Il Crocevia del Mondo Seconda edizione ampliata di Davide Mana IL CROCEVIA DEL MONDO Copyright © Davide Mana Tutti i diritti riservati Impaginazione a cura di Matteo Poropat (ebookandbook.it) Questo è per gli Orientalisti Anonimi. Ganbarimasu! DM Chi ama l'orrido frequenta sovente luoghi strani e remoti, come le catacombe di Tolemaide e i mausolei notturni dei paesi dell'incubo. Nelle notti di luna, costoro ascendono le torri dei castelli diroccati del Reno, o con passo incerto scendono giù per i neri gradini ammantati di ragnatele sotto i ruderi sparsi di perdute città dell'Asia. I boschi infestati dagli spettri e i monti più desolati sono i loro templi, e sovente si attardano nei pressi di sinistri monoliti su isole disabitate. Howard Phillips Lovecraft, 12 dicembre 1920 Preambolo – Una farneticazione All'inizio del ventesimo secolo, Charles Fort compilò il proprio Libro dei dannati, identificando con quell'aggettivo i fatti storici e di cronaca che il pubblico non voleva conoscere, che la società e la cultura contemporanea censuravano per conservare la tranquillità del proprio tran-tran quotidiano – piogge di pesci e ranocchi, luci nel cielo, fenomeni anomali. Oggi, pare che la dannazione sia riservata al nostro passato di razza girovaga. La tivù ci intrattiene con false avventure esotiche e coi filmini delle vacanze tramutati in documentario, come per dare una dignità ai noiosissimi pomeriggi autunnali trascorsi a mangiare biscotti stantii e guardare le diapo delle insipide vacanze alle Seichelles della zia Erminia o le imbarazzanti foto del viaggio di nozze del cugino Tommaso. Ci siamo tramutati in un popolo di guardoni televisivi con un'infinità di cugini insignificanti che non sapevamo di avere. Ciò che ci stanno negando è l'avventura, il passato minuto e un po' cialtrone del nostro continente, la consapevolezza, che giace sopita in ciascuno di noi come braci non ancora completamente fredde, che mollare tutto per andare a cercare meteoriti o città perdute, isole misteriose o montagne inviolate, non è una follia. È un po' come se la vita “posto fisso più palestra e serata in disco” non fosse poi così normale. Ed allora, fintanto che non possiamo mettere quattro stracci in una borsa e andarcene, leggiamo come si fa, e recuperiamo quanto di meglio c'è nella nostra neocorteccia cerebrale. Lo spirito che stanno dannando, è quello che ci ha fatti scendere dagli alberi ed assumere la postura eretta. Pensiamoci. Ci fu un tempo, e un tempo lungo, durante il quale una variopinta identità culturale si estese dal Mediterraneo a Pechino, passando per deserti e passi montani, scambiando merci e idee, comunicando attraverso lingue franche e dialetti, guerreggiando localmente ma imponendo anche una uniformità vitale, lontana dalla stagnazione dell'assolutismo, dalla progressiva balcanizzazione di fedi e sottofedi, etnie e razze. Certo non un'utopia liberista, ma di sicuro una cultura comune, per quanto internamente variata e molteplice, mantenuta in vita dal commercio e dalla libera circolazione delle idee, e dalla locale applicazione della violenza (ma una violenza pulita, caro lettore, non mascherata da missione di pace o da esportazione di democrazia). Che grande, strana ricchezza! Alla Via della Seta, ed alle persone che la percorrevano, che la costituivano, dobbiamo il Rinascimento, fra le altre cose. E allora forse fu davvero la scoperta dell'America a guastare tutto – come già sostenevano Benigni e Troisi in Non Ci Resta che Piangere: l'entusiasmo per il nuovo continente e le rotte del Mare Oceano ci fecero dimenticare che avevamo già, a portata di mano, una rotta delle meraviglie. Ora possiamo tornare ad apprezzarne la varietà. Davide Mana Castelnuovo Belbo Primavera 2011 La Via della Seta “A nord nell'alba limpida il panorama è inespressivamente sinistro e minaccioso. Le dune gialle del Taklamakan, come gigantesche onde di un oceano pietrificato, si estendono in miriadi innumerevoli fino ad un lontano orizzonte con, qua e là, una collina di sabbia più grande delle altre, una duna reale se volete, che torreggia su tutte le altre. Sembrano invocare silenziosamente, quelle dune, dei viaggiatori da inghiottire, carovane intere da ingoiare come tante ne hanno ingoiate in passato.” [Sir Clarmont Skine, console britannico a Kashgar, Chinese Central Asia, 1920] Il nome “Via della Seta” (Seidenstrasse) lo inventò Ferdinand von Richthofen, lo zio del Barone Rosso. Il nome è tanto memorabile quanto fuorviante – ci lascia con l'illusione di una pista precisa, di una autostrada che si addentra nel cuore dell'Asia. La realtà è diversa, e con Via della Seta – o più correttamente Vie della Seta – si indica oggi un intreccio di piste, carovaniere e percorsi che, dal sesto secolo avanti Cristo, probabilmente, misero in contatto l'area Mediterranea con l'Estremo Oriente. Stando ai documenti cinesi, fu nel 138 a.C. che Zhang Qian, ambasciatore dell'imperatore Wudi della dinastia Han, si mise in marcia verso ovest, con una carovana di 100 uomini; la sua missione – contattare il popolo degli Yuezhi, e negoziare con loro un'alleanza contro gli Xiongnu, da tempo immemore una spina nel fianco dell'Impero - fin da quando l'Impero ancora non esisteva, duecento cinquant'anni prima. Era per tenere fuori dai confini gli Xiongnu, dopotutto, che l'imperatore Qin aveva fatto erigere la Grande Muraglia. Gli Xiongnu erano quelli che noi chiamiamo Unni. Gli Unni catturarono l'intera carovana di Zhang pochi giorni dopo la sua partenza – e tennero l'ambasciatore in ostaggio per i successivi dieci anni, durante i quali Zhang ebbe modo di sposarsi, avere un figlio e poi finalmente fuggire dalla prigionia e raggiungere gli Yuezhi – che nel frattempo si erano sistemati nelle oasi occidentali, e non erano più interessati a far la guerra a nessuno. Zhang prese allora la via del sud, dove venne catturato dai Tibetani. Per farla breve, Zhag ritornò a corte dopo tredici anni di assenza, unico sopravvissuto della spedizione, e riferì all'imperatore dei trentasei regni che si trovavano a occidente, e delle vie che portavano ad essi. Enfatizzando quei percorsi che attraversavano le aree meno abitate – dove era meno probabile essere catturati. Cominciò così. Secondo le cronache degli Han, trent'anni dopo (nel 105 a.C.) i Parti, che dominavano in quel tempo la Persia, forse memori delle vicissitudini del povero Zhang, inviarono 20.000 cavalieri per accompagnare gli emissari dell'Imperatore Wudi fino alla corte di Mitridate. Cinquant'anni dopo, i romani incontrarono per la prima volta la seta cinese – quando, durante la battaglia di Carre (oggi Harran, Turchia), i parti srotolarono i loro stendardi di seta, gettando il panico fra le truppe romane di Marco Licinio Crasso. E dieci anni dopo, la seta cinese arrivò a Roma – e in capo ad un paio di generazioni divenne una tale ossessione per la popolazione dell'Impero Romano da incidere sull'economia, e da rendere necessarie delle leggi per limitarne l'uso. Ma la seta fu solo l'inizio. “Stampo quest'aritmetica poiché è una cosa assai necessaria in Portogallo per le transazioni coi mercanti dell'India, dell'Arabia, dell'Etiopia e di altri posti.” [Gaspar Nicolas, introduzione a un trattato di aritmetica, 1519] Nel corso dei secoli successivi, mentre ceramiche, pelli, lacche, armi e specchi di bronzo, spezie, té, tinture, cosmetici e giada viaggiavano verso l'Occidente, legname, oro, argento, metalli preziosi e gemme, tessuti, vetro, ambra del Baltico, corallo del Mediterraneo, amianto, acrobati ed intrattenitori, nani, danzatrici e schiave bionde raggiungevano la corte cinese. Dall'India, schiavi, animali da compagnia e per i giochi dell'arena, pellicce esotiche, lana di cashmere, cotone grezzo e filato, legni esotici e profumati, sandalo, incensi, olio di palma, zucchero di canna, profumi, rubini, zaffiri e smeraldi venivano inviati a Roma, in Cina e in Medio Oriente. “Egli è vero che al tempo che Baldovino era imperadore di Gostantinopoli - ciò fu ne gli anni di Cristo 1251 -, messere Niccolaio Polo, lo quale fu padre di messere Marco, e messere Matteo Polo suo fratello, questi due fratelli erano nella città di Gostantinopoli venuti da Vinegia con mercatantia, li quali erano nobili e savi sanza fallo. Dissono fra loro e ordinorono di volere passare lo Gran Mare per guadagnare, e andarono comperando molte gioie per portare, e partironsi in su una nave di Costantinopoli e andarono in Soldania.” [Marco Polo, il Milione] Passare lo Gran Mare per guadagnare. Certo non una cattiva idea. I fratelli Polo, ed il loro figlio e apprendista, sapevano bene quali e quante meraviglie altamente commerciabili si muovessero lungo la Via della Seta – erano veneziani, dopotutto, e Venezia era il punto d'arrivo delle molte direttrici del commercio tra Occidente ed Oriente. Ma sulla Via della Seta non viaggiavano solo mercanzie assortite. Vi viaggiavano le informazioni. Le idee. “La Via della Seta conduce – o per lo meno conduceva – attraverso il Sinkiang fino a Kashgar ed i passi Himalayani seguendo due vie alternative; la prima (una via ora praticabile al traffico gommato) che corre lungo la linea delle oasi che orlano al nord il Takla Makan, alle pendici dei monti di Tien Shan o Monti Celesti; la seconda (più sabbiosa e più arida) che aggira il Takla Makan a sud e si appoggia ai Monti Kuen Lun, oltre i quali si ammassano le scarpate da 20.000 piedi dell'altopiano tibetano.” [Peter Fleming, News from Tartary, 1936] Per quanto tenda ad allargarsi a macchia d’olio, ed a scappare da tutte le parti, la nostra storia, che poi non è esattamente una storia, diciamo piuttosto una lista della spesa, anche se opportunamente ampliata e rimpolpata, comincia e finisce in quel posto noto ai viaggiatori ed agli avventurieri come Tartaria, come Turkestan Orientale o Turkestan Cinese, come Sinkiang o Xinjian. Quell’area della Cina schiacciata fra l’altopiano del Tibet a sud e la Mongolia esterna a nord e il Deserto del Gobi a est (tutti posti che visiteremo), nella quale secondo gli antichi geografi cinesi si trovavano le porte dell’oltretomba. Sedici milioni di chilometri quadrati – un sesto dell'intera superficie della Cina, un'area paragonabile all'intera Europa Occidentale Uno di quei settori della mappa che uno guarda, e non c’è niente. Tranne naturalmente il deserto del Taklamakan – che nel dialetto locale significa qualcosa del tipo Se Ci Entri Non Ne Esci, e che i più raffinati traducono come Il Deserto della Morte Inevitabile. I cinesi lo chiamavano Liu sha – le Sabbie che si Muovono. Il genere di posto attorno al quale anche la Via della Seta – mia personale ossessione da sempre – tendeva a fare il giro largo… E oltre il Taklamakan, ecco il Grande Fiume di Sabbia, il Gobi... Il giorno in cui mi metterò a scrivere bestseller d’avventura come Clive Cussler (e perché no?), il Sinkiang e le aree limitrofe figureranno prominentemente nelle mie storie. Il posto è troppo maledettamente romanzesco. Eppure sembrerebbe un posto tranquillo Il Sinkiang – e aree limitrofe – è uno di quei settori della mappa dove i confini arbitrari della storia e della geografia proprio non ce la fanno a restare nitidi e nella sfocatura risultante tutto sembrerebbe possibile. E probabilmente lo è. Consideriamo l’intervallo 1920-1940… Anzi, no. Partiamo un anno prima, da quel 1919 durante il quale la Terza Guerra Anglo-Afghana tracimò oltre le montagne, con i Waziri in fuga e le truppe afghane con l'artiglieria trainata da elefanti, braccati da un contingente inglese. Ecco, quello avrebbe dovuto essere un segnale che si preparavano tempi interessanti. Un anno dopo, mentre ancora la questione dei waziri fuggiaschi non era stata risolta, in Sinkiang vennero scoperti i dinosauri. No, non fate quella faccia. Fossili. I dinosauri del Gobi e del Taklamakan sono una delle più spettacolari scoperte scientifiche del ventesimo secolo. Sorvoliamo sul fatto che i cinesi di fatto disseppellissero i fossili da millenni, e li usassero per preparare i loro bibitoni alchemici – il bacino di Junggar contiene i più ricchi giacimenti di dinosauri fossili al mondo, e fra Gobi e Taklamakan la densità di resti è paragonabile a quella dei giacimenti del continente americano, e tutti quei resti li scoprì un americano, fra il 1920 ed il 1930, mentre cercava tutt'altro. Indiana Jones & L'Anello Mancante Nato in Wisconsin nel 1884, Roy Chapman Andrews era un classico esempio di quei ragazzoni WASP cresciuti a forza di football, Libertà e torta di mele – alti, muscolosi e col sorriso pronto – ai quali l’America avrebbe spesso assegnato il compito di fare relazioni pubbliche, prima che l’Esportazione della Democrazia diventasse una pratica comune. Una specie di giovane Gary Cooper, insomma. Atletico, aveva giocato a rugby e praticava il canottaggio, il nuoto, la scalata e l’equitazione. Ed amava la natura e l’esplorazione, per cui terminati con ampio anticipo gli studi (voi non li odiate, quelli così?) al Benoit College, mentre tutti se lo immaginavano destinato ad una brillante carriera militare o diplomatica, lui scelse di fare il tassidermista. E con i soldi risparmiati impagliando animali morti, nel 1906 arrivò a New York, entrò nel Museo di Storia Naturale e chiese al direttore di poterci lavorare. Così, di getto. Disse che avrebbe anche lavato i pavimenti, pur di lavorare lì. Ora, anche in quei tempi gloriosi, il mondo accademico era quello che era, ed il direttore del museo, Henry Fairfield Osborn, non era uno sprovveduto: un giovane sano e aitante, di buona famiglia, impeccabilmente preparato, con poderose “maniglie” a livello politico e sociale, ti piomba in ufficio e si offre di lavorare gratis… Gli fai lavare i pavimenti. E così, nel 1906, Roy iniziò a lavare i pavimenti del Museo di Storia Naturale, e parliamo di ettari di pavimenti di marmo. Ma era in gamba, ed Osborn non era stupido. Nel 1907 il recupero della carcassa di una balena per la sezione di Mammiferi Marini del Museo permise a Andrews di farsi la fama di esperto in cetacei – nessun altro aveva accettato il lavoro a causa del lezzo e dell’orrore lovecraftiano della bestia spiaggiata e in avanzata, affrettata decomposizione. Con la balena in curriculum, nel 1910, Andrews divenne naturalista a bordo della USS Albatross nelle Indie Orientali Olandesi, sempre per conto del Museo; lo scopriamo intento a contendersi le scorte di alcool col nostromo – di giorno Andrews metteva i suoi animali morti sotto spirito per conservarli, di notte il nostromo si scolava l’alcool e gli lasciava le carcasse a secco, ad imputridire. O così per lo meno la racconta Roy nelle sue memorie, pubblicate in più volumi (undici fra 1916 e 1951) e divorate, fra le due guerre e fino agli anni ’50 da generazioni di ragazzini americani – inclusi George Lucas e Steven Spielberg, sui quali torneremo successivamente. Ora, proprio come tanti suoi colleghi, Andrews non fu mai un relatore affidabile ed oggettivo delle proprie esplorazioni e peripezie. Ma quello resta un problema per i pedanti. Nel 1916, insieme con la moglie Yvette, il trentaduenne Andrews si addentrò nella provincia cinese dello Yunnan, infestata di banditi, sulle tracce dell’elusiva “tigre blu”, un ipotetico predatore mangia-uomini che terrorizzava l’area; non la trovò (e probabilmente non c'era mai stata), ma la stampa ci andò a nozze, ed Andrews ritornò a New York con un carniere di - 2100 mammiferi - 800 uccelli - 200 rettili e batraci - 200 scheletri e resti in formalina per lo studio - 150 dagherrotipi a colori - 500 negativi fotografici ... e 10.000 metri di pellicola filmata Il Museo di Scienze Naturali gradì ampiamente il materiale – parte del quale è esposto ancora oggi. Roy Chapman Andrews capì fin da subito che impressionare il pubblico con una versione leggermente spettacolarizzata della realtà rappresentava una scorciatoia ai fondi per la ricerca, alle cariche, agli onori, alla copertina del Time (che puntualmente ottenne, nel 1923). Allo stesso tempo, Andrews capì che era necessario costruirsi un personaggio, un’immagine, un look distintivo. Roy Chapman Andrews optò per stivali, cappello, pistola alla cintura e frusta da mandriano. Dovete ammettere che non l'aveva pensata male. Con alle spalle spedizioni nel sud-est asiatico culminate in poderosi scontri con serpenti giganti, faccia a faccia con banditi e con la fantomatica “Morte Invisibile” (ennesimo superpredatore evasivo e irreperibile), e tutto l’armamentario che sessant’anni dopo avrebbe fatto la fortuna di Indiana Jones, nel 1920, all’alba dell’età del jazz, Roy Chapman Andrews era ormai un eroe popolare e certificato della paleontologia americana, col titolo di Responsabile delle Spedizioni per il Museo di Storia Naturale di New York. Ed ogni eroe ha bisogno di una sfida degna della sua statura. Trovare l’Anello Mancante, ad esempio. O, nelle parole dello stesso Andrews, trovare il Giardino dell’Eden. E lui sapeva esattamente dove lo avrebbe trovato: in Sinkiang, quel gigantesco spicchio di territorio conteso fra Cina, Tibet e Mongolia, sul tetto del mondo, fra la vastità deserta del Gobi e la vuota immensità del Taklamakan. Nel 1920, Roy Chapman Andrews si mise a battere i suoi finanziatori. La ricerca dell'anello mancante è naturalmente una grande impresa impossibile: il genere Homo discende da antenati primitivi e scimmieschi, certo, ma non c’è stata una lenta trasformazione progressiva, come in un progressivo avvicinarsi al centro del bersaglio ad un tiro a segno di fiera. Ma per i vittoriani ed i loro immediati successori, convinti di essere il culmine della creazione e armati delle mal comprese teorie di Darwin, i pigmei, gli aborigeni australiani, e tutti quegli altri signori dalla pelle scura che non giocavano a cricket, rappresentavano solo fasi più primitive, più vicine alla scimmia, dell’Homo sapiens vittoriano; e se esistevano questi antenati prossimi dell’Uomo Bianco, ancora vivi e vegeti (e sottomessi), e si trovavano i resti fossili degli antenati più remoti, dove diavolo si annidava l’anello di congiunzione fra le due linee? E così, per decenni l’idea di un “anello mancante” monopolizzò l’attenzione del pubblico – e la ricerca scientifica, alimentata da finanziamenti spesso legati ai vezzi del pubblico, non si risparmiò nel tentativo di trovarlo. Ma di tutti i posti dimenticati da Dio, ci si potrebbe domandare, perché proprio il Sinkiang? Perché l'attiguo altopiano tibetano? Perché la Mongolia Esterna? Perché il Tetto del Mondo? Tutto dipende, in parte, dalla teoria della radiazione espansiva, l’idea che la vita fosse comparsa in un solo luogo preciso, e da lì si fosse poi allargata su tutto il pianeta per fasi successive. Che non è poi così male, come teoria, se ci limitiamo a grandi gruppi di organismi – funziona abbastanza da permetterci di dire che siamo tutti africani, e che i nostri antenati arrivano dalla valle del Rift africano, nella zona di Afar. Ma fino agli anni ’50 per lo meno, l’Africa era solo al secondo posto nella lista delle probabili collocazione della Valle dell’Eden. Proprio Henry Fairfield Osborn, il capo di Andrews, aveva pubblicato, nel numero di Aprile 1900 di Science, un dotto articolo nel quale, sulla base di studi anatomici comparati, giungeva alla conclusione che l’Asia era stata la culla della vita; a riprova di ciò Osborn portava la diffusione di animali quali l’alce, il caribu e la capra di montagna, in gruppi affini e imparentati tanto in Europa quanto in America. Se gli antenati erano giunti in quelle terre da un unico luogo, era ragionevole pensare che questo luogo fosse a mezza strada – l’Asia, appunto. E l’Asia nordorientale era il luogo di comparsa dei primati, quindi perché non cercare lì attorno il fantomatico Anello Mancante, più tutti i membri assenti della famiglia umana, e magari l’Origine della Vita Stessa? Non male, come razionalizzazione scientifica. Completamente infondata, ma non male. Nel 1920 perciò, Roy Chapman Andrews stava mettendo alla prova la sua teoria più famosa: i ricchi vogliono l’avventura. E se non possono affrontarla di persona, perché non hanno il fisico e la preparazione, sono ben felici, se blanditi opportunamente, di finanziare qualcuno perché viva l’avventura al loro posto, e torni per raccontargliela, e loro possano prendersi il credito di aver partecipato, anche solo col blocchetto degli assegni. Non c’è spazio per elencare tutti i finanziatori della nuovo impresa di Roy Chapman Andrews. Basti dire che in capo a pochi mesi – costellati di conferenze pubbliche e cene sociali – il naturalista aveva i fondi necessari a finanziare la sua prossima impresa: penetrare nel Sinkiang con una carovana di autovetture Ford opportunamente modificate, servite da staffette su cammello per i rifornimenti immediati, e battere quella distesa deserta e spopolata alla ricerca dell’Anello Mancante, e di tutti i suoi amici. Che non trovò. In compenso, trovò un sacco di dinosauri – soprattutto nel Gobi – con gran piacere, ancora una volta, della Smithsonian Institution che sponsorizzava la sua impresa. In effetti, ancora oggi in Cina, Roy Chapman Andrews è considerato un predone del patrimonio nazionale, ma questo è, come si suol dire un dettaglio dovuto all’incapacità di alcuni di apprezzare le bravate dementi di altri… Roy Chapman Andrews è anche – naturalmente – l’ispiratore di Indiana Jones. Ma se è vero che Lucas e Spielberg sono nella fascia di età adatta per aver letto i libri divulgativi per ragazzi nei quali Chapman Andrews raccontava (con qualche “ovvio” abbellimento) le proprie imprese, è anche vero che, sì, ok, Chapman Andrews portava cappello e pistola al fianco… ma Charlton “Chuck” Heston ne Il Segreto degli Inca, è molto più Indy di lui. Certo, affermare che il Professor Jones è stato ispirato dal Professor Andrews ha reso la Smithsonian molto amichevole nei confronti della LucasArts... Ma non siamo qui per parlare di Indiana Jones (del quale tuttavia esiste un romanzo nel quale compaiono dinosauri cinesi vivi). Alla spedizione di Chapman Andrews partecipò anche il paleontologo e gesuita Teilhard De Chardin. Teilhard era già stato in Cina nel 1923, partecipando ad alcuni scavi e tenendo delle lezioni all'Istituto Cattolico – ma dopo che alcune delle sue teorie meno ortodosse relative al Peccato Originale vennero alla luce, la Chiesa gli ingiunse di interrompere l'attività didattica. Successivamente, Teilhard ritornò in Cina e dal 1926 al 1935 fu impegnato in cinque campagne di rilevamento geologico e di scavo paleontologico, lavorando soprattutto sui resti dell'Uomo di Pechino. Durante questi anni, pubblicò altri saggi teologici – in particolare Le Milieu Divin, per il quale la Santa Sede rifiutò di dare l'imprimatur. È ragionevole assumere che Teilhard De Chardin fosse – come Chapman Andrews – sulle tracce dell'Anello Mancante. Il gesuita era già stato coinvolto – resta da stabilire quanto intimamente – con la precedente manifestazione dell'Anello Mancante: l'Uomo di Piltdown, un grossolano falso perpetrato da un gentiluomo di campagna inglese, certo Charles Dawson, con la complicità (quasi certamente) di Teilhard De Chardin e di Arthur Conan Doyle (l'autore di Sherlock Holmes). È stato fatto notare che l'Anello Mancante – qualsiasi anello mancante – sarebbe stato perfettamente in linea con le teorie teologico-evoluzioniste di Teilhard De Chardin, che proponeva una evoluzione “pilotata”, il cui scopo sarebbe stato quello di portare il genere umano ad un livello spirituale superiore – l'Omega del quale Gesù Cristo sarebbe stato un precursore. La lunga permanenza in Cina permise certamente al gesuita di sviluppare la propria tesi in un ambiente filosoficamente affine, e lontano dagli sguardi troppo indagatori dei vertici della Chiesa Cattolica. Le sue posizioni gli costarono comunque, nel 1933, l'appoggio del suo principale sponsor – il Museo di Storia Naturale di Parigi. La figura di padre Teilhard sarebbe rimasta fortemente controversa tanto nell'ambito della ricerca paleontologica quanto in quello della teologia, per molti anni a venire. Falsi Monaci & Archeologi “L'archeologia non è una scienza, è una vendetta.” [Sir Mortimer Wheeler, 1890-1976] Un poco più a sud dell’area dove Chapman Andrews scavava fossili, il Sinkiang negli anni ’20 era pure il teatro di operazioni di un gruppo di falsi monaci buddisti in pellegrinaggio sulle orme del santo prete Sanzo (quello del romanzo cinese Xi Yu Ji, Sayuki in giapponese, noto in Italia come Lo Scimmiotto - parleremo ancora di lui), in realtà ufficiali delle forze armate giapponesi – come Zuicho Tachibana, che era un ufficiale di marina, e Eizaburo Nomura, un ufficiale di fanteria – in missione di spionaggio per ordine del Conte Otani, capo dei servizi segreti nipponici e proprietario della più grande collezione di antichità orientali al mondo. Oltre a spiare i cinesi ed i russi (ed a raccogliere reperti per la collezione del conte), i falsi monaci avevano il compito di rintracciare nella supposta area di origine della vita le prime tracce dell’origine del glorioso popolo nipponico, o comunque qualcosa… una stele, un’iscrizione, un rotolo di carta di riso, qualsiasi cosa, che giustificasse l’annessione di quei territori all’Impero Giapponese (con la scusa del “C’eravamo prima noi!”, già usata per annettersi la Corea), aprendo la strada all'annessione massiccia di Cina e Tibet da parte dell’Impero del Sol Levante. Negli anni durante i quali cominciava a delinearsi la nefasta teoria della Sfera di Coprosperità Asiatica (una sorta di supernazione di area asia-pacifica dominata, ovviamente, dall'Imperatore), il Conte Kozui Otani, un raffinato intellettuale giapponese, pilastro della comunità buddhista, leader spirituale della setta della Terra Pura (Jōdo Shinshū) e membro della Royal Geographical Society, aveva sguinzagliato “monaci” per tutta l’Asia alla ricerca di pezze d’appoggio per le annessioni, ed intanto si era costruito una delle più importanti collezioni d’arte orientale al mondo. La Collezione Otani – oggi sparsa in diverse sedi museali, con il suo nucleo conservato al Museo Nazionale di Tokyo – avrebbe poi ispirato la ciclopica collezione di pornografia asiatica che fa da perno a Quin’s Shanghai Circus, dell’ex agente CIA Edward Whittemore. Otani naturalmente fu amico di Sven Hedin, anch'egli membro della Royal Geographical Society (almeno per un po'), l’uomo che aveva scoperto il Transhimalaya e le sorgenti del Bramaputhra, e che sostanzialmente zampettò per l’Asia in lungo e in largo per una cinquantina d'anni; e che negli anni che stiamo considerando aveva progettato una spedizione nel Turkestan Cinese, ma aveva poi desistito – optando per una traversata della Mongolia in auto (aveva superato la sessantina) – considerando la situazione politica troppo instabile. Troppo instabile?! Andiamo, Sven, non rovinarci la festa! Però no, non possiamo liquidare Sven Hedin in questa maniera. Sven Anders Hedin era svedese, ed era un geografo. Nessuna delle due cose promette grandi emozioni – ma Sven aveva le idee molto chiare. Avendo deciso di diventare un esploratore all’età di quindici anni (chi di noi non lo ha fatto?), all’età di 20 riuscì a farsi assumere come insegnante privato per conto di una famiglia che stava traslocando a Baku, in Persia. Mentre si preparava ad assumere il ruolo di istitutore, seguì un corso di un mese da cartografo militare, ed un corso breve da ritrattista. Poi, quando già si trovava a Baku, da autodidatta imparò latino, francese, tedesco, persiano, russo, inglese e tartaro. Successivamente avrebbe approfondito i dialetti persiani, mettendoci anche il turco, il kirgiszo, il mongolo, il tibetano ed il cinese. Le giornate a Baku erano evidentemente piuttosto lunghe e monotone. Lasciato il posto da insegnante nel 1886, tornò in Svezia, facendo il giro largo – il libro pubblicato al ritorno si intitola Attraverso la Persia, la Mesopotamia e il Caucaso. Sven Hedin aveva 21 anni. “Sono un europeo, dissi. Sono entrato nel deserto da Yarkand-daria. I miei uomini e i miei cammelli sono morti di sete, ed io ho perduto tutto. Per dieci giorni non ho avuto nulla da mangiare. Datemi un pezzo di pane ed una tazza di latte, e lasciate che riposi presso di voi, perché sono stanco da morire. Col tempo sarò in grado di pagarvi per il vostro aiuto. Mi guardarono con sospetto, pensando evidentemente che stessi mentendo.” [Sven Hedin, My Life as an Explorer, 1925] Beh, in effetti stava mentendo – ma a noi, non a loro. Ma procediamo con ordine... In Svezia Hedin riprese gli studi, ottenendo infine un dottorato in geografia a Berlino come studente di von Richthofen. Fece anche un secondo giro in Persia. Poi, fra il 1893 ed il 1897, per la prima volta Hedin entrò nell’area del bacino del Tarim e del Deserto della Morte Inesorabile. E il nome si dimostrò corretto – due dei suoi compagni di viaggio e sette dei cammelli della carovana morirono di sete. Dopo cinque giorni, Hedin abbandonò il proprio domestico Kasim nel deserto, e proseguì da solo per altri due giorni, spinto solo dalla forza di volontà. O dalla forza della disperazione. C'è un'immagine classica nella cultura occidentale – quella dell'esploratore perso nel deserto che avanza strisciando in cerca di una goccia d'acqua; l'abbiamo vista in innumerevoli vignette, in cartoni animati, in film e romanzi – Hedin la visse in prima persona, quando tentò di attraversare il Taklamakan. Nelle sue memorie ci racconta anche il seguito, che di solito le vignette tralasciano – raggiunta un'oasi dopo due giorni a strisciare sulla sabbia, Hedin si rifocillò e poi tornò indietro a piedi nudi, con gli stivali colmi d'acqua legati attorno al collo, per soccorrere il proprio compagno. Oggi sappiamo che si tratta di fandonie, o per lo meno di una grossolana esagerazione, che Hedin pubblicò ne La Mia Vita da Esploratore – sorvolando sul fatto che l’impresa era palesemente impossibile, che era partito con scorte d’acqua inadeguate e che uno dei due accompagnatori “morti” in effetti era comunque sopravvissuto. Seguirono due spedizioni – una alla ricerca del Lop Nor, il meraviglioso lago vagante del Taklamakan, e successivamente in Tibet (all’epoca, tutti si facevano un giro in Tibet), dove conobbe il Panchen Lama. Hedin viaggiava spesso camuffato da monaco itinerante (un travestimento diffuso all’epoca, evidentemente). Poi, la decisione di