Terry Dalfrano
LA CHIAVE DELLA VERITÀ
TEDALIBER
FIRENZE
© 2011 di Terry Dalfrano. Tutti i diritti riservati.
Quarta edizione: luglio 2012
Terza edizione: gennaio 2012
Seconda edizione: novembre 2011
Prima edizione: luglio 2011
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Questa è un’opera di fantasia e ogni riferimento a persone e fatti reali è del
tutto casuale. Perfino i personaggi e gli accadimenti storici sono stati assoggettati al dominio dell’estro creativo, sicché la loro ricostruzione non ha
alcuna pretesa di attendibilità storiografica.
Attenzione: L’opera contiene parole, espressioni e idee che possono essere
ritenute offensive, discutibili, violente o volgari. È quindi destinata a un
pubblico adulto e consapevole.
Avvertenza
“La storia si può definire una guerra umile contro il Tempo, perché
togliendogli di mano gli anni che ha già ucciso li richiama in vita e
tenta di schierarli di nuovo in battaglia.” Così sia chiaro: l’avvertenza è rivolta a quei miei venticinque lettori che in un testo cercano
la scienza oltre allo svago. Gli altri la possono saltare.
I quaderni che mi accingo a pubblicare li ho trovati fra le miscellanea di una biblioteca universitaria. Narrano di una studentessa di
sociologia che si prostituisce coi professori e che si trova coinvolta in
una vicenda di omicidi accademici nella quale vorrebbe giocare il
ruolo dell’investigatrice, tra orge e conversazioni filosofiche, rischiando però di assumere quello di vittima. Si lascia coinvolgere
perché il primo morto della serie è il professore di cui era innamorata. I quaderni non sono altro che il diario intimo dove lei prende
nota delle indagini svolte, mentre rievoca l’amore travagliato che l’ha
scombinata.
Rivelano un’ambizione narrativa mal celata da uno stile forse volutamente dozzinale e alquanto pasticciato. Dentro c’è un romanzo
giallo, un romanzo rosa, un romanzo porno, un romanzo d’avventura,
un romanzo esoterico, un romanzo filosofico. Il tutto mescolato e agitato per benino. Cosa voleva ottenere? Un romanzo decostruttivo? La
decostruzione del romanzo? O qualcosa di ancora peggio? Ai critici
l’ardua sentenza.
Ero stata tentata di riscriverli di mia mano, un po’ per normalizzarli e adeguarli alle regole del mercato e della scrittura creativa; e
un po’ per tonificarne lo stile e renderlo meno sguaiato, oltre che per
liberarlo di alcuni idiotismi toscani e di qualche eleganza inglese.
Avrei anche voluto eliminare quell’eccesso d’intellettualismo e quello
sfoggio di erudizione in cui sembra tradirsi l’immaturità di una giovane neolaureata alle prese con un asfissiante mondo accademico.
Ma infine ho rinunciato ad apportare qualsiasi miglioramento
stilistico. È un atto di fiducia nel lettore, che mi aspetto sarà in grado
di scontare tutte le anomalie di forma: quello avveduto saprà guardarci sotto; quello sprovveduto, più felicemente, ci passerà sopra.
Così mi sono limitata ad aggiungere poche minime interpolazioni,
tanto per rendere il libro leggibile come un vero romanzo. Mi sono
sforzata comunque di restare fedele alla scrittura originale del diario.
È lo stile di un’epoca che, sebbene lontana da noi nemmeno un quarto
di secolo, resta pur sempre dell’altro secolo.
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Il problema che mi ha veramente assillato riguarda proprio la lontananza che s’interpone fra noi e quei tempi. Ci interessano ancora gli
eventi tragici, le travagliate passioni e le vigorose idee di allora, oggi
che viviamo nell’epoca dei turbamenti virtuali, degli amori liquidi e
dei pensieri deboli? Eppure, mi son detta, il gran baciapile e
mangiapreti lombardo era riuscito a parlare dei suoi tempi narrando
fatti accaduti due secoli prima. D’altronde, se è vero che il Tempo
della storia procede in accelerazione, un quarto di secolo di oggi potrebbe essere ben più denso di cambiamenti di quanto lo fossero quei
secoli là.
Alla luce dell’inquietante dubbio ho letto i quaderni per una
seconda volta e mi sono resa conto che l’autrice del diario era perseguitata dalle conseguenze di eventi accaduti vent’anni prima. Si
tratta dunque della storia di due generazioni, per cui il distanziamento
temporale si raddoppia: quasi due quarti di secolo. Il che complica le
cose, però basta per giustificare la pubblicazione dell’opera così
com’è. E se le cause dello sfacelo odierno fossero state poste dalle
gesta di una di quelle generazioni, o dalle sue sconfitte?
Un ultimo chiarimento. Tra le pagine dei quaderni c’erano alcuni
fogli con degli appunti di filosofia. Erano talmente pieni di concettini
pretenziosi che forse non meritavano la pubblicazione. Tuttavia a una
terza lettura mi sono accorta che svolgono un certo ruolo nel dipanarsi della vicenda. Perciò ho dovuto pubblicare anch’essi. Li ho
messi in allegato. Il lettore che non è interessato alla scienza, o almeno all’enigmistica, li può ignorare senza perdere molto.
Firenze, maggio 2011
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QUADERNO 1
PROLOGO IN CIELO
“Pi cubo più valore assoluto di a meno otto per valore assoluto di
esse meno otto.” Disse Luciano. E siccome restammo tutti a bocca aperta, aggiunse: “Ora molti di voi non ci capiranno un’acca.
Col tempo vi accorgerete che si tratta di una cosa di vitale importanza. Dunque imprimetevela bene nella mente questa formula:
Pi cubo più valore assoluto di a meno otto per valore assoluto di
esse meno otto.” Furono le ultime parole che disse. Poi si sedette
in un angolo e parve come assentarsi. E la festa ebbe inizio.
Ebbe inizio in modo ridicolo, col gioco delle carte e dei pegni,
gli abiti che volavano via un pezzo per volta, le coppe di spumante che si svuotavano una dopo l’altra, le risatine isteriche che
riempivano l’aria, la tensione che voleva sembrare eccitazione.
Perfino il Naima di John Coltrane dava l’impressione di girare a
vuoto sul piatto del giradischi, senza riuscire a placare gli animi.
Luciano se ne stava nel suo angolo, abbacchiato, lo sguardo
verso di me, ma oltre. Pareva ascoltare parole lontane. Io, di
fronte a lui, dall’angolo opposto della piccola stanza esagonale,
seduta per terra, le gambe incrociate, loquace, brillante, scherzosa, facevo il mio lavoro, cercando di tenere su l’ambiente.
Alla mia destra Silvio, sbracato alla romana, su di giri solo un
po’, partecipava al gioco con apparente flemma e avresti detto
che si faceva una partita di scopone scientifico. Gianrico invece,
alla mia sinistra, garrulo più di una cornacchia, pareva giocare a
briscola. Alla destra di Luciano, stravaccata come una troia di
bordello, gli si strusciava addosso Lilli. Di fronte a lei Giuliano,
detto il Menga, dalla nota legge, dirigeva la partita con la con-
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sueta autorevolezza. Infine Lucrezia, poverina, se ne stava un po’
indietro, accovacciata sull’unica poltrona della sala, tra Giuliano
e Luciano, impacciata e quasi ritrosa.
Il gioco delle carte e dei pegni andò avanti un bel pezzo senza
che l’atmosfera si scaldasse al punto giusto. Infine, quando
eravamo già tutti quasi nudi, Giuliano, che lo era completamente, spense la luce, e l’atmosfera mutò all’improvviso. A
metà long playing John Coltrane, galeotto ad alta fedeltà, cambiò
musica e passò a un frenetico Olé. Le risatine e il chiacchiericcio
si spensero subito e cominciarono i muti assalti.
Su di me si avventarono insieme i due marpioni più vicini,
Silvio e Gianrico. Giuliano toccò a Lucrezia, che gli stava seduta
accanto. Luciano deve esserselo presa per prima Lilli. Non starò
a descrivere i particolari. Per me d’altronde, unica del gruppo,
era un mestiere, anche se a quel convegno, formalmente, partecipavo gratis. Quando terminò il disco, nessuno lo rimise su e
l’aria fu piena di mugolii e bisbigli e del sommesso tramestio dei
corpi che si strofinavano.
Faticai molto a portarmi verso il centro della stanza. Stavo su
quattro zampe. Silvio, da dietro, mi scuoteva freneticamente
agitandosi come un forsennato. Gianrico invece, che mi stava di
fronte in ginocchio, frenava il mio lento procedere verso Luciano. Lo feci venire subito e me ne liberai senza difficoltà. Lui si
accasciò sotto di me e io tentai un balzo in avanti. Con poco
successo, ahimé. Ero bloccata dalle mani di Silvio, il quale mi
aveva agguantato i fianchi, quasi timoroso di perdermi, mi sbatacchiava avanti e indietro e non aveva intenzione di mollarmi.
Con una mano però riuscii a raggiungere una caviglia che, per il
punto in cui si trovava, pensai poteva essere di Luciano. La tenni
salda, aspettando che il porco dietro di me finisse i suoi comodi.
Quando ebbe fatto, me ne liberai con un colpo d’anca e cominciai ad avanzare verso la mia preda.
Tastando e palpando al buio, cercai di rendermi conto della situazione. Luciano se ne stava disteso sul tappeto, rilassato. Lilli,
in ginocchio, gli teneva la testa tra le proprie cosce. Lui l’aggranfiava alle gambe con le mani, come per frenarne gli ardori.
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Tutto il resto del suo corpo sembrava inerte. Avrei potuto
approfittarne subito, ma non volevo dividerlo con nessun’altra.
Cercai di liberarmi di Lilli rapidamente. Mi misi a cavalcioni
sul petto di Luciano e abbracciai la bagascia da dietro. Cominciai con le carezze sul ventre e sui seni, baci sul collo e lingua
nell’orecchio. Poi presi a strizzarle un capezzolo con le dita di
una mano, mentre con l’altra le sfregavo la clitoride. La lingua di
Luciano, come d’intesa, collaborò all’operazione. In un attimo ci
sbarazzammo dell’intrusa e fummo tra le braccia l’uno dell’altra.
La stanza era piccola e con la sua pianta esagonale offriva
scarse possibilità di appartarsi. La mobilia si riduceva al rack
dell’impianto hi-fi e a una poltrona davanti ad esso, qualche
tappeto e pochi cuscini. Con calma e silenziosamente spostammo
la poltrona in modo che formasse un cantuccio con il rack, e
dietro di essa ci nascondemmo. Lui mise un nuovo disco a caso.
Era sempre John Coltrane: First Meditations, ora.
Una volta pensavo che lo speciale interesse, lo strano interesse
che Luciano suscitava in me, un interesse non propriamente
professionale, fosse dovuto alla sua particolare abilità tecnica,
oltre che al fascino del personaggio, alla sua raffinata ars amandi, alla sua capacità di farmi godere come nessun cliente era mai
riuscito a fare. In seguito ci ho riflettuto sopra, e ora non ho più
dubbi: c’era qualcosa in lui, per me; c’era qualcosa tra lui e me
che solo un’ottusa volontà di svilire ogni rapporto umano mi ha
impedito di capire a pieno fino a pochi giorni fa.
E sento ancora il calore del suo corpo addosso al mio, il tremore delle sue carezze sulle mie gambe, il peso della sua testa
sul mio petto, mentre ce ne stavamo lì abbandonati e inebetiti,
drogati da una voluttà languida.
Poi una sua mano, pigra, si mise in movimento in cerca del
sesso. Scivolò dal seno verso la pancia, adagio, molto adagio,
pareva titubante. Giunta nei pressi dell’ombelico arrestò la sua
discesa e tracciò un percorso a spirale che terminò in un’immersione. Con un dito v’indugiò dentro per qualche secondo.
Quindi riprese la marcia verso il basso. Giunse al monte di
venere, frugò tra i peli in cerca di qualcosa. Infine scivolò giù e la
trovò. La carezzò per un po’. Disegnò qualche cerchio sul pube e
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risalì a spirale sul ventre. Raggiunse i seni e vi sostò, trastullandosi intorno ai capezzoli, anche lì per lunghi secondi, finché riprese a salire. Quando raggiunse il collo mi afferrò alla gola con
una stretta calma, forte, sempre più forte. Mi tolse il respiro e mi
tenne così, sospesa nel vuoto, per un tempo interminabile. Ora
capisco che quel mimare lo strangolamento forse non era tanto
un espediente tecnico, quanto il segno di una cosa che anche lui,
come me, era incapace di dire. Quando mi liberò il collo, ridandomi il respiro, cominciò coi baci, proprio sul collo, lì dove aveva affondato le dita. Pian piano le sue labbra salirono su verso le
mie. Prima indugiarono sugli angoli della bocca, poi strisciarono
umide lungo le guance, poi raggiunsero gli occhi, che tenevo
chiusi nel buio. Nell’istante in cui capii che lui poteva farmi ciò
che voleva, me lo stava già facendo.
Mi penetrò con un movimento calmo che mi fece perdere
l’ultimo barlume di controllo. E io me ne stavo lì, più passiva di
una cosa, schiacciata dal peso del suo corpo, rimestata da
un’oscillazione lenta e profonda, sperando che l’orgasmo non venisse mai.
Venne presto, il mio. Il suo invece non venne. Quando ebbi
finito, lui si trasse da parte e aspettò che mi riprendessi. Era una
prassi ormai consolidata questa, nell’intesa che il nostro rapporto
non potesse risolversi comunque in altro che in un semplice
scambio. Lui lavorava su di me e per me; quindi le parti s’invertivano ed ero io a darmi da fare. In tal modo potevo concentrare tutta l’attenzione e tutti i sensi sul mio piacere quando
era il mio turno di passività, mentre quando agivo mi godevo il
mio dominio su di lui e il suo orgasmo. Per lui era lo stesso. Con
nessun altro uomo ho avuto un rapporto, diciamo così, onesto
come con lui. Con nessuno come con lui ho raggiunto tali vette
d’abbandono.
Stavolta però lui non ebbe la sua ricompensa. Gli ero montata
sopra a cavalcioni, prendendo il suo potere dentro di me, nella
posizione che lui amava di più, gli avevo strizzato un capezzolo
tra le labbra e i denti, con quel morso delicato che lo mandava in
fibrillazione; poi gli avevo messo le mani al collo e avevo cominciato a stringerlo con forza crescente; quando qualcuno mi
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caracollò addosso da sopra la poltrona, disarcionandomi violentemente e facendomi sbattere la testa al muro. Mi prese forse
uno sturbo. Feci appena in tempo a riavermi dallo stordimento,
che venni afferrata per le gambe e trascinata al centro della
stanza.
Ciò che accadde subito dopo non merita di essere ricordato.
Ma il tragico finale del festino sì.
“C’è un morto.” Disse qualcuno. Un attimo di silenzio.
“Non sto scherzando.” Riconobbi la voce di Lilli.
Fui io ad accendere la luce. Il presentimento fece appena in
tempo a manifestarsi e già la coscienza era invasa dall’immagine
del corpo di lui, nudo e pallido, immobile e stranamente composto. Era steso accanto al giradischi dietro la poltrona. Mi
avvicinai, m’inginocchiai, lo toccai. Ne ebbi una scossa di gelo.
Gli accostai la testa al petto, tutti gli occhi su di me, nel silenzio
assoluto. Ascoltai attentamente. Gli altri capirono dal mio
sguardo. Si gettarono sugli abiti e si rivestirono di furia, in un
tentativo precipitoso di fuga. Quando furono pronti per andarsene, Giuliano sbarrò l’uscita col suo corpo e parlò:
“Che fare?”
Erano le cinque del mattino. Dai vetri colorati delle finestre
antiche penetravano le prime luci dell’alba. La riunione durò
ancora qualche minuto. Parlarono solo Giuliano e Lilli. Discussero brevemente e decisero che l’indomani notte avrebbero
vestito il cadavere e lo avrebbero portato in un altro sito, dove
avrebbero simulato un qualche incidente. Approvammo senza
esitazione; e anche senza riflessione, mi viene fatto di pensare
ora. Giuliano aprì la botola e uscimmo tutti, rapidi e silenziosi,
ingolfandoci nella scala stretta.
Io uscii per ultima. Eccoli qua – mi dissi – gli amici fraterni.
In un lampo improvviso colsi l’anima del gruppo, una piccola
comunità di gente che si conosceva praticamente da sempre,
coesa come una nazione di animali feroci; uomini e donne incapaci di stare separati gli uni dagli altri ma quasi naturalmente
predisposti a usarsi quali mezzi gli uni degli altri, in relazioni di
scambio opportunistiche in cui il malanimo reciproco costituiva
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un sentimento così forte e condiviso da fungere pur sempre da
collante sociale.
La sala dell’orgia stava in cima alla torre maggiore di palazzo
Stibbert. Da lontano, prima di salire in macchina per la fuga, mi
voltai indietro. La torre si stagliava nera contro il cielo sbiadito
della notte che moriva. Nella testa mi ronzava ancora la musica
allucinata di John Coltrane.
Ora, mentre scrivo queste righe, la mia stanza è piena di quella musica. Mi alzo e rimetto il disco dall’inizio. Love, il primo
movimento delle First Meditations è un urlo di disperazione. Mi
parte dal fondo della schiena e mi sale per il midollo spinale su
su fino al cervello. Mi schianta. Sono le dieci di sera. Per tutto il
giorno ho cercato di dormire, ma non sono bastate tre pillole di
Lendormin. Adesso me ne ciucciò altre tre e vediamo cosa succede.
È il 12 maggio del 1988.
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Lunedì, 13 maggio
I fatti appena narrati li ho scritti a caldo ieri notte. In questo momento sono le undici e mezzo di un’altra notte. Solo adesso mi si
snebbia un po’ il cervello. E sento di nuovo il bisogno impellente di scrivere. Mi avvicino al mio tavolo di studio. Apro il
cassetto e ne tiro fuori un voluminoso quaderno a righe da una
serie di cinque che vi avevo amorevolmente riposto una settimana fa. È un quaderno bellissimo, made in China. È rilegato come
un libro, la copertina di carta nera, la costola e gli angoli rifiniti
in tela rossa. Sui bordi delle parti in tela sono incisi dei disegni
floreali dorati. Ci passo sopra le dita della mano destra, mentre
con la sinistra lo tengo stretto al petto. Chissà se sapevo a cosa
sarebbero serviti questi quaderni, quando li comprai. Ora capisco
che erano predestinati a ricevere la scrittura del dramma che mi
sta travolgendo. E la decisione di scrivere è così naturale che non
ho neanche bisogno di prenderla. Mi sembra che sia l’unico modo per non impazzire. O forse è già un sintomo di pazzia.
Dunque scriverò un diario. Sarà il resoconto di quello che
promette di essere il periodo più angoscioso della mia vita. Comincerò con il risveglio.
Sono le tre del pomeriggio quando mi desta lo squillare del telefono. È insistente, feroce, un martello pneumatico che vuole
penetrarmi il cranio. Alzo il ricevitore, sul comodino, solo per far
cessare la tortura. Ho la testa a pezzi e la cecagna mi affoga i
sensi e la mente. Il Lendormin ha funzionato infine!
“Sono Giuliano,” dice il telefono, “sono appena tornato dalla
torre. Il cadavere è scomparso.”
“Uhm.” Faccio io.
“Mi senti?” Insiste. “Ho detto che il cadavere non si trova
più.”
“Uhm.”
“Svegliati! é una cosa preoccupante. Dobbiamo parlarne. Mo’
alzati dal letto, fatti una doccia, un caffè e preparati. In mezz’ora
sarò lì.”
In mezz’ora è qui, con una faccia buia che pare un comunista
dopo un’elezione. Neanche mi guarda, quando entra; va dritto al
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mobile-bar, si versa un bicchiere di whisky, lo beve tutto d’un
fiato. Poi se ne versa un altro e si siede sul divano. Dà un sorso,
mi guarda con uno sguardo che per un attimo si perde nel vuoto.
Finalmente comincia a parlare:
“Mi fido di te, perciò sei la prima persona con cui mi sbottono. Stamattina sono andato a prelevare il cadavere. Avrei
dovuto fare il lavoro con Lilli, ma lei non è voluta venire.
Così sono andato da solo.”
“Be’?”
“Be’, il cadavere non c’era.”
“Come non c’era?”
“Non c’era! Scomparso!”
“Che vuol dire?”
“Ci fai o ci sei?”
“Ci sono,” ammetto, sorseggiando il secondo caffè, “sono
completamente rincoglionita. Mi stai dicendo che qualcuno ha
fatto sparire il cadavere prima che tu e Lilli andaste a prelevarlo?”
“Prima che io andassi. Ti ho detto che Lilli non è venuta.”
“Perché?”
“Brava. Vedo che cominci a connettere. Perché non è venuta?”
“Sospetti di lei?”
“Sì, e di tutti gli altri. Di lei un po’ di più.”
“Cosa intendi fare?”
“Voglio indagare. Ieri notte, nella fretta, non abbiamo manco
cercato di capire com’è stato ucciso Luciano. Ora voglio scoprirlo. E voglio scoprire chi ha fatto sparire il cadavere. Chi l’ha
fatto sparire è l’assassino. Voglio sapere chi l’ha ammazzato e
per quale motivo.”
Così entriamo in una conversazione da romanzo giallo. Per
farla breve: Giuliano vuole indagare sulla morte di Luciano e
vuole che io l’aiuti. Anzi conta molto su di me per avere informazioni. L’assassino è uno degli altri partecipanti all’orgia. Di
me non sospetta, dice, ma non mi spiega perché. Così, escludendo anche lui, gli indiziati si riducono a quattro: la sua segretaria Lilli, l’ex compagna di Luciano, Lucrezia, e i presidi delle
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facoltà di Economia e Sociologia, Gianrico e Silvio. Lavorano
tutti alla LUFSS, la Libera Università Fiorentina di Scienze
Sociali.
Giuliano ne è il direttore amministrativo, in realtà l’autorità
indiscussa. Molti dicono: il despota. È un uomo di potere, in effetti. Ne ha accumulato tanto di potere, con ogni mezzo, lecito e
illecito, che nessuno ormai in quest’università osa prendere decisioni senza tenere conto della sua volontà. Perfino il senato accademico e i consigli di facoltà e di dipartimento, che sono le
istituzioni di gestione delle attività didattiche e scientifiche e che
hanno nell’ufficio amministrativo solo un organo tecnico, hanno
imparato, a loro spese, a tener conto di lui. Una decisione che
non piacesse a lui verrebbe boicottata, dilazionata, insabbiata,
con tutti i mezzi a disposizione del burocrate. Ad ogni modo è
un potere basato su una sorta di torbido consenso. Lui è piuttosto
tollerante verso inghippi e furbate dei docenti, anzi li incoraggia.
Così li tiene sotto ricatto mentre li rende complici del suo governo. Intrighi, ricatti, cavilli, abusi di potere, omissioni in atti d’ufficio, sono le sue armi più affilate. Nessuno comunque è mai
riuscito a beccarlo in castagna, in realtà pochi ci hanno provato.
In Giuliano l’apparenza non inganna. Lui è proprio ciò che
appare, con quel torace grosso e squadrato, e la supponenza con
cui lo porta sulle gambe nerborute, con quella faccia spigolosa,
nera di barba forte anche quando è ben rasata, gli occhietti cattivi che ti guardano dritti in viso e sembrano scandagliarti il
cervello, e quel sorriso immobile... ah, quel sorriso immobile! È
la parte veramente inquietante della sua figura quel sorriso. Le
labbra tumide, sono sempre innaturalmente tese sopra i denti radi
da felino che cercano di nascondere, e spingono in su i baffetti
mongoli facendogli formare due angoli retti ai lati della bocca.
Ostenta sicurezza, quel sorriso, e offre protezione a chi si sottomette. Suscita timore in tutti gli altri. Ed è difficile parlare con
Giuliano guardandolo in viso. Ma non per me.
Guardandolo dritto negli occhi gli dico:
“Perché vuoi fare lo Sherlock Holmes? Perché io dovrei farti
da Watson? Perché non lasciamo fare la polizia?”
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“I panni sporchi è meglio lavarli in casa, almeno prima di mostrarli in pubblico.” Lui parla così, coi proverbi e i luoghi comuni.
“Come che sia,” aggiunge, “tu hai un validissimo motivo per
indagare su questa faccenda.”
“Sarebbe?”
“Non avevi con Luciano un rapporto privilegiato, se non proprio affettivo? Non t’importa saperne di più su di lui? E scoprire
chi è il suo assassino?”
“Che ne sai dei miei rapporti affettivi?”
“Io so tutto, di ciò che m’interessa.”
“Non sai chi ha ucciso Luciano.”
“Non ancora. Però se tu mi aiuti...”
“Non lo farò.” Rispondo in tono conclusivo. Mi alzo dalla
poltrona e gli tolgo il bicchiere vuoto di mano. Ma lui:
“Grazie, versamene un altro.”
Non si smonta facilmente il Menga. Capisco che non c’è modo di liberarmene finché non vuole lui. La conversazione continua a lungo. A lungo respingo la sua proposta. Vuole che svolga
le indagini a letto. Sa che coi miei clienti intellettuali mi piace
indugiare nelle confidenze, dopo un rapporto sessuale. Qualche
volta lo faccio anche con lui. La cosa piace a me, per l’arricchimento culturale che mi dà, e piace a loro, forse per il senso di
liberazione che ne traggono. Gli faccio un po’ da psicanalista e
un po’ da confessore. È una cosa che so fare bene. Sono una
grande ascoltatrice. Mi basta dire poche parole, nel momento
giusto e col tono giusto, e loro si sciolgono come peccatori
pentiti.
È una dote che Luciano mi aveva aiutato a rivelarmi. Mi
piaceva stare ad ascoltarlo; e a lui piaceva essere ascoltato,
specialmente da me – diceva. Sosteneva di amare in me la ricettività. La considerava una dote rara e una predisposizione alla
letteratura, e voleva che la coltivassi. Narrare – asseriva – significa raccontare storie, non descrivere fatti. Scrivere di cose
vedute è facile, ma è un riempitivo, e non c’è autore grande o
piccolo che non l’abbia usato per allungare la minestra. Il difficile è scrivere di cose ascoltate. È difficile perché si rischia di
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fare la lezioncina. Ma tu che non credi a nulla non corri questo
rischio. Perciò non tentare mai di esporre idee, cerca piuttosto di
descrivere con le idee, come fossero tic nervosi. E ricorda sempre: l’oggetto della narrazione è la narrazione.
Sarà questo lo spirito con cui mi avvicino al mio diario? Ad
ogni modo, ho sempre avuto il sospetto che le lodi di Luciano
alla mia ricettività fossero piuttosto un modo elegante per stigmatizzare la mia abulia, quell’oscuro lato del mio carattere che
non riesco a illustrare se non in termini di un’assoluta mancanza
di personalità. È una sorta di sensazione di vuoto, di paralisi
mentale, che mi coglie spesso quando dialogo con i miei clienti,
specialmente nel dopo: mi prende un torpore della mente e mi
sento senza centro. Mi sembra di perdere l’identità, di diventare
una tabula rasa capace soltanto di registrare la personalità altrui.
Allora mi dispongo all’ascolto, faccio qualche breve domanda, e
commenti minimi ma appropriati, tanto per mostrare che ci sono, e lascio che le parole dell’altro m’invadano. Me ne lascio
compenetrare, quasi più dai suoni che dai significati; non senza
comprendere, tuttavia. Credo che sia proprio la mia capacità di
comprensione passiva, fisica, direi, che predispone l’altro a fidarsi, confidarsi, aprirsi. Sarà vero che questa è una qualità letteraria?
Mentre Giuliano cerca di convincermi a collaborare, mi viene
un’idea. Perché non farmi narrare di Luciano? Dopotutto, chi
potrebbe conoscerlo meglio di lui che è stato il suo migliore amico per tanti anni?
“Io sono interessata a Luciano, non al suo assassino.” Lo
interrompo mentre lui mi esorta a fidarmi.
“Capisco,” fa, “un interesse personale! Be’, hai trovato la persona giusta. Nessuno lo conosceva meglio di me. Eravamo amici
fraterni...”
“Fraterni? Non mi risulta.”
“Già, in effetti la nostra amicizia si è un po’ incrinata negli
ultimi tempi. Ma non l’ho mai perso di vista. Tu lo conoscevi da
due anni, io da venti. Potrei dirti molto su di lui, chi era, che faceva, che cercava. A te piacciono i rapporti di scambio. Bene, te
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ne propongo uno. Io ti racconto di Luciano, tu mi raccogli le informazioni che mi servono per l’indagine.”
Faccio fatica a parlare. Ho ancora la testa che mi scoppia.
All’improvviso sento che quest’uomo mi è diventato odioso, da
poco simpatico che mi stava. Mi alzo dalla poltrona e, decisa, gli
tolgo il bicchiere di mano.
“Ora lasciami,” dico, “devo rimettermi in sesto e riacquistare la capacità di ragionamento. Rifletterò sulla tua proposta e
ti farò sapere.”
La LUFSS, l’università in cui Luciano era assistente di ruolo,
è la stessa dove lui e l’ex amico, che ora ne è direttore amministrativo, si erano laureati all’epoca del movimento studentesco. È
a quei tempi che risale la loro amicizia. Questo l’ho saputo da
Luciano stesso. Il quale però è sempre stato restio a parlare del
passato. Odiava rievocare le glorie trascorse, anche se dava l’impressione di voler dimenticare qualcosa. Lucrezia, la sua infelice
ex compagna, un giorno mi ha detto che per capire Luciano bisogna capire cosa ha fatto nel Sessantotto. Bene, è la storia che
voglio farmi raccontare da Giuliano.
Quando lui finalmente se ne va, mi butto sul letto e crollo di
nuovo nel sonno. È un sonno agitato, con brevi e fastidiosi risvegli, incubi in stato di dormiveglia, e la testa che non cessa di
dolermi. Alle otto della sera mi alzo, mi faccio una doccia, mi
cuocio una bistecca, mi ciuccio un caffè forte. Poi telefono a
Giuliano, e alle nove me lo ritrovo in casa. Vuole scopare, il porco. Ma mi basta uno sguardo...
Lo faccio accomodare nel salotto serio, ché non sia distolto
dal compito che ho intenzione di assegnargli. Gli preparo un abbondante whisky con ghiaccio, uno lo verso per me. Mi siedo
sulla poltrona di fronte a lui e:
“Chi era Luciano nel Sessantotto?” Gli faccio. Lui ci pensa un
po’, neanche tanto. Un sorriso d’intesa appena accennato. Quindi
attacca:
“Bisogna cominciare dall’autunno del ’67, a Roma. È lì che ci
conoscemmo, partecipando alle prime occupazioni della facoltà
di Lettere. Frequentammo insieme diverse commissioni del movimento. La nostra amicizia maturò nei dibattiti di quelle com-
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missioni. Eravamo appena matricole, diciannovenni tutti e due.
Prendemmo parte a molte manifestazioni. La nostra amicizia diventò fratellanza a Valle Giulia.”
“Luciano partecipò alla battaglia di Valle Giulia?”
“Proprio così. E anch’io.” Lo dice con orgoglio non celato. Si
vede subito che muore dalla voglia di rievocare antiche glorie.
“Questo non lo sapevo. Vai avanti, racconta.”
“Il movimento era partito a Lettere già da settembre. Si estese
rapidamente ad altre facoltà. Il Magnifico Rettore diede un
contributo importante al processo di diffusione. Noi si occupava
Lettere e lui mandava la polizia. Il giorno dopo si occupava
Fisica, e si univano al movimento gli studenti di quella facoltà. Il
rettore mandava la polizia e noi si passava a Chimica, e si univano altri studenti. Lui mandava la polizia e noi si passava a
Matematica. La storia andò avanti così per qualche mese. E il
movimento cresceva a vista d’occhio. Le assemblee erano
sempre più numerose. Gli scontri con la polizia sempre più duri.
