando in ebraico i verbi stessi del culto e dell’alleanza con Dio, ‘abad e
shamar, “servire” e “osservare” – che «il Signore Dio prese l’uomo e lo collocò nel giardino di Eden,
perché lo coltivasse (‘abad) e lo custodisse (shamar)» (2,15). Dopo tutto, la stessa rappresentazione
del Creatore è quella di un lavoratore che opera (bara’, “creare”, è il verbo dell’artigiano) per una
settimana lavorativa di sei giorni (1,1), o anche di un pastore (Sal 23) o di un contadino (Sal 65,1014), o di un tessitore o di un vasaio che modella il suo capolavoro tessile o fittile (Gen 2,7; Ger 18,6;
Sal 139, 13-16; Gb 10,8-11). Egli nella sua opera di creazione non è certo simile a un guerriero
distruttore come si aveva, invece, nelle antiche cosmologie del Vicino Oriente. È in questa luce che
il Salmista dipinge un delizioso interno familiare che ha al centro una festosa tavolata ove è assiso
il padre che può nutrire se stesso, la sua sposa, comparata a una vite feconda, e i figli, vigorosi
virgulti d’olivo, attraverso «la fatica delle sue mani» (Sal 128, 2-3). È una felicità che nasce
dall’impegno pesante del lavoro (labor in latino è anche “travaglio”, come nel francese travail, e
deriva dalla radice indoeuropea labh- che designa un “afferrare” per trasformare).
È una serenità che dilaga anche nella società e nelle generazioni future: «Possa tu vedere il
bene di Gerusalemme… Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!» (128, 5-6). Il lavoro, infatti, è un dono
divino, come suggerisce il Salmo precedente, il 127, quello del padre e dei figli a cui abbiamo già
accennato: «Se il Signore non vigila sulla città…, invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a
riposare, voi che mangiate un pane di fatica» (127,2). Ne è consapevole anche la materfamilias il cui
ritratto suggella il libro dei Proverbi, donna sapiente e fedele a Dio il cui lavoro è celebrato in tutti i
particolari quotidiani, così da attirarsi la lode del marito e dei figli (31,10-31). Lo stesso apostolo
Paolo sarà orgoglioso dell’aver vissuto senza esser di peso a nessuno con l’opera delle sue mani,
tanto da imporre la regola ferrea: «Chi non lavora neppure mangi» (2Ts 3,7-12: cf. At 18,3).
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Detto questo, si comprende che la disoccupazione e la precarietà si trasformano in
sofferenza, come si registra nel delicato ed emozionante libretto di Rut e come ricorda Gesù nella
parabola dei lavoratori a giornata, seduti in ozio forzato nella piazza del villaggio (Mt 20,1-16), o
come egli sperimenta nel fatto stesso di essere circondato spesso da miserabili e da affamati, così
come era accaduto al profeta Elia che si era trovato davanti una vedova col figlio sfiniti dalla fame
(1Re 17,7-18). È ciò che la società contemporanea sta vivendo in modo talora tragico e questa
assenza di lavoro si trasforma in un vero e proprio attentato alla solidità della “casa”-famiglia.
Non bisogna neppure dimenticare la degenerazione che il peccato introduce nella società, quando
l’uomo si comporta da tiranno nei confronti della natura, devastandola, sfruttandola
egoisticamente e brutalmente, secondo norme dispotiche, così da rendere il lavoro una cupa
alienazione, segnata dal sudore personale, dalla desertificazione del suolo (Gen 3,17-19) e dagli
squilibri economico-sociali contro i quali si leverà forte e chiara la denuncia costante dei profeti, a
cominciare da Elia (1Re 21) e Amos per giungere fino allo stesso Gesù (ad es. Lc 12,13-21; 16,1-31).
L’arricchimento sfrenato, fonte di ingiustizie, è alla fine un’idolatria, come scriveva il teologo Paul
Beauchamp, nella sua opera La legge di Dio: «O l’uomo adora Dio perché è Dio che lo ha fatto, o
l’uomo adora l’idolo perché è lui stesso ad averlo fatto. Io adoro colui che mi ha fatto o adoro colui
che ho fatto… L’idolatria colpisce il lavoro, come certe malattie colpiscono più alcuni organi che
altri».
La stanza della festa
C’è, però, una terza e ultima camera della nostra “casa” simbolica: è la stanza della festa e
della gioia familiare. Essa, come suggeriva il filosofo Soeren Kierkegaard, deve avere la porta che
«si apre verso l’esterno così che può essere richiusa solo andando fuori da se stessi». E comunicare
con l’esterno può essere complesso e faticoso perché si presentano fenomeni inediti come la
globalizzazione, la civiltà digitale con la sua rete che avvolge il globo, il fermento della scienza che
non teme di inoltrarsi lungo sentieri d’altura come nel caso delle neuroscienze e delle
biotecnologie, l’incontro con volti diversi e il cosiddetto “meticciato” delle culture e via elencando.
Questa molteplicità d’esperienze è, però, feconda e può arricchire la festa della famiglia, qualora
essa sappia custodire nel dialogo la sua identità cristiana in forma non aggressiva e integralistica,
ma sappia anche non stingersi e scolorirsi in un generico e vago sincretismo. Bisogna, quindi,
ricordare che l’ingresso in questa stanza solare avviene non di rado dopo una lunga attesa e
un’intensa preparazione, come affermava in modo suggestivo nel suo Diario lo scrittore francese
Jules Renard: «Se si vuol costruire la casa della felicità, ci si deve ricordare che la stanza più grande
dev’essere la sala d’attesa».
Questo spazio gioioso è collegato e adiacente al locale del lavoro. A questo proposito è
significativo ancora una volta il racconto d’apertura della creazione secondo la Genesi. In quella
pagina emerge un elemento simbolico dialettico che raccorda appunto lavoro e festa. L’uomo è
considerato il vertice della creazione: non è solo una realtà “bella/buona” (tôb) come le altre
creature, ma è “molto bella/buona” (Gen 1,31). Eppure egli è creato il sesto giorno e il sei, nella
simbologia numerica biblica, è indizio di imperfezione, essendo il sette il segno della pienezza.
L’uomo è, quindi, prigioniero del limite temporale, spaziale, fisico e metafisico. Tuttavia, può
evadere dal carcere della sua natura creaturale e della stessa ferialità: lo fa quando celebra il
sabato, il settimo giorno, la festa, la liturgia, la preghiera. Quel giorno, infatti, è il tempo di Dio,
l’orizzonte trascendente in cui egli “riposa” nella pienezza della sua gloria. Per questo, il sabato è
tratteggiato dalla Genesi come un tempio che viene “benedetto” e “consacrato”: «Dio benedisse il
settimo giorno e lo consacrò» (2,3), rendendolo la sede della vita piena e perfetta, il tempio nel
tempo, scandito dall’eternità.
L’uomo e la donna, quando celebrano la liturgia festiva, entrano nel tempio/tempo eterno
divino. Come scriveva il pensatore mistico ebreo Abraham J. Heschel nel suo noto testo sul Sabato
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(1951), «per sei giorni viviamo sotto la tirannia delle cose dello spazio; il sabato ci mette in sintonia
con la santità del tempo. In questo giorno siamo chiamati a partecipare a ciò che è eterno nel
tempo, a volgerci dai risultati della creazione al mistero della creazione, dal mondo della creazione
alla creazione del mondo». In questa linea è significativo registrare nella duplice redazione del
Decalogo la diversa motivazione che giustifica la festa sabbatica. Da un lato, in Dt 5,12-15 si
sottolinea l’uscita dal regime del lavoro feriale, rievocando la liberazione dall’alienazione
dell’oppressiva schiavitù egizia; d’altro lato, in Es 20,8-11 si celebra l’ingresso nel riposo perfetto
ed eterno del settimo giorno “benedetto e consacrato” da Dio dopo i sei giorni della creazione. La
festa è, quindi, liberazione dal limite e partecipazione all’eternità, è comunione con Dio che
strappa la creatura umana dal sesto giorno e la introduce nella festa del settimo ove essa “riposa”
come Dio.
È per questo che la Lettera agli Ebrei dipinge la vita eterna come un sabato senza fine, non
più compresso dalla fuga del tempo né occupato dagli idoli terreni o striato dal peccato umano (3,7
– 4,11). È per questo che l’apocrifo giudaico Vita di Adamo ed Eva afferma che «il settimo giorno è il
segno della risurrezione e del mondo futuro». È per questo che la festa primaria dell’Israele biblico,
la Pasqua, è di sua natura familiare ed è collocata nello spazio della tenda domestica (Es 12): essa è
la celebrazione dell’uscita-esodo dal lavoro oppressivo imposto dal faraone ed è l’avvio
dell’ingresso nella terra promessa che diventa un simbolo della patria celeste, come appare
esplicitamente nella trama sia del Libro della Sapienza sia dell’Apocalisse.
È per questo, come si è già ricordato in apertura, che la celebrazione eucaristica delle origini
cristiane aveva come sede proprio la ecclesia domestica e come contorno il convito familiare (1Cor
11,17-33). Era là che i genitori diventavano i primi araldi della fede per i loro figli. Già nell’antico
Israele la famiglia era il luogo della catechesi: è ciò che brilla nel racconto della celebrazione
pasquale e che sarà esplicitato nella haggadah giudaica, ossia nella “narrazione” dialogica che
accompagna il rito pasquale. Anzi, il Salmo 78 esalta l’annuncio familiare della fede: «Ciò che
abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri
figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie
che egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha posto una legge in Israele, che
ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai loro figli, perché la conosca la generazione futura,
i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro figli, perché ripongano in Dio la
loro fiducia e non dimentichino le opere di Dio, ma custodiscano i suoi comandi» (78, 3-7).
Pertanto, la festa autentica non è né un orizzonte vuoto e inerte, come Tacito bollava il
sabato degli Ebrei, né è un mero week-end, ma è un evento positivo, è segno di una trascendenza
resa disponibile alla creatura, è dono di una comunione con Dio, è la requies aeterna che i cristiani
augurano ai loro defunti e che è già pregustata nella liturgia terrena del “giorno del Signore”, la
“domenica” (Ap 1,10). Possiamo, dunque, affermare con Benedetto XVI che «il lavoro e la festa
sono intimamente collegati con la vita delle famiglie: ne condizionano le scelte, influenzano le
relazioni tra coniugi e tra i genitori e i figli, incidono sul rapporto della famiglia con la società e con
la Chiesa. La Sacra Scrittura (cfr. Gen 1-2) ci dice che la famiglia, il lavoro e il giorno festivo sono
doni e benedizioni di Dio per aiutarci a vivere un’esistenza pienamente umana».
Queste parole del Papa, desunte dalla Lettera per il VII Incontro Mondiale delle Famiglie,
riassumono la nostra visita ideale nella sala della festa che si apre nella casa simbolica che abbiamo
descritto. Ricorrendo al celebre motto benedettino, possiamo dire che il labora dell’impegno feriale
si deve aprire all’ora della liturgia festiva, conservando comunque l’unità dell’Ora et labora
settimanale. La porta della “casa”-famiglia si spalanca, quindi, anche sull’altro versante del monte
ove essa è posta, un versante illuminato dal sole dell’eternità e dell’infinito. Detto in altri termini,
la stanza della festa ha davanti a sé una terrazza che s’affaccia sul cielo e sul futuro escatologico,
quando tutte le tribù di Israele e «una moltitudine immensa e innumerevole di ogni nazione,
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famiglia, popolo e lingua staranno tutte in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolte in
vesti candide, con rami di palma nelle loro mani» (cf. Ap 7,4-9).
Sarà, quindi, la liturgia perfetta, la festa eterna, il futuro definitivo che era prefigurato
proprio dai figli che evocavano nella storia la novità, l’alterità, la continuità temporale, l’attesa, la
progettualità. A quella “immortalità” affidata alle generazioni che si distendono nel tempo succede
ora la vera e piena immortalità, la pasqua che non ha tramonto: «in quel giorno non vi sarà né luce
né freddo né gelo, sarà un unico giorno, solo il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte e
verso sera risplenderà la luce… La città non avrà bisogno della luce del sole né della luce della
luna, la gloria di Dio la illuminerà e la sua lampada sarà l’Agnello» (Zc 14, 6-7; Ap 21,23). Allora si
chiuderà per sempre la “stanza del dolore” perché Dio «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e
non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno perché le cose di prima sono passate» (Ap
21,4).
Mentre contempliamo la “casa”-famiglia che dovremmo erigere nella nostra storia sulla
scia del desiderio che Dio ha espresso nelle Scritture, risuona un’ultima parola: è quella della
speranza, virtù molto realistica, come affermava il poeta francese Charles Péguy che ad essa ha
dedicato un poemetto, Il portico del mistero della seconda virtù (1911): «È sperare la cosa difficile / a
voce bassa e vergognosamente. / E la cosa facile è disperare / ed è la grande tentazione». Certo, è
arduo edificare e tener salda questa casa, come ripeteva il grande Montaigne nei suoi Saggi, perché
«governare una famiglia è poco meno difficile che governare un regno». Eppure, l’amore fiducioso
e generoso può compiere miracoli. Persino un pessimista come il drammaturgo norvegese Henrik
Ibsen, nella sua amara Casa di bambola (1879), non esitava a riconoscere – sia pure al negativo – che
«la vita di famiglia perde ogni libertà e bellezza quando si fonda solo sul principio dell’io ti do e tu
mi dai». Cristo ha introdotto, invece, quest’altro principio: «Non c’è amore più grande di colui che
dà la vita per la persona che ama» (Gv 15,13), varcando così la stessa legge, pur alta, dell’«amare il
prossimo come se stessi».
Immaginiamo, allora, di intuire in finale, in una stanza della nostra casa simbolica, quel
delizioso quadretto che il Salmista ha abbozzato soltanto con 11 vocaboli in un testo composto di
sole 30 parole ebraiche. È il Sal 131 che introduce nella famiglia e nella fede quella virtù che ai
nostri giorni è brutalmente ignorata, la tenerezza. Come accade altrove nella Bibbia (ad es. Es 4,22;
Is 49,15; Sal 27,10), il legame tra il fedele e il suo Signore è modellato sul rapporto genitoriale. Qui è
la dolce e tenera intimità che intercorre tra una madre e il suo bambino. Non si tratta, però, di un
neonato che, dopo essere stato allattato, dorme placido tra le braccia della sua mamma, bensì –
come esplicita il vocabolo ebraico gamûl – è di scena un bimbo “svezzato” che s’attacca
consapevolmente alla madre che lo porta sul dorso, in una relazione di intimità cosciente e non
meramente biologica.
Canta, dunque, il Salmista: «Io ho l’anima mia distesa e tranquilla; come un bimbo
svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è in me l’anima mia» (131,2). In
dissolvenza potremmo far scorrere un’altra scenetta parallela, quella di un padre profeta, Osea, il
quale metteva in bocca a Dio padre questo soliloquio familiare che immaginiamo di intravedere
anch’esso da una delle finestre della nostra “casa” simbolica: «Quando Israele era fanciullo, io l’ho
amato… Gli insegnavo a camminare tenendolo per mano… Lo attiravo con legami di tenerezza,
con vincoli d’amore. Ero come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per
dargli da mangiare» (Os 11,1-4). Con quest’ultimo sguardo che intreccia fede e amore, grazia e
impegno, famiglia umana e Trinità divina, contempliamo per l’ultima volta la casa che la Parola di
Dio affida alle mani dell’uomo, della donna e dei figli perché compongano «una comunione di
persone, segno e immagine della comunione del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. La sua
attività procreatrice ed educativa è il riflesso dell’opera creatrice del Padre. La famiglia è chiamata
a condividere la preghiera e il sacrificio di Cristo. La preghiera quotidiana e la lettura della Parola
di Dio corroborano in essa la carità» (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2205).
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16
LA FAMIGLIA, IL LAVORO E LA FESTA
NEL MONDO CONTEMPORANEO
prof. Luigino Bruni
Università di Milano-Bicocca e Istituto Universitario Sophia-Loppiano.
Quando una persona viene al mondo è un albero di possibilità, di tante possibili vite; tanti
rami, tanti bivi: di questo albero potenziale poi la storia sviluppa solo una direzione, un
ramo principale, con tanti ramoscelli, in base alle scelte fatte, o subite, nella vita. Credo
che in Paradiso arriverà l'albero, non il ramo, e tutte le possibilità inespresse, le vite non
vissute, gli appuntamenti persi.
N.B. Le parti con carattere di colore rosso non saranno lette durante la relazione. Possono
comunque essere tradotti, per il volume degli Atti.
1. Introduzione
Nel 1869, il grande economista e filosofo inglese J. Stuart Mill, scriveva in uno suo libro a
difesa della donna, una frase molto suggestiva: “La formazione morale dell’umanità non avrà
ancora sviluppato tutto il suo potenziale, finché non saremo capaci di vivere nella famiglia con le
stesse regole morali che governano la comunità politica” (1869, pp. 45- 47). Mill era infatti
convinto, e lottò molto per questo, che nel suo tempo esistevano due luoghi ancora feudali,
nonostante i grandi progressi che stava facendo la democrazia: questi luoghi erano l’impresa e la
famiglia, poiché entrambi ancora illiberali e gerarchici (nella famiglia la donna era, diceva, serva
del marito, da cui il titolo del suo libro: “La servitù delle donne”; e nell’impresa capitalistiche gli
operai servi dei padroni), e così auspicava l’avvento del movimento della cooperazione per portare
democrazia e uguaglianza nell’impresa, e il voto e il lavoro per le donne per l’uguaglianza in
famiglia. La democrazia della vita civile era per Mill un faro che doveva orientare anche le
relazioni familiari.
Oggi la situazione, in tante parti del mondo (non in tutte) si è ribaltata: in molti Paesi la
relazione tra uomo e donna all’interno della famiglia è sempre più incentrata sulla uguaglianza e il
mutuo rispetto, mentre il mondo civile, soprattutto quello economico, è ancora troppo
asimmetrico, gerarchico, maschile, non a misura di famiglia né di donna né tantomeno di madre.
La famiglia è sempre stata, ed è, il principale luogo sia del lavoro che della festa. Ogni
civiltà umana ha trovato nelle sue diverse fasi storiche e quindi nei diversi contesti culturali, le
modalità e i linguaggi per declinare i tempi e i momenti del lavoro con i tempi e i momenti della
festa, ma in tutte ritroviamo una comune nota di fondo: i tempi e i momenti della festa e quelli del
lavoro sono stati molto intrecciati tra di loro. Nella festa abbiamo sempre trovato il lavoro (delle
donne, soprattutto), e nel lavoro, nel buon lavoro, la festa. Quindi anche oggi, in una cultura dei
consumi e della finanza che non capendo più il lavoro non riesce a capire e a vivere neanche la
festa, occorre tornare a rileggere la famiglia il lavoro e la festa assieme, senza commettere l’errore di
assegnare a ciascuno di questi tre termini dei luoghi e degli ambiti separati e non comunicanti tra
di loro. Per ricapire, nel mondo contemporaneo, la famiglia il lavoro e la festa occorrono dunque
una cultura e uno sguardo sim-bolici, che mettano assieme e non dividano.
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Due premesse. Se è vero che il discorso sulla famiglia, sul lavoro e sulla festa risente
inevitabilmente di elementi culturali, anche questa mia relazione non potrà sottrarsi a questa
parzialità, di cui sono cosciente, e a partire da questa coscienza e consapevolezza ho scritto, in
dialogo con altri, questo mio testo. La seconda premessa: pur essendo per mestiere un economista,
in questa mia relazione non entrerò in molti temi più specificatamente economici, neanche in
alcuni sui quali ho lavorato personalmente in questi ultimi anni (famiglia e felicità, o famiglia e uso
della televisione, ad esempio), non toccando temi decisivi e fondamentali in sé, dei quali però si
discuterà all’interno dei lavori di questo congresso (si pensi solo al tema cruciale
dell’armonizzazione famiglia-lavoro, o a quello lacerante della disoccupazione, che in questa mia
relazione toccherò solo lateralmente). Il taglio del mio intervento toccherà soprattutto alcuni
aspetti dei rapporti intrecciati famiglia/lavoro/festa che vogliono essere una premessa, di tipo
antropologico e culturale, alle riflessioni, e saranno tante, di taglio economico che ci saranno
donate durante questo congresso.
La famiglia in un mondo socio-economico che cambia
Uno dei movimenti più profondi dell’era della globalizzazione è l’estensione dell’area dei
mercati e dei rapporti commerciali e monetari. Quanto, ad esempio, in tema di cura, educazione e
di assistenza, nelle società tradizionali svolgevano la famiglia e le relazioni comunitarie (con un
forte sbilanciamento sul lato delle donne, e anche per questo quel sistema di cura non poteva e non
doveva reggere), oggi è sempre più offerto dal mercato, che trasforma i rapporti di cura in
contratti, i beni relazionali in beni di mercato.
I Paesi europei del Novecento hanno dato vita all’alleanza nota come “stato sociale”, dove
la cura, l’assistenza, l’educazione e i servizi alla persona sono state ripartiti tra famiglia e stato (con
un significativo ruolo delle chiese). A partire dagli anni settanta, per un forte vento di ideologia
liberista, si iniziò a pensare che questo modello sociale europeo, diverso da quello americano (ma
anche da quello giapponese), fosse ormai entrato nell’età del tramonto, anche, e soprattutto, per
una insostenibilità sul lato dei costi. La crisi che l’Europa vive oggi dice anche che non è possibile
continuare a sostenere con il debito pubblico la cura e il welfare in un mondo con sempre più
anziani e sempre meno bambini: occorre senz’altro cercare qualcosa di nuovo, e presto, come
diremo. In questi decenni abbiamo pensato che i mercati avrebbero potuto ben sostituire sia lo
stato sociale, sia la famiglia-comunità.
Oggi ci stiamo accorgendo che il mercato – soprattutto quando è civile – è una splendida
invenzione, che però funziona bene per cose tutto sommato semplici; ma appena ci inoltriamo
nella relazioni umane più complesse, il mercato da solo non è un sostituito né della comunità, né
dello stato sociale, che incorpora ed esprime un patto, un legame di appartenenza, un sentirsi parte
di un destino comune, che porta a vedere la maestra e l’infermiere come alleati nel difficile
compito di educare le nuove generazioni (e non solo come partners in contratti tra soggetti
mutuamente indifferenti). Il vecchio stato sociale, quindi, rispondeva a quel bisogno di sicurezza,
un bisogno che è noi molto radicale, un bisogno a cui il contratto non risponde bene, perché siamo
consapevoli che vivremo dei momenti della vita (vecchiaia, malattia), dove non saremo in grado di
contrattare, non saremo più “portatori di interessi” (stake-holders) ma “portatori di ferite e
problemi” (problem-holders), e potremmo restar fuori dal gioco degli interessi reciproci su cui si
basa la cultura del contratto.1
1
Un’abnorme estensione dei mercati assicurativi sta cercando di rispondere a questo bisogno di sicurezza e di fiducia,
ma si sta creando una pericolosa “assicurizzazione” della vita che oltre a portare ad un insostenibile aumento di costi
per le famiglie, alimenta quella sfiducia e quell’insicurezza contro le quali ci si vorrebbe assicurare. Oggi in molti Paesi
del mondo maestri, medici, e tra poco giudici non fanno più nulla che vada oltre la lettera del contratto per evitare
denunce civili e penali dalle famiglie in caso di problemi (e le famiglie che a volte fanno leva su questa
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Ecco, allora, che la domanda di nuovo e vecchio welfare è soprattutto domanda di relazioni
che siano più grandi e più ricche della sola relazione del contratto di mercato. Come sa bene chi ha
dovuto cercare una persona cui affidare per contratto la propria madre anziana o un bambino, con
questi contratti di lavoro si vorrebbe comprare un “di più” che nessun contratto può assicurare; si
vorrebbe che quegli atti svolti nei confronti della persona assistita siano non solo formalmente
corretti, ma avessero anche quel qualcosa di veramente umano che nessuna clausola del contratto
di lavoro può imporre. Ma questo “di più”, questomagis (come diceva Sant’Ignazio) è sempre
esperienza di gratuità (solo la gratuità rende l’umano capace di trascendersi), e per la gratuità non
c’è mercato: il tocco umano, l’attenzione non si comprano, possono essere solo donati: si compra la
prestazione, ma la cura è sempre un bene relazionale che ha un grande valore, ma che non ha
prezzo.
Quando si entra con i linguaggi e con gli strumenti puramente mercantili in territori umani
decisivi quali la cura di bambini e degli anziani, la malattia e la sofferenza, il “come” si opera, le
motivazioni che muovono quelle imprese e quelle persone ad operare (il “perché”), sono molto
importanti, e in certi casi l’essenziale. Oggi anche il mercato può e deve essere un alleato prezioso
nel soddisfare i nuovi bisogni relazionali delle fasce più fragili delle nostre città, ma deve essere un
mercato civile, cooperativo, comunitario, dove il contratto non si sostituisce al dono e alla
reciprocità, ma è a loro servizio (lo sussidia, lo aiuta). Il mercato è uno, ma i mercati sono molti.
Il mercato capitalistico o for-profit non funziona, ed è relazionalmente pericoloso, per la
cura delle fragilità e per l’accudimento, perché, in ambiti dove esistono forti asimmetrie
informative, tende inevitabilmente a trasformare queste relazioni in merci: ma le dimensioni più
importanti della cura non si comprano né si vendono, possono sono solo donate e accolte, anche se
si svolgono all’interno di un necessario e legittimo contratto di lavoro. Per rispondere
adeguatamente a questa crescente domanda di cura, occorre allora una nuova alleanza tra
famiglie, politica, società civile e mercato. Occorrono nuove imprese, purché civili e democratiche,
anche per la grande potenzialità che ha questo settore nella creazione di nuovo lavoro; ma servono
anche leggi che ancora non ci sono né si intravvedono; ma occorre anche rivitalizzare le reti di
vicinato, la prossimità, la reciprocità non mercantile dei territori, nei luoghi del vivere dove si
producono gratuitamente quei beni relazionali che sono sempre la prima cura di ogni forma di
indigenza.
La vera sfida del nuovo welfare sarà quella di riuscire ad inventare dei nuovi patti e nuovi
contratti, dove quel “di più” non contrattabile, ci sia o ci possa almeno essere, senza che sia
scacciato via dalla mutua diffidenza che spesso si nasconde dietro contratti molto dettagliati.
Perché nei rapporti umani al di qua del “di più” non c’è semplicemente il “di meno”, ma c’è spesso
il nulla, quel vuoto e l’infelicità che rendono la vita alla lunga insostenibile, per chi è assistito ma
anche per chi assiste. Il mercato è fatto umano, è quindi cultura: anche nell’età della
globalizzazione e dei poteri forti della finanza, le donne e gli uomini posso riempire di senso le
loro relazioni, anche quelle economiche: la persona è eccedente, è più grande di qualsiasi
istituzione e struttura, mercato compreso.
mercantilizzazione della vita per sperare di guadagnare qualcosa dalle assicurazioni). Sono queste le tipiche ‘trappole di
sfiducia e di povertà’ nelle quali rischiamo di sprofondare, se vogliamo rispondere all’aumento delle insicurezze e dei
rischi solo con i contratti e non con i patti, patti che significano relazioni, fiducia, e la fiducia vera è sempre vulnerabile.
La cultura dominante non capisce più il senso della sofferenza e dell’inevitabile dolore associato alla vita con gli altri
(come ben sanno le famiglie), e insegue così il sogno ingenuo di un mondo a vulnerabilità zero, un sogno utopico che
non fa altro che rendere la vita veramente vulnerabile di fronte alle grandi ferite della vita. Se sappiamo accogliere e
fare spazio alle piccole vulnerabilità della vita in comune, saremo (come in un vaccino) capaci di proteggerci dalle
grandi vulnerabilità dell’esistenza; se, invece, rifiutiamo di accogliere le piccole vulnerabilità e ferite, siamo molto
indifesi di fronte alle grandi vulnerabilità; e questo perché la vera assicurazione di fronte alle incertezze delle vita è
l’investimento in relazioni, è il capitale relazionale che accumuliamo costosamente e con sacrifici nell’arco dell’intera
esistenza, ma che poi porta i suoi frutti e i suoi rendimenti, come ogni buon capitale.
19
L’umanesimo cristiano, infatti, ci ricorda con la sua ricca storia che non c’è un’opposizione
naturale tra contratto e dono: durante il Medioevo furono il monachesimo e il francescanesimo
iluoghi dove nacque la nuova economia cittadina, i primi mercati, le prime banche. Fu l’agape la
molla che fece nascere anche le banche. L’Europa ha conosciuto e ha inventato un mercato civile,
che si allea con la comunità e con la fraternità. La nuova alleanza per e della famiglia deve
ricollegarsi a questa grande tradizione, e far del mercato, dei contratti, degli alleati, dei compagni
di viaggio.
La famiglia come soggetto economico “globale”
Un’operazione culturale importante perché la famiglia ritrovi oggi un nuovo e fecondo
rapporto con l’economia e col lavoro, è rivendicare per la famiglia il ruolo di soggetto economico
globale: non solo agenzia di consumo, risparmio e ridistribuzione del reddito, come viene
normalmente vista dalla cultura e dalla teoria economica.
La visione del ruolo economico della famiglia è obsoleta, e con essa anche il sistema fiscale
e retributivo in molti, troppi, Paesi. Una tale visione è quella nata nella società cosiddetta
“fordista”, quando il confine privato e pubblico era ben stagliato: la famiglia offriva “lavoro” alle
imprese (sfera pubblica), la quale forniva reddito alle famiglie con cui consumavano e
risparmiavano. La famiglia, quindi, non produceva nulla di economicamente rilevante in quanto
istituzione famigliare, ma consumava, offriva lavoratori (essenzialmente maschi), e risparmiava
(favorendo, così, anche gli investimenti delle imprese).
La sfera interna della famiglia, tutto ciò che accadeva all’interno delle mura domestiche,
non era di rilevanza economica (né, sostanzialmente, politica). L’interesse economico per la
famiglia si arrestava sull’uscio della porta di casa. Da qui anche tutto il sistema fiscale: si tassava il
consumo (Iva), il reddito o il patrimonio individuale, poiché la famiglia come “comunità” e come
nesso di relazioni non aveva rilevanza economica.
Da qualche decennio, in realtà, questa visione basata su questa separazione tradizionale del
lavoro e di sfere, è entrata in crisi, sebbene la cultura istituzionale, economica e fiscale sia
sostanzialmente rimasta quella del primo dopoguerra. Si continua, infatti, a vedere la famiglia
come agenzia di consumo, risparmio e redistribuzione, come fornitrice di lavoro (ancora troppo
“maschile”). Non si vede invece la famiglia anche come produttrice. In quale senso?
Sul lato del consumo: ci stiamo accorgendo che affinché i beni acquistati sul mercato
diventino benessere e vita buona, non bastano gli acquisti, poiché c’è bisogno di un
ulteriore passaggio che avviene prevalentemente all’interno della famiglia. E’ quanto
messo in luce soprattutto dal Nobel per l’economia Gary Becker, che negli anni settanta
parlava di famiglia come “produttrice” di valore economico. Far diventare pasta e
verdura un pranzo, dei capi di abbigliamento dei “vestiti”, e di quattro mura e mobili una
casa abitabile, richiede lavoro di trasformazione che non è solo “consumo” ma
produzione, che crea valore, anche economico (come è facile constatare se vogliamo farlo).
Da qui il bisogno di un nuovo riconoscimento di questo tipo di lavoro (prevalentemente
femminile), un lavoro che non viene conteggiato dalla contabilità nazionale (PIL) perché
non passa attraverso il “mercato” del lavoro, e forse sarebbe opportuno iniziare a farlo;
La felicità: esistono ormai diversi studi (Bruni e Stanca 2008) che mostrano una forte,
sistematica e significativa correlazione tra vivere rapporti famigliari stabili e felicità
soggettiva (vita buona). Al tempo stesso, esistono studi che mostrano come persone
relativamente più felici rispettano di più le istituzioni e le leggi (Freyet al 2007),
partecipano di più alla vita civile e al volontariato, e hanno anche migliori performance
economiche. (qualche immagine?). Essere sposati ha un effetto netto rilevante e
significativo sulla soddisfazione individuale, così come, specularmente, il divorzio e,
20
-
ancor più, la separazione sono associati a livelli significativamente inferiori di felicità.
Credere nella famiglia è associato a un aumento della soddisfazione individuale maggiore
rispetto agli effetti legati al credere nell’importanza di amici, tempo libero, politica, lavoro
e religione; in particolare, credere nel matrimonio come istituzione e nella figura dei
genitori è associato a un significativo aumento della soddisfazione individuale. Una
maggiore frequenza dei rapporti con genitori e familiari ha un effetto netto positivo sulla
felicità, di entità maggiore rispetto ad altre attività relazionali.2
Sul lato della produzione: infine, da diversi decenni sappiamo che l’economia cresce non
solo quando ha capitali umani, finanziari e fisici, ma anche quando possiede capitale
sociale e beni relazionali. Un paese che non ha fiducia diffusa, rispetto delle regole,
cultura civica, non cresce economicamente. Ma chi “offre” questo tipo di capitale
intangibile ma preziosissimo anche per lo sviluppo economico? Non solo, ma
prevalentemente la famiglia, dove le persone sono educate alla cooperazione, alla fiducia,
al senso civico. Quando in una famiglia si formano persone che hanno queste capacità (e
ciò richiede famiglie con certe caratteristiche di stabilità e di relazioni), questa famiglia sta
contribuendo all’economia offrendo una forma di capitale non meno preziosa di
tecnologia e credito. Oggi la crescita, eccessiva e sbagliata del PIL, ha deteriorato molte
forme di capitali o patrimoni naturali e civili, senza i quali, però, non riparte alcuna
crescita, nemmeno quella economica. Se l’economia vuole uscire da queste crisi c’è
bisogno di custodire, e in certi casi di ricreare, capitali civili ormai troppo logori: e in
questo compito la famiglia ha un ruolo fondamentale, come vedremo tra breve.
