Sistemi Economici Comparati Anno accademico 2014-2015 Prof.sa Renata Targetti Lenti Capital in the 21st century Thomas Piketty Lezione 7 28/10/2014 Riferimenti - Piketty T. (2014), Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2014, Introduzione (Thomas Piketty, Le Capital au XXI siècle, Editions de Seuil, Paris, pagg.970, euro 25,00; Capital in the Twenty-First Century, Cambridge, MA.: Belknap Press/, Harvard University Press, april 2014, pagg. 696 http://resistir.info/livros/piketty_capital_in_the_21_century_2014.pdf) - Milanovic , The return of “patrimonial capitalism”: review of Thomas Piketty’s Capital in the 21st century, Journal of economic literature, June 2014, (forthcoming) https://www.gc.cuny.edu/CUNY_GC/media/CUNY-GraduateCenter/PDF/Centers/LIS/Milanovic/papers/2014/Piketty_book3.pdf Per Stiglitz il lavoro di Piketty «è un contributo fondamentale» al pensiero economico. Krugman si è detto «affascinato» dalla lettura di una “magnificent, sweeping meditation on inequality”. Per Solow questo è “a serious book”. Il lavoro ha come oggetto l’analisi della diseguaglianza nel lungo periodo a partire dal 18° secolo in 20 paesi. Si tratta di uno studio collettivo, iniziato da Piketty 15 anni fa con alcuni colleghi (Atkinson a Oxford, Saez a Berkeley) composto da due parti: 1) Raccolta di dati sui redditi, in quei paesi occidentali dove esiste da tempo un’imposta personale sui redditi, ma anche in Cina, in India ed in molte nazioni dell’America latina. 2) sono stati stimati i dati sui patrimoni, partendo dalle statistiche sulle imposte di sucessione. Si tratta di uno studio collettivo, iniziato da Piketty 15 anni fa con alcuni colleghi (Atkinson a Oxford, Saez a Berkeley) composto da due parti. Ma che cosa si sa, davvero, della diseguaglianza nella ricchezza nel lungo termine? La dinamica dell’accumulazione del capitale privato comporta inevitabilmente una concentrazione sempre più forte della ricchezza e del potere in poche mani (Marx)? Oppure le dinamiche equilibratrici della crescita, della concorrenza e del progresso tecnico determinano, nelle fasi avanzate del processo economico, una riduzione spontanea delle disuguaglianze (Kuznets)? 1) La prima parte contiene le principali definizioni che saranno utilizzate nel testo: capitale, patrimonio, reddito, prodotto. Il capitale così come inteso da Piketty è in realtà ricchezza/patrimonio. E’ costituito da capitali industriali e commerciali, capitali finanziari, capitali immobiliari, incluse le abitazioni di proprietà, capitali agricoli. Questo capitale-ricchezza, d’ora innanzi, per semplicità, indicato solo con il termine capitale, ha sempre generato e genera un reddito per i suoi proprietari che viene definito tasso di rendimento. 2) La seconda parte analizza la dinamica del rapporto capitale/reddito in Europa e in alcuni altri paesi come il Giappone e gli Stati Uniti. 3) La terza parte discute la struttura della diseguaglianza con riferimento a: questioni del debito pubblico e del riscaldamento globale, delle remunerazioni dei dirigenti e dei fondi sovrani, dello Stato sociale e della progressività fiscale, del merito e della ricchezza nello spiegare i risultati scolastici e gli esiti professionali, dell’eredità e delle imposte di successione. 4) La quarta parte, infine contiene alcune proposte di politica economica che possono essere sintetizate nella revisione dell’imposta personale sul reddito per renderla maggiormente progressiva, l’introduzione di una imposta patrimoniale sui grandi patrimoni, di un’imposta mondiale sul capitale. Il lavoro ha riportato al centro del dibattito economico e politico il tema della diseguaglianza e della sua perpetuazione tra generazioni attraverso la trasmissione ereditaria delle diverse forme di capitale fisico, finanziario ed umano. Al centro dell’analisi vi è la distribuzione funzionale del reddito tra redditi da capitale/rendite e redditi da lavoro. In un sistema caratterizzato dal capitalismo patrimoniale”, fondato sull’accumulazione da parte di pochi di capitali ereditati e non guadagnati con il proprio lavoro, “il passato divora il futuro”. La crescita del reddito non è una condizione sufficiente per il miglioramento delle condizioni di tutti i gruppi di popolazione. Il modello L’impostazione del volume è stata definita da alcuni commentatori “classica”, nel solco di Smith, Ricardo e Marx, rivolta a spiegare il ruolo dell’accumulazione di capitale e della distribuzione del reddito sul e nel processo di crescita dell’economia. Probabilmente, invece, la si può ricondurre ai modelli della crescita endogena. Piketty è interessato ad analizzare gli effetti di una crescente diseguaglianza sulla riduzione del capitale