Arcidiocesi di Udine
Centro Missionario Diocesano e
Ufficio di Cooperazione tra le Chiese
N° 4 - Novembre 2003
Foglio collegamento tra il CMD e i gruppi missionari parrocchiali
IN QUESTO NUMERO:
ATTI DEL XIV CONVEGNO
MISSIONARIO DIOCESANO:
“Una casa per tutti i popoli”
Presentazione ....................................1
Saluto dell’Arcivescovo .....................2
Tavola Rotonda
Introduzione di Roberto Pensa ......4
Don Emmanuel Runditze ...............6
Don Silvano Nobile ......................10
Don Gianni Fuccaro .....................14
Suor Maria Helena Da Silva ........17
Testimonianze
P. Ernesto Saksida ......................21
Claudio Modonutti ........................23
Don Elia Leita ..............................25
Lavori di gruppo ...............................29
Conclusioni ......................................35
Missiòn 4 – Atti del XIV Convegno Missionario Diocesano
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Presentazione
Con gioia e soddisfazione vi consegniamo un altro numero di “Missiòn”.
Contiene gli atti del XIV convegno missionario diocesano realizzato nel
mese scorso. È stato un bel momento di incontro ecclesiale con tante
persone che, in certo qual modo, sono strumenti preziosi e segno della
missionarietà della nostra chiesa udinese. La partecipazione è stata più
che buona. Ma soprattutto il tema svolto è piaciuto a molti, per non dire
a tutti. Ha risposto ad un interrogativo di grande attualità. Del resto la
“missione“ della Chiesa non può non interessare, affascinare e trascinare ogni cristiano, perché rimotiva e concretizza sempre il grande dono
del battesimo che abbiamo ricevuto.
Non è stato facile mettere per scritto ciò che abbiamo sentito a
viva voce. L’immediatezza e la spontaneità, assieme alla carica di entusiasmo che ogni partecipante alla tavola rotonda ha saputo comunicare,
non si possono imprigionare tra le righe. Tuttavia ci è parso utile e doveroso non lasciare perdere tutto il risultato di questa bella giornata. Questo libretto può essere uno strumento molto valido per una formazione
personale e comunitaria sul nostro essere Chiesa, casa accogliente.
Quanto è stato detto sul tema “Una casa per tutti i popoli” visto
e riletto da alcune persone che vengono da lontano e che sono profondamente inserite nella nostra Chiesa è quanto mai stimolante e ricco di
suggerimenti per la nostra vita personale, familiare o parrocchiale. Con
un po’ di impegno, di creatività e una buona dose di coraggio e pazienza potremmo tentare di tradurre nelle nostre parrocchie qualcosa di
quello che è stato detto nel convegno.
Augurando a tutti l’entusiasmo per l’ideale della missione di
Cristo, vi porgiamo un saluto, confermando la nostra volontà di mettere
a vostro servizio, nelle vostre parrocchie, la nostra piena collaborazione
per la causa missionaria.
P. Domenico Meneguzzi
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Saluto dell’Arcivescovo mons. Pietro Brollo
Un grandissimo saluto. Gli impegni non mi permettono ancora di trascorrere una mattinata con voi. Purtroppo sapete che le parrocchie sono
tante ed è giusto che il Vescovo vada ad incontrarle, soprattutto in un
momento particolare come quello dell’Effusione dello Spirito cioè
l’amministrazione del Sacramento della Cresima. Il Papa ci invita per
questa giornata missionaria, direi per questo anno, a vivere la nostra
fede attraverso la mediazione della Vergine Maria. Cercate di contemplare il volto di Cristo attraverso il volto di Maria. Siccome qui si tratta di
una vocazione missionaria, di un annuncio, di una comunicazione, mi
sembra che Cristo stesso abbia affidato a Maria questo compito di essere missionaria. Lei per prima ha contemplato il volto di Cristo. L’ha contemplato quando lo ha accolto nelle sue braccia nel momento in cui è
venuto in questo mondo. L’ha contemplato per tutta la sua vita privata,
l’ha contemplato durante la vita pubblica, l’ha contemplato fino al suo
ultimo momento, il Calvario.
Ebbene, proprio lì, il compito di ogni cristiano, che è simile a quello della
Vergine, svela tutta la sua pienezza, perché siamo chiamati non solo a
contemplare il volto di Cristo, ma ad ascoltare ciò che lassù Cristo dice
alla Vergine: “Ecco tuo figlio”, cioè “Sei la madre per tutti questi figli”.
Come sempre il comandamento del Signore dice: “Ama il Signore Dio
tuo”. Il primo passo che noi dobbiamo fare, se vogliamo essere annunciatori, missionari, è quello di contemplare il volto di Cristo, di conoscere
il volto di Cristo. La stessa breve lettura che abbiamo appena fatto ci dice: “Cercate di essere consapevoli di questa fede nel Cristo morto e risorto”. Questa è la base, se ci manca questo, cos’è che annunciamo?
Però la nostra fede non è solo un fatto personale, non può essere nutrimento personale del nostro spirito per un rapporto individuale tra me e
Dio. Proprio nel momento in cui scopro Dio, Dio mi dice: “E allora? Attraverso questa scoperta, scorgi i tuoi fratelli”. Ed ecco quindi che la
prima carità che noi possiamo svolgere presso i fratelli è quella di comunicare ciò che di più grande e più bello abbiamo conosciuto. E questo è dato dalla nostra fede in Cristo Signore. La comunicazione della
fede è parte essenziale della dimostrazione che la nostra fede è vera e
genuina. Se resta solo dentro di noi, non è fede genuina. Nel momento
in cui sentiamo l’ansia di comunicarla, questa allora cresce, si fortifica e
diventa vita della nostra vita. Gli apostoli, nel cenacolo, hanno ricevuto il
mandato di trasmetterla a tutte le genti; la Vergine, addirittura, nel momento più critico del dolore, mentre contempla il volto di Cristo sulla
croce riceve quella missione particolare: “Ecco, sii la madre di tutti”. E
noi vogliamo essere così. Voi avete un tema speciale oggi: “UNA CASA
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PER TUTTI I POPOLI”. L’amore verso il prossimo ce l’ha insegnato Gesù anche nella parabola famosa, che tutti conoscete, del “buon samaritano”. Voi sapete che questo buon samaritano a un certo punto ha raccolto quel poveraccio, quella persona che era nel bisogno e l’ha portato
nell’albergo, si dice nella traduzione normale. Ma in greco si dice “pandokeion” che vuol dire: “la casa che accoglie tutti”. L’ha portato nella casa che accoglie tutti. E qui ci siamo. Quando il Signore vuole dire in che
modo dobbiamo agire e comportarci ci dice proprio questo. Quindi la
nostra casa deve essere una casa che accoglie tutti. Un tempo per noi
missione era solo “andare”. Oggi, ormai tutto il mondo sta mescolandosi, e anche noi vediamo che abbiamo il contributo di tante persone che
vengono da tante parti del mondo. E allora ecco che la missionarietà va
in tutte le direzioni. Va laddove non è ancora giunta mai la parola del
Signore, ma va anche qui in due direzioni: ai nostri fratelli che sembra
l’abbiano dimenticata e a coloro che noi cerchiamo di accogliere con carità cristiana perché anche loro venendo qua possano incontrare il volto
del Signore. Io vi auguro che questa riflessione di oggi, aperta a questa
dimensione e soprattutto con questo spirito di accoglienza, così come il
tema che andiamo a trattare, possa essere una meditazione, una riflessione, un contributo importante per rafforzare questo impegno missionario. Ricordiamoci tutti, io per primo, a me tocca farlo se non altro perché
devo andare ad annunciare e predicare, che è quello che viene dallo
Spirito che conta, non quello che si fa. Si potrebbe anche fare solo esternamente senza sentire che viene da dentro. Mentre invece è proprio
il sentire di possedere un grande tesoro da comunicare. Per questo oggi
chiedo alla Vergine che sia qui come nel cenacolo, che sia un’effusione
di spirito prima che sui giovani che vado a cresimare, anche su di voi,
cioè sulla nostra Chiesa, perché attraverso questo dono dello Spirito vi
sentiate animati a uscire dal cenacolo per annunciare la presenza di
Cristo Signore.
Auguri di buon lavoro e una preghiera anche per questi giovani che ricevono il dono dello Spirito. Grazie.
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Tavola Rotonda
INTRODUZIONE DI ROBERTO PENSA
Quando qualche settimana fa mi è stato chiesto dal Centro Missionario
(CMD) di fare da moderatore a questo convegno ho pensato che questo
bellissimo tema di quest’anno: “UNA CASA PER TUTTI I POPOLI” fosse uno slogan scelto in diocesi dal nostro CMD. Invece dopo, con un po’
di sorpresa, ho scoperto che si tratta di un tema generale che è stato
proposto a tutte le comunità cattoliche del mondo proprio in occasione
di questa giornata missionaria mondiale che celebreremo domenica
prossima. Noi friulani, eredi della Chiesa di Aquileia, abbiamo un grandissimo vantaggio nel comprendere il significato e il valore del tema che
ci viene proposto oggi. L’espressione del Profeta Isaia, “una casa per
tutti i popoli”, ci invita a sentirci, come credenti, un popolo unico al di là
di ogni barriera, a fare delle nostre Chiese delle case aperte in tutte le
direzioni, pronte ad accogliere genti da ogni luogo. In altre parole ci invita a diventare autenticamente e genuinamente missionari preoccupati di
far conoscere il Vangelo a tutti, vicini e lontani, con l’annuncio della parola ma anche con la concreta solidarietà vicino a chi soffre. Ebbene,
per noi friulani questa non è solo teoria ma il fondamento stesso della
nostra Chiesa locale. Chi ci ha preceduto nella fede si è trovato innanzi
all’esigenza di annunciare la buona notizia di Gesù Cristo a popoli diversi, a portare il Vangelo affacciandosi e penetrando non solo nel
mondo culturale latino ma anche in quello slavo e germanico. Quindi
i nostri padri nella fede non hanno portato il Vangelo in un modo qualunque, sradicando le culture preesistenti, ma hanno applicato quella
che i missionari di oggi chiamano con familiarità “l’inculturazione della
fede”, comprendendo che le diverse culture dei popoli sono un dono di
Dio che va preservato e accolto. In tutte le culture è presente un riflesso
unico e irripetibile dell’amore di Dio per l’umanità, che va certo illuminato
con la parola di Dio, ma mai spento o soffocato. Ecco perché credo che
noi friulani abbiamo una responsabilità particolare nel vivere questo
convegno. L’ottobre missionario certo non ci invita a guardare indietro
nella storia, ma piuttosto a guardare l’oggi, forti della ricchezza della nostra storia. Di che cosa dovremmo renderci conto? Sicuramente che la
globalizzazione ci ha portato il mondo in casa, lo sappiamo tutti, lo vediamo ogni giorno in televisione, lo leggiamo sui giornali. Ma rendersi
conto che non in Italia in genere, né in Friuli in genere, ma nella mia
parrocchia, nel mio quartiere, nel mio condominio sta accadendo ciò, è
più difficile. Tutto ciò non può non modificare la nostra vita di comunità
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cristiana. Tra gli immigrati, infatti, ci sono molti cattolici e cristiani. Essi
non possono più esprimere la fede nel modo più rispondente al loro
cuore e al loro animo, cioè attraverso la propria lingua e i mezzi espressivi della loro cultura. Per questo spesso rimangono ai margini della
vita comunitaria, oppure addirittura non la frequentano più. Le badanti
ucraine, ad esempio, che sono in gran parte credenti (e ce ne sono molte anche cattoliche, seppure di un rito diverso dal nostro), preferiscono
incontrarsi in qualche giardino pubblico, a Udine, piuttosto che nelle nostre parrocchie, sebbene le strutture parrocchiali per accogliere delle
persone non ci manchino. Quindi la domanda che ci poniamo è come
far ridiventare le nostre Chiese come delle case, in cui tutti, di qualsiasi
cultura siano, possano sentire il calore di una famiglia. Ancora: come
porre nella liturgia, nella vita pastorale dei segni che esprimano
l’accoglienza e la valorizzazione delle nuove culture che sono venute in
Friuli? Non è un discorso facile e scontato, se pensiamo alla nostra realtà ce ne rendiamo conto. Con gli sloveni, ad esempio, viviamo gomito a
gomito da 1400 anni e ancora in alcune comunità della Slavia friulana,
della nostra fascia confinante, ci sono forti resistenze ad accogliere un
canto tradizionale o la lettura della parola di Dio in sloveno. Figuriamoci
se oggi parliamo di accogliere il filippino, il rumeno, l’ucraino, che da pochi mesi o da pochi anni vivono accanto a noi. Ma credo che ci sia anche il rovescio della medaglia. Noi abbiamo il dovere di preparare una
casa accogliente per i nostri fratelli immigrati, però anche loro possono
costituire una grande risorsa per la vitalità della nostra fede. Vengono
spesso, infatti, da Chiese giovani, dove c’è ancora un grande slancio
per vivere e annunciare il Vangelo, dove la fede è vissuta ancora con
quel forte spirito di comunità e di comunione che oggi noi abbiamo
spesso smarrito, richiudendoci magari in una fede un po’ individuale.