Solo riconoscendo questa natura economica globale della famiglia è possibile passare da un
sistema “concessorio”, basato sulla richiesta allo Stato da parte della famiglia di interventi di aiuto
e di assistenza, ad un’alleanza dove alla famiglia si riconosce il ruolo che già di fatto svolge nella
nuova economia: riconoscere, cioè, il valore che queste forme di capitale hanno già per l’economia.
La famiglia non deve chiedere favori allo stato, ma solo il riconoscimento, civile ed anche
economico, di quanto già fa senza riconoscimento. E’ una questione di giustizia, non di più o meno
generose elargizioni.
Per tutte queste ragioni, credo che qualsiasi discorso sulla sussidiarietà economica, sul
regime fiscale della famiglia, debba partire da una nuova “teoria” della famiglia come soggetto
economico post-consumo/risparmio. Se infatti alla famiglia viene riconosciuto lo status di
istituzione economica, allora diventa fondato e naturale riconoscere che le tasse vadano pagate non
sul reddito lordo (ricavi), ma sul reddito al netto dei costi per produrre beni relazionali, capitale
sociale, trasformazione dei beni, ecc. Questi beni vanno in parte a vantaggio della stessa famiglia
(mutuo supporto, vita buona, felicità …), ma in parte anche a beneficio di una cerchia sociale molto
più ampia (come ogni “bene meritorio”, meritgood). Oltre al valore civile e morale di crescere la
prole (valore infinito), esiste anche un più diretto valore economico che richiede di essere più
riconosciuto.
La famiglia scuola di gratuità, e quindi di lavoro e di festa
2
Un dato interessante, e preoccupante, riguarda il rapporto tra la felicità dei genitori e avere bambini (Stanca 2011):
studi svolti in molti Paesi mostrano che esiste una correlazione negativa tra felicità ed avere bambini. Come mai,
quando tutti sappiamo la gioia che portano i bambini in una famiglia? In realtà la spiegazione la si trova subito
scomponendo la componente finanziaria: se questi dati vengono infatti presentati al netto della “soddisfazione
finanziaria”, la correlazione tra felicità e l’aver bambini torna ad essere positiva. Ciò ci dice che i sistemi fiscali ed
economici dei Paesi fanno ancora troppo poco per rendere sostenibile, e felice, la vita di giovani famiglie con bambini
(e dove, come in Germania, la legislazione è più family friendly, la correlazione felicità/bambini è positiva anche senza
eliminare l’effetto dovuto agli aspetti economico-finanziari).
21
Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il
bisogno del ‘lavoro ben fatto’ è talmente radicato da spingere a
far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore
italiano che mi ha salvato la vita, portandomi cibo di nascosto
per sei mesi, detestava i nazisti, il loro cibo, la loro lingua, la
loro guerra; ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva
dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità professionale
(Primo Levi, autobiografia).
La famiglia si trova al centro della più grave crisi finanziaria ed economica che il sistema
capitalistico (non solo in Europa) ha attraversato dalla fine della seconda guerra mondiale.
Quando manca il lavoro, o quando è fragile e precario, è sempre e prima di tutto la famiglia che
soffre. È poi, paradossalmente, alla famiglia che viene oggi chiesto di consumare di più per
rilanciare la crescita; una richiesta curiosa, se non fosse offensiva, come se fosse possibile
aumentare i consumi quando non si lavora, o si lavora poco e male.
Ma che cos’è allora il lavoro e il lavorare? Quale il suo significato?3
Il lavoro è oggi forse la questione più urgente, che ci chiama ad una riflessione più
profonda, e in gran parte nuova (il mondo del lavoro sta evolvendo troppo velocemente in
rapporto alle nostre categorie culturali), su che cosa sia veramente lavorare, e su che cosa sia il
lavoro all’interno della vita. Ma per poter dire qualcosa di meno ovvio, rispetto alle tante che
sentiamo, sul lavoro e la famiglia nel mondo contemporaneo, alla luce dell’umanesimo cristiano e
della Dottrina sociale della chiesa, occorre partire come premessa e base di tutto il nostro
ragionamento dal grande tema della gratuità e del dono, che è ciò che accumuna, e vedremo
perché, la famiglia, il lavoro e la festa.
Che ci sia un rapporto forte e fondativo tra famiglia e gratuità non è certamente una
affermazione controversa, e in un certo senso ovvia. La famiglia è infatti il principale ambito nel
quale una persona apprende, tutta la vita (e non solo da giovani) quella che Pavel Florensky
chiamava l’arte della gratuità. Meno ovvie sono le conseguenze di tutto ciò per il lavoro, per
l’economia, per la vita civile. Per capire, infatti, il senso e il valore di questa arte, occorre chiedersi
‘che cos’è veramente la gratuità’? poiché la modernità, soprattutto questi ultimi decenni di
consumismo e di finanza, hanno logorato il significato della parola gratuità, relegandola in spazi
troppo angusti e spesso irrilevanti.
La gratuità, infatti, è oggi troppo spesso associata al gratis, al gadget, allo sconto, alla
mezza ora in più al lavoro non remunerata. A qualche cosa anche di simpatico e forse utile, ma in
ogni caso molto, troppo, ai margini della vera vita economica e civile. In realtà la gratuità è
3
Una breve nota storica che può aiutare ad entrare meglio in questo nostro discorso. Nel mondo antico (greco-romano,
ma anche in oriente) lavoravano gli schiavi. L’uomo libero, il cittadino, grazie agli schiavi (che lavoravano per lui)
poteva affrancarsi dal bisogno di lavorare, e dedicarsi ad attività più degne (si pensava) dell’uomo libero, come la
filosofia, la politica o la ginnastica. Con il cristianesimo il lavoro inizia ad essere visto come espressione di virtù (quindi
come attività buona in sé, e anche come via di felicità), grazie soprattutto ai carismi monacali e poi alla cultura cittadina
e artigiana. I monaci affermarono e affermano (il monachesimo è ancora ben vivo e fertile) la tesi rivoluzionaria che il
monaco è anche un lavoratore (anche questo è uno dei significati del benedettino “ora et labora”). Il lavoro inizia così
ad emergere, e a conquistarsi il suo spazio etico in un mondo che restava ancora troppo “platonico”, che assegnava cioè
alle attività manuali e lavorative uno status morale e spirituale minore rispetto all’attività intellettuali. Un vizio culturale
grave (di cui neanche l’oriente è esente) da cui facciamo ancora fatica a liberarci, perché ancora molto radicato nelle
nostre culture, che continuano a vedere i lavoratori manuali sempre in un gradino sociale più basso di coloro che si
dedicano ad attività intellettuali: pensiamo, ad esempio, a quanto poco lavoro c’è nei licei, ad esempio. Abbiamo dovuto
aspettare fino a tempi molto recenti (praticamente la fine dell’Ottocento) perché i lavoratori manuali potessero votare e
avere accesso a cariche pubbliche.
22
qualcosa di molto più serio, come ci ha spiegato con estrema chiarezza anche la Caritas in Veritate,
che rivendica alla gratuità anche lo statuto di principio economico. Gratuità è senz’altro charis,
grazia, ma è anche l’agape, come ben sapevano i primi cristiani, che traducevano la parola greca
agape con l’espressione latina charitas (con l’h), proprio ad indicare che quella parola latina
traduceva ad un tempo l’agape ma anche la charis. La gratuità, questa gratuità, allora, è un modo
di agire e uno stile di vita che consiste nell’accostarsi agli altri, a se stesso, alla natura, alle cose non
per usarli utilitaristicamente a nostro vantaggio, ma per riconoscerli nella loro alterità, rispettarli e
servirli. Per il suo essere un “come” e non primariamente un “che cosa” si fa, non si tratta allora di
contrapporre il dono al mercato, la gratuità al doveroso, poiché esistono, invece, delle grandi aeree
di complementarietà: il contratto può, e deve, sussidiare la reciprocità del dono (come avviene in
molte esperienze di economia sociale e civile, dal commercio equo e solidale all’economia di
comunione).
Si capisce, allora, perché la famiglia è il luogo principale4, dove questa gratuità si sviluppa e
si custodisce. Dire gratuità significa dunque riconoscere che un comportamento va fatto perché è
buono, e non per la sua ricompensa o sanzione esterni. Ecco perché non c’è lavoro ben fatto senza
gratuità, perché la gratuità ha bisogno non di un’etica utilitaristica fondata sugli incentivi e sulle
sanzioni, ma di un’etica delle virtù. Perché?
L’etica delle virtù, che ha dato vita nei secoli anche all’etica delle professioni e dei mestieri,
si basava su una regola aurea, una vera e propria pietra angolare: la prima motivazione del lavoro
ben fatto si trova dentro il lavoro stesso, non al di fuori di esso. La risposta alla ipotetica domanda:
“perché questo manufatto o questa lezione vanno fatti bene?” è, se prendiamo sul serio l’etica delle
virtù, tutta interna, o intrinseca, a quel lavoro, a quella determinata comunità o pratica
professionale. La pur necessaria e molto importante ricompensa, monetaria o di altro tipo, che si
riceve in contraccambio di quella opera, non è la motivazione del lavoro ben fatto, ma solo una
dimensione, certamente importante e co-essenziale, che si pone però su di un altro piano: è, in un
certo senso, un atto di reciprocità, un premio o un riconoscimento e una riconoscenza che quel
lavoro è stato fatto bene, e non il “perché” del lavoro ben fatto. Per lavorare può bastare la buona
motivazione del salario; ma per il lavoro ben fatto occorre anche la gratuità. Le città europee, le loro
cattedrali, ma anche i loro commerci e le loro fiere, sono il frutto di secoli di questa etica dei
mestieri e delle professioni, profondamente intrecciata con il cristianesimo.
La cultura economica capitalistica dominante, e la sua teoria e prassi economica, sta invece
operando su questo fronte una rivoluzione silenziosa ma di portata epocale: il denaro è diventato il
principale o unico “perché” del lavorare, la motivazione dell’impegno nel lavoro, della sua qualità
e quantità. È questa la cultura che possiamo chiamare dell’incentivo, che si sta sempre più
estendendo anche ad ambiti tradizionalmente non economici, come la sanità e la scuola, dove è
divenuto normale pensare che un insegnante o un medico si comportano da buoni lavoratori solo
se e solo in quanto adeguatamente remunerati e controllati. Una tale antropologia sta producendo
il triste risultato di riavvicinare sempre più il lavoro umano alla servitù se non alla schiavitù antica,
perché chi paga non compra solo le prestazioni, ma anche le motivazioni delle persone e quindi
anche la loro libertà.5
4
Sebbene non unico: si pensi anche alle associazioni, alle parrocchie, ai movimenti, e, almeno come vocazione, alla
scuola.
5
La cultura dell’incentivo oggi dominante nel mondo economico, lavoro e impresa (per non parlare della finanza, dove
questa cultura è un vero e proprio dogma o idolo), parte dall’ipotesi che i lavoratori non hanno nessuna motivazione
intrinseca per svolgere bene il lavoro, e quindi tratta i lavoratori come moderni animali domabili e addomesticabili con
bastone (sanzione-controllo) e carota (incentivo). C’è, allora, un urgente bisogno di una nuova-antica cultura del lavoro,
che, senza guardare nostalgicamente indietro guardi politicamente avanti, e torni a scommettere sulle straordinarie
risorse morali presenti in tutti i lavoratori, che si chiamano libertà e dignità, che non possono essere comprate, ma solo
donate dal lavoratore.
23
Ogni riforma istituzionale e legislativa del lavoro e ogni rilancio dell’occupazione non può
che ripartire da una nuova fiducia nelle risorse morali e spirituali del lavoratore, che quando
lavora bene prima di obbedire a incentivi e manager obbedisce a se stesso, perché se e quando si
lavora male per otto ore al giorno per quarant’anni, è l’intera vita, personale famigliare e sociale,
che non funziona. Lavorando diciamo a noi stessi e agli altri non solo che cosa facciamo, ma anche
chi siamo; e se lavoriamo male diciamo male chi siamo, a noi e agli altri, perché lavorando male
viviamo male, anche se questo lavorare male dipende dal fatto che lavoriamo nel posto sbagliato,
all’interno di rapporti sbagliati, senza poter esprimere la nostra vocazione, che è anche vocazione
lavorativa: far in modo che ogni persona trovi la sua vocazione lavorativa è un dovere morale etico
di ogni comunità educativa (dalla famiglia alla scuola alla politica), perché ne va di mezzo la
nostra felicità, una felicità che non può cominciare solo quando torniamo a casa la sera o nel weekend, perché se non siamo felici quando e mentre lavoriamo, non possiamo esserlo veramente e
pienamente neanche quando smettiamo di lavorare. Non è sempre possibile, per tutti e per tutta la
vita, fare il lavoro che sentiamo come nostra vocazione: ma nessuno può impedirci di vivere ogni
lavoro come agape, come relazione e come servizio, e così redimere e trasformare in fioritura
umana ogni lavoro.
Il lavoro è troppo importante per non far di tutto per cercare di starci bene, e possibilmente
felicemente, che non significa assenza di fatica e di dolore, ma presenza di senso e di sviluppo di
un progetto di vita: “Eppure, con tutta questa fatica – e forse, in un certo senso, a causa di essa – il
lavoro è un bene dell’uomo” (LE, 9). Sono convinto che il disagio del mondo del lavoro sia anche il
frutto dell’imperialismo incontrastato di questa cultura del lavoro, che non vede nel ‘bisogno del
lavoro ben fatto’ la vocazione più radicale presente nelle persone, che, se possiamo, vogliamo
lavorare bene, perché nel lavoro mettiamo la parte migliore di noi.
Tutto questo, e niente di meno, è il vero significato del dovere etico di riportare la gratuità
al centro del mondo del lavoro, come invitava a fare anche la Laborem Exercens, una pietra miliare
della riflessione cristiana sul lavoro umano, di Giovanni Paolo II.
Il lavoro dovrebbe stare sempre al centro del patto sociale, perché è il lavoro che dà la
giusta misura alle altre relazioni sociali, essendo il lavoro un bene fondativo della possibilità stessa
degli altri beni economici e, in un certo senso, civili: non è sufficiente, lo sappiamo, solo avere il
riconoscimento dei diritti, ma bisogna essere messi nelle condizioni soggettive di poter esercitare
concretamente quei diritti in modo che diventino libertà.
Le famiglie continuano per vocazione e per compito etico a generare e a rigenerare
patrimoni di gratuità e di virtù civili, ma se il mondo del lavoro e della politica oggi non riconosce
e non premia le virtù, le famiglie non potranno farcela da sole, con i gravi danni dell’economia che
già vediamo - questa crisi non è, forse, anche creata da lavoratori e managers poco virtuosi, anche
quando, o forse proprio quando, escono da scuole di business e da università nelle quali si studia e
si cresce alla stessa cultura dell’incentivo, e che poi arrivano nei luoghi di lavoro e non sono capaci
di vera cooperazione e di vera gestione delle relazioni complesse? Il merito non è solo né
primariamente una questione di curriculum vitae e di titoli di studio, ma è aver appreso l’arte delle
relazioni, che è sempre arte della gratuità, soprattutto in un mondo del lavoro dove il mestiere lo si
impara mentre si lavora, se si è capaci, relazionalmente, di farlo.
La cultura tradizionale insegnava, proprio a partire dalla famiglia, dai rapporti di vicinato,
dalla scuola, un modo di stare al mondo basato implicitamente sull’etica delle virtù (mediata in
Europa soprattutto dal cristianesimo), che poi si trasmetteva direttamente alle fabbriche, alle
scuole, agli ospedali, alla pubblica amministrazione, alle banche e agli uffici: oggi questo
patrimonio civile fondamentale di virtù civili e di etica delle professioni è in grave crisi (speriamo
non irreversibile), perché le famiglie, e purtroppo non tutte, continuano ad educare alla gratuità e
al lavoro ben fatto, ma da sole non ce la fanno più, e avvertono, forte, la fatica e la frustrazione di
24
Sisifo. “Per crescere un bambino ci vuole l’intero villaggio”, ci ricorda la cultura africana, e per
imparare l’arte della gratuità ci vuole la famiglia, ma anche la scuola, le comunità, l’intera vita
civile, altrimenti, è un continuo tessere e disfare la tela della gratuità e del dovere (altra bella
parola oggi logora). È questo un problema grave e serio, perché se non si è capaci di gratuità non si
è neanche capaci di capire il contratto, di essere buoni lavoratori né imprenditori (occorre ricordare
che anche i veri imprenditori, che non siano solo speculatori, sono anche e prima di tutto
lavoratori).
Se, nonostante tutto, la famiglia vuole, e deve, coltivare l’arte della gratuità, deve fare molta
attenzione a non importare dentro casa la logica che oggi vige fuori, magari in totale buona fede.
Guai, ad esempio, ad usare la logica dell’incentivo all’interno delle dinamiche familiari. Il denaro
in famiglia, soprattutto nei confronti dei bambini e dei ragazzi (ma con tutti), va usato molto poco,
e se usato deve essere un premio o riconoscimento, e mai usato come prezzo e come incentivo. Se,
infatti, un ragazzo inizia ad essere pagato (5 euro) dai genitori per sparecchiare a tavola o togliere
l’erba in giardino, , il primo effetto che si produce è che quel ragazzo inizia a pensare che quel suo
atto (al quale prima non aveva mai attribuito un valore monetario, perché si muoveva su un altro
registro), vale 5 euro, che è molto poco, poiché quando il denaro arriva all’interno di un rapporto
umano tende a diventare la motivazione e il valore di quanto si stava facendo prima di essere
pagati. In secondo luogo, in breve tempo c’è un effetto di contagio (“spillover”): quel ragazzo
inizierà a chiedere denaro anche per gli altri lavori contigui (riassettare il letto …). E se, infine, un
giorno questo incentivo monetario venisse tolto, tutti i lavori verrebbero con ogni probabilità
interrotti: quando in un rapporto si introduce il denaro non si torna più indietro, poiché il
pagamento ha il forte potere di cambiare la natura di una relazione. Uno dei compiti tipici della
famiglia è proprio formare nelle persone l’etica del lavoro ben fatto semplicemente perché … le
cose vanno fatte bene, perché esiste nelle cose una vocazione che va rispettata in sé, anche quando
nessuno mi vede, mi applaude, mi punisce e mi premia (anche se i premi sono essenziali per
rafforzare ogni educazione basata sul valore intrinseco delle cose). Il letto va riassettato bene
perché è bene in sé farlo bene, non per la mancia (che può arrivare, magari non sempre, come un
riconoscimento, non come motivazione, che il letto e i piatti sono stati fatti bene); i compiti vanno
svolti con cura perché è bene farli bene, per ragioni cioè interne a quell’attività, che domani
diventerà anche un lavoro, una professione. Se, invece, si inizia a praticare anche in famiglia la
logica e la cultura dell’incentivo, e quindi il denaro (la “paghetta”) diventa il “perché” si fanno e
non si fanno compiti e lavori, quei giovani da adulti difficilmente saranno dei buoni lavoratori,
perché il lavoro ben fatto poggia sempre su questa gratuità che si apprende soprattutto nei primi
anni di vita.
Ecco perché dobbiamo tener ben presente che la gratuità, la charis, come ci insegna San
Francesco, non è un prezzo zero, ma un “prezzo infinito” (Bruni e Smerilli 2008): ‘quando
annunciate il vangelo non chiedete denaro’, ammoniva San Francesco, mercante e figlio di
mercanti, poiché, aggiungeva ‘se dovessero pagarvi ci sarebbe bisogno di tutto il tesoro
dell’universo’. Quindi la charis non si paga perché costerebbe troppo, perché è impagabile, e non
perché non costa niente.
Ma una cultura che apprezza solo ciò che ha un prezzo di mercato, non capisce più il
valore, i valori, e quindi neanche il valore delle cose.
Da qui si comprende anche un fenomeno molto rilevante sia per le famiglie sia per il
lavoro. Mi riferisco al fatto che l’attuale cultura economica non capisce il lavoro che si svolge
all’interno delle mura domestiche, lavoro prevalentemente (sebbene oggi non esclusivamente)
femminile. La donna è ancora troppo associata dalla nostra cultura al mondo privato della casa e
quindi del consumo (e infatti quando il lavoro che si svolge all’interno della famiglia non “conta” letteralmente, perché infatti nessuna contabilità pubblica lo riporta - perché associato alla donna,
che non produce ma consuma). Questo lavoro, non passando attraverso il mercato, non può avere
25
un prezzo, e quindi neanche un valore pubblico. Come non si valorizzano più i rapporti di
prossimità e di vicinato non monetari, sui quali si sono costruiti le coralità produttive dei territori,
dove anche il mercato è fiorito dalla gratuità (e non viceversa). E anche oggi continua a fiorire da
essa, quando rifiorisce.
La cultura che legge la gratuità come “prezzo zero” o come la cultura del gratis, ad
esempio, porta anche a teorizzare, e poi ad agire di conseguenza, che i lavori di cura e di assistenza
debbono essere pagati di meno, proprio per salvaguardare la loro natura di gratuità (cioè di prezzo
zero). È questo un grave errore economico e civile, che porta, tra l’altro, a giustificare stipendi più
bassi per molti lavori educativi e di cura (anche qui a maggioranza femminile): non dobbiamo
associare gratuità a indigenza, e magari a sfruttamento. La povertà se e quando liberamente scelta
è beatitudine; ma l’indigenza subita da una cultura economica riduzionista e quindi sbagliata,
rende la vita molto difficile, a volte impossibile, a chi vuol coltivare una propria vocazione
lavorativa nei settori dell’educazione e della cura, e non ha un coniuge ricco o rendite (in Italia un
bambino su tre di madri separate è sotto la soglia della povertà, e molte di questi madri fanno
lavori di cura ed educativi mal pagati). Tutto ciò non è giusto, ed è grave. Oggi una buona
battaglia di civiltà è allora quella che distingue la gratuità dal gratis, che non contrappone
contratto a dono, una equa remunerazione alla gratuità. Nella nostra civiltà si pone sempre più un
grande problema di redistribuzione del reddito: non dobbiamo restare inermi e silenti di fronte ad
un sistema economico-politico che remunera con stipendi milionari manager privati e pubblici, e
lascia indigenti maestre e infermieri. E’ una questione di giustizia, e quindi politica, etica e
spirituale.
A questo proposito, non possiamo non fare un accenno al grande e urgente tema
dell’armonizzazione lavoro-famiglia, e quindi del lavoro delle donne. Questa non può essere
giocata solo sull’asse economico (“chi paga e per quanto tempo”?). Quando una donna, ad
esempio, lascia il lavoro per una o più maternità, non ha solo il problema di mantenere il posto di
lavoro, o di riuscire ad avere congedi più lunghi salvando una quota dignitosa di stipendio; ha
anche il problema (sempre più urgente) di reinserirsi nel suo posto di lavoro salvando gli
investimenti relazionali e professionali fatti in passato, e non ritrovarsi a svolgere mansioni più
basse e/o frammentate, che producono frustrazione e portano spesso di fatto all’abbandono del
lavoro.
La gratuità, la famiglia, e il lavoro, dunque. Ma possiamo e dobbiamo dire ancora altre
cose, che reputo rilevanti, e su questi temi.
Chi lavora e conosce il mondo del lavoro sa che il lavoro inizia veramente quando andiamo
oltre la lettera del contratto e mettiamo tutti noi stessi nel preparare un pranzo, avvitare un
bullone, o fare una lezione in aula. Si lavora veramente quando al Sig. Rossi si aggiunge Mario,
quando al professor Bruni si aggiunge Luigino. Quando invece ci si ferma prima di questa soglia,
ci si ferma sull’uscio dell’oikos (casa) dell’umano.
E’ qui però che incontriamo un paradosso vitale e cruciale nel mondo del lavoro
contemporaneo. Il lavoro è veramente tale e porta anche frutti di efficienza ed efficacia, quando
esprime un’eccedenza rispetto al contratto e al dovuto, quando cioè è dono. 6
6
Infatti, se un lavoratore non dona liberamente le sue passioni, la sua intelligenza, il suo
entusiasmo, nessun controllo o incentivo può riuscire ad ottenere da quel lavoratore la parte
migliore di sé, che poi è anche un fattore essenziale per il successo dell’impresa. Ma – e qui sta il
cuore del paradosso – queste dimensioni del lavoro, motivazionali e spirituali, non possono essere
comprate o programmate, ma accolte dal lavoratore come espressione della sua reciprocità, del suo
dono: o sono donate, o non ci sono. L’impresa può comprare con opportuni incentivi la prestazione,
ma non esiste alcun mercato dove comprare quanto veramente le serve per poter vivere e crescere. I
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In altre parole, con i normali contratti di lavoro e con gli incentivi non si riesce ad ottenere
dal lavoratore quelle dimensioni più profonde e qualitative, dalle quali dipende però la gran parte
del successo anche economico dell’impresa, e della soddisfazione dei lavoratori e delle famiglie (si
pensi al cruciale tema dei contratti per i servizi di cura di bambini e anziani: con il contratto noi
vorremmo poter acquistare anche quel ‘di più’ che in realtà può essere solo donato dal lavoratore).
Le imprese hanno costruito, in questi due secoli di capitalismo, tutto un sistema di incentivi
e di ricompense che non riesce però a riconoscere il di più del dono in ogni vero lavoro.(Alter
2009);
Credo che stia proprio in questa impossibilità di riconoscimento dell’eccedenza del lavoro
una delle ragioni per cui, in tutti i tipi di lavoro, dopo i primi anni arriva quasi sempre una
profonda crisi, quando ci si rende conto di aver dato per anni il meglio di sé stessi a quella data
impresa, senza però sentirsi veramente conosciuto e riconosciuto per quello che si è donato, che è
sempre immensamente più grande del valore dello stipendio ricevuto. Si cambia a volte lavoro
proprio perché in ricerca di questo vero riconoscimento, che non arrivando ci procura dolore e
senso di ingiustizia.
L’arte più difficile che i dirigenti di imprese e organizzazioni debbono imparare e coltivare
è proprio l’arte di trovare meccanismi che sappiamo riconoscere, almeno in parte, il dono presente
nel lavoro, in ogni lavoro. Al tempo stesso, noi lavoratori dobbiamo chiedere molto, moltissimo, al
lavoro, ma no quello che non può e non deve dare, perché il lavoro non potrà mai esaurire, da solo,
la nostra vocazione all’eccedenza, alla reciprocità, che è sempre più grande di qualsiasi professione
o mestiere. Il lavoro ha le sue stagioni: conosce una data di inizio e una di fine, conosce i tempi
della malattia e della fragilità, mentre il nostro bisogno di reciprocità ci accompagna e cresce
durante l’intera vita, precede e sopravvive al lavoro. E senza saper segnare e riconosce il limite al
lavoro nell’economia della nostra vitae nelle nostre famiglie, il lavoro sarà o servo o padrone, mai
“fratello lavoro”.
Si lavora veramente quando si riconosce in se stessi e negli altri un’eccedenza del lavoro
rispetto alla lettera del contratto; e si vive veramente quando si riconosce un’eccedenza della vita
rispetto al lavoro.7
Ancora un’ultima battuta sul lavoro e la famiglia, prima di passare, come ultimo brano di
questo discorso, alla festa.
manager possono verificare che cosa faccio durante le mie ore di lavoro, ma non possono né
controllare né comprare come lavoro, quanta “anima”, passione e creatività metto in quel mio tempo
di lavoro. È come dire il contratto di lavoro si ferma prima di entrare nelle cose che veramente
contano in una relazione umana di lavoro, che dura per anni e che vive di tutte quelle dimensioni
che nessun contratto può né prevedere né specificare, né tantomeno comprare.
7
Riguardo l’eccedenza della vita rispetto al lavoro, si può sviluppare ancora una ultima considerazione. Nel “mercato”
del lavoro, si dice, l’impresa non compra persone ma ore di lavoro. Negli ultimi tempi però stiamo assistendo a un
importante cambiamento: le imprese, soprattutto le grandi imprese capitalistiche, non comprano soltanto ore di lavoro
ma cercano di comprare (e spesso ci riescono) la persona, soprattutto i giovani, con un ragionamento di questo tipo: «Ti
pago molto, ti prometto carriere brillanti, ma non esistono orari, non esistono limiti».L’impresa così pensa che
pagando molto si possa comprare la persona, incluso cuore, mente e passione. Ma in questa operazione si nasconde un
tarlo, un virus del nostro sistema capitalistico: l’illusione che una volta eliminato il confine fra lavoro e vita (perché il
lavoro diventa la vita), quella persona possa continuare a fiorire e a maturare nel tempo. In realtà, le qualità più
importanti di una persona, soprattutto da giovane, si nutrono e crescono anche e principalmente fuori dell’impresa. E se
l’impresa, comprandomi, mi toglie la possibilità di coltivare queste dimensioni extra-lavorative, di fatto sta essiccando i
pozzi da cui attingo energia, passione e cuore, ritrovandomi dopo alcuni anni totalmente svuotato, non più utile
all’azienda stessa e spesso sommerso di macerie sul fronte familiare e relazionale. Per questo se un’impresa vuole e
deve cercare il meglio che il lavoratore può dare, deve fare in modo che esista sempre un’eccedenza della vita sul
lavoro, deve cioè proteggere gli spazi di gratuità, fuori e dentro i luoghi dell’economia. E deve proteggere i tempi e i
momenti della festa.
27
La cultura economica, politica e sociale dominante non capisce il lavoro perché non
vedendo più la virtù e la gratuità, non riesce a vedere più neanche il lavoro, o lo vede sfocato. E
non lo vede perché vede troppo altre cose, che stanno riempiendo l’orizzonte delle nostre civiltà.
Queste cose invadenti e ingombranti che eclissano il lavoro si chiamano soprattutto consumo e
finanza. Il centro della scena della società di mercato non è il mondo del lavoro (semmai “il
mercato” del lavoro, senza usare neanche le virgolette prima e dopo la parola mercato), ma il
mondo del consumo e quello della finanza. Ma un settore del consumo e della finanza che perdono
contatto con il mondo del lavoro, con i lavoratori e con la fatica, diventano consumismo edonista e
finanza speculativa, perché è sempre il lavoro che dà la giusta misura al nostro rapporto con i beni
e con il denaro.
In particolare è preoccupante quanto lontani siano dal mondo del lavoro i ragazzi e i
giovani. I bambini e i ragazzi hanno il primo approccio con l’economia incontrando il mondo del
consumo, adagiati all’interno dei carrelli dei supermercati, come novelle Alice nel paese delle
meraviglie. I nostri bambini non solo assistono sempre più passivi al bombardamento della
pubblicità commerciale (continuo a pensare, e a dire, che sia scandaloso per una società non vietare
la pubblicità commerciale diretta ai bambini e ai ragazzi, i cui effetti deleteri sulla salute dei
bambini e sulle relazioni familiari sono sempre più evidenti), ma trascorrono sempre più ore con i
genitori nei supermercati, outlet e centri commerciali. Niente di male, ma solo se all’esperienza del
consumo, e del consumismo, si affiancasse qualche incontro con i luoghi del lavoro, dalle officine
alle fabbriche, agli uffici. Sarebbe importante seguire, ogni tanto, il ciclo dei prodotti, e vedere
come e dove nascono quel cibo e quei beni che popolano i magici e colorati templi del consumo.
Ragazzi e giovani sempre più lontani dai luoghi del lavoro, fanno e faranno sempre più fatica ad
immaginare il proprio futuro lavorativo, possibile e sostenibile, e che magari porti loro quella
felicità che, come ci ricorda la cultura classica e la tradizione cristiana, non è il piacere ma il vero
frutto delle virtù.
Il lavoro e la festa
Il lavoro non insudicia. Non dir mai d’un operaio che
vien dal lavoro: “è sporco”. Devi dire: “ha su i panni i
segni, le tracce del suo lavoro”. Ricordatene. (Edmondo
De Amicis, Cuore).
E arriviamo così alla festa, un tema non tipicamente economico, purtroppo, sebbene così
importante anche per la vita economica: se, infatti, l’essere umano è animale relazionale e
simbolico la vita umana ha bisogno anche di festa; e finché il lavorare, è e resterà vita, anche il
lavoro ha e avrà sempre bisogno di festa. Ecco perché oggi l’economia e il lavoro debbono
riconciliarsi anche con la festa. La festa non è capita dall’economia capitalistica per le stesse ragioni
per le quali non comprende il vero dono: la festa è essenzialmente una faccenda di gratuità e di
relazioni. Dirò soltanto qualcosa della festa nel lavoro, sebbene ci sarebbero tante cose da dire sul
valore della festa in sé, nella famiglia, nella chiesa, nella vita civile.