umano, e di conseguenza sulla crescita. Quando la disuguaglianza diventa molto elevata finisce con il costituire un freno invece che uno stimolo alla crescita. L’accesso ai gradi più elevati dell’istruzione è infatti costoso e le categorie più povere, ma oggi anche gran parte della “classe media”, ne vengono quindi escluse. Si verifica perciò una riduzione della partecipazione al processo di formazione del capitale umano da parte di una quota significativa della popolazione. Il modello di riferimento sintetizza in poche essenziali relazioni fenomeni che per loro natura sono molto complessi. La «contraddizione» che contraddistingue il capitalismo “patrimoniale”, è la diseguaglianza tra tasso annuo di rendimento del capitale r e il tasso annuo di crescita del prodotto/reddito nazionale g. La divergenza r>g implica che il capitale cresca più rapidamente del prodotto e dei salari e che renda conveniente all’imprenditore trasformarsi in rentier. Se r è in misura significativa maggiore di g «i patrimoni ereditati dal passato si ricapitalizzano più in fretta rispetto all’andamento del processo di produzione e dei redditi». E’inevitabile, allora, che la concentrazione del capitale raggiunga livelli assai elevati, potenzialmente incompatibili con i valori meritrocatici ed i principi di giustizia sociale che costituiscono il fondamento delle nostre moderne società democratiche” (Piketty, 2014, p.51). Nel lungo periodo il rapporto tra capitale e reddito è pari al rapporto tra il tasso di risparmio ed il tasso di crescita, ovvero β=s/g. Questa identità è facilmente derivabile dallo sviluppo di un modello del tipo Harrod-Domar . Questo significa che in una società stagnante, caratterizzata da un elevato ammontare dei patrimoni è probabile che il tasso di risparmio ecceda il saggio di crescita, e dunque il rapporto capitale reddito β risulti elevato e crescente. Se il valore di g è piccolo, in presenza di un tasso di risparmio mediamente elevato β risulterà elevato. Il peso del capitale continua ad aumentare perchè il tasso di crescita delle economie è modesto. Il modello Harrod-Domar Il modello Harrod-Domar è volto a determinare le condizioni che assicurano che il tasso di crescita naturale Gn (che deve garantire la piena occupazione) coincida con quello garantito Gw (che corrisponde all’eguaglianza tra domanda ed offerta ottenuta sfruttando la capacità produttiva resa possibile dall’accumulazione di capitale). Il tasso di crescita naturale dipende dalla crescita demografica che è esogena. Il tasso di crescita del prodotto Gw dipende contemporaneamente da s e da β e sarà tanto più elevato quanto più alta la propensione al risparmio e quanto più basso il valore capitale-prodotto β. • Y = f(K,L) Produzione a coefficienti fissi • s = S(Y)/Y propensione al risparmio • β = K/Y = dK/dY rapporto capitale prodotto • dY = dK / β • dK=I = β dY • Ricordando che S = I la condizione d’equilibrio diventa • s Yt-1 = β dY dY/Yt-1 = s/ β =Gw Se si considera, poi, che α = r β, ovvero che la quota del capitale nella composizione del reddito nazionale equivale al prodotto tra tasso di rendimento e rapporto capitale prodotto ne deriva che un aumento di β produce anche un aumento nella quota di capitale α. L’aumento dipenderà dall’elasticità di sostituzione σ del capitale rispetto al lavoro nella funzione di produzione Y=F(K,L). In una funzione di produzione alla Cobb-Douglas, se si accetta l’assunzione standard che il valore σ sia eguale ad 1, quando cresce β il tasso di rendimento r del capitale diminuisce nella stessa proporzione e α = r β rimane costante. Se tuttavia σ>1 il tasso di rendimento r diminuisce meno di quanto aumenti β così che anche α = r β cresce. E’ esattamente quanto è accaduto negli anni 70 e 80. Se, poi, si ipotizza che σ abbia un valore superiore ad 1 (σ=1,5) un aumento di β produrrà un significativo aumento di α «L’età dell’oro» Piketty documenta come per circa un trentennio, dalla ricostruzione postbellica fino agli anni settanta, il rapido processo di industrializzazione, insieme a politiche fiscali e di spesa pubblica progressive, abbiano favorito la formazione ed il consolidamento della classe «media», il consolidamento della democrazia ed una elevata crescita in tutti gli Stati occidentali. Questa crescita sostenuta è stata favorita da alcune precise circostanze come la necessità di ricostruire la capacità produttiva distrutta dalla guerra nei paesi europei. Non solo aumentava l’occupazione insieme alla crescita del prodotto nazionale, ma si andava consolidando la cosidetta classe media costituita da operai ed impiegati grazie ad una organizzazione del lavoro di tipo fordista. In questo periodo si verifica, in tutti