Inoltre, portandoci il mondo in casa, possono essere da stimolo e di aiuto a recuperare la missionarietà come dimensione fondamentale della
nostra vita di fede. Ci fanno capire che quei paesi lontani dei quali, magari solo in ottobre, sentivamo parlare da parte di qualche missionario,
sono invece dei luoghi ormai dietro l’angolo, e ciò che succede là ormai
ha dirette conseguenze sulla nostra vita. Conoscerli ed apprezzarli può
farci capire quanta ricchezza ci sia in quei popoli e in quelle Chiese e
questo grazie anche all’azione incessante dei nostri missionari che operano laggiù. Infine siamo chiamati ad accorgerci che tra i fratelli immigrati che vivono in Friuli, ce ne sono tanti che non hanno ancora potuto
conoscere o accogliere il Vangelo di Gesù Cristo. Scopriamo così che
quello del missionario non è un mestiere da delegare ad alcune persone, spesso eroiche, ma è un elemento fondamentale della fede di ciascuno di noi, una qualifica che abbiamo ricevuto tutti con il battesimo.
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Le difficoltà del dialogo con culture lontane ci possono far anche capire
quanta passione, fatica e dedizione debbano spendere i nostri missionari friulani nel mondo per servire il Vangelo. Di tutto questo parleremo
nella nostra breve tavola rotonda, aiutati da alcuni preziosi testimoni.
Vorrei iniziare da don Emmanuel Runditze. La sua fede e la sua vocazione sacerdotale sono nate nella diocesi di Muyuga in Burundi, da diversi anni però, don Emmanuel sta svolgendo il suo apostolato come
pastore di diverse comunità cristiane friulane, prima a Orgnano di Basiliano, alle porte di Udine e oggi a Dignano e nelle comunità vicine.
Un’esperienza lunga che dura da 8 anni. Chi meglio di don Emmanuel
può parlarci dei sentimenti di un credente straniero che arriva in Friuli,
delle difficoltà, ma anche della bellezza di un incontro tra culture illuminate dalla fede, e di come si possa realizzare in una comunità parrocchiale una vera casa e una vera famiglia.
DON EMMANUEL RUNDITZE
Il mio compito è stato quello di definire e capire questa casa, con vari
significati, ho cercato e ne ho trovati solo tre. Primo: casa come edificio,
come ambiente vitale e determinante per ogni persona, quasi fosse un
nido. Ecco allora il motivo per cui l’uomo viene chiamato a curare la casa. La casa ospita le persone che costituiscono la famiglia. La casa
senza famiglia diventa una cosa abbastanza scarsa. Infatti, vediamo
tante realtà dove abita una sola persona, oppure quella unica persona
ha più case e ciò nonostante diventa triste. Perché? Già nel primo libro
della Bibbia, la Genesi, l’uomo viene definito come una persona non solitaria. Quindi l’uomo non può vivere senza la compagnia, ecco il motivo
della casa, affinché essa diventi il luogo in cui l’uomo, insieme agli altri,
si trovi e possa realizzare i suoi progetti. Una casa che ospita amici, una
casa che è aperta. La casa allora diventa il nido protettivo dove l’uomo
pensa e realizza delle cose e si trova a suo agio. La casa è il luogo di
ritrovo di amicizie dove l’uomo può dare e ricevere quell’affetto necessario per ogni vivente. Ecco allora che la casa diventa significativa perché
è abitata. Non è una casa in rovina o pericolante, ma è una casa che
sta in piedi per proteggere, anche dalle intemperie. Quando l’uomo si
arrabbia, dove trova il suo equilibrio? In casa. Nel linguaggio di oggi
creare una famiglia equivale a questa espressione: “Costruire una casa”. Passiamo ora all’altro concetto: la casa intesa come famiglia. Non
solo famiglia, padre e madre, figli o sorelle o fratelli, ma con un altro significato più esteso, dove i vari membri interagiscono. Casa dove la
gente si trova, si scambia, le persone confluiscono, si incontrano, si siedono alla stessa mensa, condividono tante esperienze, si confrontano, a
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volte addirittura si confondono. Ci sono, infatti, delle realtà che si contraddicono fra loro per cui ciascuno si mette in gioco con la propria personalità, con la propria identità, e si confronta con l’altro. Troviamo allora questa interazione che ha per primo passo quello dell’ascolto
dell’altro, perché l’altro ha qualcosa da dirmi, e io ho qualcosa da dire
all’altro: solo così ci completiamo. L’attenzione per ascolto dell’altro diventa una cosa benefica sia per chi ascolta che per chi è ascoltato. È
attraverso questa attenzione che arriviamo alla testimonianza: prima
ascolto, poi sono ascoltato e testimonio quello che ho capito e compreso dall’altro. Allora il concetto della famiglia, quella estesa, (mi riferisco
a un ceppo familiare, dalle nostre parti si direbbe subito la tribù, la grande famiglia) l’ho ritrovato anche qui.
Il terzo concetto è la casa come Chiesa, che è aperta a tutti, che annuncia il Vangelo. Non solo la casa–tempio che troviamo nel Vecchio
Testamento, con Salomone che vuol costruire la casa del Signore, ma è
la casa che accoglie gli altri, la casa che ci accoglie per accogliere gli
altri. Nel popolo ebraico già troviamo questo concetto di casa di Dio.
Poiché era un popolo errante si è fatto l’immagine del luogo del Signore
e aveva eretto una tenda: la tenda del Signore. Più che un santuario,
era una presenza del Signore. La Chiesa diventa così una presenza che
sì tocca. Noi siamo la Chiesa, non il tempio. Dio, compiendo le sue azioni, il suo volere, passa tramite noi, come è passato per Mosè, e quindi ci chiama a costituire una sola casa. Lo abbiamo ascoltato anche nella meditazione, nella preghiera di Isaia, versetto 56,7. Il Signore cammina con noi; nell’incarnazione Dio ha trovato il modo per vivere con noi,
camminare con noi, parlare a noi, con noi, scambiare le nostre fatiche,
aiutarci anche nelle nostre persecuzioni, animare le nostre culture che
tenderebbero a staccarsi da Dio. Lui cala nelle nostre realtà per elevarci, si abbassa per elevarci, per portarci verso di lui. Questa, allora, è la
vera casa: accogliendo l’incarnazione lui ci eleva con la sua resurrezione. La Chiesa diventa, così, quel cammino dall’incarna-zione alla resurrezione.
C’è anche il concetto di casa come regno di Dio, cui tutti quanti siamo
chiamati. Non solo la Chiesa come Chiesa Cattolica, come qualcuno
penserebbe. Gesù Cristo nei brani del Vangelo ci parla del Regno di Dio: “Andate ad annunciare il Regno che è in mezzo a voi”. Accogliendo
l’altro, accogliamo Lui. In sintesi sono quei famosi due comandamenti:
amare Dio e servirlo, amare il prossimo e servire anche il prossimo, che
creano il Regno di Dio. Il Regno di Dio si realizza in quel brano del giudizio universale: “Ho avuto fame, ho avuto sete, ero malato, ero straniero e mi avete accolto”. E ancora: “Andate a riferire a Giovanni che gli
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storpi camminano, che i morti risorgono, …” Questo è il Regno di Dio
che siamo chiamati ad annunciare.
Ma vorrei adesso andare verso la conclusione con la mia testimonianza personale. Pensate a qualcuno che arriva dall’Africa in Friuli (io sono arrivato dal Burundi), in questo mondo occidentale non trova nessun
simile, si sente spaesato nella cultura, con la lingua, ecc., senza sapere
dove bussare, dove suonare il campanello. Subito la risposta del friulano è chiara: “Non ho voglia di niente, non ho bisogno di niente, non
compro niente”. È un’esperienza personale, mi capita tuttora dopo otto
anni. Allora potete immaginarvi le difficoltà che uno può incontrare. È
normale: io con i miei limiti, anche caratteriali, mi irrito come tutti. Qualcuno mi ha visto magari piangere, studiare, mi ha visto amareggiato, mi
ha visto mangiare, mi ha visto camminare, mi ha visto bere, andare in
giro, cercare informazioni, fare la spesa, un po’ come fanno tutti. Allora
qualcuno si è accorto che ero anch’io una persona, e sono stato accolto
a Orgnano e a Basiliano. Poi anche altri hanno iniziato a chiedere: ”Tu
come ti chiami, come stai, da dove arrivi, cosa mangiate da voi?”, Queste sono delle piccole esperienze di accoglienza. Uno si accorge
dell’altro, vuol parlargli, ma non sa da dove iniziare, da una battuta, a
volte da una battutaccia, ecc. Sono queste piccole cose che mi hanno
edificato, partendo da poche persone, pochi gruppi, poi, pian piano sono
stato inserito, accolto nella mia diversità, ma anche nella diversità degli
altri nei miei confronti; qualcuno mi ha aperto la casa. “Ma come mai
quello lì ha aperto la casa a uno che è venuto da fuori? Come si fa? …”.