farsi un giro in automobile in Mongolia, perché il Sinkiang era troppo pericoloso. Ma non poteva durare. Ed è qui che la faccenda assume toni spettacolari. Perché dal 1927 al 1935, Hedin organizzò quella che venne definita un’armata di studiosi, coi quali si mise a vagare in lungo e in largo per Mongolia, Gobi e Sinkiang. I partecipanti – 37 fra geologi, paleontologi, geografi, meteorologi, botanici, astronomi, archeologi e quant’altro, da sei nazioni – si organizzarono come in una libera università. Beh, una libera università con 300 cammelli e trentaquattro “servitori personali”. Ciascuno aveva facoltà di svolgere le ricerche che riteneva più interessanti, collaborando come riteneva più opportuno coi colleghi, vagando per il territorio mentre una carovana di camion e cammelli procedeva a spostare la “sede” dell’istituzione. Al vertice di questa struttura quantomai plastica, “rettore”, condottiero e visionario, Hedin amministrava le risorse, estorceva denaro agli sponsor (inclusa la Lufthansa, che spera di aprirsi un mercato verso l’Asia), coordinava i progetti, e manteneva i contatti con le autorità locali – alcune delle quali più belligeranti di altre. Chiang Kai Shiek fu entusiasta dell’impresa, e ne finanziò una parte, a condizione che scienziati cinesi potessero partecipare. Hedin accettò, risolvendo in una sola mossa tutte le resistenze della burocrazia cinese. Alcuni anni dopo, anche il generale Ma Zhongying, comandante delle forze cinesi in Sinkiang in ritirata davanti all’avanzata russa, sarebbe stato altrettanto entusiasta – dirottando la spedizione per i propri scopi. Fu un trionfo, ma Hedin ne uscì economicamente devastato. Unica solazione – raccattare quattrini. In cinque mesi, Hedin tenne perciò 130 conferenze a pagamento, coprendo con treno e automobile una distanza di 40.000 chilometri fra Germania e nazioni limitrofe. Si occupò inoltre di allestire una replica del tempio buddhista di Chengde all’Esposizione Mondiale del Progresso di Chicago. Aveva settant’anni suonati. Ma i numeri di Hedin sono tutti spettacolari. Oltre 30.000 pagine di pubblicazioni, più quasi 10.000 di diari e note personali che lascerà in eredità all’Accademia delle Scienze Svedese. Circa 80.000 lettere archiviate. Esistono un Ghiacciaio Sven Hedin, un cratere Hedin sulla Luna. Una specie di genziana, Gentiana hedini. Due specie di bacherozzi, Longitarsus hedini e Coleoptera hedini, una farfalla, Fumea hedini Caradja e un ragno, Dictyna hedini. Un ungulato fossile, Tsaidamotherium hedini, un terapside fossile, Lystrosaurus hedini. Oggi esiste persino un modello di camper che si chiama Sven Hedin. L'esploratore svedese ricevette premi e riconoscimenti da parte di Re Oscar II di Svezia, dallo Shah Nāser ad-Dīn Schah, dallo Zar Nicola II di Russia, dal Kaiser Francesco Giuseppe (svariati), dai viceré dell’India Lord George Curzon e successivamente da Lord Minto, dal Kaiser Guglielmo II (svariati), dal nono Panchen Lama Thubten Choekyi Nyima (svariati), dall’Imperatore Mutsuhito. Da Papa Pio X, da Teddy Roosevelt, da Hindemburg, da Chiang Kai-shek, e, ripetutamente, da Adolf Hitler. Hitler gli chiese l'autografo. Il dittatore nazista dichiaratamente lo ammirava – Hedin era ariano, conservatore, dichiaratamente filo-tedesco e palesemente un überman. I nazisti gli assegnarono premi su premi, e Hedin – conservatore o meno, filo-tedesco o meno, simpatie per l’ideologia nazista o meno – fu abbastanza sveglio da capire quando si cercava di sfruttare la sua popolarità a fini propagandistici. Nel ’43 venne creato un Istituto Sven Hedin di Studi Asiatici a Berlino – ma Hedin non c’era, e perciò lo inaugurarono in contumacia e ben presto, Himmler lo trasformò nella spina dorsale dell’Ahnenerbe (chiedete a Indiana Jones ulteriori dettagli). Il rapporto di Sven Hedin col Partito Nazista è per lo meno ambiguo, e ben poco lusinghiero per il vecchio esploratore. Pur restando favorevole al Reich – una scelta che avrebbe influenzato negativamente il suo ricordo nel dopoguerra – Hedin sfruttò la corrispondenza frequente con Hitler per cercare di civilizzare il Fürher e le sue politiche. Fallito l’iniziale sforzo per convincere Hitler ad assumere posizioni meno anti-semite (!), Hedin operò ad-personam, sfruttando la propria popolarità in aiuto di condannati a morte e deportati. Ciò non toglie che Hedin abbia pubblicato durante tutta la propria carriera articoli e testi imbarazzanti, fin dai tempi della Grande Guerra, quando il suo volume La Missione del Sodato Tedesco, veniva praticamente distribuito gratuitamente alle truppe del Kaiser sulla via delle trincee. Queste pubblicazioni gli costarono l’espulsione dalla Royal Geographical Society – l'unico Membro Onorario ad essere espulso nella storia della Società. “L'abbiamo semplicemente fatto fuori, ma abbiamo ricavato un certo divertimento dalla sua sfortuna, quando nel 1918 mandò in stampa un libro intitolato La Germania Trionfante appena in tempo per il collasso della Germania.” [Sir Charles Bell, capo-missione a Lhasa, ad Arthur Hinks, Segretario della RGS, 1925] Coerente ed inflessibile anche nella sciocchezza assoluta, Sven Hedin rimase fino alla fine fedele ai propri “amici” ariani, nonostante ne disapprovasse ideologia profonda e metodi – e la propaganda nazista lo sfruttò biecamente (anche se non tanto quanto avrebbero voluto), salvo poi abbandonarlo e, forse, commissionarne l'eliminazione. Ma l’immagine davvero colossale di Hedin – pur con tutte le ombre politiche, ideologiche e semplicemente cialtronesche delle sue memorie spesso “spettacolarizzate” – rimane l’idea dell’università semovente, un’armata brancaleone di liberi pensatori e scienziati alla ricerca di tutto lo scibile, sistematicamente, sul territorio, in barba a confini, burocrazia, interessi politici e militari. E Hedin quasi un Brancaleone che vaga nel deserto del Taklamakan, dove anche i laghi si spostano, ma lui è ben deciso a cartografarli. Durante l’invasione dell’Afghanistan da parte delle truppe americane in seguito ai fatti dell'11 settembre 2001, i tecnici dell’intelligence americana usarono le mappe di Hedin per interpretare le foto da satellite. Uno dei membri dell'armata di studiosi di Sven Hedin, ma che ben presto se ne distaccò per operare in proprio, fu l'ungherese Marc Aurel Stein – l'uomo che riscoprì la Via della Seta, che recuperò tonnellate di materiale archeologico di valore incommensurabile e che di conseguenza venne premiato con un cavalierato e con la cittadinanza in Gran Bretagna. Studente di lingua persiana e sanscrito a Lipsia e a Vienna, dottorato a Tubinga, Stein – che quasi certamente operò anche come spia per gli inglesi – avviò la propria carriera di esploratore proprio ispirandosi ai lavori di Sven Hedin; ossessionato dalla figura di Alessandro Magno, svolse una vasta ed approfondita esplorazione della Via della Seta, con incursioni nell’area che stiamo discutendo, in quattro storiche missioni nel 1900, 1906-8, 1913–16 e 1930. Di fatto, Stein fu uno dei più cinici razziatori che mai siano calati sull'Asia e sulla Via della Seta, e la storia non ne conserva un ricordo positivo, nonostante il suo essenziale apporto alla comprensione di come le vie commerciali fra Oriente e Occidente siano state un canale per la circolazione delle idee ed abbiano forgiato tanto la storia dell'Oriente quanto quella dell'Occidente. Le prime tre spedizioni furono un grande successo – Stein aveva alle spalle gli inglesi e Lord Curzon, viceré dell'India, e fondi notevoli. Sulla base delle ormai mitiche mappe di Sven Hedin, Aurel Stein – che aveva studiato rilevamento e cartografia all'accademia militare Ludovika, in Ungheria – ritrovò le rovine di Dunhuang (già segnalate nel 1890 da un ufficiale inglese, e visitate a suo tempo da Sven Hedin), e la più grande biblioteca di testi antichi sulla civiltà a cavallo fra Mediterraneo e Cina mai scoperta al mondo (fra i testi ritrovati c’è anche il noto Sutra di Gesù, vangelo apocrifo in salsa buddhista). È interessante osservare come, nelle sue memorie, Hedin citi Stein quasi en passant, compiacendosi della precisione della propria cartografia. Ma Stein è ormai sulla strada per superare – per lo meno in volume di artefatti prodotti e di carte tracciate – il successo del suo maestro ed ispiratore. Il colpaccio, infatti, non è arrivare a Dunhuang, ma scoprire il complesso di caverne che si estende a circa venti chilometri a sud dell'antica città, e che tutti paiono aver dimenticato. Nelle caverne di Mogao, durante la sua seconda spedizione, Stein trova una vera e propria Caverna di Aladino – 500 grotte contenenti 45.000 affreschi, circa 2.000 statue e circa 50.000 manoscritti. Tutto materiale raccolto qui a fronte dell'avanzata musulmana, quasi mille anni prima. “La vista rivelata nella flebile luce della piccola lampada ad olio del sacerdote mi fece spalancare gli occhi. Accumulata in strati, ma senza alcun ordine, era visibile una gran massa di rotoli di manoscritti che arrivava fino all'altezza di dieci piedi, che riempiva, come rivelarono misure successive, quasi cinquecento piedi cubici.” [Aurel Stein, On Central Asian Tracks, 1933] E Stein si porta via tutto. O per lo meno tutto ciò che il taoista Wang, ultimo monaco a guardia di quel tesoro, gli permette di portar via. Dodici casse di materiale. Dipinti su seta, ricami, sculture, ed oltre settemila antichi testi in cinese, tibetano, tangut, sanscrito, turco e svariati altri oscuri linguaggi, non solo manoscritti ma anche il più antico libro a stampa conosciuto, una copia del Sutra del Diamante stampata l'undici di maggio 868. Il tutto, al costo netto di 130 sterline, pagate dai contribuenti britannici come “donazione” al monaco Wang. “Ciò che la mia esperienza in India mi aveva insegnato sulla diplomazia che più probabilmente avrebbe funzionato con preti locali di solito tanto ignoranti quanto avidi, poteva funzionare anche in territorio Cinese.” [Aurel Stein, ibid] Il monaco Wang non desidera il denaro per sé, tuttavia, ma per avviare un progetto di ristrutturazione e salvaguardia degli archivi di Dunhuang. Non potendo fare leva sulla prevista avidità e ignoranza, per convincere Wang a disfarsi di parte di ciò che intendeva salvaguardare, Stein non esita perciò a dichiararsi devoto e successore del monaco Xuanzang, che nel settimo secolo non aveva esitato a viaggiare per il mondo ed a correre rischi indicibili nella ricerca delle fonti dei testi buddhisti. Xuanzang è rappresentato in uno degli affreschi di Dunhuang (e proprio quello ha dato l'idea a Stein) ed è da sempre oggetto di venerazione per il povero Wang, che quindi acconsente allo scambio, riconoscendo in Stein uno spirito affine. Poi, nel 1930, parte la quarta spedizione Stein, finanziata congiuntamente dall'Università di Harvard e dal British Museum, e che si concluderà con un fallimento talmente colossale ed umiliante, che Stein non ne fa menzione in nessuno dei suoi molti libri. Ricostruire i fatti è complicato. Nel 1928, l'americano Langdon Warner, del Fogg Art Museum di Harvard, aveva segnalato come – complice la situazione politica sempre più confusa nell'area del Sinkiang – Dunhuang e le caverne di Mogao fossero ormai in condizioni deplorevoli. “Ovunque gli occhi sono stati cavati [agli affreschi], o profonde lacerazioni attraversano i volti… Intere file di fanciulle in complicate acconciature scorrono davanti al tuo sguardo, ma in vano si può cercare una testa che sia completa. Una elaborata composizioni del Bodhisattva in trono sopra gli antichi Dei mentre una graziosa danzatrice nauch danza su un tappeto davanti a Lui non contiene una singola figura intera… su alcune di queste facce graziosissime sono scarabocchiati i numeri di un Reggimento russo, e dalla bocca di un Buddha seduto per pronunciare la Legge del Loto fluiscono oscenità slave.” [Langdon Warner, lettera alla moglie, 1928] Tanta indignazione è certamente toccante, peccato che poi Warner - altro personaggio storico in coda per il titolo di "uomo che ispirò il personaggio di Indiana Jones" - si fosse fatto beccare, senza saperlo, dalla sua guida e interprete (uno studente cinese) mentre nottetempo rimuoveva gli affreschi ancora sani per portarseli a casa. Utilizzando un processo di peeling chimico, che consisteva nel cospargere gli affreschi di colla e poi applicarvi una tela e "strapparli via", Warner prelevò alla chetichella ventisei affreschi di epoca Tang, che oggi sono esposti al Museo di Belle Arti di Boston. Gli affreschi che Warner "trattò" ma non riuscì a staccare dalle pareti sono ancorà là, col loro strato di colla a ricoprirli. È conseguenza di queste razzie (per quanto Warner avesse pronta da mostrare una legittima ricevuta di acquisto, recuperata chissà come) che, quando nel 1930 l'ormai anziano Stein si fece convincere da Warner – e dai 100.000 dollari di finanziamento forniti da un magnate dell'alluminio – ad avviare un'ultima campagna in Sinkiang, il direttore dell'Università Yangching di Pechino, William Hung, un cinese che aveva studiato in America, sapeva cosa aspettarsi, ed avviò un'ampia e inesorabile campagna di boicottaggio della spedizione. Nonostante la sua università fosse finanziata da Harvard, dove lui aveva studiato. Stein cercò di fare del proprio meglio – coinvolgendo il British Museum per avere un canale preferenziale con le autorità britanniche nell'area – ma fu tutto inutile. E così, mentre gli operai si rifiutavano di scavare, i permessi e i visti andavano perduti, e i giornali cinesi ricevevano accuratissime “soffiate” sulle mazzette versate da Stein per ottenere favori presso i politici, la missione si concluse con un tragico e costosissimo niente di fatto. Stein tornò a casa con le pive nel sacco, recuperando a malapena una cassa di settantaquattro manoscritti, molti dei quali si rivelarono poi essere dei falsi. Al colmo dell'ironia, Stein venne accolto in patria dall'annuncio che i suoi ex colleghi dell'”università itinerante” di Sven Hedin avevano appena recuperato diecimila tavolette iscritte, documenti della dinastia Han su seta, affreschi, vasi e oggetti di bronzo. Per accordi pregressi, metà del materiale raccolto da Hedin sarebbe andato al governo cinese, metà alla corona svedese. Il vecchio Sven aveva vinto ancora una volta. “Alcuni uomini nascono con la sella sulla schiena, altri nascono con gli speroni ai piedi.” [Marc Aurel Stein] Si deve tuttavia annotare per correttezza che, a differenza di Hedin, Stein fu sempre estremamente attento alla sicurezza ed al benessere dei suoi collaboratori e del personale indigeno – tanto che in nessuna delle sue leggendarie spedizioni vi furono morti o feriti (straordinario, per l'epoca), e sostanzialmente Stein lavorò per quarant'anni fra la Turchia e la Cina senza perdere nemmeno un cammello. Oggi, esiste un Progetto Dunhuang, il cui scopo è quello di raccogliere tutti i tesori che, nel corso del ventesimo secolo, archeologi, avventurieri e razziatori hanno sparso per il mondo – in Inghilterra, Francia, Germania, Russia, Cina, India, Stati Uniti d'America, Giappone. Il tempo si appresta a realizzare il sogno del povero monaco Wang. Il principale contatto inglese di Aurel Stein, fonte di