i paesi europei ed anche negli Stati Uniti una riduzione della diseguaglianza. Questa fase, che in una prospettiva storica di lungo periodo deve essere considerata come “eccezionale”, si inverte a partire dalla fine degli anni 90. L’“età dell’oro” è stata caratterizzata da una riduzione del peso del capitale sul reddito nazionale. Quando il capitale aumenta meno velocemente del reddito non diminuisce solo il patrimonio, ma anche la quota dei redditi da capitale sul reddito complessivo. Com’era accaduto durante l’età dell’oro, con la diminuzione della quota dei redditi da capitale diminuisce anche la diseguaglianza nella distribuzione personale del reddito. Se invece il processo di crescita del prodotto netto rallenta a causa di fattori esogeni (demografici o tecnologici) ed il capitale cresce più rapidamente del reddito nazionale, i rendimenti del capitale assumono un'importanza sempre maggiore rispetto ai redditi da lavoro. La diseguaglianza ricomincia a crescere fino a raggiungere gli elevati livelli osservati nell’ultimo decennio. Non solo aumenta la diseguaglianza, ma si innesta un circolo vizioso tra diseguaglianza e crescita. Questo è tanto più vero quanto più i redditi da capitale sono costituiti da rendite improduttive, e cioè provenienti da beni ereditati piuttosto che da beni accumulati con il risparmio originato dai redditi da lavoro. La figura 1 riporta le stime del rapporto capitale/reddito in alcuni paesi europei (Germania, Francia e Regno Unito). Il numeratore è costituito dalla ricchezza privata. Questo rapporto si è mantenuto sostanzialmente stabile attorno a valori molto elevati compresi tra 6-7 “annualità” nel periodo che corrisponde agli ultimi decenni del 1800 ed alla cosidetta “belle epoque”. Ha subito una drastica diminuzione in corispondenza al periodo interbellico per scendere a valori pari a 1,8 in Germania, a 2,2 in Francia, a 3 volte nel Regno Unito nel 1950. Ha ricominciato ad aumentare fino ad arivare a valori pari a circa 6 volte in Francia, a 5 volte nel Regno Unito ed a 4 volte in Germania. L’aumento di questo rapporto negli ultimi decenni è spiegato “con il ritorno a un regime di crescita relativamente lenta” (Piketty, p.50). Si è così tornati ad una società a “capitalismo patrimoniale”. Si osserva, dunque, una curva ad U di grande ampiezza. Figura 1 La figura 2 mostra l’andamento del valore del capitale privato come quota percentuale sul reddito nazionale. Questa quota, tra il 1970 ed il 2010 aumenta sensibilmente in tutti i paesi europei considerati, ma anche negli Stati Uniti, in Canada, in Australia ed in Giappone. Anche in Italia il rapporto ricchezza privata/reddito è sensibilmente aumentato da un valore di 3 volte nel 1970 ad un valore di 7 volte nel 2010. Questa crescita è attribuibile sia all’aumento dei prezzi degli immobili sia ad un trasferimeto di ricchezza pubblica a ricchezza privata grazie alla crescita ed al collocamento del debito pubblico presso i privati . La figura 3 mostra, ad esempio, come in Italia la ricchezza publica sia sistematicamente diminuita dal 1970 al 2010 mantenendosi sempre negativa. Solamente in Canada si osserva un andamento analogo, ma in corrispondenza ad una crescita meno marcata della quota della ricchezza privata. In Italia questa quota raggiuge il livello più alto nel 2010 pari a circa 7 volte il reddito nazionale. Figura 2 Figura 3 Una importante lezione che deriva dall’ “età dell’oro” è che non è necessaria una elevata diseguaglianza, come quella che si era verificata nell’800 per favorire la crescita. Al contrario per più di vent’anni una crescita sostenuta è stata accompagnata proprio dalla riduzione della diseguaglianza e, invece, tassi di crescita dell’economia bassi, negli ultimi 30 anni, sono stati accompagnati da un aumento della diseguaglianza. Europa e Giappone sono i due esempi esaminati da Piketty per comprendere come abbia potuto progressivamente crearsi una società “patrimoniale”, dove bassa natalità e bassa crescita economica rendono prevalenti le ricchezze accumulate, quasi mai reinvestite in modo efficiente e produttivo. All’interno dei paesi europei l’Italia, dove gran parte del capitale è costituito da ricchezza immobiliare, rappresenta uno dei casi più significativi a questo proposito. Questa caratteristica, insieme all’invecchiamento della popolazione, spiega gran parte del calo della produttività dell’ultimo decennio. “Quando il tasso di rendimento del capitale supera regolarmente il tasso di crescita del prodotto e del reddito — come accadde fino al XIX secolo e come rischia di accadere di nuovo nel XXI — il capitalismo produce automaticamente disuguaglianze insostenibili, arbitrarie, che rimettono in questione