Però piano piano ci siamo accolti e avevamo le stesse intenzioni. Poi mi
hanno chiesto di proiettare qualche diapositiva, di raccontare, di mostrare qualche foto ecc. Ho imparato tante cose e sto tuttora imparando. Sto
cercando anche di capire i comportamenti, di capire il perché di questo
e di quello. Dico: “parlatemi di voi”, così lo scambio si amplia sempre di
più, e mi sento già a casa mia anche se in realtà non lo è, ma umanamente mi sento accolto. Mi hanno chiesto anche dei servizi, come
l’annuncio. Ma non devono essere solo loro ad annunciarmi, anche io
devo annunciare qualcosa, perché l’espressione della fede è sentita diversamente, secondo le culture. Allora il mio essere presente qui, non
solo in questo convegno, ma essere presente in Friuli, è prevalentemente per il motivo del Vangelo. Tanti me lo chiedono: “Vieni a parlare
all’asilo, vieni a parlare nelle scuole, vieni a parlarci della tua fede, di
come la vivi, di come la senti”. C’è davvero una sete di conoscere; allora
questo mio essere qui da voi, in questa casa che è comune, ha il significato del Regno. Annunciare questo Regno che Gesù Cristo ha lasciato,
non solo a voi, non solo ad Aquileia, ma anche in Burundi, in quelle culture che non conoscono ancora Gesù Cristo. Sono arrivato alla conclu-
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sione, ma non è una conclusione perché apro altre strade con tre piccole domande che vogliono essere provocatorie.
1. La casa per tutti dove la troviamo, dov’è costruita? Forse la troviamo nello stesso vivere la nostra fede. Io che vivo qui, tu che vivi là:
ti senti a casa, ti senti a tuo agio? In quella fede ti ritrovi? Abbiamo
accolto i valori evangelici? Sento quel valore che mi invita
all’accoglienza oppure preferisco chiudermi in me stesso?
Lo diceva l’Arcivescovo, se la nostra fede non ha quello slancio, se
non si apre, se non continua l’annuncio, è una fede che sta per finire.
2. Forse la presenza di altri che sono diversi da me provoca un sentimento di rifiuto? E se mi provoca un sentimento di rifiuto, sono davvero cristiano? Certo che la presenza degli altri crea delle problematiche, ma l’uomo non ha solo problematiche ma anche delle ricchezze, chiunque sia, anche la persona peggiore ha anche delle
cose positive e sono quelle, forse, che dobbiamo tirare fuori per arricchirci. Diversamente Dio non si sarebbe fatto uomo, perché eravamo peccatori.
3. Ma allora qual è il metodo per accogliere senza perdere qualcosa?
Perché abbiamo paura di perdere qualcosa quando accogliamo
l’altro? E quali sono i pesi che io stesso devo lasciar cadere per poter accogliere l’altro? Come accogliere i valori cristiani?
Per quanto mi riguarda l’esperienza che ho fatto per diversi anni vivendo fuori dal mio paese, (perché non ho vissuto solo in Italia, ma
anche in Austria, in Belgio ecc.) certamente non è stata facile, ma è
stata comunque un’esperienza molto bella, che mi ha arricchito. Ma
innanzitutto mi sento anche uno per gli altri, forse è anche questa la
bellezza del Vangelo: trovare i fratelli.
Roberto Pensa. Don Silvano Nobile è un sacerdote “Fidei Donum” in
Brasile, quindi un sacerdote del nostro clero diocesano che si è fatto
dono in nome di tutta la Chiesa udinese, ai fratelli nella fede che vivono
in Brasile. Da lui vorremo sapere quali frutti possono nascere quando
diversi modi di esprimere e di incarnare la fede si incontrano e si donano reciprocamente.
DON SILVANO NOBILE
Io mi trovo in un piccolo paese di 6.000 abitanti nella valle del Jequitinhonha, nello stato di Minas Gerais. Ci sono situazioni varie e molte famiglie povere, case povere. Anche lì trovi tutti i problemi che ci sono qui
come la droga e anche la criminalità che è molto cresciuta. Pensando
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alla catechesi, ai bambini, ai giovani, ai cresimandi, a tutte queste persone, noi abbiamo pensato che ci deve essere un incontro in una comunità gioiosa. La Chiesa, proprio anche per il tipo di persona che è il
brasiliano, deve essere un luogo di gioia, una comunità gioiosa di fraternità dove bambini, adolescenti, giovani si sentono molto contenti, anche se hanno una casa o una famiglia dove alle volte manca tanto. Nella comunità loro devono trovare davvero una grande famiglia. Quindi si
devono fare incontri con i ragazzi, con i giovani, anche con quelli sposati, dove ci sia un’esperienza di insegnamento sì, ma anche di preghiera,
di gioco. Un incontro che lasci alla fine nostalgia. Non è un momento
che stanca, che si preferisce evitare, ma un momento nel quale davvero
si sentano bene, dove il messaggio del Vangelo per loro sia una cosa
che li commuove, un qualche cosa che per loro sia gustoso, gioioso
come il mangiare, come il giocare. Una cosa importante che li alimenti,
che davvero li faccia incontrare tra di loro e anche con se stessi, ma
sempre in questo ambiente di gioia. La preparazione di tutti questi incontri è fatta insieme a varie persone. Anche qui ci deve essere
l’esperienza di comunità: nella preparazione e nelle ore da trascorrere
insieme che devono diventare espressione di un incontro di persone
adulte, di persone che amano, che trasmettono cose importanti e, allo
stesso tempo, cose che piacciono. Ho constatato che, mentre prima con
un incontro di un’ora, con una sola catechista, si stancavano, si stufavano, lasciavano andare, diminuivano la presenza, non ritornavano, invece da quando ci sono questi incontri, fatti così, aumentano sempre
più. In questi incontri a volte c’è anche qualcuno che usa la droga ma
cerca qualche cosa, cerca un’apertura, cerca qualcosa che vada oltre
l’esperienza della droga. La Chiesa è una comunità, essenzialmente la
parola “Chiesa” significa comunità, assemblea, riunione di persone che
si trovano a causa della fede. Quindi la Chiesa deve diventare una casa
per tutti, ma una casa dove ci sia grande piacere di andare. Non si deve
andare trascinandosi, magari dicendo che “Questa è l’ultima volta”, oppure “Dopo la prima Comunione o dopo la Cresima non ci vado più”,
ma è necessario che rimanga questa sete, questo desiderio di ritornare
perché lì davvero c’è una casa, c’è una comunità, nella quale ragazzi e
giovani e anche coppie trovano una compensazione a tutto quello che
può mancare anche nelle loro case, nelle loro famiglie.
Poi vorrei aggiungere qualcosa che non ho penato io, o noi della nostra
parrocchia, ma qualche altro e che mi pare sia interessante, parlando
della casa e della famiglia.
Abbiamo una grande strada che va da Rio a Salvador. Qui passa di tutto, è fonte di ricchezza, è fonte di prostituzione e anche di criminalità, e
qui, su questa strada, oltre alle macchine e ai camion che sono nume-
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rosissimi (in Brasile tutto il trasporto arriva via camion e non ci sono praticamente ferrovie), si trovano sui margini delle persone che camminano
con dei bagagli strani, persone che vengono da lontano, spesso vengono dal nord - est, da 2.000 Km di distanza, vengono a piedi lungo questa strada e vanno giù fino a San Paolo. Rimangono là un po’ e dopo
ritornano a piedi. Questi vengono chiamati i “peregrinos”. Proponiamo
alle famiglie di aprire le proprie case e, all’intera comunità, di riscoprirsi un’unica famiglia convocata dall’amore del Padre. Per molti provenienti dall’America Latina l’esperienza del limite e del fallimento,
dell’impotenza e dell’ostilità, soprattutto nei primi giorni della nostra riflessione, è stata un’occasione provvidenziale per rivedere alla radice la
propria fedeltà al Vangelo. Anche per le comunità cristiane in Italia
l’esperienza della crisi, delle difficoltà, delle resistenze può rappresentare un’occasione per ripartire da Vangelo e un’occasione provvidenziale
per scegliere di nuovo la via della piccolezza e della povertà. Le immagini pasquali del Vangelo ci insegnano a restituire la sua identità di
persona a un povero, il suo volto umano. Ripropongono ai cristiani la
vita bella e piena di Gesù di Nazaret che forse i poveri fiutano per osmosi. Nelle similitudini impiegate da Gesù troviamo allusioni alla vita di
ogni giorno. In tal modo si svela una profonda capacità di trarre lezione
e consolazione da ogni creatura e da ogni evento. Gesù sa discernere e
fare comprendere la bellezza della vita attraverso i simboli che si celano
dietro alle esperienze umanissime della vita quotidiana, e fare appello
all’esperienza significa coinvolgere la libertà di colui che ascolta. Si, la
vita di Gesù è stata una vita bella, vissuta in pienezza, è stato un uomo
sapiente, capace di vivere tutti i colori delle relazioni umane.
C’è un’esperienza che mi edifica tanto. Una suora e un prete mio vicino, che è di Alba, e dei laici hanno deciso, come da altre parti, di costruire una casa per queste persone dove possano trovare da dormire, un caffè oppure una minestra calda la sera. Però non si fermano per
più giorni perché la loro vita è di pellegrini, rimangono una notte e poi
l’indomani, dopo aver preso il caffè, continuano la loro strada, ma trovano l’affetto, l’attenzione, trovano anche, diciamo, un modo scherzoso di
vivere queste ore. C’è di tutto. Un giorno sono arrivate tre persone non
anziane, abbastanza giovani, hanno chiesto ospitalità e naturalmente
l’hanno ottenuta, sono rimasti lì alcune ore e poi sono andati ad assalire
il distributore vicino e, poveracci, sono stati presi e messi in prigione.
Come diceva san Francesco: “Ricevete tutti in casa, anche se sono briganti. La vostra casa, dei francescani, che sia aperta a tutti. Tutti sono
figli di Dio”. L’atteggiamento di questa suora, di questo prete, di questi
laici per me è sempre motivo di riflessione. Mi piace riportare qui questa
loro esperienza, questo loro atteggiamento così fraterno, non si stanca-
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no mai, sono anni che lo fanno. Realmente vogliono offrire dei momenti
a delle persone che non hanno proprio nulla, a volte addirittura i camion
danno loro uno spintone quasi apposta e li buttano giù perché camminano pressoché in mezzo alla strada. Ecco, queste persone che non
valgono niente, vengono invece valorizzate: questo atteggiamento mi
pare che sia davvero molto evangelico. Ho portato una testimonianza
del Vangelo dove si coglie subito che la Chiesa è davvero una casa,
una casa calda, affettuosa, dove tutti possano trovarsi bene. È
un’esperienza proprio ai limiti, di persone straccione che hanno deciso,
loro stesse, di buttarsi via. Loro stesse non si considerano neanche persone umane, però qualcuno che sa amarle, riceverle e sa anche scherzare con loro e cui dopo dire: “arrivederci, quando tornerai troverai ancora una casa per te”.
Grazie.
Roberto Pensa. Grazie a Don Silvano che, non ostante non avesse
preparato l’argomento, ci ha dato ugualmente degli spunti molto interessanti: come fare delle nostre comunità dei luoghi in cui si sta bene, in
cui si viene accolti e si vive con gioia. Ma come fare attenzione a tutti
anche ai “peregrinos”, numerosi anche nella nostra società, tra cui, forse, ci sono anche alcuni briganti? Come essere veramente accoglienti
con tutti, come fanno i francescani, non facendosi tanti problemi su chi è
e che cosa vuole, ma ponendo invece dei segni di accoglienza per tutti?
Grazie.