A un certo momento, verso la fine di febbraio, il rettore fece
occupare tutta l’università dalle forze dell’ordine, non solo la
città universitaria, anche le facoltà situate all’esterno della
cerchia delle sue mura fasciste, Ingegneria, Magistero, Architettura, Economia. La sera prima della grande battaglia il
comitato d’agitazione, riunito in via dei Frentani, in cui aveva
sede la Federazione Giovanile Comunista, deliberò che era
giunta l’ora di una risposta decisa. La mattina appresso, alle otto,
il movimento era schierato sulle gradinate di Trinità dei Monti.
Io e Luciano facevamo parte dei catanghesi, il servizio d’ordine.
Ricordo che, per riconoscerci, portavamo al braccio delle fasce
col distintivo della Roma, rosse bordate di giallo. Non eravamo
moltissimi, quando ci muovemmo, millecinquecento, duemila.
Facevamo una gran caciara. Ci incanalammo per via del Babuino, verso la facoltà d’Architettura. Pochi si aggiunsero per
strada. Si urlava di rabbia e di gioia. Si gridavano slogan contro
la polizia, contro il rettore, contro l’imperialismo americano.
Credevamo di andare verso il nostro Vietnam. I negozi abbassavano le saracinesche. Dalle finestre degli uffici si affacciavano gli impiegati. Ci guardavano come fossimo marziani.
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Fino allora il movimento non era praticamente mai uscito dalla
città universitaria e quella prima sortita era un evento già di per
sé. Arrivammo a Valle Giulia che il sole era alto. Architettura, in
cima alla sua collina, si stagliava tronfia contro il cielo
primaverile, sembrava una fortezza. Quando il corteo cominciò a
salire per il viale alberato che portava alla facoltà, le quattro file
di poliziotti che la difendevano ebbero un ondeggiamento. Noi
giungemmo davanti a loro in pochi minuti e cominciammo a
gettargli addosso manciate di monetine da cinque lire. – Servi dei
padroni! – gli gridavamo in faccia. Il cozzo delle aste delle
nostre bandiere sugli scudi dei celerini fu una deflagrazione. La
polizia resistette all’urto e reagì immediatamente con una carica
feroce. Il movimento sbandò, si arruffò su se stesso e prese a
indietreggiare lentamente in un infuriare di corpo a corpo. Il
piazzale antistante alla facoltà terminava in una scarpata. Giunti
sul suo ciglio, quando non fummo più in grado di sostenere l’urto
delle schiere grigioverdi ci precipitammo di sotto a valanga. La
polizia non ci seguì e tornò sulle sue posizioni a ridosso alla
facoltà. Pareva che fosse tutto già finito. Invece era solo l’inizio.
– Non è che l’inizio! – gridavamo, e il maggio francese era
ancora di là da venire. Ripreso fiato, salimmo di corsa su per la
scarpata e, armati di sassi e di bastoni, ci avventammo di nuovo
addosso al nemico. Le bandiere e i cartelli erano stati strappati
dalle aste e ormai nessuna finzione si frapponeva tra noi e quelle
schiere di proletari asserviti. Ricominciò il contrattacco della
polizia e il nostro indietreggiamento. Poi di nuovo giù per la
scarpata, poi di nuovo su e ancora all’assalto, con rabbia
montante. La vicenda andò avanti per un bel pezzo. Ci saranno
stati quattro, cinque nostri assalti, non ricordo bene, e le
rispettive cariche della polizia e le nostre ritirate. Ma sempre
tornavamo alla carica, con irruenza crescente, senza dare tregua.
Finché la nostra rabbia raggiunse il parossismo. L’ultima scalata
alla collina fu la più impetuosa. E appena iniziato il nuovo assalto assistemmo a uno spettacolo mai visto: i celerini si divisero in
due schiere disordinate e presero a fuggire a destra e a sinistra.
Noi, con un urlo unisono di trionfo, ci gettammo sulla nostra
Bastiglia e la prendemmo. Dopo un po’ le finestre della facoltà
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cominciarono a colorarsi con gli striscioni, i cartelli, le bandiere
rosse e quelle vietnamite e le facce raggianti degli studenti e le
camicette di cento colori che ansimavano sui petti gloriosi delle
studentesse. I corridoi e gli androni della facoltà si empirono dei
nostri canti e di slogan rivoluzionari. Cantavamo la vittoria e
pensavamo di aver finito. Non era che l’inizio. I megafoni, su per
le scale, chiamavano all’assemblea in aula magna. Mi ci stavo
avviando, quando incontrai Luciano. Mi afferrò per un braccio e
mi trascinò fuori. Disse che la battaglia non era finita. Che
sarebbe arrivata altra polizia e che noi del servizio d’ordine
dovevamo pensare a preparare la difesa della facoltà. Però non ci
fu tempo per preparare niente. Da tutti i punti cardinali, la città ci
mandava urli di sirene, dei lunghi ululati che diventavano sempre
più acuti e sempre più forti. Nel giro di mezz’ora la valle sotto la
collina si era riempita di poliziotti. Saranno stati un migliaio e
più. Si schierarono in pochi minuti. C’era la Celere coi gipponi
grigioverdi, e i carabinieri coi loro cellulari neri. Allineati e
immobili, da lontano sembravano carri armati pronti a sparare.
La loro carica fu una sorpresa. Non ci fu quasi scontro perché
non avevamo avuto il tempo di prepararci. Il grosso del
movimento stava ancora dentro la facoltà e non si era accorto di
niente. La resistenza disordinata che tentammo noi catanghesi fu
rotta in breve tempo. Quindi la polizia si riversò dentro l’edificio e cominciò il rastrellamento. Dalle finestre del piano terra
schizzavano fuori gli studenti come il succo da un limone schiacciato. Ci fu un fuggi fuggi generale mentre le forze dell’ordine
ripresero possesso della collina e della facoltà. Il movimento si
raccolse di nuovo in fondo alla valle. Qui si svolse lo scontro più
cruento della battaglia. Ora la polizia non commise l’errore di
schierarsi a ridosso dell’edificio, ma si portò sul ciglio della scarpata, impedendoci il contrattacco. Noi eravamo tutti in fondo alla
valle, già in parte decimati dal primo rastrellamento. Di fronte
avevamo la collina della facoltà tenuta dalla polizia. Ai due lati,
dove il grande piazzale di Valle Giulia si stringeva su due viali
solcati dai binari del tram, stavano immobili, in assetto di
battaglia, altre schiere di celerini e di carabinieri. Dietro a noi,
sul lato opposto alla facoltà, si elevavano le ampie scalinate che
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portavano a Villa Borghese. Nessuno pensò di andare da quella
parte, all’inizio. C’era una grande agitazione. Qualcuno gridava
al megafono contro la polizia e il rettore che l’aveva mandata.
Molti urlavano slogan e urli di guerra – Giap, Giap, Ho Chi Min!
– Altri ribattevano: – Due, tre, molti Vietnam! – Un gruppetto,
sotto la scarpata, cantava Bandiera Rossa per provocare la
polizia. Al centro della piazza si cominciò a divellere il selciato.
I sampietrini venivano raccolti in piccoli mucchi in diversi punti
della valle. Molti del servizio d’ordine, forti della fascia
giallorossa al braccio, si agitavano tra la folla, dando ordini e
indicando le posizioni da prendere. Pochi gli davano retta. C’era
una confusione esaltante. Nessuno sapeva cosa fare. Tra i canti,
gli slogan e le urla, la rabbia montava come il fuoco in un bosco.
Si avvicinava la grande buriana. Di lì a un momento ci saremmo
potuti avventare sul nemico su tutti e tre i fronti contemporaneamente. Quel momento non venne. La polizia prese l’iniziativa. Cominciò con le bombe lacrimogene. I primi spari ci spaventarono. Nessuno di noi ne aveva ancora mai sentiti. Ci fu un
attimo di panico. Però quando le bombe arrivarono a terra, la
battaglia ricominciò. Raccoglievamo i candelotti con le mani e li
rilanciavamo al mittente insieme a gragnole di sampietrini. Per
pochi minuti la valle fu piena di fumo, che il vento spazzò via
presto. Allora la polizia smise di sparare e cominciarono le
cariche. Ci furono addosso da tutti e tre i lati. Gli scontri furono
durissimi. Noi avevamo smesso di cantare e di urlare slogan, e
per l’aria si sentivano solo grida di rabbia e i comandi dei
poliziotti. Le sirene avevano cessato di suonare. Al centro della
piazza si era fermato un tram pieno di gente, bloccato da un
mucchietto di sampietrini su una rotaia. Il conducente aveva
chiuso le porte e i passeggeri, in piedi davanti ai finestrini,
assistevano allo spettacolo con gli occhi sbarrati. Non so quanto
durò lo scontro di corpo a corpo. Ricordo che a un tratto i
poliziotti si ritirarono di nuovo. E fu un urlo di trionfo. Luciano
stava ancora vicino a me. Del sangue gli scendeva dalla fronte e
lui se lo puliva con la mano sinistra, mentre con la destra
impugnava un’asta che aveva divelto da una panchina. Io avevo
il bastone di una bandiera. Mi faceva male l’avambraccio
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sinistro, su cui avevo preso qualche manganellata. Ci
guardammo negli occhi, senza fiatare. Quello sguardo, in
quell’istante, suggellò un legame che nulla potrà mai sciogliere.
Anche la seconda vittoria fu di breve respiro. Infatti entrarono in
azione i gipponi della Celere. Si avventarono sulla folla a tutta
velocità e cominciarono dei caroselli sfrenati. I nostri che
fuggivano finivano tra le braccia dei carabinieri. I cellulari si
riempivano a ondate. Ricominciarono gli ululati delle sirene.
Cellulari se ne andavano pieni di studenti, cellulari tornavano
vuoti. E la battaglia continuava. Contro i gipponi usammo i sassi.
Li prendevamo più grossi possibile dai bordi delle aiuole. Dalle
posizioni sopraelevate, sul declivio di Villa Borghese, piovevano
giù dei veri e propri macigni. Io e Luciano stavamo sempre
vicini, in mezzo alla piazza. All’improvviso, accanto a noi, un
compagno fu intruppato dal parafango di un gippone. Cadde a
terra. Si rialzò subito cercando di fuggire, ma cadde di nuovo su
una gamba malconcia. Io e Luciano lo prendemmo da sotto le
ascelle e lo portammo via rapidamente. Aveva una gamba ridotta
piuttosto male. Appoggiandosi a noi però riusciva a stare in piedi
sull’altra. Ci rifugiammo sulla scalinata che porta a Villa
Borghese, dove le auto della polizia non potevano arrivare. Lì ci
fermammo a guardare la scena, tutti e tre, abbracciati come
fratelli, io, Luciano e lo zoppo, che si chiamava Fabrizio. Alcuni
compagni accanto a noi divelsero un masso di travertino dalla
scalinata e lo fecero rotolare giù dalle scale. Quando giunse sulla
massicciata, capitò davanti a una camionetta che sopraggiungeva
a velocità sostenuta, a venti metri da noi. L’autista cercò di virare
per non prenderlo in pieno, ma non ci riuscì, e quando la ruota
sotto sterzo colpi il blocco di marmo l’auto si rovesciò. I due
celerini che ci stavano dentro schizzarono via come due ranocchie grigioverdi e scapparono inseguiti da un nugolo di studenti,
lasciando al suo destino l’auto rovesciata sul fianco. Noi tre
guardammo la macchina, ci guardammo negli occhi, e avemmo
contemporaneamente la stessa idea. Luciano raccolse da terra un
pezzo di giornale. Fabrizio, lo zoppo, tirò fuori dei cerini e gli
diede fuoco. Io l’afferrai e lo andai a buttare dentro il gippone. I
sedili di vinilpelle presero fuoco in un attimo e la colonna di
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fumo turbolento che si alzò nera nel cielo fu un segnale di guerra.
Dopo un po’, sparsi nella valle, altri tre o quattro automezzi erano in fiamme. Sai chi era quel Fabrizio?”
“Chi era?”
“Fabrizio Gledo.”
“Il brigatista?”
“Proprio lui. L’abbiamo conosciuto a Valle Giulia e siamo rimasti amici fraterni, tutti e tre, fino all’epoca in cui lui entrò in
clandestinità. Ma questa e un’altra storia.”
“Finisci di raccontare la battaglia.”
“Ormai volgeva al termine. I gipponi, dopo aver fatto varie
tornate di caroselli, di fronte alle fiamme e al fumo si ritirarono
precipitosamente. Anche i cellulari tornarono sulle loro posizioni, stavolta senza il loro bottino di studenti. Fu la terza vittoria
della giornata. Le forze dell’ordine lasciarono passare alcuni
minuti. Poi ricominciarono ad avanzare con le auto, adagio, in
fila, da entrambi i lati della valle. Dietro le auto, schiere di carabinieri. Sembrava la fanteria tedesca nella Battaglia dei giganti,
in quell’avanzata lenta e inesorabile dietro i panzer neri. I pochi
di noi che tenevano duro tentarono un’ultima resistenza con i
selci. I gipponi non fecero una piega. Infine, di fronte al loro
avanzare compatto i nostri ripiegarono, convergendo al centro
della valle. Man mano che l’accerchiamento stringeva, l’ormai
sparuta massa di studenti s’incanalava su per le scalinate di Villa
Borghese. Appena fu chiaro che ci stavamo ritirando, i
carabinieri superarono i gipponi e caricarono d’assalto, tutti
assieme. La gente, dai finestrini del tram, stava sempre lì a
guardare a bocca aperta. Ci fu un ultimo breve contatto dei più
coraggiosi col nemico, dopo di che cominciò una fuga
precipitosa verso Villa Borghese. Le nostre colonne erano ormai
decimate e molto inferiori di numero rispetto a quelle della
polizia. A centinaia i compagni riempirono le questure e gli
ospedali. Anche il nemico però aveva lasciato molti feriti sul
campo. Ecco, questa fu la battaglia di Valle Giulia. Fu il vero
inizio del Sessantotto in Italia, un anno che durò fino al 1973.
Almeno per me e Luciano. Fabrizio invece volle prolungare la
festa. E ora è in galera con vari ergastoli sulle spalle, il fesso.”
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“Eccoti tornato te stesso, cinico e sprezzante. Prima, quando
raccontavi la battaglia, quasi non ti riconoscevo. Avevi una luce
negli occhi, parevi un altro.”
“Immagino!”
“Cosa?”
“Ti sarò sembrato mio nonno che raccontava storie della
prima guerra mondiale.”
“Ti assicuro: parevi un altro.”
“Ero stato un altro... a quei tempi. Ma non era che una festa
d’adolescenti ritardati. Non si può restare giovani per sempre.”
“Non avevi delle idee, delle convinzioni?”
“Sì, e molto slancio. E per allora andavano bene. Ogni stagione i suoi fiori. Ora m’interessano le azioni, non le idee.”
“Luciano e Fabrizio hanno subito la stessa evoluzione?”
“Ah no, loro no. Lo dimostra il fatto che uno sta in galera,
mentre l’altro, in quindici anni di carriera universitaria, non si è
mosso dal gradino più basso.”
“Tu invece sei arrivato in cima.”
“Non nella professione accademica. Lì vai avanti, con quelle
idee, se accetti di cambiarle. Nella mia strada invece, la carriera
amministrativa, basta rinunciarvi: ai professori si chiedono delle
convinzioni, ai burocrati no. Questo, se vuoi, è stato il mio modo
per salvarmi l’anima: gettare a mare ogni convinzione. Adesso
torniamo ai fatti.”
“Torniamo ai fatti.”
“Quello che m’interessa ora è l’omicidio di Luciano.”
Così torniamo ai fatti. Giuliano vuole insistentemente che lo
aiuti nelle indagini. Mi fa un contorto discorso, trincando il mio
whisky e fumandosi una sigaretta dietro l’altra. Quando lo guardo negli occhi, fugge il mio sguardo. Sicuramente nasconde
qualcosa. Non riesco a capire perché ci tiene tanto a fare l’indagine e perché vuole tenerne fuori la polizia. Addirittura pretende
che le autorità giudiziarie siano tenute all’oscuro di tutto finché
non si rintraccia il cadavere. Vuole che domani io vada a trovare
Lilli e cominci a indagare su di lei. Vuole sapere se è stata lei a
organizzare l’orgia dell’altra notte. E si mostra perplesso quando gli dico che su questo punto non c’è bisogno di indagare,
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l’organizzatrice essendo stata proprio Lilli su suggerimento di
Luciano. Mi domanda perentorio:
“Ne sei sicura?”
“Certo.”
“Ne sei del tutto sicura?”
“Non sono mica rimbambita?”
“E ti è sembrata una cosa normale?”
“Non particolarmente bizzarra. Avevamo avuto qualche incontro a tre, nel passato, io, lei e Luciano. Un incontro a sette mi
è parso esagerato, ma non mi sono scandalizzata. Se gli altri ci
stavano, non avevo nulla da obiettare, visto che li conoscevo
tutti. Lei mi assicurò che gli altri ci stavano.”
“Hai notato niente di stravagante, a parte la lista dei partecipanti?”
“No.”
“Pensaci bene. Che so? Ti ha dato qualche notizia particolare,
qualche informazione insolita?”
“L’unica cosa stramba è che mi diede un numero magico.”
“Magico?”
“Così lo definì lei. La cosa mi fece sorridere. Allora mi spiegò
che m’interessava personalmente perché nelle scienze occulte
quel numero rappresenta la puttana santa. Il mio sorriso divenne
un’aperta risata. Lei reagì bruscamente e m’ingiunse di scrivermelo e di non perderlo in nessun modo. Prima o poi avrei
capito.”
“Che numero era?”
“Quattro cifre. Sembrava l’interno di un telefono d’ufficio.”
“Che c’è di strambo?”
“C’è che ho provato a telefonare a quel numero nella rete
dell’università, senza risultato. Non dava né libero né occupato.
Evidentemente non era un interno telefonico.”
“Ma che numero era?”
“2919.”
Al che Giuliano ha una reazione strana. Dapprima si mostra
preoccupato, poi si domina e mi esibisce un sorrisetto di sicumera. Vuole sapere se quel numero è stato rivelato anche a Gianrico
e Silvio. Io non ne ho idea. Mi chiedo che importanza ha questa
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cosa. Glielo domando. Lui non ha nessuna intenzione di spiegarmelo. Mi convinco così definitivamente che mi nasconde
qualche verità essenziale, e che la faccenda è meno chiara di
quanto pareva a prima vista. Sono decisamente incuriosita. Perciò alla fine decido di stare al gioco. Tuttavia non è solo
sull’omicidio di Luciano che voglio capirci di più. Infine:
“Va bene,” dico, “ti aiuterò nell’indagine. Domani stesso andrò a parlare con Lilli.”
“Brava, allora ci risentiamo domani sera.”
“Aspetta.” Lo blocco appena accenna ad alzarsi dalla poltrona.
Gli verso di nuovo da bere. “Fermati ancora un attimo, finisci la
storia di te, Luciano e Fabrizio Gledo.”
“Che altro vuoi sapere?”
“Come fu che arrivaste a Firenze, alla LUFSS, se stavate
all’Università di Roma?”
“Lettere e Filosofia, la nostra facoltà a Roma, non ci piaceva,
e per l’intero anno accademico 1967-68, presi come eravamo
dalla rivoluzione, non demmo neanche un esame. Fabrizio, che
aveva un anno meno di noi, stava prendendo la maturità. Fu lui
che ci propose di andare a Firenze, dove c’era una facoltà di
Sociologia, l’unica d’Italia a quei tempi. Già il nome, Sociologia,
era tutto un programma. Inoltre il movimento studentesco fiorentino produceva dei documenti teorici di un certo livello e si
stava affermando quale una delle migliori teste pensanti delle
lotte sociali su scala europea. Anche i docenti erano interessanti.
Quasi tutti giovani e di sinistra, dialogavano con il movimento e,
a modo loro, partecipavano alla festa. Infine, ed ecco il motivo
che ci convinse, andare a Firenze significava andarsene da casa.”
“Tu non sei fiorentino?”
“Sì, la mia famiglia però si era stabilita a Roma da molti anni.
Così io avevo un motivo in più per venire a Firenze. E poi
Firenze significava soprattutto la libertà. In breve, a novembre
eravamo qui tutti e tre, io, Luciano e Fabrizio. Prendemmo in
affitto un appartamento di quattro stanze in Santa Croce, ci
iscrivemmo a Sociologia e cominciammo a vivere. Ma per stasera basta, sono stanco, è tardi. Domani la seconda puntata.”
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Martedì, 14 maggio.
Non sono propriamente cordiali i rapporti tra Giuliano e Lilli. Lei
è la sua segretaria e lui ha cercato in vari modi di liberarsene
facendola trasferire ad altri uffici. Senonché perfino un direttore
amministrativo ha i suoi limiti. Le leggi della burocrazia sembra
proibiscano a un alto dirigente pubblico di scegliersi i collaboratori. Le voci, peraltro, dicono che Lilli è stata un’imposizione
del consiglio d’amministrazione, cioè delle persone che contano.
Sarebbe stata messa lì apposta per controllare Giuliano. Alcuni
dicono che è una spia di Gianrico Delandi, il preside della facoltà di Economia, altri di Silvio Moscanti, quello della facoltà
di Sociologia.
È una donna dalla figura slanciata, alta e ben proporzionata,
corpo flessuoso da indossatrice. I capelli ossigenati biondo platino sono intonati con l’incarnato bianchissimo del viso. Ogni
dettaglio è perfettamente curato in lei, dalla pelle liscia di retinolo al vestire elegante con tutte le griffe giuste; dal portamento aristocratico e un po’ altezzoso al modo di parlare calmo e grave. Si
avvia alla cinquantina, ma pare sia riuscita a mettere sotto controllo i processi d’invecchiamento. Lei cura ciò che veramente
conta per il mondo, vale a dire l’apparenza: il viso, gli occhi, le
mani, i capelli e la linea, ovviamente. Non per niente se ne va per
il mondo portandosi sempre appresso un necessaire pieno di boccette e flaconi dai contenuti incredibili. Altro che fard, mascara e
kajal. In confronto il mio maquillage, che pure non è ingenuo, è
all’acqua di rose.
Le telefono alle dieci e la invito a pranzo. All’una la trovo
che mi aspetta, sorseggiando un bitter, a un tavolo del ristorante Vecchia Fiesole. La saluto con un bacio e mi siedo accanto a
lei, e resto per un attimo col fiato sospeso di fronte alla grande
vetrata che guarda giù verso Firenze. Una bruma morbida si
sforza invano di nascondere al sole i mille lucernari della città e
questi, coi loro giochi di luci e di riflessi, danno l’impressione di
un grosso tesoro di perle e di diamanti sparso nella terra. L’aria,
qui su in collina, è umida e calda. Le ombre sono nette e se ne
stanno schiacciate sotto le cose.
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Lilli è già informata della scomparsa del cadavere. Vado subito al sodo, senza neanche un po’ di manfrina, e le dico che ho
deciso di indagare sull’omicidio. Lei promette di collaborare.
“Bene,” cerco di coglierla di sorpresa, “chi hai visto nei giorni prima dell’orgia, delle persone che vi hanno partecipato?”
Lei esita solo un po’, quanto basta per farmi capire che ho
toccato un tasto delicato. Perché sia lei che Giuliano sono così in
pena sulla faccenda dei giorni precedenti l’orgia? E sui
contatti di Lilli con gli altri partecipanti?
Intanto il cameriere, direttamente dal barbecue, ci serve un
piatto di fettunta, che lei aveva ordinato prima del mio arrivo. È
una tipica raffinatezza fiorentina: pane casereccio bruscato, condito con aglio, olio e sale. Un antipasto niente male, se hai lo
stomaco di un carrettiere. Ed è con la foga di un carrettiere che
Lilli lo aggredisce. Lei normalmente è a tavola che libera il suo
Mister Hide proletario. Mi domando come fa a mantenere la sua
linea da indossatrice. L’ho domandato anche a lei, una volta, e
mi ha risposto che non sono gli unti della cucina popolare che
fanno ingrassare, sono i dolci di quella borghese. Però non mi ha
convinto.
“Nei giorni precedenti l’orgia ho incontrato tutti, compreso
te.” Risponde dopo un lungo silenzio, appena inghiottito il primo
boccone. “D’altra parte, nel mio mestiere sono sempre in contatto con molta gente dell’università.”
Io perdo il filo del discorso, per un attimo. Ma recupero subito.
“Secondo te chi può aver avuto interesse a uccidere Luciano?”
“Vuoi cominciare col movente?”
“Be’,” dico, “di alibi non mi sembra il caso di parlare, visto
che eravamo tutti presenti al momento del fattaccio, e nemmeno
di arma del delitto, visto che, essendo sparito il cadavere, non
siamo in grado di stabilire il modo in cui il delitto è stato commesso.”
“Già, e può darsi che chi l’ha fatto sparire abbia voluto nascondere qualche indizio.”
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“Non cambiare discorso. Rispondi alla mia domanda. Chi l’ha
ucciso, secondo te?”
“Ehi, sei entrata nella parte!” Continua a mangiare in silenzio, per un po’, senza badare a me. Sembra di poterlo sentire il
lavorio del suo cervello. “Secondo me dovresti indagare sull’ex
compagna.”
“Lucrezia? Perché proprio lei?”
“Lo odiava.”
“Non ci credo. Si erano separati in malo modo, lo so, e avevano fatto qualche brutta litigata; ma non mi risulta si odiassero
fino a questo punto.”
“Credimi. Sono ben informata.”
“Racconta, racconta!”
Non le pare vero. Attacca:
“Era lei che aveva voluto la separazione. Lui si opponeva,
soprattutto per il bene della bambina, che all’epoca aveva sei
anni. Lei era stata inesorabile, e restò fregata. L’avvocato di Luciano fu abilissimo, non tanto perché dimostrò che Lucrezia aveva avuto delle relazioni con altri uomini, che non era una madre
affidabile eccetera eccetera, quanto perché, sfruttando la
fratellanza massonica, era riuscito a farsi assegnare un giudice
compiacente. Al quale giudice non gliene fregò niente se anche
Luciano aveva avuto delle amanti. La figlia fu assegnata al padre. Lui però fu magnanimo e propose alla compagna di continuare la convivenza almeno da amici. Lucrezia, per non perdere
la bambina, accettò.”
“Mi risulta che avevano instaurato un rapporto abbastanza civile.”
“Apparenze. Lei lo odiava violentemente, e aveva qualche ragione. Era stato Luciano, con la teoria della coppia aperta, a indurla in relazioni proibite, diciamo così. Lei non ne fu mai entusiasta. Lo fece per compiacerlo, la cretina. Alla fine, quando la
cosa fu usata contro di lei, la considerò una vigliaccata.”
Non mi convince. Non ce la vedo Lucrezia ad ammazzare
chicchessia, né per questa né per altre ragioni. Penso piuttosto
che Lilli stia prendendo tempo e, tanto per non smentirsi, abbia
voluto spargere un po’ del suo celebrato veleno. Non l’ho mai
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sentita parlare bene di un’altra donna. Degli uomini sì, ma
sempre in termini di ammirazione o invidia, mai di affetto, mai
di simpatia. Di Lucrezia, poi, ha sempre parlato malissimo. E si
capisce, visto che si sono contese Luciano a lungo, prima della
separazione.
Io e Lilli abbiamo una cosa in comune, soltanto una, però essenziale. Ce l’ha fatto notare un amico che è ricercatore al dipartimento di Economia, uno dei meno banali economisti della
nostra università. Un giorno che c’incontrò a un night, dove cercavamo di ammazzare insieme la noia, ci disse: voi avete il privilegio di essere sole, di vivere di luce propria. Uno dei meno
banali.
Mi fa tenerezza questa tardoncella dal look signorile, nel suo
orgoglioso isolamento. L’ammiro, per la sua abilità nel farsi strada in un mondo di uomini, per la sua capacità di lottare contro
di loro ad armi pari, sul loro terreno, accumulando potere e giocandolo al loro modo. La invidio anche un po’, per la sua forza di
carattere, l’autonomia di pensiero, la volontà di autodeterminazione. La compatisco invece per la sua incapacità di amare. Certo
non dovrei essere io a dare lezioni sulla materia, a parte tutte le
mie attenuanti. D’altronde è accaduto che proprio con Luciano,
quasi senza che me ne accorgessi, era sorto in me un sentimento.
Lei invece Luciano lo ha sempre usato.
Forse pure Lilli ce l’ha qualche attenuante. Cosa ci si può
aspettare da una donna vissuta in funzione del marito fino a 40
anni e poi divorziata, senza neanche uno straccio di figlio a cui
aggrapparsi, costretta a ricominciare tutto da zero a un’età in cui
non si è più considerate donne da marito? Be’, è stata bravissima, anzi, eroica. È ripartita dal suo diplomino di segretaria
d’azienda, iniziando la carriera femminile per eccellenza, quella
di segretaria appunto, la carriera che finisce dove comincia. Per
lei è stato invece un trampolino di lancio. Nel giro di dieci anni
è diventata una delle personalità che contano nella LUFSS. Segretaria del direttore amministrativo, è vezzeggiata dai professori, riverita dai burocrati e temuta perfino dal potentissimo
Giuliano Serlo, il suo capo.
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Lilli è vissuta a lungo fuori dal mondo, al caldo dell’affetto
coniugale. Però, appena vi è stata gettata dentro, in questo zozzo
mondo, ne ha capito le leggi quasi subito, senza fatica. Dopo due
o tre tentativi falliti di ritrovare marito, ha realizzato che gli uomini la cercavano solo per usarla; a quarant’anni suonati! Appresa la lezione, non ha tardato a recuperare il terreno perduto. In
poco tempo si è trasformata radicalmente, imparando a usare gli
uomini, per fare carriera, per divertirsi, per migliorarsi, per crescere culturalmente, soprattutto per accumulare potere. Credo si
sia appassionata al gioco del potere, un gioco che io invece non
riesco a mandare giù, proprio come questi orrendi bocconi di fettunta. Il fatto di lavorare in un’università l’ha facilitata molto.
Ha sempre avuto amanti colti e potenti e da tutti ha sempre ottenuto più di quanto ha dato.
“Ti vedo pensierosa.” Mi fa, dandomi un buffetto sulla guancia. “A che pensi?”
“Scusa, mi sono distratta. Ogni tanto mi lascio trascinare dai
pensieri, che mi portano chissà dove.”
“Dove ti hanno portato ora? No, non me lo dire. Indovino.
Scommetto che stavi pensando a Gianrico e Silvio.”
“No, a Giuliano.” Mento. “Che opinione te ne sei fatta?”
“Come indiziato dell’omicidio di Luciano? Be’, Giuliano è
capace di tutto. Però non farebbe nulla senza una valida ragione
pratica. Ad ogni modo, se vuoi indagare su di lui, devi scandagliare nei suoi rapporti con Luciano e Fabrizio.”
“Fabrizio chi? Il brigatista?”
“Esatto.”
“Me ne ha parlato ieri proprio Giuliano raccontandomi la
battaglia di Valle Giulia.” Dico, pentendomene subito.
“Interessante. Si vede che la lingua batte dove il dente duole.”
“Cos’è che duole? E che rilevanza ha quel terzetto di spostati?”
“Hai detto giusto: terzetto. Erano un gruppo molto coeso.”
“Non mi risulta, anzi pare che da molto tempo se ne fossero
andati ognuno per la sua strada, e su strade divergenti.”
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“Fumo negli occhi. Avevano costituito una sorta di setta segreta all’epoca della contestazione. E se Giuliano ti ha parlato di
quel sodalizio, non è andato fuori tema.”
“Fuori quale tema?”
“L’omicidio di Luciano. Devi indagare sulla setta.”