Che cos’è la festa? La sua etimologia (dal latino festa) è controversa, molto ricca e quindi
utile e interessante, poiché tutte le parole grandi sono sempre polivalenti (anzi: sono grandi perché
polivalenti). Una prima etimologia la fa risalire alla stessa radice di feria (arcaico fesia), i giorni
feriali, cioè lavorativi (e questo dovrebbe già dirci molto per il nostro ragionamento su lavoro e
festa). Un’altra interpretazione la fa risalire al greco estiao, festiao, cioè banchetto, ma banchetto nel
28
quale accolgo gli ospiti (senza almeno un ospite la festa non è piena). In particolare estia/festia era il
focolare domestico, che si ricollega al sanscrito vastya: casa. Anche questa seconda etimologia è per
noi particolarmente suggestiva e ispirativa, poiché pone l’accento sulla famiglia, l’altro termine
della nostra triade (famiglia, lavoro, festa). La festa, allora, rimanda e richiama il lavoro, e richiama
e rimanda alla casa.
Come anche interessante è la differenza tra il significato di festa e quello di divertimento,
una parola che proviene dal latino divergere, cioè “volgere lo sguardo altrove”. Mentre alloraesiste
una sinergia e una amicizia tra i territori della festa, della famiglia, e del lavoro, il divertimento è
invece un volgere lo sguardo altrove, soprattutto distrarsi dal lavoro, ma anche dalla famiglia e
dalle relazioni.
Oggi la società capitalistica e dei consumi conosce e ha bisogno di divertimento (pensiamo
a quanto business genera), ma ha timore della vera festa, non la capisce perché la festa è faccenda
di relazioni non strumentali e di gratuità (casa e focolare), due categorie aliene e assenti dalla
attuale scienza e prassi economica, perché esperienze sovversive di ogni potere. E non capendo la
festa, non capisce neanche la feria, il lavoro, come ho cercato di dire. Anche se esiste una distinzione
tra lavoro e festa, e anche se è importante preservare (come ho detto) i luoghi e soprattutto i tempi
e i giorni della festa, ancora più importante (magari dalla mia prospettiva che mi occupo di lavoro
e economia), ricordare oggi in questo tempo di carestia di vera festa, che esiste una enorme
indigenza di festa all’interno del mondo del lavoro e dell’economia. L’abito della festa può e deve
essere anche essere l’abito impolverato del lavoro.
Pensiamo, per un esempio quotidiano, a quanto sia importante nelle imprese festeggiare i
compleanni, i matrimoni, le cene assieme, le malattie superate, e soprattutto festeggiare le nascite
dei bambini: sono riti essenziali in ogni organizzazione, se si vuole creare legame sociale. In tutte le
civiltà, ce lo dicono gli antropologi, i riti servono a creare legami, a consolidare l’appartenenza ad
un corpo, a sentirsi accomunati da qualcosa di più profondo dei contratti e degli interessi. Per
questo, un segnale chiaro e forte che si sta deteriorando la qualità relazionale di un luogo di
lavoro, è quando si iniziano a dimenticare e a trascurare nascite, matrimoni, avanzamenti di
carriera, a non fare più feste di Natale né in altri momenti forti dell’anno. Un vero imprenditore, ad
esempio, sa per istinto che gli ultimi tagli che deve fare, anche in tempi di crisi, sono quelli sui doni
di Natale ai dipendenti, perché se taglia questi costi inizia a tagliare quel capitale immateriale che
poi non ha più, o lo ha molto più fragile, proprio nei momenti duri delle crisi (ben diversa è la
situazione, che ho conosciuto personalmente, quando l’imprenditore condivide con tutti i
dipendenti la crisi che sta vivendo, e i dipendenti stessi propongono di tagliare quei costi: in
questo caso quel taglio, quella ferita, diventa una benedizione perché crea ancor più legame
sociale: queste cose accadono, però, quando i dipendenti vedono che durante la crisi anche
l’imprenditore sta facendo, come loro, l’esperienza della povertà, e quindi può nascere la fraternità
tra tutti, che richiede quell’eguaglianza che le crisi possono creare. Gli esseri umani, anche e
soprattutto quando lavorano, hanno bisogno di molto di più del denaro per dare il meglio di loro
stessi: la festa è anche questo rafforzamento di legami più forti dei contratti, perché è, quando c’è,
espressione del registro simbolico dei patti. Il posto di lavoro, è un luogo dell’umano dove si soffre
e si gioisce non solo per ottenere il salario, ma per dare senso al nostro vivere per anni in quel
luogo e all’interno di quei rapporti.
Che cosa dire, ancora, sulla festa? Mi limito ad accennare a tre aspetti, per poi concludere.
a) La festa ha bisogno del lavoro, non solo, perché, come ho cercato di suggerire, la
dimensione della festa è inerente ad un lavoro che sia veramente umano ed etico, ma
anche perché sono i tempi del lavoro che scandiscono quelli della festa, e viceversa. Da
qui deriva una conseguenza che considero oggi molto rilevante, anche politicamente:
quando si è disoccupati o sotto-occupati, si perde non solo il lavoro ma anche la festa,
29
poiché la festa senza lavoro non è mai vera e piena festa, per la persona e per la
famiglia. Oggi è troppo urgente ricreare nuovo lavoro, proteggere anche
istituzionalmente quello fragile (nei tempi di crisi occorre rafforzare, non indebolire, le
tutele del lavoro, perché in questi momenti la gente ha bisogno di segnali simbolici di
fiducia), anche perché ricreando lavoro sostenibile si ricrea anche la possibilità della
festa – eloquente che i governi di fronte alle crisi siano sempre tentati di sopprimere i
giorni di festa, e a volte (come oggi in Portogallo) ci riescono.
b) La festa è poi uno dei momenti nei quali, sia nella famiglia sia nel mondo del lavoro, si
valorizzano persone che durante l’attività lavorativa sono meno valorizzate: persone
magari meno performanti sul piano dell’efficienza ma che hanno talenti artistici e
relazionali; oppure, in famiglia, i bambini, che sono non solo spesso la causa della festa,
ma anche i principali protagonisti della festa. La festa, come tanti riti, ha la grande ed
essenziale capacità di creare uguaglianza e fraternità nelle comunità, anche in quelle
lavorative, che hanno un estremo bisogno che in certi momenti si vada oltre gerarchie,
ruoli, stipendi, e si faccia l’esperienza della comunità e del destino comune: la festa sa e
deve fare anche questo, sia a lavoro, sia in famiglia, e in ogni vera comunità. La festa,
poi, è indispensabile nei momenti di crisi, come ci ricorda anche la grande cultura
biblica, poiché nei momenti della prova (a lavoro e in famiglia) far festa riaccende la
voglia di vivere e di lottare insieme. Ecco, ad esempio, perché nelle cooperative,
nell’economia sociale e civile e di comunione, si fanno molto feste, perché queste
nascono dalla fraternità che c’è già, e la ricreano e rafforzano. Ed ecco perché invece
quelle apparenti feste in altre imprese, che in realtà non sono festa se anche durante le
feste si resta prigionieri di ruoli, status, gerarchia.
c) La festa, infine, ha bisogno di tempo, e questo lo sanno bene coloro che le feste le
preparano a casa, ma anche in parrocchia, nelle comunità. La festa, quando è autentica
festa, non può essere se non in minima parte acquistata sul mercato, ma va autoprodotta, va prodotta e consumata insieme. Per questo richiede lavoro, perché una
buona festa va preparata, vissuta, e seguita dal lavoro, soprattutto da quello femminile
nelle società tradizionali: nella mia famiglia la domenica era festa diversamente per gli
uomini e per le donne. Le donne lavoravano di più in occasione delle feste, ma non per
questo non vivevano la festa, sebbene in modo diverso, la vivevano anche lavorando:
oggi nelle famiglie si festeggia poco anche perché non può più essere soltanto la donna
– senza l’aiuto di altre donne, come nelle comunità tradizionali – a lavorare per la festa:
solo un lavoro e una preparazione condivisi tra uomini e donne (dentro la famiglia ma
anche, non dimentichiamolo, tra famiglie: la festa è anche il momento in cui la famiglia
va oltre se stessa, si trascende in comunità più ampie) rende oggi sostenibile e non
troppo scarsa la festa. Ecco perché anche nella festa c’è lavoro, e a volte anche tanto,
sebbene nelle famiglie e normalmente nelle comunità, è un lavoro che non passa per il
mercato. Una bella festa che funzioni e porti poi i suoi frutti (molti dei quali si creano e
si godono già durante la preparazione della festa: la preparazione della festa è già festa),
richiede molto tempo e molta cura. Chi capisce la festa considera il tempo investito per
la festa non come uno spreco o una perdita (ecco perché l’impresa capitalistica non
capisce la festa, perché non rendendo sul piano dell’efficienza, viene considerata come
uno spreco di risorse e di tempo), ma come un investimento relazionale. La festa, infatti,
crea legame sociale, appartenenza ad un destino comune, è esperienza simbolica dove,
c’è bisogno di riti che si rimettono insieme i pezzi, i frammenti, anche quelli lavorativi.
Conclusione
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Concludiamo. La famiglia, essendo la principale generatrice di beni relazionali, non serve
oggi l’economia consumando di più, ma consumando di meno, consumando cioè meno merci e
creando più beni: più beni relazionali, beni spirituali, beni di prossimità, che poi sono anche beni
essenziali per la ripresa e per lo sviluppo economico.
Oggi la famiglia deve lanciare, con la vita ma sempre più con la parola, e assieme, dei
messaggi precisi al mondo delle istituzioni. Tra questi messaggi qui voglio sottolinearne tre:
1. Che i beni economici e le merci sono veramente beni (cioè cose buone) e non mali quando
sono alleati e ancelle dei beni relazionali, dei rapporti di reciprocità, e non loro sostituti. Le
famiglie sanno per vocazione naturale, e perché lo sperimentano sulla propria carne e
anima, quali grandi fallimenti, spirituali sociali ma anche economici, produce un
consumismo che riempie con le merci il vuoto dei rapporti. Sono tante, troppe, oggi le
povertà e le tragedie dovute alle indigenze di rapporti riempite con gioco, lotterie, alcool,
televisione, cibo (per adulti e sempre più per i bambini). Le famiglie, e le associazioni
familiari, dovrebbero battersi per una moratoria della pubblicità rivolta direttamente ai
bambini (negli ultimi 20 anni il fatturato della pubblicità per i bambini è aumentata in
Europa di oltre 100 volte: i bambini sono troppo preziosi per lasciarli ai mercanti for profit),
ma anche di quella dei giochi d’azzardo (è molto preoccupante il dilagare di lotterie,
scommesse, giochi on-line, un fenomeno, il ritorno della dea pagana “fortuna”, che vede
spesso i governi complici e conniventi, che mina alla radice l’umanesimo cristiano e
occidentale, che nasce affermando che la “virtù batte la fortuna”). Battaglie civile che non
possono essere delegate interamente alla politica e alle leggi, ma debbono essere sostenute
dal basso premiando imprese e gesti virtuosi (anche con marchi di qualità assegnati da
associazioni familiari), che poi possono diffondersi ed estendersi.
2. Il secondo messaggio forte che le famiglie rivolgono al mondo e all’economia di oggi
malata di consumismo, è che la povertà è, al tempo stesso, una piaga dell’umanità (quando
non è scelta ma subita dagli altri o dalle circostanze della vita), e anche una parola del
vangelo, e quindi anche una via di felicità e di fioritura umana, quando povertà si declina
come sobrietà e come rinuncia al dominio delle merci e del denaro per la libertà dei beni
relazionali e spirituali, e della gratuità. Il consumismo è sempre più uno stile di vita, che
essicca nelle persone le sorgenti della trascendenza, della vita interiore. Le famiglie
conoscono le tragedie della povertà, ma anche la sua beatitudine. Per questo debbono far di
tutto, anche assieme e anche politicamente, per sconfiggere la miseria e l’indigenza di molte
famiglie (i dati ci dicono che la miseria nel mondo è soprattutto dei bambini e delle donne),
ma per scegliere stili di vita consumisti: occorre combattere le povertà non scelte per poter
scegliere, liberamente, una vita sobria e di comunione. Pensiamo, su questo, ancora ai
bambini. I bambini che non imparano questa bella povertà e libertà (e gli adulti che non la
rimparano ogni giorno), che cioè non sono un po’ poveri perché hanno tutto e subito,
perdono il desiderio e la capacità di sorprendersi, e quindi viene loro rubata l’infanzia,
anche quando (e proprio in quanto) sommersi di merci e di consumo, perché l’infanzia è il
tempo del desiderio e delle sorprese, che poi alimentano i sogni e i progetti generativi
anche della vita lavorativa adulta. La festa poi ha bisogno, come il dono, di una certa
povertà, poiché se è sempre festa non è mai festa: la povertà, la mancanza di qualcosa (non
di tutto), rende la festa tale perché la si attende, arrivano doni che in parte almeno
riempiono quella indigenza, solo questa povertà bella del vangelo genera e alimenta il
desiderio che è l’energia della vita, in ogni età: “Garzoncello scherzoso, cotesta età fiorita è
come un giorno d’allegrezza pieno, giorno chiaro, sereno, che precorre alla festa di tua
vita” (Giacomo Leopardi, Il Sabato del villaggio).
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3. La famiglia, infine, ricorda con la vita di ogni giorno una grande verità, che oggi è troppo
assente dal mondo del lavoro e dalla sfera pubblica in generale: la vulnerabilità non è
l’eccezione, il momento di crisi all’interno di una vita non vulnerabile e non fragile, ma è la
condizione dell’umano. A questo proposito, voglio affidare questa conclusione ad un
grande racconto biblico, per tra i più belli e ispirativi per la vita in comune, compresi festa,
lavoro, famiglia. Il cosiddetto ‘combattimento di Giacobbe con l’angelo’ (Gen 32). Dopo il
lungo esilio, dovuto anche ai conflitti con il fratello gemello Esaù (l’ambivalente fraternità,
che è sempre una ferita), Giacobbe torna nella terra dei padri, delimitata dal torrente
Yabbok, affluente tumultuoso del Giordano. Prima di tornare a casa deve quindi
attraversare quel fiume. Durante il guado notturno dello Yabbok, Giacobbe rimane solo e
viene affrontato da un altro uomo, che nel corso del racconto diventa una presenza di Dio,
JHWH stesso. Il combattimento termina con Giacobbe vincitore e ferito, con l’articolazione
del femore slogata. Giacobbe però chiede che il suo avversario lo benedica prima di
lasciarlo: ottenuta la benedizione, Giacobbe cambia nome, diventa Israele, un nome di un
popolo intero, e per lui «splendeva il sole» (Gen 33). Il messaggio è chiaro: l’A(a)ltro è
insieme una ferita e una benedizione, l’una è la strada e la pre-condizione dell’altra (Bruni e
Smerilli 2011). Quando l’altro ci ferisce, ci cambia profondamente, ci dà un nuovo nome
(nel mondo semitico il nome è la realtà più profonda, la vocazione della persona). Tutta la
storia, quella moderna soprattutto, è anche un tentativo di trovare nuove relazioni che
fossero solo benedizioni, immunizzandoci dalla ferita dell’altro (Bruni 2007). La tristezza
solitaria della post-modernità è però anche e soprattutto il frutto del progetto immunitario,
che separa gli uni dagli altri per evitare loro le ferite della relazione. La Genesi non ci dà
indicazioni chiare su che cosa accadde alla ferita di Giacobbe in seguito al combattimento,
non ci dice con chiarezza se Giocobbe guarì o se invece continuò a zoppicare per tutta la
vita. Ci sono soltanto alcune allusioni, alcune tracce e alcune tradizioni rabbiniche che su
questi indizi contenuti nella Genesi si sono sviluppate nei millenni. A me piace pensare, in
compagnia di alcune tradizioni rabbiniche, che piace pensare che Giacobbe non guarì mai
del tutto da quella ferita, perché nel momento in cui si smette di ‘zoppicare’ si smette di
vivere, perché la vita è anche, e soprattutto, vulberabilità. E la vulnerabilità, l’esposizione
alla ferita (vulnus) dell’altro (e dell’altro alla mia), è la prima condizione dell’umano. Si
smette di vivere quando ci si ritrae dal combattimento con l’altro, quando si pensa di poter
vivere bene senza l’esposizione alla ferita, quando si smette di prender su le ferite degli
altri, vicini e lontani, quando si rinuncia a cercare di guarirle e a trasformarle in
benedizioni. L’economia moderna e contemporanea non capisce la capacità generativa
della vulnerabilità perché, tutta definita dal registro maschile, vede la ferita (vulnus) fuori
di sé, nella vita privata, di cui la donna diventa simbolo e quindi monopolista, con la
tristissima sorte di rendere invivibile sia la condizione di troppe donne sempre più (non
sempre meno) schiacciate dalle vulnerabilità private e pubbliche, sia i luoghi del lavoro, che
non accogliendo le normali e ordinarie vulnerabilità, diventano molto fragili e insostenibili,
e così quando la vulnerabilità arriva diventa insostenibile e devastante, passa da manager
di successo all’essere bruciati (burn out) in una clinica nel giro di pochi giorni. La dinamica
della vulnerabilità è simile a quella del vaccino: chi accoglie le piccole dosi quotidiane di
vulnerabilità è forte di fronte alle grandi vulnerabilità; chi invece non accoglie le piccole
vulnerabilità, diventa molto vulnerabile e fragile quando arrivano le grandi e devastanti
vulnerabilità, che produce gli effetti di un virus che non incontra anticorpi. La famiglia è
una grande scuola della cura della vulnerabilità, e quindi della sua sostenibilità e fecondità.
Solo riconciliandoci con la vulnerabilità inevitabile possiamo superare questa e le altre crisi,
individuali e collettive.
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La famiglia può e deve lanciare con decisione questi messaggi forti alla politica e all’economia,
e porsi così come guida di cambiamento, come faro, pioniere, avanguardia di Bene comune, cioè il
bene di tutti e di ciascuno, quindi anche il bene della famiglia e delle famiglie.
Bibliografia:
Alter Norbert, Donner et prendre, La decourverte, Parigi, 2009.
Benedetto XVI, Caritas in veritate, Edizioni Paoline, Roma, 2009.
Bruni Luigino, La ferita dell’altro, Il Margine, Trento, 2007.
Id., Le nuove virtù del mercato, Cittanuova, Roma, 2012.
Bruni Luigino e Alessandra Smerilli, Benedetta economia, Cittanuova, Roma, 2008.
Id., La leggerezza del ferro, Vita e pensiero, Milano, 2011.
Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, Edizioni Paoline, Roma, 1981.
Luca Stanca, Suffer the children, WorkingPaper, Milano-Bicocca, 2011.
Zamagni Stefano e Vera Zamagni, Famiglia e lavoro, Il Mulino, 2012.
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LA FAMIGLIA E IL LAVORO OGGI,
IN UNA PROSPETTIVA DI FEDE
Card. Dionigi Tettamanzi
Introduzione
Inizio questa relazione su “La famiglia e il lavoro oggi in una prospettiva di fede”
raccogliendo l’invito della Lettera agli Ebrei: “Corriamo con perseveranza nella
corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla
fede e la porta a compimento” (Eb 12,1-2). I nostri occhi, dunque, siano fissi sul
volto di Cristo: sul volto di lui come “figlio del falegname” di Nazareth, di lui che –
dice il Concilio Vaticano II - “ha lavorato con mani d’uomo” (Gaudium et spes,
22).
Vogliamo così riscoprire la dimensione familiare del lavoro umano, grati al Santo Padre che con questo
Incontro Mondiale delle Famiglie ha posto esplicitamente alla nostra attenzione il soggetto famiglia in
stretta relazione con il lavoro e la festa. E questo volutamente, in un contesto in cui non è abituale
mettere a tema il rapporto tra la famiglia e il lavoro, mentre è diffusa la considerazione del rapporto
tra la persona soltanto e il suo lavoro, in seguito alla cultura post-moderna con il suo accento
sull’individuo, sulla persona spogliata delle sue relazioni, come se non esistessero o fossero realtà
irrilevante.
L’esperienza però ci dice che tutti noi siamo frutto di molteplici relazioni, da quella che ci ha generato
a quelle che ci hanno fatto crescere. Di più: il nostro relazionarci nasce dal fatto che siamo stati creati
per amare, non per vivere da esseri chiusi in se stessi! Anche il nostro lavorare, allora, e il nostro
riposare entrano nella dinamica di una relazionalità di amore! Anche la società e la sua crescita
umana sono legate sì al lavoro, ma anzitutto all’amore e all’amore familiare, quello che unisce per
sempre un uomo e una donna in modo esclusivo, fecondo, fedele, e che trova nel Signore la sua
sorgente, il suo sostegno! Siamo stati creati da Dio, che è Trinità d’amore!
Rileviamo però come tutte queste realtà sono poste in discussione da un contesto fortemente centrato
sull’individuo e aspramente conflittuale: la famiglia è discussa; le relazioni anche; il lavoro genera
spesso divisioni e contrapposizioni, e l’umanizzazione da esso apportata rischia di intravvedersi
sempre meno. In una prospettiva secolarizzata, famiglia e lavoro finiscono per essere considerati in
un’ottica di pura utilità, di ricerca del proprio individuale interesse.
Ma che cosa succede se a dominare è una logica di pura utilità? E come è possibile liberarsi da questa
logica?
Cerchiamo ora una risposta, riferendoci alla ragione e alla fede, in particolare alla Parola di Dio che
nel tempo trova la sua espressione nella dottrina sociale della Chiesa e che a tutti noi rivolge il suo
dono di grazia e il suo appello alla responsabilità nell’ethos del nostro vivere quotidiano.
Sono questi i tre momenti della nostra relazione.
1. La testimonianza della Parola di Dio: famiglia e lavoro, segni della benedizione di Dio
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Del lavoro ci parla la Bibbia sin dall’inizio, presentandoci Dio come il Creatore onnipotente che
plasma l’uomo a sua immagine e lo invita a lavorare la terra e a custodire il giardino dell’Eden (cfr.
Gn 1,26ss.; 2,15). Eccone il contenuto nel commento del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa:
“Alla prima coppia umana Dio affida il compito di soggiogare la terra e di dominare su ogni essere
vivente (cfr. Gen 1,28). Il dominio dell’uomo sugli altri esseri viventi, tuttavia, non deve essere
dispotico e dissennato; al contrario, egli deve ‘coltivare e custodire’ (cfr. Gen 2,15) i beni creati da
Dio: beni che l’uomo non ha creato, ma ha ricevuto come un dono prezioso posto dal Creatore
sotto la sua responsabilità…” (n. 255).
Questo messaggio iniziale della Bibbia avrà il suo sviluppo nelle epoche successive della storia e
troverà la sua rivelazione piena nel Nuovo Testamento con il messaggio di Gesù e dei suoi
Apostoli e la sua permanente ripresentazione nella vita della Chiesa.
Desidero ora soffermarmi su due quadri biblici: quello della benedizione di Dio e quello del
comandamento del Sabato. Ci aiuteranno a cogliere il disegno del Signore, dunque la grazia e la
responsabilità di vivere il rapporto famiglia-lavoro in pienezza di umanità e come via alla santità.
1. La benedizione del Salmo 128
La benedizione di Dio è descritta in particolare dal Salmo 128, con queste parole:
Beato chi teme il Signore
e cammina nelle sue vie.
Dalla fatica delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.
La tua sposa come vite feconda
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.
Ecco com’è benedetto
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
tutti i giorni della tua vita!
Possa tu vedere i figli dei tuoi figli!
Pace su Israele!
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Ecco: il Salmo parte da una benedizione che canta la felicità della vita familiare in un quadro che
dipinge la sposa nell’intimità della casa, presenta il valore e insieme la fatica del lavoro dell’uomo,
parla della gioia della mensa arricchita dai figli.
Tutto è posto sotto il segno della benedizione divina, perché è “dal principio” che il Creatore ha
pensato all’umanità come alla relazione vivente di uomo e donna, chiamati insieme a “dominare”
la creazione (cfr Gn 1,26-28). Il riconoscimento poi di questo disegno è la benedizione umana come
risposta libera al piano di Dio, una risposta che inneggia alla bellezza dell’amore familiare e
condivide i beni prodotti con il lavoro, continuando nella solidarietà l’opera creatrice del Signore.
Così la gioia dell’essere famiglia e la dimensione del lavoro sono tanto armonizzate tra loro da formare un
tutt’uno. Certo il Salmo intende cantare l’amore familiare. Nello stesso tempo però il lavoro appare
come realtà espressiva e parte integrante di questo amore. Amare e lavorare, assieme al fare festa, sono
davvero gli elementi essenziali di una vita familiare. Senza queste realtà non vi sarebbe umanità, né
famiglia, né vita, né sviluppo di un mondo nuovo, umanizzato e perennemente migliorato
dall’amore e dal “dominio” umano.
Certo le immagini di famiglia e di lavoro presenti nel Salmo presuppongono un ambiente sociale
molto diverso dal nostro: vi troviamo una visione monogamica indiscussa, la presenza di molti
figli, i ruoli familiari semplificati (il padre che lavora per procacciarsi il sostentamento; la madre
che nascosta sta nell’intimità della casa; i figli a tavola pieni di appetito e di gioia), il mangiare
insieme come simbolo dell’unità familiare.
Le immagini poi della vite e dell’olivo suggeriscono subito esuberanza per i figli che crescono e
fecondità per la madre. In particolare, la vite esprime la gioia dell’amore; e insieme ci parla della
benedizione di Dio che crea la fecondità.
Le immagini però, in un orizzonte più ampio, rimandano alla grande famiglia d’Israele. In realtà il
Salmo sfocia su Gerusalemme, la capitale ovvero la madre, e su Israele ovvero Giacobbe, il padre
delle dodici tribù. E così la relazione familiare del marito con la madre e con i figli si allarga sino a
comprendere la relazione del singolo figlio di Israele con la madre Gerusalemme e il padre Israele.
In tal modo la benedizione promessa passa dalla lunga vita del singolo al benessere della capitale e
alla pace di tutto Israele.
2. Lavoro e riposo nel comandamento del Sabato
Una seconda prospettiva biblica è data dal comandamento del Sabato (cfr. Dt 5,12-15; Es 20,8-11), che
riguarda sì il riposo ma secondo una formulazione che dà senso anche al lavoro e che pone il tutto in
un’ottica familiare.
Come ogni altro comandamento, anche il Sabato si situa nella logica dell’alleanza tra Dio e il popolo.
Il comandamento infatti è donato a Israele, non gli è imposto (cfr. Dt 5,33); comporta però la
risposta libera al cammino proposto da Dio che l’ha liberato. Ora è precisamente con il riposo
settimanale del Sabato che l’umanità può anticipare il realizzarsi della piena libertà quale si avrà
con il settimo giorno di Dio, la meta ultima verso cui l’intera creazione è in cammino.
È la famiglia come tale che deve osservare il riposo del Sabato, ricordando la liberazione dalla
schiavitù d’Egitto e anticipando nel tempo umano il settimo giorno di Dio. Vivere il sabato è una
caparra della promessa di Dio che benedice il lavoro dell’uomo e ne anticipa il compimento: in tal
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modo il riposo sabbatico è segno reale della liberazione dal lavoro come faticosità, come schiavitù,
pura alienazione, “non senso”.
Ma non è la sua capacità di homo faber a redimere i limiti e i pesi della temporalità, bensì la
partecipazione al riposo di Dio: è, dunque, la sua dimensione di homo religiosus, in quanto anticipa
la meta del settimo giorno di Dio. In esso, nella comunione con Dio, egli troverà la sovrabbondante
pienezza della sua dignità.
Per concludere, l’umanità non è finalizzata al lavoro, ma al Sabato; l’umanità intesa non come singolo
individuo, ma come famiglia: spetta infatti al capofamiglia indire l’osservanza del Sabato. E quel
“non farai alcun lavoro, nè tu, né tuo figlio, ecc.” dice anche di rapporti sociali profondamente mutati
dal Sabato. Il tempo del lavoro, infatti, inevitabilmente differenzia e divide; quando invece si riposa
e si fa festa, le stesse disuguaglianze sociali appaiono attenuate: si familiarizza, si condivide, si
comunica. Ancora una volta, il culto riferito a Dio e la liberazione delle persone e delle loro relazioni
vanno nella stessa direzione. Sì, abbiamo bisogno – e oggi ancora più di ieri – di un tempo di festa
vissuto da tutta la famiglia, perché esso è importante, è indispensabile sotto il profilo sociale ed
educativo.
2. La Parola della Chiesa: Famiglia e lavoro, edificazione della societa’ e umanizzazione del
mondo
A partire dalla benedizione originaria di Dio che promuove il lavoro umano vogliamo ora
addentrarci nel percorso suscitato dalla fede cristiana nella storia.
1. La dottrina sociale della Chiesa
È un percorso che attraversa l’intera vicenda storica della Chiesa e che trova il suo punto più
significativo nella dottrina sociale: una dottrina che non inizia con la Rerum novarum di Leone XIII
ma con la prima comunità apostolica, sicchè tale dottrina si salda con la Sacra Scrittura e qui ritrova le
sue radici, il suo dinamismo, il suo costante criterio: “la coerenza con la fede in Cristo e con il suo
vangelo di salvezza”.
È stato, in particolare, l’esplodere della “questione sociale” - ovvero del conflitto tra capitale e
lavoro nel contesto dell’industrializzazione – a far sorgere, come risposta, una vera e propria
“dottrina sociale della Chiesa” nella forma specifica che oggi conosciamo e che è venuta elaborando
‘princìpi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione’ per creare poi le condizioni affinché
“le comunità cristiane” potessero via via “individuare – con l’assistenza dello Spirito Santo, in
comunione con i vescovi responsabili, e in dialogo con gli altri fratelli cristiani e con tutti gli
uomini di buona volontà – le scelte e gli impegni che conviene prendere per operare le
trasformazioni sociali, politiche ed economiche che si palesano urgenti e necessarie in molti casi”
(Octogesima adveniens, n.4).
Dovremmo ora seguire le tappe dello sviluppo della dottrina sociale della Chiesa, in particolare in
tema di rapporto famiglia-lavoro. Ma si aprirebbe qui un campo quanto mai ampio di studio e di
analisi dei diversi interventi sociali del magistero. D’altra parte solo con uno sguardo complessivo
si potrebbe cogliere il peso reale e l’energia profetica della dottrina sociale della Chiesa, vedendo cioè
come le comunità cristiane hanno saputo lasciarsi sfidare dalle varie problematiche sociali,
intercettandole in continuità, in parte lasciandosi condizionare dalle situazioni del tempo e in parte
37
dimostrando lungimiranza e apertura alla novità, accogliendo e rispettando le esigenze della
razionalità umana e insieme ispirandosi e consegnandosi agli ideali evangelici.
Mi vedo costretto a toccare rapidamente qualche aspetto del magistero sociale di Benedetto XVI.
2.
L’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI
Il magistero sociale di papa Benedetto XVI viene inaugurato dalla prima enciclica Deus caritas est
(2005), che ci offre la prospettiva unitaria da cui possiamo traguardare il suo intero insegnamento.
Infatti tutte le realtà – in specie la vita familiare, il lavoro, la festa -- sono unificate, trasfigurate e portate
a compimento dall’amore di Dio, diventando esse stesse opere di amore, testimonianza di vera carità.
Come scrive il Papa, “L’amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta”
(n.28).
E proprio alla ricerca di una verità piena per l’intera vita sociale è dedicata la Caritas in veritate
(2009). Partendo dalla consapevolezza che “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma
non ci rende fratelli” (n. 19), l’enciclica sottolinea come suo filo conduttore e provocatore l’esigenza di
uno sviluppo umano integrale, capace di far crescere armonicamente tutte le dimensioni costitutive
dell’uomo: personali, relazionali, sociali, culturali, spirituali. E anima profonda di questo sviluppo è la
carità che, purificata e guidata dalla verità, “dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con
il prossimo” ed è “il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo
gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici” (n. 2).
Di qui il concetto originale di fondo: l’economia e la vita sociale devono essere plasmate dallo spirito
del dono, dalla logica del disinteresse, della comunione, della fraternità, della solidarietà, della gratuità
(cfr. n. 38). Troviamo qui quello che definirei il novum dell’enciclica sociale di Benedetto XVI, un
novum in un certo senso “profetico” in quanto a tutti lancia un coraggioso “appello” e pone una
grande “sfida”, come emerge nel capitolo terzo dell’enciclica (cfr. nn. 34-42).
Di questo capitolo riascoltiamo il limpido e denso incipit: “La carità nella verità pone l’uomo davanti
alla stupefacente esperienza del dono. La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme,
spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistente.
L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime e attua la dimensione di trascendenza…
Essendo dono di Dio assolutamente gratuito, la carità irrompe nella nostra vita come qualcosa di
non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia. Il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua
regola è l’eccedenza. Esso ci precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di Dio in
noi e della sua attesa nei nostri confronti… Perchè dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è
una forza che costituisce la comunità. Unifica gli uomini secondo modalità in cui non ci sono
barriere né confini… L’unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce
dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore” (n. 34).
La gratuità nell’ambito economico e sociale
Queste affermazioni fondamentali trovano una specifica applicazione anche nell’ambito economico e
sociale, e quindi anche in riferimento alla famiglia e al suo lavoro. Del resto è la stessa esperienza
umana a dirci che non è affatto vero che siano il massimo profitto e la massima utilità economica a
muovere l’agire dell’uomo: la vera e più esplosiva motivazione è la carità, con l’energia che ha di
suscitare e sostenere relazioni nuove, fraterne appunto, in ogni famiglia, in ogni impresa e nell’intera
grande famiglia umana!