Facciamo un po’ un ping-pong tra il resto del mondo e la situazione friulana e diamo la parola a Mons. Gianni Fuccaro, direttore dell’ufficio Migrantes, di quell’ufficio diocesano che è chiamato a mettersi in ascolto
delle necessità degli immigrati. Necessità materiali, di cui si occupa anche la Caritas, ma soprattutto necessità spirituali legate all’accoglienza:
quindi necessità dei cattolici, anche di coloro che non vivono più la comunione ecclesiale, e di quanti appartenenti ad altre confessioni religiose cristiane, oppure di diversa fede religiosa. A Don Gianni chiediamo
di raccontarci come l’ufficio Migrantes cerca oggi di aiutare le nostre
comunità ad essere evangelizzatrici nell’accoglienza.
DON GIANNI FUCCARO
Alla luce dell'apporto storico della nostra Diocesi all'opera della Evangelizzazione dagli inizi della Chiesa Aquileiese ad oggi, scorrono davanti
alla memoria figure di sacerdoti, religiosi, religiose e laici di grande sta-
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tura. Essi sono fari di fede e di amore cristiano che brillano nel cielo delle nostre comunità che li hanno espressi.
Oltre i missionari dei primi secoli, a cui si aggiungono quelli dell'epoca
longobarda, impegnati nell'opera di conversione, prima degli stessi e poi
delle popolazioni slave insediatesi nei territori patriarcali, con l'epoca
medioevale si apre una nuova dimensione. Nel 1300 Odorico da Pordenone si spinge nella lontana Cina, per portare la testimonianza della
propria fede a genti sconosciute. Lo fa in obbedienza al mandato di Cristo: "Andate in tutto il mondo, predicate il Vangelo e fate discepoli"; lo
stesso imperativo Io accolse nel 1600 p. Basilio Brollo, nel 1700 p. Tristano d'Attimis e nel 1900 Mons. Tarcisio Martina e così tanti altri missionari del nostro Friuli.
Ora da quella terra sono approdati tra noi 900 cinesi. La loro presenza
si fa manifesta soprattutto attraverso quei ristorantini, aperti un po' dovunque, che portano il sapore del loro stile, della cultura e della gastronomia.
400 sono coloro che provengono dall'India e Bangladesh ove la nostra
suor Amelia Cimolino di Carpacco svolge la sua opera di amore evangelico. In totale dall'Asia sono 1.650, appartenenti a 26 nazioni.
L'Africa, continente emblematico di Missione, divenuto tale a metà del
1.800, dove schiere di nostri conterranei dedicano la loro vita a quei popoli tra i più poveri del mondo. Tra essi ricordiamo p. Evaristo Migotti, p.
Aldo Marchiol e p. Giuseppe De Cillia, tuttora impegnato nel Burundi.
Da 32 nazioni sono arrivati in 1.350. E' facile identificarli per il coloro
delle loro pelle. Ancora dal nord Africa, dai cosiddetti paesi del Magreb,
di cultura islamica, sono venuti in cerca di benessere in 1.650.
Oceania ed Australia sono presenti, anche se in un numero esiguo, con
50 immigrati.
La fine dell’Ottocento ha visto migliaia e migliaia i friulani imbarcarsi per
raggiungere le Americhe, soprattutto l'Argentina. Questo flusso migratorio è durato fino agli anni sessanta. Ora da quelle terre ci hanno raggiunto in 1.700 appartenenti a 23 nazioni.
Infine dai paesi europei è giunta la parte più consistente di immigrati.
Per una chiarificazione si possono classificare in 3 gruppi.
Dai Balcani in 9.500, rappresentano 8 nazioni. Gli Albanesi raggiungono
il gruppo più rappresentativo, arrivando a toccare una cifra di 2.500. A
questa terra hanno dedicato il loro lavoro apostolico dal 1912 al 1945
molti sacerdoti, religiosi e religiose friulani. Quattro furono i delegati Apostolici: mons. Della Pietra di Prato Carnico, il card. Antoniutti di Nimis,
mons. Nigris di Ampezzo e, da ultimo nel 1991-92, mons. Causero.
Contribuirono allo studio della cultura e storia locale alcuni nostri Gesuiti: p. Cordignano, p. Santi ed altri che redassero il vocabolario italiano-
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albanese e la grammatica.
I Rumeni sono il secondo gruppo più vistoso con oltre 2.000 presenze.
Dai paesi del ex blocco comunista sono arrivati in 1.950.
Da ultimo dai paesi della UE vivono nella provincia di Udine 800 cittadini
comunitari.
Si parla quindi di 20.000 persone, che si sono inserite nel nostro territorio e condividono con noi vita, speranze e lavoro. Differenti culture, lingue, religiosità, usi e costumi, che ognuno porta come bagaglio personale, che non possono essere disconosciuti e che devono trovare chi li
sa valorizzare e rispettare. Accoglienza ed integrazione sono il binomio
intorno al quale girano molte problematiche, che si debbono tenere in
considerazione e per le quali è necessario trovare soluzioni tali che la
ricchezza della nostra cultura si sposi con la ricchezza delle loro. Solo
così potrà essere costruita quella nuova armonia che sta alla base di
una crescita comune e di un vero progresso.
Per quanto concerne il piano religioso/ecclesiale, il mondo spirituale ha
la sua fondamentale importanza per lo sviluppo delle relazioni umane,
sia a carattere personale che sociale; nella nostra diocesi si stanno facendo discreti passi in avanti nel tentativo di essere Chiesa accogliente,
che sente la sua identità universale.
Il fenomeno migratorio è nato intorno agli anni novanta e si è sviluppato
man mano che ci si avvicinava alla conclusione del secondo millennio,
e tuttora è in piena evoluzione. A seguito di ciò, alcune parrocchie della
città hanno aperto le loro sale d'incontro per dare spazio alla richiesta di
alcuni gruppi africani pentecostali, di matrice non cattolica, per le loro
celebrazioni.
Sono state messe a disposizione di immigrati canoniche rimaste vuote
ed ambienti parrocchiali, per venire incontro alla carenze abitative. Anche gli Islamici hanno avanzato richieste del genere ma le direttive della
conferenza episcopale italiana non consigliano di concedere per quel
culto ambienti ecclesiastici. E' necessario conoscerne la cultura prima di
dare certi aiuti per non incorrere in conflitti spiacevoli, sia per gli uni che
per gli altri. Gruppi cattolici si sono evidenziati ed altri stanno nascendo.
Alcune donne delle Filippine, sposate con italiani, stanno interessandosi
dei loro connazionali e offrono iniziative di incontro e momenti di preghiera.
Un gruppo di cattolici Ghanesi si ritrova ogni domenica nella parrocchia
di S. Pio X per la celebrazione eucaristica, presieduta da p. Flaviano dei
Saveriani.
Anche gli Albanesi hanno risposto con 150 presenze all'invito di ritrovarsi per la S. Messa nella stessa parrocchia, quando un sacerdote originario dell'Albania è venuto a Udine. Mensilmente presso la Chiesa
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delle suore Dimesse a Udine si celebra per gli Ucraini la Liturgia grecoucraina; celebrante è un giovane sacerdote Ucraino, studente a Roma,
il quale sale a tale scopo a Udine.
I Rumeni possono contare sull'assistenza di due sacerdoti: uno grecoortodosso e l'altro greco-cattolico, i quali curano i rispettivi fedeli celebrando per loro il primo nella chiesa dell'Istituto Renati ed il secondo a
S. Cristoforo in città. Questo è stato possibile per l'interessamento della
diocesi.
Stanno richiedendo un locale per le celebrazioni Moldavi e Russi dipendenti dal Patriarcato ortodosso di Mosca.
I Latino-Americani fanno capo a Varmo, dove trovano in parrocchia don
Gianni Pilutti, già salesiano per molti anni in Uruguay.
Non bastano le celebrazioni per favorire l'incontro dei vari gruppi di immigrati; ci vorrebbe una serie di ambienti per offrire momenti di ritrovo,
in quanto necessitano di uno scambio di esperienze, di comunicare tra
loro, di stare insieme, ricreando idealmente il ritrovarsi a casa. Molti immigrati si sono costituiti in associazioni, oggi se ne contano 44 e sono a
loro volta consociate. Rapportarsi con queste sarebbe cosa molto utile.
Gli immigrati difficilmente si presentano al parroco nelle parrocchie: forse alle volte solo per avere un aiuto o per la ricerca di un’abitazione. Si
confondono con la massa e coltivano le amicizie tra loro, ritrovandosi in
luoghi lontani dalla loro residenza.
Sarà opportuno che il consiglio pastorale parrocchiale si renda sensibile
verso gli immigrati residenti in parrocchia e metta in atto le iniziative necessarie per conoscerne il numero e la provenienza. C'è bisogno che le
comunità facciano loro sentire interessamento ed accoglienza. Sarebbe
utile conoscere cosa si è fatto nelle varie zone, quali risultati sono stati
raggiunti. Da ultimo si sta costituendo un gruppo diocesano per avviare
il Catecumenato che offra, in vista della domanda da parte di adulti, in
vista del sacramento del Battesimo, adeguate proposte ed itinerari seri,
con relativo accompagnamento.
Alcune parrocchie hanno già fatto tali esperienze; per questo ai relativi
parroci si chiede di inviare al centro catechistico diocesano una breve
relazione indicando tempi, contenuti e iniziative varie, attuate in supporto ai catecumeni e poi ai neofiti.
Abbiamo una nuova occasione per dimostrare che le nostre parrocchie
non sono delle chiesuole, gelose dei loro campanili, ma che sono pervase di quello spirito, che Cristo vuole presente ed operante in ogni suo
discepolo e in ogni comunità. Non passare oltre, ma fermati e fatti fratello dei fratelli. Grazie.
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Roberto Pensa. Grazie a Don Gianni che ha detto/dato delle informazioni molto interessanti. Diamo adesso la parola a suor Maria Helena,
che ha fatto un percorso interessante perché è contrario a quello di Don
Silvano. Dal Brasile è venuta qui tra noi e può raccontarci la sua esperienza, quello che è riuscita ad esprimere della sua Chiesa di provenienza e quello che ha trovato nella nostra realtà friulana. E credo interessante il fatto, che ha trovato significativo per la sua scelta di vita, per
la sua vocazione, una personalità del nostro Friuli, san Luigi Scrosoppi.
SUOR MARIA HELENA DA SILVA
Mi è stato chiesto di condividere con voi la mia esperienza di straniera
in terra italiana. Per fare questo devo raccontarvi la mia esperienza di
Chiesa in Brasile. È passato poco tempo perché sono in Italia appena
da tre anni. Il Brasile è molto grande. Troviamo dei luoghi dove
l’evangelizzazione è arrivata e quindi ci sono persone che si impegnano
a coltivarla e ci sono luoghi dove davvero l’evangelizzazione non è ancora arrivata. Nella mia prima infanzia fino all’adolescenza, io praticamente non conoscevo la Chiesa come la intendo ora, non mi ricordo
nemmeno di aver partecipato alle celebrazioni eucaristiche perché abitavo molto lontano e non c’erano sacerdoti, come del resto in tanti posti
ancora sono assenti. Durante l’adolescenza la mia famiglia è emigrata
dallo stato di San Paolo. Solo allora ho iniziato la mia catechesi, ho conosciuto la Chiesa come la intendiamo oggi, con il significato di comunità. Sono figlia di contadini, di una fede semplice, concreta, di una religiosità molto popolare. Non di grandi discorsi o di grandi fondamenti
teologici, ma di una forma molto semplice. Quando ho conosciuto le
suore della Provvidenza mi sono inserita davvero nella Chiesa che reputo meravigliosa, perché è la mia Chiesa. Mi sono inserita nelle comunità di base dove la parola di Dio è a portata di tutti; dove c’è la
condivisione della vita, dove la celebrazione eucaristica, come diceva
don Silvano, è una festa, dove si celebra la vita e tutto diventa più vicino
alla vita della gente. Quando sono arrivata qua in Italia ho trovato, invece, una Chiesa fredda, lontana; non mi trovavo a mio agio. I discorsi erano e sono molto belli, pieni di citazioni teologiche e di riferimenti di carattere esegetico, con testi anche in latino, che non avevo mai sentito.