“Che setta?”
“Ti ha detto niente Giuliano dei cavalieri del nulla?”
“No.”
“Ah ah!”
“Cosa avrebbe dovuto dirmi?”
“Che quella associazione esiste ancora, nonostante i tre eroi se
ne fossero andati ognuno per la sua strada.”
“Che c’entra con la morte di Luciano?”
“Questo dovresti fartelo dire da Giuliano. E non ti ha detto il
signor direttore amministrativo che i tre continuavano a tenere
corrispondenze molto strette?”
“Cara, mi sa che ti sei fatta prendere la mano dalla tua passione per l’occulto.”
“Pensa quel che vuoi. Credimi però se ti dico che le cose veramente importanti Giuliano non te le ha rivelate.”
“In effetti mi ha rivelato molto poco.”
“Ma insomma che ti ha detto?”
Sono nella confusione più nera. Più lei parla, meno mi ci raccapezzo. A questo punto mi faccio guardinga. Non voglio riferirle il succo della mia conversazione con Giuliano fino a che non
ci capisco qualcosa. Perciò cerco di cambiare discorso.
“Così perdiamo il filo.” Riprendo. “Di Giuliano parliamo
dopo. Torniamo a Gianrico e Silvio. Cosa stavi dicendo di loro?”
“Niente. Ma te lo dico adesso. Anche loro avrebbero avuto dei
validi moventi.”
“Sentiamo.” La vedo impaziente di sciorinarmi uno o due dei
suoi tremendi pettegolezzi.
“Non si tratta di pettegolezzi.” Fa lei, quasi mi avesse letto nel
pensiero. “Sono fatti provati, noti in tutte le accademie d’Italia e
oltre. Solo gli studenti non li conoscono, e quindi niente ne sai
tu.”
“Di che si tratta?” Ora sono incuriosita.
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“Ti ha mai parlato Luciano della sua carriera accademica?”
“No, anzi ha sempre evitato accuratamente l’argomento.”
“Ci credo. La lingua, in questo caso, batteva da per tutto meno che sul dente che doleva. Luciano, a quarant’anni, era ancora
assistente, il gradino più basso della scala gerarchica; caporale,
diciamo. I suoi coetanei erano diventati colonnelli, se non generali, cioè professori associati e ordinari. Perfino qualche suo allievo lo aveva sorpassato. Lui invece è sempre rimasto lì dove
aveva cominciato, in un ruolo a esaurimento, sicuro ormai di
restarci fino all’esaurimento. Sai chi sono stati i diretti responsabili della sua rovina?”
“Non me lo dire.”
“Quei due: Gianrico e Silvio.”
“Sarebbe un movente per Luciano, se fosse stato lui ad ammazzare loro.”
“Niente affatto. Luciano era troppo orgoglioso per lasciarsi
coinvolgere in faccende di carriera. Anzi, ostentava una certa
fierezza per il suo fallimento accademico; per non parlare
dell’ostentazione di disprezzo nei confronti dell’ambiente universitario in genere. Io credo che in realtà, pur se si sforzava di
nasconderlo, soffriva molto per questa situazione. Cosa che si
notava dall’eccesso di sufficienza con cui spesso parlava dei colleghi che gli stavano avanti nella scala gerarchica, vale a dire
quasi tutti.”
“Anch’io ho notato un certo malcelato astio...”
“In ogni caso, l’aspetto interessante della faccenda è quello
delle ragioni che hanno indotto Gianrico e Silvio a stroncargli la
carriera. Luciano aveva rovinato la loro reputazione. Li aveva
sputtanati di fronte alla comunità scientifica internazionale. Da
quanto ho capito, sembra che avesse dimostrato che la loro gloria di scienziati era stata impastata con farina presa dal sacco di
qualcun altro. Non ne so molto. Questo è un argomento tabù nella nostra università. Giuliano forse ne sa qualcosa di più. Ma
meglio chiedere agli interessati.”
“Se fosse vero ciò che dici, dovrebbero aver problemi a parlare della faccenda.”
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“Non fare l’ingenua. Gianrico sarà felicissimo di sparlare di
Silvio e viceversa.”
“Mi hai incuriosito.” Rifletto ad alta voce: “Ecco l’occasione
per conoscere meglio i due marpioni, e la natura del loro rapporto con Luciano.”
“Falli venire da te e falli parlare. Naturalmente poi mi riferirai
quello che hai saputo. E domandagli una cosa: se hanno trovato
la chiave della verità.”
“Che?”
“La chiave della verità.”
“Che vuol dire? È un indovinello?”
“Non ti preoccupare. Chiedi a entrambi precisamente questo:
se hanno trovato la chiave della verità. Memorizza le loro reazioni e fammi sapere. Dopo ti dirò il resto.”
Ecco un altro Sherlock Holmes che vuole farmi fare il Watson. È evidente che lei sa molto di più di quanto mi ha detto.
Ahimé, io le ho detto più di quanto volevo. Eppure c’è qualcosa
di particolare che lei vuole da me e che ancora non ha osato chiedere. La vedo pensierosa, titubante. Sento che sta per aprirsi, che
lo farà se ha un po’ d’incoraggiamento. Così la pungolo:
“Va bene cara, è evidente che non sei venuta qua oggi per
raccontarmi quattro pettegolezzi accademici o per incuriosirmi
con un enigma su chiavi e sette misteriose. Cos’è che vuoi da
me?”
“Hai detto giusto: la chiave della verità è un enigma. Io lo
voglio risolvere e per risolverlo ho bisogno di uno scritto di Luciano, uno scritto che hai tu.”
“Io?”
“Sì. Sono degli appunti di filosofia. Luciano mi ha detto che
ce l’hai tu. Credo che in quegli appunti ha nascosto la chiave.”
La mia mente va in subbuglio. In effetti lui mi aveva dato dei
fogli con delle annotazioni di filosofia, ma non mi aveva detto
che contenevano un enigma. Sarà vero? O è solo un’altra delle
stramberie prodotte dalla passione di Lilli per le scienze occulte?
Devo vederci chiaro prima di scoprirmi. Perciò le dico che non
ho nessuno scritto di Luciano. Lei non ci crede e mi ripete che
glielo ha detto proprio lui. Io tengo duro nella menzogna. Non
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devo farmi fregare, penso. Dopo aver celiato un po’ su enigmi
filosofici e chiavi occulte, bevo un ultimo sorso di vino e:
“Si è fatto tardi!” Dico, banalmente. Nel frattempo lei è arrivata al dolce, un tiramisù non meno greve dell’antipasto, una
vera sbobba. Io, da parte mia, dopo essermi messa quel sasso di
appetizer nello stomaco, col primo e il secondo ho spilluzzicato
appena. Il dessert glielo lascio tutto. La saluto in fretta e faccio
per alzarmi. Ma lei mi mette una mano sull’avambraccio e mi
trattiene. Mi guarda con uno sguardo liquido. All’improvviso
sembra sciogliersi, perde la sua aria di sicumera. Con voce trepidante mi fa:
“Ho assolutamente bisogno degli appunti di filosofia di Luciano.”
“Perché?”
Lei non risponde. Il suo sguardo si fa ancora più intenso, quasi
implorante. Io sono turbata. La guardo senza saper cosa dire. Poi,
credendo di cambiare discorso, le domando a bruciapelo:
“Perché non sei voluta andare con Giuliano a rimuovere il cadavere l’altro giorno?”
“Appunto. Perché, secondo te?”
“Dimmelo.”
“Temo per la mia vita. Se non decifro subito quegli appunti, la
prossima vittima potrei essere io.”
I suoi aforismi filosofici Luciano me li aveva dati dopo che
c’eravamo bazzicati per un po’ di tempo. Avevo iniziato a frequentarlo due anni fa. L’anno accademico era appena cominciato. C’era un annuncio nella bacheca della facoltà di Sociologia:
‘Nuovo corso di filosofia nel boudoir, seminario trimestrale tenuto dal dottor Luciano Vinel’. Prima di allora lo conoscevo solo di
fama. Ne avevo sentito parlare da qualche studentessa in termini
da romanzo rosa. Pareva fosse un vero Casanova, il che me lo
rendeva poco seducente. Mezzo corpo studentesco era innamorato di lui. I maschi invece ne parlavano come di una figura misteriosa, un personaggio d’altri tempi, un rivoluzionario in disarmo,
un filosofo un po’ matto, uno scettico dalla parola tagliente, un
trasgressore, un arrogante, un originale. Devo dire che tutto ciò
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mi sconfinferava alquanto. L’idea che se n’erano fatta gli studenti mi intrigava più della fantasia coltivata dalle studentesse.
Come professore, ad ogni modo, nessuno sembrava stimarlo
molto, né i maschi né le femmine. Peraltro, pur non essendo
professore nella gerarchia universitaria, così lo chiamavano gli
studenti – il professor Vinel, con l’accento sulla e – evidentemente un omaggio tributato più alla sua cattiva fama che al
ruolo accademico.
Fatto sta che quel seminario mi attrasse immediatamente, appena ne lessi l’annuncio, se non altro per l’argomento. M’incuriosiva l’idea di filosofare intorno al mio mestiere. Tuttavia capii
subito che non aveva alcuna attinenza.
Cominciai a frequentare che era già alla terza lezione. C’erano
cinque uditori, me inclusa, tra cui due docenti. Più tardi lui stesso
si vantò di non essere mai riuscito a tenere corsi con molti studenti. Alla prima lezione accorrevano in molti, alla seconda gli
uditori si dimezzavano, alla terza restavano solo pochi eletti.
Rimasi immediatamente presa e non tanto dall’argomento che,
appunto, aveva poco a che fare con ciò che mi aspettavo, quanto
dal modo di esporlo, quel parlare rapido, essenziale, rigoroso,
quella mancanza di ogni concessione all’uditorio, quasi rivolgendosi solo a se stesso.
Verso la fine dell’ora cominciò una discussione animata con i
due colleghi, discussione che proseguì dopo la lezione. Si formò
un gruppetto peripatetico al quale ci aggregammo noi studenti.
Cammina cammina, finimmo al bar Università. Mi piaceva stare
a sentire quelle conversazioni filosofiche, pur capendoci poco.
Gli altri due studenti se ne andarono alla chetichella e restammo
in quattro intorno al tavolo, a bere birra. Luciano era seduto
accanto a me. Io avevo una sigaretta spenta in bocca da un po’ di
tempo. Tutta presa dall’ascolto dell’astruso scambio d’idee, mi
ero dimenticata di accenderla. A un certo punto i due docenti si
misero a discutere tra loro. Luciano si voltò verso di me e disse:
“Che vuol dire ’sta sigaretta spenta in bocca?”
Non mi feci cogliere di sorpresa.
“È un simbolo fallico.” Risposi.
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“No,” ribatté lui, “per Freud la sigaretta è una gratificazione
orale.”
E io:
“Embè, un simbolo fallico non può essere una gratificazione
orale?”
Ci conoscemmo così, e la nostra amicizia prese subito la piega
giusta. Un amore a prima vista.
Lo invitai a casa mia. Lui non mostrò nessuna sorpresa quando gli dissi che volevo essere pagata; anzi, tirò un sospiro di sollievo. In seguito mi rivelò che non sperava di meglio. Un rapporto mercantile, sosteneva, è un rapporto paritario e leale. I due
soggetti danno e ottengono quello che vogliono e mantengono la
propria autonomia.
“Se la puttana non ha un pappa, non produce neanche plusvalore.” Disse.
Chiesi delucidazioni:
“Che vuol dire?”
E lui, paziente:
“Che non è sfruttata.” E siccome restavo perplessa, chiarì:
“Quando chiamo l’idraulico a sturarmi il lavandino gli pago
l’intero valore del suo servizio, e se lui è un lavoratore autonomo
non c’è nessuno che ci guadagna sulle sue fatiche. Insomma
scambio eguale.”
Mi spiegò che nello scambio eguale i rapporti umani resterebbero liberi da incrostazioni ideologiche e le motivazioni, depurate dal sentimento, verrebbero ridotte alla loro pura base materiale, il piacere, fisico, animale, o i soldi, che è lo stesso. Gli
obiettai che lo scambio non è realmente paritario, visto che una
parte aliena il proprio corpo, cioè se stessa, mentre l’altra dà via
solo il proprio denaro. Lui rispose che questo è vero per la prostituzione come per qualsiasi altra attività lavorativa remunerata
e che anch’io, quando andavo a lezione da lui, pretendevo una
parte della sua persona in cambio di denaro.
Imparai subito che non ci si poteva ragionare con lui quando
si trattava di rovesciare il senso comune. Trovava sempre un argomento che ti metteva a tacere.
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Una volta provò perfino ad analizzarmi. Esordì con una sparata:
“Le oneste puttane mi piacciono perché sono le uniche donne
capaci di guardare un uomo negli occhi dicendogli sinceramente
quello che vogliono.”
Un’uscita niente male, che però non mi fece effetto. Lui capì
dal mio sguardo che non sono una che si lascia incantare da certe
battute alla Woody Allen, e non ci provò più. Poi cercò di spiegarmi, lui, le ragioni che mi avrebbero indotto a scegliere questo
mestiere. A letto, finito di fare l’amore, i clienti si scoprono missionari, dopo le prime volte, e mi domandano delle circostanze
che mi hanno spinto alla prostituzione. Accade con quasi tutti.
Ormai lo so, e mi sono preparata due o tre storielle, tipo ragazzamadre-cacciata-dalla-famiglia e simili. Racconto l’una o l’altra a
seconda della persona che ho davanti. Luciano invece affrontò
l’argomento dopo qualche tempo che ci frequentavamo, dopo
avermi conosciuto un po’. Mentre stavo cercando di raccontargli
una di quelle storielle, m’interruppe.
“L’ultima persona a cui chiedere perché un’onesta puttana ha
scelto il mestiere è lei stessa.” Disse.
“Immagino che se invece lo chiedo a te avrò tutte le spiegazioni del caso.”
Lui prese l’abbrivio:
“Le motivazioni possono ridursi a due. La prima è il piacere.
Nessuna fa la prostituta se non le piace. Sarebbe un piacere, più
che fisico, spirituale, non quello della troia, quello della ribelle: il
piacere della trasgressione, non del godimento. In una cultura
dove alla donna è concesso di usare il corpo per tutti gli scopi
meno che solo per il proprio piacere, si deve provare un gusto
terribile a usare il corpo solo per i propri scopi. La seconda motivazione sarebbe la libertà. In una società che consente alla donna di entrare in rapporto spirituale con gli altri soltanto corporalmente, dando via il proprio corpo, al marito, ai figli, al principale, alla chiesa, l’unica libertà possibile per lei è di dare agli altri
soltanto il corpo, di non entrare in rapporti spirituali, di conservare il proprio spirito per se stessa.”
Lo interruppi io stavolta:
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“Hai detto onesta puttana. Ci sono anche le puttane disoneste?”
“C’è l’ampia classe delle puttane, che include quasi tutte le
donne, comprese quelle sposate. C’è poi il sottoinsieme delle
puttane oneste, costituito dalle prostitute in senso stretto. Infine
c’è un insieme ancora più piccolo, che è quello delle troie.”
Mi lasciai coinvolgere in una discussione concettosa che presto si allontanò dalla mia persona e prese il volo verso l’astrazione. E mi accorsi che mi piaceva. Lui lo capì, e colse l’occasione
per trarne profitto, la mia parcella essendo un po’ salata per le
sue finanze. Disse che in nessun posto meglio che a letto si può
capire la filosofia del boudoir.
Mi resi conto che in realtà stavamo entrambi cercando di stornare il nostro rapporto dallo squallore dello scambio mercantile.
Gli prospettai un accordo, gli proposi di pagarmi in natura, dandomi lezioni private. La cosa gli piacque e l’accettò subito. Così
prendemmo l’abitudine di farci delle lunghe discussioni filosofiche dopo le consuete pratiche di letto.
Più tardi gli chiesi una bibliografia per seguire il Nuovo corso
di filosofia nel boudoir. Lui disse che non esisteva bibliografia.
Mi suggerì di leggere il vecchio corso, tanto per farmi un’idea
dello spirito del Nuovo, il quale tuttavia sarebbe troppo nuovo
per potersi appoggiare a qualsiasi altro testo di riferimento. Dopo molte mie insistenze, acconsentì a farmi leggere i suoi appunti per il seminario. Era poca roba, una ventina di pagine di
aforismi raccolti in quattro capitoli. Su ciascun aforisma, durante la lezione, lui faceva qualche meditazione. È in questo modo
che si svolgeva il corso. Solo dall’ascolto della sua parola, diceva, si potevano capire quegli aforismi. In realtà non ci si capiva
molto neanche così. E gli appunti non mi furono di grande aiuto,
anzi, mi confusero ulteriormente le idee.
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Mercoledì, 15 maggio.
Stamani presto mi telefona Lucrezia e mi chiede un appuntamento. Ha bisogno di parlare con qualcuno e la prima persona
che le è venuta in mente sono io.
Arriva alle cinque. La faccio accomodare nel salotto rosa, dove accolgo i clienti. Lei mi dice subito che vuole soltanto parlare.
È una donna che quasi non conosco per niente eppure
m’intriga parecchio. Forse m’identifico in lei, e se cerco di
evocare con diligenza il suo aspetto è perché la vedo come
l’essere infelice con cui il genio faustiano è stato per qualche
tempo quasi ammogliato. Così per descriverla non ho trovato
niente di meglio che usare belle parole rubate, e tanto peggio per
chi le troverà stucchevoli.
Ha un viso simpatico, seppur un po’ stanco, e un corpo da
adolescente di una freschezza insolita. Ha dei begli occhi neri,
come giada, come le more mature, non molto grandi ma animati
da uno sguardo aperto e limpido, limpido come il rosso moderatamente vivo delle labbra. Non c’è niente di artificiale in lei, nessun atteggiamento, nessuna simulazione. La grazia naturale con
cui i capelli neri sono tirati a crocchia sulla nuca richiama il lavoro di mani intelligenti, mani che non stanno mai ferme, come in
una danza continua. Il suo sorriso non molto frequente e il riso
ancora più raro scoprono denti piccoli e bianchissimi.
Facciamo un po’ di convenevoli per avviare la conversazione,
ma senza risultato. Per un buon quarto d’ora i silenzi si susseguono più lunghi dei sospiri. Poi lei rompe gli indugi.
“Sono distrutta.” Dice, agitandosi sul divano senza trovare requie. “Stavamo ricostruendo il nostro rapporto, con Luciano, e le
cose sembravano ricominciare a ingranare. Invece...”
“Capisco, sono esperienze tragiche.” Faccio, per mostrarle un
po’ di partecipazione. La conversazione stenta ancora ad avviarsi.
Allora le chiedo se vuole un tè. Dice di sì. Vado in cucina a
prepararle un Lichee. Lei mi segue, si appoggia con le spalle al
muro e mi guarda in silenzio. Io, taciturna quanto lei, preparo il
tè. L’atmosfera è da imbarazzo freddo, come quando ti senti un
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lui alle spalle e ti aspetti una dichiarazione d’amore che non desideri.
Metto la teiera e due tazze su un vassoio di latta, un vassoio
russo, tanto bello quanto naif, con quei ghirigori di fiori improbabili su fondo nero. Ricordo che lei lo trovò incantevole quando
lo vide la prima volta. Sul vassoio ammucchio dei cantuccini di
Prato. Quindi afferro il tutto con una mano, che sembro una cameriera di bar. Con l’altra prendo quella, timida, di lei. La trascino nel soggiorno, nel salotto verde ora.
Il boudoir rosa è una specie di ambiente di lavoro, una saletta
di passaggio dal piccolo ingresso alla piccola alcova nella mia
piccola casa-bottega. Penso che forse è l’ambiente inadatto che ci
impedisce di rompere la freddezza, bloccando la conversazione.
Ci ricevo i clienti nel mio boudoir. Per questo scopo è fantastico,
col suo arredamento dannunziano, i mille ammennicoli sui mobili orientali, le false stampe cinesi e i batik tanzaniani, i tappeti
persiani, i cuscini indiani a fiorami che ricoprono il divano di
vacchetta, e i mazzi di fiori di seta distribuiti con disordine nella
stanza, e il narghilè, il fornelletto per l’incenso, l’ukulele, l’aulos
e la sitar appesi al muro, insomma tutto l’armamentario kitsch
con cui confeziono la mia merce.
Il salotto verde invece è riservato alla mia privacy, è sobrio e
caldo nello stesso tempo: divano e poltrone Frau color verde
marcio, in un angolo; nell’altro un vecchio fratino tarlato che uso
come scrivania; una parete ricoperta da una libreria con gli
scaffali ricolmi; mentre sulle altre tre campeggiano sei belle
riproduzioni di opere di Andy Wharol, oltre a un quadro che
ritrae me stessa al lavoro, regalo di un vecchio cliente affezionato, una tela che spero un giorno varrà qualcosa, quando
l’autore sarà diventato celebre dopo la morte.
Appoggio il vassoio sul tavolinetto e verso il tè nelle tazze.
Lucrezia si accomoda sul divano alla mia sinistra. Basta già il
morbido profumo del Lichee a riconciliarmi col mondo. Anche
lei si mostra subito sensibile a questa delizia. La guardo negli
occhi, mentre riempio le tazze fumanti.
Lei, per distogliere lo sguardo, si accende una sigaretta. Dà
una tirata profonda e adagia la schiena sulla spalliera del divano.
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Per qualche secondo guarda assorta un poster di Andy Wharol,
sulla parete di fronte, che riproduce il volto di Marylin mentre
sogna il suicidio. Dà altre due tirate alla sigaretta e la spegne.
Afferra la tazza e con un unico sorso quasi la svuota. Cristo! Si
sarà lessato l’esofago. Si versa ancora del tè e finalmente riprende:
“Ho pensato molto negli ultimi giorni. Non riesco a venirne a
capo. Credevo di aver superato Luciano, di poterne fare a meno,
e che proprio questa maggiore autonomia mi consentisse di
riavviare uno straccio di rapporto. Invece mi accorgo di non aver
mai cessato di amarlo, dopo quello che mi ha fatto. Mi sento
vuota, depressa. Mi sembra che sia tutto così privo di senso. Se
non avessi da badare alla bambina...”
“È una bambina abbastanza grande ormai.” Dico con spontanea cattiveria, ma me ne pento subito. Basta però per bloccare di
nuovo la conversazione. Stava prendendo una piega spiacevole.
Odio i piagnistei e i sentimentalismi.
Mi accendo una sigaretta io, adesso, metto un disco di Gino
Paoli e cerco di riavviare il discorso, portandolo dritto su Luciano. Che è ciò che interessa entrambe. Lei vuole sapere qualcosa
che le è sempre sfuggito, qualcosa che non ha mai capito di lui.
Non vedo come posso aiutarla. Mi chiede di raccontarle del mio
rapporto con lui: in che occasione l’ho conosciuto, quando, perché, cosa ho rappresentato per lui. Mi assicura di non essere
gelosa. Luciano le ha parlato spesso di me, dicendole che si
trattava di una relazione professionale, ma anche che mi stimava parecchio. Stronza.
“Sì, professionale,” mi difendo, “doppiamente professionale:
cliente-puttana, professore-allieva. Vuoi che ti parli di me e di
lui? Bene. Peggio per te.”
Lei mi guarda con quegli occhi di bambina sconsolata, che
vorrebbero dirmi: non essere cattiva. Mi lascio commuovere e le
racconto il modo in cui conobbi Luciano a quella lezione di
filosofia. Mi accorgo che mi piace parlare di me con Lucrezia. La
cosa è insolita, dato che raramente riesco ad aprirmi con gli altri,
e mi disturba un po’, a dire la verità. Ma ora prevale il piacere
della confessione. Per cui continuo a narrarle gli inizi del mio
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amore con Luciano. Evito di calcare la mano sulle nostre pratiche sessuali e insisto soprattutto sugli scambi intellettuali.
L’effetto non è meno deprimente per lei.
“Questa è una cosa in cui credo di aver mancato con lui.” Mi
dice, come esternando un discorso interiore. “Da lungo tempo
ormai non discutevamo più di filosofia, di sociologia, di politica,
insomma di temi elevati.” Parla sorseggiando calma, adesso, e
guardando nel vuoto, con uno sguardo triste che mi fa una tenerezza...
“Nei primi tempi,” riprende, “tra il ’69 e il ’73, si parlava invece molto di teoria. Si andava alle assemblee e alle manifestazioni, si discuteva, si studiava insieme.”
“Hai fatto il Sessantotto con lui?”
“L’ho conosciuto nel ’69, a una manifestazione. Erano giorni
di entusiasmo e di slancio.”
Gesù! Un’altra ex combattente, mi viene da pensare. Quello
che lei dice subito dopo, però, cattura completamente la mia
attenzione.
“Mai un filo di grettezza nei rapporti umani,” continua, “l’altruismo, la dedizione, erano sentimenti veri, seppur rivolti a oggetti abbastanza astratti. I nostri rapporti personali partecipavano
di questo senso di trascendenza. Vivevamo in un universo a parte, diverso dal mondo reale. Lì crebbe il nostro amore. Fu quando quell’universo finì che cominciarono i problemi.”
A questo punto s’interrompe e mi guarda perplessa. Vede che
mi sono fatta attentissima. Non sa se andare avanti. La sento così indifesa, così sofferente. In uno slancio d’affetto mi avvicino a
lei, le prendo una mano nella mia e le metto un braccio sulle
spalle. Lei piega la testa sul mio braccio e si mette a piangere in
silenzio. Dopo un po’ si calma, si accende un’altra sigaretta e riprende a parlare:
“Nel ’73 smettemmo con la politica. Lui vinse una borsa di
studio all’università. Io mi avviai al lavoro di assistente sociale.
Le nostre strade cominciarono a divaricarsi. Le cose continuarono a filare bene per un po’ di tempo, ad ogni modo. Forse fu
merito della bambina, che nacque quell’anno, e alla quale ci
dedicammo completamente, entrambi. Il dialogo tra noi però già
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si faceva scialbo: non più i grandi problemi, la rivoluzione,
l’uomo nuovo eccetera eccetera, bensì i pannolini, l’affitto, e chi
doveva fare la spesa e chi lavare i piatti. Lui poi, a un certo punto, gli prese una gran frenesia sessuale. Non era soddisfatto di
niente, il nostro rapporto non lo appagava. Mi proponeva sempre
cose strane e diverse. Io mi prodigavo, ma la sua insoddisfazione cresceva. Il fatto è che non sapeva neanche lui cosa
voleva. I normali orgasmi non gli bastavano, e ti assicuro che
non erano tanto banali. Quanta gente si sarebbe accontentata di
molto meno! Un giorno mi propose di fare la coppia aperta. Io
naturalmente rifiutai.”
“Perché?” Domando a bruciapelo.
“Perché non erano più tempi per quelle stronzate. Sapevo dove si sarebbe andati a finire. Pensavo che lui mirasse soltanto ad
avere il mio consenso per provarci con altre donne. Io del resto
non ne avevo bisogno. Ma il mio rifiuto non servì. Lui anzi se ne
sentì autorizzato a badare ai fatti propri e cominciò a cercare
rogna con le segretarie, le baby sitter e le studentesse. Il peggio
fu che me lo venne a raccontare, il cretino. Io avrei anche fatto
finta di niente se avessi potuto. Invece fui costretta a darmi da
fare. Fui costretta, capisci? Per non perdere la mia dignità. Non
sarebbe stato un rapporto paritario se io non fossi stata capace
delle cose di cui era capace lui. Proprio io, che stavo così bene
coi miei due orgasmi settimanali. Insomma, preferii rischiare di
perdere lui piuttosto che la sua stima. Naturalmente, come temevo, l’uomo si dimostrò al di sotto delle sue stesse aspettative.
Fu una debacle completa. Quando ebbi trovato un amante
anch’io, e lui lo ebbe saputo, i nostri rapporti si raffreddarono
definitivamente. Innanzitutto sul piano sessuale. Semplicemente
lui non aveva più voglia di fare l’amore con me, e questa fu la
classica goccia. Con l’amante non ci provavo un gran gusto, con
Luciano ormai non combinavo niente. Fatto sta che cominciammo a litigare di brutto. Il seguito è storia scontata: la separazione,
la convivenza forzata e tutto il resto.”
“Non stavate riavvicinandovi, recentemente?”
“Imparammo a convivere. Io non me ne sarei mai andata senza la bambina e, per non far vivere nell’inferno anche lei, cer-
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cammo di comportarci da persone civili. All’inizio fu difficile,
soprattutto perché i miei sentimenti per Luciano si erano fatti un
po’ confusi e piuttosto tendenti all’odio. In seguito imparai pian
piano a distaccarmi da lui. Non che ne scoprissi i difetti: li
conoscevo già da tempo. Ma ne smascherai i pregi, lo smitizzai.
Nello stesso tempo imparavo a fare i conti coi miei limiti, la mia
dipendenza dagli altri, la mia continua ricerca di sostegno. Infine
capii che lui non era una parte indispensabile della mia esistenza
e che potevo farne a meno. Giunsi alla conclusione, a quei
tempi, che il mio attaccamento era solo un segno della mia
debolezza, di un bisogno di sicurezza. La separazione mi ha fatto
crescere. Ai suoi occhi riacquistavo valore man mano che mi
dimostravo capace di fare da sola. Da parte mia, diminuiva il
risentimento. Così, gradualmente, il nostro menage riprese una
piega umana. In seguito ricominciammo ad avere qualche rapporto sessuale.”
“Aveva smesso con le altre?”
Mi guarda storto:
“Aveva smesso con te?”
“Scusa.”
“Nelle altre non cercava il piacere sessuale, tanto meno l’amore. Era una specie di malattia dello spirito. Non precisamente
dongiovannismo, piuttosto un desiderio di stordimento, un’urgenza di fuga.”
“E quelle cose strane che ti aveva chiesto, te le chiedeva ancora?”
“Sì, e alcune le facevo, ma non tutte mi piacevano. Per
esempio, ce n’era una che proprio non digerivo. La chiamava
tecnica di Oshima, sai...”
“Sì, la praticava anche con me qualche volta.”
“E con Lilli, soprattutto con lei. Con lei gli veniva bene, sembra. Be’, sai che ti dico? Secondo me può ben essere morto in
quel modo. A me faceva impressione dovergli stringere la gola,
vederlo diventare tutto rosso, gli occhi fuori dalle orbite, al limite della soffocazione. Smettevo sempre prima del momento
giusto, prima di quando lui riteneva necessario. Posso credere
invece che la sadica lo stringesse fino all’ultimo istante desi-
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derato. Non può aver esagerato una volta? Magari nella foga di
un’orgia?”
“A me Luciano disse che non sarebbe stato possibile; che un
attimo prima di perdere conoscenza mi avrebbe fermato.”
“Lo disse anche a me. Ma cos’è un attimo? D’altronde credo
che la cosa gli piacesse proprio perché era rischiosa.”
“A me l’aveva spiegata diversamente.”
“Immagino. Ti avrà raccontato quattro fregnacce sul tantrismo, lo yoga e tutto il bla bla bla mistico. Sono balle a cui
poteva credere quella strega, non io. Insisto. L’assassina potrebbe
essere Lilli. Forse involontaria. Forse ha esagerato senza volerlo.
Chissà... al buio... nella confusione.”
“È un’ipotesi interessante. Voglio sentire lei.”
“Cosa vuoi che ti dica?”
“Certo non le chiederò se l’ha ammazzato.” Conclusi. “Cercherò di capire se quella sera hanno praticato la tecnica di
Oshima.”
È mezzanotte quando finiamo di parlare. Lucrezia sembra
stanca. Si alza dal divano e si avvia verso la porta. L’accompagno. Mi ha fatto piacere parlare con lei così apertamente. Le
dico che vorrei essere sua amica. Sulla porta l’abbraccio e la
bacio. Lei sorride timidamente e se ne va.