dalle fondamenta i valori meritocratici sui quali si reggono le nostre società democratiche” (Piketty). La dinamica della diseguaglianza ’ L’analisi di Piketty riguarda anche la relazione, troppo spesso ignorata, tra distribuzione funzionale e personale dei redditi. Il legame molto stretto tra i due tipi di distribuzione dipende contemporaneamente dal peso relativo delle quote di reddito percepite dal lavoro e dal capitale e dal diverso livello di concentrazione che caratterizza la distribuzione dei due fattori. I redditi da capitale presentano una concentrazione maggiore, a causa della trasmissione ereditaria, rispetto a quella dei redditi da lavoro, e dunque una crescita del loro peso sul totale fa aumentare il livello della diseguaglianza. Se il reddito dei percettori più ricchi cresce più velocemente di quanto non avvenga nelle classi inferiori la disuguaglianza nella distribuzione personale dei rediti aumenta. I redditi da lavoro sono, di norma, più equamente distribuiti ad eccezione dei redditi percepiti da alcune categorie di lavoratori che solo formalmente sono “dipendenti”, come ad esempio i “top manager”. Piketty documenta le sue affermazioni presentando la dinamica della quota nel reddito nazionale del decile superiore negli USA (Figura 4). Questa quota è stata crescente tra il 40% nel 1920 ed il 50% nel 1930, ha mantenuto una certa stabilità attorno al 45% negli anni compresi tra il 1930 ed il 1940, ha subito una drastica diminuzione all’inizio degli anni 40, ha mantenuto una certa stabilità attorno al 35% durante l’età dell’oro (1942-1970). Successivamente la quota è cresciuta sistematicamente fino a raggiungere un livello pari al 50% nel 2010. Come ha sottolineato Stiglitz (http://www.projectsyndicate.org/print/the-price-of-inequality) tra il 2009 ed il 2010 il 93% dei guadagni della ripresa è stato percepito dai redditieri che si collocavano nell’1% più ricco della distribuzione. Figura 4 Come appare dalla figura 4 nel primo periodo compreso tra il 1910 ed il 1940 si osserva una sorta di curva ad U rovesciato corrispondente ad una crescita della diseguaglianza fino al massimo raggiunto attorno agli anni 30 ed una successiva caduta fino al 1940. Tuttavia dopo un lungo periodo di stabilità la diseguaglianza ha ricominciato a crescere sistematicamente a partire dagli anni 70. Come sottolinea Brandolin Simon Kuznets già nei primi anni cinquanta aveva rimarcato “nel suo monumentale studio sulla distribuzione dei redditi negli Stati Uniti (Shares of Upper Income Groups in Income and Savings, 1953), che mai nelle statistiche si era registrata una caduta della quota del reddito dei più ricchi paragonabile, per “dimensione e persistenza”, a quella che aveva documentato per il periodo tra il 1929 e il 1946. Per Kuznet questo trend rappresentava un’evidenza decisiva per giustificare la sua ipotesi che nel lungo periodo la disuguaglianza dei redditi segua un profilo a “U rovesciata” e tenda quindi a diminuire man mano che lo sviluppo economico procede verso stadi più maturi, dopo essere aumentata nella prima fase dell’industrializzazione. Anche altri lavori recenti contribuiscono al dibattito su livelli e tendenze della diseguaglianza nel lungo periodo documentando le modificazioni nella distribuzione del reddito in otto paesi industrializzati nel secondo dopoguerra: tre anglosassoni (Stati Uniti, Regno Unito, Canada), due nordici (Svezia, Finlandia) e tre dell’Europa continentale (Repubblica Federale Tedesca, Francia, Italia). La disponibilità di informazioni varia considerevolmente, per qualità e quantità, da paese a paese. I criteri statistici con cui è stata stimata la diseguaglianza sono molto differenti, così come lo è la definizione di reddito di mercato e di reddito disponibile, a seconda che vi siano compresi o meno i redditi da capitale finanziario. L’anno iniziale è diverso da paese a paese e per tutti l’anno finale si colloca nella seconda metà degli anni ‘90. Le tendenze della diseguaglianza risultano abbastanza simili, anche se appaiono differenziati i periodi di svolta. In particolare non emerge alcuna relazione tra i mutamenti nella diseguaglianza ed il suo livello iniziale. A metà degli anni ‘90, tra tutti paesi OCSE presi in considerazione gli Stati Uniti presentavano il più elevato grado di diseguaglianza. I paesi del Nord e del Centro Europa presentavano, invece, il livello più basso. L’Italia, in particolare, registrava livelli di diseguaglianza piuttosto elevati, molto simili a quelli del Regno Unito. Nei paesi per i quali esistono serie storiche di lungo periodo (Stati Uniti, Regno Unito, Danimarca) si osserva, a partire dagli anni ’30 e fino agli anni ’70, una curva ad U, e non