Ma io, davvero mi sentivo straniera, extracomunitaria, come tante volte
diciamo. Quando noi pensiamo al popolo brasiliano non pensiamo mai
agli indios: quelli sono indios brasiliani, ma non popolo brasiliano. C’è
un antropologo che dice che il popolo brasiliano è il figlio di tre nulla: tra
il bianco e l’indios viene il caboclo, tra il bianco e il nero viene il mulatto e tra il nero e l’indios viene il cafuza. Questo è l’uomo brasiliano, che,
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nel corso della storia, ha integrato anche altre razze: quelle africane,
quelle indiane, quella giapponese, ecc.
Questa è una Chiesa piena di sincretismo: un po’ Chiesa cattolica, un
po’ culto afro-brasiliano. C’è un po’ di tutto. Ma non è la fede cattolica
che troviamo qui in Italia. Qui per ogni funerale viene celebrata la messa
e tutto il resto e poi si va al cimitero. Da noi no, perché non ci sono sacerdoti. In tante comunità la messa viene celebrata anche solo una volta
l’anno. Come si può valorizzare i sacramenti se non c’è la messa e non
ci sono i sacerdoti? Per questo è una religiosità popolare. Si ricorre a
preghiere, al rosario. Da una Chiesa come comunità nasce l’amicizia. Il
calore fraterno che nasce dalla parola di Dio è una cosa che qui mi
manca. In Brasile settembre è il mese della Bibbia. Un centro biblico
ecumenico fornisce il materiale per tutti e la gente, soprattutto in questo
mese, si ritrova per gli incontri biblici. In questo centro non operano solo
sacerdoti o suore, ma anche laici, i quali portano avanti i circoli biblici.
Il lavoro che ho fatto in questa comunità di Base, come diceva don Silvano, con questi pellegrini che arrivavano e che tanti di loro ho trovato
quando ho lavorato nelle favelas a San Paolo, queste persone che
vengono dal Nord e dal Nord-Est e da tante altre parti del Brasile, si trovano sradicati dalla loro fede e dalla loro cultura, perché abitano in una
favela. Chi abita nella favela non è in contatto con il cittadino perché
non identificabile, non è nessuno, è emarginato. Io ho lavorato alcuni
anni in queste situazioni e davvero là ho trovavo una vitalità molto grande. La persona brasiliana sa fare questo: porta la festa degli indios, ma
anche la nostalgia del nero: quanti neri erano schiavi in Brasile e si sono
lasciati morire di nostalgia, distesi sull’amaca. Questa era detta “malattia”, perché si lasciavano morire per la tanta nostalgia della loro terra. E
questo noi l’abbiamo ereditato, è una caratteristica nostra brasiliana per
il fatto che la storia ci ha fatto essere così, non è un privilegio.
Quando sono arrivata in Italia la mia esperienza era quella del Brasile,
non ne conoscevo altre. Ho trovato casa, perché vengo da una famiglia-congregazione religiosa. Ho trovato un posto, non avuto nessuna
difficoltà da questo punto di vista, ma non c’è soltanto questo. Tanti mi
chiedevano se avevo già imparato la lingua, se riuscivo a capire, ma
nessuno mi chiedeva come stavo, come mi sentivo, come va la tua famiglia … Perché per noi la cosa più importante è la persona, non ci importa se uno sa la lingua o se non la sa, cosa sa fare. Oggi posso capire
che, con queste domande, volevano chiedermi se stavo bene, ma oggi!
prima non ci arrivavo e tante volte mi arrabbiavo. La cosa più importante
è sapere la lingua. L’altra questione, relativa alla Chiesa che ho trovato,
è che c’è tanta solennità, ma manca la festa, manca la gioia. La prima volta che ho partecipato a una celebrazione, il giorno del nostro fon-
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datore (s. Luigi Scrosoppi), mi veniva da piangere, perché per me quella
era una messa da morto, non da festa. C’era molta solennità, io questo
lo so. Forse noi in Brasile dovremo imparare ad essere più solenni e
meno festosi. La questione del rito, di questo parlo in riferimento alla
mia congregazione, perché non conosco tutta la Chiesa qui in Italia, né
voglio offendere nessuno, per carità. Ho capito cosa sia il rito qui, anche
se anche in Brasile lo conoscevo. Però là la liturgia è più celebrativa che
rituale. Vorrei condividere con voi l’esperienza più significativa che soltanto adesso comincio a leggere, a saper distinguere. La difficoltà e la
crisi più grande non è quella di non conoscere la lingua, di non saper
esprimersi, di non sentirsi esattamente a proprio agio, di non conoscere
i costumi, la storia ecc., ma quella di non riconoscersi. Io mi conoscevo
come brasiliana in Brasile, ma qui, dovevo fare questo passaggio, ritrovarmi nuovamente; mi trovavo estranea a me stessa in questo mondo
nuovo, in questa nuova terra. Ma se questa è la crisi più grave, è anche
la bellezza e la ricchezza più grande, perché posso crescere grazie a
questo sforzo. Io non sono più soltanto la Maria Helena brasiliana, ho
un’altra esperienza di vita, che sto piano piano iniziando a capire. Non
posso dire di avere capito ancora del tutto; tre anni sono troppo pochi.
L’aver accompagnato nelle parrocchie friulane l’urna di san Luigi, mi è
stato di grande aiuto per capire un po’ questo popolo, perché non incontravo i friulani del convento, ma quelli delle case, delle famiglie, quei
contadini come me, o anche quelli della città. Sono stata aiutata perché
ho costatato anche le convinzioni fondanti della vita di questa gente, ciò
mi ha aiutata a liberarmi dai miei preconcetti. All’inizio si è tentati di dire
che solo il mio è buono, che qua nulla va bene, ma questo contatto con
la gente mi ha aiutata a liberarmi dai miei preconcetti. Una cosa vi chiedo: di condividere la vostra vita con quelli che arrivano da lontano, perché abbiamo bisogno di questa condizione, dato che è molto difficile ritrovarsi, e la condivisione della vostra vita ci aiuta a vederci qui: adesso
io comincio a vedermi in questa terra. Chi ha una forte identità della
propria terra, della propria nazionalità, si integra più facilmente, è più
capace di accogliere il diverso, anche se non è facile. Quelli che non
hanno ancora un’identità forte della propria terra si trovano ancora di più
in confusione. Per questo vi chiedo: accoglieteli e aiutateli con la condivisione della vostra vita.
Grazie.
Testimonianze
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PADRE ERNESTO SAKSIDA - SALESIANO
Io sono uscito di casa quando avevo quindici anni. La mia mamma, che
mi ha portato al collegio missionario, prima di consegnarmi ai superiori
mi ha detto: “Figlio, ho dimenticato una cosa”. E’ corsa in una libreria e
ha comprato una immaginetta di santa Teresina del Bambino Gesù, la
missionaria, la protettrice delle missioni. Mi ha detto: “Recita sempre
questa preghiera”. Sono entrato nella congregazione Salesiana vicino a
Torino e ho cominciato a studiare anche con un po’ di fatica. Ho visto
che, dopo quattro anni di studio, la maggior parte dei miei compagni
partiva per le missioni, allora ho pensato di andarci anche io. Non sapevo niente, sentivo parlarne: parlavano del Brasile, degli indios, dei Bororos e Xavantes. Così sono partito anch’io per il Brasile, da Genova con
la nave. Al momento del distacco dalla mamma ho visto che tutti piangevano tranne lei, che aveva in braccio un nipotino ed era l’unica che
sorrideva. Ho ancora fissa in testa l’immagine della mia mamma sorridente, anche se non mi avrebbe mai rivisto. L’ho guardata per darmi coraggio, perché se si fosse messa a piangere io sarei crollato, mi dava
coraggio. Il mio babbo, che era severo, non scherzava mai con i figli e
quando sono partito non si è congedato da me, mi ha consegnato una
lettera e mi ha detto: “Leggila quando arrivi in missione”. Poi si è messo
a piangere come fosse un bambino. Per me era come se un elefante si
fosse prostrato davanti a un bambino. Ecco la missione della famiglia,
la famiglia missionaria. Dalla mamma ho appreso la tenerezza, quel
cuore materno che sottolineava il dovere, ma consolava i bambini. Era
la dolcezza in persona ed ha infuso in me questa qualità. Ecco la missionaria. Il babbo ha trasmesso in me il senso del dovere e il coraggio,
tanto che sono qui anche a causa di questo. In America sognavo di andare tra gli indios, ma i miei superiori, dato che mi piaceva la musica e
lo sport, mi hanno mandato in un collegio a insegnare e giocare. Mi
chiedevo perché ero andato la dopo aver dato a tanto dolore a mia
mamma e a mio papà: per stare in collegio come tanti altri in Italia? Non
capivo. Ma poi un giorno ho capito, quando ho visto i bambini poveri per
le strade che si prendevano a pugni, i lustrascarpe ecc. Mi chiedevo che
bambini fossero, non erano come i nostri poveri: Vivevano per le strade,
si ferivano, si oltraggiavano, mettevano in subbuglio le strade e i negozi.
E poi ho pensato che avrei dovuto conoscerli meglio. Sono andato come parroco in una Chiesa improvvisata e ho cominciato, per conoscerli
meglio, a visitare ogni sera, dalle otto alle dieci baracche di questi poveri: volevo vederli da vicino. Quelle scene che si leggono nei libri, io le ho
viste davvero. Non c’erano servizi, i bambini per terra, i malati per terra,
qualche anziano, i letti senza materassi, l’acqua fuori della casa, i servi-
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zi erano un buco in terra ecc. Ma in mezzo a quel dolore, a quelle immagini di umiliazione, ho cominciato a scoprire in loro una gioia immensa nel ricevermi. I bambini venivano incontro e mi chiedevano quando
sarei andato alle loro baracche, come se dovessi andare ad una bella
festa di compleanno. Ho visitato 920 baracche e ho fatto una profonda
esperienza capendo cosa significava essere missionario. Non vuol dire
stare con i genitori, non vuol dire stare tra i selvaggi, ma missionario è
chi sta tra i poveri. È stata la prima esperienza di missionario nel Mato
Grosso. Ma che cosa potevo fare? Avevo visto un forte contrasto sociale. Conoscevo molti amici ricchi e ho deciso, senza stare tanto a pensare, di mettermi tra i poveri. Era un’opera grande perché i poveri erano
migliaia. Mi sono affezionato a loro e loro sapevano cosa sarebbe risultato. E quel carattere tenace del dovere, del sacrificio e della responsabilità del mio babbo l’ho messo in pratica. Ho deciso di fare una grande
opera per i bambini poveri: una città. La società brasiliana in generale è
insensibile ai poveri. Allora io ho riunito dei gruppi di allievi salesiani,
molti erano ricchi, e dicevo loro che dovevamo fare un’opera molto onerosa perché i poveri stavano dappertutto. Il piano era di fare una città.