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Nessun equivoco però: la logica della gratuità non implica che in economia si possa comprare e
vendere gratis, senza prezzo o senza corrispettivo; implica invece che si lavori e si realizzino scambi e
investimenti in modo pienamente rispettoso dell’uomo, quindi - non ultimi - dei suoi legami familiari e
sociali! Gratuità significa far sì che la persona umana sia posta al vertice di ogni scelta economica,
politica, sociale; comporta che nessun essere umano sia strumentalizzato ad altre logiche che non siano
la piena realizzazione, sua e dell’umanità intera! Una simile gratuità non può rimanere racchiusa
in alcuni ambiti dell’attività economica – quali ad esempio le associazioni, gli enti con finalità
mutualistica o cooperativa, i soggetti non profit in genere –, quasi potessero esistere altri campi in
cui l’unica regola è quella del massimo profitto o del massimo tornaconto individuale! Viceversa,
la gratuità è dimensione vera e necessaria dell’intero agire sociale ed economico, se intesa come
dimensione qualitativa delle relazioni, interpersonali e sociali.
La famiglia scuola di socialità: possibilità e minacce
Ma ecco un interrogativo ineludibile: la gratuità dove trova le sue sorgenti più vive e originali? La
risposta è: nella famiglia, che tramite il proprio lavoro si configura come luogo caratteristico in cui è
quotidianamente possibile apprendere il linguaggio della gratuità! La famiglia è il soggetto esemplare
in grado di praticare e di comunicare questo linguaggio all’intera vita sociale, economica e politica:
diviene così, prima e più che ogni altro soggetto, la scuola di socialità che educa alla gratuità tutti,
compreso chi domani avrà responsabilità in qualsiasi campo della vita sociale.
Per questo la famiglia deve essere intesa non solo come ambiente affettivo in cui si vive la
prossimità, ma anche come vero e proprio punto di partenza di una società rinnovata, capace di vivere la
gratuità nell’ambito di tutte le relazioni sociali!
Si deve tuttavia riconoscere che la piccola ma vera società quale è la famiglia, proprio nel lavoro –
come normale ma prezioso contributo allo sviluppo dell’intera vita sociale -, è sempre più minacciata.
Nel suo sorgere, anzitutto. Infatti, quando “l'incertezza circa le condizioni di lavoro, in conseguenza
dei processi di mobilità e di deregolamentazione, diviene endemica”, ci si trova conseguentemente
di fronte a “forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti
nell'esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio” (n. 25).
In tal senso la precarietà strutturale, in cui i giovani si trovano a vivere in molte parti del mondo,
costituisce di fatto una pesante ipoteca sul futuro delle famiglie e, di riflesso, della società. Il che
provoca un innegabile danno sotto il profilo economico, poichè la crisi demografica si traduce
anche in problema economico.
Così pure anche lungo l’intero arco di vita la famiglia si trova spesso minacciata e in profondità.
Come scrive il Papa: “L'estromissione dal lavoro per lungo tempo, oppure la dipendenza
prolungata dall'assistenza pubblica o privata, minano la libertà e la creatività della persona e i suoi
rapporti familiari e sociali con forti sofferenze sul piano psicologico e spirituale” (n.25). In questa
linea preoccupa gravemente la disoccupazione giovanile, che secondo l’Organizzazione
internazionale del lavoro, nel suo ultimo rapporto, risulta in crescita dell’80% nei Paesi sviluppati e
di due terzi nei Paesi emergenti: dati, questi, che interpellano con forza la società, in particolare chi
ha responsabilità politiche ed economiche.
39
Anche la povertà minaccia pesantemente la vita di molte famiglie della terra, con il risultato di una
grave violazione della dignità del lavoro umano. Pure lo sviluppo demografico non può essere
compromesso con il falso pretesto di considerarlo causa di povertà.
Infine, circa la prospettiva di fede secondo cui considerare il rapporto famiglia-lavoro, la Caritas in
veritate ci offre un contributo prezioso già con la sua impostazione profondamente antropologica e
superlativamente teologica. Del resto è la caritas il principio, il dinamismo, la forza, il fine, lo stile
dell’agire umano: e questo per ogni persona – singola o comunità – e in ogni ambito di vita, lavoro
compreso.
Elementi di “spiritualità” del lavoro ritroviamo poi nelle ripetute affermazioni sull’inscindibile
rapporto tra giustizia e carità.
Senza dimenticare la mirabile “conclusione” dell’enciclica: “Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le
mani alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore
pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci
viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con
consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione alla
vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in
Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di
rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace” (n.79).
3.
L’Ethos del Lavoro umano: una nuova Luce dalla vita di Nazareth
La prospettiva di fede circa il rapporto famiglia-lavoro racchiude anche una dimensione etica, ossia
un aspetto di grazia e di responsabilità di cui sono segnate, secondo il disegno di Dio e le esigenze
più profonde del cuore umano, le realtà della famiglia e del lavoro.
Ora l’ethos della famiglia in rapporto al lavoro si radica nel logos, ossia nella verità e nel senso che
Dio ha stampato nell’uomo e che questi è chiamato a conoscere e riconoscere alla luce della ragione e
della fede. È un ethos dinamico che sollecita l’uomo a ordinarsi liberamente e responsabilmente al telos,
ossia al destino, alla mèta di un compimento che è la gloria di Dio e la santità della persona umana.
L’ethos dunque non è freno né ostacolo, ma spinta a realizzare in modo sempre più pieno la vera
umanità della persona in se stessa e con gli altri. È sorgente di quelle virtù che custodiscono e
sviluppano i valori più alti di giustizia, solidarietà, gratuità, generosità in ogni ambito della vita, in
specie in quello della famiglia e del lavoro.
Sono due in particolare i momenti etici fondamentali nella relazione famiglia-lavoro. Il primo è quello
di favorire la “cultura” del lavoro, la conoscenza adeguata e il cordiale “riconoscimento” dei valori e
delle esigenze - dei diritti e dei doveri - implicati nel rapporto famiglia-lavoro. Il secondo è quello di
una concreta assunzione di libertà responsabile nel vivere le realtà della famiglia, del lavoro e della
loro reciproca implicazione.
Questi due momenti etici sono sfidati oggi da diverse forme di complessità e di fragilità che
coinvolgono, talvolta drammaticamente, la realtà della famiglia e del lavoro, specie nel loro
vicendevole rapporto. Per questo si rende sempre più urgente un grande rilancio della responsabilità
educativa: da parte della famiglia, della scuola, della società civile e della comunità cristiana. Come
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a dire che la prima questione posta dal lavoro oggi è quella culturale, quella cioè del suo vero “senso”
per la persona, la famiglia, le comunità, la società.
A questo ethos vorrei riservare alcune rapide riflessioni riprendendo lo sguardo rivolto a Cristo come
“figlio del falegname” nella sua vita a Nazareth: uno sguardo che s’inserisce nell’icona di questo
Incontro Mondiale delle Famiglie, uno sguardo che ci apre alla risposta vera e valida circa il posto e
il senso del lavoro nella nostra vita, in particolare nella vita di famiglia.
1.
La normalità del lavoro nella vita d'ogni giorno
È un Gesù “normale” quello che troviamo a Nazareth, un uomo comune a tutti gli altri. Ed
elemento essenziale per lui è il suo lavoro con Giuseppe. Gesù lavora con un uomo "giusto", umile,
nascosto, dedito alla sua famiglia. Lavora, giorno dopo giorno, per trent'anni: tanti e sempre
uguali! Qui la normalità coincide con la quotidianità, con quanto comporta di ripetitività, stanchezza,
fatica, sacrificio, impegno. E all'insegna del senso del dovere!
E che tipo di lavoro compie Gesù a Nazareth? Lavoro di falegname o fabbro che sia, è pur sempre
il suo un lavoro manuale. Ci insegna che ogni lavoro, anche quello manuale e il più umile e il più
stressante, ha dignità umana, in quanto rimanda alla persona coinvolta nel lavoro, in obbedienza
alla volontà originaria del Creatore.
Emergono subito non pochi interrogativi sulla "filosofia" del lavoro: qual è il giudizio che
comunemente viene dato sul lavoro? Conta di più il lavoro - cioè il tipo di lavoro - o la persona che
lavora? E allora non si devono forse denunciare discriminazioni inaccettabili, perché oltre i limiti
della giustizia, anche nell'ambito della retribuzione economica e delle pensioni? Certo, c'è una
giustizia "distributiva", ma, proprio perché "giustizia", ha dei limiti, oltrepassati i quali si trasforma
in un’ingiustizia scandalosa, che suona insulto alla povertà di tante persone e ancor più alla dignità
di quanti percepiscono retribuzioni evidentemente fuori misura. Questo vale nel campo privato e
soprattutto quando è in questione il danaro pubblico, di tutti e per tutti. Forse che il tempo, le forze
fisiche e psichiche, le responsabilità dell'ultimo lavoratore valgono di meno del tempo, delle forze
e delle responsabilità di un alto dirigente di finanzia o di industria o di governo o di partito o di
sport? Mi chiedo: le cosiddette leggi del mercato - che danno molto a qualcuno perché la sua attività
movimenta enormi capitali a beneficio di molti – non devono forse essere, loro stesse, regolate?
Regolate perchè il mercato sia per l'uomo e non l'uomo per il mercato!
2.
Il lavoro e la vita in famiglia
Gesù è al suo paese, a Nazareth. Ed è con Maria, la madre, e con Giuseppe, il padre putativo e
insieme il "maestro" di lavoro e, con gli anni, anche il "compagno" della fatica d'ogni giorno. Un
lavoro che si svolge in famiglia: anche questo è ricco d'insegnamento per noi. Infatti, il dato
"sociologico" del lavoro in famiglia, peraltro così modificato nell'esperienza storico-socialeculturale con il variare dei tempi, si pone pur sempre come dato "paradigmatico", in quanto fa
emergere la questione sempre attuale del rapporto lavoro-famiglia.
Questo rapporto può esprimersi con due interrogativi generali.
Il primo: senza lavoro, quale famiglia è possibile? In realtà, non c'è famiglia senza lavoro! Non è
possibile costituirla o - se costituita - non è possibile farla crescere nei valori e secondo le esigenze
ad essa peculiari. La questione non è solo economica, perchè il lavoro è inserimento attivo nel
41
tessuto della società, è partecipazione responsabile all’edificazione della città: se ne viene esclusa,
la famiglia è come mutilata, emarginata, deturpata da una ferita che può portarla a vergognarsi, a
nascondersi, a prediligere sentieri male illuminati e trascurare gli spazi aperti e luminosi in cui la
gente si incontra, intesse relazioni, entra in una vita di comunione.
S’inserisce qui anche il fenomeno delle migrazioni con i contraccolpi problematici o negativi, non
solo sulla famiglia migrante costretta a lasciare il proprio Paese, ma anche sul “lavoro
temporaneo” specie con l’attività di cura (badanti, colf, ecc.) di cui l’Europa è beneficiata grazie,
soprattutto, alla presenza di donne che provengono dalle Filippine, dal Sudamerica, dall’Est e che
hanno lasciato marito e figli pur di riuscire a guadagnare il necessario. E il costo sociale di tutto
questo può non interrogarci?
Il secondo interrogativo: senza famiglia, quale lavoro è possibile? Sì, non c'è lavoro senza famiglia!
L'esperienza infatti ci dice che la famiglia è il luogo educativo primario anche per il lavoro. Se manca
un’adeguata educazione al lavoro, viene ostacolata la necessaria maturazione dei figli, con il
rischio di non esporli al lavoro con le sue difficoltà e di spingerli comunque al lavoro, anche se non
corrisponde alle reali situazioni dei figli o non ne valorizza le capacità o viene scelto
esclusivamente per il reddito o la notorietà.
Altro obiettivo da raggiungere è una conciliazione, meglio un’armonizzazione, direi una alleanza
positiva, tra la vita di lavoro e la vita di famiglia: nei ritmi di tempo (oggi sempre più frenetici) e
nelle condizioni di vita e di lavoro (si pensi al prolungarsi delle percorrenze per recarsi sui luoghi
di lavoro). Urge allora trovare strumenti adeguati per migliorare il rapporto tra tempi della vita
familiare e tempi del lavoro. Una questione, questa, che investe soprattutto l’universo femminile, che
oggi porta il grosso del peso della cura dei figli: pensiamo ai contratti part-time, ai congedi
parentali e a tutte quelle forme che permettano una sana flessibilità a tutela del lavoratore e della
sua famiglia.
È evidente che il realizzarsi di una simile alleanza esige un'opera insieme formativa e politicosindacale: da un lato chi lavora deve essere educato a non "sacrificare" i valori più profondi della
vita familiare con un impegno lavorativo esclusivo e totalizzante, che non conosce né feste né
pause, che nega nei fatti ogni momento di riflessione, di vita familiare e di dono di sé; dall’altro
lato chi è impegnato nella politica e nel sindacato deve saper obbedire a logiche non solo di
"efficienza economica", ma anche di "efficacia umana", come la coltivazione di rapporti
interpersonali più significativi nell'ambito della famiglia e del più ampio tessuto sociale.
3.
Il lavoro al servizio del "villaggio" di Nazareth
Gesù svolge il suo lavoro nella casa di Nazareth, dunque in un villaggio, ma anche per il villaggio
e con tutta probabilità per altri villaggi ancora. Questo accenno ci rimanda alla dimensione sociale del
lavoro. Così lo spazio familiare si dilata e diviene spazio comunitario più vasto, mediante
l'ampliarsi dei rapporti interpersonali: parole queste di estrema semplicità ma che oggi assumono
proporzioni enormemente amplificate con il fenomeno della globalizzazione.
E qui sorge l'esigenza di fare dei luoghi di lavoro non solo uno spazio geografico o fisico nel quale
ci si trova, né un campo di rivendicazioni reciproche, anche se giuste, né un’area di dura
conflittualità, ma una comunità di persone: una comunità cioè dove le persone vengono non solo
rispettate nella loro dignità ma anche valorizzate nelle loro molteplici e diverse risorse e
potenzialità. È questa, com’è noto, la precisa prospettiva proposta dalla dottrina sociale della
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Chiesa; ma è questa anche un'esigenza umana, naturale e razionale, di cui sono oggi consapevoli le
stesse scienze economiche più moderne.
Oggi però la dimensione sociale presenta contenuti, caratteristiche e problematiche inedite, quali la
globalizzazione e i nuovi rapporti tra lavoro e lavoratore e tra gli stessi lavoratori. Ciò esige che la
sfida per la solidarietà e i diritti sia affrontata in un’ottica necessariamente globale: la vita e la salute – ad
esempio - di un operaio cinese valgono tanto quanto quelle di un italiano. Ed è evidente che
impegnarsi per il rispetto dei diritti di un lavoratore italiano non è in contrasto con l’impegno a
favore di “delocalizzazioni responsabili” delle nostre aziende al di fuori dei confini nazionali.
È necessario oggi vivere un più spiccato senso sociale e rilanciare con più forza il valore della solidarietà. Il
senso sociale chiede, anzitutto, che si coltivi una profonda parentela tra diritti e doveri, rivendicando
i primi e insieme assumendo responsabilmente i secondi. Quanto poi alla solidarietà, il rilancio
dovrà muoversi secondo centri concentrici: dall'interno della propria azienda (nei riguardi dei
compagni di lavoro, specie in momenti di disagio, di difficoltà, di crisi aziendali) al circuito delle
diverse aziende di una determinata città o territorio o settore e, infine, in rapporto al “sistema”Paese,
attraverso una vera e propria "politica del lavoro". Questa, in realtà è chiamata a fare della
solidarietà non un semplice e sia pur nobile sentimento etico, ma un principio originario e
strutturale della crescita globale e organica dell'economia di un Paese, e di questa nella più grande
economia del mondo, casa comune di tutta l'umanità.
4.
Gesù salvatore del mondo mediante il lavoro
La fede ci assicura che Gesù Cristo, crocifisso e risorto, è il salvatore del mondo, l'unico salvatore!
Ma questa stessa fede ci apre allo stupore, perché Gesù Cristo è l'unico e universale salvatore anche
mediante il suo lavoro quotidiano a Nazareth. È veramente sorprendente per noi sapere che il Salvatore
del mondo ha fatto sbocciare la salvezza proprio qui, al banco del falegname, tra le mura o nei
dintorni della piccola casa di Nazareth. Solo dopo trent'anni rivedremo il Signore altrove, cioè
sulle strade della Palestina e sulla Croce. Lo ripeto: ha fatto sbocciare la salvezza con il lavoro delle
sue mani: altrove ci sarà la parola che davanti a tutti annuncia la "lieta notizia", mentre qui tutto è
nascondimento e silenzio; altrove ci saranno i gesti miracolosi, mentre qui l'unico "miracolo" è
quello di un lavoro che fa "vivere": fa vivere chi lavora e gli altri ai quali il lavoro è destinato.
Sì, è la fatica umana di Cristo Salvatore che “redime” e "santifica" il lavoro, ed insieme lo rende
"santificante". E questo vale non solo per lui, ma anche per noi. È nuovamente la fede cristiana a
dirci che il nostro lavoro è una reale condivisione del lavoro stesso di Gesù Cristo. Per questo anche il nostro
lavoro, con la grazia del Signore Gesù, diventa luogo di salvezza e di santificazione per noi e per gli altri.
Di qui il doveroso interrogativo: abbiamo noi la consapevolezza della novità cristiana presente e operante
nel nostro lavoro? Crediamo veramente che è anche nel lavoro e attraverso il lavoro delle nostre
giornate che noi ci salviamo e ci santifichiamo?
In realtà, c'è una condizione indispensabile per avere limpida questa consapevolezza e salda
questa fede: è l'amore al silenzio del cuore e al colloquio della preghiera. A sua volta sarà questa
preghiera a sostenerci nel testimoniare la novità cristiana del lavoro dentro il nostro vissuto
quotidiano, che in gran parte è dato dal lavoro: una testimonianza dai lineamenti tipici della vita di
Nazareth, che è fatta di semplicità, normalità ed essenzialità; che non ricorre a nessuna "predica" e
a nessun "proselitismo"; che non ha bisogno di segni distintivi o speciali; che rifugge da tutto ciò
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che può urtare sensibilità diverse dalla nostra; che non scade in qualche forma di pietismo. Basta il
dovere, il dovere compiuto nel migliore dei modi!
Senza dire che la vita di grazia dei lavoratori - questa meravigliosa “inabitazione” di Dio, Trinità
santissima, nella nostra anima - rappresenta la più preziosa ricchezza spirituale che noi offriamo,
anche se a loro insaputa, ai nostri compagni di lavoro: e non solo a loro.
È questo il lievito evangelico, nascosto quanto efficace, che fermenta l'impasto dell'ambiente di
lavoro e che contribuisce al vero "bene comune" di cui ha grande bisogno la nostra società.
+ Dionigi card. Tettamanzi
Milano, 31 maggio 2012
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LA FAMIGLIA E IL LAVORO OGGI,
TRA OPPORTUNITA’ E PRECARIETA’
L'intervento di Pedro Morandè Court, professore di sociologia presso l'Università Cattolica del Cile
Il beato Giovanni Paolo II scrisse nella Centesimus Annus: “La prima e
fondamentale struttura a favore dell'«ecologia umana» è la famiglia, in
seno alla quale l'uomo riceve le prime e determinanti nozioni intorno alla
verità ed al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed essere amati e,
quindi, che cosa vuol dire in concreto essere una persona. Si intende qui la
famiglia fondata sul matrimonio, in cui il dono reciproco di sé da parte
dell'uomo e della donna crea un ambiente di vita nel quale il bambino può nascere e sviluppare le
sue potenzialità, diventare consapevole della sua dignità e prepararsi ad affrontare il suo unico ed
irripetibile destino” (n39). In queste frasi viene sintetizzato in modo eccezionale ciò che significa il
lavoro per la famiglia. Da una parte, certamente procurare il sostentamento materiale della vita,
senza il quale non può esserci sviluppo umano. Ma ancor più fondamentale è educare i figli nella
verità e nel bene, amarli in modo che possano scoprire la dignità con cui sono stati chiamati
all’esistenza dal Creatore, educarli alla conquista della loro libertà interiore per affrontare
umanamente il loro destino unico e irripetibile.
Tutta l’evidenza empirica, oggi, rispetto all’educazione e all’origine delle disuguaglianze sociali,
indica che l’educazione dei bambini nei primi anni di vita è decisiva per il loro sviluppo posteriore,
generandosi precisamente in questa fase dello sviluppo umano, la maggiore distanza sociale tra
chi ha ricevuto attenzione, accoglienza e stimoli emozionali nei confronti delle loro abilità
cognitive e chi non l’ha ricevuta. La scuola non è capace di correggere posteriormente ciò che i
genitori e la famiglia non hanno fatto a suo tempo. Per questo, la relazione tra famiglia e lavoro
non è estrinseca, ma intrinseca, non è un peso che la società impone alle persone e alle famiglie, ma
è piuttosto il risultato della dignità co-creatrice che ha voluto dare agli esseri umani il disegno
divino sulla creazione.
Il magistero sociale della Chiesa ci ha insegnato che tutta l’attività umana appartiene all’ambito del
lavoro. Non solo quella che viene remunerata dalla società, ma anche, quella che si offre
gratuitamente come un dono alle altre persone e alla comunità a cui si appartiene. Tutte le persone
lavorano sempre più di quanto siano retribuite economicamente. Se questo vale per tutti gli ambiti
della vita sociale, a maggior ragione si applica alla famiglia, che gratuitamente ci insegna molti
aspetti essenziali della vita, come per esempio, a controllare il nostro corpo, i suoi movimenti, il
suo ritmo. Ci insegna anche il sempre complesso linguaggio materno, con le differenze e
sottigliezze tra la fattualità degli eventi dell’attività umana e le ipotesi relative alla sua possibilità
passata e futura. In famiglia impariamo anche la moralità degli atti umani e ad assumere la
responsabilità rispetto alla dignità della nostra condotta sia in relazione a noi stessi che in relazione
al prossimo. In essa, impariamo a condividere anche la stima per la saggezza, per i beni spirituali
che abbiamo ricevuto come doni di chi ci ha preceduto nell’esistenza e, in special modo, il dono
della fede. Per tutto ciò, il magistero sociale della Chiesa ci ha insegnato che il lavoro non ha solo
una dimensione oggettiva in quanto produce beni commerciabili e intercambiabili, che
costruiscono il tessuto sociale, tanto a livello locale, come regionale e mondiale, ma anche una
dimensione soggettiva, non commerciabile, che costruisce la nostra propria persona e che stimola
la crescita della libertà per offrirsi agli altri, con rispetto e dignità.
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Il lavoro appartiene al dinamismo della libertà e della creatività umana per mezzo delle quali
trasformiamo il mondo per soddisfare le necessità delle persone. Senza questa soddisfazione non
potrebbe esserci una convivenza pacifica e giusta tra i popoli. Tuttavia questa soddisfazione dei
bisogni non si ottiene solamente attraverso l’acquisizione di beni di consumo commerciabili.
Certamente, per la la maggior parte delle persone, il lavoro remunerato è la principale fonte delle
loro entrate per sostenere se stessi e la propria famiglia. Ciò nonostante, il lavoro eccede la sua
retribuzione per l’amore con cui si realizza, per la libertà che si mette in gioco, per l’innovazione e
la creatività che propone. Il lavoro è la risposta effettiva che gli esseri umani danno al dono della
vita e a tutti gli altri doni che ricevono dai loro antenati, dai loro progenitori, dalle loro famiglie,
dai loro maestri. È un elemento essenziale della reciprocità dei vincoli sociali, a partire dai quali si
produce una convivenza pacifica tra le persone, si genera fiducia, desideri di cooperazione e aiuto
reciproco. In una parola, il lavoro aiuta le persone a scoprire la propria vita come vocazione, come
quella esortazione che ricevono dagli altri a sviluppare i loro talenti, le loro virtù, la pienezza della
loro libertà.
Queste considerazioni preliminari sono molto importanti per le novità che presenta il lavoro nella
nostra epoca. Vorrei menzionare, in primo luogo, che viviamo in una società che alcuni scienziati
sociali denominano “postindustriale” questo significa che dinamismo creatore dell’economia e
della società nel suo insieme si è trasferito dalla produzione su grande scala che le presone e le
macchine realizzavano nell’industria, alla conoscienza, all’innovazione tecnologica, alle
comunicazioni, al settore dei servizi. “Se un tempo il fattore decisivo della produzione era la terra e
più tardi il capitale, inteso come massa di macchinari e di beni strumentali, oggi il fattore decisivo è
sempre più l'uomo stesso, e cioè la sua capacità di conoscenza che viene in luce mediante il sapere
scientifico, la sua capacità di organizzazione solidale, la sua capacità di intuire e soddisfare il
bisogno dell'altro” dice la Centesimus annus (n 32).
Questa trasformazione ha cambiato molto profondamente le relazioni del lavoro e la sua relazione
con la famiglia. Anche se l’espressione non è completamente soddisfacente, la famiglia si è
trasformata in un fattore essenziale nella formazione del “capitale umano”. Già abbiamo
menzionato l’importanza dell’educazione nei primi anni dell’infanzia. A questa poi si aggiunge il
desiderio di sapere, di progredire, di servire gli altri e la società nel suo insieme. Le fonti della
conoscenza e dell’informazione sono sempre più a disposizione delle persone. Tuttavia il desiderio
di acquisire questo sapere, di farlo proprio, d’intraprendere a partire da questo, un lavoro creativo
al servizio del bene comune, dipende dalla libertà di ognuno e dalla perseverenza con cui si pratica
la autoformazione continua. Vale a dire, ha bisogno della comprensione della vita umana come
vocazione e questo può percepirsi solo nella comunione con le altre persone; ed è proprio la
famiglia la maggior e più frequente esperienza di comunione che sperimentano le persone.
Questi cambiamenti sociali rappresentano nuove opportunità per la famiglia e per la società, però
anche nuovi rischi che mettono in evidenza la sua precarietà.
Prima di fare un bilancio di questi ultimi, vorrei completare l’elenco dei nuovi avvenimenti, che è
necessario considerare. Dunque, il secondo fattore sociale determinante della nostra epoca è stato
l’inserimento della donna nel mercato del lavoro remunerato che è stato possibile nel contesto
sopra descritto, per il suo accesso previo all’educazione, inclusa l’educazione superiore.
Mi sembra che questa sia stata la rivoluzione sociale più importante del XX secolo. Si tratta di una
processo ancora in corso, con importanti ritardi nei paesi emergenti e nei paesi sottosviluppati,
dove mancano ancora grandi inversioni nell’ambito educativo. Con tutto ciò, sembra essere un
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processo irreversibile che ha cambiato sostanzialmete le relazioni del lavoro e anche il volto degli
spazi pubblici della società. All’inizio, si sono aperti timidamente posti di lavoro per lavori
tipicamente femminili. Invece nel suo decorso, l’incorporazione della donna al mercato del lavoro
comprende già tutti gli ambiti sociali, inclusi quelli che prima erano considerati tipicamente
maschili, come le miniere, le costruzioni, la ricerca scientifica, le forze armate, la polizia e molti
altri. Anche nell’esercizio del potere politico le donne hanno mostrato abilità e talenti che
permettono loro di competere vantaggiosamente con gli uomini.
L’ingresso della donna nel mondo del lavoro salariato non ha significato solamente un
riconoscimento del valore sociale della condizione femminile come tale, piuttosto ha significato
una profonda redifinizione dei ruoli sociali influendo sulla società nel suo insieme.
Innanzi tutto ha aiutato alla crescita economica potendo la società disporre di un maggior numero
di risorse umane qualificate e di maggior varietà di specializzazioni. La donna ha qualità naturali e
abilità sociali che non necessariamente devono competere con quelle maschili, quanto piuttosto
completarle. Le aziende, da parte loro, hanno dovuto organizzarsi e disporre di servizi che prima
non avevano. Le leggi sociali hanno dovuto riconoscere l’estensione per maternità per la donna, e
anche per la cura dei figli minori d’età quando si ammalano. Si sono dovuti creare asili nido nei
luoghi di lavoro secondo determinate condizioni, istituire il lavoro part time e aumentare la
flessibilità lavorativa. Giuridicamente si è dovuto riconoscere la capacità delle donne per
amministrare i beni e, nel caso delle donne sposate, per amministrarli con i rispettivi coniugi.
Per la famiglia un secondo stipendio ha significato il rafforzamento del suo potere d’acquisto e la
sua capacità di investire, che non sempre ha significato anche un maggior consumo, ma anche un
risparmio e inversione. La situazione di questo aspetto è molto distinta nelle differenti regioni del
mondo conformemente al grado di sviluppo sociale dei paesi. Ciò nonostante, in generale,
possiamo affermare che ha aiutato alla progressiva scomparsa del proletariato e all’incremento dei
ceti medi con aspettative di mobilità sociale ascendente. Le famiglie cominciano a spendere meno
in alimenti e di più in dotazioni per la casa, particolarmente di alta tecnologia, e anche in
automobili, in vacanze, viaggi e uso del tempo libero.
D’altra parte, però, le donne hanno dovuto assumere, almeno durante un periodo di transizione
che ancora non è terminato, il doppio lavoro della loro professione e dei lavori domestici. La
ridefinizione dei ruoli all’interno della famiglia non è stata semplice. Gli uomini hanno dovuto
assumere, almeno parzialmente, lavori domestici, occupandosi della cura e della salute dei figli e
della loro educazione. Abituati a essere gli unici sostenitori della famiglia, si sono dovuti abituare
all’idea che le loro coniugi possono avere entrate superiori ai propri o assumere incarichi di
leadership e di responsabilità di gerarchia superiore, e questo ha ferito, a volte, la loro auto stima.
Tuttavia forse, la cosa più importante, è che hanno dovuto accettare che le loro mogli sono
economicamente autosufficienti e che l’antica dipendenza dalla casa deve essere rieducata
accettando, riconoscendo e valorizzando la loro libertà di esercitare la propria professione o
mestiere e per realizzare il proprio progetto di vita.
Le opportunità introdotte nella famiglia da questa ridefinizioni dei ruoli ha una relazione
essenzialmente con la qualità della vita, non solo materiale, ma anche spirituale. Per le coppie
sposate ha significato un approfondimento della loro relazione di reciprocità e complementarietà,
comprendendo che i talenti di entrambi devono condividersi in una vita costruita quotidianamente
in comune. Per i padri ha significato anche un avvicinamento alla realtà dei figli, preoccupandosi
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della loro cura e della loro educazione: ciò ha sviluppato un vincolo emozionale normalmente
sconosciuto in precedenza.
Questi cambiamenti, però, hanno portato anche nuovi rischi che hanno mostrato la precarietà della
vita matrimoniale. In primo luogo, hanno fatto del matrimonio una relazione più personalizzata e,
quindi molto più esigente, con la conseguenza di una maggior frequenza di rotture matrimoniali
quando le relazioni sono immature e unilaterali. Se si produce una rottura della convivenza, nella
maggior parte dei casi la tutela dei figli è affidata alla madre, generando così in essi l’esperienza
del “padre assente”, che è diventata una vera cultura nella nostra epoca. I figli educati in assenza
di padre, a loro volta, rimangono infantili e immaturi, retro-alimentando il circolo delle rotture
matrimoniali, specialmente, in età giovane e con pochi anni di convivenza. Tutti i fattori
menzionati sono strettamente vincolati e si rafforzano tra sé, in modo tale che i matrimoni e le
famiglie dovranno imparare a controllare i rischi di rottura della convivenza accentuando la
donazione reciproca, la fiducia nella vocazione umana di ogni membro della famiglia, il rispetto
della dignità inalienabile di tuti i membri e la qualità spirituale della cultura che vanno forgiando
in comune.
Anche gli scienziati sociali hanno osservato altri rischi vincolati all’educazione di livello superiore
della donna e al suo inserimento nel mercato del lavoro, quali il rinvio dell’età in cui contrarre
matrimonio dopo aver terminato gli studi, il rinvio della nascita del primo figlio fino a che la
coppia si senta sicura della loro relazione, la formazione di famiglie piccole e la distanza tra le
nascite quando ci sono più figli. In termini estremi, questo può significare che la donna veda la
natalità prima come un problema che come una benedizione di Dio che dona la vita al matrimonio
e la pone sotto la sua cura per la sua crescita ed educazione. Forse però il rischio più importante
per il matrimonio e la famiglia è che i metodi anticoncezionali attualmente in uso, tanto preventivi
come i così chiamati di “metodi di emergenza”, lasciano la decisione della concezione
unilateralmente in mano alla donna se ella così decide, potendo questa situazione generare
sfiducia nei coniugi che disconoscono i procedimenti usati effettivamente dalle loro mogli. Questo
non si applica solamente nel caso di interruzione di una gravidanza, ma anche quando la si
desideri. Per esempio, nel caso delle madri adolescenti, la ricerca empirica più recente ha
dimostrato che queste madri desideravano tenere i figli per consolidare la loro situazione di vita
all’interno della loro famiglia d’origine, senza che importasse più di tanto chi fosse il padre il
quale, normalmente risulta essere un uomo maturo di età abbastanza superiore dell’adolescente.
Infine, nel caso del continente latinoamericano, si deve considerare l’alta proporzione dei figli nati
fuori del matrimonio. Anche se non si conoscono ancora tutti i fattori in gioco, questo si spiega, in
parte, grazie alla tradizione storica di una società nata originalmente dall’incrocio di razze, in
parte, dalla diminuzione dei matrimonio e dall’incremento del divorzio tra coloro che lo hanno
celebrato. La convivenza consensuale degli uomini e delle donne che non contraggono matrimonio
sta diventando una pratica abituale, specialmente tra i giovani e la società ha smesso di
considerare questa condotta negativamente piuttosto l’ha legittimata.