Un giorno, diversi mesi dopo che lo avevo conosciuto e quando
la conoscenza si era fatta dimestichezza, chiesi a Luciano perché
si era separato da Lucrezia. La risposta fu secca:
“Era finito l’amore.”
“Ma va là!”
“Non ti sembra un motivo valido?”
Era uno dei rari momenti magici che seguono una scopata
felice, di quelle in cui i corpi esprimono sentimenti. Stavamo
nudi sul letto a fumarci la consueta sigaretta distensiva. Fu lui
che cominciò a parlare dell’ex compagna e del senso di fallimento da cui era stato pervaso dopo la separazione. Così mi
venne naturale fargli quella domanda scema.
La sua risposta mi suonò provocatoria. No, non mi sembrava
un motivo valido. Glielo dissi, e aggiunsi:
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“Non ho mai sentito un uomo giustificare la separazione in
questo modo. Suona insincera. È poco convincente.”
“Quale sarebbe stata una risposta convincente?” Domandò
con un tono che ora suonava sarcastico.
“Che so? Vi siete separati perché lei ti ha scoperto con
l’amante.”
“Ora ti stai identificando in lei. Capisco che una donna possa
sentirsi meno annientata se il suo uomo le dice che la lascia per
un’altra piuttosto che perché non l’ama più.”
“Certo. Si sentirebbe tradita, non umiliata.”
“Solo se fosse una donna superficiale.”
“In che senso?”
“Primo: il tradimento sarebbe la causa immediata, ma cos’è
che lo avrebbe causato a sua volta? Un uomo non si fa l’amante
se ama ancora la compagna. Secondo: perché mai la confessione
del disamoramento dovrebbe causare umiliazione?”
“Mio caro, sei tu adesso che ti mostri superficiale. Il fatto è
che se una donna è abbandonata per un’altra, può attribuire la
colpa del proprio fallimento alle arti dell’altra e alla debolezza di
lui. Ma se è abbandonata perché lui non l’ama più si sentirà
distrutta, incapace di essere amata, uno sfacelo esistenziale, una
colpa propria, e senza speranza di remissione.”
“Non stavo dicendo la stessa cosa?” M’interruppe.
“Non mi sembra.”
“Perché non mi hai fatto finire di parlare. Alla tua spiegazione
io aggiungo che la donna abbandonata dovrebbe sentirsi ugualmente miserevole, anche se la motivazione immediata fosse il
tradimento. Miserevole, non umiliata.”
Lo guardai incuriosita. Non riuscivo a capire se era sincero o
mi stava prendendo per il culo.
“Mi sa che mi stai prendendo per il culo.” Dissi.
“Ma perché?”
“Come se non fosse mai accaduto che un marito tradisce la
moglie per fare una scappatella.”
“Allora non si parla più di amante. E guarda che una sveltina
non è mai stata un valido motivo per la separazione.”
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“Questo è vero,” approvai, “ma solo perché i matrimoni solidi
non sono fondati sull’amore.”
“Cara, veramente sei così cinica?”
“Sei tu il cinico. Stiamo a letto dopo una scopata appassionata
e mi vieni a parlare d’amore come se fosse una religione.”
“L’amore è una religione,” sentenziò sottolineando il verbo,
“l’unica fede che ci è ancora concessa.”
“Questa me la devi spiegare.”
Non l’avessi mai detto. Lui spense la cicca, scese dal letto e
andò al mobile bar, dove si versò un mezzo bicchiere di cognac.
Poi andò al giradischi e mise su La canzone di Marinella. Proprio la musica appropriata. Indossò una vestaglia, tornò a letto, si
sedette con le gambe incrociate, appoggiò la schiena alla testiera,
e si dispose a tenermi una lezione.
“Viviamo in un mondo senza senso. La vita non ha senso, la
storia non ha senso, la società non ha senso. Dio si è preso gioco
di noi: ci ha dato la ragione solo per farci capire che Lui non
esiste, e quindi che l’esistenza non ha senso.”
“E allora?”
“E allora perché dovremmo arrabattarci a tirare avanti?”
“Dimmelo tu.”
“Per l’amore. Quando amiamo, tutto acquista senso.”
“Com’è possibile, se non per una forma di autoinganno? La
ragione che ci fa capire la morte di Dio, come può farci credere
alla sua verità?”
“L’amore mette a tacere ogni ragione, e ci fa entrare in una
realtà trascendente in cui tutte le assurdità della vita perdono forza. Quando amiamo ci sentiamo trasportati oltre noi stessi. Formiamo con la persona amata una comunità perfetta, la nostra individualità diventa inconcepibile se vista come separata dall’altro.”
Io lo stavo a sentire un po’ turbata e un po’ perplessa. Non riuscivo a capire cosa mi stava dicendo, cosa voleva dirmi. Era
solo una futile disquisizione speculativa, o stava tentando di
rivelarmi qualcosa di vero? L’incertezza mi spinse a interromperlo bruscamente:
“Di cosa stai parlando?”
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“Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?”
“Bellina la citazione minimalista. Il che conferma che stai
facendo della letteratura.”
“No, della filosofia, nel senso più profondo.”
“Tesoro, è un esame che ho già fatto. La conosco la teoria
dell’essere per l’altro.”
“Lascia perdere Hegel. Ho detto filosofia, non teologia.”
Se lo avesse detto stizzito, lo avrei forse preso sul serio. Invece c’era quel sorrisetto sarcastico sulla sua bocca che mi disorientava sempre di più. Fui io a stizzirmi:
“Sto aspettando una risposta. Di cosa parlavi?”
Lui non fece una piega, e scrutandomi con uno sguardo divertito concluse:
“Quando l’altro diventa parte di te e tu di lui, quando riesci a
rapportarti a te stessa come a un noi, allora e solo allora giungiamo a sentire che la vita è degna di essere vissuta.”
Quel sorrisetto non sarebbe bastato a convincermi che stava
celiando. Fu il passaggio dal tu al noi che mi convinse del tutto.
Per cui decisi di tagliare corto:
“Mi sa che mi stai proprio prendendo per il culo.”
“Amore, è questo che mi affascina di te. Tu sei l’incarnazione
del disincanto del mondo.”
“Ah, ecco perché ti piaccio!”
“Questo è solo il fascino intellettuale. C’è dell’altro.”
Seguì una breve sospensione, che a me sembrò lunghissima.
Mi feci attenta, in bilico tra la speranza e il timore. Quale altra
stronzata mi stava preparando? O voleva dichiararmi un sentimento? Non interloquii, aspettando che fosse lui a riprendere il
discorso. Infatti:
“Tu mi piaci”, disse, “perché sei più troia che puttana.”
Restai in silenzio. Avevo voglia di aggredirlo, ma mi controllai. Lui spiegò:
“Fra una puttana e una troia c’è la stessa differenza che corre
fra Lucia Mondella e la monaca di Monza.”
“Adesso sì che è chiaro.”
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“Una puttana è una che usa il proprio corpo come mezzo per
conseguire un fine, il danaro, la protezione, la sicurezza… la
pensione di reversibilità.”
“E una troia?”
“Lo usa come un fine.”
“Aridaje con la filosofia!”
“Beh, mi dispiace ma ora una vera lezione te la devo proprio
fare. Vedi, il tipo della donna-puttana, quale si è affermato nella
cultura occidentale moderna, è un prodotto del cristianesimo.
Nella cultura greco-romana la donna era una cosa, un oggetto
sotto il completo dominio del maschio, poco più che una schiava.
Nell’Antico Testamento si trova la stessa realtà. Il comandamento di Mosè dice: Non desiderare la donna d’altri, né lo schiavo,
né l’asino, né la casa, né il campo. Alla strettissima minoranza di
donne che volevano considerarsi persone, nelle società antiche,
erano aperte solo due vie: quella del sacerdozio, nella quale ci si
liberava uscendo dal mondo, e quella della cultura, in cui si sfidavano i maschi sul loro terreno più elevato, una via temeraria.”
“Già, Saffo, Ipazia…”
“Brava, capisci al volto.”
“E che fece il cristianesimo?”
“Liberò la donna dalla schiavitù facendone un soggetto giuridico, però limitandone le facoltà contrattuali.”
“Che vuol dire?”
“Non la liberò abolendo i diritti di proprietà sul suo corpo,
bensì assegnandoli a lei stessa, insieme alla responsabilità morale
del suo uso. E tra gli usi moralmente leciti non ammise il godimento sessuale. Poteva usare il proprio corpo, ma non per il
proprio piacere. Doveva usarlo con finalità superiori: la riproduzione, la carità, la coesione famigliare…”
“Ho capito. Il cristianesimo ha desessualizzato il corpo della
donna mentre le assegnava il potere di usarlo come un mezzo.
Per questo tutte le donne sono puttane.”
“Esattamente.”
“Dunque mi stavi facendo un complimento quando mi davi
della troia.”
“Si, amore.”
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“Come hai detto?”
“Ora non ti montare la testa. Ciò che volevo dire è che tu sei
una delle poche donne a mia conoscenza che hanno portato a
compimento la rivoluzione morale iniziata da Kant e proseguita
dalle moderne streghe.”
“Insomma il tuo è un amore filosofico.”
“Ti sembra poco?”
50
Giovedì, 16 maggio.
Telefono a Lilli e la invito a cena. Alle otto di sera mi si presenta
a casa. Porta con sé Puffi, un chihuahua tanto brutto quanto
smanceroso. I cani non sono la mia passione. Tra tutte le razze,
poi, questi mostriciattoli in miniatura li trovo insopportabili: più
che di accarezzarli mi verrebbe voglia di acciaccarli. Lilli
invece... si tiene il suo Puffi sotto il braccio come si può portare
una borsetta di pelle pregiata.
Appena lo posa per terra lui mi bagna la moquette. Evidentemente i miei sentimenti sono ricambiati. Meno irritata di me è
la mia gatta la quale, alla vista di quella bestia, dall’alto dello
scaffale su cui sonnecchia fa uno sbuffo di noia e si rimette a
ronfare.
Lilli è completamente partita per il cagnetto. Un giorno abbiamo avuto anche una conversazione semiseria sugli animali
domestici. Io amo le gatte. Ne ho una sensuale e superba, so che
la mia morte non potrebbe sfiorarla e ciò mi rasserena. Si chiama
Elsa, non è di razza pregiata, ma è elegante, col suo manto nero
corvino, il passo flessuoso, le movenze indolenti. Dei gatti mi
piace soprattutto il carattere, la loro indipendenza, direi quasi la
loro indifferenza verso l’uomo. Mi danno l’idea di un assoluto
distacco dalle cose terrene. Se ne stanno per conto loro. Non
danno niente a nessuno e non chiedono niente. Frequentano gli
esseri umani con dignità e con un certo disincanto. Né gli è mai
passata per la mente l’idea di avere un padrone. Sono piuttosto
portata a credere che quello che per noi è un padrone per loro è
solo un incomodo coinquilino. Lo sopportano, a volte con
sufficienza, altre con condiscendenza; gli permettono perfino
delle carezze e, se ci tiene, possono arrivare a fargli le fusa. Ma
sempre senza il minimo coinvolgimento sentimentale. Proprio il
contrario dei cani, con quei loro scodinzolamenti e sculettamenti,
le immonde leccate sulle mani del padrone, i ripetuti atti di
sottomissione, quando si sdraiano per terra a pancia all’aria, quel
loro implorare benevolenza, quando poggiano la testa sulle
ginocchia del padrone per farsi accarezzare, insomma tutta la
loro indecorosa affettività. Credo che il cane sia un animale per
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uomini frustrati, e per una ragione molto semplice: soddisfa il
loro bisogno di padronità, ciò che mi fa riflettere sulle virtù di
Lilli e mi dà una chiave della sua anima.
Dunque: Lilli. Per farsi perdonare della pisciata del cane, e
sembra se lo aspettasse, mi porge una scatola di marron glacé
con un sorriso inverecondo. In cambio s’invita a cena. Questa
leccornia, lei lo sa, mi piace sfacciatamente. Ci sediamo nel salotto rosa e ci divoriamo subito la scatola di dolci.
Dopo di che preparo una cenetta estemporanea, più un brunch
che altro, a base di salmone affumicato, crostini di paté e pinzimonio. Il tutto bagnato con un Morellino del ’79 dal retrogusto di
fragola. Facciamo un po’ all’amore, senza entusiasmo, neanche
da parte sua. Dopo, a letto, chiacchieriamo a lungo. Quando lei
se ne va, è notte fonda.
Ora sono qui sul mio diario, e medito attendendo il mattino.
Lilli, a letto, è precisamente come nella vita, dinamica, efficiente, attiva. Però non è questo il suo meglio. In certi momenti sa
anche essere dolce. Quando le appoggio la testa sul ventre, lei mi
passa le mani tra i capelli e mi parla con la sua voce calda. Mi
dice le parole semplici e affettuose che una madre può dire a una
bambina. Quando si mette a carezzarmi delicatamente, e le sue
mani scivolano leggere sul mio corpo, sento che le forze mi
vengono meno e cado in uno stato di abbandono. Mi rilasso così
a fondo, con lei, sia pur per pochi momenti! Per quei momenti
sarei disposta a pagarla io.
È una strana donna, Lilli. Mi paga per fare l’amore e fa tutto
lei. M’inibisce ogni iniziativa e mi tratta come una cosa da manipolare a sua volontà. A volte riesce a darmi due o tre orgasmi
per notte, e lei mai niente.
“Con te cerco il piacere di dare piacere.” Dice. “Mi sento viva quando ti vedo fremere sotto le mie mani. Quando ti vedo gemere e tremare e scuoterti tutta, mi prende un emozione potente e
mi viene un groppo alla gola. È una specie d’orgasmo di testa.
Con nessun uomo provo una sensazione del genere. E tra le
donne solo con te la provo lancinante a tal punto. Tu sei così
tenera, arrendevole, così malleabile tra le mie mani, che mi sembri un oggetto di mia proprietà in quei momenti, e il tuo orgasmo
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mi sembra mio. So che è anche mestiere, per te. Sei molto brava, lo so. Ma i tuoi orgasmi sono veri. E il fatto di riuscire a
provocarteli pur a dispetto della tua venalità rende ancora più
intenso il mio piacere. O devo credere che sei una donna dall’orgasmo facile? Hai l’orgasmo con tutti i tuoi clienti?”
“Figuriamoci! Con pochissimi. Non crederai mica che faccio
questo mestiere per piacere!”
“Allora perché lo fai?”
“È facile, remunerativo, non faticoso...”
“Insomma, se non piacevole...”
“Vedi, con il corpo che ho, la cultura, l’eleganza e tutto il resto, posso permettermi cose che la puttana media neanche si sogna. Intanto, una parcella salatissima. Poi una clientela selezionata, selezionata nel senso che i miei clienti me li scelgo io. Così
non sono costretta agli straordinari e a pratiche disgustose, e ho
meno rapporti sessuali in un mese di quanti ne ha una sposina
innamorata.”
“Una scelta razionale e meditata...”
“Forse non precisamente una scelta. È venuta da sé. Una volta
facevo la segretaria. Ho cominciato col darla al principale, un
bell’uomo ricco e potente. In seguito ho dovuto fare l’accompagnatrice con qualche cliente della ditta. Qualcuno ci provava,
anzi quasi tutti. Io feci resistenza dapprima. Poi quello stesso
principale mi fece un discorsetto. Be’, i soldi mi piacciono e il
resto puoi immaginarlo. Più avanti mi licenziai da segretaria e
passai a un’agenzia di escort, ma feci presto a capire che mi conveniva mettermi in proprio. Insomma la scelta è venuta naturale,
direi, e ora la vivo come una specie di vocazione.”
“Non ti sei mai innamorata?”
“Dei clienti mai. Prima di cominciare il mestiere sì. Due volte, follemente, e finì con due grosse delusioni. Dopo di che mi
sono proibita di cascarci di nuovo. Si soffre troppo con l’amore.
Quando t’innamori di un uomo ti metti nelle sue mani, ne
diventi la schiava, sia pure felice, e sei disposta a dare tutta te
stessa per lui. La tua vita si risolve in lui, vi trova uno scopo, ne
ottiene un senso. Per lui è diverso. L’uomo ha sempre qualcosa
d’importante da fare. Non può perdersi in una donna. Tu non
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puoi fare a meno di lui e lui ti accetta solo se non intralci il perseguimento dei suoi fini superiori, meglio se lo aiuti a raggiungerli. Tu ti metti nelle sue mani e lui ti usa. Tu ti fai un fine di lui
e lui si fa un mezzo di te. Insomma io ho avuto dei rapporti più
umani con alcuni dei miei clienti che con gli uomini di cui sono
stata innamorata. Con quelli almeno sono sempre me stessa,
appartengo sempre esclusivamente a me stessa. A loro non do
l’anima, gli vendo un servizio. Se dovessi spiegare la mia scelta
in quattro parole, potrei farlo con una frase che non troverai mai
in un bacio Perugina: io non ho bisogno di chiedere a un uomo se
mi ama per sapere che esisto.”
“Questa me la devo scrivere. E con Luciano non era sorto un
amore?” Mi prende di contropiede, non tanto per il sarcasmo
della prima frase quanto per l’improntitudine della seconda.
“Mah?! Con Luciano non ci ho mai capito niente. Lui non era
un cliente qualsiasi, lo riconosco. Avevo un legame speciale con
lui, un rapporto alquanto travagliato. Peraltro era uno dei pochi
uomini che riuscivano a darmi degli orgasmi veri. Dell’amore
avevamo addirittura teorizzato l’inutilità. Ora penso che forse ne
avevamo paura. Il gesto di darmi i soldi prima di entrare nel mio
letto, i primi tempi del nostro rapporto, era una specie di esorcismo. Tant’è vero che, dopo aver deciso di passare al baratto, con
lui che mi dava delle lezioni di filosofia, il nostro interscambio
sembrò diventare meno autentico. Come che sia, devo ammetterlo: alla fine mi sa che mi sono innamorata.”
“Sul serio avevi l’orgasmo con lui?”
“Sì, era molto bravo, tecnicamente. Più che la tecnica, però,
contava l’atteggiamento, quel suo modo di trasformare tutto in
gioco, quella pacata affettuosità.”
“Con me non c’è mai riuscito.” M’interrompe. “Non ho mai
avuto un orgasmo con lui. Certo era piacevole scoparlo. E da me
si faceva proprio scopare, sapeva che mi piaceva così. Mi divertivo con lui. Imparavo anche un sacco di cose…”
“Quali cose?” La conversazione comincia a farsi interessante
e cerco di prenderne le redini.
“Sai che m’interesso di scienze occulte. È una passione
cominciata diversi anni fa, subito dopo la mia entrata in solitu-
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dine. Mi ha preso un po’ per curiosità e un po’ per noia. Col
passare del tempo mi ha assorbito sempre di più e oggi è una
vera missione. Bene, Luciano aveva una conoscenza vastissima
della materia. Aveva studiato su testi antichi, indiani, tibetani,
giapponesi e mi dava consigli di lettura, mi spiegava le cose che
non capivo, mi chiariva il senso di molti simboli, mi rivelava il
significato di certi riti.”
“Luciano credeva a quelle cose, secondo te?”
“Non proprio, almeno non nel senso che pensi tu adesso.
Sosteneva che certe antiche pratiche mistiche contenevano una
saggezza profonda e prefiguravano alcune tecniche delle psicologie umanistiche moderne. Per esempio, lui praticava il training
autogeno, una tecnica di rilassamento psico-fisico e autoipnosi.
Non solo l’aveva sperimentata, ma l’aveva modificata e adattata
ai propri bisogni. Be’, sosteneva che lo yoga non sarebbe altro
che una forma primitiva di training autogeno, una forma molto
contorta, almeno il tipo di yoga giunto fino a noi, soprattutto per
l’ideologia spiritualista di cui era impregnato. Però, trattandosi di
una pratica sperimentata da millenni, sosteneva che avrebbe potuto essere più efficace del training autogeno se si fosse riusciti a
liberarne l’aspetto tecnico dalla sovrastruttura mistico-religiosa.
Lui faceva degli esperimenti anche con lo yoga, e qualcuno lo facevamo insieme.”
“Come il Panchatattva?”
“Il Panchatattva lo praticavamo spesso. È un rito proveniente
dal tantrismo. La filosofia sottostante è sconvolgente per la nostra mentalità occidentale, per una mentalità formatasi sulla matrice religiosa giudaico-cristiana. L’idea di fondo è semplice:
nell’unione che l’uomo e la donna raggiungono al momento
dell’orgasmo si verifica l’unità dei due principi fondamentali
dell’universo, Shiva e Shakti. La gioia dell’orgasmo non è altro
che il segno della raggiunta unione, un’esperienza mistica. La
civiltà ha teso costantemente a diseducare l’uomo e la donna
all’esperienza del sacro, quindi a indurli ad avere orgasmi meno
lunghi e meno intensi possibile. Luciano sosteneva che l’estasi è
un’esperienza sommamente distruttiva dal punto di vista della
convivenza sociale, perché svela il vuoto su cui poggiano tutte
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le certezze umane. Per questo la società ha sempre teso a soffocarla. I monasteri e i manicomi non sarebbero altro che degli
strumenti di ghettizzazione del sacro.”
“Parlami del rito. In cosa consiste?” Non le dico che ne so almeno quanto lei.
“Abbi pazienza, ora ci arrivo. Dunque, il Panchatattva è una
tecnica dell’estasi; una tecnica dell’estasi essenziale, in quanto
interpreta l’illuminazione per quello che veramente è: un orgasmo portato al parossismo. Scarta le umilianti pratiche della sofferenza e della macerazione della carne, e va dritto alla meta
servendosi dello strumento più efficace, il sesso.”
“E siete riusciti a raggiungere l’estasi?”
“Io no, ma non dispero, anche se ora dovrò trovarmi un altro
partner.”
“E Luciano?”
“Lui qualche volta aveva degli orgasmi potenti, che però
considerava dei fallimenti. Cercava qualcos’altro.”
“Avete mai provato la tecnica di Oshima?” Vado al sodo, visto che lei continua a girarci intorno.
“Ehi, vedo che la sai lunga pure tu.”
“L’abbiamo praticata, qualche volta. Lui comunque non mi ha
mai spiegato molto.” Mento. “Ho sempre pensato che fosse una
delle tante tecniche amatorie di cui era esperto, solo un po’ più
rischiosa delle altre.”
“Era una variante del Panchatattva. L’aveva vista in un film di
Oshima. Sosteneva che il regista doveva averla appresa in
qualche bordello tradizionale. In Giappone deve essere stata
praticata da tempi remoti in connessione con delle tecniche
d’illuminazione buddista. Le geishe devono essersela trasmessa
di generazione in generazione. Noi la eseguivamo così. Lui se ne
stava immobile, supino, sotto di me. Si rilassava e si concentrava su un’immagine mentale. Io, sopra, lo cavalcavo come una
Walkiria, col suo pene tutto dentro di me. Cercavo di eccitarlo e
di farlo godere con ogni mezzo. Ma più io mi scatenavo, più lui
si rilassava. E continuava a rilassarsi, finché diveniva un oggetto
completamente passivo nelle mie mani, con il pene, però, sempre
desto. Lo scopo era di aumentare l’eccitazione ritardando
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l’orgasmo. A un certo punto gli mettevo le mani al collo e
cominciavo a stringerlo, gradualmente, costantemente, fino ai
limiti della soffocazione. In questo modo l’afflusso del sangue
al cervello si sarebbe ridotto, il che doveva contribuire a creare le
condizioni fisiologiche dell’estasi.”
“Interessante. Non sapevo che avesse un significato religioso.” Mento di nuovo. “Qualche volta Luciano ha voluto provare
la tecnica con me, per quanto non ne sembrasse particolarmente
entusiasta. Né ha dato mai segni di estasi. Forse con te ha raggiunto quello che cercava.”
“Bah! Di solito finiva con un orgasmo, più o meno potente.
Lui, come ti ho detto, ne restava insoddisfatto. Una volta...”
“Perché insoddisfatto?” la interrompo.
“Perché l’estasi, secondo lui, non è soltanto un orgasmo estremo.”
“E cos’è allora?”
“Uno stato alterato di coscienza. Ma fammi finire. Una volta
accadde un fatto inquietante. La mia stretta intorno al suo collo
durava già da un pezzo, quella sera, e lui non dava segni di vita.
Dopo un po’ mi sembrò che fosse durata troppo a lungo. Così
allentai la presa e scesi da cavallo. Lui niente. Cercai di svegliarlo, pensando si fosse addormentato a forza di rilassarsi. Lui
niente. Lo scossi violentemente, pensando a uno svenimento. Lui
niente. Fui assalita dal terrore. Lui era diventato più bianco di un
lenzuolo e più freddo di un pezzo di marmo. Gli sentii il polso, e
non batteva. A quel punto persi la testa e cominciai a urlare e a
schiaffeggiarlo. Ci fu subito il miracolo. Lui si svegliò di colpo,
si alzò a sedere e mi guardò come se non mi conoscesse. Poi ci
riprendemmo dallo shock, entrambi, e tutto tornò normale.”
“Cos’era stato? Uno sturbo?”
“Lui disse che si trattava di un esperimento riuscito parzialmente. Se fosse successo di nuovo, non avrei dovuto svegliarlo:
si sarebbe svegliato da solo. Un esperimento di catalessi.”
“Stai scherzando?”
“No. Catalessi, un trucchetto da fachiri indiani. Una specie di
morte apparente. Il respiro diventa così debole da essere impercettibile. Il cuore quasi si arresta, con un battito al minuto o giù
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di lì, il corpo simula la morte. Dice che alcuni fachiri si facevano
seppellire in catalessi, restavano nella tomba per diversi giorni e
successivamente, dissepolti a una data prefissata, risorgevano
vivi e vegeti.”
“Luciano si divertiva con queste cose?”
“Le provava. La catalessi, mi aveva detto, era un esperimento
che praticava in solitudine, nella sua casa di campagna. Richiedeva silenzio, concentrazione. Quella non era la prima volta che
gli riusciva. Però era la prima che l’imbroccava in presenza di
qualcuno. Non lo aveva programmato. E non si aspettava che gli
riuscisse con la tecnica di Oshima. Ciò lo preoccupava: significava che non controllava bene la situazione. Ero preoccupata
anch’io. Chi impediva che lo strangolamento, una volta causata
la perdita di conoscenza, non portasse alla morte vera?”
Così, arrivate al dunque, le sfodero a sorpresa la domanda che
covavo sin dall’inizio di questo dialogo surreale:
“Ritieni possibile che Luciano sia stato ucciso in questa maniera l’altra notte?”
Lei ci riflette un po’. Quindi risponde calma:
“È possibile. Ci ho pensato. Ma se è andata così, non sono stata io. Dopo tutto, la tecnica di Oshima Luciano la praticava anche con te e con Lucrezia. Ad ogni modo è un’ipotesi ridicola.
Se ci mettiamo sulla strada delle congetture più fantastiche, potremmo perfino arrivare a credere che Luciano la notte dell’orgia
non sia effettivamente morto, che sia soltanto entrato in catalessi.
No, secondo me è stato un omicidio premeditato, e per motivi
molto concreti.”
Il che ci porta a discutere dei possibili moventi. Le riferisco
dei risultati delle mie indagini: che per nessuno finora sono riuscita a trovare un movente valido; che quelli suggeritimi da lei
per Lucrezia, Gianrico e Silvio non mi convincono. Poi veniamo
a parlare della chiave. Lei è curiosa di sapere cosa me ne ha detto
Giuliano. Per vedere se riesco a stanarla, le rispondo mentendo
spudoratamente. Le dico che Giuliano mi ha parlato della chiave
ma me ne ha rivelato ben poco, consigliandomi di approfondire
proprio con lei. La metto alle corde. Non le dirò niente di ciò che
so, se non mi rivela quello che sa lei su questa cazzo di chiave.
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Facciamo un po’ di schermaglia. Infine conveniamo di procedere nel seguente modo: io riferisco le informazioni in mio
possesso; lei mi dice se sono vere o false.
Attacco subito con una menzogna:
“Giuliano dice che si deve trovare una chiave per risolvere un
certo enigma.”
“Vero.”
“Che è nascosta negli appunti di filosofia di Luciano.”
“Vero.”
“Forse è la chiave di un tesoro.” Lavoro d’intuito.
“Forse.”
“Dunque,” riassumo, “è la chiave di un enigma e di un tesoro,
forse. Già questo mi pare un enigma. Chi ce l’avrebbe questa
chiave?”
“Cosa ne dice Giuliano?”
“Niente, ma mi sembra di aver capito che c’entrerebbe Fabrizio Gledo.”
“Vero.”
“Come fa a entrarci Fabrizio Gledo, se sta in galera da oltre
dieci anni?”
“Magari c’entra proprio per questo.”
“Ti diverti con gli enigmi?”
“Veramente, non posso dirti altro.”
“Perché?”
“Ne va della mia vita. Credimi cara, sto rischiando di brutto.”
Smette di parlare, si alza dal letto e comincia a vestirsi in
silenzio. All’improvviso è diventata frettolosa. Prende la borsetta, tira fuori il libretto degli assegni, ne scrive uno generoso e
lo depone sul comodino. Di Lilli si può dire tutto meno che è una
micragnosa. Sulla porta si prende il cane sotto il braccio, mi
lancia un bacio e se ne va di corsa.
Io resto sdraiata sul divano a riflettere su ciò che lei mi ha
detto di Luciano. Però non sono le tecniche sessuali che mi
appassionano. Presto il pensiero va sui sentimenti. Lilli ha un
grande intuito per queste cose. Ha suggerito che Luciano era
innamorato di me?
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Certo che lui non me l’ha mai dichiarato apertamente. Qualche
volta sembrava volesse dirmelo, ma più con gli occhi che con la
bocca. In certi momenti fissava i suoi nei miei, mentre facevamo
l’amore, con uno sguardo languido così intenso che mi faceva
sciogliere tutta. I corpi si fondevano e le sensazioni diventavano
sentimenti. Dopo, quando ci rilassavamo, subentrava una sorta
d’imbarazzo. Volevo dirgli qualcosa, e non osavo farlo. Lui mi
dava l’impressione di avere lo stesso problema. Era come se le
parole avessero paura di rovinare un incantesimo, come se lo
spirito temesse di contraddire la materia. Quando tornavamo
freddi e razionali, dopo quei momenti, cazzeggiavamo di letteratura romantica.
Una sera mi parlò di uno scrittore americano che si era sposato con la donna del suo migliore amico. Lo scrittore non era
innamorato di lei. Perciò pensava che il matrimonio sarebbe stato
a prova di divorzio. Poi scrisse il racconto di due sposi felici che
si erano giurati castità eterna. Si desideravano alla follia, l’amore
cresceva ogni giorno insieme al desiderio, e questo cresceva tanto più forte quanto meno veniva appagato. Tirarono avanti il loro
menage ascetico per qualche anno, finché un giorno furono incapaci di resistere e cedettero alla tentazione. Quindi si lasciarono.
“Perché mi parli sempre per enigmi?” Gli domandai. “Perché
hai bisogno di nasconderti dietro degli intellettualismi? Cos’è
che vorresti dirmi veramente?”
“Non ti far venire strane idee.” Mi gelò. “La letteratura è una
maschera dietro cui non c’è nulla. Non vuole dire altro che
quello che dice apertamente.”
Eppure ero certa che lui indossava una maschera, almeno con
me, e che con le chiacchiere cercava sempre di nascondermi il
volto che le stava dietro, quel volto ombroso che lui dissimulava
coi lineamenti del nulla.