supporto economico e logistico, di informazioni e di suggerimenti (oltre che punto di riferimento per le attività spionistiche) era il console britannico a Kashgar, Sir George Macartney. Macartney era per metà cinese, e imparentato per parte di madre con uno dei leader della rivolta Taiping che aveva insanguinato la Cina fra il 1850 ed il 1864 (si stima che circa 20 milioni di persone fossero state uccise durante quegli anni). Visitando il diplomatico britannico, l'archeologo ungherese ebbe perciò modo di conoscere anche Lady Catherine Macartney, che mentre il marito gestiva spie e conduceva maneggi diplomatici, si adoperava per mantenere una piccola isola di confort britannico in quelle terre selvagge e desolate; e se Lady Macartney infine ritornò in Scozia nel 1918, la moglie di Sir Clarmont Skrine, che le succedette come First Lady di Kashgar proseguì con la tradizione del consolato di ricca ospitalità per spie e giornalisti (spesso la stessa cosa). Peter Fleming (parleremo di lui più avanti) descrisse la città come "Kashgar-les-Bains", impressionato dalla "vita di campagna" condotta durante il suo soggiorno. "Dopo i rigori del viaggio, ritrovarsi seduti in comode poltrone con long drink e riviste illustrate, e con un grammofono che suona […] è una esperienza celestiale". [Peter Fleming, News from Tartary, 1936] Attraverso la struttura informale originariamente gestita dalla Macartney, il governo britannico fornì il proprio supporto ad una miscellanea di personaggi piuttosto discutibili che si presentavano spesso senza preavviso presso il consolato, in orari poco ortodossi. Tra questi non mancano gli accademici di secondo piano, "esperti" d'arte (del calibro di Sir Anthony Blunt – l'esperto d'arte e spia che si scoprì poi essere un agente doppio al soldo della NKVD), cacciatori di tesori e di antichità, avventurieri e ciarlatani di ogni genere. E spie, naturalmente. A tutti costoro venivano garantiti un letto e un bagno per sette giorni o poco più; comodità normalmente molto gradite, dopo molte settimane o i mesi trascorsi nel deserto del Taklamakan. Alcuni potevano soddisfare la propria necessità per un piatto mediocre della poco attraente cucina nazionale inglese, e per i più esigenti, vi era una compensazione sotto forma di flusso abbondante di London Gin. E fra gli ospiti della Macartney, sarebbe scortese dimenticare un intraprendente tedesco dal piglio deciso, e dal nome francofono e vagamente ridicolo di Albert von Le Coq. “Tra le più sorprendenti sono le rappresentazioni di capelli rossi, gli uomini dagli occhi azzurri con le facce di un pronunciato tipo europeo. Noi colleghiamo queste persone con la lingua ariana trovato da queste parti in tanti manoscritti ... Queste persone dai capelli rossi indossano bretelle alla cintura... una notevole peculiarità etnologica!” [Albert von Le Coq, Buried Treasures of Chinese Turkestan, 1928] Albert von Le Coq (1860-1930) era un imprenditore tedesco del settore vinicolo trasformatosi in esploratore e archeologo dilettante, con una vera passione per l'arte e i manufatti della Via della Seta. L'improvvisa malattia del direttore del Dipartimento Indiano del Museo Etnologico di Berlino, Albert Grünwedel, diede a von Le Coq, che lavorava gratis come volontario al museo, l'opportunità di guidare una spedizione sul campo in Asia, e lui ci prese gusto. Il suo lavoro fruttò al Museo Etnologico di Berlino una quantità di preziosi manoscritti e pitture rupestri buddhisti e manichei – che von Le Coq segò via con grande precisione dalle pareti di antiche strutture a Bezeklik e Kharakhojo. Pragmatico e dominato da un fiero senso di superiorità germanico, von Le Coq giustificò quello che a tutti gli effetti poteva sembrare un furto, affermando che egli stava in effetti salvando tali opere da deturpazione e vandalismo. L'importante è crederci. Von le Coq era anche convinto di aver trovato tracce di una antica civiltà ariana nell'area fra il Sinkiang e l'Afghanistan – testimoniata da ritratti di individui dai capelli rossi e dagli occhi azzurri, che indossavano calzoncini tirolesi... Il suo Tesori Sepolti del Turkestan Cinese, pubblicato nel '28, farcisce la sterile narrazione archeologica e gli inventari del materiale sottratto (o tratto in salvo, a seconda delle versioni), con descrizioni spettacolari di orrori innominabili – tempeste devastanti (il leggendario buran), indigeni infidi, sciami sterminati di mosche e zanzare, scarafaggi repellenti “lunghi quanto un pollice, con grandi occhi rossi e formidabili antenne”, e naturalmente le pulci, “l'animale domestico d'elezione di tutto il Turkestan e il Tibet”. Per ironia della sorte, il bombardamento alleato di Berlino durante la Seconda Guerra Mondiale ha distrutto gran parte del materiale che Von le Coq aveva portato in salvo dalla minaccia dei vandali e dei predoni. Ciò che rimane è esposto al Museo dell'Arte Indiana di Berlino. “È fortunato chi, nel pieno della marea della vita, ha sperimentato una dose dell'ambiente attivo che più desidera. In questi giorni di fermento e cambiamento violento, quando i valori di base di oggi sono i vani e fratturati sogni di domani, c'è molto da dire per una filosofia che mira a una vita piena fintanto che ne viene fornita l'opportunità. Ci sono pochi tesori di valore più durevole che l'esperienza di un modo di vita che è di per sé del tutto soddisfacente. Questi, dopo tutto, sono i beni di cui né il destino, né alcuna catastrofe cosmica ci può privare; niente può alterare la realtà, se per un momento nell'eternità abbiamo veramente vissuto.” [Eric Shipton, Upon a Mountain, 1943] Nel 1937, una missione molto diversa da quelle organizzate da Hedin, Stein o von Le Coq giunse in Sinkiang con un progetto quantomeno eccentrico – passare dalla Cina per cartografare le direttrici di ascensione alla vetta del K2 (anche nota come La Montagna Assassina o La Montagna Selvaggia). Il progetto era stato delineato da Eric Shipton, esploratore di razza, scalatore, fautore dell'approccio spartano all'esplorazione e con pochissimi grilli per la testa – e che nel 1951 sarebbe divenuto famosissimo per aver fotografato una serie di orme lasciate sulla neve himalayana dallo yeti (e successivamente, per i dissapori con Edmund Hilary). Persona estremamente discreta, il trentenne Shipton aveva una lunga e solida storia come esploratore e scalatore in Africa, spesso insieme con Bill Tilman; i due – che collaborarono per anni ma per educazione preferivano non chiamarsi per nome – si vantavano di essere in grado di mettere in piedi una spedizione completa, diretta ovunque, in circa mezz'ora, prendendo appunti sul retro di una busta o su di un tovagliolo. E così fecero in questa occasione – finanziando con pochissimi fondi una spedizione che comprendeva solo quattro occidentali ed una manciata di sherpa. Tutti i partecipanti condividevano il cibo e viaggiavano con un equipaggiamento ridotto al minimo. Oltre a Shipman e Tilman, il gruppo includeva due cartografi del Servizio Geografico Indiano, Michael Spender e John Auden, entrambi fratelli di famosi poeti. Quando, dopo alcune settimane di attività, Shipton si rese conto che l'area che intendeva cartografare era troppo ampia (circa 2600 chilometri quadrati), nel giro di una serata, discutendone coi compagni, divise il proprio gruppo in tre squadre, che nelle settimane successive lavorarono in maniera indipendente. Finito il lavoro, un paio di mesi dopo, si riunirono come concordato, si congratularono reciprocamente per i risultati ottenuti, e poi si sedettero attorno al fuoco per decidere quale percorso seguire per il rientro. La loro spedizione, che costò una frazione rispetto a quelle di Hedin, Stein o von Le Coq, non incontrò ostacoli soverchianti, non fu testimone di conflitti epocali, non registrò vittime. Tornarono a casa, e su un tovagliolo delinearono in mezz'ora i piani per la missione dell'anno successivo – un'ascesa alla vetta dell'Everest. In questa nuova impresa, il “capo” della spedizione sarebbe stato Tilman (probabilmente decisero lanciando una moneta). Il Barone Pazzo “Frusti spesso le persone?” “Non abbastanza – ma può capitare.” [dai verbali dell'ultimo interrogatorio del Barone Roman von Ungern-Sternberg, 1921] Ma forse Sven Hedin aveva ragione... il crocevia del mondo si stava facendo un po' troppo pericoloso. Poco più a nord dell’area in cui Chapman Andrews scavava fossili, e più o meno negli stessi anni della sua prima spedizione, cavalcava l’armata del Barone Roman Nikolai Maximilian von Ungern-Sternberg, generale, mistico, sadico, ultimo Khan della Mongolia, Dio della Guerra e devoto buddista sui generis, l'ultimo comandante a conquistare una nazione con la forza della cavalleria. Il genere di personaggio che un editor ci casserebbe, se lo infilassimo in un romanzo. Troppo poco plausibile. Troppo sopra le righe. Troppo pulp. Roman von Ungern-Sternberg, alias il Barone Pazzo, alias il Barone Sanguinario (eccetera – abbiamo reso l’idea), un Russo Bianco sofferente di emicranie continue a causa di una ferita da pallottola alla testa riportata durante un duello, emerso da una gioventù sprecata come debosciato per diventare un volenteroso se non brillante ufficiale di cavalleria, insignito della Croce di San Giorgio dallo Zar e nominato Dio della Guerra dal Dalai Lama (che all’epoca non era evidentemente un vecchietto raggrinzito e pacioso felice di bazzicare Richard Gere, Bono e Jovanotti) ed egli stesso convinto di essere la reincarnazione di Gengiz Khan, era a capo di un’armata brancaleone di russi bianchi e predoni mongoli (ma c’era anche un italiano fra le sue truppe) che usava come vessillo la svastika (in cinese lei-wun – rombo di tuono). La storia di Ungern-Sternberg e della sua guerra personale coi bolscevichi e – sostanzialmente – con chiunque non gli andasse a genio (ed erano parecchi), è quanto di più demenziale e grottesco si possa immaginare. Le prime imprese giovanili, a ridosso della Rivoluzione del '17, vedono il Barone al fianco del capitano Grigori Michaelovich Semenov, un altro poco di buono, un ufficiale sbandato dopo la rivoluzione riciclatosi come hatman del Transbaikal, a bordo di un treno blindato. Erano, questi treni, un prodotto della belle epoque, che aveva fatto del trasporto su rotaia la punta di diamante della mobilità – esistevano treni ospedale, treni che offrivano ogni sorta di intrattenimento, treni che erano mercati viaggianti e, appunto, treni blindati che solcavano le pianure come corazzate. “Il loro stesso nome pare strano,” osservò Churchill, “una locomotiva camuffata da cavaliere errante, l'agente della civilizzazione negli abiti della cavalleria.” Ma la corazzata di terra con la quale Grigori Semenov manteneva un labile controllo del Transbaikal era più un vascello pirata che una corazzata – un treno sui fianchi del quale erano state saldate delle lastre d'acciaio, dotato di un paio di mortai e qualche mitragliatrice, col quale i due razziavano i villaggi in cui il treno sostava (previo bombardamento a distanza per “ammorbidire” i villici), e che includeva oltre ad un lussuoso alloggio per i due ufficiali, un vagone-bordello equipaggiato con prostitute, oppio, cocaina e champagne, e un vagone-tesoreria zeppo di oro e altre meraviglie... Ma se l'apprendistato con Semenov fu certamente importante, è l'attività successiva in proprio che costituisce il nucleo della leggenda del Barone Pazzo. Non c’è un momento, nella breve delirante vita di Roman von Ungern-Sternberg che non sia assolutamente over-the-top. Non c’è un cattivo in un vecchio pulp, non c’è Bond-villain, non c’è Grand Moff o Signore dei Sith che possa stare alla pari con Roman Von Ungern-Sternberg per l’assoluta demenzialità della sua vena crudele, per la sua follia ed efferatezza, per il taglio surreale delle sue fissazioni e delle sue manie. Un luterano convertito al buddhismo tibetano che amava cavalcare a torso nudo “come un neanderthal”, orribilmente sfregiato, e probabilmente soggetto a crisi psicotiche derivate dalla ferita alla testa, perennemente oscillante tra gli stravizi più colossali e la pratica ascetica… Chi se lo potrebbe immaginare, uno così? Chi potrebbe inventarselo? Eppure Ungern-Sternberg fu probabilmente il modello per il Conte Zaroff di The Most Dangerous Game e di tutti i russi pazzi del cinema dagli anni ’20 in poi. Ungern-Sternberg sogna di aprirsi una strada da Ulan-bator a Mosca, segnandone il percorso con un uomo crocefisso ogni cinquecento metri; utilizza come luogotenente di un sadico deviato che ha il solo incarico di strangolare chi vada contropelo al comandante. Il barone ha la sfrontatezza nel farsi dichiarare Dio della Guerra dal Dalai Lama in persona, e un’ossessione per Gengiz Khan che scivola nel delirio di reincarnazione. Sceglie la svastica come vessillo per le proprie armate. Per suo ordine, i prigionieri vengono inzuppati d’acqua e lasciati congelare al vento della steppa, come preparazione per poi farli sbriciolare a colpi di maglio. Giù giù in una spirale granguignolesca che culmina con la decisione delle sue truppe di accopparlo, la fuga a cavallo, febbricitante, la fucilazione da parte delle forze bolsceviche… Quando le sue incontinenze divennero inaccettabili – intere città massacrate e rase al suolo, luogotenenti riottosi strangolati o frustati a morte, deliri sovrannaturali e frequentazione con sciamani e altri personaggi bizzarri – le sue truppe si rivoltarono e mitragliarono nottetempo la tenda nella quale il Barone Pazzo dormiva. Sopravvissuto all’agguato (segno che la stoffa del Dio della Guerra dopotutto ce l'aveva), Ungern-Sternberg prima tornò al galoppo a terrorizzare i propri uomini ammutinati, come uno spettro vendicatore sputato da un inferno che non lo voleva e poi, in preda a febbri ed allucinazioni, finì proprio in mano ai bolscevichi che tanto odiava, che lo interrogarono registrandone i deliri per i posteri, e poi lo fucilarono senza troppi complimenti. Viva la Rivoluzione. Un piccolo tassello nella storia dell’Eurasia, una nota a pié pagina nella cronaca della Rivoluzione Russa, eppure la biografia di questo essere inquietante mostra in pieno come la storia umana, al di là delle vicende politiche, al di là delle date e dei nomi, possa essere straordinaria come un romanzo d’avventura, orripilante come un horror di eccellente livello. Ci mostra un passato meno banale di quanto non suoni nelle aule delle nostre scuole, nel quale le azioni di individui malati possono portare alla tragedia, nelle quali il singolo – nel bene e nel male – ha contato e conta più di quanto non si potrebbe pensare. Viste attraverso il filtro del tempo, le imprese di un criminale come Roman von Ungern-Sternberg suscitano indignazione ma anche, appunto, una strana solleticazione della nostra ghiandola dell’avventura, che pare più atrofizzata ogni giorno di più. Oggi quest’uomo incredibile – per quanto profondamente spiacevole – è oggi quasi completamente dimenticato – compare nelle memorie del solito Ossendowski, che fu testimone di parte dei massacri, e nei fumetti di Corto Maltese di Hugo Pratt (in Corte sconta detta arcana); Pratt non poté però usare la svastica come bandiera della Divisione Asiatica