Come si può valutare, i rischi introdotti da questa nuova posizione della donna nella società
possono essere abbastanza gravi e frequenti, se si paragonano con quelli delle epoche passate.
Questa precarietà, però, dimostrata dalla vita coniugale e familiare non deve oscurare le enormi
opportunità aperte alla famiglia tanto nella gioia di un miglior standard di vita, di una educazione
più attenta e di un lavoro più creativo e produttivo che accresce la interdipendenza sociale, la
reciprocità e la collaborazione congiunta al bene comune. Affinché queste opportunità vengano
rafforzate, è indispensabile creare una cultura del lavoro attenta alle nuove caratteristiche dell’era
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“post industriale”. La semantica, a volte dominante, è erede ancora della condizione del lavoro
manuale dell’epoca dell’industrializzazione e dell’introduzione delle macchine, che enfatizza la
fatica del lavoro e la bassa remunerazione ottenuta in cambio. Di preferenza si associava questa
cultura al lavoro maschile. Queste condizioni sono tuttavia cambiate nell’attualità. Così come il
beato Giovanni Paolo II ha rinnovato profondamente la teologia del matrimonio e della famiglia
nell’interpretare l’ “immagine e la somiglianza di Dio” dell’essere umano, partendo dalla
complementarietà dell’uomo e della donna e del dono reciproco della loro umanità, così questo
principio teologico-antropologico dovrebbe estendersi all’ambito della cultura del lavoro, perché la
partecipazione congiunta dell’uomo e della donna nella formazione del “capitale umano”
avanzato, nel disegno e prestazione dei servizi alla persona e dei suoi bisogni, nella costruzione
dell’immagine delle organizzazioni e del buon clima lavorativo, risulta attualmente
indissociabile.
Alcune aziende hanno già cominciato a “interiorizzare” queste nuove condizioni e si sforzano di
creare condizioni di lavoro per la donna che rendano compatibile il suo doppio ruolo di lavoratrice
e di madre che ha la cura de i propri figli. C’è però, ancora tanto da fare, specialmente affinché le
società considerino come priorità i nuovi problemi pratici generati dall’inserimento della donna
nel mondo del lavoro remunerato. La possibilità del lavoro a distanza, favorito dalla
comunicazione elettronica, genera condizioni tecnologicamente sufficienti per risolvere alcune di
queste situazioni. Ciò nonostante, questo esige da parte dei lavoratori, uomini e donne,
un’amministrazione più razionale del tempo che si distribuisce tra casa e lavoro e attualmente
anche il tempo dedicato all’educazione continua e la costante attualizzazione che esige la velocità
dell’innovazione tecnologica. Anche se esiste una formazione di base del “capitale umano” che si
estende per tutta la vita, la conoscenza ha bisogno di un costante perfezionamento e
attualizzazione, esigendo a sua volta, tempo dedicato a questo compito. Alcune aziende realizzano
tutto ciò da sé stesse, ma in molti casi, affidano questo servizio a esterni e i lavoratori devono
raggiungere altri luoghi, a volte lontani, per fare formazione. Per le famiglie questo rappresenta,
senza dubbio, un sacrificio che i loro membri possono assumere felicemente se si è riusciti a
costruire un’esperienza di comunione sufficientemente forte da poter comprendere le necessità
generate dalle fonti di lavoro. Quando manca quest’esperienza, i membri della famiglia generano
sentimenti di risentimento e recriminazione reciproca che minano la convivenza, mettendola a
rischio di distruzione.
La situazione prima descritta può essere aggravata anche nei casi in cui esistano persone anziane
con malattie croniche o che non possono più auto gestirsi. Sappiamo che, almeno nel caso del
mondo occidentale, la popolazione sta invecchiando rapidamente. Naturalmente, ci sono
importanti differenze nel ritmo di questo invecchiamento a seconda dei paesi e delle regioni, ma il
processo di transizione demografica è di portata mondiale e, come ben sanno i demografi, c’è
bisogno di secoli per rinvertirlo. Tradizionalmente sono state le donne coloro che hanno assunto le
cure palliative degli anziani, sia che si trovino in casa sia in case specializzate che si dedicano alla
loro cura. Che sia in modo diretto o indiretto, però, queste cure palliative finiscono per influire
sulla famiglia completa, a causa delle risorse economiche impegnate, del tempo di dedizione e
dell’affetto e rispetto dovuto alle persone che soffrono questa situazione.
La crescita della speranza di vita al nascere, tanto negli uomini quanto nelle donne, anche se nel
caso di queste ultime raggiunga ancora più anni, pone una nuova sfida sociale rispetto al
mantenimento delle fonti del lavoro per gli adulti di maggiore etá. Negli ultimi anni abbiamo
assistito a discussioni, in quasi tutti i paesti rispetto all’etá del pensionamento e alla tensione tra
l’alta disoccupazione giovanile e il desiderio di rimanere più anni nel lavoro delle persone in
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buono stato di salute. Alcuni di questi adulti vivono soli e l’abbandono del lavoro non solo
diminuisce sostanzialmente le loro entrate, ma deteriora anche la loro autostima e si sentono in
situazione di abbandono. D’altra parte, non tutte le famiglie sono in condizioni di farsi carico
degli adulti, in una età in cui le spese mediche sono più costose crescono i premi delle
assicurazioni sulla salute. Manca ancora molta immaginazione sociale per generare impieghi
adeguati a queste persone, che tengano conto della loro esperienza e anche delle loro condizioni
particolari di gestione del tempo e di resistenza alla fatica. In sostanza, sarà senza dubbio uno dei
problemi sociali più acuti del nostro secolo quando l’effetto della transizione demografica si
completata. In diversi paesi si è cercata una soluzione nel turismo degli adulti degli anziani, però
sono molti quelli che non possono permettersi questo lusso e hanno bisogno di mantenere una
fonte d’ingresso tramite il lavoro. Se il lavoro realizzato è stato, inoltre, creativo e innovatore,
con un’alta componente della vita intellettuale, e se si è sperimentato come vocazione, risulta
indispensabile che la società faccia uno sforzo per mantenere la vita lavorativa nel contesto
dell’attuale speranza di vita, che supera di molto l’attuale età di pensionamento, ereditata dalle
condizioni del passato.
Dopo aver analizzato alcuni problemi sociali specifici che creano sfide particolari per la società e
le famiglie, vorrei fare un bilancio più globale sulle opportunità e precarietà che la nostra epoca
presenta alla famiglia e al lavoro. Durante il secolo XIX il lavoro è stato considerato essenzialmente
come “forza lavoro”, concetto che implica che tutti gli esseri umani sono relativamente
equivalenti sul piano lavorativo. Con l’introduzione della catena di montaggio, anche se ha
richiesto una maggiore specializzazione e dimestichezza, la direzione del processo di lavoro non
rimaneva nelle mani del lavoratore, ma era condotta dal ritmo della macchina. Questo è cambiato
completamente nell’era “post industriale”, in cui la catena di montaggio si è robottizzata
completamente e si chiede ora ai lavoratori di interagire con le macchine intelligenti e sviluppare
abilità molteplici, che non si limitino all’orizzonte cognitivo, ma che includano anche “abilità
sociali”, come la capacità di lavorare in team interdisciplinari, capacità d’iniziativa e leadership,
collaborare con la creazione di un buon clima lavorativo, pensare alla soddisfazione delle necessità
dei clienti, gestire data-base e generare informazione. Lo sguardo sul lavoro non si limita, di
conseguenza, a quello che succede all’interno della fabbrica, ma esige alzare lo sguardo verso la
sviluppo d’insieme della società, verso le sue richieste e bisogni. In poche parole, si richiede
disponibiltà costante verso i clienti e consumatori, competenza, efficienza e cortesia o amabilità
nella presentazione dei servizi che si sollecitano. Per questo si usa dire attualmente che il “capitale
umano” richiesto include anche “capitale sociale”, come capacità di lavorare in ampie reti di
collaborazione e “capitale culturale”, come la capacità di costante attualizzazione delle conoscenze
e di sviluppo delle più raffinate abilità personali che includono una più acuta percezione, un
miglior dominio del linguaggio, sia del proprio, come anche delle lingue straniere, una maggiore
tolleranza alla frustrazione quando non si raggiungono i risultati sperati e una maggiore
perseveranza per ricominciare il cammino. Per così dire, il lavoro si è fatto sempre più sociale. Se
prima si focalizzava verso l’appropriazione e domino della natura, l’ esigenza attuale dell’uomo è
l’aggregazione del valore ai prodotti del lavoro e ai servizi tanto per l’opportunità o per la qualità
delle relazioni sociali che rende possibili.
Questo spiega, in buona misura, perché il lavoro sia sparito, in un certo senso, dal vocabolario e
dalla semantica contemporanea, ad eccezione di quando sopravviene la disoccupazione. Il lavoro
coincide ora con l’attività umana stessa, qualsiasi essa sia, se è capace di aggregare valore alle
relazioni sociali. Si è separato anche dallo stesso concetto di necessità che si impiegava per la
razionalizzazione dell’attività economica durante il XIX secolo, dato che le società e le persone
producono e consumano ora molto di più di quello di cui hanno bisogno. Per qualcuno, il vincolo
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tra lavoro e aggregazione di valore conduce inesorabilmente al predominio di una mentalità
economicista. Effettivamente, può verificarsi questa distorsione. Non c’è nessun bisogno però, che
questo avvenga nel contesto della società attuale. Un buon esempio di questo è l’industria del
turismo, che è fiorita con i nuovi mezzi di trasporto e comunicazione e che definisce i prezzi sulla
base della qualità dell’attenzione alle persone. Potremmo anche menzionare l’industria
dell’educazione, la quale si è effettivamente industrializzata sul piano mondiale, che fissa i suoi
prezzi per la qualità delle risorse umane di cui dispone e per la qualità dei risultati ottenuti per chi
si sottomette ad essa. Il vincolo tra lavoro e aggregazione di valore non rimane limitata ai prodotti
di consumo, ma si estende ai beni spirituali della società, che si producono esclusivamente per la
cooperazione sociale e solidale tra le persone.
Penso che questo contesto sociale dell’evoluzione del lavoro rappresenti una grande opportunità
per la famiglia, dato che essa stessa è la gran formatrice delle persone, specialmente nella loro
prima infanzia. La scuola, l’università e i mezzi di comunicazione potranno offrire in seguito
conoscenze e informazioni, ma le attitudini verso la conoscenza e l’informazione, la curiosità
intellettuale, il lasciarsi provocare intellettualmente ed emozionalmente dalla realtà, la
commozione davanti a tutto quello che esiste, particolarmente verso gli altri esseri umani, sono
virtù che si alimentano della libertà interiore, che non è ne sarà mai un prodotto dell’industria, ma
che nasce dell’esperienza di comunione vissuta con altri e che comincia certamente nel seno della
famiglia. Anche nel caso delle famiglie distrutte a causa dell’infedeltà, dell’indifferenza o della
violenza è possibile trovare le orme originarie di una esperienza di comunione rotta. La
formazione della personalità e del carattere è intimamente legata alla coscienza del fatto che
solamente possiamo venire all’esistenza in virtù dei nostri progenitori e che essi, dei loro, in un
lungo e delicato filo ontogenetico che risale alla misteriosa origine della vita umana, fino al
Creatore. Questa coscienza non è solo né primariamente biologica, come di fatto è spiegato spesso
in modo unilaterale, ma prima di tutto antropologica e sociale. Nasciamo da una relazione tra
uomini e donne, nasciamo da una comunione, e prendiamo coscienza di essa abitando nel
linguaggio che ci hanno dato, che si sostiene, a sua volta, in questa misteriosa convivenza di
coloro che parlano questa lingua.
Che il lavoro sia identificato nell’attualità con tutta l’attività e comunicazione umana,
simultaneamente materiale e spirituale, mondana e trascendente, se essa crea l’aspettativa di
aggregazione di valore, mi sembra una grande conquista storica-evolutiva della realtà sociale, in
cui la famiglia ha un luogo di risalto. Sorge allora la domanda: perché avendo condizioni sociali
così favorevoli la famiglia si presenta come un’istituzione svalutata e, in alcuni contesti sociali,
come quello europea, come un’istituzione sulla soglia dell’estinzione? Una situazione come questa,
richiede, certamente, molteplici spiegazioni. Vorrei suggerirne alcune. In primo luogo, molte delle
funzioni che prima svolgeva la famiglia sono oggi realizzate da altre istituzioni, come per esempio,
il sistema scolastico, che accoglie i bambini molto presto per collocarli nella realtà sociale nella sua
complessità e multipolarità. Questo ha portato, in vari casi, a far sì che i genitori depositino i
proprio figli nel sistema scolastico, affinché facciano di essi quello che in casa non sono riusciti o
non hanno voluto realizzare. In secondo luogo, la comunione di persone nel seno della famiglia
non si considera un’esperienza spontanea e connaturale, ma sono entrate in competizione le reti
sociali e la comunicazione virtuale che ogni membro della famiglia, specialmente i più giovani,
abbiano le loro proprie reti di comunicazione che li valorizzano e legittimano nella società. Si dà il
caso di famiglie che coabitano nello stesso luogo e, non ostante, ogni membro costruisce la sua rete
di comunicazioni indipendentemente dal resto dei membri della famiglia. L’essere riuniti sotto lo
stesso tetto non significa più frequenza di interazione e compresenza nelle interazioni. In terzo
luogo, le nuove esigenze di individuazione e personalizzazione fanno sì che la famiglia debba
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sviluppare un intorno (contorno) culturale complesso e ricco in virtù e beni culturali che
difficilmente riesce a realizzare, e tuttavia, per esigenze del lavoro, il tempo dedicato alla famiglia
si concepisce solamente come tempo di riposo e ozio e non come l’occasione di un’esperienza
educativa per tutti i membri. Quando ciò accade, è facile ridurre la convivenza familiare
all’espressione di affetti reciproci, perdendo di vista l’orizzonte più esteso della vocazione umana
ad essere persona e a soddisfare tutte le esigenze di bene, verità e bellezza che si annidano nel
cuore umano.
La relazione tra famiglia e lavoro nell’attualità richiede, in base a tutto quanto abbiamo detto, un
nuovo orizzonte culturale. Non si tratta più di ottenere le entrate necessarie per la sopravvivenza e
lo sviluppo, sia attraverso il tradizionale padre provvidente o, oggi, delle varie entrate apportate
dai membri della famiglia, specialmente le donne che lavorano. Non è neanche sufficiente la
relazione emozionale di attaccamento e riconoscimento di appartenenza a un tessuto sociale
costruito quotidianamente dalla relazione quotidiana faccia a faccia dei diversi membri della
famiglia. Ancora più insufficiente risulta, tuttavia la ristrettezza demografica prodotta dalla
riduzione delle famiglie e dalla riduzione risultante dei vincoli di parentela. Così come la Chiesa,
nel Concilio Vaticano II, ha definito le famiglia come chiesa domestica, per indicare che in essa si
realizzava la profondità del senso della comunione ecclesiale, dal punto di vista sociale manca
definire la famiglia come il luogo della vita e del lavoro, della formazione del capitale umano
integrale che le persone offrono alla società per ottenere la convivenza pacifica e il bene comune di
tutte le persone. C’è bisogno che la famiglia apprezzi, come segnala Benedetto XVI, che “La carità
nella verità, di cui Gesù Cristo s'è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua
morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e
dell'umanità intera. L'amore — « caritas » — è una forza straordinaria, che spinge le persone a
impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace”(Caritas in veritate
n.1).
Ciononostante, a questa esortazione va incontro l’immensa disuguaglianza sociale tra le famiglie
che si è fatta più evidente nel contesto di una società organizzata sull’aggregazione del valore.
Quando si trattava di soddisfare i bisogni elementari delle persone nell’ambito dell’alimentazione,
la casa e l’abbigliamento, le differenze sociali avevano una misura più specifica e limitata.
Trattandosi però dell’aggregazione di valore, le differenze sociali si sono acutizzate, specialmente
per la mancanza di sviluppo del capitale umano nel seno della famiglia. Si tratta di un fenomeno
mondiale che non influisce solamente i paesi poveri e emergenti, ma anche le società più
sviluppate. Anche quando esistono politiche destinate a soddisfare l’uguaglianza delle
opportunità, praticamente in tutti i paesi, gli incentivi economici e monetari non si sono dimostrati
sufficienti per invertire la disuguaglianza. D’altra parte, i cambiamenti nella struttura demografica
delle società occidentali hanno posto severe restrizioni alla capacità degli Stati di assicurare il
benestare delle famiglie.
Certamente le nuove tecnologie delle comunicazioni aiutano a mettere a disposizione di molte
persone la conoscenza e l’informazione rilevante per il loro sviluppo. Il problema, però, nella
società attuale non è la scarsità di informazione, ma il suo eccesso, che implica procedimenti e
criteri di selezione che solo possono darsi in una persona educata con capacità di discernere e può
favorire lo sviluppo dei suoi talenti e della sua vocazione. Siamo in presenza di una vera
“emergenza educativa”, come l’ha chiamata il Papa, ed essa solo potrà risolversi con una rinnovata
solidarietà inter-generazionale tra le persone, che donano sapienza e esperienza ai più giovani per
aiutarli nella conquista della propria libertà interiore e nella scoperta della propria vita come
vocazione. Se questa è stata sempre la principale sfida del lavoro nel seno della famiglia, il contesto
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sociale odierno le conferisce una drammaticità e un’urgenza molto più accentuate. La “carità nella
verità” è il criterio ermeneutico che il magistero pontificio ci offre oggi per rinnovare la comunione
nel seno delle famiglie e per orientare il lavoro umano allo sviluppo integrale delle persone.
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LA FAMIGLIA E LA FESTA:
TRA ANTROPOLOGIA E FEDE
Blanca CASTILLA DE CORTÁZAR
Desidererei incominciare con quelle parole che il libro dei Proverbi mette
sulle labbra della Saggezza quando accompagna Jahvé
nella Creazione
dell’Universo: “Allora io stavo lavorando con lui come architetto ed ero la sua
delizia ogni giorno, dilettandomi davanti a lui in ogni istante; dilettandomi sul
globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo.” (Prov. 8,30-31).
Come si capisce, il Dio dell’Antico Testamento non è un Dio solitario, lo
accompagna la Saggezza, in cui la tradizione di Antiochia insieme con il resto della
tradizione orientale riconosce lo Spirito Santo come diverso dal Logos, mentre
invece la tradizione occidentale non la differenzia dal Verbo, in ogni caso si tratta di un’altra
Persona co-eterna.
Questo testo dei Proverbi permette di esprimere con parole umane qualcosa dell’intimità
dell’Amore di Dio, che intreccia lavoro e gioco, tenerezza, novità e sorpresa, così la Saggezza
lavora insieme a Lui nella Creazione – come appare nella Sistina, dipinta da Michelangelo –
facendogli compiacere, essendo la sua allegria ogni giorno un gioco per tutto il tempo con il globo
e con i figli di Adamo, che sono anche le sue delizie. Queste relazioni personali ricordano il modo
suggestivo e originale in cui Giovanni Paolo II parla dell’intimità divina, parole che ha ricordato
pure il Card. Ravasi: “Nel suo mistero più profondo, dice il Papa, Dio non è solitudine, ma una
famiglia, dal momento che ha in sé la paternità, la filiazione e l'essenza stessa della famiglia che è
amore. Questo amore, nella famiglia divina – afferma – è lo Spirito Santo”8
Da parte sua, il Messia che mangiava e beveva alle nozze come quella di Cana e accettava
con piacere di mangiare nelle case di coloro che lo invitavano – Zaccheo, Simone il Fariseo, Matteo,
Pietro ei suoi amici di Betania -, descrive in diverse occasioni il Regno dei Cieli come una casa di
Famiglia, la casa del Padre nella quale ci sono diverse dimore e nella quale si celebra una gran festa
con banchetti, dove si partecipa vestiti a festa e, in compagnia di famigliari e amici, condividendo
la buona tavola e il migliore dei vini.
In definitiva, l’incontrarsi e lo stare con i propri cari, il giocare e il gioire con loro, sono gli
ingredienti rivelati per parlare oggi della Famiglia e della festa, guardando alla Famiglia di
Nazareth che – definita da Gerson “trinità della terra” – è la migliore immagine dell’Intimità
divina.
I.
LA GIOIA DI FESTEGGIARE
È stato notato negli ultimi decenni, che l’uomo moderno ha guadagnato “il tempo libero”,
però ha perso il senso della festa. Alcuni romanzi (“Momo”) descrivono la fretta interiore ed
esteriore dell’uomo delle grandi città, intrappolato dallo stress, correndo sempre e guardando
l’orologio. Nessuno mai disponibile, con cui si possa parlare – sempre attaccato al cellulare – a
mala pena guarda ciò che lo circonda se non è per comprarlo. Imprigionato da questo modo di
vivere, l’essere umano solo trova vuoto, lavora - forse molto – ha tante cose da fare, però non sa
sognare, né godere, nè perché nè per chi lavora se non per sé stesso, corre però non sa verso dove e
se i suoi progetti falliscono il suo crollo è totale.
8
JUAN PABLO II, Homilía, 28-I-79.
54
Pensando alla Festa, mi sono ricordato la risposta di uno dei miei insegnati quando
ringraziandolo – terminati i miei studi – per quanto ero stata bene durante le sue lezioni, di come
avevo assaporato le cose che capivo, mi disse: “Signorina, è che conoscere è una festa.”
Festeggiare, quindi, è stare dove uno si sente bene, lì dove si condivide in abbondanza ciò
che piace a tutti. È una festa stare con il Papa, forse proprio per questo siamo qui. Sarà una Festa il
Cielo, per questo vogliamo essere salvati, e veniamo qui per imparare che pure la nostra famiglia
può essere una festa, più quotidiana e accessibile, che ci allieta i giorni e ci prepara per le grandi
feste che ci aspettano, come quella che vivremo – o stiamo vivendo – qui.
II.
PRESUPPOSTI ANTROPOLOGICI DELLA FAMIGLIA
Viviamo in un momento in cui sembra conveniente “ripensare” la famiglia per riscoprire
con nuove luci il dono di essere strutturalmente esseri famigliari, di essere parte di una genealogia
e di poter costruire ogni giorno la propria famiglia. Ricordiamo, allora, alcuni dei suoi fondamenti:
1. La Persona “un dono”, “capace di donare”
Ogni persona è un dono, in primo luogo per se stessa. È ovvio che nessuno decide di venire
al mondo, sebbene non sia vero che è gettato in essa. Dopo l’esistenzialismo una antropologia
realista riconosce che ciascun essere umano nasce e si fa ed è così tanto quello che riceve che
ciascuno è molto di più di quello che sa di sé stesso – “se conoscessi il dono di Dio”, diceva Gesù
alla Samaritana -, da allora non ha perso validità né difficoltà la millenaria leggenda del Tempio di
Delfi: “Conosci te stesso”9
La persona è un dono per sé stessa e un dono perché sia SUO. Quindi l’essere autoproprietaria della propria realtà sia una profonda e certa descrizione di quello che è essere una
persona (Zubiri) *. Questa auto-proprietaria porta al fatto che nessuno – tranne Dio -, ha diritti su
un’altra persona tranne nel caso in cui non sia essa a donarsi. Come nessuno ha “diritto” ad avere
un figlio, per esempio, perché il figlio pure è un dono per i genitori.
Ciascuna persona riceve e riceve molto: riceve dal Creatore il suo essere personale, che la
rende unica e irripetibile, i suoi genitori gli trasmettono la natura umana – corpo e mente -, con
l’eredità genetica, e al nascere prematuramente si delinea dal punto di vista culturale attraverso
l’attenzione dei famigliari, l’educazione e le possibilità al suo contorno, che pure gli sono date.
Tutte le possibilità vengono prima del proprio agire liberamente.
A differenza degli animali, l’essere umano è capace di avere. La natura umana, a differenza
degli altri esseri del Cosmo è capace di abitudini, e sebbene abbia proprie leggi non è
completamente programmata. Per questa ragione le loro strutture universali, come il bisogno di
cibo o riposo, o la capacità di parlare o di famiglia - come dice Levi Strauss, si sviluppano
culturalmente. Zubiri ha detto che l'uomo ha un'essenza aperta, molte delle sue qualità le
acquisisce per autodeterminazione, che si caratterizza per la capacità di AVERE. L'uomo ha nel suo
9
"Nosce te ipsum". “Conosci te stesso e conoscerai l’universo e gli dei.” (Traduzione latina della massima greca scritta
sul Tempio di Apollo (Delfi). Questa scritta, messa dai sette saggi sul frontespizio del tempio di Delfi, è un classico del
pensiero greco.
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corpo e nella sua mente, non solo vestiti e beni materiali, ma anche abilità fisiche, manuali,
atletiche, ecc., che diventano più profonde nella psiche, con le abitudini intellettuali e morali.
Ma c’è di più, in quanto PERSONA l’essere umano è capace di DARE (Polo) e di darsi. La
persona, essere libero e intelligente a radice, è fatta per amare liberamente - "perchè sí" dicono da
dove vengo io; per questo può DARE gratuitamente rendendo come proprio il bene di un altro.
2. La Persona “centro” e “incontro”
Questa capacità a DARE pone in evidenzia due dimensioni inseparabili, sebbene differenti
della struttura della sua intimità. Da un lato la persona, ciascuna, è un essere con valore in sé,
l'unico essere dell'universo, - dice il Concilio Vaticano II -, che Dio abbia amato per se stesso (GS,
22). In secondo luogo, la persona è un essere relazionale, aperto, non solo nella sua essenza,
abbiamo detto, ma nel suo stesso ESSERE, con una relazione di origine – la filiazione – e con una di
apertura ad essere sposa, che la costituiscono. Il Concilio esprime ciò affermando che "solo
raggiunge la sua pienezza nel dono sincero di sé agli altri" (GS, 22).
Lungo tutta la storia del pensiero, fino al XX secolo, la nozione di persona forgiata nel siglo
IV - ha dato vita a animati dibattiti accademici, ma ha avuto poco peso antropologico: basterebbe
ricordare che ogni teoria politica della modernità si basa sull'individuo, non si tratta della persona.
E essere un individuo non è esattamente la stessa cosa che essere una persona. Un individuo può
essere isolato e una persona è un essere strutturalmente relazionale.
Prendendo alcune preziose intuizioni, Kant sostiene che la persona è un Fine in sé, di
conseguenza mai deve essere trattata come un mezzo ma sempre come Fine. Ma essendo ogni
persona un Fine in sé, - e entriamo già nella seconda caratteristica della struttura personale che,
dall’altra parte, non implica una limitazione, - tuttavia non è un fine per sè; il fine di una persona
sta sempre in un'altra persona: alla quale va incontro o alla quale apre la porta. Questo perché la
persona è fatta per la donazione, per l’amore. Solo quando si vive per un altro è quando si
raggiunge la pienezza, che consiste esattamente nell'aver imparato ad amare.
Questo vivere per un altro non è un segno di limitazione, diceva, perché è parte
dell'immagine di Dio dal momento che anche le Persone divine vivono ciascuna per le altre due.
Certamente, una persona da sola sarebbe una disgrazia, come affermava Leonardo Polo, perché
non avrebbe con chi comunicare, a chi donarsi. Quindi la persona può essere descritta anche come
"incontro" (Rof Carvallo) con un'altra persona che si rende presente, che si può amare e da cui si
può essere corrisposti.
Tuttavia, né in Dio né nell’uomo, la persona è solo relazione. In Dio, la Teologia descrive la
persona divina come un rapporto sussistente, cioè una relazione con un valore in sé, sebbene la
caratteristica propria di una relazione sia quella di essere rivolta verso gli altri. Qualcosa di simile
si può dire della persona umana, perché la sua capacità di relazione è intrinsecamente legata al suo
essere, in cui si trova il suo "centro". L’Essere della persona non è un Essere a se stante, come
quello del Cosmo, ma un ESSERE-CON (Heidegger) o un ESSERE-PER (Levinas) o una coesistenza (Polo). L'apertura relazionale si trova nel fatto stesso di ESSERE persona.
E seppure ogni uomo nasce prematuramente, indifeso e dipendente in tutto, il processo
verso la maturità consiste nel raggiungimento dell'indipendenza a tutti i livelli: fisico, mentale,
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professionale, economico e sociale. Questa capacità di dare valore a se stesso, è la condizione per
poter vivere in maniera inter-dipendente (Covey), formando e costruendo la propria famiglia.
Potremmo riassumere, quindi, queste due dimensioni della persona come "centro" e
"incontro". Centro sussistente e relazionalmente aperto all'incontro con l'altro.
3. L’“unità dei due” e l’apertura al “tre”
La persona è figlio e, fosse anche solo per questo, già ha una struttura familiare nella sua
costituzione intrinseca. Ma essere persona ed essere famiglia è molto più di essere figlio (altrimenti
saremmo dei viziati). La persona, oltre a essere figlio ha anche una struttura coniugale - è un uomo
o una donna, e può amare come un padre o come una madre. Ed è ovvio che la famiglia, oltre che
il figlio ha bisogno di un padre e di una madre. La famiglia ha una struttura triangolare, composta
da relazioni costitutive in cui ciascuna persona si plasma rispetto alle altre due: quindi, non ci può
essere un figlio senza un padre e una madre, né una madre senza un padre e un figlio, né un padre
senza un figlio e una madre.
Tuttavia, le cose non sono così semplici, perché sia l'essere uomo sia l’essere donna viene
prima del loro essere padre o madre. Dall’altro lato, la famiglia è costituita in modo triadico in un
altro senso, così come lo descrive il cardinale Scola - pastore di questa diocesi -, che l’ha
rappresentata come "mistero nuziale", distinguendo tre momenti: 1. La differenza sessuale uomo donna, 2. L’Amore personale tra di loro, e 3. La fecondità.
La verità è che gli esseri umani sono creati a sua immagine e somiglianza di Dio. Racconta
la Genesi (1:26-27) che Dio creò l'uomo, li creò uomo e donna. È importante considerare questo
singolare e plurale allo stesso tempo, - lo creò, li creò - e da notare che nel plasmare a sua
immagine non fa l’uomo trio, come è Egli stesso nella sua intimità, ma come due. Due che in se
stessi si completano mutualmente diventando uno. Questa "unione dei due", accoglie la pluralità e
rispetta la differenza. È di più ognuna nella propria differenza è l'affermazione dell'altra. Lo dice il
libro dell’Ecclesiastico lodando le opere di Dio: "Io faccio le mie opere perfette. Tutte sono doppie,
una di fronte all'altra. Lui non ha fatto nulla di imperfetto. Una conferma la bontà dell’altra." (Eclo
42, 24-25) Questo stare faccia a faccia, come il testo ebraico della Genesi (2,18) afferma, significa tra
le altre cose che la condizione sessuata è espressa nel corpo, la mascolinità di per sé richiama la
femminilità e la femminilità di per sé fa riferimento alla mascolinità.
Dall'antropologia Julián Marías, un altro filosofo spagnolo, dice che la differenza tra uomo
e donna è relazionale, come ad esempio le mani, che trovandosi una di fronte all'altra si possono
legare come in un abbraccio.
Pertanto, nel creare l'essere umano, uno e plurale al tempo stesso si potrebbe dire che Dio
sta plasmando un’immagine della sua Unità plurale. Giovanni Paolo II ha messo in rilievo, al di là
delle celebri negazioni del passato *, che la pienezza dell’imago Dei non si trova tanto in ogni
persona isolata - uomo o donna -, ma nell’"unione dei due", nella comunione di persone che
vivono tra loro, in modo che questa "unione dei due" sia un’immagine dell'unità della trinità
divina.
La donazione disinteressata che forma parte dell’unione dal momento che è corrisposta
diventa reciprocità. Tuttavia, l'amore reciproco è possibile tra due persone, indipendentemente dal
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loro sesso, però, nell'amore e nell'unione tra un uomo e una donna c'è anche una complementarietà
particolare. Secondo la sua nuova antropologia, Papa Wojtyla dice nel 1995, dando una nuova
svolta a questo problema, che tra l'uomo e la donna ciò che è reciproco è la complementarietà,
allora "la donna è il completamento dell’uomo, come l’uomo è il completamento della donna:
uomo e donna sono tra loro complementari "(n.7). Continua indicando che questa
complementarietà non si riferisce solo all’ambito dell’AGIRE, ma soprattutto all'ESSERE,
concludendo uomo e donna "sono complementari non solo biologicamente e psicologicamente,
ma, soprattutto, dal punto di vista ontologico" essendo l'”Unione dei due” una "uni-dualità
relazionale complementare" (n.8).
Con queste espressioni, che richiedono uno sviluppo successivo, Karol Wojtyla sta dando
una forma filosofica a questioni che conosce bene come poeta. I poeti, infatti, indagano meglio di
chiunque altro l’essere e il suo significato. Un poeta spagnolo, scrittore di canzoni, descrive l'amore
tra l'uomo e la donna come qualcosa di intangibile e profondo tra TU e IO, come un luogo dove
sentire la voce, un perdonarmi TU e un comprenderti IO. Inoltre, e soprattutto, canta “all’unità dei
due”. Descrive l'Amore dicendo che è un frutto per DUE, un ombrello per DUE o una storia scritta
per DUE o creare un mondo tra i DUE (Buber). E in una canzone alla tentazione confessa: "Non c'è
menzogna in una cosa trasparente, bella e fragile come è l'amore. Non la chiami viltà. Ci sono cose
nella vita che sono solo per DUE, solo DUE. "
In ogni caso nemmeno il Due è sufficiente per essere famiglia. L'unità del due si esplica nel
tempo, aprendosi al "tre", vale a dire, alla fecondità, all’abbondanza. La mascolinità e la
femminilità, quando mettono insieme le loro risorse in un obiettivo comune, si potenziano e
insieme sono in grado di ottenere ciò che non possono fare ciascuno di essi separatamente.