Quindi abbiamo chiamato un ingegnere e un architetto e abbiamo disegnato sulla lavagna cosa pensavamo di fare. Avevo pensato ad un
grande padiglione con una parte per i malati, che arrivano sempre, una
parte per l’assistenza alle famiglie povere che avremmo ricevuto, un
grande teatro, una grande scuola a due piani per 2.000 bambini, palestra per 5.000 persone e le scuole professionali. Io l’avevo detto così, in
modo quasi incosciente, perché ci vogliono denaro e molti mezzi per realizzare tutto ciò. Avevo anche immaginato una grande Chiesa, sul lato
sinistro, di forma concentrica. Mi hanno risposto di no, che non si devono fare queste cose per i poveri, per quegli sporcaccioni, e poi con che
denaro lo si sarebbe fatto? “Col vostro denaro” ho risposto, “Voi avete
avuto un’educazione, avete denaro, avete tante possibilità”. Ho insistito
per due anni e ho visto che la società brasiliana in generale, che ha
65.000.000 di poveri, poche migliaia di molto ricchi e classi medie piuttosto ordinarie, non è sensibile verso i poveri. Mi sono trovato quindi davanti ad una muraglia e ho deciso di percorrere 14 città brasiliane: Rio,
San Paolo… ho utilizzato anche i canali televisivi, ma quello che ho raccolto non era sufficiente per iniziare, affittare una baracca e iniziare la
città. Poi sono tornato a casa, dopo 30 anni; sono partito che ne avevo
15 e tornato che ne avevo 45. Non conoscevo nessuno. Sono andato a
ringraziare i genitori al cimitero: il papà per avermi dato il coraggio per
affrontare tutto e arrivare qua dopo aver percorso molte volte l’Europa,
la Spagna, la Germania ed anche l’Italia, che ho girato forsennatamente, perché volevo realizzare questa città per i poveri. Ho ringraziato la
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mamma per avermi dato la gioia e la tenerezza per aiutare i poveri. Sono loro due che hanno fatto questo missionario e vi chiedo di battere le
mani a tutte le mamme dei missionari.
Grazie.
Don Luigi Gloazzo. La testimonianza di P. Ernesto conferma che le
vocazioni nascono nelle nostre famiglie. Siamo chiamati tutti a sostenerle e a farle crescere. Adesso chiediamo a Claudio di Bottenicco, che è
missionario laico e medico in Bangladesh, che cosa fa in quel paese e
tra quella gente.
CLAUDIO MODONUTTI
Prima vorrei chiarire un dettaglio. Io sono un missionario saveriano. Ho
fatto la professione religiosa nel 1970, ma non sono un sacerdote. Sono
in Bangladesh da 17 anni. Quando sono entrato nei Saveriani intendevo
diventare missionario come sacerdote. Ho sempre sognato di andare in
missione. Poi, negli anni che si sono succeduti, ho pensato e poi ho deciso di fare una scelta diversa. All’inizio pensavo di laurearmi in medicina e di essere presente in missione anche come sacerdote, poi invece
lungo il cammino mi sono convinto che non era il caso di mettere assieme le due attività, perché forse non sarei stato all’altezza di svolgere
bene tutte e due. Ho pensato, e sono convinto tuttora, che è opportuno
ed è possibile essere in missione, essere missionario, anche senza essere prete, ma semplicemente medico. Ovviamente, con tutti i limiti e le
contraddizioni che ho e che abbiamo, tentiamo di vivere questa esperienza missionaria come comunità. Ci sono due aspetti: il primo aiutare la gente in uno dei suoi bisogni fondamentali che è quello della salute. Il secondo consiste nel tentare di rendere significativa questa nostra
presenza non come individui, ma come comunità. Ci sono degli inconvenienti che però succedono in tutti gli ambiti e in tutte le situazioni della
vita. Che cosa faccio in Bangladesh: al momento sono in un villaggio,
insieme ad un altro missionario saveriano che ha deciso di vivere la sua
presenza lì praticamente come pura testimonianza. Ho bisogno di darvi
alcuni dettagli perché capiate di cosa parlo. Il Bangladesh è localizzato
nel nord-est dell’India, sopra il Golfo del Bengala. E’ un paese che è
metà dell’Italia, circa 150.000 Km quadrati e con più di 120 milioni di
abitanti. La superficie è metà dell’Italia e la popolazione è più che doppia. A dire il vero si sta un po’ stretti! È gente estremamente povera, anche se le cose stanno leggermente migliorando in questi anni. Una delle
cose di cui noi in Europa non ci rendiamo conto è che per noi, qui, la salute ormai è diventata un bene pubblico, anche se tutti abbiamo da ridire
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sul modo in cui la mutua viene gestita ed il modo in cui siamo curati, per
le nostre malattie e per i vari bisogni sanitari. Il diritto alla salute è un
concetto che al di fuori dell’Europa non so se esista. Là la salute, come
in tanti altri paesi, Stati Uniti compresi, è un bene del privato cittadino,
per cui o uno ha i soldi per curarsi oppure vive il decorso naturale della
malattia e poi va come va. In una situazione di estrema povertà, come
quella bengalese, la salute è un problema difficile da affrontare perché
non ci sono mezzi. Talvolta, per delle cure anche molto semplici, può
essere richiesto il salario di quattro, cinque o addirittura anche di quindici giorni. Se c’è bisogno di fare un’operazione può essere richiesto il salario di un mese intero. Ci sono situazioni nelle quali la gente vive di
quello che guadagna giornalmente, paga cioè quello che mangia e quello di cui ha bisogno ciascun giorno con quello che riesce a portare a casa lavorando. Il Bangladesh è un paese a stragrande maggioranza
mussulmana, parlo del 90% della popolazione mussulmana. Questo
significa che la presenza nostra come missionari è una presenza estremamente limitata e coartata nelle possibilità di evangelizzazione. I missionari che sono lì, per quanto riguarda la pastorale, seguono particolarmente i cattolici e i cristiani che ci sono. Quelli che non sono cattolici
e cristiani possono essere avvicinati soltanto da un punto di vista di assistenza sociale: scuole, salute, formazione e cose di questo tipo. Il
proselitismo è assolutamente proibito nel senso che veniamo controllati in questi termini e se qualcuno viene percepito come missionario
che cerca di fare dei cristiani, il visto di permanenza l’anno dopo non
viene rinnovato e la persona lascia il paese. In una situazione di questo
tipo ho intravisto la possibilità di una testimonianza povera, ma pur
sempre un tentativo di testimonianza di quelli che sono i valori evangelici occupandomi della salute della povera gente.
Al momento io sono in un villaggio, in una missione, che esisteva già.
Ho riaperto un ambulatorio che, per mancanza di personale, era stato
chiuso ed in questo ambulatorio vedo giornalmente i pazienti che vengono lì e faccio quel poco che posso fare appoggiandomi ad altre strutture della diocesi che hanno già un paio di ospedali. Praticamente è a
questo livello che la mia attività si realizza.
DON ELIA LEITA
(La relazione mantiene lo stile colloquiale) Due anni fa io ero qui e
quindi potrei fare il riassunto di quello che è successo in questi due an-
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ni. Sapete chi sono e cosa faccio. Due anni fa vi dicevo che la guerra in
Congo era ancora in corso, ma ancora non avevo sperimentato direttamente la guerra, avevo sperimentato solamente la prigionia,
l’accoglienza. I Maimai mi hanno accolto molto bene, siamo vissuti, io e
il mio confratello, quaranta giorni, con un’accoglienza veramente da cristiani, perché quelli che ci davano da mangiare erano cristiani, ci portavano nella capanna ogni giorno qualcosa e chi coordinava tutto era un
capo comunità che si chiamava Piero (ho saputo l’altro ieri che l’anno
ucciso!). Era un brav’uomo, un vero testimone, un papà di famiglia che
aveva cinque figli, non so quanti ne avesse adesso; io mantenevo agli
studi la più grande, nella città di Uvira. Le pagavo gli studi perché da
cinque sei anni le scuole sono a pagamento; dato che gli insegnanti non
vengono pagati tutti i genitori devono sborsare qualcosa. L’accoglienza
l’ho vissuta bene prima, a partire da due anni a questa parte, quando
sono ritornato, ho continuato la mia vita alla periferia di Uvira, assieme
ad una comunità di suore italiane. Abbiamo costruito un bel dispensario,
con l’aiuto di benefattori veramente generosi, dove queste suore, con
infermiere e parecchi laici, lavorano ventiquattro ore su ventiquattro. Naturalmente si fa pagare qualcosa a tutti, perché tutti devono essere dignitosi anche nel loro essere poveri, anche nella loro miseria, e allora
tutti pagano quello che possono, per poter far funzionare il dispensario.
Naturalmente pago anche io, a chi viene da me faccio un biglietto per
mandarli dalle suore, che poi mettono la spesa sul mio conto. Ma almeno possiamo curare tante persone. Come avevo detto due anni fa, la
lotta continuava fra i Maimai e l’esercito. Questa guerra era, fino a due
anni fa, abbastanza lontana ma in questo periodo si è avvicinata e i
Maimai hanno raggiunto anche la mia parrocchia. Naturalmente si erano
intrufolati dappertutto. Andavo a dir messa in una succursale lontana più
o meno otto chilometri, con la macchina, sempre sul chi va là. Durante
l’offertorio, che la gente celebra sempre con molta gioia, tutti si presentano di fronte all’altare a portare qualcosa in offerte o in denaro e quindi
dura abbastanza a lungo. Un giorno, mentre stavano terminando proprio l’offertorio, si avvicina un ragazzo, va dall’assistente e gli parla
nell’orecchio, poi parla anche a me e dice: “Padre, stanno avvicinandosi
i Maimai”. Pensai: ”Siamo all’offertorio, cosa faccio, scappo o continuo?”
Domine Dio era là, mi appelai a lui, chiesi cosa fare, bisognava decidere… decisi di andare avanti con la Messa. Naturalmente ho dovuto dire
alla gente che erano venuti a chiamarmi per un lavoro e che quindi non
avremmo cantato; andammo avanti con una messa veloce perché mi
chiamavano. Una bugia naturalmente! Immaginate voi! la Messa andò
bene e comunque riuscimmo a finire giusto in tempo per udire gli spari
arrivare. Ci fu un fuggi fuggi generale, io presi la macchina e scappai via
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con i chierichetti. È andata bene. Poi naturalmente quella zona è stata
preclusa, non ci si poteva più andare dato il pericolo, i Maimai stavano
sopra le colline e controllavano la strada. La mia macchina è l’unica
land rover color giallo, tutti la conoscono, anche loro la conoscono, naturalmente non volevano farmi del male, ma volevano la macchina, allora decisi di non andare più in macchina e da quel momento andavo
sempre in bicicletta. Andando bicicletta, in caso di pericolo, potevo buttarla e scappare per i campi o per la foresta, ma se ero in macchina dove potevo scappare? Allora andavo in bicicletta.
Le battaglie venivano combattute durante il giorno, mai di notte, iniziavano al mattino presto con le prime luci; cominciavano a sparare quelli
che erano sulle colline, quelli che sotto rispondevano, e noi eravamo là,
nel mezzo. Spesse volte, la domenica mattina presto, alle cinque e
mezza, le suore e io ci ritrovavamo in un angolo della casa, a pregare.