di Ungern-Sternberg, per via della solita, inspiegabile censura tesa a difendere l’anima dei lettori italiani. Ma parleremo ancora di lui. Signori della Guerra Chissà come avrebbe preso la faccenda della reincarnazione di Gengiz Khan l'emiro di Bukhara, Mohammed Alim Khan, che di Gengiz diceva di essere diretto discendente (certo, come no…), e che in quegli stessi anni, appena più a ovest se la stava giostrando proprio coi bolscevichi tanto cari al barone Pazzo. Consolidata più o meno la situazione post-rivoluzionaria in Russia, Lenin aveva infatti deciso di “infiammare l'oriente”, portando la rivoluzione in territori nei quali l'ingerenza occidentale e le rivalità etniche e religiose rendevano già di per se l'atmosfera quantomai infiammabile. Mohammed Alim Khan si era inizialmente presentato come riformatore al proprio popolo, ma aveva capito alla svelta che troppa modernità è nociva per i poteri autocratici, ed aveva fatto marcia indietro – ottenendo così proprio l'esacerbazione del malcontento e la rivolta che aveva temuto di causare con idee troppo progressiste. Quando la Rivoluzione arrivò Bukhara, nel 1918, sulle prime Alim Khan giocò al meglio le proprie carte – quando i bolscevichi chiesero la sua abdicazione, lui li fece giustiziare tutti, la delegazione dei russi invasori e svariate centinaia di loro sostenitori; un atto di tale efferatezza che le truppe russe fuggirono inorridite. A questo punto, per andare sul sicuro, Alim Khan contattò l'agente coloniale inglese a Kashgar, chiedendogli un posto dove “sistemare” 35 milioni di sterline in oro, argento e gioielli – il tesoro di famiglia. Il colonnello Etherton, che si occupava di certe cose a Kashgar per conto della corona britannica, preferì non correre il rischio. Ma nel 1920 i bolscevichi di Bukhara tornarono alla carica, ora con l'appoggio dell'Armata Rossa comandata da Mikhail Frunze, e quastavolta Alim Khan fuggì con i propri uomini (ma senza il tesoro) prima a Dushambé e poi in Afghanistan, strada facendo dandosi a piccoli atti di brigantaggio, grazie anche al supporto dei basmachi, sulla carta una popolazione locale alquanto belligerante, di fatto un movimento indipendentista islamico e panturchista che mal sopportava i bolscevichi. Questi “pochi malcontenti e reazionari” misero in campo qualcosa come 30.00 uomini fra il 1918 ed il 1930 – grazie anche al supporto fornito dagli inglesi, in particolare nella figura del tenente di fanteria e naturalista (o viceversa) Frederik M. Bailey, che ufficialmente si trovava nell'area per mantenere sotto osservazione Raja Mahendra Pratap Singh, rivoluzionario anarco-comunista e fondatore, e capo, del Governo Provvisorio dell'India, con sede a Khabul. Negli anni a venire, la rivolta dei basmachi avrebbe fornito ispirazione per molti “Ostern” - film russi che riprendevano la struttura classica del western in una ambientazione storica rivoluzionaria o sovietica. Il Kahn di Bukhara non incontrò né derubò Roy Chapman Andrews, né ovviamente Ungern-Sternberg (peccato, perché entrambi odiavano i bolscevichi, ed avendo una specie di legame di parentela… sarebbe stato l’inizio di una bella amicizia). Così come sarebbe stata una gran bella festa – e il genere di situazione tesa e letale resa popolare dai film Ostern - se Ungern-Sternberg o Alim Khan avessero incontrato Ismail Enver, alias Enver Pascià. La Treccani liquida Enver in poche righe: “Uomo politico e militare turco (Istambul 1881 - Čeken, Tagichistan, 1922). Ebbe una parte notevolissima nella rivoluzione dei Giovani Turchi (1908-09) e, all'entrata in guerra della Turchia a fianco degli Imperi Centrali, divenne generale e ministro della Guerra. Esule dopo l'armistizio, riparò nel Caucaso e prese attiva ma ambigua parte nella lotta tra le nazionalità turche d'Asia e i bolscevichi.” Come se fosse così facile. Enver Pascià, già ministro della guerra della Turchia, e che era stato all’onore delle cronache per aver cannoneggiato Odessa e Sebastopoli durante la Prima Guerra Mondiale, era stato il fautore dell’eccidio degli Armeni, dei Greci e degli Assiri durante la Grande Guerra ed aveva proposto di mettere in campi di concentramento i cittadini delle nazione alleate residenti in Turchia. Ora, pochi anni dopo, non essendo più persona grata nel proprio paese, cercava di scavarsi una nicchia nell’oriente misterioso, sognando un grande impero turco che si estendesse da… mah, facciamo da Pechino a Istambul. Lui e Ungern-Sternberg avrebbero fatto scintille. In prima battuta, Enver era stato chiamato per mediare la tregua fra basmachi e russi, ma aveva preferito unirsi ai basmachi, organizzarli in un esercito professionale e rigorosamente inquadrato di sedicimila uomini, per poi proseguire la rivolta contro i russi ed i loro simpatizzanti – arrivando a prendere il controllo di oltre metà del territorio che era stato di Mohammad Alim Khan (per cui no... forse non sarebbe stata una bella amicizia). Ora agli ordini di Enver Pascià e non più una milizia vagamente ideologizzata, i basmachi dovevano però vedersela non solo col loro ex padrone Alim Khan, alquanto infuriato per lo scippo dei suoi vecchi domini, ma anche contro i russi, gli inglesi e i cinesi, le truppe ngolok inviate dal Signore della Guerra di Kansu in appoggio all’esercito tibetano nella sua azione repressiva contro i musulmani (che in effetti è un po' generico – ma per i tibetani e gli ngolok qualsiasi musulmano andava bene), le armate musulmane guidate dal cinese Ma Qi, e ciò che restava dell’esercito afghano, completo di artiglieria trainata da buoi ed elefanti, in rotta oltre i passi settentrionali dopo la disfatta della Guerra Afghana del 1919 contro gli inglesi. Era il 1921 – da quel momento in avanti, la situazione politica e militare di queste regioni si sarebbe fatta solo più complicata e sanguinosa, fra signori della guerra, cambi di fronte, mercenariato e azioni sul confine sottile che separa la guerriglia dal brigantaggio. Ismail Enver morì nel 1922 poco lontano da Dushambé, caricando con soli 25 uomini una intera unità dell'Armata Rossa – il resto delle sue truppe aveva ricevuto la giornata libera per celebrare il Festival del Sacrificio. Il Barone Pazzo avrebbe apprezzato. Un po' più a oriente, le cose non andavano meglio. La regione del Sinkiang era stata dominata – più o meno di buon grado – dall'Impero Cinese fin da tempi immemorabili. Nel 1912, tuttavia, la dinastia Qing era sostituita dalla Repubblica di Cina. Yuan Dahua, l'ultimo governatore Qing del Sinkiang, si era dato alla fuga, ed uno dei suoi subordinati, l'ex mandarino Yang Zengxin aveva preso il controllo della provincia. Un fautore delle soluzioni semplici ma non privo di una certa sofisticazione politica, Yang cominciò con l'eliminare i rivoluzionari Ili e gli Gelaohui, quindi mise Ma Fuxing al comando di 2,000 cinesi musulmani e gli diede mano libera contro i propri rivali; successivamente, pur restando fermamente monarchico, aderì alla Repubblica Cinese. L'adesione alla Repubblica comportò un do ut des – il presidente Yuan Shikai (in procinto di fare marcia indietro su democrazia e rappresentatività, e autoproclamarsi Grande Imperatore della Cina) riconobbe Yang come governatore, e Yang in cambio, nel 1916, invitò tutti i leader delle forze repubblicane avversi a Yuan ad un sontuoso banchetto, e li decapitò tutti. Yang procedette quindi a mettere in guardia i propri sudditi... beh, ok, i propri concittadini di fede musulmana, nei confronti dei Bolscevichi Russi, che avevano appena avviato la propria rivoluzione e si stavano lentamente allargando a oriente... “gente completamente priva di religione, porterebbero loro solo dei danni, e sedurrebbero le loro donne.” Per ironia della sorte, il Grande Imperatore (ex Democratico Presidente) Yuan Shikai, travolto comunque da rivolte e sommosse, morì nel 1916, dopo poco più di un anno di regno, e pochi mesi dopo il grande repulisti operato da Yang. Perduto l'appoggio del capo del governo, attraverso una politica machiavellica, un regime fiscale populista e manipolando i collegi elettorali sulla base della loro composizione etnica, Yang mantenne il controllo dello Xinjiang fino al 1928. Nel 1928, venne assassinato. Il suo successore Jin Shuren non riuscì a replicare l'astuta amministrazione del predecessore, ed anzi aggravò la situazione con un atteggiamento fortemente xenofobo, una condotta discutibile e una amministrazione sfacciatamente corrotta. Come risultato, nei primi anni '30 tutto lo Xinjiang esplose in una serie di rivolte, almeno nominalmente sulla base di etnia o religione, in cui erano coinvolti gli uighur, i turchi, e gli hui (musulmani cinesi). Qui la faccenda si complicò alquanto, poiché Jin non trovò di meglio che rivolgersi ai russi bianchi per schiacciare la rivolta. Nella regione di Kashgar, venne dichiarata la Repubblica del Turkestan Orientale, anche nota come "Uyghuristan". La nuova Repubblica non ebbe vita lunga – La 36 ª Divisione del Kuomintang dei Cinesi Musulmani (Esercito Rivoluzionario Nazionale), al comando del generale Ma Zhongying, detto “Grande Cavallo”, spazzò via le forze della Repubblica del Turkestan Orientale nella battaglia di Kashgar (1934), dopo di che i musulmani cinesi giustiziarono i due emiri della Repubblica, Abdullah Ahmad e Nur Bughra Jan Bughra. Geologi & Mistici Strano, se ci pensate, che Ferdynand Ossendowski, che ebbe modo di incontrare Ungern-Sternberg, e ne parla nel suo Bestie, Uomini e Dei (1921), non dica nulla di Alim Khan o di Enver Pascià… Certo, considerando che durante le sue peregrinazioni asiatiche Ossendowski incontrò il Re del Mondo e visitò l’Agartha, possiamo immaginare avesse altro da fare piuttosto che tenersi aggiornato sulla cronaca locale. Il polacco Ferdynand Ossendowski era un geologo, ma non si trovava nell'area del Transbaikal per delle ricerche scientifiche, bensì per sfuggire ai bolscevichi – era stato infatti parte del governo controrivoluzionario siberiano dell'ammiraglio Kolchack. Dopo la sconfitta di Kolchak nel 1920, Ossendowski si unì a un gruppo di polacchi e russi bianchi, cercando di fuggire dalla Siberia controllata dai comunisti e raggiungere l'India, attraversando Mongolia, Cina e Tibet. Ma raggiunta la Mongolia, lui ed i suoi compagni vennero fermati proprio dalla conquista di quei territori da parte del barone Roman von Ungern-Sternberg. Dimostrandosi un grande opportunista (anche se non certo un esempio di coerenza), Ossendowski si arruolò nell'esercito del barone come un ufficiale comandante di una delle truppe di autodifesa, e divenne anche per un breve periodo consulente politico di Ungern-Sternberg e capo dei suoi servizi segreti (ruolo riguardo al quale, capirete, mancano ulteriori informazioni). Alla fine del 1920, Ossendowski fu inviato con una missione diplomatica in Giappone e poi negli Stati Uniti, e lui ne approfittò per non tornare mai più in Mongolia. Ossendowski aveva scoperto l'unico modo sicuro per dare le dimissioni dall'entourage del Barone Pazzo senza gravi conseguenze – da ventimila chilometri di distanza, con un bell'oceano in mezzo. Alcuni cospirazionisti ritengono che Ossendowski sia stato una delle persone che nascosero i favoleggiati tesori del Barone Sanguinario. Ma a questo riguardo mancano ulteriori informazioni. Nei capitoli conclusivi del suo Bestie, Uomini e Dei, Ossendowski racconta del proprio incontro con il Re del Mondo che soggiorna nell'Agarttha, o Agarthi, in un delirio sincretico che deve molto alle teorie di Saint-Yves e di materiali variamente mutuati dalla Teosofia. E qui dobbiamo fare una lunga divagazione. Fu Edward Bolwer-Lytton, mediocre pennivendolo britannico con un paio di quarti di nobiltà e velleità politiche e poetiche, a soffiare alla Blavatski l’idea della grande e pura razza atlanteana che aveva governato il mondo, o fu la Blavatski, profuga russa riciclatasi come vestale di un culto religioso- filosofico a sfondo medianico, a leggersi i ponderosi polpettoni mistico-fantastici di Bolwer-Lytton ed a soffiare qualche idea valida? Fa un po’ di chiarezza sull’intera faccenda Lyon Sprague de Camp, nel suo fondamentale Il Mito di Atlantide – in realtà, è vera la seconda. Rampollo della famiglia Bulwer di Knebworth (il posto fuori Londra dove oggi fanno i concerti rock e dove Tim Burton girò parte del suo “Batman”), Edward George Earle Lytton Bulwer (1803-1873), alias Edward Bulwer-Lytton, oggi viene ricordato soprattutto per aver scritto Gli Ultimi Giorni di Pompei (1834), più volte adattato per il grande ed il piccolo schermo. E per aver scritto un romanzo che inizia con la frase "Era una notte buia e tempestosa". “Nonostante l’ampia dose di retorica turgida e vuoto romanticismo delle sue opere, il suo successo nell’intessere una sorta di bizzarro fascino è innegabile” [H.P. Lovecraft, 1926] Certo, essere accusati di perpetrare “prosa turgida” da H.P. Lovecraft – egli stesso autore, nei suoi momenti peggiori, di narrative tutt'altro che scorrevoli – depone molto poco a favore di Edward Bulwer Lytton quale artigiano della pagina scritta. Considerato dai più un mediocre narratore storico, e oggetto di scherno per aver fornito l’incipit più scontato e trito alle fatiche letterarie di Snoopy, Bulwer-Lytton scrisse pure un romanzo di fantascienza, intitolato The Coming Race (1871), nel quale gettava le basi per una utopia razzista e autoritaria che avrebbe probabilmente influenzato tanto Orwell quanto Huxley e, molto meno innocentemente, Hitler. La “razza ventura”, discendente dei fondatori di Atlantide, attende nascosta sotto la superficie del pianeta il momento per tornare a dominare il mondo, attualmente popolato da creature inferiori (voi e me); i nuovi atlanteani possono contare sul vril, fonte di energia inesauribile, ma sono ancora troppo sensibili all'attrazione carnale verso forme di vita inferiori (sempre noi), un peccato che già in passato ne causò la caduta. Il romanzo divenne moderatamente popolare in un'epoca in cui non c'erano la televisione ed i videogiochi, e alcuni concetti, come il vril, vennero ben presto fagocitati dalla cultura dominante. L’invenzione di Bulwer-Lytton venne perciò adottata/adattata da un astuto commerciante per dare il nome al Bovril, sorta di energetico brodo granulare di manzo (bove + vril = bovril) piuttosto in auge presso la lower middle class (e gli operai di fabbrica del turno di notte in particolare) fra l’epoca vittoriana ed il secondo conflitto mondiale. Il romanzo influenzò pure, suo malgrado, Elena Petrovna Blavatskaya, alias Madame Blavatski, ex sarta da rammendo riciclatasi a musa ispiratrice di un culto alimentato da spiriti guida atlanteani molto simili alla “razza ventura” di BulwerLytton, e che ebbe fra i suoi estimatori anche Arthur Conan Doyle. Come gli atlanteani di Bulwer-Lytton, anche gli atlanteani della Blavatski – in realtà discendenti dei Signori della Fiamma Imperitura calati da Venere che fondarono Agarthi su un’isola del Mare di Gobi – usano il vril, fonte inesauribile di energia. La teosofia avrebbe popolarizzato l’idea di un paradiso terrestre asiatico, posto nelle regioni himalayane, costruito attorno alla città di Agarthi, e retto dal Re del Mondo, sorta di