Tuttavia qualche volta si faceva cogliere di sorpresa, senza
maschera. Allora non avevo dubbi. Una sera, ricordo, si addormentò immediatamente dopo una scopata. Non me la presi
perché lo avevo fatto faticare parecchio. Stetti lì per un po’, con
la testa sulla mano, il gomito puntato sul cuscino, a guardarlo
dormire. Dopo qualche minuto cominciò ad agitarsi. Digrignava i
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denti, mugolava, smaniava, girava la testa di qua e di là. Andò
avanti così per un pezzo. Io non sapevo se era il caso di svegliarlo. Finché lui si svegliò da solo, all’improvviso, scattando a
sedere con un rantolo soffocato. Gli portai un drink ghiacciato e
quando si fu rilassato gli chiesi di raccontarmi l’incubo.
“Ho sognato il mio cane, Cencio. Nel sogno aveva il suo reale
aspetto fisico, ma un carattere molto diverso. Diciamo che non
aveva la sua abituale spavalderia. Era pauroso, e quando incontrava un altro cane, invece di accostarglisi scodinzolando e cercando di annusargli il culo, come fanno tutti i cani che si rispettino, digrignava i denti e ringhiava per tenerlo alla larga. Però se
quello dava qualche minimo segno di reazione aggressiva, lui si
metteva la coda tra le zampe e correva subito a rifugiarsi dietro
di me. Era un problema, perché non riusciva neppure ad avvicinare le cagnette e quando andava in fregola si aggrappava alle
ginocchia delle persone che gli capitavano a portata di zampa e
simulava l’atto sessuale. Anzi non simulava. Per lui era l’unica
vera possibilità di esperienza erotica. Cencio non aveva ancora
capito di essere un cane. Dunque, nel sogno incontrava la tua gatta Elsa e anche in quest’occasione aveva modo di dar mostra
della sua eccentricità. Invece di aggredirla e correrle dietro, le si
avvicinava scodinzolando. Lei, seppure con sussiego, mostrava
qualche segno di confidenza. Le due bestie cominciarono a girarsi intorno, dapprima tenendosi a distanza, poi avvicinandosi cautamente. Io assistevo alla scena ed ero mosso da sentimenti contraddittori, una sorta di contrasto tra ragione e sentimento. Però
ero dominato dall’inquietudine, una sensazione forse ingiustificata, un’ansia incomprensibile che cresceva sempre più man
mano che le due bestie facevano amicizia. Volevo richiamare
Cencio e rompere sul nascere quell’innaturale flirt, mentre la
ragione mi diceva che non ce n’era motivo. Avevo già cominciato a filosofare sul carattere eutopico di un mondo in cui cani e
gatti sono amici, quando all’improvviso, mentre Elsa stava annusando beatamente il culo di Cencio, lui le fece un rapido giro
intorno e le montò sopra. Sfoderò un enorme pene, rosso come
un peperone, e la montò. Lei ci stava, dando segni di godersela
alquanto. Al che, la ragione in me cessò di prevalere. Fui preso
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da un’angoscia incontenibile e corsi verso le due bestie per
dividerle. Ma appena gli misi le mani addosso, loro si separarono
e mi si rivoltarono contro. Ruggivano che sembravano leopardi e
sicuramente mi avrebbero sbranato se non mi fossi svegliato in
tempo.”
Questo era Luciano Vinel, con l’accento sulla e.
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Venerdì, 17 maggio
Monte Giovi è una montagna non alta, però massiccia, che sorge
sopra Firenze in direzione Nord-Nord-Ovest tra le valli della
Sieve e dell’Arno. Dai suoi dorsali arrotondati scendono diverse
piccole valli d’erosione in tutte le direzioni. Nel Medioevo la
montagna era feudo dei conti Guidi e i castelli che la popolavano
furono teatro di diverse battaglie, tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo, quando Firenze lottava per affermare la sua volontà
sul contado. Oggi è un angolo dimenticato della Toscana. Nessuno più la frequenta, nessuno ne parla, nessuno la conosce più.
Lei se ne sta lì, pigra e altera, spregiando il mondo, ad appena
venti chilometri dalla città.
La raggiungiamo in mezz’ora di macchina, io e Giuliano, stamattina presto. Parcheggiamo vicino a Polcanto, in una strada
sterrata tra le fratte. Cominciamo a scalarla verso le sei. Nove ore
abbiamo camminato, tra l’andata e il ritorno, e non abbiamo incontrato anima viva. Eppure non è natura selvaggia. Non puoi
camminare tra i suoi boschi senza imbatterti di tanto in tanto nei
resti di antichi castelli medievali e dimore quattrocentesche. Puoi
incontrare anche qualche casa colonica disabitata ma ancora in
piedi. Qua e là, appena nascosti dal bosco ceduo, s’intravedono
filari di cipressi scuri, ultime vestigia di viali di residenze signorili. I boschi stessi, per quanto selvaggi, si vede che sono stati
fatti oggetto di ripetute attività di devastazione e rimboschimento. Passeggiandovi dentro capisci che qui la natura e la cultura
sono così intricate l’una con l’altra che è difficile parlarne in termini di dialettica.
La passione per la montagna è la cosa che mi piace di più in
Giuliano. Lui ha un modo tutto particolare di andarci in montagna. Si mette lo zaino in spalla e va, con passo costante, metodico, senza guardarsi intorno, come se salisse le scale di una casa. Va su tenace, duro, e apparentemente senza stancarsi. Va su,
pare, per adempiere a un dovere e non si ferma se non in cima.
La prima volta che sono andata in montagna con lui sono rimasta
sconcertata, oltre che stroncata dalla fatica. Non riuscivo a inqua-
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drare il personaggio nell’ambiente. Poi ho capito. Me l’ha spiegato così:
“Non è la montagna in sé che mi affascina, è l’andarci. Ciò
che cerco è l’ascesa, la lotta.”
“La lotta contro la montagna?”
“No, lei e indifferente. La lotta contro me stesso, contro la fatica e il dolore, contro la pigrizia e il disordine. È una lotta tra la
volontà e l’entropia. La conquista della cima è una metafora di
un’altra vittoria. Amo la montagna perché non è gratis e solo con
la violenza si può conquistarla, perché ti impone una disciplina,
con cui educa ed esalta la tua forza.
Pensandoci bene, credo che anche nel mio amore per la natura
c’è una componente di questo tipo. Ciò che più mi piace dell’andare in montagna con Giuliano, però, è la silenziosa lotta che
combatto contro di lui, quando mi metto appiccicata alle sue
costole e salgo su col suo stesso passo, al ritmo del suo respiro,
senza mollarlo un attimo. La sua stima per me è salita alle stelle
appena arrivati in cima, e anche la mia.
La montagna mi mette in pace con me stessa. E quando giungo alla meta mi sento in pace con il mondo. Giuliano lo sa. Ecco perché mi ha invitato all’escursione di oggi. Vuole mettermi
nella migliore disposizione d’animo per chiedermi qualcosa.
In cima al monte, sdraiati sull’erba, stanchi e rilassati, mangiati, bevuti e fumati, parliamo. Innanzitutto della maledetta
chiave, parliamo. Gli dico quel che so. Non ho motivi per nascondere alcunché. A volte mi piace giocare a carte scoperte,
usando la verità quale tecnica d’indagine; cosa che spesso disorienta l’interlocutore più dei sotterfugi. Giuliano si mostra interessatissimo alla faccenda della chiave, soprattutto a capire chi
mi ha dato le informazioni che gli riferisco. Insiste su Lilli. Vuole sapere se lei mi ha parlato della chiave per mia o per sua iniziativa, e se ne ha parlato anche agli altri. Mi tempesta di domande, tutte intorno a questo problema, non tutte a me comprensibili. Lo lascio sfogare, in attesa che venga il mio turno di fare
domande.
Finito il suo interrogatorio, non lo aggredisco subito col mio.
Ci facciamo una scopatina rilassante, lì tra gli alberi sotto un
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venticello tiepido, e gli simulo un orgasmo così convincente che
me lo godo anch’io. Infine attacco:
“Raccontami la seconda puntata della storia di te, Luciano e
Fabrizio, ai tempi del movimento studentesco. Cosa accadde
quando arrivaste a Firenze?”
“Sarebbero altre due, le puntate, ben distinte, due epoche distanti un millennio. Dopo la prima, che va dal ’67 al ’68, ce n’è
una seconda, dal ’69 al ’72, e una terza che abbraccia l’intero ’73
e sbocca nel finale tragico.”
“Che finale?”
“L’avvio del terrorismo, e per Fabrizio l’inizio della fine.”
“Sono tutta orecchi.”
“OK, procediamo con ordine. Partecipammo subito totalmente alla vita del movimento studentesco fiorentino. Non fu solo
politica. Forse proprio non fu politica. Il movimento era sorto
all’improvviso, e se ne stava come un corpo estraneo dentro il
corpo pigro di questa città chiusa e provinciale, arroccata nella
difesa di morte glorie lontane, fuori dal mondo e dal tempo e ancora indecisa se entrare o no nel ventesimo secolo. Noi ci divertivamo a provocarla, e a deridere i fervori della mistica lapiriana.
Ricordo quasi fosse ieri lo scandalo suscitato da quella studentessa che si presentò all’anagrafe insieme a due compagni per
registrare la nascita di un bambino. Pretendeva che fosse dichiarato ufficialmente figlio di entrambi i padri, visto che lei non
sapeva a chi attribuirlo. Quando poi occupammo l’ex ospedale S.
Lucia, in ribellione contro le autorità comunali che non ci davano alloggi, e fondammo la Comune Carlo Marx...”
“Tutto molto bello,” lo interrompo, altrimenti non quaglia,
“ma parlami di voi tre.”
“Bene, noi ci bastò un anno per raggiungere una posizione di
rilievo all’interno del movimento. Nessuno dei tre, come singolo, aveva la stoffa del leader. Insieme eravamo ineluttabili. Diventammo noti come la Setta. Nomi di battaglia: Il Tigre, Il Leone, Il Leopardo.”
“Il Leone era Luciano, suppongo.”
“No, Fabrizio, e io Il Tigre. Luciano era Il Leopardo. Lui era
una specie di eminenza grigia. Non parlava quasi mai alle assem-
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blee e stava sempre vicino a Fabrizio, con cui confabulava continuamente. Fabrizio interveniva spesso, invece. Aveva un parlare
sciolto e vigoroso, ma poco accattivante. Si ergeva sulle assemblee severo come un Savonarola, senza suscitarvi grandi
simpatie. Non aveva un seguito di massa; però si era costruito
una ristretta cerchia di gregari, per mezzo dei quali riusciva a
controllare il movimento. Più che del leader, aveva la stoffa del
boss. I nemici lo chiamavano Don Fabrizio o Don Gledo. I suoi
interventi erano sempre determinanti quando si trattava di correggere una deviazione o di imprimere una svolta alla politica
del movimento. Ad ogni modo la linea la dava Luciano. Era lui
la vera anima occulta del movimento. La sua mente stava dietro a
tutte le decisioni e i documenti teorici importanti.”
“E tu?”
“Io ci mettevo l’organizzazione. Ero il capo del servizio d’ordine. Quando il movimento entrava in azione, nulla accadeva
senza la mia supervisione, si trattasse di distribuire volantini davanti a una fabbrica o di organizzare uno scontro con la polizia.”
“Vivevate nella stessa casa, mi hai detto l’altro giorno.”
“Sì, avevamo un appartamento nel centro storico. Era il covo.
Quattro stanze: una, quella grande, per le riunioni e le feste; tre
più piccole, personali, per dormire, studiare e...”
“Avevate anche il tempo di studiare?”
“Scherzi!? Si studiava da matti! Magari non ciò che volevano i professori, ma si studiava.”
“Perché vi separaste?”
“Così arriviamo subito alla terza puntata.”
“Meglio. Già cominciavo ad annoiarmi. La seconda era meno
bella della prima.” È ben altro che voglio sapere da Giuliano.
“Nel ’72 ci trovavamo ormai nel tratto discendente della parabola. Si era formata una miriade di partitini. Finita la fase magmatica, il movimento assisteva inerte alla propria implosione. I
gruppuscoli lottavano per l’egemonia, mentre si andava perdendo ogni presa sulla realtà sociale. Nello stesso tempo diventava sempre più forte la sensazione che il mondo si accingesse a
schiacciarci. L’azione di sfondamento era fallita e ci si preparava
alla lotta di lunga durata. Però cosa una tale lotta dovesse essere
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nessuno lo capiva bene. Su questo problema cominciammo a
scontrarci duramente nel movimento. Anche la Setta entrò in
crisi. Io e Luciano pensavamo a una lotta di massa che coinvolgesse vasti strati del proletariato. Fabrizio invece sosteneva
che si era entrati in una fase in cui lo stato apparecchiava l’aggressione militare e che quindi bisognava organizzarci militarmente. Per circa un anno continuammo a discutere e litigare. Alla
fine Fabrizio scomparve di scena. Nel corso di quell’anno, a nostra insaputa, si era andato organizzando un suo nucleo d’acciaio.
Quando entrò in clandestinità, capimmo che tutto era finito.”
“Non avete avuto più contatti?”
“Nessuno, fino a due anni fa. Lo beccarono nel 1978. Lui, pur
in galera, continuò nella sua pervicacia. Per sei anni andò avanti
a scrivere documenti, a sbeffeggiare i giudici, a dare direttive, insomma a ignorare la realtà. In seguito, proprio due anni fa,
scrisse una lettera a Luciano. Era infine entrato in crisi. Per farla
breve, si avviò sulla strada della dissociazione. Qualche lettera la
scrisse anche a me, ma con Luciano teneva una corrispondenza
regolare. Con lui aveva un rapporto più profondo.”
“Però la chiave la diede a te.” Cerco di sorprenderlo. Lui infatti ha un sobbalzo.
“Come fai a saperlo?”
“Vedi che sono meno sprovveduta di quanto credi? Basta
collegare i pochi indizi e ragionarci sopra.”
Lui mi guarda con sospetto. Chissà se capisce che sto tirando a indovinare, che ancora non ci ho capito niente, che
lavoro d’istinto? Ah, l’intuito femminile! Dunque ho colpito nel
segno. Cosa ho indovinato? Dunque, questa maledetta chiave
sarebbe stata data da Fabrizio a Giuliano. Che vuol dire? che
c’entra con la morte di Luciano?
“Visto che siamo in tema,” riprende lui, “devo chiederti una
cosa.”
“Sentiamo.”
“Tu hai delle carte di Luciano. So che te le ha date recentemente. Vorrei vederle.” Anche lui gioca di contropiede. Gli
chiedo di spiegarmi che c’entrano quelle carte con tutta la fac-
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cenda, ma senza avere soddisfazione. Alla fine, per trovare una
risposta alla domanda, cedo alla sua insistenza e confesso:
“Sì, è vero. Luciano mi aveva consegnato degli appunti di filosofia. Più che altro era una raccolta di aforismi, schemi concettuali che usava per sviluppare le sue lezioni. Li ho letti e riletti,
capendoci poco e niente. E pensa che due settimane fa, quando
ormai me ne ero dimenticata, lui mi aveva chiesto se li avevo penetrati quegli appunti, cosa ne avevo appreso. Mi aveva interrogato come una scolaretta, e infine mi aveva suggerito di andare a
rileggerli.”
“È proprio il manoscritto che cerco.”
“Da quando in qua ti occupi di filosofia?”
“La filosofia non m’interessa. Ciò che m’interessa è il messaggio che deve essere nascosto in quelle pagine. Vedi, facevamo un gioco nella nostra casa di studenti, io, Luciano e Fabrizio.
Lo chiamavamo il gioco della scienza. In realtà era una specie di
enigmistica. Consisteva in questo. Luciano ci passava dei testi,
brevi riflessioni, aforismi, poesiole e simili. Io e Fabrizio cercavamo di decifrarli. Infatti, al di là del loro significato apparente,
quei testi contenevano un messaggio nascosto, un parola, una
breve frase, che bisognava trovare sciogliendo un enigma. Non
si trattava soltanto di risolvere anagrammi, crittogrammi e simili.
Era un gioco più difficile, poiché bisognava innanzitutto trovare
il codice, la chiave di lettura, e poi usare il codice per risolvere
l’enigma.”
“E perché mai delle noterelle di filosofia scritte quali tracce
per un seminario dovrebbero contenere dei giochetti enigmistici?”
“Intanto, sono convinto che Luciano non li considerava dei
semplici giochetti. Lui pensava che un testo profondo dovesse
aprirsi a diversi livelli di lettura, che qualsiasi prodotto del pensiero contenesse sempre, spesso a dispetto dell’autore, un messaggio essoterico e uno esoterico.”
“Sì, ricordo che mi espose una teoria del genere una volta, ma
per criticarla, credo. Molti che hanno da dire qualcosa che pensano ne valga la pena – diceva – hanno da scrivere tre libri: uno
per molti lettori, uno per pochi, uno per nessuno, cioè per sé
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stessi. Quelli che scrivono più di tre libri ne scrivono di superflui. Alcuni ne scrivono uno e continuano a pubblicarne tanti che
non sono altro che lo stesso rigirato in vari modi. Quelli che ne
scrivono meno di tre, lasciano un’opera incompiuta, salvo gli
eletti che riescono a far stare i tre libri in uno.”
“Sono sicuro che lui voleva tentare la terza strada.”
“Ma sembrava non crederci in quella teoria.” Insisto. “Me ne
parlò in tono beffardo, come per dire: pensa quanto sono scemi
gli scrittori che mirano a delle profondità. E comunque non è la
stessa cosa cui accennavi tu prima. Non si tratta di nascondere
degli enigmi tra le righe. Con tutto ciò,” concludo, “perché la
faccenda dovrebbe interessare te? E che c’entra con la morte di
Luciano?”
“Lasciameli decifrare e te lo dirò.” Insiste.
Mi propone uno scambio. Anche lui ha delle carte di Luciano,
poesie, limerick, pensierini della sera, alcuni di quei vecchi testi
con cui giocavano all’enigmistica. Inoltre ha delle cose di Fabrizio, compresa una poesia che causò all’autore una tremenda litigata politica con Luciano. La sua proposta è di passarmi tutte
queste carte in cambio di quelle che ho io.
Non ho motivo di rifiutare. Gli dico che anche Lilli mi ha
chiesto di dargli quegli appunti. A lei li ho negati, ma a lui li
darò. Però prenderò delle precauzioni. Gli consegnerò un capitolo per volta, passando al successivo soltanto se mi comunica la
soluzione che ha trovato, ammesso che ce ne sia una. Lui
nicchia, più per un proforma che per abbassare il prezzo. La
trattativa va avanti neanche troppo a lungo. Alla fine concordiamo sui seguenti termini. Gli consegno i primi due capitoli del
corso di filosofia. Se trova la soluzione e me la comunica, gli
passerò gli altri due capitoli. Inoltre, in cambio dei primi due lui
mi dà le carte di Fabrizio in suo possesso; in cambio degli ultimi
due, quelle Luciano.
Sono queste che m’interessano di più, le carte di Luciano. Mi
viene in mente la sua scrivania, tutta piena di blocchi note e fogli
sparsi, densi di una scrittura fitta e stortignaccola. Quando la vidi
per la prima volta ne restai sorpresa. Per essere uno che pubblica
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poco, scrive fino troppo, pensai. Fu la notte in cui il nostro
rapporto fece un salto di qualità.
Nel pomeriggio mi aveva telefonato:
“Oggi non posso venire da te,” disse, “ma ho voglia di vederti.
Ci verresti a cena a casa mia?”
Non potevo crederci. Era la prima volta che m’invitava nel
suo covo. Ebbi un tuffo al cuore. Mi controllai e risposi:
“Per cena ho un altro impegno. Se vuoi, posso venire dopo.”
“Magnifico. È anche meglio. Così evito di mettermi a cucinare.”
“Va bene, a più tardi.”
“Senti,” disse rapidamente mentre stavo per riattaccare, “me
lo faresti un piccolo favore?”
“Se posso.”
“Non mettere i pantaloni quando vieni stasera. Metti una
gonna, e sotto… niente mutandine.”
“Figuriamoci! Non ci penso nemmeno!”
Risposi d’istinto. Non ne avevo motivo. Cerco sempre di soddisfare le richieste del cliente. Perché non una tanto infantile?
Ma quella sera stava cambiando qualcosa tra di noi, e cominciò
con un cambiamento delle mie reazioni.
Lui viveva in un antico fienile ristrutturato dall’architettura
elementare: una stanza al piano terra e una al sottotetto. La prima
era un enorme salone che fungeva da soggiorno, cucina e camera
da letto. Il pavimento era in mattonelle di cotto, talmente logore e
spezzettate che inducevano a camminarci sopra con cautela. Le
pareti in pietre grezze di vari colori, tra il beige e il terra di Siena,
avrebbero dato proprio l’impressione di un fienile, o di una stalla, se due di esse non fossero state ricoperte da grandi librerie
svedesi in noce, piene di volumi che dalle costole sembravano
piuttosto antichi. Nella terza parete c’era una fila di elettrodomestici incassati tra muretti di mattoni coperti da una lunga tavola di noce massiccio. Accanto ad essi campeggiava una vecchia credenza contadina di un legno dal colore indefinibile e
grezzamente intagliato. Nella quarta parete c’era un vasto camino
col fuoco acceso, davanti al quale troneggiavano due poltrone e
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un divano in pelle. Il letto, a una piazza e mezza, se ne stava
quasi nascosto in un angolo, tra una libreria e il muro del camino.
“Questa è la mia vera casa.” Spiegò. “Qui vivo in solitudine,
anche se ci sto solo tre o quattro giorni a settimana.”
“E gli altri tre o quattro?”
“A Firenze con la mia ex e mia figlia.”
Stappò la bottiglia di Vernaccia che gli avevo portato, riempì
due coppe e mi fece sedere sul divano accanto a lui. Bevemmo in
silenzio. Lui riempì di nuovo le coppe, svuotò subito la sua e
cominciò a ruzzare. Io non mi sentivo in vena, presa com’ero dal
tentativo di interpretare la stranezza della stanza, di leggerci
segni della sua personalità. Avevo l’impressione che mancava
qualcosa. Lui mi mise una mano su una coscia, mentre io guardavo la legna che bruciava nel camino. Il fuoco produceva un
caldo enfatico, ma l’atmosfera era ancora troppo fredda perché
potessi lasciarmi andare. Quella sera sembrava che il mio corpo
avesse deciso di rinunciare al mestiere.
Lungo la parete sopra il camino saliva in diagonale una scala
dai gradini in pietra serena.
“Dove porta quella scala?” Domandai.
“Nel Sancta Sanctorum.”
“Lo voglio vedere.”
“E io te lo faccio vedere.” Rispose con rattenuta insofferenza.
Mi prese per mano e mi trascinò al piano di sopra. Nell’altra
mano teneva strette la bottiglia e la sua coppa vuota. La mia era
ancora semipiena e me la portai su vuotandola mentre salivo le
scale. Quando arrivammo in cima, lui aprì una porta mezza
sgangherata e accese la luce.
“Oh, Gesù!” Mi salì spontaneo alle labbra.
Era un’altra casa rispetto alla stalla rifinita del piano di sotto.
Il pavimento di cotto s’intravedeva appena, coperto com’era da
una distesa di tappeti persiani. Le pareti erano intonacate e verniciate di un tenue rosa antico. Anche qui due pareti erano interamente rivestite da moderne librerie in noce, elegantissime nelle
loro semplici linee svedesi. Dalla parete di fronte alla porta si
staccava una grande stufa in ceramica di colore bordò ornata di
bassorilievi floreali. Accanto ad essa risaltava una cristalliera con
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i ripiani densi di libri, alta quanto un uomo e larga due. Era impiallacciata di un bois de violette dalle venature amaranto e finemente decorata con intarsi in madreperla e avorio.
“È del Settecento.” Fece lui.
“Non avevo dubbi.”
La parete alla sinistra della porta era arredata da un’altra libreria, ma bassa, così bassa che mi arrivava alla vita. Più in alto era
tutta tappezzata di quadri e stampe antiche. In fondo a questa parete, in posizione obliqua rispetto alla stanza, campeggiava un
largo tavolo ricoperto di libri e delle carte di cui ho detto sopra.
Era dello stesso stile della cristalliera, anch’esso rivestito di
un’impiallacciatura rossiccia e con l’intarsio che correva lungo la
cintura. Le sottili gambe arcuate a piedi di cervo gli davano
un’aria di leggerezza che rasentava l’audacia, a guardare la gran
mole di carta che sostenevano.
Lungo la parete alla destra della porta, addossata alla libreria,
c’era una bassa dormeuse tappezzata di velluto genovese dalle
decorazioni rococò e con la parte in legno intarsiata come il tavolo e la cristalliera.
Ero incantata. Entrai nella stanza con reverenza. Feci una
passeggiata tutto intorno, soffermandomi a guardare le stampe
antiche. Con una mano accarezzai il bordo del tavolo. Poi andai
al centro della stanza e alzai lo sguardo verso l’alto. Tre massicce
travi cesellate dai tarli sorreggevano il tetto a colmo, e dei correnti ugualmente cesellati univano file di pianelle color mattone.
Non c’erano lampadari pendenti dal soffitto. La luce proveniva da quattro faretti sporgenti dagli angoli più alti delle librerie,
oltre che da due piantane troneggianti accanto a due aduste
poltrone a guance en confessional, una davanti al tavolo e una
rincantucciata nell’angolo a fianco della cristalliera. Anch’esse
erano tappezzate in velluto di Genova con motivi rococò.
“È incantevole questa stanza,” dissi, “ma sono perplessa.”
“Lo capisco.”
“La persona che vive qui”, chiarii, “non può essere la stessa
che vive nella sala di sotto.”
“Non finisco mai di sorprenderti, vero?” Nel dir ciò, si riempì
di nuovo la coppa di vino. Si sbracò alla romana sul lit de jour e
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alzando la bottiglia m’invitò ad accostarmi per riempire la mia
coppa. Mi avvicinai a lui ma, non volendo incoraggiarlo, non mi
sedetti sulla dormeuse. Mi accomodai per terra, incrociando le
gambe su un sacro tappeto di preghiera. L’ambiance sofisticata
mi aveva intimidito, il che mi infastidiva. Non sapevo cosa dire.
Anche lui sembrava un po’ imbarazzato. Bevvi un sorso e domandai:
“Ti piace questo vino?”
“È il mio aperitivo preferito. Ci hai azzeccato in pieno. Grazie
del regalo.”
“Figurati! Con tutti quelli che mi hai fatto tu…”
“Quello che ti faccio oggi è speciale: una vecchia edizione
della Stagione all’Inferno…”
“No, basta,” dissi arrabbiata, “non la reggo più questa ipocrisia!”
“Ipocrisia?” Proruppe lui con aria offesa.
“Certo! Quest’abitudine di regalarmi un libro o un disco ogni
volta che scopiamo è un modo apparentemente raffinato di pagare le mie prestazioni, in realtà ipocrita.”
“Se è solo un pagamento, perché sarebbe ipocrita?”
“Perché mi lasci intendere che non è solo un pagamento e così
vellichi la parte molle della mia anima.”
“Cosa che a te non dispiace però.”
“Appunto. E tu ti risparmi delle esose parcelle giocando sulla
mia debolezza.”
“Stai dicendo che hai un debole per me?”
“Eccola di nuovo la tua ipocrisia. Lo sai benissimo che…”
“Non pensavo fosse una cosa tanto grave. Ne vuoi parlare?”
“Come a un confessore? No grazie. Non sei nello stato d’animo giusto.”
“Allora che facciamo?”
“Vabbè, allora facciamo quello per cui stai sbavando.” Posai
la coppa di vino per terra, appoggiai le mani sul tappeto dietro la
schiena e alzai leggermente le gambe, che tenevo incrociate. La
gonna scivolò qualche centimetro giù dalle ginocchia. Alla fine
avevo deciso di fargli il piccolo favore che mi aveva chiesto al
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telefono. Lui ebbe un lampo lubrico negli occhi, mentre guardava
il buio.
“È quando fai così che mi piaci di più.” Disse.
“Quando troieggio, eh?”
“Che c’è di male?”
“Niente, ma quel libro oggi non lo voglio. Me lo regalerai per
il mio compleanno. Oggi niente doni di contraccambio, solo
doni.”
E facemmo l’amore, oh! tristemente! Era come se l’aria fosse
piena di elettricità statica. Gli abiti che ci toglievamo sembrava
volessero restare appiccicati ai corpi. Il silenzio teso dei suoi assalti nutriva il mio silenzio interiore. Avrei voluto darmi da fare,
metterci almeno un po’ di mestiere, però ero paralizzata. Io cercavo i suoi baci e i suoi occhi, lui le mie zone erogene. E più si
dava fare, meno quagliava. Più cercava di accendermi, più mi
spegneva. Alla fine, dopo un lungo saggio di perizia erotica, tanto defatigante quanto inefficace, quasi con stizza mi montò sopra, mi allargò le gambe e mi penetrò. E venne subito.
Fu uno shock per entrambi, sebbene per motivi diversi. Io ero
mortificata. Lui ci tenne a chiarire che era la prima volta che gli
capitava.
“Lo so, scemo! Non ti angustiare. È colpa mia.”
“Tu dici?”
“Io dico, e mi puoi credere.”
Bastarono queste parole per tirarlo su di morale e fargli recuperare tutta l’albagia del suo sarcasmo:
“Sentiamo che dice la psicologa.”
Mi fece imbestialire! Mi venne voglia di ferirlo, e gli risposi a
tono:
“Non la psicologa, la puttana. Pura esperienza professionale.
Molti uomini entrano in ansia di prestazione se la donna non si
eccita. Lo vivono come un fallimento, si sentono incapaci e perdono sicurezza. Non riescono a dominare la situazione. Allora
sentono la fica come una minaccia, una trappola per topi, e cercano di fuggirne prima possibile. Il corpo favorisce la fuga con
un’eiaculazione precoce.”
“Tutto qua?”
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“Sì caro, è un fenomeno molto comune. Tu non sei tanto diverso dagli altri.”
Rinfoderò l’albagia.
“Sarà così.” Concluse.
Si girò dall’altra parte, smucinò tra il mucchio degli abiti lì
vicino, tirò fuori delle sigarette dalla tasca della sua giacca, me
ne offrì una e una se la mise all’angolo della bocca. Fumammo in
silenzio e demmo fondo alla bottiglia di vino. Giacevamo nudi su
un morbido tappeto di lana, guardando il fine lavoro dei tarli
sulle travi. La delusione ci gelava entrambi. Quando dissi che
avevo freddo, si alzò, raccolse i suoi e i miei vestiti, mi prese per
mano e mi portò giù nella stalla. Nel camino c’era ancora un po’
di brace accesa, che emanava un piacevole tepore.
“Non vale la pena riattizzare il fuoco,” disse, “è tardi. Andiamo a nanna.”
Il letto era stretto, ma dormimmo ognuno per conto suo, senza
toccarci. All’alba fui svegliata dallo scoppiettare di un motorino.
Diedi un’occhiata dalla finestra accanto al letto. Luciano stava
rasando l’erba del prato. Guardai l’orologio. Cristo! Erano le sei
e mezzo. Mi alzai e mi vestii. Sul tavolo di cucina c’erano dei
biscotti e una tazza di caffè. Non toccai nulla. Quando uscii
all’aperto fui sferzata dal fresco del mattino primaverile. Il cielo
era tutto una cappa di nuvole e il sole appena sorto sopra le colline di Montalbano riusciva a mala pena a schiarirne una striscia
sottile. Mi soffermai a contemplare l’oleografico panorama bucolico. Campi d’ulivi cinerini scivolavano lungo i declivi. I cipressi
si ergevano scuri sui confini dei poderi. Sparse case coloniche
sonnecchiavano sulle cime dei colli.
Appena mi vide, Luciano spense il tosaerba, mi sorrise e mi
venne incontro. Fece per baciarmi. Gli porsi la guancia.
“Non è stata una gran serata.” Disse sogghignando.
“Mi dispiace,” lo rassicurai, “è stata colpa mia.”