ad U rovesciata. La diminuzione della diseguaglianza a partire dagli anni 30 è particolarmente significativa per gli USA e per il Regno Unito. Per gli altri paesi la riduzione emerge solo a partire dal dopoguerra ed è osservabile fino alla metà degli anni ’70, o fino all’inizio degli anni ‘80 a seconda dei paesi considerati. A partire da questi anni si nota, invece, prima un crescita della diseguaglianza fino agli anni ‘90 e successivamente una relativa stabilità. Regno Unito e Stati Uniti si differenziano dagli altri paesi perchè in essi la diseguaglianza è aumentata notevolmente in tutto il periodo considerato, e cioè anche negli anni 90. In questo periodo è cresciuta anche in Canada, Svezia, Finlandia e nella Repubblica Federale Tedesca. In tutti i paesi si è verificato un ampliamento dei ventagli retributivi che ha provocato una polarizzazione nella distribuzione dei redditi da lavoro. Si è ridotto il peso della classe media ed è cresciuto quello delle classi inferiori e superiori. In particolare è cresciuto il peso dell’ultimo decile. Questi mutamenti risultano tuttavia differenziati in relazione alle specificità nazionali. In particolare, per quanto concerne gli Stati Uniti ed il Regno Unito si è osservata una significativa riduzione della quota di reddito spettante ai decili più bassi ed una crescente dispersione all' interno dei redditi da lavoro. Nelle democrazie del Nord ed in Francia questi mutamenti sono stati più attenuati grazie ad efficaci politiche redistributive. Particolare attenzione viene dedicata da Piketty al processo di formazione dei redditi più elevati, percepiti dal 10% o addirittura dall’1% più ricco. Le stime dei redditi delle famiglie sulla base dei dati della “Federal Income Tax”, pubblicati dal Congressional Budget Office (CBO) mostrano come il reddito disponibile dell’1% più ricco della popolazione sia cresciuto più velocemente degli altri, e cioè del 15% tra il 2009 ed il 2010 con una velocità ben superiore a quella di qualsiasi altro gruppo. Anche se questo gruppo aveva subito un significativo declino tra il 2007 ed il 2009, nel 2010 aveva mostrato un recupero. In questo anno, rispetto al 1979, era cresciuto ad un tasso annuale del 3.6%. I dati raccolti dal “Census Bureau” documentano come, nel 2012 il quintile più povero di famiglie ricevesse solo il 3.4% del reddito di mercato (“money income before taxes”) equivalente, mentre il quintile più ricco ricevesse ben il 49.9%. Il 5% più ricco riceveva il 22.1%. La quota dell’ultimo quintile è passata dal 50.3% al 51.0%, quella del 5% più ricco dal 21.3% al 22.3%. L’indice di Gini è sistematicamente cresciuto, ad eccezione di una lieve diminuzione durante la recessione del 2007-2009, passando dallo 0.386 nel 1968 allo 0.477 nel 2012 (figura 5). Figura 5 L’elevata quota di reddito percepita dall’ultimo decile della popolazione riflette il peso dei redditi da capitale decile. All’interno di questo gruppo di percettori è molto elevato e dipendedalla distribuzione del capitale stesso, dalle norme sulla successione ereditaria e dalla tassazione del capitale. Non si deve trascurare poi la crescita dell’economia finanziaria e l’accresciuta mobilità dei capitali. Anche le modifiche nella “governance” delle società e la crescita delle “stock options” hanno prodotto una crescita dei rendimenti del capitale. Si sta, tuttavia, consolidando un nuovo modello basato anche su di un’elevata diseguaglianza all’interno dei redditi da lavoro. Una categoria di “lavoratori”, quella dei managers, ha progressivamente acquisito il potere di fissare le proprie remunerazioni sulla base della propria posizione di potere, spesso indipendentemente dall’effettivo contributo alla produzione dell’azienda. Si è così accresciuta la diseguaglianza anche all’interno del fattore lavoro e si spiega la crescita della quota di reddito percepita dall’1% più ricco. Le stime sui redditi delle famiglie derivate dai dati della “Federal Income Tax”, pubblicati dal Congressional Budget Office (CBO) consentono di osservare, anche, le differenze tra la distribuzione dei redditi di mercato rispetto a quello disponibile, e cioè calcolato al netto delle tasse e dei trasferimenti. Le stime documentano come nel 2010 il quintile più povero ricevesse solo il 5.1% del reddito di mercato mentre il quintile più ricco ricevesse ben il 51.9% del totale. Le due quote erano rispettivamente del 6.2% e del 48.1% se si calcolavano sul reddito disponibile. In parallelo all’arricchimento progressivo dell’ultimo decile e dell’ultimo percentile della distribuzione si è verificato non solo un impoverimento del decile inferiore, ma anche della classe media. La “classe media” è definita come il 40% di