benevolo erede del Prete Gianni di un certo folklore cristiano tardo medievale. Una spolverata darwiniana di massima non ci stava male (l’incipit de Le Stanze di Dzian, 1888, della Blavatski si intitola Evoluzione Cosmica), per cui le tribolazioni del mondo risultavano essere in effetti il frutto dell’empio accoppiamento fra razze superiori e razze inferiori, un altro tema preso di peso da The Coming Race. Le idee non proprio liberal di razza espresse da Bulwer-Lytton, insieme con il darwinismo mal digerito e gli incubi relativi, e la teoria che la terra sia cava e lì si trovi l’Agarthi, vennero abbracciate con entusiasmo dal mondo mistico-esoterico a cavallo del secolo, una sorta di rigurgito medievale in faccia all’avanzare prepotente della tecnologia e della scienza, indotto probabilmente dalla paura e dall’incertezza. E mentre Wagner avrebbe musicato il Rienzi, polpettone storico di Edward Bulwer-Lytton, i suoi fan Hitler, Hesse e Himmler avrebbero fatto della razza ariana venuta dal Tibet e alimentata a vril qualcosa di più che un brutto scherzo giocato a creduli scrittori di romanzi polizieschi e romantici assortiti. E così, complici personaggi improbabili, la teoria che una sorgente di qualche genere si trovasse nell’Asia centrale percolò poco alla volta nella cultura occidentale. Non solo Ossendowski vagò per l'Asia abbagliato dalle teorie e dalle rivelazioni della Blavatski. Il geologo polacco avrebbe trovato uno spirito affine in Alexandra David Neel – che dal nome suona britannica, ma era in realtà franco-belga e si chiamava Louise Eugenie Alexandrine Marie David – che negli stessi anni, poco più a sud, si occupava di Buddhismo, tanto da essere la prima donna investita del titolo di lama. Figlia di un membro della Massoneria, attrice e ballerina, con trascorsi anarchici e una documentata frequentazione dello spiritismo e del pensiero massonico, membro della Società Teosofica della Blavatsky, la David-Neel aveva avuto probabilmente una relazione con il sovrano del Sikkim nel 1911. Successivamente, aveva trascorso due anni, fra il 1914 ed il 1916, in una caverna sul confine tibetano, praticando l'ascesi in compagnia di un giovane monaco, Aphur Yongden, di trenta anni più giovane di lei, che successivamente adottò e divenne il suo principale compagno di viaggio in Asia. “Chi viaggia senza incontrare l'altro, non viaggia, si sposta.” [Alexandra David-Neel] Nel 1924, la David-Neel viaggiò verso il Tibet, camuffata da pellegrino, in compagnia di Ekai Kawaguchi, uno studioso e monaco buddhista (e probabilmente spia) giapponese che in passato aveva ottenuto l'accesso all'isolato regno himalayano spacciandosi per medico itinerante cinese. I due attraversarono la Cina e raggiunsero il Tibet e la DavidNeel vi trascorse due mesi. Rientrata in Francia, si separò dal marito (il “Neel” di “DavidNeel”, che come una specie di sposo di guerra l'aveva vista pochissimo, e si era limitato a finanziare le sue imprese) e mise su carta le proprie esperienze. Molti sono i titoli ancora oggi molto popolari usciti dalla penna della David-Neel - Nel paese dei briganti gentiluomini, Viaggio di una parigina a Lhasa, Mistici e maghi del Tibet. Tornò poi in Tibet nel 1937, e vi trascorse tutto il periodo della Seconda Guerra Mondiale, mentre la sua segretaria, che aveva viaggiato con lei, veniva affidata al russo Peter Goullart, che la riaccompagnò verso la civiltà – o per lo meno per parte del percorso fino alla civiltà, visto che dopo poche settimane la povera donna venne affidata alle amorevoli cure dei banditi Lolo, che comunque l'accompagnarono fino a Chengdou. Briganti gentiluomini, come si diceva. Ne avrebbero avute, di cose da dirsi, la David-Neel e Ossendowski – e certamente anche il teosofo sui generis Nicolaj Roerich avrebbe avuto delle belle storie da raccontare. Nicolaj Konstantinovich Roerich, un pittore e mistico russo di discendenza vichinga influenzato artisticamente da Gauguin e VanGogh, aveva raggiunto una certa popolarità internazionale grazie alla sua collaborazione con Borodin per il primo allestimento de Il Principe Igor, e successivamente con Stravinsky e Nijinsky per La Sagra di Primavera, avendo curato le scenografie ed il libretto della messa in scena che nel 1913 causò una rivolta alla premiere a Parigi. Vicino alle posizioni dei Teosofi, e straordinariamente opportunista, Roerich era la reincarnazione del Quinto Dalai Lama – o così sostennero i tibetani dopo averlo esaminato accuratamente. D'altra parte, sua moglie, Helena Ivanova Shaposhnikova, discendeva da khan mongoli, o così diceva (e quindi imparentata con il Khan di Bukhara e, reincarnazione per reincarnazione, con Ungern-Sternberg). Roerich, che aveva un dichiarato interesse per l'archeologia, l'etnografia, il Buddhismo e l'arte e l'architettura dell'antica Russia, aveva sentito per la prima volta in Russia, prima della rivoluzione, l'ipotetica predizione del Dalai Lama riguardo ad una grande nazione buddhista che avrebbe dovuto comprendere Russia, Mongolia, Cina e Tibet – e lavorò al compimento di questa grande visione per gran parte della propria carriera. Poi venne la rivoluzione. “Volgarità e pregiudizio, tradimento e promiscuità, la distorsione delle sacre idee dell'umanità, ecco cos'è il bolscevismo.” [Nicolaj Roerich, articolo del 1919] Trasferitosi in Inghilterra e poi in America dopo l'ascesa al potere dei Bolscevichi – che detestava, ma coi quali comunque concludeva affari attraverso una import-export amministrata da suo figlio – commercialmente scaltro e ideologicamente incostante, Roerich fondò in America un'accademia d'arte, il Master Institute of United Arts, uno spazio espositivo, Corona Mundi, due biblioteche (una delle quali dedicata alla sua collezione di libri tibetani), la casa editrice Roerich Press ed il Roerich Museum di New York ove esporre le proprie opere – ed i suoi dipinti avrebbero influenzato H.P. Lovecraft nelle sue descrizioni delle architetture aliene di Alle Montagne della Follia. Al contempo, Roerich si mise al lavoro per fondere in un'unica visione gli insegnamenti del Buddha e di Lenin (che non gli era più così antipatico, evidentemente), sviluppando un progetto sostanzialmente anti britannico nel settore asiatico. Nel 1926, giostrando la collaborazione di elementi apparentemente inconciliabili quali la diplomazia inglese e lo spionaggio sovietico, Roerich intraprese una improbabile marcia dall'India alla Mongolia, passando per il Sinkiang – il Progetto Shambhala. In questo viaggio attraverso territori inospitali e stravolti dalla guerra, Roeich era accompagnato dalla moglie – con quattro grandi bauli zeppi di abiti da sera – e dal figlio Svetoslav – con due casse di grammatiche sanscrite e tibetane. Si preannunciava un viaggio interessante. Tra spie, signori della guerra cinesi e improbabili incontri con oggetti volanti non identificati, la missione dei Roerich venne attaccata da una “folla organizzata” in Kashmir, venne trattenuta per quattro mesi a Khotan (per aver tentato di asportare oggetti d'arte), ed arrivata ad Urumchi in Sinkiang, deviò inspiegabilmente verso la Russia, mettendo in allarme tutti i servizi segreti occidentali (gli inglesi prima di tutto). L'annuncio della Pravda, secondo il quale Roerich avrebbe guidato per due anni una spedizione russa in Tibet non migliorò le cose, rendendo il vocalmente anti-britannico Roerich ancor più inviso agli inglesi. Ma per intanto, i russi prestarono cinque automobili alla spedizione Roerich, affinché la spedizione del Progetto Shambhala recuperasse il Panchen Lama in Mongolia e lo accompagnasse in Tibet. Dopo una sosta negli Altai – raggiunti con la Transiberiana – i Roerich piegarono nuovamente verso il Tibet, questa volta passando per il Gobi, avendo preso contatto con il Panchen Lama (esiliato in Mongolia per divergenze politiche e dottrinali col Dalai Lama). Seguirono altre deviazioni impreviste e sospette. Alla fine gli inglesi, esasperati, misero fine alla spedizione – Roerich ed i suoi compagni vennero trattenuti per cinque mesi sul ciglio dell'altopiano di Chang Tang – da settembre a gennaio, in uno dei luoghi più freddi della terra – non solo la grande nazione buddhista non si concretizzò, ma Roerich finì con lo spostarsi su posizioni fortemente critiche nei confronti del Dalai Lama, passando invece a sostenere invece il Panchen Lama. La cosa interessante è che se Ossendowski visitò l’Agartha, la David Neel incontrò dei lama provenienti da Shambhala, la mitica atlantide Hymalaiana alla quale – col nome di ShangriLa – James Hilton avrebbe dedicato una decina di anni dopo un romanzo, Lost Horizon, probabilmente ispirato da uno scritto di Roerich. Lost Horizon fu anche il primo paperback tascabile della storia, ed un film del ’37 che inspiegabilmente venne distribuito in versione integrale solo in Svezia. Roerich nel frattempo vide un disco volante sul Transhimalaya, un fatto riguardo al quale grandi discussioni si sono fatte sulle eventuali connessioni Agartha-Shanbhala-UFO-Terra cava. Erano tempi davvero interessanti. "qualcosa di notevole! Eravamo nel nostro campo nel distretto di Kukunor [Tibet Nordorientale], non lontano dalla catena di Humboldt… alcuni dei nostri carovanieri notarono una aquila nera insolitamente grande che volava sopra di noi. Sette di noi cominciarono a guardare questo insolito uccello. Nello stesso momento un altro dei nostri carovanieri osservò: "c'è qualcosa in alto sopra all'uccello', e gridò per la sorpresa. Tutti vedemmo, nella direzione nord-sud, qualcosa di grande e lucente che rifletteva il sole, come un grosso ovale che si spostava a grande velocità. Incrociando il nostro campo questa cosa cambiò direzione da sud a sudovest, e la vedemmo come scomparve nel cielo blu intenso. Avemmo persino il tempo di prendere i nostri binocoli e vedemmo molto distintamente la forma ovale con la sua superficie lucida, un lato del quale era reso brillante dal sole." [Nicholas Roerich, Altai-Himalaya (1929)] Stando ai ricercatori moderni, l'oggetto avvistato da Roerich sarebbe stato in effetti un pallone sonda (classica spiegazione di così tanti avvistamenti nel corso della storia) lanciato dal solito Sven Hedin durante la sua missione nel deserto del Gobi. Ma per tornare ai geologi, categoria che come capirete mi sta a cuore – in quegli stessi anni, i bolscevichi in Sinkiang stavano anche dando la caccia a P.S. Nazaroff, un geologo russo che, per sfuggire al carcere (stava a Tashkent ed aveva venduto informazioni ai Francesi ed agli Inglesi), nel 1919 aveva preso la via dei monti, passando in Cina e frequentemente spacciandosi per indigeno; le probabilità che riuscissero a beccarlo, naturalmente, erano quantomai scarse, considerando che l’uomo che gli agenti russi avevano assoldato per dare la caccia a Nazaroff era… Nazaroff. E Nazaroff era talmente sfuggente, che non ci rimane neanche una sua foto. “Un senso di intenso sollievo, di autentica gioia e libertà, mi sopraffece quando quest'ultimo avamposto della Russia Sovietica rimase alle mie spalle, ed il mio carro continuò sulla sua strada verso gli altipiani di Arpa e Chatyr Kul. La neve si accumulava in chiazze, ed in esse vedevo e tracce di pecore selvatiche, volpi e lupi.” [Paul Nazaroff, Hunted Through Central Asia, 1932] Mentre Nazaroff si dava da fare per sfuggire ai russi, un altro geologo, Erik Norin, già della spedizione di Sven Hedin – al momento bloccata dal generale Ma Zhongying – si diede alla fuga, questa volta braccato dai cinesi. Nel tentativo di scrollarsi di dosso gli inseguitori, Norin si unì perciò ai coniugi Smigunov. Stepan Ivanovich Smigunov era un ex ufficiale al comando in una squadra di addetti ai gas venefici durante la prima guerra mondiale, arrivato nell'area con una banda di militari russi sbandati; insieme con sua moglie Nina, che pare fosse quella con i piedi per terra nella coppia, per anni avevano gestito un'attività commerciale nel Tsaidan – e parlavano entrambi mongolo, turco e cinese, oltre a conoscere il territorio come le loro tasche – e insieme puntarono a sud, verso l'India e poi – trovando la strada sbarrata – piegarono ad est verso le province cinesi, arrivando infine a Tientsin. Parleremo ancora di loro. E Nazaroff non era l'unico a dare la caccia a se stesso per conto della CHEKA – nel 1920, dalle parti di Tashkent, il tenente Frederik M. Bailey era stato a libro paga del servizio segreto sovietico per braccare se stesso. Bailey, un veterano della Grande Guerra, era stato assegnato al settore orientale nel 1918, proprio per tenere d'occhio le attività dei russi, e si ritrovò ben presto a giocare a rimpiattino con il controspionaggio russo. Naturalista (gli si deve la scoperta del papavero blu Meconopsis baileyi), linguista ed avventuriero, Bailey si dimostrò anche un maestro del travestimento – cambiando identità innumerevoli volte nei due anni trascorsi a Tashkent, e spacciandosi tra l'altro per un cuoco austriaco, un ufficiale romeno, un diplomatico della Latvia e un prigioniero di guerra tedesco. Bailey, come abbiamo già visto, fu anche un importante elemento nell'organizzare e fomentare la rivolta dei basmachi. Finito il servizio, Bailey venne riassegnato alla polizia del Sikkim. Poi, nel 1932, Nazaroff riuscì finalmente ad arrivare in Inghilterra, dove divenne estremamente popolare avendo scritto un libro sulla propria esperienza – Hunted through Central Asia. Nello stesso anno usciva anche On Ancient Central Asian Tracks: Brief Narrative of Three Expeditions in Innermost Asia and Northwestern China, di Aurel Stein. E parlando di libri... Giornalisti & Avventurieri “Chi parte per una traversata di due o tremila miglia potrebbe sperimentare, al momento della partenza, una varietà emozioni. Potrebbe sentirsi eccitato, sentimentale, ansioso, privo di preoccupazioni, eroico, pronto alla festa, picaresco, introspettivo, o praticamente qualsiasi altra cosa; ma soprattutto deve sentirsi e si sentirà un idiota.” [Peter Fleming, News from Tartary, 1936] Forse non tutti sanno che Ian Fleming, il creatore di James Bond, aveva un fratello (beh, ne aveva tre, in effetti)… un fratello, si diceva, di nome Peter Fleming, classe 1907. Lo abbiamo già citato, ed il nostro cammino è stato costellato da sue citazioni, ma ora concentriamoci sulla sua ridanciana figura di snob, giornalista e quant'altro. Professione, stando a Wikipedia: avventuriero. Che già è una cosa che mi fa impazzire e pagherei per potermela far scrivere sulla carta d'identità. Professione: Avventuriero. Nel 1933, a Londra, Fleming salì da solo su un treno con pochi soldi, un paio di lettere di referenze (false), ed una macchina per scrivere e andò fino in Manciuria, per vedere cosa ci stessero combinando i giapponesi. Ne ricavò un libro, One's Company, che rappresenta un reportage di prima mano del Manchukuo. Zeppo di osservazioni, notizie, aneddoti. Certo, alcune informazioni risultano essere inesatte e/o basate su informazioni tendenziose – come la faccenda che Mao Zedong sarebbe stato moribondo per un male incurabile nel 1933! Ma anche questo è parte del fascino del volume. Tre anni dopo, in compagnia questa volta dell’altrettanto avventurosa Ella “Kini” Maillart, Fleming