La situazione mi ricordava di quando mia nonna ci portava nel rifugio e
ci faceva pregare; a quel tempo non capivo il motivo delle preghiere, ma
adesso sì. Verso mezzogiorno tutto finiva, i bambini erano i primi ad uscire di casa, poi uscivamo anche noi, le pallottole erano terminate, si
erano ritirati. Suonava la campana e la Chiesa si riempiva, dopo pranzo,
fuori orario, senza preavviso, e allora si cantava e si ringraziava Dio per
lo scampato pericolo. La sera poi, con le suore si discuteva degli accadimenti. Tutto ciò è ripetuto per diverse volte. La domenica dell’Epifania
fu la stessa cosa. Stavo spiegando che Cristo si manifesta come figlio
di Dio ecc. e uno di loro mi disse di non rimandare la celebrazione, perché avevano bisogno dell’epifania in quello stesso giorno… basta guardare come l’amore di Dio si è manifestato lasciandoli tutti vivi. Questa fu
una bella epifania.
Il mese di maggio, c’era la festa del buon pastore, titolare della mia parrocchia, e bisognava organizzare la festa. Il consiglio si raduno, si organizzarono i canti, i balli, le preghiere, ma si doveva anche mangiare altrimenti che festa sarebbe stata?! In Africa se non si mangia non c’è festa, se non ci si trova insieme a mangiare, non c’è sagra, non c’è festa.
Chiesi che tutti portassero qualcosa per mangiare assieme, fuori della
Chiesa, ma uno disse: “Tu sei il nostro padre, porta anche tu il tuo”. Io
vivo con i padri Saveriani ad Est della città, attraverso tutta la città, per
10 Km, e arrivo all’estremo opposto dove c’è la parrocchia con le strutture parrocchiali, il dispensario, la casa delle suore, ma non c’è la casa
del prete, quindi ogni tanto mi fermo a dormire in una cameretta dalle
suore. Il sabato sera eravamo a tavola contenti e felici, la giornata era
terminata, l’indomani avremmo celebrato la festa del Buon Pastore. Erano le otto meno un quarto, otto meno venti di sera, eravamo tutti tranquilli, io ero a capotavola, con le porte di casa aperte dato che il cortile è
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recintato con un muro alto due metri. La suora che era al mio fianco uscì in cortile, per andare alla radio, poi tornò di corsa urlando: “Ci uccidono, ci uccidono”, e andò a riparasi sotto il tavolo. Mi girai e vidi due
militari con il Kalasnikov puntato “Cosa faccio?” – pensai – “Esco e
scappo”. Mi inseguirono e poi non mi ricordo… alcuni particolari me li
hanno raccontato gli altri. So che mi hanno riempito di botte, che sono
caduto insanguinato, che ho perso conoscenza e poi non ricordo
nient’altro. So però che la sentinella che era fuori è riuscita a scappare
dal cortile e quando mi ha visto cadere, ha pensato che fossi morto, ed
è andato a gridarlo a tutti; ha suonato la campana dicendo che il padre
era morto, così tutti sono accorsi a vedere se era vero. I militari sono
scappati e io sono rinvenuto tutto insanguinato. Vedendo tanta gente,
chiesi loro cosa ci facevano lì; mi risposero che credevano fossi morto,
quindi mi ricucirono. Dopo una quindicina di giorni mi sono rimesso
completamente ed ho potuto celebrare. I cristiani manifestarono la loro
gioia durante la messa, all’offertorio, presentandosi con una capretta
sulle spalle, una gallina, un po’ di fagioli, un po’ di banane, come ringraziamento e come lode a Dio perché le cose sono andate bene. E uno mi
disse: “Adesso Elia sappiamo che non sei un mercenario, che sei un
pastore, ringrazio Dio, perché il mercenario fugge, il pastore no!”.
Quando eravamo prigionieri io e l’altro padre, ci lamentavamo per il pericolo, e un catechista disse: “Ma padre, se Dio non lo ha scritto non
muori”, e io risposi: “e se l’ha già scritto?” si vede che veramente non
l’aveva scritto perché sono ancora qua.
Don Luigi. Un grazie di cuore per queste testimonianze che sono solamente alcuni frammenti di esperienza di chi vive a contatto con la gente, condividendone la vita. Mi veniva in mente un’espressione che spesso sentiamo: “Siamo chiamati alla solidarietà”. Io direi che siamo chiamati a molto di più che alla solidarietà: siamo chiamati alla condivisione. Abbiamo ascoltato tre declinazioni della condivisione: 1) la realtà dei
poveri; 2) sposare la causa dei poveri; 3) attivare un servizio per il bene
più importante che abbiamo, cioè la salute e quindi un servizio umile,
semplice, ma efficace della gente perché possa vivere con dignità. Nella
condivisione dei cammini di liberazione della gente una delle strade di
liberazione più straordinaria è proprio quella della pace.
Quindi grazie di cuore ad Ernesto, Claudio ed Elia. Sono la voce di tanti
missionari e tante missionarie (abbiamo sentito stamattina Maria Helena), che sono vicino a noi e alle nostre comunità. Grazie di cuore.
Concludiamo la nostra giornata con una relazione sui lavori di gruppo.
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Lavori di gruppo
Ai gruppi sono state proposte due domande generali più una domanda
specifica, diversa per ogni gruppo. Riportiamo in forma sintetica le risposte dei gruppi alle prime due lasciando per esteso quelle sulla domanda specifica.
Domande per tutti i gruppi:
A. Che cosa mi ha colpito di più di questa tavola rotonda? Perché? Quale “idea-forza” desidero portare con me e nella mia
comunità da questo convegno missionario diocesano?
• Lo spirito di accoglienza e di ascolto.
• Lo stile gioioso semplice e sincero delle celebrazioni. L’invito a potenziare la partecipazione dell’assemblea (coro, lettori, fogli, monizioni, preghiere dei fedeli…).
• L’invito a vivere con più gioia e serenità.
• Il rispetto e conoscenza delle culture senza atteggiamenti etnocentrici e valorizzando le differenze.
• L’invito ad una preghiera, personale e comunitaria più coerente con
il Vangelo, che ci dia motivazioni, apertura di cuore alle condizioni e
alle necessità dell’altro.
• Uno stile della comunicazione che sia fondato sul racconto
dell’esperienza.
• L’informazione che ci è stata data sul fenomeno dell’immigrazione
in diocesi e la presa di coscienza della nuova realtà.
• L’invito a vivere la fede nella realtà feriale e nei rapporti quotidiani.
• La carità vissuta come dono ricevuto e responsabilità.
• La ripercussione sugli immigrati e le persone povere delle nostre
chiusure e pregiudizi.
• La necessità di aprire non solo le canoniche, ma soprattutto il cuore.
• L’esigenza di puntare molto sull’ascolto empatico prima di attivarci
in azioni sporadiche.
• Si è attivato un percorso per Catecumeni a livello diocesano per
adulti che chiedono di conoscere Gesù Cristo e di far parte della
Chiesa cattolica.
• Alcuni atteggiamenti di segno negativo: La diffidenza e paura nei
confronti degli stranieri; le nostre assemblee liturgiche molto solenni, distaccate e poco partecipate; l’insegnamento catechistico trop-
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po concettuale e teorico; nei nostri Consigli Pastorali Parrocchiali ci
sono molte idee, ma poche persone che le traducono nella pratica
pastorale con il proprio impegno.
B. Quali sono stati gli atteggiamenti di Gesù a riguardo degli “altri”, coloro, cioè, che non facevano parte del popolo di Israele?
Ricordi qualche passo?
• Tutto il Vangelo è accoglienza incondizionata delle persone siano
del popolo di Israele che forestiere (pagani).
• Gesù valorizza e promuove le persone.
• Gesù non è geloso del bene che operano le persone che non sono
del suo gruppo.
• Gesù invita a riconoscerlo nell’altro.
• Il perdono e l’amore verso i nemici (Mt 5,44).
• La Cananea (Mt 7,24).
• La Samaritana e l’adultera (Gv 4; 7,5).
• Il Centurione (Mt 8, 5).
• Zaccheo (Lc 19).
• Levi/Matteo (Mt 2,14).
• Il Giudizio Universale e le opre di misericordia (Mt 25).
• L’accoglienza dei bambini (Mt 18).
• Quelli che scacciavano i demoni nel nome di Gesù a cui i discepoli
lo hanno proibito (Mc 9,38).
GRUPPO 1
In che senso si può dire che la Chiesa è una “casa” per tutti i popoli? Quali sono i segni più significativi già in atto che manifestano
questa realtà? Dopo aver fatto la lista provate ad ordinarli secondo
una scala di priorità.
Dio è Padre. Gesù nel Vangelo si esprime, in particolare secondo San
Marco: “La mia casa è una casa di preghiera per tutti i popoli”. E noi?
Segni significativi in atto: parrocchia, Caritas, centri di accoglienza,
gruppi missionari, centro aiuti alla vita, mediatori culturali nell’ambiente
civile. Per finire, nel nostro gruppo constatiamo che nella comunità del
Friuli c’è molta sensibilità per le missioni.
GRUPPO 2
Come si potrebbe cominciare a pensare e a costruire da noi una
“casa – Chiesa” per tutti i popoli? Da che parte cominciare? Come
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coinvolgere la comunità, seppur in maniera graduale? Con quali
strumenti?
Abbiamo proposto di costruire in tutte le parrocchie un gruppo missionario e quindi sensibilizzare e dare maggiore visibilità agli esempi positivi
che sono presenti sul territorio. Abbiamo pensato anche di dare maggiore valore all’audacia del rischio. Il rischio di aprirci, e quindi il coraggio
della gratuità, anche in questo senso. Avviare una più intensa collaborazione con i sacerdoti come testimoni e guide spirituali, anche per i
giovani. Per quanto riguarda gli strumenti abbiamo pensato a degli incontri informativi e di confronto, ad un’attenzione alle nuove povertà e
all’integrazione delle varie iniziative attraverso strumenti d’informazione
come libretti e giornalini ma anche Internet, la posta elettronica e altri
strumenti di questo genere.
GRUPPO 3
Spesso le nostre parrocchie aiutano missionari o suore particolari.
Come fare perché questo aiuto non sia rivolto alla singola persona
ma coinvolga il più possibile tutta la comunità–Chiesa di destinazione? Conosci qualche parrocchia che lo sta facendo?
Se la parrocchia dove noi viviamo è abbastanza numerosa allora si può
coinvolgere, sensibilizzare e promuovere un po’ il volontariato. Si è parlato anche riguardo alle adozioni a distanza delle singole famiglie, ma
potrebbero essere promosse anche con i gruppi, come ad esempio
quello della catechesi o della Caritas, che s’impegnano a sostenere
un’adozione lungo il corso di alcuni anni; anche la scuola materna potrebbe essere coinvolta. Se la comunità è grossa, si potrebbe promuovere dei progetti, all’interno della comunità locale, per garantire alla missione un sussidio per sostenere scuole, asili, dispensari e centri sanitari.
Questo coinvolgendo dei gruppi che siano animatori nella parrocchia,
magari anche mensilmente tassandosi con 10 o 20 Euro, coinvolgendo
un po’ le famiglie ecc.