popolazione che si trova tra l’ultimo decile ed il 50% inferiore, ovvero composta dal sesto, settimo, ottavo e nono decile. L’impoverimento della classe media è ben documentato da Piketty in un confronto con altri paesi come la Svezia negli anni ‘70/’80 od i paesi europei nel 2010 (tabella 1). Negli Stati Uniti, nel 2010 il sesto, settimo, ottavo e nono decile ha ricevuto solo il 30% del reddito in confronto al 45% della Scandinavia e del 40% della media europea. Questi paesi sono rispettivamente definiti a bassa diseguaglianza ed a media diseguaglianza, mentre gli Stati Uniti sono considerati paesi a diseguaglianza elevata. Tabella 1 Se poi si definisce la classe media come quella che corrisponde al secondo, terzo, e quarto quintile (20% della popolazione), e cioè complessivamente il 60% delle famiglie, l’impoverimento appare ancora più significativo. Questo gruppo di percettori ha ricevuto, nel 2012, una quota di reddito molto inferiore rispetto al suo peso sulla popolazione, pari cioè solo al 45,7%. Tale quota si è quindi drasticamente ridotta rispetto 1968, quando era pari al 53,2%. Nello stesso tempo è diminuito, a partire dal 2007, anno in cui aveva raggiunto un picco (figura 7) il reddito mediano. Figura 7 Un livello di diseguaglianza così elevato, che colpisce anche la classe media può diventare un fattore di freno per la crescita, se si traduce in minori opportunità per le generazioni più giovani. Già oggi il divario nei risultati delle prove di apprendimento (“test scores”) tra bambini ricchi e poveri risulta del 30-40% più ampio di quanto non fosse 25 anni fa. Anche le misure di mobilità sociale, già inferiori a quelle di molti paesi europei, continuano a restare basse Figura 8 Un confronto con un gruppo di paesi industrializzati evidenzia come gli Stati Uniti siano caratterizzati dalla più elevata diseguaglianza proprio nella distribuzione dei redditi personali disponibili. Uno studio del LIS mostra come nel 2013 l’indice di Gini calcolato sulla distribuzione dei redditi di mercato, pari a 0,57, fosse non molto superiore a quello della Spagna o delle Nazioni Scandinave, ma inferiore a quello di molti altri paesi europei come la Germania, la Gran Bretagna, Grecia ed Irlanda (figura 8). Tuttavia la riduzione dell’indice dopo la redistribuzione risulta molto minore rispetto a quella di tutti gli altri paesi europei considerati. L’indice di Gini sul reddito disponibile si riduce solo dello 0,15%, molto meno rispetto alla Germania (0,24%) o rispetto al Lussemburgo e Norvegia (0,20%). Una crescita della diseguaglianza analoga a quella degli USA ha caratterizzato anche altri paesi europei, ed in particolare l’Italia. Molti, naturalmente, sono i fattori, oltre alla crescita del rendimento dei patrimoni, all’origine di quello che può essere considerato un vero e proprio mutamento strutturale, che può essere di lunga durata all’interno dei paesi industrializzati. In questa prospettiva anche la recente crisi finanziaria deve essere considerta non tanto ciclica quanto strutturale. Fattori “interni” come la concentrazione della ricchezza, il peso relativo dei redditi da capitale rispetto a quelli da lavoro, l'ineguale accesso all’educazione, il dualismo territoriale, fattori demografici e politiche redistributive, devono essere tutti ritenuti all’origine della diseguaglianza. Tuttavia, da soli, non riescono a spiegare la sua crescita negli ultimi decenni. Altri fattori esogeni che si suppone interessino tutte le economie industrializzate e che prevalgano, nel lungo periodo, sulle specificità nazionali hanno contribuito ad accrescere i divari distributivi. L’influenza dei diversi fattori, tuttavia non è facilmente identificabile. Secondo molti studiosi, il fattore che maggiormente spiega l’aumento della diseguaglianza all’interno dei paesi industrializzati, in particolar modo negli Stati Uniti, è costituito dal fenomeno noto, in inglese, con l’espressione skill-biased technological change: il progresso tecnologico ha prodotto, nel mercato del lavoro, un aumento della domanda per lavoratori ad alta qualificazione professionale e ad elevata istruzione, mentre ha ridotto la domanda per lavoratori poco qualificati. Le prospettive economiche dei lavoratori poco qualificati dei settori tradizionali sono state compromesse anche dal trasferimento verso i paesi in via di sviluppo delle parti più tradizionali e a basso contenuto tecnologico della filiera produttiva, motivato dal costo del lavoro molto inferiore. Interi settori, come il tessile, o in parte il metalmeccanico, sono entrati in crisi perché le imprese dei paesi avanzati non investono più nei paesi di origine, ma in quelli in via di sviluppo . Il processo di