coprì le 3500 miglia da Pechino al Kashmir via terra, attraversando il Sinkiang – all’epoca anche noto come Tartaria – area nella quale, ci dice lui, “da quasi un decennio nessun occidentale metteva piede”. Noi, arrivati ormai a tre quarti della nostra storia, potremmo avere motivo di dissentire. Lo scopo dei due viaggiatori era semplicemente quello di stabilire cosa stesse accadendo in Sinkiang, dove da otto anni infuriava la guerra civile e dal quale arrivavano in occidente poche notizie, che cadevano nel generale disinteresse. Su consiglio del Dr Norin, incontrato a Pechino, arruolarono i coniugi Smigunov come guide – Stevan Smigunov lavorava all'epoca come cameriere in un ristorante gestito da russi a Tientsin, ma sperava di poter tornare nel Tsaidan e riprendere i propri commerci. Fleming e la Maillart gli offrirono un'opportunità. “Per quanto ci sarebbe piaciuto giustificare la nostra esistenza riportando materiale tale da scatenare un vespaio di confusione o compiacimento fra i dotti, non eravamo qualificati per farlo. Non misurammo crani, non prendemmo quote; non avremmo saputo come farlo.” [Peter Fleming, News from Tartary, 1936] Perciò, proprio in quegli anni critici in cui Chapman Andrews chiudeva le spedizioni a caccia di fossili per tornare in patria e darsi alla politica, mentre Nazaroff e Stein pubblicavano i propri libri e Hilton scriveva Lost Horizon, nella stesse zona dell’Asia Centrale che aveva visto svolgersi tutte le loro avventure reali o immaginarie, passava adesso il fratello dell’autore di James Bond, in compagnia di una ragazza svizzera che era molto più uomo di lui. “Forse uno dei principali motivi per cui andavamo tanto daccordo è che Kini dimostrò nei miei confronti un certo amichevole disprezzo, ed io ho sempre avuto un ben nascosto rispetto nei suoi confronti; entrambi i sentimenti nascevano dal fatto che lei fosse una professionista mentre io sono sempre stato un dilettante. Il contrasto si appalesava continuamente. Kini riteneva che il modo migliore di fare una cosa fosse farsela di persona; io ritenevo che il modo migliore per fare qualcosa fosse indurre qualcuno a farla al posto mio.” [Peter Fleming, News from Tartary, 1936] Ella Maillart – fotografa e cineasta, attrice, giornalista ed olimpionica di vela nel ’24, era – a mio modesto parere – molto più interessante di Peter Fleming. In primis, perché lei, il Turkestan orientale, se l’era già attraversato, da sola, nel ’32, e poi perché nel ’39 la Maillart si fece in macchina da Ginevra a Kabul – passando per questi dintorni - in compagnia della sua amante eroinomane Annemarie Schwarzenbach. In effetti, il viaggio avrebbe dovuto proseguire fino al Turkmenistan (o secondo alcuni fino al Giappone – ma pare improbabile), ma i problemi della Schwarzenbach – che oltre alla dipendenza da sostanze tendeva ad una pericolosissima promiscuità seriale, di solito infatuandosi di personaggi politicamente molto compromettenti – la spinsero a fermarsi a Kabul. E come potete immaginare, la Schwarzenbach a Kabul si trovò benissimo – anche perché a Kabul si vendeva l’eroina prodotta in Sinkiang dal trafficante e avventuriero Kent Allard, alias Lamont Cranston, che diventerà The Shadow ed avrà per radio la voce di Orson Welles. E The Shadow è solo uno dei molti eroi della narrativa popolare ad aver fatto un certo apprendistato nell'area dell'Himalaya e del Transhimalaya. Ha trascorsi orientali The Spider, principale concorrente di The Shadow sulle riviste di Street & Smith, e da queste stesse regioni proviene il Green Lama, che nel dopoguerra passerà dalle riviste pulp ai fumetti. Fra le cime Himalayane viene addestrato dal bieco R'as al Ghul il giovane Bruce Wayne prima di diventare Batman. Anni prima, da queste parti ha vagato Sherlock Holmes dopo aver simulato la propria fine alle cascate di Reichenbach, e qui anni dopo, stando a ciò che Ian Fleming ci dice in Casinò Royale, James Bond imparerà da un santone a estroflettere il proprio intestino e lavarlo in acqua corrente. Shakerata, non mescolata. Ma attenzione, non lasciamo che l’avvenente signorina Maillart e la torbidissima storiaccia della corsa in macchina Ginevra-Kabul ci distraggano al punto di scivolare nella vera narrativa pulp, e dimenticarci così che Peter Fleming conosceva un tale che si chiamava John Blofeld. Il che non dovrebbe sorprenderci - Ian Fleming lo usò nei suoi romanzi, chiamando il cattivo agente della Spectre, con gatto bianco di ordinanza, Ernst Blofeld, proprio come il padre dell'amico. John Blofeld, classe 1913, pensava di essere la reincarnazione di un brahamino, o di un fachiro, o di un mistico cinese… insomma, per quanto potesse avere delle idee eterodosse, Blofeld fu un noto orientalista che fece base a Hong Kong dagli anni ’30, e nel ’37 – sfuggito miracolosamente all'invasione giapponese – cominciò a vagabondare per la Cina, arrivando nel ’40 proprio da queste parti, in cerca dell’antica sapienza taoista sull'illuminazione e l'immortalità. E poiché ci credeva, la trovò – o così dice lui, nel suo Il Segreto e il Sublime, il più affascinante (e inaffidabile) saggio sul taoismo mai scritto. Nel 1928, intanto, in Francia, Georges-Marie Haardt, un belga nato a Napoli che era il dirigente commerciale della Citroen ma si fiscalizzava come “esploratore”, sognava la Via della Seta. Perciò nel 1930 Haardt smise di sognare ed organizzò, con l'appoggio di André Citroen, la Croisière jaune, una traversata in automobile da Beirut a Pechino, anche nota come Mission Centre-Asie o Terza Missione G.M. Haardt – Audouin-Dubreuil. Haardt aveva infatti già utilizzato le auto della propria azienda e l'appoggio di diverse istituzioni accademiche per una traversata del Sahara (nel 1923) e per la Croisière noire, una traversata di 28.000 chilometri in automobile dell'Africa centrale (1924-1925). La Crociera Gialla avrebbe seguito la Via della seta da Beirut a Pechino, passando per il Turkestan, il Sinkiang ed il Gobi, e prevedeva un itinerario di ritorno che avrebbe toccato Hanoi, Saigon, Bangkok, Calcutta, Delhi, Quetta, Ispahan, Bagdad e Damasco. Come le precedenti spedizioni, la Crociera Gialla avrebbe dovuto raccogliere informazioni scientifiche ed etnografiche, e godeva dell'appoggio della National Geographic Society. Le autorità cinesi non si dimostrarono collaborative, ed anzi erano probabilmente dell'idea che la spedizione Citroen fosse in realtà una spedizione militare. Il governo di Chiang Kai- Shek pose perciò delle strettissime limitazioni, imponendo la partecipazione di scienziati cinesi alla spedizione, e proibendo fra l'altro qualsiasi tipo di scavo archeologico. La spedizione, inoltre, dovette cambiare nome, diventando la Grande Spedizione cino-francese del 19° Anno. Nulla, naturalmente, che non fosse già capitato a Sven Hedin. A causa della situazione politica frizzante, tuttavia, i piani di Haardt dovevano subire altri cambiamenti - la spedizione venne divisa in due gruppi per aumentare le possibilità di successo. Un gruppo (il gruppo Pamir, guidato da Haardt e Audouin) sarebbe partito da Beirut ed avrebbe tentato di salire attraverso l'Himalaya, e l'altro (il gruppo Cina, guidato da Point), partendo da Tien Tsin, sarebbe venuto loro incontro in Sinkiang, con appuntamento a Aksu il 20 luglio 1931. Il gruppo Pamir, composto di 24 persone, era dotato di 6 Citroën Kegresse P17s appositamente modificate per far fronte al freddo estremo e la traversata dell'arco Himalayano era stata valutata in 45 giorni, tra giugno e luglio, dai consulenti britanici. Nessuno dei consulenti alla spedizione tuttavia aveva considerato le circa dieci tonnellate di materiale che i 24 viaggiatori avevano portato con se (senza contare l'equipaggiamento scientifico e cinematografico); una nuova stima rivelò che sarebbero serviti 400 sherpa o 200 muli per trasportare tutto e restare nei tempi. Per accelerare la logistica, il gruppo Pamir venne diviso in tre squadre, ciascuna delle quali sarebbe salita al colle di Gilgit con l'appoggio di tutti gli sherpa e muli disponibili, che poi sarebbero tornati indietro a recuperare la squadra successiva. Ciascuna squadra avrebbe dovuto impiegare 8 giorni per l'ascesa a Gilgit. Le tribù locali sostenevano che nessun veicolo avrebbe potuto attraversare il passo, e contrariamente alle previsioni di Haardt, risultò ben presto che le auto appositamente modificate non potevano marciare a più di un chilometro all'ora sulle “strade” dirette al passo di Gilgit, essendo necessario farle precedere da uomini dotati di sonde per saggiare il fondo innevato. Dopo molte vicissitudini, politiche e non, il gruppo di Haardt raggiunse Aksu l'8 ottobre 1931. Il gruppo cinese, che era stato raggiunto da Padre Teilhard de Chardin, aveva aspettato al punto di rendezvous solo pochi giorni – anche questa squadra aveva avuto alcune avventure interessanti, e per tre mesi era stata ostaggio di un signore della guerra locale. I due gruppi proseguirono poi per Pechino, arrivando il 12 febbraio 1932. Esausto per l'impresa e per la micidiale traversata del passo di Gilgit, Haardt non riuscì a tornare in Francia: colto da una “influenza” (in realtà una polmonite con complicazioni) mentre si trovava a Hong Kong, morì il 15 marzo 1932. Nello stesso anno in cui Blofeld arrivava nel Sinkiang, le onde dell'Oceano Pacifico inghiottivano Richard Halliburton mentre tentava di attraversare l'oceano con una giunca cinese. Richard Halliburton, classe 1900. L’uomo che aveva attraversato le Alpi con gli elefanti. L’uomo che si era calato in un cenote della morte maya a Chichen Itza. Che aveva nuotato dall’Atlantico al Pacifico lungo il Canale di Panama, pagando il pedaggio come piccolo natante, e che aveva attraversato a nuoto l’Ellesponto come Lord Byron. L’uomo che aveva voluto ripercorrere la rotta di Ulisse, e che era vissuto da naufrago, come Robinson Crusoe, sull’isola di Tobago. Che si era introdotto di notte nel Taj Mahal per vedere come fosse l’alba vista dalla sommità della cupola. L’uomo che per primo aveva scalato il monte Fuji in pieno inverno e il primo a scattare una foto aerea dell’Everest. L’uomo che ricostruì l’ultima spedizione di Hernan Cortez. Fu Dick Halliburton a mettere in giro la voce – fasulla – che la Grande Muraglia cinese fosse visibile anche dalla luna. “Ad un mese da oggi, mi vedo alla deriva con un diploma come vela e un sacco di facciatosta come remi.” [Richard Halliburton alla vigilia del diploma] Basso, mingherlino, quasi certamente omosessuale, con una storia di malattie trattate in maniera traumatica dalla clinica del Dr Kellog (quello dei cereali, vero scienziato pazzo che usava enemi, yogurt ed elettroshock per curare qualsiasi cosa), il giovane Dick scoprì da studente che si poteva guadagnare un buon gruzzolo scrivendo di viaggi, e tenendo conferenze pubbliche. Amante dell’avventura, non gli parve vero che qualcuno fosse disposto a pagare perché lui si divertisse. Nel ’31, sulla base di un accordo verbale, organizzò un giro del mondo in biplano. La storia è raccontata in The Flying Carpet – da Los Angeles a Damasco, e poi... “Nel suo biplano Stearman con motori Wright, Il Tappeto Volante, pilotato da un certo Moye Stephens, Halliburton ha viaggiato senza fretta da Londra a Manila. Lungo la strada, si è fermato a Timbuctoo, ha passato due mesi con la Legione Straniera in Marocco, ha visitato Petra, Bagdad, il Taj Mahal in India, afferma di aver scattato la prima foto aerea del Monte Everest (Halliburton ha pubblicato un'immagine sfocata che sostiene di aver scattato a 18,000 piedi), ha trascorso qualche ora piacevole coi cacciatori di teste dayaki. [The Times, lunedì 14 novembre 1932] La Via della Seta, l’India, l’Everest, Sarawak. Sarawak! E poi via, Manila, San Francisco… Un anno di avventure. Se è vero che viveva le proprie avventure per danaro – a fronte di contratti con sponsor e con case editrici, con riviste e stazioni radiofoniche – basta leggersi qualche pagina del suo primo libro The Royal Road to Romance, del 1929 (100.000 copie vendute), per rendersi conto che ci sarebbe andato, a Timbuktu, a Petra, alla Cajenna, nel Borneo e sul Mar della Cina, anche gratis. Anche a piedi. Ci sarebbero stati molti altri libri di successo, articoli, interviste, ed una trasmissione radiofonica. Il classico giovanotto americano di belle speranze con una gran voglia di vedere il mondo, Halliburton fu nel divulgare le proprie avventure molto meno provinciale e burino di tanti suoi connazionali – prima e dopo. I suoi libri sono divertenti, ben scritti e catturano quella strana atmosfera fra le due guerre, un periodo in cui pareva che tutto fosse possibile. Dick Halliburton diede notizie per l’ultima volta il 24 marzo 1939, nel bel mezzo di un tifone a circa 2000 miglia dalle Midway. La sua ultima trasmissione radio diceva: “Vento forte da sud, tempesta, murata sul lato sottovento sommersa, brande bagnate, pane duro, carne in scatola. Ci divertiamo da pazzi. Vorrei che foste qui, al posto mio.” Il Sonno della Ragione Abbiamo scordato qualcosa? Roy Chapman Andrews concluse la propria carriera come direttore del museo nel quale aveva iniziato lavando i pavimenti, strenuo sostenitore di una politica di destra e di opinioni pseudodarwiniane sulla razza che sono troppo imbarazzanti per essere raccontate in questa sede. Ironico che, nel 1938, mentre Andrews faceva salotto nella sua casa cineseggiante, un’altra spedizione si stesse incamminando verso le vette dell’Himalaya ed i deserti oltre esse. Era guidata dal naturalista Ernst Schafer e dall’antropologo Bruno Beger. Anch’essi inalberavano la svastika come vessillo, proprio come l’esercito di straccioni di Ungern-Sternberg, propugnando idee sulla razza non lontane da quelle dell’ormai “sistemato” Andrews e mutuate dal polpettone mistico-sensazionalistico di Elena Blavatski, e la loro missione non avrebbe sorpreso lo stesso Ferdinand Ossendowski: il loro scopo era trovare l’Agarthi, e le prove della provenienza Tibetana della Razza Suprema destinata a dominare il mondo. Anziché essere finanziata da capitalisti in vena di follie filantropiche e ricchi playboy (personaggi come Lamont Cranston o Bruce Wayne), questa sinistra spedizione era sponsorizzata dal Reichsfurher Heinrich Himmler in persona, ed era costituita esclusivamente da personale delle SS. Il genere di gente ed il genere di missione più adatti ad una storia di Indiana Jones che al mondo reale. Ma il mondo reale stava per piombare nel più surreale degli incubi. Nel mondo reale si svolse quindi la spedizione Beger-Schafer, funestata da deliri di onnipotenza, tradimenti, egocentrismo, crudeltà, un pellegrinaggio empio e omicida iniziato a Berlino, passando per il Tetto del Mondo per poi concludersi ad Auschwitz, dove Bruno Beger svolse gli ultimi esperimenti del suo lavoro sulla razza. La Spedizione Beger-Schafer del ’38-’39, voluta da Himmler, sponsorizzata dalle SS, era stata organizzata dalla Ahnenerbe (già Istituto Sven Hedin) e doveva concentrarsi sull’area himalayana a sud del Sinkiang, con la speranza di ritrovare tracce dell’originario ceppo ariano dal quale discendevano tutti gli übermensch del Reich… o qualcosa del genere. L'ossessione