GRUPPO 4
Ormai è comune sentir dire che bisogna essere tutti missionari.
Quali sono i segni che le nostre parrocchie dovrebbero realizzare
perché appaia chiaro che ogni “comunità–Chiesa” è il luogo dal
quale si guarda il mondo intero? Come ed in che maniera si parla
di coloro che ancora non hanno ricevuto il primo annuncio di Cristo (= Missione “Ad Gentes”)?
Le cose più importanti sono la solidarietà e l’aiuto tra noi. Per essere
aperti all’accoglienza bisogna valorizzare l’altro, il diverso, chi viene a
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bussare alla porta, chi ci chiede un aiuto, semplicemente gli altri gruppi
etnici. Noi tendiamo, come friulani, a fare il nostro gruppo e a non aprirci
agli altri. Questa è una difficoltà che io ho notato dalle mie parti, nella
Bassa. Abbiamo poi fatto un esame di coscienza riguardo al discorso
sulla casa. Prima di tutto bisogna aprire la casa del cuore
all’accoglienza, come comunità cristiana, per aprirci alle varie realtà che
stiamo vivendo, per dare e per ricevere l’invito. Se diamo, ci accorgiamo
che riceviamo e riceviamo molto di più di quello che diamo. E per essere e testimoniare la parola di Dio, perché se non riusciamo a testimoniare la sua parola tutto quello che facciamo è inutile.
GRUPPO 5
Come si può cercare di passare dall’aiuto concreto ad una persona
(sacerdote, missionario, suora, laico…) allo scambio tra le Chiese?
(tra la nostra comunità e quella “missionaria” del terzo mondo?)
Da dove cominciare? Quali i criteri portanti?
Inviando sacerdoti e laici, accogliere prima di tutto gli immigrati, creando
coscienza missionaria nelle parrocchie sia da una parte che dall’altra,
rispettare le persone, valorizzare la loro cultura e la nostra.
Don Luigi. Questa è una domanda che segna un po’ la svolta di una
mentalità: come si fa il passaggio dall’aiuto a un missionario/a conosciuto/amico, a una collaborazione, uno scambio con la Chiesa dove opera
il missionario. Questi sono temi che ci vedono coinvolti perché noi siamo molto generosi con le persone che conosciamo; facciamo mille cose
per loro. Con quelle comunità che non conosciamo che, però, sono le
Chiese dove operano i “nostri” missionari, generalmente noi non siamo
sensibili.
GRUPPO 6
Che cosa ci colpisce maggiormente riguardo ai nostri fratelli che
vengono da fuori (e ormai sono tanti)? Quali valori concreti ci
stanno comunicando? Abbiamo tentato in qualche maniera di farli
nostri, di metterli in pratica? Quali le maggiori difficoltà incontrate?
Vediamo soprattutto i problemi materiali, come la casa, il lavoro, i vestiti.
Ancora non siamo arrivati a guardare più a fondo. Effettivamente non
sappiamo ancora quali valori ci stanno comunicando realmente perché
non li conosciamo a fondo, non abbiamo ancora un contatto così profondo da conoscerli bene. Anche io, ad esempio, al lavoro conosco tantissimi extracomunitari. La metà di quelli che lavorano con me sono extracomunitari, ma non riesco a comunicare. So che vengono celebrate
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per loro delle messe, hanno dei loro incontri, ma non ce ne parlano, non
comunicano tanto spesso con noi. Devo essere io ad interrogarli per
sapere qualcosa. Abbiamo provato a fare nostri e a mettere in pratica i
valori di cui oggi si è parlato. Proprio perché non li conosciamo ancora
tanto bene, bisogna che ci diamo da fare per approfondire questi incontri e questi contatti, in modo da poterli poi aiutare in modo pratico, mettendoci un po’ di buona volontà. Le difficoltà incontrate sono sempre
quelle. In conclusione, bisognerebbe cercare di aumentare, nelle nostre
comunità, la sensibilità verso questi problemi, attivando una solidarietà
efficace e promozionale.
GRUPPO 7
Si può dire che oggi la Chiesa è la casa di tutti? Quali sono i segni
che lo manifestano? La gente si sente attaccata alla Chiesa e la
sente come una sua casa? Che cosa bisognerebbe fare perché
questa si realizzi?
La Chiesa deve essere la casa di tutti e la strada della disponibilità nei
confronti delle altre religioni cristiane. Abbiamo sentito che da noi ci sono 44 associazioni di immigrati. Certo che affermare oggi che la Chiesa
sia effettivamente “casa di tutti” è difficile, anche perché a considerarla
casa dovrebbero essere prima di tutto le comunità cristiane. Occorre più
conoscenza della nostra religione. Non tanto delle regole e dei precetti,
ma di quanto siano altruistici ed universali i messaggi che ci provengono
dai Vangeli.
GRUPPO 8
Che cosa si potrebbe fare concretamente per coinvolgere i nostri
fratelli e sorelle “extracomunitari”? Come farli sentire a casa loro
nei nostri incontri di preghiera? Nelle varie iniziative o feste parrocchiali? Da dove cominciare?
Non abbiamo saputo rispondere molto bene perché non è facile. Ad esempio con l’accoglienza delle nuove famiglie extracomunitarie e quindi
con l’apertura verso le loro culture, con l’ascolto e il coinvolgimento nelle
attività parrocchiali. Facendosi conoscere, parlando, anche i catechisti
con i bimbi, ma soprattutto con i loro genitori. Poi anche con incontri di
festa per accogliere queste nuove famiglie, con le loro rispettive tradizioni oltre alle nostre, perché anche le nostre vanno rispettate, ma è bello conoscerne anche di altre.
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GRUPPO 9
Che cosa di bello possiamo fare tutti insieme per sentire e concretizzare che noi “abitiamo con il cuore” il mondo intero? Come valorizzare meglio i nostri fratelli e sorelle che sono venuti da fuori?
Ci ha fatto piacere sentire che gli altri possono arricchirci e quindi cercare anche negli altri quelle tendenze di cui noi siamo poveri, quello che
ha di buono l’altro, e togliere la diffidenza. Ci è stato illuminante il giudizio dato sugli albanesi per i quali abbiamo una diffidenza enorme. Sapere che loro, di fatto, la socialità e il rispetto per gli altri non l’hanno sperimentato, a causa del regime, fa pensare che sono così per ragioni indipendenti dalla loro volontà. La diffidenza deve essere superata. C’è la
necessità di confrontarsi con gli altri cristiani, per togliere la polvere dalle nostre conoscenze religiose, per confrontarle, per approfondire la nostra religiosità. Parlarne per capire loro e avere un’occasione per approfondire qualcosa di più e cercare qualcosa in più per noi. Per quanto riguarda gli altri cristiani, in particolare quelli che provengono dall’Europa
orientale, è importante riuscire a cogliere il loro specifico, le loro caratteristiche di cristiani che, spesso, hanno valorizzato quello che noi e la
nostra tradizione non siamo riusciti a valorizzare. In particolare ci siamo
soffermati sulla capacità di un approfondimento della contemplazione
del Cristianesimo ortodosso e un piccolo accenno a quanto diceva suor
Helena con una liturgia che sia anche portatrice di serenità e non solo di
ufficialità.
GRUPPO 10
La parola di Dio è per noi il punto di riferimento costante per la nostra vita? Quali passi fare per incominciare a sentirla e a viverla nel
nostro quotidiano? Ci sono esperienze di “incontri sulla Parola”?
Con quale frequenza? Chi li dirige normalmente?
Se Dio non fosse il nostro punto di riferimento, non saremmo neanche
qui oggi. È la cosa più importante per il vivere quotidiano. Dovremmo
sempre chiederci, in ogni situazione, cosa farebbe Gesù in quel momento al nostro posto, trovando così la forza per intervenire e lasciare
un po’ da parte il nostro egoismo e la nostra presunzione. Per vivere la
parola di Dio ci sono mille modi. Alcuni fra tanti: aprire la porta ai venditori ambulanti, aprire il nostro cuore alle persone più bisognose, renderci
sensibili verso le difficoltà degli altri. Per gli incontri sulla parola, in ogni
parrocchia abbiamo riscontrato che c’è un movimento di gruppi che si
incontrano nei vari periodi “forti” dell’anno liturgico per riflettere sulla parola del Vangelo. Però c’è poco coinvolgimento di persone e soprattutto
di giovani, facendo eccezione per alcune parrocchie. Gli incontri sono
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diretti soprattutto dal parroco anche se, in alcune parrocchie, ci sono dei
laici che si danno da fare.
Conclusioni
Le finalità di un Convegno Missionario e di questo che abbiamo celebrato sono state queste:
1. Consolidare lo spirito d’identità tra coloro che operano nell’ambito
della pastorale missionaria singolarmente e nei gruppi dando loro
un preciso riferimento diocesano e una unità di orientamento. Il servizio di animazione viene svolto nelle distinte parrocchie, ma è importante “convenire” per verificare se camminiamo insieme e per
consolidare stili e criteri ecclesiali.
• Ci pare che anche quest’anno questa finalità sia stata raggiunta.
2. La trattazione dei temi, la comunicazione delle esperienze, la modalità comunicativa della tavola rotonda sono state apprezzate da tutti
i convenuti. La comunicazione è stata brillante ed efficace, le informazioni opportune e i “vissuti” hanno coinvolto e felicemente sorpreso. Il Convegno non voleva formare degli esperti, ma suscitare
un’attenzione consapevole e approfondire le motivazioni
dell’accoglienza e dell’evangelizzazione nel nuovo contesto storico
in cui vive la nostra Chiesa friulana.
• Crediamo che anche questa finalità sia stata raggiunta. I partecipanti sono stati coinvolti in uno stile di Chiesa missionaria, che sta
in questo “mondo e tempo” con gioia, fiducia, in ascolto e accogliente della realtà e persone, cosciente del dono (Gesù Cristo) ricevuto
e offerto.
3. Gli impegni e le strade di sensibilizzazione, animazione, testimonianza e accompagnamento che possono consolidare o intraprendere i Gruppi Missionari Parrocchiali (GMP) sono delineati in stile
propositivo. Forse quello che i GMP possono fare non è molto, ma
dovrebbe nascere da una coscienza ministeriale e non dalla delega.
Ciascuno di noi dovrebbe prendere coscienza di saper distinguere
tra quello che noi siamo chiamati e possiamo fare da quello che
proponiamo che facciano gli altri. La frustrazione nella pastorale
molte volte nasce dal genericismo, dalla mancanza di riferimento alla nostra realtà parrocchiale, quella vera e non quella idealizzata,
dalla riproposizione ossessiva di schemi e modelli che non coinvolgono la comunità.
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Non siamo abituati ad un servizio che punti sì all’efficacia della solidarietà, ma anche al coinvolgimento comunitario. Dovremmo porci
costantemente la domanda prima e durante il nostro servizio di animazione: “In questi tempi nuovi, con le nuove sensibilità che si
vanno manifestando e consolidando come possiamo coinvolgere le
persone, i gruppi, i giovani, la comunità per un effettivo scambio tra
le Chiese e una nuova stagione nell’evangelizzazione?”.
Ognuno di noi e i vari GMP tenti di dare una risposta originale, concreta
ed ecclesiale a queste sfide.
Buon lavoro.
Il Direttore del CMD
Don Luigi Gloazzo
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N° 4 - Novembre 2003