apertura e di liberalizzazione dei mercati nazionali ed internazionali conseguente all’intensificarsi della globalizzazione, l’adozione di tecnologie risparmiatrici di lavoro come le Information and Communication Technology (ICT), la necessità di adeguare i contesti nazionali alla accresciuta competizione con gli altri paesi, in particolare con quelli in via di sviluppo, avrebbero prodotto un mutamento nelle strutture produttive, ridotto l’occupazione, il potere contrattuale dei lavoratori. e dunque anche della della quota dei redditi da lavoro. Anche l’accresciuta mobilità dei capitali, conseguente alla progressiva integrazione dei mercati finanziari che ha caratterizzato il processo di globalizzazione si è tradotta in una crescita dei profitti, dei redditi più elevati e dunque anche della diseguaglianza. Con lo sviluppo aumenta anche il peso del settore dei servizi. Il settore industriale è caratterizzato dalla presenza di alcune figure tipiche, che rappresentano buona parte dell’intera forza lavoro impiegata, ad esempio operai, impiegati, dirigenti; i redditi medi di queste categorie sono molto diversi, ma all’interno di ciascuna tipologia la variabilità dei redditi non è tipicamente molto elevata. Il settore dei servizi, invece, comprende un insieme di figure professionali dalle caratteristiche estremamente eterogenee. Tutto ciò favorisce una elevata dispersione delle retribuzioni. Le differenze negli andamenti della diseguaglianza nei vari paesi sono spiegate anche dalla presenza di forti eterogeneità nei meccanismi istituzionali che regolano, nei vari paesi, il funzionamento del mercato del lavoro. Due aspetti sono a questo riguardo di particolare rilevanza: il diverso potere contrattuale dei sindacati, e il sistema della contrattazione salariale. Nel corso degli anni ’80 e ’90 queste istituzioni che regolano il mercato del lavoro hanno subito importanti cambiamenti, tutti nel segno di un minore intervento pubblico a difesa delle parti più deboli del mercato del lavoro. Si è osservata una riduzione della regolamentazione, l’erosione del salario minimo e del potere sindacale, l’incremento della mobilità. Questi mutamenti hanno accentuato le spinte verso la diseguaglianza. Nel contempo le riforme rese necessarie dall’aumentata competizione internazionale hanno contribuito alla riduzione della quota di reddito affluita al lavoro dipendente. Negli ultimi decenni, poi, si sono verificati mutamenti strutturali nelle caratteristiche delle famiglie, che possono provocare un aumento della diseguaglianza dei redditi familiari equivalenti (tassi di dissoluzione dei nuclei familiari, aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro). I cambiamenti, infine, nell’atteggiamento verso la diseguaglianza che la società è disposta a tollerare o a ritenere giustificabile sono lenti a manifestarsi, ma possono svolgere un ruolo molto importante nello spiegare l’andamento di lungo periodo della diseguaglianza effettiva. La diseguaglianza, secondo Piketty, non è il risultato di forze economiche ineluttabili, bensì anche il prodotto delle politiche. Negli Stati Uniti, ad esempio, molte delle cause dell’elevata diseguaglianza sono strutturali, come i divari nei livelli d’istruzione e di competenze professionali tra i diversi gruppi di popolazione sono il risultato dell’operare del libero mercato in un’economia capitalistica avanzata. Gli investimenti per i giovani dovrebbero orientarsi principalmente verso l’istruzione prescolastica. Secondo l’OECD attualmente gli Stati Uniti sono al ventottesimo posto su trentotto “leading economies in the proportion of four-year-olds in education”. Il Presidente Obama ha affermato di volere lavorare con gli Stati al fine di rendere “high-quality preschool available to every child in America”. Obama ha sottolineato come “ every dollar we invest in highquality early education can save more than seven dollars later on – by boosting graduation rates, reducing teen pregnancy, even reducing violent crime”. L’auspicio è che questo obiettivo possa essere davvero perseguito e raggiunto. Politiche volte a rendere più efficace l’azione redistributiva non sono certamente sufficienti a ridurre la diseguaglianza nella distribuzione del reddito disponibile. Per ridurre la diseguaglianza e favorire la mobilità sociale, l’istruzione da sola può non essere sufficiente, anche se risulta di importanza fondamentale. Per evitare che i gruppi che dispongono dei redditi e della ricchezza più elevati siano i soli ad acquisire posizioni di rilievo nella società, è necessario riformare il sistema fiscale adottando una tassazione progressiva non solo del reddito ma anche dei diversi tipi di ricchezza. Sarebbe necessario