Nell’arte, nello sport, nella cultura, nel lavoro, nella costruzione della storia, in famiglia.
È plastico e visivo, per esempio, nel pattinaggio artistico a coppie, che - oltre al fatto di fare
la stessa cosa in maniera sincronizzata -, quando ciascuno mette in campo la propria caratteristica
peculiare, lui la forza, lei la flessibilità, sono capaci di sorprendere con le loro possibilità.
La reciprocità e la complementarità insieme conferiscono una forza espansiva, capace di
novità come nel caso della vita. Ciascuna persona è il nuovo (Polo), qualcuno che prima non c’era e
ne tornerà ad avere qualcuno come lui, una nuova libertà che irrompe e potrebbe cambiare il corso
della storia (Arendt). Per cui bene, nella famiglia, i genitori - con l'aiuto di Dio, come riconosce Eva
quando ha il suo primo figlio * - sono procreatori, creatori della vita. La famiglia, che ha la sua
origine nell’unione dei due ed è in maniera costitutiva aperta AL TRE, ha la forza di irradiare
dall'interno, essendo culla e fonte di vita.
Questa feconda apertura al “tre” è narrata anche nel primo capitolo della Genesi quando
Dio, benedice i nostri progenitori, Adamo ed Eva, dicendo: "Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite
la terra e soggiogatela". Interessante notare in questo versetto che sappiamo a memoria, che Dio
affida ad entrambi un duplice compito comune: la famiglia e il dominio del mondo, creare e curare
la vita e costruire la storia. In questi due compiti, inseparabili, l'uomo e la donna sono coprotagonisti, sia nella sfera privata e sia in quella pubblica.
L'esperienza storica mostra che nel corso dei secoli quando è stato separato l’ambito
pubblico da quella privato, assegnandone uno a ciascuno dei sessi: "Public man, private woman”
riassume Elshtain, entrambi gli spazi risultano unilaterali e squilibrati. Nella famiglia è frequente
l'assenza del padre – “Fatherless America” si intitola un suo recente saggio, allorché l'ambiente
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lavorativo risulta eccessivamente competitivo e gerarchizzato, diceva il relatore Bruni, aspettando
il "genio" della donna – come avrebbe detto Karol Wojtyla -* per renderlo abitabile.
L'uomo e la donna sono due modi diversi di fare lo stesso, così l'attività umana in ogni
campo, in qualsiasi ambito, affinché risulti completa ha bisogno della collaborazione delle risorse
di entrambi, per questo sono così fecondi i gruppi dove lavorano insieme uomini e donne. D'altra
parte, sia la maternità che la paternità sono fondamentalmente un'attività dello spirito che ha ora
un compito in sospeso e necessario per costruire una "famiglia con un padre e una cultura con una
madre" *.
III.
ESPERIENZA DELLA FESTA
Passiamo ora a descrivere alcuni aspetti della Festa. In primo luogo, vivere la Fesra richiede
di sviluppare la forsa dello spirito – ristabilirla lì dove si è persa -, imparando a esercitare
l’intelligenza e la libertà nell’amore della verità e del bene.
1. L‘amore della verità e del bene
La Festa suppone l’esercizio dell’intelligenza nella sua dinamica della ricerca della verità.
“Conoscere è una festa”, diceva il mio professore. E richiede anche l’esercizio della libertà nel
raggiungimento del bene. Nell’errore e nella menzogna la festa dura poco. Se la festa non è vera,
ritorna odio, amarezza o rivalsa. Uno finisce per sentirsi male, sentendosi a disagio, invece di
godere e vivvere bene.
L’ambiente delle società opulente, con il loro eccesso di beni materiali provoca malattie –
obesità, diabete tipo 2, malattie cardiovascolari -, abitudini non sane – cattiva alimentazione,
sedentarietà,...-, e rende difficile il vero senso della Festa, fomentando la passività,
l’individualismo, consumismo, la noia, la tendenza al facile e ai piaceri con effetti collaterali. E’
indicativo che se si cercano in Internet informazioni sulla Festa la possibilità che offre, oltre al
ballo, è l’alcool nelle sua distinte varietà: birra, champagne, coktail, margarita, vino o vodka –
letteralmente -.
L’abbondanza, che è buona, i soldi, i beni materiali e la tecnica, strumenti per raggiungere il
fine, se si trasformano nel fine debilitano la persona, la corrompono. Se i bambini vedono
solamente molte ore di Tv, che è passiva e invade i sensi, frena la loro immaginazione, annulla la
loro creatività, fomenta la la sedentarietà e non poche volte ruba loro l’infanzia, impedendo loro di
spaventarsi con ammirazione davanti alla scoperta dell’origine della vita, imponendo loro
rozzamente una informazione decontestualizzata e a volte perversa.
La tecnologia, che suppone progresso, a secondo come si utilizza, - TV, cellulari,
videogiochi, computers, internet, chat, ...-, fomenta l’isolamento provocando, per esempio, che i
giovani abbiano poche conversazioni e che si generino dipendenze malsane.
La ricerca della verità, tuttavia, l’educazione del desiderio, la scelta dei beni più elevati
sebbene sia arduo conseguirli, richiede abitudini positive che diano forma alla capacità di bene e di
verità. Potremmo dire che non solo apprendere è una Festa ma che essere in Festa anche si
apprende.
59
2. Le emozioni della Festa.
In quel apprendimento, appaiono come in cascata sentimenti insospettati emozioni più
profonde – di altro livello, di altra generazione -, che i puramente psicosomatici, che ratificano e
incrementano a loro volta l’amore delle verità: è l’affettività che manifesta le possibilità del cuore
umano.
Va osservato, in primo luogo, la capacità dell’ammirazione, che ha le sue radici
nell’intelligenza e nella libertà, e che unisce verità e bellezza. Ammirare – l’arma dei poeti e dei
filosofi attenti alla realtà -, è il miglior modo di apprendere. L’ammirazione tra i sessi opposti, per
esempio, è il miglior antidoto al maschilismo e al femminismo egualitario che manipola il genere.
Ammirare la bellezza della Natura è una festa, e chiedere alle persone, contemplarle, porta
all’amore personale: un atto della volontà che si bea della verità dell’altro, che è la sua realtà
personale. La persona si ammira e si ama per se stessa.
Da parte sua, l’amore personale porta con sè la gioia. La gioia è più che un piacere, è un
affetto spirituale che non conosce l’edonista, il quale sente piacere a cui però risulta impossibile
godere nella contemplazione “di un bottiglione di birra”. La birra, in ogni caso, accompagna alla
gioia però in alcun modo ne è una causa.
La gioia che suppone l’amore verso una persona, che si ammira è accompagnata da un altro
sentimento positivo, sicuramente uno dei più importanti, che si sappia: il rispetto. Si rispetta
quando si vede dentro a ciascuna persona quello per cui è superiore a noi, quando si avverte non
solo quello che è ma anche quello che potrebbe essere. Questo risprtto genera fiducia.
Potremmo parlare anche di gratitudine di che riconosce di essere in debito per tutti i doni
ricevuti. L’attitudine alla gratitudine si manifesta nel rendere proprio quanto ricevuto, coltivere
questi talenti e farli corrispondere al ricevuto.
Infine, l’ammirazione, punto di partenza di tutte queste insospettate emozioni, si apre
all’esperienza più nobile dell’essere umano: l’adorazione – ammirazione che si dirige verso la
Verità, al bene più ammirabile -. L’adorazione viene ad essere, quindi. Il punto culminante della
Festa.
3. Tempo della Festa
Parte dell’emozione della Festa è desiderarla, aspettarla e prepararla. Diciamo che essere in
Festa si apprende, in altre parole la Festa non si improvvisa come non si improvvisa avere amici.
L’amicizia devi crearla, così la Festa, per la quale è imprescindibile l’incontro con l’altro. Lz
Quintàs, altro pensatore spagnolo, afferma che “dove c’è incontro c’è allegria e c’è festa”.
Una descrizione della creazione dei legamo personali la fa Saint-Exupéry nel sostanzioso
tra il Piccolo Principe, che viene sulla Terra a cercare amici e la solitaria volpe che anche li desidera
avere e chiede che la “addomestichi”: “ se mi addomestichi avremo bisogno l’uno dell’altro – gli
dice – . Sarai per me unico nel mondo. E io sarò per te unico nel mondo (...). Mi annoio un poco,
però se mi addomestichi, la mia vita si riempirà di sole. Conoscerò il runore dei tuoi passi che sarà
diverso da quello degli altri, chiamandomi fuori dalla tana, come una musica. Solo si conoscono le
cose che si addomesticano – chiarisce la volpe -. Gli uomini non hanno più il tempo di conoscere
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nulla. Comprano cose fatte dai mercanti. Però non esistono mercanti di amici. Se vuoi un amico,
addomesticami!”.
Quando il Piccolo Principe chiede istruzioni, la volpe gli dice di essere paziente facendo
riferimento al luogo ad al tempo. “Ti sentirai all’inizio un pò lontano da me (...). Ti guarderò do
sbieco e non dirai nulla (...) Però ogni giorno potrai sederti sempre più vicino (...).
Preparare la festa è fissare il luogo , la data e l’ora. Conoscere il momento e aspettarlo è
fonte di emozioni. E’ un ingrediente per creare legami che uniscono le persone che diventano parte
della nostra vita. Nel Piccolo Principe, si parla in questo senso della necessità dei riti per preparare
il cuore. I rirti fanno riferimento al tempo: “se vieni, per esempio, alle quattro del pomeriggio – gli
dice -, comincerò ad essere felice dalle tre. Quanto più avanza l’ora, più felice mi sentirò. Alle
quattro sarò agitato e inquieto; scoprirò il prezzo della felicità! Però se venissi a qualsiasi ora, mai
saprò a che ora preparare il mio cuore.... I riti sono necessari”.
“E cos’è un rito?”, domanda il Piccolo Principe. “E’ qualcosa troppo dimenticato – disse la
volpe -. E’ quello che rende un giorno differente dagli altri; un’ora dalle altre ore”. E racconta come
esempi: “Tra i cacciatori c’è un rito. Il giovedì ballano con le ragazze del popolo. Il giovedì è,
quindi, un giorno meraviglioso. Vado a passeggiare fino alla vigna. Se i cacciatori non ballassero in
un giorno fisso, tutti i giorni apparirebbero ed io non avrei vacanze”. (c. XXI).
La Festa è un momento, un giorno speciale. Prepararla suppone sforzo, che è ricompensato
dall’allegria gioiosa o serena, a seconda dei momenti che riempie il cuore di pace.
IV.
LA FAMIGLIA, LUOGO PER LA FESTA
Il focolare della famiglia è il luogo dove si nasce, dove si sta, dove si gioca, dove si torna, dove
si muore, però per andare alla Casa dove si vive e si ama per sempre. La famiglia trasmette l’aria
della famiglia, un modo di vivere, qualcosa intangibile che per essere atria – spirito -, si respira e si
impara senza rendersi conto.
Vorrei soffermarmi ora su alcuni modi di come vivere in famiglia, caratteristiche dell’Amore
descritte nel libro deo Proverbi: la Saggezza ha i suoi piaceri nello stare con i figli degli uomini e
gioca con l’orbe, sempre in presenza di Jhavè.
1. L’importanza dell’essere
Prima di tutto la Saggezza “è”, quello che mette in rilievo è che “l’incontro” con l’altro
necessita cura. E come il tempo sembra un bene scarso nell’agitato mondo nel quale viviamo, è
preciso delimitare momenti per l’incontro, tempo per stare insieme, tempo per la convivenza.
Condividere la tavola –almeno una volta al giorno-, è un momento importante che ha
benefici persino per la salute, in quanto i bambini apprendono a nutrirsi sanamente. La tavola e la
tovaglia permettono di cambiare impressione del giorno e conoscere uno dell’altro. In una pellicola
di Bruce Willis “Storia di noi” – racconto di una crisi matrimoniale e dell’iter fino al suo
superamento-, genitori e figli cenano insieme ogni giorno e ciascuno racconta – con più o meno
sincerità -, il meglio e il peggio della sua giornata condividendo così gioie e dolori.
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Essere suppone anche –ne abbianmo già parlato-, condividere i lavori domestrici, gli
incarichi, portare insieme il peso del focolare. Essere è cogliere le necessità reali di ciascuno per
risolverle o almeno accompagnarle. E parlando del tempo l’importante è la qualità più che la
quantità. Non è perchè si sta molto tempo vicini che ci si fa compagnia. Si può stare vicini, sebbene
fisicamente si sia lontani, se si sta pensando nell’altro e condividendo gli stessi interessi e sogni.
Se si sente il bisogno della quotidianità, nei giorno festivi è tempo di allargare la tavola e
stare insieme, non è sufficiente parlare, si può anche cantare. Provengo da una terra – i Paesi
Baschi -, dove la gente è famosa per il buon palato, per il cibo, il bere e la buona voce per cantare.
E’ certo che con l’allegria che il vino porta al cuore è tradizione lì cantare a tavola, sempre le stesse
canzoni. E questo lascia un riposo indimenticabile.
2. Condividere hobbies
Si rendono felice gli altri conoscendone i loro gusti, fomentando i loro hobbies, cercando per
ciascuno l’hobby più adeguato alle sue capacità o necessità (ricordo una madre che a un figlio
inquieto e rissoso, che aveva buon orecchio -, lo mise a suonare il clarinetto affinchè sfogasse lì le
sue energie restanti invece di litigare e picchiare i suoi fratelli. E un altro che era anche un pò
passivo fisicamente, lo incoraggiò a montare a cavallo per renderlo dinamico. Tuttavia, per rendere
più agile l’adolescenza ad un altro, decise di condividere con lui la musica e decisi di imparare
anche lei a suonare il piano).
Se unisci le forze, condividere le passioni è un buon modo di compenetrarsi e potersi aiutare
nei momenti duri della vita.
3. Giocare con gli altri e praticare il buon umore
Vicino alla Saggezza non c’è la noia, perchè il suo ingegno sorprende, fa ridere, rompe la
monotonia se ci fosse, al suo lato c’è felicità, diversione e riposo. La Saggezza diletta Dio e gli
uomini, sta bene tra loro perchè li vuole, tutti come sono. E tutti stanno bene vicino a Lei, perchè si
sanno conosciuti e voluti.
Prima di tutto la Saggezza sa giocare. Il gioco, come tutta l’attività ludica, è un’attività libera,
non necessaria, nella quale non si cerca nienete di più che star bene, però mediante esso si impara a
vivere, a relativizzare i successi e gli insuccessi, perchè nel gioco non si vince nè si perde niente di
vitale. Nel gioco ogni successo è incoraggiato e allo stesso tempo prematuro.
Essendoci molti modi di giocare, uno importante è raccontare favole ai piccoli, sebbene siano
sempre le stesse.
E insieme al gioco e al buon umore, quello di cui faceva grazia Tommaso Moro quando
chiedeva al Signore:
- Dammi una buona digestione e naturalmente qualcosa da digerire.
- Dammi un anima che non conosce tristezza, non permettere che prenda troppo sul serio
quella cosa tanto invadente che si chiama “io”.
- Dammi il senso dell’umore. Concedimi il dono di comprendere uno scherzo, di capire una
barzelletta per trarre un pò di felictà dalla vita e poterla regalare agli altri.
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V. LA FESTA, DOVE IL TEMPO SI UNISCE ALL’ETERNITA’
La Festa è un giorno speciale, diceva Saint Exupery, o forse ciò che fa di ogni giorno una
Festa. Però ci sono giorni speciali in cui uno si ferma a dedicarsi di più a quello che da senso agli
altri. Un giorno dove c’è posto per la contemplazione, l’adorazione, la gratitudine, come è la
Domenica che è prpriamente un “rito”.
Un giorno per andare a Messa, tempo nel quale si ferma il tempo per unirsi con l’eternità.
Milano ha esempi per illustrare il detto della mia terra: “La Festa si riconosce per la Messa e per la
Mensa”, come l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, famosa in tutto il mondo.
Tante grazie
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SANTIFICARE LA FESTA:
LA FAMIGLIA NEL GIORNO DEL SIGNORE
Card. S. O’Malley
Nel periodo in cui frequentavo il seminario, il nostro Provinciale, Padre Victor,
scrisse una lettera a Roma nella quale annunciava che la nostra missione in
Portorico stava fiorendo e che la nostra Provincia era pronta ad assumersi una
seconda missione e di volere la piu’ difficile missione del mondo. La risposta
arrivo’ alla velocita’ di un fulmine: ci venne comunicato che avremmo dovuto aprire una missione
nelle Terre Alte di Papua Nuova Guinea. Il Padre Guardiano, Fermin Schmidt, del Collegio dei
Cappuccini di Washington, divenne il primo vescovo ed alcuni frati lo raggiunsero fra cui tre dei
miei compagni di classe. Quando i nostri frati arrivarono in aereo, atterrando nel mezzo di un
campo, vennero immediatamente circondati dalla curiosita’ degli indigeni – che non avevano mai
visto un europeo o un aeroplano. La prima domanda rivolta loro fu se l’aeroplano era maschio o
femmina. Nel caso fosse femmina se era possibile avere un uovo.
Molti anni dopo, un giovane frate, che io avevo ordinato e che lavorava in Papua Nuova Guinea,
venne a visitarmi mentre trascorreva un periodo di riposo in patria. Aveva bellissime fotografie di
indigeni sorridenti, con ossi nel naso, piume nei capelli e poco altro indosso. Orgogliosamente il
frate annuncio’: “Questo e’ il mio consiglio parrocchiale.” Ne fui particolarmente colpito perche’
ero reduce da un incontro con uno dei miei parroci in cui mi era stato riferito che i parrocchiani
non erano pronti per un consiglio parrocchiale. Sono certo che se il Padre Provinciale mandasse
oggi la lettera a Roma chiedendo la missione piu’ difficile, la risposta sarebbe non Papua Nuova
Guinea, ma Stati Uniti D’America.
Pensiamo alla Giornata della Gioventu’, a Colonia, dove Papa Benedetto si e` rivolto ai Vescovi
tedeschi riuniti nel seminario parlando della sua terra natale, la Germania, come “terra di
missione”. La stessa cosa ugualmente accade in molti paesi dell’occidente dove il secolarismo e la
decristianizzazione stanno guadagnando terreno.
Dobbiamo trovare nuovi modi di annunciare il vangelo al mondo contemporaneo, proclamando
nuovamente Cristo e ponendo le basi della fede. Come ha detto Papa Benedetto: “Non siamo qui
solo per il ‘gregge esistente.’ Dobbiamo essere una chiesa missionaria.”
Il nostro compito e’ di trasformare “consumatori” in discepoli e maestri. Abbiamo bisogno di
formare uomini e donne che diano testimonianza di fede, non di programmi di protezione dei
testimoni. Come hanno scritto i vescovi americani nel documento Go Make Disciples (Andate e
formate discepoli): “Ogni cattolico puo’ essere un ministro di accoglienza, riconciliazione e
comprensione per coloro che hanno smesso di praticare la fede.”
Nel nuovo millennio, l’ordinaria amministrazione non e’ piu’ sufficiente. Dobbiamo diventare una
squadra di missionari, passando dalla semplice amministrazione alla missione. Dobbiamo
chiederci: “Cosa significa vivere in una cultura non-credente; una cultura che non e’nemmeno
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cosciente della propria incredulita’ perche’ ancora vive dei residui della civilta’ cristiana?” Come
Hauerwas ha ben espresso: “La chiesa esiste oggi come una straniera, una colonia di avventurosi
in una societa’miscredente. In quanto societa’ miscredente, la cultura occidentale e’ priva del senso
del cammino, dell’avventura perche’ le manca molto piu’ che la fiducia in un orizzonte sempre
piu’ ridotto all’autoconservazione e all’espressione di sé.”
Essere un fedele discepolo di Gesu’ Cristo nella Chiesa Cattolica e’ molto di piu’ che un viaggio
immaginario. E’un modo di vivere insieme; la persona intera e’ coinvolta nel processo.
L’educazione a questo cammino deve essere percio’esperienziale, personale, coinvolgente e
vivificante. Impariamo ad essere discepoli come impariamo una lingua, cioe’ facendo parte di una
comunita’ che parla quella lingua. I giovani cattolici devono essere guidati dalla fede di chi e’
intorno, coetanei o adulti cattolici che stanno facendo lo stesso cammino.
Il Terzo Comandamento
Quando ero vescovo nelle West Indies, sull’isola dove io vivevo, esisteva la piu’ antica sinagoga
dell’emisfero occidentale. Era stata costruita da ebrei sefarditi in quelle che allora erano le Indie
Occidentali danesi. Sono stato invitato dal rabbino a visitare la sinagoga. Era una bella costruzione,
tipica delle vecchie Indie Occidentali, con il pavimento di sabbia bianca. Nell’arca c’era un antico e
magnifico rotolo della Torah. Mentre camminavo nella sinagoga mi sono imbattuto in un libro di
preghiere che casualmente si apri’ su un’antica e bellissima preghiera ebraica che inizia con le
parole “Piu’ di quanto Israele abbia conservato il Sabato, il Sabato ha conservato Israele.” Sono
rimasto stupito e mi sono detto: lo stesso e’ vero per noi della Nuova Alleanza. Piu’ di quanto noi
abbiamo mantenuto l’obbligo della messa domenicale, essa ha mantenuto noi come popolo
focalizzato su Dio, unito agli altri, con un senso di missione.
Ho partecipato di recente ad una cena di beneficienza, cosa che i vescovi fanno abbastanza
regolarmente, e che contribuisce abbondantemente alla nostra circonferenza. In questa particolare
occasione, il preside di una delle scuole superiori cattoliche locali riceveva una onorificienza. Nel
suo discorso di accettazione ci disse: “Sono cresciuto in una famiglia dove andare a messa la
domenica era piu’ o meno un’opzione come il respirare.” La dichiarazione trovo’ immediatamente
riscontro fra i partecipanti perche’ credo che molti tra noi potessero identificarsi in quelle parole.
Non si trattava di una questione di genitori autoritari o di pressione sociale, era piuttosto la
convinzione di quanto importante fosse l’eucarestia domenicale per la nostra identita’ e la nostra
sopravvivenza. Nella sua prima apologia rivolta all’Imperatore Antonino e al Senato di Roma, San
Giustino descrive orgogliosamente la pratica cristiana dell’assemblea domenicale. Quando durante
la persecuzione di Diocleziano le assemblee eucaristiche erano bandite con il massimo rigore, molti
hanno trovato il coraggio di sfidare il decreto imperiale accettando di morire piuttosto che
rinunciare al banchetto eucaristico. Uno di questi cristiani coraggiosi ci ha lasciato una risposta che
e’ stata frequentemente citata. Fu chiesto ad Emerito, che aveva confessato che i cristiani si erano
riuniti in casa sua, perche’ avesse violato il comando dell’imperatore. Egli rispose: “Sine Dominico
non possumus.” In altre parole, “Non possiamo vivere senza domenica.” Perdere la messa e’ come
smettere di respirare, e’ la strada sicura per l’asfissia spirituale.
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Quando ero in seminario, ricordo di aver letto in un giornale un’intervista a Flannery O’Connor su
cosa significasse essere cattolici nel sud degli Stati Uniti. C’erano pochi cattolici a quel tempo in
quela zona, forse il tre per cento della popolazione, e c’erano molti pregiudizi contro di essi. In
questa intervista Flannery O’Connor parla della sua migliore amica che era una ragazzina battista.
Flannery la invitava spesso ad andare a messa con lei. Finalmente la ragazzina ebbe il permesso
dalla madre di accompagnare Flannery alla messa della domenica. Flannery non vedeva l’ora che
finisse la messa per poter chiedere all’amica: “Ti e’ piaciuta? ti e’ piaciuta?” Al che la ragazzina
rispose: “WOW. Voi cattolici avete veramente qualcosa di speciale. La predica era cosi’ noiosa, la
musica faceva schifo, il prete balbettava le preghiere in una lingua che nessuno poteva capire, e
tutta quella gente era li’!” Evidentemente non erano li’per divertirsi. Sono sicuro che la maggior
parte erano li’ perche’ “sine Dominico non potuerunt.” E perche’ Dio scrisse sulle tavole che diede
a Mose’: “Ricordati di santificare il giorno del Signore.”
L’Eucarestia
La verita’ e’ che la Chiesa Cattolica e’ sorta intorno all’Eucarestia. Cristo ci ha comandato: “Fate
questo in memoria di me.” E da allora l’abbiamo fatto: celebrando l’Eucarestia, cambiando il pane
e il vino nel Corpo e Sangue cosi’ che il Buon Pastore possa continuare a nutrire il suo gregge. Mi
ha fatto piacere che quest’anno la Giornata per le Missioni, abbia avuto, per caso, il Vangelo del
grande comandamento dell’amore. Temo che spesso, quando pensiamo alla carita’ cristiana,
pensiamo solo agli affamati, alla cura dei malati e anziani, al prendersi cura dei senza casa e dei
poveri. Ma se veramente amiamo il nostro vicino, allo stesso modo ci dovremmo preoccupare di
tutte quelle persone che sono spiritualmente senza una casa, spiritualmente affamate,
spiritualmente in carcere e spiritualmente malate. La Chiesa esiste per evangelizzare, per
annunciare la Buona Novella dell’amore di Dio e il desiderio di Dio che noi lo seguiamo come
parte del suo popolo. Essere discepoli non e’ mai un “volo in solitaria” ma piuttosto un’avventura
da vivere insieme. E al cuore di questa avventura c’e’ il banchetto eucaristico dove il Calvario e
l’Ultima Cena diventano parte delle nostre vite e della nostra storia.
Ero un giovane sacerdote quando il Kennedy Center fu inaugurato a Washington. Jackie Kennedy
invito’ Leonard Bernstein a comporre una messa per l’inaugurazione. (Era una messa suonata e
recitata dove il celebrante e’ il personaggio principale). Una scena in particolare fu motivo di molti
commenti in quei giorni. Ad un certo punto il clima nella rappresentazione diventa molto emotivo
e la crescente cacofonia dei cori interrompe l’elevazione del Corpo e del Sangue. Il celebrante, in
una rabbia furiosa, scaglia il calice sul pavimento.
Questa immagine della messa di Bernstein mi venne in mente quando stavo preparando un
discorso per un raduno dei nostri giovani nel North End perche’ uno dei testi che stavo usando era
il racconto del Vecchio Testamento quando Mose’ sale per la seconda volta sul Monte Sinai per
ricevere i Comandamenti. Stava salendo per la seconda volta perche’ quando era sceso dal monte
la prima volta e aveva trovato il popolo che adorava il vitello d’oro, Mose’ aveva scagliato le
Tavole al suolo e le aveva rotte. Capii che Bernstein, un ebreo, aveva inserito questa immagine
nella sua messa, e il celebrante, scagliando il calice al suolo era come Mose’ che scaglia le Tavole
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della Legge sul luogo dove il popolo di Dio sta adorando il vitello. Quando la gente non adora Dio,
comincia ad adorare il vitello d’oro; comincia a trovare falsi dei, quali il denaro, il potere, il piacere.
Se noi amiamo Dio con tutta la nostra mente, con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra forza, e’
impensabile che voltiamo le spalle al suo comandamento: “Ricordati di santificare le feste.”
In una societa’ cosi’ altamente individualistica, descritta nel libro del Prof. Putnam, Bowling Alone,
dove generazione dopo generazione gli americani trascorrono sempre piu’ tempo da soli,
mangiando da soli, vivendo soli, spendendo ore da soli di fronte alla televisione o al computer, in
questo clima sociale, noi dobbiamo comunicare che discepolanza significa essere parte della
famiglia di Gesu’, parte della comunita’. In una cultura che e’ assuefatta al divertimento, alcune
chiese cristiane si sono trasformate in centri di divertimento. Nell’Eucarestia abbiamo qualcosa di
ben piu’ importante del divertimento. Abbiamo l’amore portato agli estremi. Il nostro Dio ha fatto
dono di se’ stesso a noi quando ci invita a lavare i piedi gli uni degli altri e a donare la nostra vita a
Dio e agli altri.
Ci preme molto avere le migliori prediche e la miglior musica per la liturgia. Tutti vogliamo che la
messa sia celebrata con dignita’ e bellezza. Ci preme molto che la gente capisca il significato dei riti
e la ricca storia della nostra tradizione. Ma tutto questo non e’ sufficiente. Abbiamo bisogno di
insegnare alla gente come pregare, allora la messa avra’ senso. Allora cominceremo a penetrare il
mistero. Senza l’Eucarestia della Domenica noi perdiamo la nostra identita’.
Un metro per misurare il successo della nostra evangelizzazione e la formazione di nuove
generazioni di discepoli, deve essere la fedelta’ dei nostri parrocchiani all’Eucarestia domenicale.
Senza la forza che deriva dalla Parola di Dio, proclamata durante la messa, e la comunita’
derivante dall’Eucarestia e dalla testimonianza dei nostri fratelli e sorelle, e’difficile immaginare
come uno possa perseverare in una vita di discepolanza. La metafora della vite e dei tralci e’ molto
adatta. Un tralcio tagliato dalla vite non sopravvive molto a lungo. Ed e’cosi’ nel mondo odierno
dove i valori del Vangelo sono spesso respinti, dove la religione e’ trivializzata e l’essere
politicamente corretti prevale persino sulla supremazia della coscienza. In una societa’ del genere
solo quei cattolici che pregano e vanno a messa persevereranno nella loro vocazione quali
discepoli di Gesu’ nella Chiesa Cattolica.
Nell’imminente Anno della Fede ci auguriamo che le nostre parrocchie, cosi’ come altre comunita’
quali scuole e universita’, prendano seriamente in considerazione quale sia il modo migliore per
auitare coloro che si sono allontanati dall’Eucarestia domenicale.
Da giovane prete ho sempre sottolineato l’importanza del mangiare in famiglia. Guardo indietro
alla mia infanzia e ricordo come ogni sera ci ritrovavamo, noi bambini, i miei genitori e mia nonna,
che viveva con noi, per la cena serale. Era un momento di dare e ricevere. Ci si raccontava cose
tristi e allegre successe durante il giorno, si condividevano idee e aspirazioni, ma sprattutto si
condivideva l’un l’altro. La preghiera era sempre parte dell’equazione, rendere grazie prima di
mangiare e spesso il rosario dopo cena. Come bambino c’erano molti posti dove avrei preferito
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essere: all’aperto a giocare, visitare un amico, o qualsiasi altra cosa. E come si dice, il libro piu’
corto e’ il libro delle ricette irlandesi: fai bollire tutto e servi le patate di contorno. Tuttavia,
guardando indietro, capisco che quelle cene con il clan degli O’Malley e’ dove abbiamo imparato la
nostra identita’ e forgiato legami per la vita. Li’ abbiamo condiviso le nostre storie e le nostre storie
personali erano intessute dentro la storia che stavamo condividendo insieme.
Per la stessa ragione, la nostra celebrazione dell’Eucarestia, il sacrificio della Messa, e’, per noi
cattolici, un pasto familiare. E’ li’ che noi facciamo esperienza dell’amore di Dio e impariamo la
nostra identita’; chi siamo, perche’ siamo al mondo e che cosa fare della nostra vita. Non andare a
messa e’ come smettere di respirare, respirare la vita del Corpo di Cristo. Nel vangelo, Gesu’
racconta la parabola dell’uomo che manda i suoi servi a chiamare gli invitati al banchetto di nozze.
Non e` un compito facile; alcuni di loro vengono picchiati piuttosto rudemente. A volte dobbiamo
vincere la nostra vanita’ e il rispetto umano e trovare il coraggio di dire a un amico o un
conoscente: “Vuoi venire a messa con me domenica?” Credeteci o no, ci sono molte persone che
aspettano solo un invito e non ti colpiscono sulla testa con un corpo contundente se li inviti.
(Esempio Mark D.)
La grande verita’ e’ che l’Eucarestia e’ il centro della nostra vita in quanto cattolici. Tutti noi
dobbiamo fare di piu’ nelle nostre parrocchie e nelle nostre scuole affinche’ la gente si senta bene
accolta, invitata e sostenuta nella fede. Dobbiamo aiutare la nostra gente a scoprire il grande tesoro
dell’Eucarestia domenicale. Il nostro ideale e’ di rendere l’Eucarestia domenicale il nostro Sabato,
una grande scuola di carita’, giustizia e pace. Come leggiamo nell’enciclica Dies Domini: “La
presenza del Risorto in mezzo ai suoi si fa progetto di solidarietà, urgenza di rinnovamento
interiore, spinta a cambiare le strutture di peccato in cui i singoli, le comunità, talvolta i popoli
interi sono irretiti. Lungi dall'essere evasione, la domenica cristiana è piuttosto « profezia »
inscritta nel tempo, profezia che obbliga i credenti a seguire le orme di Colui che è venuto «per
annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la
vista; per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore.»