Sì, era stata colpa mia, della mia scriteriata illusione, delle
mie aspettative infantili. Lui naturalmente capì tutto, e sparò:
“Forse è proprio così. Non hai voluto il mio regalo e mi hai
offerto una prestazione commisurata al prezzo.”
“Hai capito tutto.”
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Sabato, 18 maggio
Ho avuto una mezza nottata riposante dopo la passeggiata su
Monte Giovi. La stanchezza mi ha aiutato a rilassarmi. Mi sono
buttata sul letto appena rientrata a casa e sono caduta nel sonno.
Al risveglio ho cercato di non pensare alla tediosa faccenda investigativa e a un certo punto ho perfino creduto di riuscire a liberarmene. Che ci vuole? mi sono detta, basta fregarsene!
Ahimé, troppo semplice! Nel pomeriggio viene a trovarmi
Giuliano, tutto gasato, per comunicarmi la soluzione dell’enigma.
“Sarebbe la chiave della verità?” Domando.
“In un certo senso. Guarda, è nel primo capitolo.”
Tira fuori di tasca quattro dei fogli che gli avevo consegnato,
le fotocopie del primo capitolo degli appunti di Luciano. Il testo
è allegato in appendice per chi è interessato all’enigmistica.
L’avevo letto e riletto con attenzione nei giorni scorsi, se non
altro perché le argomentazioni filosofiche che vi erano sviluppate
mi avevano sconcertato. Così ho voluto sondare l’interpretazione
che ne aveva ricavato Giuliano:
“Che pensi del contenuto teorico del capitolo?”
“Non è altro che una delle tante bravate sovversive di quel genio, un femminismo spinto all’estremo.”
“Il femminismo c’entra poco, credo. Mi sembra piuttosto
l’espressione di quell’eterno sentimento maschile che si può capire scavando nella vita interiore: il sogno di un’universale prostituzione femminile.”
“Cara, stai diventando contorta come il tuo amico del cuore.”
“Che è l’autore di questo capitolo, nel quale ha messo il meglio del proprio pensiero.”
“Non puoi immaginare quanto me ne frega. A me interessa la
chiave che contiene.”
Chiuso l’argomento. Così, dopo aver ridato un’occhiata agli
aforismi, rendo i fogli a Giuliano. Lui, anticipando la mia domanda, fa:
“Ho penato moltissimo per decifrarlo. Ci ho lavorato tutta la
notte. Ho provato decine e decine di codici, e svariate soluzioni,
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alcune quasi sensate. Solo una mi è sembrata soddisfacente.
Vedi? Sono ventisei aforismi. Prendi la quinta lettera del primo
aforisma. Quindi salti al sesto aforisma e prendi anche qui la
quinta lettera. Vai avanti saltando ogni volta cinque aforismi. Il
risultato che ottieni è molto semplice e col senno di poi direi
ovvio: LILLI.”
“Mi pare impossibile che il significato recondito di una pagina
così densa di concetti possa essere trovato in un’unica parola, in
un nome. Che senso ha?”
“Non credere sia stato facile trovarla...”
“Bah!? È una cosa talmente arbitraria! Per esempio, cosa avresti trovato se avessi saltato gli aforismi di quattro in quattro,
invece che di cinque in cinque?”
“Ti assicuro che le ho provate tutte e con pessimi risultati. Ma
alla fine l’ho azzeccata. Ripeto: questa che ti ho esposto è l’unica
soluzione sensata. Guarda? Il primo aforisma dà il codice, o la
chiave, se vuoi. Infatti contiene venticinque parole, che è il
numero degli altri aforismi. Inoltre contiene le tre elle che compaiono in Lilli. Contiene anche venti lettere i. Togli lo zero da
venti, e resta due: le i di Lilli. Il nome Lilli è composto di cinque
lettere. Dividi venticinque per cinque e trovi cinque, che è il
numero di aforismi che devi saltare partendo dal primo. Cinque
inoltre è il numero della posizione della lettera significativa in
ogni aforisma rilevante.”
“Ingegnoso. Però ancora non mi convince. Perché sei andato a
guardare il numero delle lettere elle nel primo aforisma e non,
mettiamo, delle erre o delle esse o altre?”
“L’ho fatto. Ti assicuro che LILLI è l’unica soluzione sensata
che ho trovato.”
“Sarà!?”
“Non fa niente. Non m’interessa che tu ci creda. Per me
questa è la soluzione. Ora però mi raccomando: non dirlo a nessuno. Nessun altro del gruppo dell’orgia deve saperlo oltre noi
due.”
Su ciò insiste molto, tanto da farmi pensare che vuole proprio
ne parli a tutti. Così, appena se ne va mi attacco al telefono. Co-
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sa ho da perdere, visto che non ci capisco niente? E può sempre
darsi che gli altri mi aiutino a capire.
Le reazioni che ottengo sono eterogenee, ma non inattese. Lilli si mostra preoccupata, Lucrezia indifferente. Gianrico e Silvio
sono parecchio interessati.
La natura del mio rapporto con Luciano cambiò radicalmente dopo quella deludente serata a casa sua, anche se ci volle qualche
mese per farci capire a entrambi che era cambiata in meglio.
All’inizio invece pareva che si fosse guastato tutto. Lui non
m’invitò più per un po’ di tempo, anzi neppure mi telefonò per
ben due settimane. Io passavo le sere in attesa degli squilli del
telefono. L’ansia cominciava a crescere nel pomeriggio e non mi
abbandonava fino a notte tarda. Alla fine alzavo la cornetta e lo
chiamavo io, soffocando l’orgoglio e rovinando ogni strategia
d’amore. Erano telefonate brevi. Cercavo di parlare allegra e
noncurante, ma non sapevo cosa dire. Lui rispondeva gentile con
frasi brevi, a volte scherzose. Chiudevo salutandolo con un “ci
vediamo” e tornavo al mio tormento.
Alla fine mi feci coraggio e lo invitai a pranzo per il mio compleanno. Lui si presentò con quel libro che non avevo accettato
due settimane prima. Mangiammo e bevemmo poco, raccontandoci cose insignificanti. Sembravamo due adolescenti invaghiti che si ritrovavano da soli per la prima volta, imbarazzati e
maldestri. Era come se volessimo dirci cose importanti senza
trovare le parole per farlo.
Dopo pranzo sedemmo sul divano a prendere il caffè. Stavamo in punta di culo, rigidi e impettiti. Neppure il disco che cantava wild is the wind on my life riusciva a riscaldare l’atmosfera.
Luciano sorseggiò il caffè pigramente. Quando l’ebbe finito, si
alzò, andò al mobile bar, si versò un abbondante bicchierino di
cognac e tornò al divano. Mi si accostò stretto e mi mise un braccio sulla spalla.
“Versalo anche a me un bicchierino?” Dissi.
Si alzò pazientemente per servirmi. Quando tornò a sedersi, io
mi ero allontanata per cambiare musica. Misi su un disco preso a
caso in mezzo a tanti. Cantava: mi sono innamorato di te perché
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non avevo niente da fare… Ma che sto combinando? – mi sono
detta – io non sono innamorata di lui.
“Sei una spudorata romantica.” Disse.
“E tu sei uno spudorato.”
“E tu sei una fottuta moralista.”
“Ah, questa poi…”
“Sì cara, moralista, e della peggior specie.”
“Perché non mi piacciono i filmini pornografici e le ballerine
che mostrano le chiappe in televisione?”
“Proprio così. È quell’ipocrisia ideologica che si rivela nei
goffi tentativi di far passare per rivolta femminista contro la mercificazione del corpo femminile ciò che invece è solo una pruderie appresa a scuola dalle suore.”
“Lascia stare. È un discorso che abbiamo fatto a uffa. Ti ho
già spiegato che non capisci niente di certe cose.” Avevo deciso
di stroncare sul nascere i suoi assalti filosofici quando miravano
a ferirmi. Così conclusi: “In questo momento non sei in grado di
ragionare. È l’orgoglio ferito della tua foia che parla. Mettiti
l’animo in pace, ché tanto oggi non scopi.”
Seguirono altre due settimane di broncio, di mie telefonate
sprovvedute e di sue battutine scherzose. Stavo male. Non riuscivo a capacitarmi del cambiamento intervenuto nel suo comportamento. Fino a due settimane prima andava tutto a gonfie vele,
passavamo delle lunghe mezze giornate insieme e spesso delle
nottate intere, parlavamo di cose profonde, facevamo l’amore a
meraviglia. All’improvviso si era rotto l’incantesimo. Sentivo
che lo scacco dipendeva da me, e avevo dei rimorsi. Lui rivoltava
il coltello nella piaga, quando gli telefonavo, o scherzando sulla
mia sopravvenuta frigidità o rinfacciandomi un mio presunto
puritanesimo. “Bellina quella gonna da educanda”, mi apostrofò
un giorno, solo perché una volta tanto non mi ero vestita in modo
vistosamente sexy.
Certo che dipendeva da me. Ero io che stavo cambiando. Non
accettavo più il grigiore di un rapporto banale. Cercavo qualcosa
che non capivo cos’era. Non sono innamorata – continuavo a
ripetermi. Per quale motivo ora non volevo che mi toccasse pur
desiderandolo scriteriatamente?
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Un bel pomeriggio, dopo tre settimane che non lo vedevo, lo
andai a trovare a sorpresa nella sua casa di campagna. Era una
splendente giornata di maggio e il sole spalmava luminosità
smeraldine sui campi d’erba. Parcheggiai in una strada sterrata
davanti al cancello di legno che chiudeva il resede dell’abitazione. Tirai il campanaccio e restai in attesa. Nessuna risposta.
Tirai una seconda e una terza volta inutilmente. Infine mi feci
coraggio, spinsi il cancello ed entrai. Andai a bussare alla porta
del fienile, e anche lì rimasi senza risposta. Eppure lui doveva
essere d’attorno, visto che la sua motocicletta era parcheggiata
vicino al cancello. Gli diedi una voce, prima sommessamente,
poi un po’ più forte. Infine gridai il suo nome a squarciagola. Mi
rispose un lontano abbaiare proveniente dall’uliveto. Doveva
essere Cencio, il suo cane da guardia. Mi avviai in quella direzione. A una ventina di metri dalla casa il resede terminava in un
muretto di pietre, oltre il quale il terreno scendeva ripidamente
verso una valletta tutta piena di ulivi. Gridai di nuovo il nome di
Luciano e l’abbaiare si fece risentire dal fondo della valle.
Imboccai un sentiero che scendeva giù scosceso. Dopo qualche minuto di cammino ecco Cencio che mi viene incontro di
corsa, risalendo il sentiero e abbaiando furiosamente. Mi fermai
gelata dalla paura, ma lui appena mi raggiunse cominciò a girarmi intorno con balzi di gioia. Avevamo fatto amicizia nella mia
precedente visita e ora mi aveva riconosciuto. Ricambiai i suoi
festeggiamenti carezzandolo e strapazzandolo un po’. Quindi gli
vociai: “Dov’è Luciano? Portami da Luciano!” Rizzò le orecchie
e subito scattò di corsa lungo il sentiero verso il fondovalle. Lo
seguii quasi di corsa anch’io. Quando lo raggiunsi stava saltellando e abbaiando intorno a un enorme ulivo. Su una branca del
quale svettava Luciano, una mano aggrappata a un ramo, l’altra
che brandiva un seghetto da potatore.
“Ciao amore!” Mi apostrofò. “Questa sì che è una bella sorpresa.”
Non potevo aspettarmi accoglienza migliore. Lui scese
dall’albero con un balzo, mi venne incontro, mi abbracciò e mi
baciò con ardore. Ci sedemmo sull’erba, all’ombra diafana
dell’ulivo. Bevemmo acqua fresca da una borraccia militare. Il
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panorama era intrigantemente idilliaco. Il campo d’ulivi scendeva ancora digradando verso un torrentello in fondo alla valletta
e proseguiva risalendo lieve dall’altra parte del torrente, fino a
terminare ai margini di un’altra collina, di fronte a noi, tutta
selvaggia di un bosco tenebroso.
Luciano mi spiegò che stava finendo la potatura di primavera
e che era in ritardo sui tempi. Ne avrebbe avuto per un’altra settimana almeno.
Ero sorpresa. Non mi aspettavo che fosse entrato così a fondo
nella parte del contadino. Lui puntualizzò che anzi questa era la
parte in cui si divertiva di più. Mi fece una breve lezione sulla
potatura dell’ulivo, come arte e come scienza. Poi m’invitò a
cena per assaggiare il suo olio extravergine.
Rimanemmo a lungo lì, seduti nel verde, a conversare serenamente, mentre Cencio giocava a cacciare lucertole. Quando il
mio uomo si sdraiò per terra lo imitai. Stemmo in silenzio per
qualche minuto, tutti i sensi accesi dalla primavera. Ero sommersa dall’erba alta, invasa da sensuali profumi di fiori e dal lieve
effluvio del sudore di lui. Tenevo le mani coi dorsi in terra, le
palme verso l’alto in muta preghiera. Sentii la mano di Luciano
che si posò su una mia. Gliela strinsi. Avevo una voglia convulsa
di girarmi e saltargli addosso, ma ero paralizzata. Non osavo
manco girarmi verso di lui per guardarlo negli occhi. Neppure lui
si mosse, e restammo così per un po’, mano nella mano, a parlare
in leggerezza di cose futili.
All’imbrunire ci alzammo e ci avviammo verso casa. Mi preparò una cenetta rapida: due hamburger alla piastra e una misticanza condita con un piccante olio d’oliva. Dopo cena mi fece
assaggiare un vinsanto niente male di sua produzione, e proprio
mentre mi stavo rilassando mi comunicò:
“Stasera ti porto a ballare.”
“Magnifico! È un sacco di tempo che non vado in discoteca.”
“Ma che discoteca! Andiamo a La Bolera, nella Casa del Popolo di Montelupo: tango, walzer e foxtrot.”
“Dici sul serio?”
“E certo!”
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“Amore, io non li ho mai ballati e non li so ballare quei balli
là, e il liscio non mi piace.”
“Come fai a dirlo, se non l’hai mai provato?”
“Anche questo è vero.”
“Non ti preoccupare. Sono facili. T’insegno io.”
“Be’, allora non desidero di meglio.”
Arrivammo al dancing verso le nove. C’era un’ampia pista da
ballo e tutto intorno delle poltroncine e dei tavoli bassi. In fondo
alla sala una band di tre persone faceva più chiasso di un’orchestra sinfonica. Una quindicina di coppie ballavano il tango sul
canto sguaiato di un imitatore di Celentano. Un’altra quindicina
di coppie sedevano ai tavoli bevendo chinotti e spume bionde.
Luciano mi spiegò che era ancora presto e che la sala avrebbe
cominciato a riempirsi verso le dieci. Mi aveva portato a
quell’ora in modo da potermi fare lezione senza rischio di essere
presi a calci. Mi afferrò la mano e mi trascinò in pista.
“Il tango è semplice,” disse, “quattro passi: slow, slow, quick,
quick. Tu vai indietro e io avanti. Le figure te le insegno un’altra
sera.”
Tentai, e imparai subito. All’inizio gli pestai i piedi diverse
volte. Poi presi l’abbrivio e cominciai a muovermi trascinata dalla musica. Il ballo successivo era un walzer inglese.
“Questo è un po’ difficile, tre passi: slow di sinistro indietro,
slow di destro laterale, chiusura quick col sinistro. Dopo di che
ricominci col destro indietro e vai laterale a sinistra.”
Provammo. Sotto la sua guida era più facile a farsi che a dirsi.
Poi fu la volta del foxtrot e infine della beguine. M’impegnai a
fondo e dopo un’ora d’inciampi e ginocchiate, già mi muovevo
con una certa armonia. Me lo disse lui e mi gratificò sussurrandomi all’orecchio che ero una ballerina nata.
A mezzanotte la sala si era riempita fino all’inverosimile. Le
coppie si lanciavano nella bolgia e si muovevano seguendo un
flusso circolare in senso antiorario. Le gomitate si sprecavano,
ma nessuno ci faceva caso. Entrare in quella fiumana dava la
sensazione di perdersi in una corrente vorticosa. L’orchestrina
sembrava aver alzato il volume, se possibile. Il ritmo delle can-
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zoni entrava nel corpo e lo governava come le onde di un fiume
un fuscello di legno.
A un certo punto vennero i balli di gruppo, cha cha cha, mambo, hully gully, bachata, tarantella. Era esaltante, tutti i ballerini
stavano allineati che sembravano una compagnia di bersaglieri in
parata. Si agitavano unanimi muovendo piedi e corpi avanti, indietro, a destra, a sinistra. Dava l’impressione di una perdita collettiva d’identità. Avevo voglia di buttarmi nella mischia. Luciano mi dissuase. Disse che lì in mezzo rischiavo di brutto se non
sapevo muovermi. Quei balli me li avrebbe insegnati un’altra
volta.
Ci sedemmo su due poltroncine e ci rilassammo. Mentre sorseggiavo un Martini, mi misi a osservare la gente. Volti tagliati
con l’accetta, occhi illuminati dalla foga, sorrisi sgargianti, corpi
rudi vestiti volgarmente, gli uomini in pantaloni attillati e t-shirt
tese sulle trippe muscolose o camicie con le maniche rivoltate sugli avambracci, le donne con tacchi pretenziosi, calze a rete nere
e scollature arroganti sui forti petti. Età media cinquanta anni.
“Che razza di gente è questa?” Domandai.
“Operai, contadini, artigiani, negozianti, tutti comunisti vecchio stampo.”
“Sono stupefatta. È possibile che un intellettuale raffinato e
anticonformista come te si mescoli a un tale popolo rozzo e incolto?”
“Né rozzo né incolto. Non istruito, certo. Ma hanno la coscienza di classe e una cultura atavica non banale. Qui in mezzo
c’è gente che potrebbe recitarti canti interi della Divina Commedia e commentarteli con cognizione di causa; e qualche vecchio
partigiano che potrebbe spiegarti con acume le contraddizioni
della nostra costituzione repubblicana. Ci sono di quelli che si
dilettano nei certami in ottava rima.”
“Che roba è?”
“Una tradizione popolare toscana. Due contendenti armati di
chitarre si fronteggiano ai capi di un tavolo d’osteria. Gli astanti
gli danno un tema qualsiasi, che so? le corna del sindaco, le
cazzate di Craxi. Loro, accompagnandosi con le chitarre, attaccano a recitare versi improvvisati in rime baciate, intercalando
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un’ottava ciascuno. Il primo verso di una strofa deve rimare con
l’ultimo di quella dell’avversario. Battute salaci, allusioni pesanti, ma sempre musicalmente poetiche. Il pubblico applaude e
incita alla battaglia, si schiera con l’uno o l’altro dei cantori, si
divide in partiti, prosciugando fiaschi e fiaschi di Chianti. Può
durare delle ore.”
Verso l’una la sala cominciò a sfollarsi. Noi restammo ancora
un po’, più a guardare che a ballare. Alla fine solo una dozzina di
coppie giravano stanche nella pista, sempre con quel movimento
circolare che ora dava il senso di un rigoroso ordine gravitazionale.
“Guarda là.” Disse Luciano, mentre sorseggiava il quarto
Martini. Indicò il centro della pista.
C’era una coppia di vecchietti che ballava stretta stretta. Avranno avuto un secolo e mezzo in due. Erano alti, ricurvi l’uno
sull’altra, si muovevano elegantemente con passetti piccoli e aggraziati entro lo spazio di un metro quadrato. Avvinghiati come
due adolescenti che pomiciano, cheek to cheek, non si staccavano neanche nell’intervallo tra una canzone e l’altra.
“Che tenerume!” Dissi, e mi voltai verso Luciano. Gli occhi
gli brillavano di dolcezza. Mi venne quasi da piangere. Lo presi
per mano e lo trascinai al centro della sala, dove ci mettemmo a
imitare i due vecchietti. Facemmo tre balli. Poi l’orchestrina attaccò un cha cha cha. Allora, sempre tenendolo per mano, lo
portai di corsa al guardaroba. Prendemmo le nostre giacche e ci
precipitammo a casa. Quella notte facemmo l’amore col corpo e
l’anima, e non ci addormentammo prima dell’alba.
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Lunedì, 20 maggio
Lilli è stata uccisa ieri sera, il giorno dopo quello in cui ho avuto
l’ultimo colloquio con Giuliano. Ieri il giornale cittadino riportava la notizia in prima pagina:
Assassinata una dipendente della LUFSS
RITI SATANICI IN VILLA STIBBERT?
Sulla scena del delitto le tracce
raccapriccianti di un sacrificio rituale.
In effetti ne ha tutte le caratteristiche. Il corpo è stato ritrovato,
nudo, con una ferita di pugnale nel petto. Era disteso sull’altare
del tempietto egizio di villa Stibbert. Ai polsi e alle caviglie sono
state rilevate delle abrasioni che lasciano supporre la vittima sia
stata legata. La polizia non ha trovato l’arma del delitto, ma ha
avanzato l’ipotesi che potesse provenire dal museo della guerra
ospitato nella dependance della villa. Dal quale museo è stato denunciato il furto di un prezioso pugnale dell’epoca della seconda
crociata. Il museo non è dotato di un efficiente sistema antifurto,
e qualsiasi visitatore può aver asportato il coltello senza correre
troppi rischi. Tanto più che i molti custodi, quando non riescono
a coinvolgere i turisti in una visita guidata per una mancia lauta e
anticipata, se la dormono beatamente. Tutto ciò, in sintesi, riferisce il giornale.
Però è chiaro che un visitatore qualsiasi non va a rubare un
coltello di giorno per usarlo di notte nel giardino prospiciente il
museo. Probabilmente è stato preso la notte stessa. Perciò doveva
trattarsi di qualcuno che aveva le chiavi del museo. Ora, queste
chiavi sono depositate negli uffici dell’università, in villa Fabbricotti, e sono sicuramente accessibili ai presidi e al direttore
amministrativo, cioè a Gianrico, Silvio e Giuliano, oltre che,
probabilmente, a una vasta schiera di dipendenti grandi e piccoli
della LUFSS. Anche Lilli avrebbe potuto impossessarsene facilmente.
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Povera Lilli, ora che è morta la sento più vicina, quasi più
umana. Da viva suscitava in me sentimenti contrastanti, con quei
suoi atteggiamenti maschili, quel modo di fare autoritario, quel
parlare calmo e compassato. Non era nella schiera delle amiche
preferite, se posso considerarla un’amica. Lei aveva scelto una
sua via, nella lotta contro gli uomini, che esigeva grandi rinunce in termini di rispetto di sé. Lei lottava con le loro armi, sul
loro stesso terreno. Riusciva perfino a divertircisi, così almeno
diceva, nel giocare il gioco del potere, ma quanta perfidia, quanta
falsità, quanta miseria doveva respirare ogni giorno. In più doveva sopportare l’ignominia di usare, quali mezzi volti a un fine, le
peculiari qualità che permettono a una donna di farsi strada tra i
maschi supplendo all’handicap di essere femmina. Lo considerava un’arma, il look alteramente sexy della sua figura, un’arma
da usare senza scrupoli e senza pudori, forse perché l’unica di cui
era stata dotata generosamente dalla natura, lei, donna senza arte
né parte, nel gran gioco tra uomini colti e potenti. Alla fine è
dovuta soccombere, chissà se a causa di quel gioco?
Mi domando di cosa aveva paura quando esitava a darmi
informazioni sulla maledetta chiave? Sarà legata a questa faccenda la sua morte? Oppure, più banalmente, si è trattato proprio
di ciò che mostra la scenografia magica? È possibile che infine le
sia stato fatale quel residuo d’ingenuità e, direi, di sincerità
femminile, che si esprimeva nella sua passione per l’occulto e la
stregoneria?
È verosimile che non ci sia alcun legame tra gli omicidi di
Luciano e di Lilli? due fatti avvenuti a distanza di tempo e di
luogo così ravvicinata?
Dunque, facciamo il punto. 8 giorni dopo la morte di Luciano
nella torre del cielo di villa Stibbert, viene uccisa, nel giardino
della stessa villa, una delle persone che sono sospettate del suo
omicidio. È da considerare ancora indiziata? O può essere stata
uccisa dall’assassino di Luciano? Dei cinque individui su cui sto
indagando per quell’omicidio, tre avrebbero un movente, almeno
a quanto diceva Lilli, e sono Lucrezia, Gianrico e Silvio; due no,
Lilli stessa e Giuliano. Uno di questi due ora è morto. Se è stato
ucciso dallo stesso assassino di Luciano, può esserlo stato per lo
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stesso movente. Ciò porterebbe a escludere Gianrico e Silvio, che
avrebbero potuto uccidere Luciano per rancore professionale. Bisognerebbe poi escludere Lucrezia, se può aver ucciso il compagno per puro odio. Perché uccidere anche Lilli? Per gelosia? Per
vendetta?
Mettiamo che non sia valida nessuna di queste ipotesi. Allora
l’assassino potrebbe essere stato Giuliano. Del quale però non
conosco il movente. Può avere a che fare con la maledetta chiave? C’entra veramente la soluzione dell’enigma contenuto negli
appunti di Luciano? Soluzione consistente appunto nel nome di
Lilli?
C’è un’altra possibilità: che l’assassino sia lo stesso, ma il
movente diverso. In tal caso rientrerebbero in gioco i primi tre
indiziati, restando da chiarire il movente per l’omicidio di Lilli. È
possibile che lei sia venuta a conoscenza di qualche prova relativa all’omicidio di Luciano e che la cosa abbia costretto l’assassino a liberarsene? Anche Giuliano può ancora essere sospettato in questo caso. Anzi, direi che la sua colpevolezza non è da
escludere affatto, se non altro perché nessuna delle varie ipotesi
sembra convincente.
Più ci penso, meno ci capisco. Mi sa che non sono tagliata per
fare l’investigatrice. Certo le cose, nella vita, non sono così
semplici come appaiono nei romanzi gialli.
Ora mi tornano alla mente le ottobrate godute scorazzando insieme a Luciano nella campagna toscana! A volte stavamo insieme
delle intere giornate anche durante la settimana lavorativa. Lui
mi veniva a prendere la mattina presto, spesso senza manco una
telefonata di preavviso. Mi costringeva a fare una rapida colazione e a vestirmi di furia. Poi mi trascinava in strada, quasi contro
la mia volontà. Io mi lasciavo forzare di buon grado. S’inforcava
la sua Harley nera e si andava, easy rider. Si correva su stradine
deserte, tra le colline e i boschi, col vento dell’alba che ci
pungeva la pelle mentre il sole sorgeva davanti a noi. Si attraversavano antichi paesini di montagna, tra panorami fuori del
tempo. All’improvviso ci si fermava. Poteva essere davanti a una
chiesetta diroccata o una fatiscente villa antica o un castello in
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rovina. Si smontava, ci si sgranchivano le gambe e si girava intorno al monumento. Lui tirava fuori un libraccio di storia o un
vecchio Baedeker, e si metteva a spiegarmi tutto, la storia del castello o il valore artistico della chiesa, e i fatti che vi erano accaduti.
Quindi si entrava, se possibile, e camminando con reverenza
si cercava qualcosa. Non andava mai al buio, lui. Mi portava davanti a una pala del Quattrocento o una formella dei Della Robbia o un trittico di Mariotto di Nardo o altri incanti del genere, e
m’istruiva. Infine ci si rimetteva in moto. Verso l’una o le due ci
si fermava a una trattoria di campagna e si gustavano i cibi e i vini schietti di questa terra.
Ricordo come fosse ieri quella volta che mi portò a mangiare
alla Gargotta, un ristorante specializzato nella cucina rinascimentale fiorentina. Ne avevo già sentito parlare, ma non avevo
mai avuto occasione di provarlo. La ragione è che si tratta di un
ristorante scarsamente noto, sperduto tra i monti del Mugello, in
un posto che è difficile arrivarci per caso.
Grande fu la mia sorpresa quando Luciano, alla fine della cena, chiese al cameriere di chiamare lo chef, e questi venne e buttò
le braccia al collo del mio amico. Si conoscevano dai tempi del
Sessantotto. In pochi minuti capii ciò che c’era da capire: che si
erano divisi all’epoca del terrorismo, movimento a cui quello
aveva partecipato sin dall’inizio; e per sua fortuna era stato arrestato prima di potersi macchiare di delitti di sangue; così se l’era
cavata con otto anni di carcere, e quando uscì tutto era finito.
Aveva comprato questo ristorante e ora viveva una sua vita appartata tra i fornelli e le biblioteche.
Gli chiesi chiarimenti sulla faccenda biblioteche. Non l’avessi
mai fatto! Si sedé al nostro tavolo, si riempì un bicchiere di vino
e cominciò una conferenza sulla cucina fiorentina che non durò
meno di un’ora. Fu interessantissima, almeno per me, che adoravo questo delizioso campo di ricerca.
Il nostro chef sosteneva che tutta la rinomata e tanto decantata
tradizione culinaria francese discendeva dalla fiorentina, la quale
era stata esportata in quel paese, ancora semibarbaro all’inizio
dell’età moderna, da Caterina dei Medici quando andò in sposa al
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re di Francia Enrico Cazzotorto. Lo chef aveva fatto delle ricerche in alcune antiche biblioteche e aveva ritrovato le ricette
originali di molti piatti francesi. A quel punto si scatenò con gli
esempi. La famosa anatra all’arancia, per dirne una, non sarebbe
altro che il paparo alla melarancia, la cui presenza nelle cucine
nobili fiorentine è documentata già nell’epoca della seconda
crociata. E poi la soupe aux oignons, ah, la meravigliosa zuppa di
cipolle che mi era stata servita come primo! Una versione più
raffinata di quella francese, la sola che lui cucinava, veniva servita alla tavola degli Strozzi sin dal primo Trecento. Il suo nome
fiorentino è Carabaccia. Quella che prepara lui è la vera e originale Carabaccia stilnovista. Qui, manco a dirlo, il mio squisito
conferenziere non seppe resistere alla tentazione di sciorinarmi la
ricetta nei minimi particolari. Io tirai fuori penna e taccuino e mi
misi a scrivere sotto dettatura in religioso silenzio.
“Si pestano un etto di pinoli e un bastoncino di cannella e si
tengono affogati nell’aceto per un’ora. In una terrina di coccio si
scalda un chilo di cipolline affettate sottili. Si tengono a cuocere
nell’olio d’oliva finché non ammorbidiscono, ma bisogna impedire l’indoramento. Al momento opportuno si mescolano i pinoli
cannellati con le cipolle e si amalgama ben benino. Si aggiunge
un cucchiaio di zucchero e un po’ di pepe e sale. Nel frattempo si
è preparato un litro di brodo di carne. Vi si getta dentro l’impasto
di cipolle e pinoli e si fa cuocere per mezz’ora. Infine si versa il
tutto su delle fette di pane casereccio bruscate sulla brace. Servire ancora bollente. Resuscita i morti!”
E così ce l’aveva fatta servire quella sera, accompagnata da un
Sassicaia d’annata che ci aveva esaltato.
Nello scrivere quest’ultima parola mi accorgo che sto divagando un po’ troppo e me ne domando la ragione. Però basta una
rapida riflessione per realizzare che il ricordo dell’incontro con
lo chef brigatista è emerso nella mia mente stasera non del tutto a
sproposito. Infatti, e adesso la cosa mi torna alla memoria molto
bene, maturai la convinzione che Luciano era andato a trovare
l’amico sperduto tra i monti con un intento preciso. Voleva sapere qualcosa di Fabrizio, il comune amico ex terrorista, e disse
all’altro che nessuno meglio di lui, che era stato suo compagno di
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clandestinità e che lo aveva poi incontrato in carcere, nessuno
meglio di lui poteva aiutarlo a togliersi qualche dubbio. Quali
fossero i dubbi non lo capii bene, lì per lì. La loro conversazione
diventò oscura, forse nel goffo tentativo di nascondersi qualcosa
a vicenda pur nell’impegno alla rivelazione. Ma rivelazione di
che?