introdurre una imposta progressiva sui patrimoni, sulle successioni, uniformare la tassazione dei capitali a livello mondiale od almeno europeo. Una riforma del Sistema fiscale potrebbe essere efficace nel ridurre quelle distorsioni. Sono necessarie, soprattutto, la trasparenza e buone rilevazioni statistiche al fine di monitorare in maniera più efficace di quanto oggi avvenga la dinamica del reddito e della ricchezza dei diversi gruppi sociali. Solamente in questo modo sarà possibile adattare le politiche sociali ed i livelli di tassazione alle condizioni reali di un paese. Piketty presenta anche stime sulla crescita della ricchezza dei “miliardari”. Essa è stata pari al 6,8% tra il 1987 ed il 2013, quella dei “milionari”, invece, è stata del 6,4%. La crescita della ricchezza mondiale media per adulto è stata del 2,1% in confronto all’aumento ben inferiore del reddito per adulto pari solo all’1,4%. Recentemente sono apparse alcune critiche al volume di Piketty, sollecitate da un intervento di Chris Giles, responsabile per la parte economica del Financial Times, circa l’attendibilità delle fonti delle evidenze empiriche nonché di alcune stime. Non è un caso che, tra le prime e più ostili critiche, vi sia stato il tentativo, non riuscito, di invalidare alcune sue stime empiriche. Questi rilievi, seguiti da altrettanto numerosi articoli in difesa di Piketty, non riescono tuttavia ad indebolire significativamente l’impianto del volume e le numerose e complesse argomentazioni esposte. Secondo Piketty le considerazioni sull’aumento della diseguaglianza e sui conseguenti effetti negativi in termini di crescita tratte dall’evidenza empirica sono, certamente, il risultato di un’inferenza imperfetta, perché siamo nell’ambito delle scienze sociali. Tuttavia l’evidenza empirica presentata nel volume, relativa a numerosi paesi ed al lungo periodo, consentirà di promuovere un dibattito, ricco di spunti innovativi, fondato su basi statistiche più ampie di quanto non sia mai accaduto in passato. Brandolini, uno studioso che da anni analizza la diseguaglianza nel breve e lungo periodo il volume di Piketty resta “straordinario” principalmente per quanto riguarda “il vincolo indissolubile che lega giudizio normativo e analisi della disuguaglianza. Il discorso sulla distribuzione del reddito e della ricchezza è inevitabilmente un discorso sulla giustizia sociale: possiamo discutere su quali disuguaglianze siano giuste, ma è illusorio pensare che si possa condurre un astratto ragionamento neutrale, in punto di teoria economica”. I dati sono “il perno del volume, un elemento distintivo che gli dà originalità e vigore. Piketty ha avuto la capacità di rivitalizzare il metodo messo a punto da Kuznets mezzo secolo prima avviando la riscoperta di un giacimento ricchissimo di dati, in generale facilmente accessibili ma trattati con distacco dagli economisti, tranne qualche adepto di scienza delle finanze o di storia economica. Questi dati sono le tabulazioni per classi di reddito delle entrate assoggettate alle imposte personali sui redditi. Piketty le ha impiegate per stimare la quota di reddito dei contribuenti più ricchi dapprima in Francia, poi negli Stati Uniti insieme a Emanuel Saez e infine coordinando con Anthony Atkinson un progetto internazionale che ha portato alla costruzione del “World Top Incomes Database”, una ricca e innovativa banca dati liberamente accessibile. Per lungo tempo, le autorità fiscali di molti paesi hanno pubblicato sintetiche informazioni sulla distribuzione dei redditi dei contribuenti. Kuznets ha mostrato come se ne potessero derivare risultati generali rapportandole ai totali della popolazione e dei redditi tratti dai censimenti e dai conti nazionali. Ciò non è bastato a vincere la ritrosia degli economisti, giustificata da alcuni buoni motivi. La definizione dei redditi fiscali risponde a criteri amministrativi invece che economici e può escludere componenti importanti, come le rendite finanziarie, soggette a tassazione separata; i valori sono distorti dall’evasione fiscale; le modifiche della normativa tributaria rendono discontinue le serie storiche; riferendosi ai contribuenti, i dati non danno conto della condivisione dei redditi all’interno della famiglia, oltre a non comprendere chi è esentato dal pagamento dell’imposta. Anche i dati delle indagini campionarie non sono tuttavia esenti da difetti: risentono della reticenza degli intervistati, particolarmente per i redditi finanziari, soffrono di discontinuità in occasione dei cambiamenti delle metodologie di rilevazione e, per la loro natura campionaria, non riescono a rappresentare la distribuzione dei redditi più elevati” (Bradolini, 2014).