Sappiamo che alcuni hanno scelto di non andare piu’ in chiesa perche’ sono stati feriti dalle azioni
di qualcuno nella chiesa o per difficolta’ con l’insegnamento della Chiesa. Dal primo giorno come
Arcivescovo e forse per il resto della mia vita, ho chiesto sempre perdono a tutti coloro che sono
stati feriti dall’azione o dalla inerzia della gente e dai capi della chiesa. Non vogliamo che quelle
esperienze diventino motivo di separazione dall’amore di Cristo e dalla nostra famiglia cattolica, o
impedire ad alcuno di ricevere la grazia dei Sacramenti.
L’Eucarestia e la Famiglia
La celebrazione della messa, come la vita, ha dimensioni verticali e orizzontali. Questo affianca il
grande comandamento che ci chiede di amare Dio e il nostro prossimo come noi stessi.
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La vita cristiana e’ un pellegrinaggio che compiamo con i nostri fratelli e sorelle in Cristo. Gesu’ ha
dato l’esempio riunendo tutti gli Apostoli all’Ultima Cena invece di cenare sigolarmente con
ciascuno di loro. Dio ha previsto dall’eternita’ che saremmo stati collocati in una particolare
comunita’, in questo particolare momento e che la discepolanza fosse vissuta nell’amicizia e nella
fraternita’ con coloro per cui e con cui preghiamo ogni domenica a Messa. La nostra presenza uno
per l’altro e’ un simbolo della solidarieta’ e unita’ con Dio e con ciascuno di noi. E’ l’espressione
piu’ completa della nostra identita’ cristiana.
“Liturgia” significa “servizio da parte del/e in favore del popolo”. Il piu’ grande servizio che
possiamo fare ogni domenica e’ adorare Dio e pregare per e con la nostra famiglia parrocchiale.
Padre Patrick Peyton, il grande “Prete del Rosario”, ci istruisce dicendo che “La famiglia che prega
insieme, sta insieme.” Egli chiedeva di pregare il rosario in famiglia ogni giorno. Allo stesso modo,
io raccomando di partecipare e pregare alla messa domenicale insieme: questo rafforzera’ la vostra
famiglia e vi fara’ affrontare le molte sfide del nostro tempo che spesso la lacerano. Durante il
sacramento del Battesimo, ai genitori viene ricordato che essi sono chiamati ad essere i primi e
migliori maestri dei loro figli nella fede. Sapendo che la messa e’ la preghiera centrale del
cattolicesimo e che essa e’ la sorgente e il vertice della vita cristiana, quando partecipiamo alla
messa con loro, insegnamo ai nostra figli e nipoti una delle lezioni piu’ importanti.
La nostra fede: un patrimonio vivente per i nostri figli e nipoti
I bambini guardano sempre i loro genitori e i loro nonni. Noi formiamo i nostri giovani nel modo
in cui partecipiamo alla messa. I bambini che vedono i loro genitori arrivare in chiesa prima
dell’inizio della messa per pregare , vorranno imitarli. I bambini che osservano i genitori e altri
adulti ricevere l’Eucarestia con reverenza, realizzeranno piu’ facilmente che l’Eucarestia e’
veramente il Corpo e Sangue di Cristo. L’esempio dei genitori e’ una parte essenziale della
preparazione per ricevere la Prima Comunione. I bambini che sentono dai loro genitori quanto e
perche’ essi amano la messa saranno meno portati a paragonare la messa con la televisione e
considerarla “noiosa”.
Un grande tributo durante una liturgia funebre e’ quando si descrive il defunto come qualcuno che
non ha mai perso la messa domenicale e aveva un grande desiderio di ricevere l’Eucarestia ed
essere parte della famiglia parrocchiale. Durante la mia adolescenza, la mia e altre famiglie della
parrocchia andavano insieme a confessarsi il sabato e alla messa la domenica mattina. Dopo la
messa, le famiglie allargate si trovavano insieme per un grande pranzo domenicale e per un po’ di
relax. La celebrazione della domenica, il Giorno del Signore, era un’eredita’ tramandata di
generazione in generazione. Era il tempo per costruire la famiglia di Cristo, la Chiesa, come pure la
nostra famiglia.
Oggi il ritmo della vita si e’ accelerato. La tecnologia permette al lavoro e altre responsiabilita’ di
intromettersi nel tempo familiare. Sport giovanili, che un tempo si svolgevano in una preciso
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periodo dell’anno e non prevedevano nessuna gara di domenica, ora sono attivita’ che durano
tutto l’anno, con giochi che cominciano fin dalle 7 del mattino della domenica.
Veramente molte famiglie hanno un calendario piu’ pieno, piu’ febbrile di domenica che durante i
giorni della settimana perche’ la domenica e’ diventata semplicemente parte di un fine settimana.
Il Beato Papa Giovanni Paolo II ha scritto nella sua lettera pastorale sul Giorno del Signore: “La
pratica del «week-end», inteso come tempo settimanale di sollievo, da trascorrere magari lontano
dalla dimora abituale, e’ spesso caratterizzato dalla partecipazione ad attività culturali, politiche,
sportive, il cui svolgimento coincide in genere proprio coi giorni festivi. Si tratta di un fenomeno
sociale e culturale che non manca certo di elementi positivi nella misura in cui può contribuire, nel
rispetto di valori autentici, allo sviluppo umano e al progresso della vita sociale nel suo insieme.
Esso risponde non solo alla necessità del riposo, ma anche all'esigenza di «far festa» che è insita
nell'essere umano. Purtroppo, quando la domenica perde il significato originario e si riduce a puro
«fine settimana», può capitare che l'uomo rimanga chiuso in un orizzonte tanto ristretto che non
gli consente più di vedere il «cielo». Allora, per quanto vestito a festa, diventa intimamente
incapace di «far festa». Ai discepoli di Cristo è comunque chiesto di non confondere la
celebrazione della domenica, che dev'essere una vera santificazione del giorno del Signore, col
«fine settimana», inteso fondamentalmente come tempo di semplice riposo o di evasione.”
Sant’Ignazio chiama i cristiani, gente che “vive secondo il Giorno del Signore” perche’ si
riuniscono nel primo giorno della settimana, dopo il sabato ebraico, a celebrate la resurrezione di
Cristo. Le loro vite sono rinnovate da questa sacra adorazione. Come Papa Benedetto dice: “La
domenica non e’ solo una sospensione dalle attivita’ ordinarie, ma un tempo in cui i cristiani
scoprono la forma eucaristica che la loro vita e’ chiamata ad avere.” Il modo con cui celebriamo la
domenica determinera’ il modo con cui vivremo il resto della settimana ed e’ il marchio
dell’identita’ cristiana di generazione in generazione.
L’Eucarestia non e’ solamente qualcosa di simbolico. Gesu’ dice: “Io sono il pane disceso dal cielo;
chi mangia di questo pane vivra’ in eterno; ...chi mangia il mio pane a beve il mio sangue avra’la
vita eterna e... abitera’ in me e io in lui.” Udendo queste parole molti discepoli abbandonarono
Gesu’, ma egli non li chiamo’ indietro dicendo “stavo scherzando” o “sono delle espressioni
figurative.” Invece chiede agli apostoli se anche loro vogliono andarsene. San Pietro risponde a
nome di tutti i discepoli fedeli: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna.” Le grazie e
le intuizioni che Dio dona in ogni celebrazione della messa ci aiutano a vivere una vita piu’ felice,
una vita piu’santa. Mentre ci prepariamo per la messa, abbiamo l’opportunita’ di pregare con
confidenza che Cristo ci doni la grazia santificante. Quando arriviamo, possiamo chiedere a Dio di
parlarci attraverso le letture, la musica, l’omelia e le preghiere e di mostrarci il modo con cui
crescere per diventare di piu’ la persona che Dio aveva in mente quando ci ha creato. Una volta
raggiunta quell’intuizione, possiamo pregare per il restante della messa chiedendo la grazia di
metterla in pratica nel corso della settimana.
L’Eucarestia ci da’ la forza di affrontare le sfide della vita e di essere consapevoli dell’amore di Dio
per noi. Ogni domenica e’ una “piccola Pasqua” perche’ ribadisce la resurrezione, la vittoria di
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Gesu’ sulla morte. Questa e’ la vittoria piu’ significativa nella storia del mondo perche’ apre la
posssibilita’ della vita eterna.
Pensiamo per un momento al fatto che Dio ha amato ognuno di noi cosi’ tanto che si e’ incarnato un essere umano – cosi’ che ha subito la morte sulla croce come sacrificio per i nostri peccati. Il
nostro Dio ha fatto questo perche’ ha voluto che noi vivessimo con lui eternamente in cielo. La sua
vittoria, attraverso il suo amore, e’ destinata a diventare anche la nostra vittoria.
Negli ultimi dieci anni, i tifosi di Boston hanno avuto la buona sorte di celebrare la vittoria di molti
campionati. Le parate per le vittorie sono stati delle adunate incredibili. Nessun tifoso americano
puo’ negare che Boston sappia come celebrare una vittoria. Non sarebbe bellissimo se si potesse
dire lo stesso di noi per il modo con cui celebriamo la piu’ grande vittoria, la vittoria di Gesu’ sulla
morte?
Voi siete i primi maestri della fede per i vostri figli. La vostra piu’ profonda eredita’ nella vita sara’
di aiutare i vostri figli a conoscere Dio e, con la Sua grazia, andare in paradiso. Non e’ mai troppo
tardi per rendere questo una priorita’ e chiedere l’aiuto di Dio. Il vostro esempio di fedelta’ alla
messa domenicale, la preghiera e la moralita’ parlano piu’ eloquentemente dell’omelia di qualsiasi
sacerdote. Quando dei bambini vedono che i genitori amano la messa domenicale anche loro
crescerano amandola. Troppo spesso i genitori “vanno a messa per i bambini” e i bambini vanno
perche’ “il papa’ e la mamma mi portano”. Esprimete ai vostri figli il vostro amore per Gesu’; la
ragione per cui partecipate alla messa domenicale come famiglia e la ragione della loro istruzione
nella fede a scuola o al catechismo e’ uno dei doni piu’ importanti che potete fare loro. Vi chiedo di
vivere la domenica come Il Giorno del Signore, un giorno che include la Santa Messa, l’istruzione
religiosa, attivita’ ricreative, la mensa famigliare, letture spirituali e opere di carita’.
Vi raccomando di avere un ruolo atttivo nell’insegnamento della cetechesi per i vostri figli. E’ una
grande occasione per manifestare la vostra fede e raccontare episodi di come i vostri genitori,
membri della famiglia e amici vi hanno trasmesso la fede. Ai bambini piacciono i racconti e queste
conversazioni possono essere parte della tradizione trasmessa alla prossima generazione.
Introduceteli alla vita dei santi. In un tempo in cui la societa’ eleva velocemente uomini di
spettacolo e campioni sportivi allo stato di “eroi”, farete un grande favore ai vostri figli
condividendo con loro le storie di coloro che sono entrati nell’”eterno albo d’oro”. Rendete la
preghiera parte naturale e regolare della vita famigliare. Pregate prima di andare a dormire, prima
dei pasti e in situazioni difficili, per una malattia o per problemi famigliari. Chiedete ai vostri figli
di pregare per voi, spiegate loro che Dio ama la preghiera dei bambini in modo speciale.
L’educatore cattolico Jim Stenson, scrive che i bambini spesso hanno la percezione di non poter
contribuire con grandi cose nella vita della famiglia, ma posssono imparare che le loro preghiere
sono potenti davanti a Dio. Quando i vostri figli vedono che voi vivete la fede gioiosamente
imparano un’importante lezione per la vita: che la preghiera e’ parte della vita adulta.
Mostrate ai vostri figli, con il vostro esempio, il bisogno della misericordia di Dio, del perdono e
dell’amore nel sacramento della penitenza. L’amore di Dio supera qualsiasi peccato abbiamo
commesso. La confessione ci da’ la possibilita’ di premere il pulsante ed “azzerare” il conto nel
nostro rapporto con Dio. E’ un sacramento particolarmente utile per gli adolescenti che
attraversano anni molto difficili. Quando gli adolescenti vedono la confessione come un gesto
normale per genitori e compagni, diventa un passo normale e utile nelle loro vite.
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Vorrei aggiungere una breve nota per i papa’. Studi di ricerca indicano che i bambini praticano la
loro fede piu’ regolarmente quando vedono che il papa’ e la mamma la praticano insieme. Questi
stessi studi indicano anche che e’ la pratica di fede del papa’ che aiuta di piu’ sia i ragazzi che le
ragazze nel vedere la pratica della fede come un’attivita’ importante per gli adulti. Percio’, in
modo particolare, chiedo a tutti i papa’ di essere fortemente impegnati nella formazione della fede
e di prendere in considerazione di offrirsi come catechisti nei programmi di educazione religiosa.
So bene che la fedelta’ alla visione della Chiesa sulla famiglia e’ difficile, particolarmente nella
nostra cultura sempre piu’ secolarizzata. Voi e le vostre famiglie potete offrire alla societa’ una
testimonianza potente del primato di Dio nella vostra vita. Gesu’ non ha promesso che le Sue vie
sarebbero facili, ma ha promesso che avrebbe supplito della grazia necessaria per vivere la vostra
vocazione. Domando a voi, padri e madri di giovani famiglie, di imitare Giosue’ e il popolo di
Israele quando alla domanda se essi avrebbero servito il Signore o gli dei pagani, risposero: “...ma
per me e la mia casa serviremo il Signore.”.
L’Eucaristia ci prepara alla missione
Per noi, ogni domenica e’ il Giorno della Resurrezione. In quella prima Pasqua, Gesu’ apparve a
due discepoli sulla strada per Emmaus. I discepoli erano confusi, feriti, pieni di paura e di dubbi.
Cercavano di capire cosa pensare della morte di Gesu’ e della tomba vuota. Parlavano di questi
sviluppi con Gesu’ che loro non riconoscevano. Una volta raggiunto il villaggio hanno chiesto a
Gesu’ di rimanere con loro. San Luca dice che quando arrivarono a Emmaus Gesu’ fece cenno di
voler continuare il suo viaggio. Fu solo l’insistente invito dei due discepoli che porto’ Gesu’ al loro
tavolo. Penso che questo sia un dettaglio importante di questo vangelo. Il Signore non si impone a
noi; gli piace essere invitato nella nostre vite. Quando si sedettero per la cena, Gesu’ prese il pane,
lo benedisse, lo spezzo’ e comincio’ a distribuirlo. A quel punto i discepoli riconobbero Gesu’.
Improvvisamente Gesu’ sparisce, ma il pane resta. Allora i discepoli immediatamente ritornano a
Gerusalemme per dire agli apostoli che Gesu’ e’ veramente risorto ed e’ apparso loro.
Anche noi viviamo in un tempo in cui la gente e’ confusa, ferita e piena di paura. Gesu’ vuole
incontrarci nello stesso modo con cui ha incontrato i discepoli sulla via di Emmaus. Come loro, noi
riconosceremo Gesu’ e lo incontreremo piu’ profondamente nello spezzare del pane alla Messa.
L’Eucarestia e’ il compimento della promessa di Gesu’ di essere con noi fino alla fine del tempo.
Prego perche’ il nostro amore per la Messa e lo stupore per l’Eucarestia aumentino cosi’ che i nostri
cuori ardano in noi quando ascoltiamo la proclamazione delle Sacre Scritture e osserviamo lo
spezzare del pane. Facciamo quello che i due discepoli sulla via di Emmaus hanno fatto.
Affrettiamoci a dire al mondo che Cristo e’ vivo e che la nostra famiglia deve radunarsi alla tavola
del Signore per fare esperienza dell’amore di Dio, per imparare la nostra identita’ e per compiere
la nostra missione insieme, per dire al mondo: “Abbiamo visto il Signore e lo abbiamo riconosciuto
allo spezzare del pane.”
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SINTESI DEL CONGRESSO TEOLOGICO PASTORALE
“La famiglia: il lavoro e la festa”
card. Ennio Antonelli
Pontificio Consiglio per la Famiglia
1. Ringraziamento.
Grazie di cuore agli organizzatori, ai vari operatori, ai volontari (gentilissimi) ai
partecipanti, ai relatori, a coloro che hanno portato la loro testimonianza. Il Signore
benedica e renda fruttuoso il vostro impegno e il vostro contributo. Benedica voi e
le vostre famiglie.
Il Congresso presenta un panorama vastissimo: tre sessioni plenarie, venticinque tra incontri,
tavole rotonde e comunicazioni, ben centoquattro relatori. Mi limito a raccogliere e sottolineare
alcuni elementi che mi sembrano particolarmente significativi. Non intendo parlare a nome del
Congresso; ma a titolo personale, come un osservatore che ha cercato di essere attento.
2. Il Metodo.
Il Congresso mette insieme riflessioni di carattere dottrinale, testimonianze su esperienze concrete,
studio di dati sociologici empirici. Interpella con le idee e con i fatti. Indica così un metodo utile da
seguire sia in ambito ecclesiale che in ambito civile. A riguardo sono emblematici due libri,
pubblicati per iniziativa del Pontificio Consiglio per la Famiglia. “Famiglie vive”, una raccolta di
esperienze di vita familiare cristiana e di pastorale delle famiglie per le famiglie. “La famiglia risorsa
per la società”, una ricerca sociologica sul diverso contributo dato alla società da quattro diverse
tipologie di famiglie, comparate tra loro.
E’ auspicabile, in vista dell’evangelizzazione, non solo esporre con linguaggio appropriato la fede
della Chiesa, ma anche raccogliere, discernere, comunicare esperienze concrete, capaci di
interpellare con forza, di dare ispirazione, di infondere fiducia, indicando che l’ideale è non solo
bello, ma anche realizzabile!
E’ salutare bonificare con figure esemplari (di persone sante e di famiglie veramente cristiane)
l’immaginario della gente (specialmente dei ragazzi), inquinato da ingannevoli personaggi di
successo nel mondo dello spettacolo, dello sport, dei media, dell’economia, della politica.
Opportunamente, in occasione del Grande Giubileo del 2000, Giovanni Paolo II incoraggiava i
processi di beatificazione e canonizzazione riguardanti i laici e in particolare le coppie di sposi (cfr.
Giovanni Paolo II, Tertio Millennio Adveniente, 37). A proposito, anche perché attinente ai temi del
nostro Congresso, viene spontaneo ricordare Giuseppe Toniolo, beatificato recentemente, sposo e
padre esemplare (sette figli), professore universitario di economia politica, promotore di
associazioni cattoliche dei lavoratori, iniziatore delle settimane sociali dei cattolici italiani.
In modo analogo, in ambito civile, per promuovere culturalmente, socialmente e politicamente
l’identità e i diritti delle famiglie, sembra più efficace un’argomentazione che sappia mettere
insieme la dottrina della Chiesa e i dati sociologici, scientificamente raccolti e interpretati, che la
confermano. Il Pontificio Consiglio per la Famiglia continuerà a proporre questo metodo alle
Associazioni Familiari, alle Istituzioni culturali, ai cattolici impegnati.
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3. La prospettiva antropologica.
Nel Congresso il tema “La famiglia: il lavoro e la festa” è stato trattato in una prospettiva
prevalentemente antropologica. Questa del resto era l’ispirazione che proveniva dal testo base
della Genesi, sia riguardo alla famiglia: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo
creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi” (Gen 1,
27); sia riguardo al lavoro: “Riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli
uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra … Il Signore Dio prese l’uomo e lo
pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 1, 28; 2, 15); sia riguardo alla
festa: “Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò perché in esso aveva cessato ogni lavoro, che
aveva fatto creando” (Gen 2, 3). Tre benedizioni, tre doni di Dio, tre dimensioni del vivere, che
concorrono a formare l’identità, lo sviluppo e la felicità dell’uomo. Tre beni che si realizzano nella
relazione con gli altri e con Dio, perché l’uomo creato a immagine di Dio che è Trinità d’amore, è
un soggetto relazionale. Vive autenticamente e si perfeziona solo trascendendo se stesso,
accogliendo la propria vita come dono e facendo dono della propria vita. Persona e società si
appartengono reciprocamente. Gli altri non vanno guardati come rivali da sovrastare e utilizzare,
ma come alleati con i quali aiutarsi, per crescere insieme. Non è lecito ridurli a strumento. Sono un
bene in se stessi e meritano di essere rispettati, amati e valorizzati.
L’attuale crisi, che preoccupa i popoli e i governanti, non è da considerare solo una crisi
economica, ma anche, e più profondamente, una crisi antropologica e culturale. La cultura
individualista, utilitarista, consumista, relativista pervade largamente il costume, la comunicazione
mediatica, l’economia, la politica.
L’individualismo significa enfatizzazione dei desideri e della libertà di scelta, autorealizzazione,
auto gratificazione, esaltazione dei diritti ed estenuazione dei doveri, insofferenza dei legami
familiari, sociali ed ecclesiali, ricerca del successo anche a danno degli altri, ammirazione e
imitazione dei personaggi vincenti.
L’utilitarismo suppone che l’uomo cerchi soltanto il proprio interesse o almeno che la società possa
fondarsi sulla sola convergenza degli interessi, come affermava A. Smith “La società civile può
esistere tra persone diverse … sulla base della considerazione dell’utilità individuale, senza alcuna
forma di amore reciproco e di affetto” (Teoria dei sentimenti umani). Il mercato è governato dalla
massimizzazione del proprio utile e dalla ricerca del massimo profitto a qualsiasi costo: l’unico
obiettivo di un’azienda è quello di procurare utili sempre maggiori ai propri azionisti. La
concorrenza, che in una certa misura è fisiologica, tende a diventare antagonismo e conflitto. I
capitali finanziari preferiscono il guadagno speculativo all’investimento produttivo. Dal mercato la
mentalità utilitarista e contrattuale si trasferisce ai rapporti interpersonali, che tendono a diventare
strumentali.
Il consumismo incentiva la corsa all’acquisto e al consumo dei beni materiali, anche di quelli
illusori, rispondenti a bisogni indotti artificialmente; prospetta una felicità basata sulla quantità
delle esperienze, delle sensazioni, impressioni, emozioni; preferisce l’effimero al duraturo,
l’immediato al progetto orientato verso il futuro.
Il relativismo è mancanza di valori condivisi in ambito culturale; appartenenza parziale alla Chiesa
e privatizzazione della fede in ambito religioso; disorientamento nella babele delle opinioni;
soggettivismo etico e assolutizzazione della coscienza; restringimento della ragione al solo campo
scientifico e tecnico.
In questo contesto culturale, in cui la persona è ridotta ad individuo, la società a gioco d’interessi,
la felicità a piacere, la verità a opinione, anche la famiglia, il lavoro e la festa subiscono riduzioni e
distorsioni.
74
La famiglia si riduce a semplice coabitazione di individui nella stessa casa, secondo una
molteplicità di modelli, stimati equivalenti tra loro; perciò si preferisce parlare di famiglie al
plurale.
Nella convivenza si cerca la propria realizzazione e gratificazione secondo una logica negoziale; si
apprezza solo la trama degli affetti, rigorosamente privata. Dal punto di vista economico, non si
considera la famiglia un soggetto produttivo di capitale umano e di benefici per la società, ma solo
un soggetto di consumi e perciò si tassano i redditi individuali, senza tener conto dei carichi
familiari. Tale debolezza culturale, giuridica ed economica della famiglia si concretizza in una serie
di fenomeni preoccupanti: calo di matrimoni, aumento di divorzi, di convivenze, di singles per
scelta, calo delle nascite, aumento di figli nati fuori del matrimonio, disimpegno educativo,
malessere esistenziale, abbandono di anziani, impoverimento economico dei divorziati.
Il lavoro, in un mercato esasperatamente competitivo, rischia di ridursi a merce di scambio. La
speculazione finanziaria prevarica nei confronti dell’economia reale e l’economia prevarica nei
confronti delle persone, delle famiglie e dell’ambiente naturale. Le dolorose conseguenze sono le
disuguaglianze di reddito, la forte disoccupazione, il contrasto tra i tempi e le esigenze del lavoro
con quelli della famiglia. La festa a sua volta rischia di perdere i suoi profondi significati e il suo
carattere familiare e comunitario; tende a diventare divertimento evasivo e dispersivo, a lasciare il
posto al tempo libero individuale.
Occorre allargare la visione dell’uomo da individuo a persona, cioè soggetto spirituale e corporeo,
autocosciente e libero, singolare e irripetibile, relazionale e auto trascendente, chiamato ad amare
gli altri come se stesso, a integrare l’eros nell’agape, a realizzarsi pienamente nel dono di sé agli
altri e a Dio. Bisogna tenersi aperti al vero, al bene e al bello, senza chiudersi nell’utile,
nell’interesse egoista, nella logica della negoziazione e del contratto. Tutte le dimensioni della vita
devono essere plasmate dall’amore. Non solo nella famiglia e nella festa, ma anche nel lavoro e
nell’economia deve prevalere la logica del dono, integrando utilità e gratuità, bene strumentale e
bene voluto per se stesso. “Senza la gratuità – scrive Benedetto XVI – non si riesce a realizzare
nemmeno la giustizia” (Caritas in Veritate, 38). E’ possibile e vantaggioso produrre e scambiare beni
e servizi in una dinamica di collaborazione, di rispetto, fiducia e aiuto reciproco. La ricerca di un
ragionevole profitto è fisiologica e necessaria; ma trova la sua giustificazione etica solo in
un’economia di sviluppo, orientata al bene comune. Solo curando la qualità delle relazioni e
restituendo il primato all’amore e alla comunione, la famiglia, il lavoro e la festa potranno ritrovare
la loro autenticità e armonizzazione. Per superare la crisi, sembra necessaria, a livello globale, una
rivoluzione culturale, antropologica, prima che economica.
4. La famiglia
La famiglia è un fenomeno universale nella storia del genere umano. A parte variazioni
accidentali, ha una struttura permanente, costituita dal rapporto tra i due sessi, legame uomodonna, e dal rapporto tra le due generazioni, legame genitori-figli. Anche oggi, secondo le indagini
statistiche, la famiglia, costituita da una coppia stabile con figli, è al primo posto nelle aspirazioni
della gente, seguita al secondo posto dal lavoro.
Dalle indagini statistiche appare anche che le famiglie con due e più figli sono le più felici e anche
le più vantaggiose per la società, a motivo del ricambio generazionale e per la qualità del capitale
umano da esse formato. Purtroppo in vari paesi stanno diventando una minoranza, perché
penalizzate dallo Stato e dal mercato. Un motivo in più per proporre con maggiore coraggio e
insistenza tale modello, interpellando l’opinione pubblica, la politica e l’economia. I diversi modi
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di fare famiglia non sono equivalenti. La coppia stabile con figli (due o più) sviluppa una maggiore
ricchezza di beni relazionali; perciò risulta essere la più felice, nonostante le difficoltà, e la più
capace di produrre valore aggiunto per la società. La famiglia normale non è la famiglia del
passato; ma è la famiglia del futuro, se vogliamo avere un futuro.
La famiglia autentica comporta la donazione totale reciproca dei coniugi e la loro comune
donazione ai figli mediante la procreazione, la cura e l’educazione. I coniugi diventano una sola
carne nella vita comune, nell’amplesso coniugale, nella persona dei figli. Si sviluppano legami non
solo affettivi, ma anche etici. Gli altri non sono soltanto un bene per me, ma innanzitutto un bene
in se stessi. Hanno valore per se stessi, a prescindere dal loro aspetto e dalle loro capacità. Anzi le
persone più deboli (bambini, anziani, malati, disabili) ricevono un’attenzione preferenziale e
un’appropriata tutela. Diritti e doveri, gratificazione personale e impegno si compongono in
armonia. Si trova la valorizzazione di ognuno nella comunione tra persone diverse e
complementari.
La famiglia è la prima scuola di umanità. Le dinamiche dell’identificazione affettiva e della
gratuità che genera fiducia sostengono un processo continuo di educazione reciproca tra genitori e
figli, coinvolgendo anche i nonni. Attraverso le relazioni interpersonali, la testimonianza vissuta,
l’esperienza quotidiana, si trasmettono valori e conoscenze, si sviluppano virtù teologali e umane,
virtù personali e sociali. Oggi, però, di fronte all’invadenza della comunicazione mediatica, occorre
intensificare l’esperienza familiare, renderla più significativa e bella. Occorre rafforzare la
continuità educativa tra famiglia e scuola, attraverso la partecipazione alla elaborazione del
progetto educativo o attraverso la reale libertà di scegliere la scuola. La scuola cattolica dovrebbe
essere il partner privilegiato per le famiglie cattoliche. Di grande importanza sono anche gli
incontri periodici, i gruppi e le comunità di famiglie; le reti di spiritualità, di amicizia e
convivialità, di collaborazione e aiuto reciproco; le associazioni e i movimenti di formazione
spirituale e di apostolato; le associazioni di impegno civile per tutelare l’identità e i diritti delle
famiglie.
5. Famiglia e lavoro
Numerose famiglie creano e gestiscono piccole imprese, importantissime nell’economia
complessiva del loro paese. Tutte le famiglie svolgono un lavoro domestico che ha anch’esso
grande importanza per il sistema economico, sebbene non sia contabilizzato nel P.I.L. (Prodotto
Interno Lordo). Sempre più ambedue i coniugi sono impegnati sia nel lavoro domestico che in
quello professionale e sono chiamati a trovare, di comune accordo, il giusto equilibrio e a ripartire
equamente i pesi.
Ma il contributo più specifico delle famiglie al sistema economico consiste nella formazione del
capitale umano.
Con la parola lavoro si indica l’attività umana in quanto produce beni materiali o immateriali utili
a soddisfare i bisogni delle persone e a favorire il loro benessere. Oggi, in un’economia di
sviluppo, qualsiasi attività può essere considerata lavoro, in quanto aggiunge valore alle relazioni
umane, anche se non si producono merci (cfr. ad esempio l’educazione, l’istruzione,
l’informazione, la ricerca scientifica, l’innovazione organizzativa o tecnologica, l’assistenza, il
turismo, i servizi vari). Oggi, sempre più, fattore produttivo decisivo è l’uomo (cfr. Giovanni Paolo
II, Centesimus Annus, 32); è l’uomo che discerne i bisogni dei clienti, raccoglie e gestisce le
informazioni, organizza il processo produttivo e commerciale, lavora in collaborazione,
interloquisce con le cosiddette “macchine intelligenti”, esercita la sua creatività e capacità
innovativa. Il capitale umano è necessario per le imprese come il capitale finanziario e quello
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tecnologico. Per questo la famiglia sta diventando una risorsa sempre più importante dal punto di
vista economico e sociale: non soltanto come soggetto di consumi, di risparmio, di ridistribuzione
del reddito, ma anche come soggetto produttivo di capitale umano.
La procreazione dei figli, futuri cittadini e futuri lavoratori, è un investimento a lunga scadenza,
necessario alla riproduzione della società. La loro educazione, oltre che valore morale, ha valore
anche per il funzionamento del sistema economico, che riceve grande giovamento dalle
conoscenze e abilità trasmesse, dalle attitudini acquisite (ad es. attitudine allo studio e alla ricerca
scientifica e tecnica), dalle virtù sociali maturate, come la gratuità, la fiducia, la solidarietà, la
giustizia, il rispetto della legalità, la laboriosità, la collaborazione, la cura dell’ordine, il gusto del
lavoro ben fatto, il rispetto dell’ambiente.
La famiglia è “la prima scuola di lavoro per ogni uomo” (Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 10).
Essa educa al lavoro con l’esempio dei genitori, l’influsso dei fratelli, la conversazione familiare, la
visita ai luoghi di lavoro, l’accompagnamento nello studio, la condivisione di progetti ed attività.
La famiglia è amica delle imprese. L’impegno eticamente responsabile dei lavoratori e degli
imprenditori, da essa bene educati, spesso va oltre la rigida logica contrattuale e favorisce molto la
crescita e il successo dell’impresa, specie sul lungo periodo. Nella misura in cui sa offrire un
capitale umano di qualità, la famiglia diventa soggetto produttivo di valore economico per il
sistema. Dovrebbe dunque essere tassata, tenendo conto sia dei redditi che delle persone a carico,
un po’ come le imprese che vengono tassate sulla base dei guadagni al netto dei costi di
produzione. Anzi, al di là dell’equità fiscale, dovrebbe essere sostenuta con un disegno organico di
politica familiare che tuteli l’identità e i diritti della famiglia e preveda concreti provvedimenti da
attuare progressivamente, a piccoli passi, secondo le possibilità (casa, occupazione, scuola, servizi,
trasporti, ricongiungimenti familiari dei migranti, ecc.). L’obiettivo centrale e unificante dovrebbe
essere il sostegno da dare alle relazioni che strutturano la famiglia e la rendono risorsa sociale:
sostegno cioè alla stabilità della coppia e alla sua missione procreativa ed educativa.
Le imprese da parte loro dovrebbero diventare più amiche delle famiglie sia per solidarietà umana
che nel proprio stesso interesse. Dovrebbero innanzitutto mirare con ogni energia a creare
occupazione, perché la mancanza di lavoro è un dramma, specialmente per i giovani, e impedisce
la formazione delle famiglie e la loro missione procreativa ed educativa. Questo esige innovazione,
produttività, collaborazione in ogni azienda, tra le aziende e tra i vari soggetti della vita sociale.