Un argomento particolare mi fece una certa impressione allora, una confusa impressione che adesso invece, in questo strano
ricordo un po’ insensato, mi sembra si stia schiarendo. A un certo punto i due ex rivoluzionari si misero a parlare di espropri proletari, e Luciano insistette per sapere quando e quanti, soprattutto quanto. Ancora più impressione mi fece il fatto che Luciano fu
tutto ringalluzzito per il resto della giornata.
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QUADERNO 2
Mercoledì, 22 maggio.
Verso Nord, a partire da una specie di confine che passa lungo
Via Vittorio Emanuele, Firenze cessa di essere città e comincia
ad arrampicarsi su per le colline che portano a Fiesole e a Terrarossa. Viuzze strette e contorte, sormontate da alti muri grezzi
o pieni di studiati graffiti, si snodano sulle salite e tra i dossi, irretendo il verde disordinato delle ville e dei giardini. Qui le antiche dimore nobili non si distinguono da quelle della borghesia
recente. C’è uno stile architettonico omogeneo, dalle linee armoniose e semplici, che si è formato nei secoli ed è ormai entrato a
far parte della natura. Perfino le poche case coloniche sopravvissute riverberano un’eleganza rinascimentale fatta di proporzioni
e linearità.
È un’eleganza tuttavia che non sarebbe perfetta se fosse troppo uniforme. Così, qua e là, disseminate a caso, una su cento,
sorgono costruzioni strane, volgari imitazioni di castelli trecenteschi, con i muri di pietra, le terrazze sormontate da schiere di
merli guelfi, le piccionaie che sembrano torri di guardia. Queste
costruzioni, quando si trovano accanto alle normali case dall’architettura elegante e sobria, creano un contrasto forte che disorienta il passante sprovveduto.
Uno di tali contrasti può essere osservato al meglio proprio
nella LUFSS. La Libera Università Fiorentina di Scienze Sociali
fu fondata negli anni ’60 per iniziativa di un magnate locale, che
mise l’idea e un po’ di soldi, e con il sostegno del Comune, che
mise Villa Fabbricotti e Villa Stibbert. Sono, queste, due costruzioni della seconda meta dell’Ottocento che sorgono in cima a
due collinette prospicienti, a ridosso di Via Vittorio Emanuele, e
che riflettono, nella diversità delle loro architetture, gli splendori
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e i contrasti e anche un po’ le miserie intellettuali che il secolo
romantico portò in Italia.
Palazzo Fabbricotti è un inno al Cinquecento, con la sua pianta rettangolare, le cornici sottili che separano i due piani, il movimento del bugnato che ne riveste il primo, le finestre a croce
rinascimentale.
Lo Stibbert invece riflette pesantemente, già nel coacervo di
stili che lo formano, quella tipica espressione della decadenza
estetica italiana che fu il neogotico ottocentesco. L’imitazione
del Trecento domina la scena, con un susseguirsi di bifore e trifore dai vezzi più strani, di terrazze merlate, di archi ogivali e
lanceolati. Belle e assurde sono le due torri di guardia. Quella
quadrata, detta ‘torre della terra’, è bassa e severa. L’altra è esagonale, è snella, audacemente alta e un po’ frivola, con le sue finestre colorate e la corona di merli ghibellini. È chiamata ‘torre
del cielo’, ed è in una saletta alla sua sommità che si tenne l’orgia nefasta.
Il tutto non è sgradevole, e basterebbe quel gioiello della loggetta Cantagalli con le colonnine di ordine composito sormontate
dai graziosi archetti trilobati per capire che non fu il cattivo gusto a formare questo mostro architettonico, ma il genio della trasgressione.
Dalla collina di fronte, a dimostrare che la trasgressività dei
Fabbricotti non fu da meno, una brutta torre merlata, quasi oscena nella sua ottusità, si alza pesante, a soffocarne l’eleganza, sul
palazzo dalle proporzioni rinascimentali.
I giardini delle due ville esprimono lo stesso contrasto. Semplice e ordinato è quello dei Fabbricotti. Un grande viale di cipressi risale la collina con ampi tornanti, dal cancello d’entrata,
giù in Via Vittorio Emanuele, fino al palazzo, in cima alla collina, incrociando una lunga serie di aiuole e di scalinate. A parte i
colori mutevoli delle aiuole, tutto il parco è dominato da una
tonalità di verde scuro che proviene dai pochi tipi di alberi sempreverdi. Cipressi, cedri e lecci si addensano sulla collina a formare una specie di bosco; qua e là s’intromettono ciuffi di palme nane e altre esoticherie che danno vita a varie piccole radure
di un verde irreale. In cima signoreggia un maestoso cedro del
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Libano che si apre a candelabro davanti al palazzo e sembra voler imporre un rispetto aristocratico al giardino benpensante.
Caotico e arzigogolato invece è il parco Stibbert, con la sua
grande varietà di piante consuete, pini silvestri e domestici, cipressi maschi e femmine, lecci, tigli, ippocastani e querce; e il
suo rigoglio di piante rare, corbezzoli di Grecia, cedri dell’Himalaia, sughere e querce rosse, aceri americani e pini neri e cento
tipi di palme. Per non parlare delle mille circonvoluzioni dei viali
e dei vialetti, giù nella valle e intorno al piccolo lago, tra fontane
dalle forme strane, statue dalle espressioni misteriose, grotte,
grottini, tempietti. Infine, ultimo shock per il visitatore impreparato, quella suprema epifania del gusto romantico che è il tempietto egizio, lì in riva al laghetto artificiale, con le sue sfingi di
terracotta e le statue ieratiche che parrebbero voler infine rivelare
il segreto di tutto il giardino, ma restano mute.
Il turista rimane dapprima interdetto, di fronte a certe stranezze, e pensa trattarsi del prezzo che si deve pagare quando una
società è agitata da una dinamica economica troppo rapida rispetto ai ritmi con cui le classi sociali emergenti riescono a elevarsi culturalmente. Però se si ferma e si dà tempo per assimilare lo spirito di questa terra, come credo stia finalmente accadendo a me, capisce di essersi sbagliato nel suo primo giudizio.
Fa parte dell’anima fiorentina il gusto della trasgressione aspra,
del vociare chiassoso, dell’esibizione arrogante; ma si tratta di
una cortina fumogena che serve a velare una superiore cultura
estetica, quasi una superiore eticità, in un atteggiamento d’irrisione verso il resto del mondo. Il fiorentino è così avanti, così
oltre, nell’evoluzione dello spirito umano che gioca il gioco
dell’eleganza con un grado superiore di raffinatezza. E, nel suo
modo di giocare, il kitsch entra quale specifica regola formale
mirata a mostrare la caducità delle regole. La vera eleganza deve
esprimere la personalità, la vera bellezza deve essere unica.
Quindi per ottenerle non basta sapere applicare le regole, è necessario anche saperle trasgredire. La becerata colta è il mezzo
con cui la finezza dei fiorentini cerca di superarsi. Va da sé che si
tratta di un’impresa difficile, proprio come piace a loro. Il segreto, credo di aver capito, sta sempre nelle proporzioni, nel tenta-
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tivo di dare ordine e misura perfino alla trasgressione delle regole. Un fiorentino non si metterebbe mai l’orologio sopra al polsino della camicia.
A questa categoria di persone appartiene Gianrico Delandi, il
preside della facoltà di Economia. Lo vado a trovare durante
l’orario di ricevimento, dato che per telefono si è fatto negare. Mi
fa accomodare su una rozza sedia davanti alla sua scrivania. Io
mi do un’occhiata intorno mentre lui si perde nei convenevoli. La
stanza è piuttosto piccola: – un affogatoio – l’ha definita lui stesso. È arredata con gusto e sobrietà, stile rustico ricercato, diciamo così. Sulla mia sinistra c’è una vecchia credenza logorata dal
tempo, color noce scuro, lucida di usura più che di cera. I ripiani
per le stoviglie sono stati trasformati in scaffali e su di essi sono
ammucchiati libri e scartafacci in magnifico disordine. La scrivania di fronte a me non è una scrivania, ma un tavolaccio di rovere
non meno usurato della credenza. È un tavolo ampio, e le sottili
gambe affusolate lo tengono quasi sospeso a mezz’aria in una
grazia rude. Sul ripiano sono sparsi fogli di quaderno scritti a
mano, alcuni faldoni gonfi di carte e una risma di print-out di
computer. La sedia su cui siede lui è un gran seggiolone impagliato dagli alti braccioli. Tavolo e credenza sono tanto grandi
che occupano un terzo della stanza. Il resto della mobilia si riduce a una vecchia Savonarola di un color cuoio sporco e a una
cassettiera da orefice, adattata a tavolinetto, con diversi piccoli
cassetti di metallo e uno stretto ripiano rivestito di una pelle dello
stesso colore della sedia. In terra, un frusto Kasghai logoro di
passeggiate meditabonde. Poche le suppellettili, tutti i ripiani
disponibili essendo ricoperti di libri. Alle pareti, infine, cinque
stampe di Firenze com’era, che dal colore della carta sembrano
essere piuttosto antiche. Se dicessi che l’arredamento di questa
stanza riflette alla perfezione la personalità del suo abitatore, direi una banalità. Be’, pazienza, ma è proprio così.
Gianrico, da dietro quel suo magnifico tavolo, mantiene le
distanze, pur trattandomi giovialmente. È un uomo di media statura, magro, aitante, col sorriso cordiale e gli occhiali spessi da
balucano. I capelli grigi e le rughe sulla fronte rivelano che si
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avvia alla sessantina; il vestire casual e giovanile, blazer blu e
jeans Armani, che si sforza di resistere.
Il meglio di Gianrico è nel modo di esprimersi. Ha una parlata
forbita, che divaga continuamente tra la frase aulica e il detto popolare, con frequenti intercalari di citazioni erudite. Il lessico,
poi... ah, dà l’impressione di provenire da una lingua fantastica.
È un misto di vernacolo fiorentino e purismo arcaizzante, una vera delizia dell’orecchio e della mente. Insomma Gianrico sembra
un gran cruscheggione. In realtà è un virtuoso di diglossia italofiorentina, e senza l’ingenuità del toscano medio che crede di
parlare italiano quando usa la lingua che gli ha insegnato mamma.
La sua trasgressione odierna è rappresentata da un paio di
calzini di seta bianchi, così corti da coprire appena le caviglie.
Anche lui a volte ci prova con l’eleganza che tende al pacchiano.
Lo aggredisco subito:
“Sto indagando sulla morte di Luciano e di Lilli. Devono
avere a che fare con una certa chiave. Cosa ne sai?”
“Che chiave?” Risponde sorpreso.
“La chiave della verità.”
“Cos’è, un rompicapo?”
“No, è una cosa seria.” Ribatto, dura. “E, tanto per chiarezza,
me ne ha parlato Lilli, che mi ha suggerito di chiedere proprio
a te. Per la precisione, mi ha detto di chiederti se l’hai trovata,
questa chiave della verità.”
“Te l’ha sballata grossa! Ti ha corbellato!” Parla in tono sincero, solo leggermente beffardo, ora. “Tutto quello che so di codesta chiave me lo ha detto giusto Lilli. Non vedo come io possa
rivelarti più di quanto ne sapesse lei.”
“E cosa ti avrebbe detto?”
“L’ho incontrata tre giorni prima del congresso amoroso alla
torre del cielo. Mi aveva cercato lei. Era agitata. Disse che le era
cascato il fiato, che aveva paura. Giuliano sarebbe in possesso di
una certa chiave misteriosa. Lei non sapeva bene a cosa servisse.
Mi accennò a qualcosa tipo un tesoro, da farci un gran lombo, ma
ne parlò in termini di molto ambigui. Disse che per accedervi
bisognava conoscere una certa verità segreta. Inoltre disse che
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c’entrava Fabrizio Gledo, il vecchio compagno di Luciano che
ora è in carcere. La qual cosa puzzava di bottino ed io stetti
guardingo.”
“Perché te ne parlò?”
Non mi risponde subito. Manipola qualche oggetto sulla scrivania, sovrappensiero. Poi riprende:
“Credeva di essere in possesso di una verità pericolosa. Mettendone a conoscenza altri, penso, cercava di procurarsi una sorta di protezione.”
“Cosa voleva precisamente da te?”
“Vallo a capire. All’inizio mi sembravano tutte ciarle. Ho
pensato si trattasse di una delle solite stravaganze di Lilli, con
quelle sue manie per il misterioso e l’occulto, e non le ho dato
punta importanza. Ma ora che lei è morta...”
“Sai se ne parlò anche ad altri?”
“Forse a Silvio. So che andò a trovarlo lo stesso giorno in cui
parlò con me.”
“Non pensi che possa essere Silvio l’assassino?” La domanda
che si aspettava.
“Non so se può aver avuto un movente specifico. Tuttavia è
noto che Silvio odiava Luciano fino allo spasimo.”
“Parlami di questo. A me non è cosa nota.”
“È una storia lunga alquanto. E ora devo andare a lezione.”
Non ho nessuna intenzione di mollarlo. Così lo invito a pranzo da me per farmi raccontare la storia con calma. Lui nicchia un
po’. Lo convinco minacciando di accompagnarlo a lezione. Di
fronte al rischio di farsi vedere in giro a braccetto con me, cede
subito. La lezione è alle undici. Alla mezza lui è a casa mia.
Gianrico è il principale responsabile della mia attuale condizione di vita. Mi disse la parola cruciale nel momento cruciale.
Fu circa cinque anni fa, a Roma, la mia città natale, quando stavo attraversando uno dei miei periodi neri. Avevo cominciato la
professione due anni prima. Dopo un anno già non ce la facevo
più con questo mestiere zozzo, o almeno quello che facevo lì,
nella mia città e in quel modo. Soprattutto odiavo l’idea di dover
andare a letto con chiunque volesse, indipendentemente da ciò
che volevo io. Con l’agenzia non si scherzava: eri un mezzo di
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produzione e non potevi fare troppo la schizzinosa. Odiavo anche, e non meno, l’idea di dover spartire fifty fifty con un’organizzazione che dopo tutto svolgeva solo la funzione di un centralino telefonico. Così decisi di mettermi in proprio.
Fu come passare dall’inferno al purgatorio, se non altro perché potevo selezionarmi i clienti. Il peggio venne dopo, però, dopo il primo anno di libera professione, quando ormai mi ero sistemata per benino. Il lavoro rendeva e, data la qualità della clientela, non era manco troppo sgradevole. No, il peggio venne
quando cominciai a realizzare che non era la parte tecnica del lavoro che mi disturbava di più, né quella economica, bensì qualche altra cosa che non riuscivo a capire cosa fosse. E dire che
non ero certo frenata da remore morali. Anzi, avevo consapevolmente teorizzato la stupidità di certi handicap etici. Non sono il
tipo della puttana che esercita per amore del pappa o, peggio ancora, il tipo che è sempre in attesa del principe azzurro che ti leva
dalla fogna. Tanto meno coltivavo illusioni consolatorie tipo fanciulla-traviata-dall’autolesionismo. Niente di tutto ciò. La mia
era stata una scelta deliberata e meditata. Direi, addirittura, una
scelta indotta da un calcolo razionale di massimizzazione dei
profitti, se posso esprimermi con parole di Gianrico.
Eppure c’era qualcosa che non andava. Proprio quando mi ero
sistemata niente male, mi prese una specie di smania, non dico
angoscia, nemmeno ansia, no, qualcosa di più blando ma più sottile, che sfuggiva al mio controllo razionale. Era forse quella perdita di controllo sui miei stati d’animo che mi disturbava maggiormente. Il sintomo peggiore, ad ogni modo, era che mi annoiavo a morte.
Cercai di uscirne evitando di pensarci. Fu così, credo, che mi
buttai sulla lettura. A scuola non ero mai stata una secchiona e in
italiano avevo sempre studiato il minimo indispensabile per sopravvivere. Avevo fatto le letture di programma, noiose quanto i
professori che ce le propinavano e diseducative in sommo grado.
Perciò fu una sorpresa scoprirmi lettrice accanita. Leggevo solo
narrativa, e di ogni genere. Cominciai con i gialli e la fantascienza, robaccia comprata in edicola a caso. Poi, sulla spinta di quei
libri di carta straccia che a volte i giornali e i grandi settimanali
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vendono a prezzi stracciati per farsi perdonare dai lettori, passai
alla letteratura seria. Infine, quando cominciai a sentire anche il
gusto di avere tra le mani un libro di buona fattura, di palparlo, di
sfogliarlo con delicatezza, di annusare l’odore della carta e
dell’inchiostro, capii la verità. Dice il saggio: libro e puttana
nutrono da tempo immemorabile uno sfortunato amore l’uno per
l’altro. Allora passai dalle edicole alle librerie serie. L’idea di
prendere i libri in prestito in biblioteca non mi è mai passata per
la mente. No, dovevano essere miei. Li compravo con foga, con
furore, e sempre senza logica, alla rinfusa. Ne compravo tre o
quattro per ognuno che ne leggevo, e ne leggevo in media due a
settimana, instancabilmente. Ormai tutto il tempo che non perdevo nel lavoro lo consacravo alla lettura. E i libri si ammucchiavano in pile sbilenche e instabili sui tavoli, le sedie, le poltrone e per terra addosso alle pareti.
Gianrico ne fu colpito. Se ne accorse, un giorno, mentre stava
seduto sul mio letto, la schiena appoggiata alla spalliera, che
cercava di riprendersi da una scopata particolarmente faticosa.
Guardò con meraviglia quei mucchi disordinati di libri. Si alzò e
andò a scartabellare. Con la testa reclinata ora su una spalla ora
sull’altra, cercava di leggere i titoli sulle costole dei miei libri.
Alcuni li prendeva in mano, con due dita, quasi ne fosse schifato;
li osservava bene, poi li rimetteva a posto. Fece tutto in silenzio.
E quella testa inclinata sulla spalla come un punto interrogativo
esprimeva la sua meraviglia meglio di ogni commento.
“Abbiamo una buggerona colta!” Disse.
“No, una che si coltiva.”
“Da sola non ce la fai. Se ci tieni veramente, devi farti coltivare.”
Mi suggerì di iscrivermi all’università. L’idea non mi fece un
grande effetto, lì per lì. Mi piaceva leggere dei bei romanzi e non
credevo che conoscere la storia della letteratura mi avrebbe fatto
aumentare il piacere. Lui disse che non pensava alla facoltà di
Lettere, ma di Sociologia. Mi consigliò quella della LUFSS, che
era, a suo dire, la migliore d’Italia. Sicuramente non quella di
Roma, – sottolineò – che era la peggiore. Mi si accese un lume
nella mente. Per un mese intero non pensai ad altro.
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Allora non me ne resi conto. Invece oggi ho le idee molto
chiare su quali furono i motivi veri che mi resero così allettante
la proposta di Gianrico. Sociologia della LUFSS aveva una gran
pessima fama. Era stata un covo di tremendi rivoluzionari, la matrice di tutte le nefandezze politiche che hanno agitato i sonni
della nostra classe dirigente negli ultimi vent’anni e l’alma mater
dei peggiori maestri di varie generazioni di giovani traviati. Il
che costituiva ai miei occhi una valida ragione per andarci a studiare. Per altro, andare a Sociologia significava andare a Firenze,
la mia città ideale, realizzare uno dei miei sogni d’adolescente,
andare ad abitare nella capitale universale dell’arte e della bellezza. Anche se i sogni adolescenziali li avevo ormai perduti da
tempo, la sola possibilità di realizzare questo che era il più ameno mi fece sussultare l’anima con un conato di romanticismo.
Oggi, ahimé, ho l’impressione che forse si trattava di un rigurgito
di sentimentalismo giovanile. Ma allora no. Sembra un secolo fa.
Allora avevo un sogno che solleticava le parti molli del mio spirito ancora immaturo, le poche che resistevano.
In realtà c’era un altro motivo dietro tutto quel ribollire di fantasie puerili, ed era il vero motivo. Me ne sono resa conto in epoca piuttosto recente, com’è giusto. Andare a Sociologia significava andare via da Roma. Non era tanto l’imbarazzo di esercitare
in una città dove vivevano i miei parenti e i conoscenti più perfidi. No. Era proprio l’idea di lasciare Roma.
Qui non posso fare a meno di spiegare cosa significa per me la
mia città, pur al costo di qualche scivolata nella sociologia. Io sono nata a Centocelle, non un quartiere, non una città nella città:
una dimensione dello spirito. E, nello stesso tempo, molto meno:
quattrocento mila abitanti e non un teatro, non un liceo, non una
biblioteca, non un giardino. Ci ho perduto i miei primi vent’anni.
È stato come vivere nel cuore della barbarie però alle porte della
città più superba del mondo. Il muro di Berlino è un monumento
di civiltà a confronto delle mura aureliane, quelle che separano il
centro di Roma dalla periferia. Tutto ciò che di bello ed elevato
si può immaginare in una città eterna, stava dall’altra parte del
muro. Tutto ciò che di disgustoso si può concepire in una megalopoli da quarto mondo, stava di qua. Roma era un universo,
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meglio di qualsiasi altra capitale universale. Aveva in sé l’intera
gamma delle condizioni di vita di questo turpe mondo, dal Papa a
Mamma Roma. E io l’amavo allo stesso modo in cui un bambino
senza padre può amare una madre mignotta. Volevo stare con lei,
sempre con lei; e lei mi tradiva. Io la desideravo, la cercavo, la
invocavo; e lei mi sfuggiva. Io la sognavo; e lei m’ignorava. Io
stavo dall’altra parte del muro.
Quando si andava al centro si diceva: andiamo a Roma.
Ricordo come fosse ieri quell’estate infernale, quella mia prima
stagione di lavoro, di onesto lavoro, quando, all’età di quindici
anni, mio padre mi trovò un posto di commessa in una panetteria
a Piazza Vittorio. Ero una fanciulla ancora imbevuta di aspirazioni fiabesche, e mi dovevo alzare la mattina alle sei. Prendevo
il tranvetto a Piazza dei Mirti, nell’ora che era pieno fino a scoppiare, pieno di lavoratori dagli sguardi spenti di sonno e di tristezza. Faceva tutta la Casilina dentro la periferia, il tranvetto
grigio, coi suoi tre vagoni da trenino lillipuziano e il fischio sifilitico, una fermata ogni tre minuti. Ci metteva tre quarti d’ora per
arrivare al capolinea della stazione Laziali. Ogni tre minuti gonfiava il suo carico di muratori, bancarellari, posteggiatori. Nel
caldo dell’estate e del pigia pigia, tra una tastata alle chiappe e
una strizzata al petto, i puzzi di aliti e d’ascelle insieme al fumo
delle Alfa e delle Nazionali salivano densi al soffitto come una
nebbiolina greve. Avevo quindici anni e già la vita mi mostrava
il suo meglio.
Dal giorno della mia nascita mio padre aveva deciso che io
non sarei dovuta restare nella sua classe sociale. Avrebbe sostenuto qualsiasi sacrificio pur di farmi studiare fino al diploma
di ragioneria. D’estate però, a cominciare dai quindici anni,
dovevo farmi le mie brave vacanze di lavoro, più con scopi
educativi che per contribuire al pur magro bilancio famigliare:
dovevo capire cosa significa guadagnarsi da vivere con la fatica
del corpo. L’ho capito fin troppo bene, meglio di quanto mio
padre si sarebbe aspettato.
Così, era passato appena un mese da quando Gianrico mi aveva dato il suo consiglio, e già mi trovavo a Firenze ad arredare il
mio piccolo appartamento a Montughi. Per questo dico che Gian-
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rico è il principale responsabile delle mie attuali condizioni di
vita. In realtà lui fu soltanto l’evento scatenante di una catastrofe
spirituale che avevo covato a lungo dentro di me. Ora è chiaro, e
mi rendo conto che forse dovrei provare dei sentimenti di gratitudine nei confronti di Gianrico. Dopo tutto, il cambiamento di vita
a cui mi ha spinto ha rappresentato una sorta di rinascita per me.
Il problema è che non so bene se sono rinata in un corpo migliore o in uno peggiore. Il problema è che, terminato il primo
anno di entusiasmo, con le visite ai musei, ai giardini, ai monumenti e a tutte le altre mirifiche attrattive per turisti, Firenze mi
ha riportato a galla quel confuso miscuglio di sensazioni e sentimenti che le città d’arte finiscono sempre col suscitare in me,
quel senso di convenzionalità e di estraneità, quella specie di
spleen in basso ostinato che mi rende sorda l’anima a ogni rigurgito della vita, le poche volte che se ne dà uno, specialmente
quando butta sull’estetica. E che se fossi rimasta a Roma mi
avrebbe almeno salvato la rudezza del vitalismo borgataro. A
Roma ero un’esclusa; a Firenze sono una sradicata.
Infine questi ultimi fastidi: il coinvolgimento in un thriller
tanto assurdo quanto complicato, in cui non capisco se finirò col
giocare la parte del detective o della vittima; e lo sgomento di
essermi di nuovo innamorata; e di un uomo scomparso; e non
comprendo bene se mi disturba maggiormente l’assenza dell’oggetto o la ricaduta in sé.
Insomma no, proprio non riesco a essere grata a Gianrico per
avermi spinto a cambiare la mia vita. Glielo dico papale papale, e
anche con una certa asprezza, mentre lui, sornione, se ne sta
spaparanzato sul mio divano a sorseggiare vodka e lime.
All’una ci mettiamo a tavola. Gli ho preparato un pasto non
molto leggero: abbacchio al curry, rinfrescato con ananas, seguito da pecorini toscani e bagnato con un denso Chianti. Ce ne
scoliamo una bottiglia, lui tre quarti. Dopo il caffè, il mio pollo è
ben cotto. Forse ho esagerato, e all’inizio fatico a farlo esprimere. Pian piano però si scioglie, il babbione, e comincia a parlare,
dapprima adagio, con la bocca ancora impastata di vino, poi
sempre più lucidamente, specie dopo il caffè. Tuttavia, quando ci
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si avvicina all’argomento che m’interessa, lui si blocca, ci gira
intorno e tergiversa.
“Di quella storia non posso parlare,” dichiara infine, “c’è un
gentleman agreement tra me e Silvio, giuppersù.” Lo dice senza
ironia. “In realtà tutta la comunità scientifica che traffica intorno
alla LUFSS ha steso un pietoso velo sulla pietosa faccenda.
Proprio non posso parlarne. D’altronde a me non piace punto
cianciare.”
Si vede invece che muore dalla voglia. Solo, non sa da che
parte prenderla. Io, appena afferro la cosa, decido di tenerlo sulla
corda. Dato che non vede l’ora di spiattellarmela tutta, deve essere lui a cedere. Così accade, infine. A un tratto mi posa una
mano sulla coscia e mi fa:
“Cara pispolina mia, non potrei ma a te la racconterò. E sai
perché? Perché hai il più bel bel di Roma di Roma e di Firenze.”
“Eh?”
“Il bel di Roma non è solo il Colosseo. È anche altro, la qual
cosa ti spiegherò con le parole usate dal poeta osceno per descrivere il gesto di una buggerona che, quando si china e abbassa giù
la chioma, alza le gruppe e mostra il bel di Roma.”
“Bello! Molto poetico! Ma ora veniamo al dunque. Per quale
motivo Silvio odiava Luciano?”
“Devo dire che era un odio ben meritato.” Attacca. “Il tangano era un uomo esecrabile e sapeva farsi voler male da tutti
nell’universo mondo, specialmente in quello accademico. Aveva
una mania distruttiva e autodistruttiva fuori del comune, il bischeraccio. E aveva deluso molte delle speranze che i colleghi
anziani, me compreso, avevano riposto in lui. Tutti, nella nostra
università avevamo nutrito grande fiducia nelle sue doti intellettuali, tutti c’eravamo aspettati una luminosa carriera scientifica. Invece a tutti lui dava la quadra: non produceva che contributi ipercritici e demolitori e sembrava provasse un gusto sadico ad
abbattere le teorie altrui, tanto più quanto più erano giudicate importanti. Di costruttivo non aveva mai prodotto niente, lo strullo.
Se ci ha rimesso la buccia non può prendersela con altri che con
se stesso.”
“Scriveva poco?”
102
“No, a scrivere scriveva. Aveva sbotrato un ponderoso manuale didattico, nonché una serqua di recensioni. Mai una monografia organica, né un articolo con un contributo creativo. Per
quanto…” E qui si ferma meditabondo. Lo incoraggio:
“Per quanto…”
“Recentemente aveva scritto quegli appunti di filosofia; so
che li ha consegnati giusto a te. Non negare. Lo so per certo. Me
l’ha detto Lilli.”
“Aridaje co’ st’appunti!” Lo provoco in romanesco.
“Vedo che te li hanno già chiesti. Chi? Lilli? E glieli hai
dati?” Mi domanda, con una nota di trepidazione nella voce.
“Decisamente no.”
“Però li hai dati a Giuliano. Perché a lui sì?”
“Me li ha ben ricompensati.”
“A me li daresti? Te li pagherei bene anch’io.”
“Non ci penso nemmeno.” Taglio corto. Lui finge di prenderla
con nonchalance. Gli chiedo di continuare il racconto dei fallimenti accademici di Luciano.
Così ricomincia a spiegare:
“In positivo non ha mai compicciato nulla il nostro. In quella
sua preferenza per i lavori manualistici e divulgativi i colleghi
vedevano una sorta di spregio per l’attività di ricerca vera e propria. Le sue recensioni poi erano sempre piene di veleno. A parte
il manuale, scriveva solo stroncature. Prendeva un grande contributo teorico, possibilmente di uno scienziato famoso, lo smontava pezzo per pezzo e ne mostrava le debolezze. Quando si
sapeva che di un libro stava per uscire una sua recensione, puoi
star certa che all’autore il culo gli faceva lippe lappe. Si era costruita una sua reputazione. I colleghi lo chiamavano ‘il recensore folle’. Lui sosteneva di assolvere una funzione positiva, ché al
progresso della scienza contribuisce di più chi abbatte le verità
ricevute che chi le erige. Era dominato da una sorta di grandigia
intellettuale. Ed era un tipo piccoso: quando si metteva in testa di
dare pugni in cielo non lo fermava nessuno. A volte quest’attitudine veniva usata per sostenere loschi giochi accademici. Se
uno voleva colpire un collega, combriccolava per fargli assegnare
103
Luciano come recensore in una rivista o come discussant a un
congresso.”
“E lui si prestava?”
“A buco a buco. Credo avesse sviluppato una sorta di mania
di grandezza, il fanfano. Era roso dalla voglia di fare grandezzate. Si sentiva un castigo di Dio.”
“È per questo che gli hanno rovinato la carriera?”
“Io dipoi non so se qualcuno abbia voluto rovinargli la carriera. Quel che è certo è che il tangano ha contribuito in maniera
decisiva alla propria rovina. Non si progredisce con i manuali e
le recensioni. Uno potrà pur avere di molti numeri in quanto loico, potrà essere anche geniale, ma se vuole fare carriera deve
avere anche un po’ di gnegnero in zucca, e se vuole essere stimato dai colleghi deve produrre le cose che piacciono a loro. Lui
invece... Credo si fosse lasciato travolgere da una specie di circolo vizioso, in forza del quale la professione rispondeva con
astio alla sua pervicacia critica e lui reagiva corbellando il prossimo e coltivandosi la vocazione distruttiva.”