dei nazisti, e di Himmler in particolare per i misteri dell'Oriente e per la possibile presenza di una culla della razza ariana fra le vette del Tetto del Mondo, ha alimentato per anni la letteratura e la cinematografia dell'avventura; alimentò pure le carriere di Ernst Schafer (già collaboratore di Sven Hedin) e Bruno Beger, due giovani e rampanti scienziati tedeschi ben felici di ipotecare la propria anima e la propria integrità morale per l'opportunità di farsi finanziare dal Partito una colossale spedizione in Tibet. Il deserto lascia il posto alle montagne, in quest'ultimo capitolo, ed il Tibet diventa un territorio di conquista ideologica, il laboratorio in cui dare prova e legittimità a argomenti di fede – la popolazione viene misurata, fotografata, ritratta a matita, soggetta a prelievi di sangue e studi antropometrici; qualcuno ci lascia anche la pelle, o passa un bruttissimo quarto d'ora mentre Schafer gli preleva un calco di gesso del volto senza aver praticato i fori per permettere la respirazione. L'umanità trattata con la stessa indifferenza che un vivisezionista riserva ad un porcellino d'india. Partendo dalle radici culturali e dalle teorie care ai nazisti, passando per il sottobosco mistico-surreale che rende il nazismo quasi una religione, la progressiva degenerazione dell'esperimento e degli sperimentatori, tutti membri della elité delle SS, gli studi antropologici tibetani di Beger e Schafer sono il preludio alle più oscure sperimentazioni svoltesi nei lager, dove lo stesso Beger presterà servizio. Dopo la guerra, che Schafer trascorse nello staff del Reichsführer Himmler, lo scienziato cercò di cavarsela coi suoi nuovi amici americani, sostenendo che il suo arruolamento nelle SS era stato imposto nel '36 come unica scelta per poter proseguire la propria carriera accademica. Peccato che si fosse arruolato come volontario nel 1933. Di sicuro, all'ombra di Himmler, Schafer fece carriera in ambito accademico senza troppa difficoltà. Resta memorabile il lapidario profilo di Schafer tracciato da sir Basil Gould, che lo incontrò nel 1938: “interessante, forte, volatile, erudito, vanitoso al limite dell'infantilismo, irriguardoso delle convenzioni sociali o dei sentimenti altrui, e prima di tutto e soprattutto un nazista e un politicante.” Gould liquidò poi le frequenti uscite isteriche del tedesco come l'effetto di aver trascorso troppo tempo a quota elevata in carenza d'ossigeno. I fautori della cospirazione globale osservano che la spedizione Schafer tornò dal Tibet portando con se i 108 volumi del Kangshur, o Kang Yur, o Kangyur, o forse Kang Jur, l'unica copia completa di un testo buddhista che secondo la tradizione dovrebbe corrispondere alla trascrizione delle parole esatte del Buddha stesso. I fautori della cospirazione, naturalmente, sostengono che il Kang Yur contenga piuttosto vaste descrizioni di tecnologia preatlanteana e una summa della matematica simbolica interdimensionale tibetana ispirata alle oscure pratiche della religione Bonpo – tutto materiale strettamente connesso, è ovvio, alla Shambhala della David-Neel e Roerich, ed all'Agarthi dei teosofi e di Ossendowski. Del Kang Yur esistono oggi 12 copie sparse fra varie istituzioni asiatiche – oltre a quelle trovate a Dunhuang da Aurel Stein (e così si chiude un altro cerchio) e conservate al Victoria & Albert Museum, ma i tibetani pare vogliano comunque indietro la copia sottratta da Schafer. Se solo si riuscisse a trovarla. Non è questa la sede per discutere come la spedizione Schafer sia un esempio da manuale della prostituzione della scienza a fini ideologici o meramente carrieristici. I tedeschi fecero le loro analisi, presero le loro misure antropometriche, fecero dei calchi facciali, rubarono un po' di libri e poi se ne tornarono a casa. Girarono anche un film, Secret Tibet, che rimane una preziosa testimonianza della società e cultura tibetane prima dell'invasione cinese – con qualche svastika e qualche saluto nazista come extra. Oltre al Kangshur, con il suo carico di ipotetici segreti preatlanteani, Ernst Schafer portò anche un abito da lama per Hitler – e se riuscite a immaginarvi Hitler vestito da lama che sfoglia quelli che potrebbero essere manuali di aspirapolvere atlanteani… La storia di Schafer e Beger prosegue oltre i limiti di questo articolo, e vede i due scienziati intenti a prendersi cura dei soggetti “esotici” nei lager durante la guerra – Schafer ne prendeva il calco facciale, poi li mandava nelle camere a gas, in modo che Beger potesse studiare i crani con proprio comodo. Schafer convinse anche Himmler a ristrutturare lo Schloss Mittersill, presso Salisburgo, dove insieme con i suoi colleghi del Soderkommando K poter svolgere esperimenti innominabili su prigionieri “esotici”, al fine di scoprire i caratteri dei diversi popoli “inferiori” che erano parte del mosaico etnografico dell'Unione Sovietica. La semplice follia ruspante del Barone Ungen-Sternberg sembra al confronto una sinistra forma di eccentricità. Le SS finanziarono naturalmente anche una spedizione al Nangat Parbat – ma quella storia (incredibilmente nazi-free) l’avete vista in Sette Anni in Tibet. Non c'è da sorprendersi se Heinrich Herrer, nel suo volume di memorie Sette anni nel Tibet, desideroso di ingraziarsi il pubblico americano, si dimentichi di menzionare il fatto di aver aderito alle SS fin dall'adolescenza. È molto più strano che Herrer, il quale pure trascorse sette anni in Tibet (…) non ci parli mai del Ministro dell’Innovazione del governo tibetano, quello strano avventuriero americano che si paragonò a Kim, e che aveva avuto dal Panchen Lama l’incarico di convertire tutto l’oro del Tibet in hi-tech (beh, per l’epoca) in modo da rendere il Tibet la più moderna nazione dell’Asia. Ma non è solo Herrer che se ne scorda. Nessuno, a quanto pare, ricorda Gordon Enders. Era il 1936. In vista del suo rientro dall'esilio in Mongolia e in Cina, Thubten Choekyi Nyima, figlio di un boscaiolo e Nono Panchen Lama del Tibet, aveva tutte le intenzioni di fare del proprio paese una potenza tecnologica – e magari nel contempo limitare i poteri del suo rivale politico, il Dalai Lama, che negli ultimi anni aveva attinto ai fondi del Panchen Lama per finanziare le proprie campagne militari. L'uomo giusto al posto giusto per soddisfare le esigenze del Panchen Lama era Gordon B. Enders, un americano cresciuto in India, che si paragonava a Kim nelle proprie memorie (che paiono in effetti una sceneggiatura hollywoodiana in attesa di essere filmata), e che si ritrovò a rivestire la carica di responsabile dell'innovazione tecnologica per il governo tibetano. Nato in Iowa, figlio di un insegnante che aveva lavorato sul confine fra India e Tibet, Enders sarebbe poi diventato attaché militare all'ambasciata americana di Kabul, dove avrebbe creato il primo nucleo dell'aviazione afghana; aveva incontrato il Panchen Lama a casa di Chiang Kai-shiek. Se dobbiamo credere alle memorie di Enders, lui ed il panchen lama divennero grandi amici, e l'americano viaggiò estesamente con il monaco tibetano. Fu durante questa frequentazione che il Panchen Lama esternò l'intenzione di rammodernare il proprio paese, per farne non solo una potenza tecnologica, ma anche il crocevia dei commerci e delle comunicazioni in Asia. Il piano di Enders, pienamente approvato dal suo sponsor, era quello di creare un ponte aereo fra Tibet e Cina, col quale trasportare in banche cinesi l'oro tibetano che, convertito in valuta, sarebbe stato speso sui mercati americani per l'acquisto di “radio, automobili, impianti idroelettrici e altre invenzioni”. "All'insaputa della maggior parte del mondo […] nei monasteri del Tibet è state raccolta polvere d'oro per almeno sei o sette secoli. Questo oro appartiene al potere dominante, perché la Chiesa e il governo sono la stessa cosa in Tibet. Quanto oro sia stato accumulato, è difficile da dire, ma è stato stimato essere circa 100.000.000 di dollari." [Gordon B. Enders, intervistato da Modern Mechanix, Novembre 1936] L'intera faccenda rimane piuttosto misteriosa. Acquistati gli aerei – bimotori metallici modificati per poter restare in volo fino a 20 ore – e messo insieme un team di collaboratori, Enders cominciò nell'inverno del 1936 a trasportare l'oro tibetano in Cina (al terminale Lufthansa di Lanchowfu, costruito grazie ai buoni auspici di Sven Hedin) al ritmo di 3 milioni di dollari in polvere e pepite per ciascuna spedizione. E parte di quel denaro venne certamente spesa in hardware... “La prima spedizione commerciale di radio e automobili mai entrata nel Paese Proibito ha recentemente accompagnato il Panchen Lama nel suo ingresso trionfale in Tibet, con una grande carovana di sacerdoti, pellegrini, e animali da soma. Le automobili e le radio sono stati smontati e caricati sulle spalle degli animali. Sono stati acquistati per il Panchen Lama da Enders.” [Modern Mechanix, Novembre 1936] E poi? Di sicuro, il redattore di Modern Mechanix si scorda di dirci che il “rientro trionfale” del Panchen Lama in Tibet fu solo una visita diplomatica, un tentativo (fallito) di mettere un piede nella porta del Regno Proibito; allo stesso modo, la rivista tralascia di indicare che il piano per la modernizzazione – sei pagine dattiloscritte di Gordon Enders – venne presentato da Enders stesso al Lama a Shanghai, e ricevette da questi una approvazione formale. Il progetto forse non andò mai oltre la fase progettuale, o forse si chiuse dopo un paio di voli – ma anche su questo punto, le memorie di Gordon B. Enders sono vaghe e tendenziose. L'oro non è l'unica vera ricchezza in Tibet. I monasteri hanno recuperato notevoli collezioni di pietre semipreziose come lapislazzuli, zaffiri, granati, acquamarine, topazi e pietre di luna. [ibid.] Nei libri di storia, nei documentari e nelle raccolte di materiale relativo al Tetto del Mondo, dell'intraprendente Gordon Enders non rimane traccia. Si ritrova solo, scavando a fondo, questa osservazione del Colonnello “Wild Bill” Donovan, capo dell'OSS, in una delle sue comunicazioni private, che forse getta una luce diversa sull'intera faccenda: “Il Maggiore Gordon Enders, addetto militare a Kabul e unico rappresentante dell'intelligence degli Stati Uniti, è un pallone gonfiato. E come tale è ben noto in Cina. Pensa o cerca di far pensare, che lui abbia tutto sotto controllo, tutti mangino dalla sua mano. In effetti, penso che tutti, dai britannici ai giapponesi, lo stiano prendendo in giro. “ Il Panchen Lama morì nel 1937, ancora in esilio in Cina. Una lettera autografa del suo successore, il decimo Panchen Lama sconfessò ogni affermazione fatta da Gordon Enders nei suoi libri e su Modern Mechanix. Dell'oro tibetano – così come del tesoro di Ungern-Sternberg e di quello del Kahn di Bukhara - non si seppe mai più nulla. Ringraziamenti Questa collezione di eccentrici, avventurieri e viaggiatori assortiti nasce da una lunga ossessione per la Via della Seta, liberalmente innaffiata da una parallela passione per la narrativa avventurosa ed i viaggi straordinari. Non posso quindi che ringraziare tutti coloro che nel corso degli anni hanno incoraggiato, alimentato o per lo meno tollerato tali passioni. Siete in troppi per citarvi tutti per nome. Un ringraziamento speciale agli Orientalisti Anonimi, alla Ciurma del Giovedì, alla comunità lovecraftiana internazionale ed ai surfisti tutti. Questo ebook esiste grazie a Matteo Poropat che ha curato la conversione. Grazie! Addendum per la seconda edizione: Un grazie a tutti i lettori che hanno acquistato una copia della prima edizione ed hanno inviato il loro feedback. E un grazie particolare a Mauro Ghibaudo e ad Angelo Benuzzi. Questa seconda edizione esiste grazie a loro. L'Autore Davide Mana (Torino, 1967) Tecnico di rilevamento ambientale e geologo (Torino, Londra, Bonn), specializzato in micropaleontologia applicata ed analisi statistica di dati ambientali, ha svolto attività didattica, di ricerca e di divulgazione, opera come freelance nel settore privato, ed ha collaborato con le università di Torino, Trieste, Parma, Cagliari e Urbino; presso quest’ultima sta lavorando al proprio PhD sull’adozione di fonti energetiche alternative a piccola scala nelle aree rurali italiane. Si interessa da sempre di scienza e dell’applicazione delle nuove tecnologie alla didattica ed alle scienze naturali, ed è un fautore dell’approccio interdisciplinare e sistemico alla conoscenza. Vive a Castelnuovo Belbo (Asti). Nel tempo libero scrive, scatta fotografie, cucina, si interessa di orientalismo, mantiene un certo numero di blog in italiano ed inglese. Talvolta riesce anche a dormire. Bibliografia [i volumi indicati con asterisco sono vivamente raccomandati] • Judy Bonavia, The Silk Road – Xi'an to Kashgar, 2004 • Luce Boulnois, Silk Road, 2003 * • Jerry Brotton, The Renaissance Bazaar – from the Silk Road to Michelangelo, 2002 • Mick Conefrey, The Adventurer's Handbook, 2005 • Alexandra David-Neel, Mistici e Maghi del Tibet, 1965 • Lyon Sprague de Camp, Lost Continents: The Atlantis Theme in History, Science, and Literature, 1954 * • Gordon B. Enders, Nowhere Else In the World , 1935 • Gordon B. Enders, Foreign Devil: An American Kim In Modern Asia, 1942. • Brian Fagan, From Stonehenge to Samarkand: An Anthology of Archaeological Travel Writing, 2006 • Peter Fleming, News from Tartary, 2001 • Peter Fleming, One's Company • René Guenon, Il Re del Mondo, s.d. • Richard Haliburton, The Royal Road to Romance, 1925 • Richard Haliburton, The Flying Carpet, 1932 • Richard Haliburton - Richard Halliburton's Second Book of Marvels: the Orient, 1938 • Christopher Hale, Himmler's Crusade: The Nazi Expedition to Find the Origins of the Aryan Race, 2003 * • Sven Anders Hedin, My Life as an Explorer, 2003 • Sven Anders Hedin, The Silk Road: Ten Thousand Miles through Central Asia, 2009 • Peter Hopkirk, Foreign Devils on the Silk Road: The Search for the Lost Cities and Treasures of Chinese Central Asia, 1980 * • Peter Hopkirk, Trespassers on the Roof of the World: The Secret Exploration of Tibet, 1982 • Peter Hopkirk, Setting the East Ablaze: Lenin's Dream of an Empire in Asia, 1984 • Peter Hopkirk, The Great Game: the Struggle for Empire in Central Asia, 1990 • Peter Hopkirk, On Secret Service East of Constantinople: The Great Game and the Great War, 1994 • Karl E. Meyer & Shareen Blair Brysac, Tournament of Shadows, 1999 • Nick Middleton, Baron Von Ungern-Sternberg: The Bloody Baron of Mongolia, 2001 • Paul Nazaroff, Hunted through Central Asia, 1993 • Bijar Omrani, Asia Overland: tales of travel on the TransSiberian & Silk Road, 2010 * • James Palmer, The Bloody Red Baron, 2008 * • Edward H. Schafer, The Golden Peaches of Samarkand: A Study of T'ang Exotics, 1985 * • Aurel Stein, Sand-Buried Ruins of Khotan: Personal narrative of a journey of archaeological and geographical exploration in Chinese Turkestan, 2004 • Aurel Stein, On Alexander's Track to the Indus: Personal Narrative of Explorations on the Northwest Frontier of India, 2004 • Susan Whitfield, Life along the Silk Riad, 1999 * • Susan Whitfield, Aurel Stein on the Silk Road , 2004 • Paul Wilson, The Silk Roads – a Route & Planning Guide, 2007