Inoltre le imprese dovrebbero favorire il più possibile l’armonizzazione delle esigenze del lavoro
con quelle della famiglia. A titolo esemplificativo, si possono ricordare alcune esperienze:
flessibilità di orario, tempo parziale, telelavoro interattivo a domicilio, congedi di maternità,
congedi parentali, asili nido aziendali. L’armonizzazione riguarda anche l’uomo lavoratore, ma
soprattutto la donna lavoratrice, che non deve essere costretta a scegliere tra maternità e lavoro
professionale.
Molte imprese, specialmente piccole imprese, creano, per affrontare la crisi, reti di collaborazione
tra loro. Anche molte famiglie creano reti di amicizia e di aiuto reciproco, specialmente a scopo
educativo e assistenziale. Le une e le altre confermano che la direzione giusta, verso cui si deve
andare, è quella indicata da Benedetto XVI nella sua ultima enciclica Caritas in Veritate, la direzione
della gratuità e della solidarietà.
6. La famiglia e la festa.
Secondo la rivelazione biblica, Dio fa festa e offre la sua festa agli uomini.
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Le persone divine creano insieme il mondo e insieme gioiscono per la loro opera; lavorano sempre
e sempre riposano nella pienezza del loro essere e agire. “(Così parla la divina Sapienza:) Quando
disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno:
giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli
dell’uomo” (Prov. 8, 29-31). “Egli (il Verbo) era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per
mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1, 2-3). “Gesù disse loro: il Padre
agisce anche ora e anch’io agisco” (Gv 5, 17). Il regno di Dio, senso di tutta la storia, è una grande
festa di nozze, che inizia già adesso come in germe e avrà compimento perfetto nell’eternità. “Il
regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio” (Mt 22, 2). “Beati gli
invitati al banchetto di nozze dell’agnello” (Ap 19, 9).
Si trovano in sintonia con il disegno di Dio le principali caratteristiche della festa individuate dagli
studi antropologici.
La festa è un’esperienza comunitaria: non si può far festa da soli; ma soltanto insieme agli altri, in
famiglia, nella comunità religiosa, nella comunità civile, nel gruppo di amici.
La festa si ripete con una periodicità regolare: la domenica ogni settimana, le feste liturgiche ogni
anno, poi gli anniversari, i compleanni, le ricorrenze civili. Essa ordinariamente si colloca in una
tradizione, come in una corrente di vita che viene da lontano e va lontano, facendo memoria del
passato e alimentando la speranza del futuro. Dà un senso di sicurezza e infonde nuove energie
per affrontare la precarietà, la fatica e la sofferenza.
La festa ha la nota distintiva della gratuità: ha valore per se stessa e non è strumentale in vista di
qualche altro fine, a meno che non si tratti di un evento pubblicitario e promozionale, che però non
è vera festa. Ci si rallegra per la vita, la famiglia, la comunità, il lavoro e altri beni. Si ammira il
vero e il bello. Si è grati per i doni che riceviamo da Dio e dagli altri uomini, specialmente da quelli
delle passate generazioni.
Per noi cristiani la festa per eccellenza è la domenica, pasqua settimanale e anticipo nel tempo della
festa eterna, giorno del Signore, della Chiesa e della famiglia. Oggi dobbiamo difenderla contro
l’invadenza del mercato e la diffusione del lavoro no-stop. Dobbiamo però soprattutto santificarla
con la partecipazione alla Messa, con il riposo e la dedicazione agli affetti familiari.
Le famiglie cristiane della Nigeria e di altri paesi, che si recano in chiesa la domenica a rischio di
cadere vittime di qualche attentato terrorista, rinnovano la testimonianza degli antichi martiri
africani che dichiaravano davanti al giudice: “Noi senza la Messa della domenica non possiamo
vivere”. A questi fratelli perseguitati va tutta la nostra solidarietà. Il miglior modo di manifestarla
è però quello di imitare la loro fedeltà.
La Messa è il centro della vita cristiana, personale e comunitaria. Il Signore Gesù, crocifisso, risorto
e vivente per sempre, ci convoca e ci raduna in assemblea intorno a sé; ci rivolge la sua parola; si
dona a noi nel segno del pane dato a mangiare e del vino dato a bere con lo stesso amore con cui è
morto per noi; ci comunica il suo Santo Spirito, per unirci a sé e tra di noi; ci manda in missione a
portare il suo amore a tutti; rafforza, in particolare, l’alleanza nuziale dei coniugi. Pretendere di
essere cristiani senza la Messa è come voler essere cristiani senza Gesù Cristo. E’ illusorio voler
costituire una famiglia cristiana senza la Messa della domenica.
Quando è possibile, è bene che la famiglia vada a Messa tutta insieme. Il buon esempio dato dal
padre di famiglia, secondo l’indagine statistica, sembra che abbia una forte incidenza positiva sulla
futura pratica domenicale dei figli, una volta divenuti adulti.
Alla Messa festiva bisogna associare la mensa festiva, il pranzo comune, come un rito della
famiglia, una comunicazione affettiva, uno stare insieme gioioso.
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E’ inoltre auspicabile che il giorno di festa sia arricchito da altre esperienze umanamente e
spiritualmente significative: gioco, attività formative, opere caritative, visite a parenti e amici,
passeggio, contatto con la natura, attività culturali e artistiche.
La domenica, se è celebrata bene, conferisce senso e bellezza anche alla vita ordinaria; dilata la
festa anche nei giorni feriali. Così la famiglia diventa luogo di gioia quotidiana, di buon umore, di
giocosità, di attenzione e dedizione reciproca, di ricchezza relazionale e affettiva, di ragionevole
sobrietà nei consumi. Il luogo di lavoro diventa ambiente di amicizia, di attività piena di senso e
svolta con soddisfazione, qualche volta perfino di momenti festivi tra colleghi, per celebrare
compleanni, anniversari di matrimonio, nascite di figli, avanzamenti di carriera.
La partecipazione all’Eucaristia, dice Benedetto XVI, dà “forma eucaristica a tutta la vita”
(Sacramentum Caritatis, 72); dà cioè la forma del ringraziamento, per essere stati amati, e del dono
di sé fino al sacrificio, per contraccambiare l’amore. Ci aiuta a ricevere tutte le cose come doni e
possibilità di bene, a vedere Dio in tutte le cose.
Concludo con un auspicio pieno di speranza. La cultura individualista, utilitarista, consumista,
relativista ha impoverito le relazioni umane e ha compromesso la fiducia tra le persone; ha
provocato la crisi dell’economia, del lavoro e della famiglia. La riscoperta dell’uomo come soggetto
essenzialmente relazionale e la cura per la buona qualità delle relazioni porteranno al superamento
della crisi del lavoro e della famiglia. La crisi fa emergere il malessere latente da tempo e apre
prospettive nuove.
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INTERVENTI DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
AL VII INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE
MILANO 2012
SABATO 2 GIUGNO
http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/travels/2012/index_milano_it.htm
IL PAPA IN FESTA CON LE FAMIGLIE DEL MONDO
1. CAT TIEN (bambina dal Vietnam): Ciao, Papa. Sono Cat Tien, vengo
dal Vietnam.
Ho sette anni e ti voglio presentare la mia famiglia. Lui è il mio papà, Dan e la mia mamma si
chiama Tao, e lui è il mio fratellino Binh.
Mi piacerebbe tanto sapere qualcosa della tua famiglia e di quando eri piccolo come me…
SANTO PADRE: Grazie, carissima, e ai genitori: grazie di cuore. Allora, hai chiesto come sono i
ricordi della mia famiglia: sarebbero tanti! Volevo dire solo poche cose. Il punto essenziale per la
famiglia era per noi sempre la domenica, ma la domenica cominciava già il sabato pomeriggio. Il
padre ci diceva le letture, le letture della domenica, da un libro molto diffuso in quel tempo in
Germania, dove erano anche spiegati i testi. Così cominciava la domenica: entravamo già nella
liturgia, in atmosfera di gioia. Il giorno dopo andavamo a Messa. Io sono di casa vicino a
Salisburgo, quindi abbiamo avuto molta musica – Mozart, Schubert, Haydn – e quando cominciava
il Kyrie era come se si aprisse il cielo. E poi a casa era importante, naturalmente, il grande pranzo
insieme. E poi abbiamo cantato molto: mio fratello è un grande musicista, ha fatto delle
composizioni già da ragazzo per noi tutti, così tutta la famiglia cantava. Il papà suonava la cetra e
cantava; sono momenti indimenticabili. Poi, naturalmente, abbiamo fatto insieme viaggi,
camminate; eravamo vicino ad un bosco e così camminare nei boschi era una cosa molto bella:
avventure, giochi eccetera. In una parola, eravamo un cuore e un’anima sola, con tante esperienze
comuni, anche in tempi molto difficili, perché era il tempo della guerra, prima della dittatura, poi
della povertà. Ma questo amore reciproco che c’era tra di noi, questa gioia anche per cose semplici
era forte e così si potevano superare e sopportare anche queste cose. Mi sembra che questo fosse
molto importante: che anche cose piccole hanno dato gioia, perché così si esprimeva il cuore
dell’altro. E così siamo cresciuti nella certezza che è buono essere un uomo, perché vedevamo che
la bontà di Dio si rifletteva nei genitori e nei fratelli. E, per dire la verità, se cerco di immaginare un
po’ come sarà in Paradiso, mi sembra sempre il tempo della mia giovinezza, della mia infanzia.
Così, in questo contesto di fiducia, di gioia e di amore eravamo felici e penso che in Paradiso
dovrebbe essere simile a come era nella mia gioventù. In questo senso spero di andare «a casa»,
andando verso l’«altra parte del mondo».
2. SERGE RAZAFINBONY E FARA ANDRIANOMBONANA (Coppia di fidanzati dal
Madagascar):
SERGE: Santità, siamo Fara e Serge, e veniamo dal Madagascar.
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Ci siamo conosciuti a Firenze dove stiamo studiando, io ingegneria e lei economia. Siamo fidanzati
da quattro anni e non appena laureati sogniamo di tornare nel nostro Paese per dare una mano alla
nostra gente, anche attraverso la nostra professione.
FARA: I modelli famigliari che dominano l'Occidente non ci convincono, ma siamo consci che
anche molti tradizionalismi della nostra Africa vadano in qualche modo superati. Ci sentiamo fatti
l'uno per l'altro; per questo vogliamo sposarci e costruire un futuro insieme. Vogliamo anche che
ogni aspetto della nostra vita sia orientato dai valori del Vangelo.
Ma parlando di matrimonio, Santità, c'è una parola che più d'ogni altra ci attrae e allo stesso tempo ci
spaventa: il «per sempre»...
SANTO PADRE: Cari amici, grazie per questa testimonianza. La mia preghiera vi accompagna in
questo cammino di fidanzamento e spero che possiate creare, con i valori del Vangelo, una
famiglia «per sempre». Lei ha accennato a diversi tipi di matrimonio: conosciamo il «mariage
coutumier» dell’Africa e il matrimonio occidentale. Anche in Europa, per dire la verità, fino
all’Ottocento, c’era un altro modello di matrimonio dominante, come adesso: spesso il matrimonio
era in realtà un contratto tra clan, dove si cercava di conservare il clan, di aprire il futuro, di
difendere le proprietà, eccetera. Si cercava l’uno per l’altro da parte del clan, sperando che fossero
adatti l’uno all’altro. Così era in parte anche nei nostri paesi. Io mi ricordo che in un piccolo paese,
nel quale sono andato a scuola, era in gran parte ancora così. Ma poi, dall’Ottocento, segue
l’emancipazione dell’individuo, la libertà della persona, e il matrimonio non è più basato sulla
volontà di altri, ma sulla propria scelta; precede l’innamoramento, diventa poi fidanzamento e
quindi matrimonio. In quel tempo tutti eravamo convinti che questo fosse l’unico modello giusto e
che l’amore di per sé garantisse il «sempre», perché l’amore è assoluto, vuole tutto e quindi anche
la totalità del tempo: è «per sempre». Purtroppo, la realtà non era così: si vede che
l’innamoramento è bello, ma forse non sempre perpetuo, così come è il sentimento: non rimane per
sempre. Quindi, si vede che il passaggio dall’innamoramento al fidanzamento e poi al matrimonio
esige diverse decisioni, esperienze interiori. Come ho detto, è bello questo sentimento dell’amore,
ma deve essere purificato, deve andare in un cammino di discernimento, cioè devono entrare
anche la ragione e la volontà; devono unirsi ragione, sentimento e volontà. Nel Rito del
Matrimonio, la Chiesa non dice: «Sei innamorato?», ma «Vuoi», «Sei deciso». Cioè:
l’innamoramento deve divenire vero amore coinvolgendo la volontà e la ragione in un cammino,
che è quello del fidanzamento, di purificazione, di più grande profondità, così che realmente tutto
l’uomo, con tutte le sue capacità, con il discernimento della ragione, la forza di volontà, dice: «Sì,
questa è la mia vita». Io penso spesso alle nozze di Cana. Il primo vino è bellissimo: è
l’innamoramento. Ma non dura fino alla fine: deve venire un secondo vino, cioè deve fermentare e
crescere, maturare. Un amore definitivo che diventi realmente «secondo vino» è più bello, migliore
del primo vino. E questo dobbiamo cercare. E qui è importante anche che l’io non sia isolato, l’io e
il tu, ma che sia coinvolta anche la comunità della parrocchia, la Chiesa, gli amici. Questo, tutta la
personalizzazione giusta, la comunione di vita con altri, con famiglie che si appoggiano l’una
all’altra, è molto importante e solo così, in questo coinvolgimento della comunità, degli amici, della
Chiesa, della fede, di Dio stesso, cresce un vino che va per sempre. Auguri a voi!
3. FAMIGLIA PALEOLOGOS (Famiglia greca)
NIKOS: Kalispera! Siamo la famiglia Paleologos. Veniamo da Atene. Mi chiamo Nikos e lei è mia
moglie Pania. E loro sono i nostri due figli, Pavlos e Lydia.
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Anni fa con altri due soci, investendo tutto ciò che avevamo, abbiamo avviato una piccola società
di informatica.
Al sopravvenire dell'attuale durissima crisi economica, i clienti sono drasticamente diminuiti e
quelli rimasti dilazionano sempre più i pagamenti. Riusciamo a malapena a pagare gli stipendi dei
due dipendenti, e a noi soci rimane pochissimo: così che, per mantenere le nostre famiglie, ogni
giorno che passa resta sempre meno. La nostra situazione è una tra le tante, fra milioni di altre. In
città la gente gira a testa bassa; nessuno ha più fiducia di nessuno, manca la speranza.
PANIA: Anche noi, pur continuando a credere nella provvidenza, facciamo fatica a pensare ad un
futuro per i nostri figli.
Ci sono giorni e notti, Santo Padre, nei quali viene da chiedersi come fare a non perdere la speranza. Cosa
può dire la Chiesa a tutta questa gente, a queste persone e famiglie senza più prospettive?
SANTO PADRE: Cari amici, grazie per questa testimonianza che ha colpito il mio cuore e il cuore
di noi tutti. Che cosa possiamo rispondere? Le parole sono insufficienti. Dovremmo fare qualcosa
di concreto e tutti soffriamo del fatto che siamo incapaci di fare qualcosa di concreto. Parliamo
prima della politica: mi sembra che dovrebbe crescere il senso della responsabilità in tutti i partiti,
che non promettano cose che non possono realizzare, che non cerchino solo voti per sé, ma siano
responsabili per il bene di tutti e che si capisca che politica è sempre anche responsabilità umana,
morale davanti a Dio e agli uomini. Poi, naturalmente, i singoli soffrono e devono accettare, spesso
senza possibilità di difendersi, la situazione com’è. Tuttavia, possiamo anche qui dire: cerchiamo
che ognuno faccia il suo possibile, pensi a sé, alla famiglia, agli altri, con grande senso di
responsabilità, sapendo che i sacrifici sono necessari per andare avanti. Terzo punto: che cosa
possiamo fare noi? Questa è la mia questione, in questo momento. Io penso che forse gemellaggi
tra città, tra famiglie, tra parrocchie, potrebbero aiutare. Noi abbiamo in Europa, adesso, una rete
di gemellaggi, ma sono scambi culturali, certo molto buoni e molto utili, ma forse ci vogliono
gemellaggi in altro senso: che realmente una famiglia dell’Occidente, dell’Italia, della Germania,
della Francia… assuma la responsabilità di aiutare un’altra famiglia. Così anche le parrocchie, le
città: che realmente assumano responsabilità, aiutino in senso concreto. E siate sicuri: io e tanti altri
preghiamo per voi, e questo pregare non è solo dire parole, ma apre il cuore a Dio e così crea anche
creatività nel trovare soluzioni. Speriamo che il Signore ci aiuti, che il Signore vi aiuti
sempre!Grazie.
4. FAMIGLIA RERRIE (Famiglia statunitense)
JAY: Viviamo vicino a New York.
Mi chiamo Jay, sono di origine giamaicana e faccio il contabile.
Lei è mia moglie Anna ed è insegnante di sostegno.
E questi sono i nostri sei figli, che hanno dai 2 ai 12 anni. Da qui può ben immaginare, Santità, che
la nostra vita, è fatta di perenni corse contro il tempo, di affanni, di incastri molto complicati...
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Anche da noi, negli Stati Uniti, una delle priorità assolute è mantenere il posto di lavoro, e per
farlo non bisogna badare agli orari, e spesso a rimetterci sono proprio le relazioni famigliari.
ANNA: Certo non sempre è facile... L'impressione, Santità, è che le istituzioni e le imprese non
facilitano la conciliazione dei tempi di lavoro coi tempi della famiglia.
Santità, immaginiamo che anche per lei non sia facile conciliare i suoi infiniti impegni con il riposo.
Ha qualche consiglio per aiutarci a ritrovare questa necessaria armonia? Nel vortice di tanti stimoli imposti
dalla società contemporanea, come aiutare le famiglie a vivere la festa secondo il cuore di Dio?
SANTO PADRE: Grande questione, e penso di capire questo dilemma tra due priorità: la priorità
del posto di lavoro è fondamentale, e la priorità della famiglia. E come riconciliare le due priorità.
Posso solo cercare di dare qualche consiglio. Il primo punto: ci sono imprese che permettono quasi
qualche extra per le famiglie – il giorno del compleanno, eccetera – e vedono che concedere un po’
di libertà, alla fine va bene anche per l’impresa, perché rafforza l’amore per il lavoro, per il posto di
lavoro. Quindi, vorrei qui invitare i datori di lavoro a pensare alla famiglia, a pensare anche ad
aiutare affinché le due priorità possano essere conciliate. Secondo punto: mi sembra che si debba
naturalmente cercare una certa creatività, e questo non è sempre facile. Ma almeno, ogni giorno
portare qualche elemento di gioia nella famiglia, di attenzione, qualche rinuncia alla propria
volontà per essere insieme famiglia, e di accettare e superare le notti, le oscurità delle quali si è
parlato anche prima, e pensare a questo grande bene che è la famiglia e così, anche nella grande
premura di dare qualcosa di buono ogni giorno, trovare una riconciliazione delle due priorità. E
finalmente, c’è la domenica, la festa: spero che sia osservata in America, la domenica. E quindi, mi
sembra molto importante la domenica, giorno del Signore e, proprio in quanto tale, anche “giorno
dell’uomo”, perché siamo liberi. Questa era, nel racconto della Creazione, l’intenzione originale del
Creatore: che un giorno tutti siano liberi. In questa libertà dell’uno per l’altro, per se stessi, si è
liberi per Dio. E così penso che difendiamo la libertà dell’uomo, difendendo la domenica e le feste
come giorni di Dio e così giorni per l’uomo. Auguri a voi! Grazie.
5. FAMIGLIA ARAUJO (Famiglia brasiliana di Porto Alegre)
MARIA MARTA: Santità, come nel resto del mondo, anche nel nostro Brasile i fallimenti
matrimoniali continuano ad aumentare.
Mi chiamo Maria Marta, lui è Manoel Angelo. Siamo sposati da 34 anni e siamo già nonni. In
qualità di medico e psicoterapeuta familiare incontriamo tante famiglie, notando nei conflitti di
coppia una più marcata difficoltà a perdonare e ad accettare il perdono, ma in diversi casi abbiamo
riscontrato il desiderio e la volontà di costruire una nuova unione,qualcosa di duraturo, anche per
i figli che nascono dalla nuova unione.
MANOEL ANGELO: Alcune di queste coppie di risposati vorrebbero riavvicinarsi alla Chiesa, ma
quando si vedono rifiutare i Sacramenti la loro delusione è grande. Si sentono esclusi, marchiati da
un giudizio inappellabile.
Queste grandi sofferenze feriscono nel profondo chi ne è coinvolto; lacerazioni che divengono
anche parte del mondo, e sono ferite anche nostre, dell'umanità tutta.
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Santo Padre,sappiamo che queste situazioni e che queste persone stanno molto a cuore alla Chiesa: quali
parole e quali segni di speranza possiamo dare loro?
SANTO PADRE: Cari amici, grazie per il vostro lavoro di psicoterapeuti per le famiglie, molto
necessario. Grazie per tutto quello che fate per aiutare queste persone sofferenti. In realtà, questo
problema dei divorziati risposati è una delle grandi sofferenze della Chiesa di oggi. E non abbiamo
semplici ricette. La sofferenza è grande e possiamo solo aiutare le parrocchie, i singoli ad aiutare
queste persone a sopportare la sofferenza di questo divorzio. Io direi che molto importante
sarebbe, naturalmente, la prevenzione, cioè approfondire fin dall’inizio l’innamoramento in una
decisione profonda, maturata; inoltre, l’accompagnamento durante il matrimonio, affinché le
famiglie non siano mai sole ma siano realmente accompagnate nel loro cammino. E poi, quanto a
queste persone, dobbiamo dire – come lei ha detto – che la Chiesa le ama, ma esse devono vedere e
sentire questo amore. Mi sembra un grande compito di una parrocchia, di una comunità cattolica,
di fare realmente il possibile perché esse sentano di essere amate, accettate, che non sono «fuori»
anche se non possono ricevere l’assoluzione e l’Eucaristia: devono vedere che anche così vivono
pienamente nella Chiesa. Forse, se non è possibile l’assoluzione nella Confessione, tuttavia un
contatto permanente con un sacerdote, con una guida dell’anima, è molto importante perché
possano vedere che sono accompagnati, guidati. Poi è anche molto importante che sentano che
l’Eucaristia è vera e partecipata se realmente entrano in comunione con il Corpo di Cristo. Anche
senza la ricezione «corporale» del Sacramento, possiamo essere spiritualmente uniti a Cristo nel
suo Corpo. E far capire questo è importante. Che realmente trovino la possibilità di vivere una vita
di fede, con la Parola di Dio, con la comunione della Chiesa e possano vedere che la loro sofferenza
è un dono per la Chiesa, perché servono così a tutti anche per difendere la stabilità dell’amore, del
Matrimonio; e che questa sofferenza non è solo un tormento fisico e psichico, ma è anche un
soffrire nella comunità della Chiesa per i grandi valori della nostra fede. Penso che la loro
sofferenza, se realmente interiormente accettata, sia un dono per la Chiesa. Devono saperlo, che
proprio così servono la Chiesa, sono nel cuore della Chiesa. Grazie per il vostro impegno.
SALUTO AI TERREMOTATI
SANTO PADRE: Cari amici, voi sapete che noi sentiamo profondamente il vostro dolore, la vostra
sofferenza; e, soprattutto, io prego ogni giorno che finalmente finisca questo terremoto. Noi tutti
vogliamo collaborare per aiutarvi: siate sicuri che non vi dimentichiamo, che facciamo ognuno il
possibile per aiutarvi – la Caritas, tutte le organizzazioni della Chiesa, lo Stato, le diverse comunità
– ognuno di noi vuole aiutarvi, sia spiritualmente nella nostra preghiera, nella nostra vicinanza di
cuore, sia materialmente e prego insistentemente per voi. Dio vi aiuti, ci aiuti tutti! Auguri a voi, il
Signore vi benedica!
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DOMENICA 3 GIUGNO – OMELIA DI PAPA BENEDETTO XVI
http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/travels/2012/index_milano_it.htm
Venerati Fratelli,
Illustri Autorità,
Cari fratelli e sorelle!
E’ un grande momento di gioia e di comunione quello che viviamo
questa mattina, celebrando il Sacrificio eucaristico. Una grande assemblea, riunita con il Successore
di Pietro, formata da fedeli provenienti da molte nazioni. Essa offre un’immagine espressiva della
Chiesa, una e universale, fondata da Cristo e frutto di quella missione, che, come abbiamo
ascoltato nel Vangelo, Gesù ha affidato ai suoi Apostoli: andare e fare discepoli tutti i popoli,
«battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,18-19). Saluto con
affetto e riconoscenza il Cardinale Angelo Scola, Arcivescovo di Milano, e il Cardinale Ennio
Antonelli, Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, principali artefici di questo VII
Incontro Mondiale delle Famiglie, come pure i loro Collaboratori, i Vescovi Ausiliari di Milano e
tutti gli altri Presuli. Sono lieto di salutare tutte le Autorità presenti. E il mio abbraccio caloroso va
oggi soprattutto a voi, care famiglie! Grazie della vostra partecipazione!
Nella seconda Lettura, l’apostolo Paolo ci ha ricordato che nel Battesimo abbiamo ricevuto lo
Spirito Santo, il quale ci unisce a Cristo come fratelli e ci relaziona al Padre come figli, così che
possiamo gridare: «Abbà! Padre!» (cfr Rm 8,15.17). In quel momento ci è stato donato un germe di
vita nuova, divina, da far crescere fino al compimento definitivo nella gloria celeste; siamo
diventati membri della Chiesa, la famiglia di Dio, «sacrarium Trinitatis» – la definisce
sant’Ambrogio –, «popolo che – come insegna il Concilio Vaticano II – deriva la sua unità
dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Cost. Lumen gentium, 4). La solennità
liturgica della Santissima Trinità, che oggi celebriamo, ci invita a contemplare questo mistero, ma
ci spinge anche all’impegno di vivere la comunione con Dio e tra noi sul modello di quella
trinitaria. Siamo chiamati ad accogliere e trasmettere concordi le verità della fede; a vivere l’amore
reciproco e verso tutti, condividendo gioie e sofferenze, imparando a chiedere e concedere il
perdono, valorizzando i diversi carismi sotto la guida dei Pastori. In una parola, ci è affidato il
compito di edificare comunità ecclesiali che siano sempre più famiglia, capaci di riflettere la
bellezza della Trinità e di evangelizzare non solo con la parola, ma direi per «irradiazione», con la
forza dell’amore vissuto.
Chiamata ad essere immagine del Dio Unico in Tre Persone non è solo la Chiesa, ma anche la
famiglia, fondata sul matrimonio tra l’uomo e la donna. In principio, infatti, «Dio creò l’uomo a
sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro:
siate fecondi e moltiplicatevi» (Gen 1,27-28). Dio ha creato l’essere umano maschio e femmina, con
pari dignità, ma anche con proprie e complementari caratteristiche, perché i due fossero dono
l’uno per l’altro, si valorizzassero reciprocamente e realizzassero una comunità di amore e di vita.
L’amore è ciò che fa della persona umana l’autentica immagine della Trinità, immagine di Dio.
Cari sposi, nel vivere il matrimonio voi non vi donate qualche cosa o qualche attività, ma la vita
intera. E il vostro amore è fecondo innanzitutto per voi stessi, perché desiderate e realizzate il bene
l’uno dell’altro, sperimentando la gioia del ricevere e del dare. E’ fecondo poi nella procreazione,
generosa e responsabile, dei figli, nella cura premurosa per essi e nell’educazione attenta e
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sapiente. E’ fecondo infine per la società, perché il vissuto familiare è la prima e insostituibile
scuola delle virtù sociali, come il rispetto delle persone, la gratuità, la fiducia, la responsabilità, la
solidarietà, la cooperazione. Cari sposi, abbiate cura dei vostri figli e, in un mondo dominato dalla
tecnica, trasmettete loro, con serenità e fiducia, le ragioni del vivere, la forza della fede,
prospettando loro mete alte e sostenendoli nella fragilità. Ma anche voi figli, sappiate mantenere
sempre un rapporto di profondo affetto e di premurosa cura verso i vostri genitori, e anche le
relazioni tra fratelli e sorelle siano opportunità per crescere nell’amore.
Il progetto di Dio sulla coppia umana trova la sua pienezza in Gesù Cristo, che ha elevato il
matrimonio a Sacramento. Cari sposi, con uno speciale dono dello Spirito Santo, Cristo vi fa
partecipare al suo amore sponsale, rendendovi segno del suo amore per la Chiesa: un amore fedele
e totale. Se sapete accogliere questo dono, rinnovando ogni giorno, con fede, il vostro «sì», con la
forza che viene dalla grazia del Sacramento, anche la vostra famiglia vivrà dell’amore di Dio, sul
modello della Santa Famiglia di Nazaret. Care famiglie, chiedete spesso, nella preghiera, l’aiuto
della Vergine Maria e di san Giuseppe, perché vi insegnino ad accogliere l’amore di Dio come essi
lo hanno accolto. La vostra vocazione non è facile da vivere, specialmente oggi, ma quella
dell’amore è una realtà meravigliosa, è l’unica forza che può veramente trasformare il cosmo, il
mondo. Davanti a voi avete la testimonianza di tante famiglie, che indicano le vie per crescere
nell’amore: mantenere un costante rapporto con Dio e partecipare alla vita ecclesiale, coltivare il
dialogo, rispettare il punto di vista dell’altro, essere pronti al servizio, essere pazienti con i difetti
altrui, saper perdonare e chiedere perdono, superare con intelligenza e umiltà gli eventuali
conflitti, concordare gli orientamenti educativi, essere aperti alle altre famiglie, attenti ai poveri,
responsabili nella società civile. Sono tutti elementi che costruiscono la famiglia. Viveteli con
coraggio, certi che, nella misura in cui, con il sostegno della grazia divina, vivrete l’amore
reciproco e verso tutti, diventerete un Vangelo vivo, una vera Chiesa domestica (cfr Esort. ap.
Familiaris consortio, 49). Una parola vorrei dedicarla anche ai fedeli che, pur condividendo gli
insegnamenti della Chiesa sulla famiglia, sono segnati da esperienze dolorose di fallimento e di
separazione. Sappiate che il Papa e la Chiesa vi sostengono nella vostra fatica. Vi incoraggio a
rimanere uniti alle vostre comunità, mentre auspico che le diocesi realizzino adeguate iniziative di
accoglienza e vicinanza.
Nel libro della Genesi, Dio affida alla coppia umana la sua creazione, perché la custodisca, la
coltivi, la indirizzi secondo il suo progetto (cfr 1,27-28; 2,15). In questa indicazione della Sacra
Scrittura, possiamo leggere il compito dell’uomo e della donna di collaborare con Dio per
trasformare il mondo, attraverso il lavoro, la scienza e la tecnica. L’uomo e la donna sono
immagine di Dio anche in questa opera preziosa, che devono compiere con lo stesso amore del
Creatore. Noi vediamo che, nelle moderne teorie economiche, prevale spesso una concezione
utilitaristica del lavoro, della produzione e del mercato. Il progetto di Dio e la stessa esperienza
mostrano, però, che non è la logica unilaterale dell’utile proprio e del massimo profitto quella che
può concorrere ad uno sviluppo armonico, al bene della famiglia e ad edificare una società giusta,
perché porta con sé concorrenza esasperata, forti disuguaglianze, degrado dell’ambiente, corsa ai
consumi, disagio nelle famiglie. Anzi, la mentalità utilitaristica tende ad estendersi anche alle
relazioni interpersonali e familiari, riducendole a convergenze precarie di interessi individuali e
minando la solidità del tessuto sociale.
Un ultimo elemento. L’uomo, in quanto immagine di Dio, è chiamato anche al riposo e alla festa. Il
racconto della creazione si conclude con queste parole: «Dio, nel settimo giorno, portò a
compimento il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto.
Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò» (Gen 2,2-3). Per noi cristiani, il giorno di festa è la
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Domenica, giorno del Signore, Pasqua settimanale. E’ il giorno della Chiesa, assemblea convocata
dal Signore attorno alla mensa della Parola e del Sacrificio Eucaristico, come stiamo facendo noi
oggi, per nutrirci di Lui, entrare nel suo amore e vivere del suo amore. E’ il giorno dell’uomo e dei
suoi valori: convivialità, amicizia, solidarietà, cultura, contatto con la natura, gioco, sport. E’ il
giorno della famiglia, nel quale vivere assieme il senso della festa, dell’incontro, della condivisione,
anche nella partecipazione alla Santa Messa. Care famiglie, pur nei ritmi serrati della nostra epoca,
non perdete il senso del giorno del Signore! E’ come l’oasi in cui fermarsi per assaporare la gioia
dell’incontro e dissetare la nostra sete di Dio.
Famiglia, lavoro, festa: tre doni di Dio, tre dimensioni della nostra esistenza che devono trovare un
armonico equilibrio. Armonizzare i tempi del lavoro e le esigenze della famiglia, la professione e la
paternità e la maternità, il lavoro e la festa, è importante per costruire società dal volto umano. In
questo privilegiate sempre la logica dell’essere rispetto a quella dell’avere: la prima costruisce, la
seconda finisce per distruggere. Occorre educarsi a credere, prima di tutto in famiglia, nell’amore
autentico, quello che viene da Dio e ci unisce a Lui e proprio per questo «ci trasforma in un Noi,
che supera le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a che, alla fine, Dio sia “tutto in
tutti” (1 Cor 15,28)» (Enc. Deus caritas est, 18). Amen.
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