A questo punto ho un momento di defaillance. Sono distratta,
come se la mente fosse presa da qualcosa che non arriva ad afferrare e, nello sforzo, perdesse concentrazione. Il pranzo è finito
da un pezzo e la digestione è in fase avanzata. Mi viene voglia di
accucciarmi e farmi una pennichella. Per resistere prendo la mia
borsa, ci smucino dentro, ne estraggo un chewing gum, lo scarto
e me lo metto in bocca. Cerco di fare il punto su ciò che mi ha
appena detto il signor preside, ma non riesco a quagliare. Ho un
singolare flashback, l’immagine di Giuliano che prima si mostra
preoccupato quando gli dico che Lilli mi ha rivelato il numero
2919, poi mi chiede se l’ha rivelato anche ai presidi delle due
facoltà. Per associazione mi viene alla mente il suggerimento di
Lilli riguardo ai moventi dei due presidi.
Gianrico si accorge del mio smarrimento. Domanda:
“A cosa stai pensando?”
Cerco di recuperare:
“A Silvio Moscanti. Aveva qualche particolare motivo di astio
nei confronti di Luciano?”
104
“Astio è dir poco. Al vecchio barbagio Luciano ne aveva combinata una delle sue più grosse. Ne aveva compicciate di brutte
anche contro altri che lo avevano aiutato. Perfino a me ne aveva
fatta una barbina, a me che l’ho cresciuto amorevolmente. Ché
lui fa sempre come l’America: la piglia e non rende. Io ad ogni
modo l’ho perdonato, sebbene ancora non mi sia sbollita. Lo
considero tuttora un mio allievo, per quanto degenere. Silvio non
lo perdonò mai invece.”
“Cosa gli aveva fatto di così terribile?” Interrompo, cercando
di troncare le sue tergiversazioni.
“Devi sapere che Silvio aveva vinto la sua cattedra di sociologia con un importante libro su Simmel. Luciano, che si era
laureato con lui proprio su Simmel, aveva intuito che quel libro
non era farina del suo sacco. Si mise a bracare, a fare delle
ricerche, delle vere e proprie indagini poliziesche. Lui ha sempre
avuto la passione per il giallo: sosteneva che l’indagine scientifica ha molto in comune con l’inchiesta poliziesca: la raccolta
d’indizi, le congetture, le verità che non sono mai certezze e via
di seguito.”
“Non divagare, se no facciamo notte.”
“Breve: scoprì che vari anni prima di lui un altro studente si
era laureato con Moscanti su Simmel. Ne cercò la tesi in biblioteca e non la trovò. Questo fatto lo insospettì. Di una tesi di laurea si devono sempre depositare due copie. Se di quella non se ne
trovava punta, era oltremodo probabile che qualcuno l’avesse fatta sparire. Lui non si diede per vinto. Rintracciò l’autore della
tesi e andò a chiedergliela. Ne ottenne addirittura la copia originale manoscritta. Così scoprì quel che sospettava: che il Moscanti era un dottor dell’uggio, che il suo famoso libro era solo una
versione lievemente modificata di un lavoro altrui, di una tesi di
laurea. Il peggio venne dopo. Sai cosa fece il bischeraccio? Senza
dire né ai né bai, andò da un suo amico che lavorava in una casa
editrice di secondo ordine e fece pubblicare la tesi. Fu uno scandalo.”
“Un bel processo per plagio, immagino.”
“Dio mi subissi, no. Niente di tutto ciò. Dal punto di vista legale Silvio era inattaccabile. Esiste una vecchia legge che auto-
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rizza un professore universitario a pubblicare a proprio nome una
tesi di laurea di cui è stato relatore. La ratio è che lo studente è
guidato dal professore e le idee che esprime non possono non essere influenzate dalle ispirazioni di colui. Sia come sia, Moscanti
è uscito dallo scandalo con la reputazione scientifica distrutta.”
“Ma quello studente, se era così bravo, perché non si era fatto
sentire?”
“Forse era timido. Moscanti peraltro gli aveva fatto ottenere
un buon posto al ministero della pubblica istruzione. Certo il poveretto deve aver covato un gran risentimento. Difatti, da quanto
mi ha raccontato Luciano, non gli fu difficile farsi consegnare il
manoscritto originale della tesi.”
Non vengo a sapere altro da Gianrico. Termina il suo racconto verso le cinque e se ne va via di filato e tutto contento. Questa
storia è molto interessante. L’odio di Silvio per Luciano doveva
essere veramente grande. Può essere stato un buon movente per
l’omicidio?
Ma lui, Luciano, era mosso da odio? Sprezzo? Presunzione?
Cos’è che lo spingeva all’insolenza, a oltraggiare un padre amorevole? Non poteva essere solo autolesionismo. Ecco che la mente mi scivola verso il ricordo di lui.
A volte, dopo aver fatto l’amore, rimaneva disteso sul letto,
con gli occhi fissi al soffitto, muto; pareva ascoltare una qualche
musica struggente. Alle mie domande rispondeva con monosillabi, fino a che non mi stancavo. Spesso mi appisolavo e svegliandomi lo ritrovavo là, come lo avevo lasciato, chiuso e inerte.
Raramente in quelle occasioni ero in grado di penetrare nel flusso dei suoi pensieri. Poteva accadere, però, che con un piccolo
inganno o una provocazione riuscivo a distoglierlo dal tenebrore
e indurlo a uno sfogo o a una sparata delle sue. Quando ci riuscivo mi divertivo non poco, perché le sparava veramente grosse.
Un giorno, appena finito di scopare e prima che lui entrasse in
quello stato di abulia, afferrai il telecomando e accesi il televisore che stava sul comò davanti al letto. C’era un servizio sulla
Thatcher e i nuovi conservatori inglesi.
“Mala tempora...” Provocai. Lui abboccò:
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“Stultorum plena sunt omnia.”
“Proprio così: tutt’er monno è monnezza.”
“Ci sono epoche sane ed epoche malate.” Disse con tono tra il
profetico e il beffardo. “Nelle prime gli imbecilli sono costretti al
silenzio. Nelle altre si manifesta quella che potrebbe essere definita ‘stupidità aggressiva’. Nelle epoche come la nostra gli imbecilli si stanno facendo arroganti. Pretendono non solo il diritto
di parola, ma perfino di mettere a tacere gli altri. Presto prenderanno il potere dappertutto.”
“Chi sarebbero gli imbecilli, oggi?” Lo incalzai.
“Il mondo ne è pieno. C’è stata una specie d’invasione aliena
a partire dalla fine degli anni ’70. Dapprima hanno dato vita a
eventi culturali innovativi. In reazione alla ventata rivoluzionaria
d’inizio decennio, s’è scatenata un’ondata controrivoluzionaria
che ha assunto i caratteri del nuovismo. E ogni popolo ha dato il
meglio di sé, secondo le proprie tradizioni. In Francia ci sono stati i nouveau philosophes, in Germania i neopagani, in Inghilterra
i nuovi conservatori, in America i nuovi economisti classici…”
“E in Italia?”
“Cosa poteva produrre l’Italia di peculiarmente nuovo?”
“Non lo so. Dimmelo tu.”
“I nuovi comici. E ti assicuro che non è stata la peggiore di
tutte quelle mode culturali, anzi…” Lasciò in sospeso la frase.
Pareva volesse ricadere in quello stato di abulia. Lo sollecitai:
“Anzi cosa?”
“Direi che l’Italia è in controtendenza, per ora.” Si riprese. “I
nuovi comici cercano di contrastare l’ondata d’imbecillità. Invece tutti quegli altri innovatori si sono mossi sulla cresta dell’onda, così favorendo e quasi legittimando i cambiamenti politici.”
“Dunque noi italiani possiamo considerarci fortunati.”
“Non credo. Spesso i risultati delle azioni vanno oltre le intenzioni. D’altronde i movimenti culturali anticipano quelli politici
e, se i neo-conservatori e i nuovi economisti classici hanno preparato l’avvento di una classe politica reazionaria e ultraliberista,
dobbiamo aspettarci che i nuovi comici precorrano i successi di
una classe politica farsesca.”
“Mi sembra un’estrapolazione un po’ meccanica.”
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“Spero di sbagliarmi, ma se la storia è maestra di…”
“Quale storia?”
“Le pagliacciate di Mussolini non furono precedute da quelle
di Marinetti e D’Annunzio?”
“Non vorrai mica paragonare Benigni e Verdone a Marinetti e
D’Annunzio.”
“Certamente no, è tutto un altro spessore.”
“E allora?”
“Bisogna considerare un secondo processo. A livello macrosociale la domanda crea la propria offerta. Gli attori comici che
graffiano hanno bisogno di un oggetto di derisione, e gli elettori
italiani glielo daranno.”
“Non è l’offerta che crea la domanda?”
“Lascia stare l’economia. Non è la tua materia.”
“E che ci dice l’economista?”
“Che per la legge della tendenza all’intensificazione delle
crisi, una classe d’imbecilli di capacità inusitate sta per erompere
sulla scena politica anche da noi.”
“Chi sarebbero questi nuovi politici?”
“In alcuni paesi sono già andati al potere. Ci sono dei popoli
giovani che credono ancora la religione abbia a che fare con la
purezza della fede. Guarda cosa è accaduto agli americani, che si
stanno facendo governare da un attorucolo fondamentalista. Tra
tali popoli gli imbecilli hanno il coraggio di venire allo scoperto
e di assurgere a maggioranza.”
“Immagino che ti riferisci al partito degli American Idiots.”
“Non solo. Gli americani stanno all’avanguardia.”
“M’interessa di più l’Italia.”
“Nei paesi dove una millenaria dimestichezza con la religione
cattolica ha insegnato alla gente a diffidare delle verità forti, gli
imbecilli hanno difficoltà a conquistare un seguito di massa. Allora si camuffano e si nascondono. Non per questo sono meno
pericolosi. Noi italiani crediamo di essere stati graziati dal cielo,
quando osserviamo che qui i pinzocheri organizzati si riducono
a quei quattro buontemponi di Chierichetti Liberali. Sbagliamo.
Quelli che vengono a galla rappresentano, diciamo così, la coda
di destra della distribuzione di frequenza della stoltezza. Da noi
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gli idioti sono dei virtuosi dell’entrismo, e anche se non arrivano
a raggiungere il potere assoluto, cui pure aspirerebbero, riescono
ugualmente ad appestarti la vita.”
“E chi lo prende il potere?”
“Da noi ci sono i furbi, e ce ne sono più che in ogni altro
paese al mondo. Noi siamo un popolo qualunquista. Penso al
qualunquismo endemico, alla turpitudine di tutta la nostra storia
di gente programmaticamente menefreghista. Nei periodi di normalità questa gente usa gli imbecilli in funzioni ancillari: inquisitori, censori, pubblicitari. Ma al potere ci mette i furbi. Che i
governanti siano corrotti non è un problema, anzi, è garanzia
d’indulgenza. Non sappiamo che farcene di un governo che governa, ne vogliamo uno che ci lasci fare i fatti nostri. In tali epoche gli uomini ragionevoli sono emarginati, tuttavia conservano
il diritto di parola, di critica, di contestazione.”
“E nei periodi di anormalità?”
“Nelle epoche malate gli imbecilli vanno comunque al potere,
occultamente o in modo palese. Il fascismo del ventennio ne è un
esempio, certo un evento patologico ma non per questo singolare,
diciamo: il ricorrente parossismo febbrile di una malattia cronica.
Né è da escludere che fra qualche anno arrivi un’altra montata di
febbre. Quando i furbi si fanno governare dagli imbecilli, le persone ragionevoli sono condannate al silenzio. Gli individui sani
non riescono a dare un senso sociale alle proprie aspirazioni,
nemmeno il senso di una critica radicale. I loro pensieri vengono
deviati e le loro azioni diventano antisociali. Gli uomini stessi,
questi uomini, voglio dire, diventano sempre meno numerosi,
vengono isolati e si trasformano in eroi stendhaliani. O si chiudono in se stessi, nella noia e nella superbia, o esplodono nel
gesto sconsiderato o si riducono a leccarsi le ferite narcisisticamente o si consolano con la risata collettiva.”
“Tu a quale categoria appartieni?”
“Io sono tignoso e cerco di resistere, sebbene la rabbia che mi
tiene su si faccia sempre più debole, sempre più impotente.
Prima o poi ci sarà il crollo, e sento che sarà piuttosto prima,
ormai.”
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Ecce homo: questo era Luciano Vinel. Chissà se il finale della trista orgia non ha rappresentato un naturale epilogo per la sua
vicenda? Chissà? Dipende dalla sincerità che metteva in quegli
sfoghi. E confesso che non sono mai riuscita a capire quanto era
sincero nelle sue sparate. D’altra parte, forse per una salutare forma di autoironia, o forse in ossequio al profilo di scassapalle
crudo e beffardo che si era costruito, lui stesso dava l’impressione di non prendersi troppo sul serio.
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Giovedì, 23 maggio
Oggi tocca a Silvio. Lo vado a trovare nel suo studio di preside e
lo blocco mentre sta chiudendo bottega. Lo convinco a ricevermi dicendogli che ho delle cose importantissime da riferirgli a
proposito della morte di Luciano.
“Quali cose?” Mi aggredisce arcigno, dopo avermi fatto accomodare su una poltrona bassa e avvolgente. Lui mi domina
dall’alto di una splendida sedia Tonet. Siamo nel suo studio di
preside, un ambiente sobrio e asettico, dalle pareti bianche appena movimentate da alcune stampe di antichi velieri. In un angolo
c’è un salottino con due poltrone e un divano.
Seduto di fronte a me, mi fissa negli occhi. Parla adagio, e
non gesticola come invece fa Gianrico. È calmo, composto, sicuro di sé. Gli occhi, lievemente socchiusi, rivelano una cattiveria
controllata. È un uomo alto, dritto sulla schiena fin quasi alla
rigidità, il cranio lucido di calvizie, la bocca impudicamente mobile e sensuale. Un’eleganza stucchevole di doppiopetto gessato
e cravatta a tinte severe ne tradisce le molte pretese signorili svelandone le poche capacità. Non è fiorentino; parrebbe piuttosto
un industrialotto brianzolo arricchito troppo rapidamente, se non
proprio un burino ripulito.
Mi si atteggia sussiegoso, come fa di solito con le persone che
giudica sotto di sé. Sussiegoso sì, ma si vede che è imbarazzato.
A momenti sembra addolcirsi, a momenti si scioglie fino al mellifluo. Quello predominante tuttavia è un atteggiamento di autorevole burbanza. Certo deve considerarmi potente, in qualche
modo, memore del trattamento che gli riservo a letto. Ora però
non mi considera la sua puttana. Anche se non ci riesce bene, si
sforza piuttosto di trattarmi da studentessa. Ciò mi fa riflettere
sul modo in cui molti professori usano la cattedra. Con essa lui
vorrebbe incutermi timore. Senonché io conosco il mestiere e so
trattare i miei polli. Accavallo le gambe mentre lo fisso severamente. So bene come farti abbassare la cresta, vecchio bacucco!
“La cosa importante sarebbe che esistono seri sospetti su di te
riguardo all’omicidio di Luciano.” Sparo.
Lui non fa una piega:
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“Sentiamo.”
“Ho saputo dell’affair Simmel. Mi sembra un movente robusto.”
Stranamente lo vedo rilassarsi. Ne resto interdetta. Forse sono
fuori pista. Lui si avvantaggia della sorpresa e riprende a parlare. Sostiene che se quello è un movente, altre persone che erano
presenti all’orgia ne avrebbero di altrettanto robusti; e che Gianrico, che intuisce essere stato il delatore del misfatto, avrebbe un
movente non meno robusto del suo.
“Se volevi incuriosirmi, ci sei riuscito.” Gli dico. “Dunque ora
raccontami del misfatto di Gianrico.”
Esita ancora un po’. È accigliato, titubante, e sembra volersi
sottrarre al compito che gli ho assegnato. Cerco di incoraggiarlo
facendogli delle moine. Infine acconsente, ma in cambio vuole
una cosa. Vuole niente meno che gli appunti di filosofia di Luciano. Anche lui, come Gianrico, è disposto a pagarmeli. Anche
lui, come Giuliano, mi spiega che in quegli appunti ci sarebbe
nascosta la soluzione di un enigma. Siccome voglio che mi parli
del possibile movente di Gianrico, non gli dico di no. Ma neanche di sì. La vaga speranza in cui lo lascio lo induce alla rivelazione sul preside di Economia:
“Devi sapere che Luciano gli aveva combinato una marachella, diciamo così, simile a quella che aveva combinato a me, anzi
peggio. Gianrico è un economista di fama internazionale. La
sua reputazione poggiava su un modello di commercio estero a
cambi fissi, o qualcosa del genere, elaborato nei primi anni Sessanta. È noto come modello Miller-Delandi. Miller è un economista americano che elaborò una teoria molto simile a quella del
nostro, grosso modo nello stesso periodo. La coincidenza di scoperta non suscitò un grande interesse allora. Esiste una teoria
delle scoperte multiple che è ampiamente accettata dalla comunità scientifica. L’idea è che, quando una nuova teoria è matura,
casca dall’albero della conoscenza e chi c’è sotto la raccoglie.
Può accadere che venga raccolta da più di un ricercatore simultaneamente. Idea abbastanza ovvia, si capisce. Senonché Luciano non sopportava le idee ovvie. Quando cominciò a non sopportare Gianrico, si mise a indagare su questo particolare caso di
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scoperta multipla. C’erano anche delle voci che giravano, a dire
il vero; le quali dicevano che Delandi aveva passato un anno sabatico nell’Università di New York prima di pubblicare la sua
scoperta; e che proprio in quell’università insegnava Miller. Bene, Luciano partì per l’America e lì cominciò a indagare, scartabellare, intervistare. Alla fine scoprì che le idee essenziali del
modello Miller-Delandi erano state presentate dall’americano a
un seminario precisamente nell’anno in cui Delandi spendeva a
New York il suo congedo. Tornato in Europa, Luciano parlò del
fattaccio in un convegno. Diede i riferimenti necessari per rintracciare le minute di quel seminario nella biblioteca dell’Università di New York, oltre all’elenco dei partecipanti, Delandi
incluso. Lui era presente al convegno. Quando tutti gli sguardi gli
si riversarono addosso, non mosse ciglio. Si limitò a fissare
Luciano come guardando nel vuoto. E una cosa fu immediatamente chiara a ognuno di noi: che la carriera di Luciano come
economista era terminata. Io credo che ci fosse del masochismo
spirituale, una forma di autolesionismo, nel comportamento di
quel cane, pace all’anima sua. Non solo fece delle boiate di questo genere, ma le fece alle persone che lo sostenevano e che gli
dimostravano amicizia.”
“Delandi gli era amico?”
“Direi di più. Gli era un padre. Gli aveva dato una borsa di
studio, gli faceva pubblicità tra i colleghi. Per tutti Luciano era il
suo allievo prediletto. Tutti si aspettavano una carriera rapida e
brillante: era molto intelligente, se non geniale, e aveva alle spalle il potente Delandi. Così la bravata fu interpretata come uno
sputare nel piatto in cui mangi, capisci? Ma era peggio: una pugnalata alle spalle di un padre che ti accudisce premurosamente.”
“Parli bene tu …”
“Lasciamo perdere... Comunque, sì, ne fece altre di boiate,
compresa quella che fece a me. Nessuno è riuscito mai a capire
il comportamento accademico di Luciano. Forse la spiegazione è
semplice: lui era uno che non sa stare al mondo. Con il sottoscritto, dire che si comportò da traditore è dir poco. Quando fu
cacciato dal dipartimento di Economia, venne a piangere da me.
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Sì, perché dopo si rendeva conto dell’idiozia compiuta. Io dirigevo il dipartimento di Scienze Sociali all’epoca. Lo accolsi a
braccia aperte, se non altro per fare un dispetto a Gianrico. Lo riorientai verso la sociologia e lo mandai alla Sorbona, da dove
tornò tre anni dopo con un dottorato in Scienze Umane.”
“Luciano aveva una laurea in economia e una in sociologia?”
“No, una in economia e due in sociologia.”
“E io che pensavo fosse un filosofo!”
“Nessuno può dire cosa fosse precisamente Luciano, cosa
credeva di essere, chi credeva di essere. In realtà era una bestia.
Insomma, lo avevo appena avviato a una brillante carriera di sociologo, che lui mi pugnalò alle spalle, anche me!”
“E fu cacciato dal dipartimento di Scienze Sociali.”
“Era il minimo. Non mi vergogno di riconoscerlo: ho desiderato la sua morte, e ora che è morto non piango. Ma non l’ho
ucciso io.”
“Poi che successe? Quando lasciò Sociologia, dico.”
“Cominciò un turbinio di migrazioni da un dipartimento
all’altro. Se li è fatti tutti, compreso quello di Metodi Matematici. Cacciarlo dall’università non si poteva: era assistente di ruolo.
Rifiutargli l’afferenza a un dipartimento di sua scelta non si poteva: era un diritto. Però nessuno era obbligato ad amarlo e a rendergli la vita facile.”
“Secondo te”, lo interrompo bruscamente, “potrebbe essere
stato Gianrico ad ammazzarlo?”
“No, secondo me non è la pista giusta.”
“Quale pensi che sia la pista giusta?”
“Vallo a capire!”
“Potrebbe entrarci la chiave della verità?” Dico, sottolineando
la parola ‘chiave’. Stavolta lo sorprendo.
“Ehi! Vedo che la sai più lunga di quanto sembra!”
“Allora, che cosa sai della chiave?” Lo incalzo.
Così comincia un gioco a rimpiattino, fatto di caute domande
e battute spiritose, che non approda a nulla e che non starò a riferire. Va avanti un bel pezzo. Dopo di che decido di cambiare
tattica. Trascino il mio uomo su una poltrona e gli zompo in
braccio. Puttaneggio un po’, lo provoco, lo vezzeggio. Lui è
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molto sensibile a questo gioco. Basta mettergli una mano su una
coscia per fargli perdere la testa. Anche qui, per amore di brevità,
non starò a descrivere la scena.
Ad ogni modo, per restare a quel che conta, senza che lui se
ne accorga riesco a strappargli qualche conferma. In particolare
tre. Prima: si tratterebbe della chiave di un enigma da risolvere.
Seconda: potrebbe trovarsi nascosta nei famigerati appunti di filosofia. Terza: nella faccenda sarebbero implicati pure Fabrizio e
Giuliano, i due ex compagni di lotta di Luciano. Non riesco a sapere altro. Lui, forse credendo di avermi detto troppo, si alza bruscamente, si ricompone e mi congeda con garbo.
Sembra proprio un enigma.
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Venerdì, 24 maggio.
Spinta da un impulso irresistibile, stamani decido di prendermi
un giorno di vacanza per ritemprarmi lo spirito. Andrò a spasso
per la città, a zonzo coi sensi accesi tra le viuzze, i canti e le
piazzette del quartiere Diladdarno.
La prima visita la faccio in chiesa, dove mi fermo un quarto
d’ora in contemplazione della Cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre. Poi esco su Piazza del Carmine e mi riempio il
cuore di ardore mistico di fronte alla facciata nuda della cattedrale. Capisco che oggi è giornata di meditazione sul tema dell’amore eterno e del peccato. Così tonificata, imbocco Via Santa Monaca e mi avvio verso Via Maggio, la vera meta del pellegrinaggio odierno.
Al Canto della Cuculia mi fermo in un negozietto di libri usati, più uno stracciarolo che una libreria. Su un lungo tavolaccio
tarlato c’è un mucchio di volumi sfuggiti al macero. Sembra che
sono stati gettati lì a palate. Non ci perdo meno di mezz’ora a rovistare tra quelle pagine polverose, ci pesco qualche chicca e me
ne esco soddisfatta con lo zainetto pieno della riserva mensile di
letture. Un isolato più avanti c’è una libreria antiquaria internazionale. Sosto davanti alla vetrina ad ammirare preziosi esemplari d’incunaboli e cinquecentine venete, e una stupenda incisione
del 1732 con veduta panoramica di Firenze, ma resisto alla tentazione di entrare. Non è tanto una questione di prezzo, anzi oggi
ho deciso di darmi alle spese folli, quanto l’impazienza, ché sento impellente l’attrazione di Via Maggio lì vicino.
Nella strada più romantica del mondo spicca la casa di Bianca
Cappello, la nobildonna veneziana fuggita con l’amante dallo
scandalo che aveva suscitato nella sua città, per venire ad accenderne uno non meno scellerato nella città di Dante. Leggo la storia su una guida ai misteri di Firenze regalatami da Luciano, che
aveva piegato un’orecchia sulla pagina dedicata alla tragica vicenda.
Un giorno che il Granduca Francesco I passeggiava per la via,
lei gli gettò una rosa dalla finestra. Lui alzò lo sguardo e fu amore a prima vista. Dopodiché, le sue assidue passeggiate tra palaz-
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zo Pitti e Via Maggio, attraverso quello che era il quartiere a luci
rosse della città, oltre al furore della Granduchessa suscitarono
anche le ire del cardinal Ferdinando. Costui gridava allo scandalo
più che per il peccato di pubblico concubinato, per le eretiche
pratiche sessuali a cui si diceva che i due amanti si dedicavano.
Si applicavano alla ricerca della pietra filosofale tramite l’unione
di mercurio e zolfo, cioè le essenze femminile e maschile della
materia spirituale. Peraltro Ferdinando era il fratello di Francesco
e il legittimo aspirante alla successione al trono, visto che la consorte del Granduca non riusciva a dargli un erede.
L’erede glielo diede la concubina, ma il bastardo non poteva
vantare alcun titolo di legittimità. Quando la Granduchessa si decise a mettere al mondo un vero principe, ebbe una serie di colpi
di sfortuna. Poverina! Il bambino morì a cinque anni e poco dopo
morì anche lei in circostanze misteriose.
Bianca e Francesco si affrettarono a convolare a nozze. Poverini anche loro! Avevano appena coronato il sogno di regolarizzare con una pubblica cerimonia il matrimonio alchemico, quando morirono entrambi in circostanze non meno misteriose: undici
giorni di agonia con terribili mal di pancia, dopo essere stati a
cena dal cardinale. Il medico ufficiale accertò una normalissima
morte per ‘malaria perniciosa’ e Ferdinando salì al trono, affrettandosi a punire le malelingue e i propalatori di sospetti. Ma la
storia non perdona. Recentemente le viscere di Francesco sono
state riesumate e analizzate da alcuni ricercatori dell’università di
Firenze, che le hanno trovate piene di arsenico. La morale della
favola sarebbe forse piaciuta a Luciano: non c’è crimine che tenga di fronte al tribunale della scienza.
Più avanti, in fondo a Via Maggio, c’è Casa Guidi, dove hanno vissuto Elisabeth Barrett e Robert Browning, fuggiti anch’essi
dalla patria per lo scandalo suscitato dalla loro relazione amorosa. A Firenze condussero una vita appartata, la famigliola al
completo col figlioletto Pen e il cane Ash. Scrivevano poesie e
monologhi sotto l’ispirazione che saliva dalle stradine puzzolenti
e gloriose. Ricevevano visite di rari amici letterati, con cui parlavano di poesia e fate ambigue, magia e mattinate fiorentine.
Qui lei aveva scritto poesie deliziose in cui esprimeva un amore
117
quasi mistico per l’uomo della sua vita. Qui aveva partecipato
con il cuore e la mente alla causa del risorgimento italiano,
auspicando il riscatto delle donne attraverso una partecipazione
attiva alle lotte politiche. Qui infine morì, dopo quasi tre lustri di
felicità, qui nella sua seconda a più amata patria, l’anno della
dichiarazione dell’unità. Robert, da parte sua, aveva scritto poemi esoterici, storie di anime travagliate e vite di alchimisti che
per conquistare la verità avevano rinunciato all’amore e che per
questo avevano fallito. Ebbe il triste destino di sopravvivere a
Elisabeth per ben ventotto anni.
In un ermetico sermone impartitomi durante una delle nostre
conversazioni arcane, Luciano mi aveva spiegato che il poeta tornò in Inghilterra per dare la dovuta istruzione anglosassone al figlio, ma soprattutto per compiere una missione segreta affidatagli nientemeno che dal colonnello Stibbert; però quando giunse
la sua ora Robert non poté fare a meno di venire e morire in Italia.
Trattenendo una lacrima di commozione, chiudo il libro e
decido di sfogarmi nello shopping. Imbocco lo Sdrucciolo, faccio
pochi passi su un marciapiede in secolare rovina e svolto in Via
Toscanella. Alzo la testa a rimirare i muri fatiscenti delle abitazioni popolari, un ammasso di cubi e parallelepipedi addossati
l’uno all’altro, con l’aria solenne di vecchi guerrieri superstiti di
mille battaglie, le facciate di un caldo beige scalcinato ingentilite
da briosi rosai. Non è immaginabile come sia possibile che edifici così poveri e scarni siano tanto eleganti, tanto pregni di rigorosa perfezione geometrica.
Incrocio Via Sguazza, da cui si gode uno scorcio sui graffiti
misteriosi del palazzo di Bianca Cappello, poi Via dei Velluti,
Via dei Vellutini, Via dello Sprone, ed ecco Piazza della Passera.
Resisto alla tentazione di sfogliare il libro di Luciano per trovare
l’origine della lasciva denominazione. D’altronde questo era il
cuore del quartiere a luci rosse ai tempi di Francesco I. Mi siedo
al caffè degli Artigiani, mi riposo un po’ e mi rinfresco con un
calice di Vernaccia. Poi mi alzo e mi avvio finalmente all’orgia
consumistica che avevo programmato.
118
La prima visita è a un’antica seteria. L’avevo progettata da
tempo, ma solo ora mi sono decisa a farla. Imbocco lo Sprone,
passo davanti ai luoghi in cui vissero Guicciardini e Machiavelli
e mi perdo in un dedalo di vicoli, finché mi ritrovo davanti al
cancello chiuso di una villa cinquecentesca. Suono il campanello
e aspetto qualche minuto. Mi viene ad aprire un signore di mezza
età dall’aria burbera, che mi si presenta come il maneggere della
ditta.
“Il che?”
“La parola da cui deriva ‘manager’. Noi restiamo fedeli all’originale.”
“Che vuol dire?”
“Viene da ‘maneggio’, la gestione dei cavalli con cui la ditta
trasportava merci in tutta Europa.”
Mi fa strada lungo un viottolo di ghiaia che si snoda tra aiuole
ben coltivate e disseminate di statue misteriose e bizzarri vasi di
terracotta, oltre che di palchetti su cui sono stese matasse di seta
ad asciugare al sole. Giunti davanti a un edificio dalla facciata
austera, mi apre il portone, si scosta e mi fa entrare con un
inchino. Il primo impatto è una raffica di sensazioni violente, un
forte profumo di non so che e un’inondazione di colori vivaci.
L’uno e l’altra provengono dalle stoffe stese sulle pareti e ammucchiate sui tavoli, stoffe incredibili, dai nomi dimenticati. Il
maneggere me le illustra, facendomele accarezzare coi polpastrelli: velluti Medici, ermesini Pitti, damaschi Frescobaldi, broccatelli Strozzi. Mi spiega che oggigiorno si usano più per gli
arredamenti che per gli abiti, salvo le provocazioni di qualche
stilista originale.
“Mi domando come riuscite a fare affari, se è così difficile
trovare questo posto?”
“Noi non produciamo per i turisti giapponesi di passaggio.
Abbiamo una clientela internazionale, cui vendiamo su ordinazione. E non abbiamo concorrenza, perché siamo gli unici al
mondo a produrre stoffe così particolari.”
“È possibile che qualche multinazionale giapponese non vi
abbia imitato?”
119
“È possibile perché i macchinari e i procedimenti che usiamo
sono ancora quelli dei nostri antenati.”
Da dietro una porticina in fondo al negozio mi giunge il rumore di telai al lavoro. Chiedo se posso visitare il laboratorio. La
sua prima risposta è categorica: proibito dalle norme di sicurezza. Allora gli sfodero il più timido dei miei sorrisi troieschi, una
malia a cui non ho trovato nessun uomo capace di resistere. Infatti lo vedo quasi sbiancare. Ed è per celare un leggero tremito
delle labbra che mi risponde subito con un:
“Beh, che gusto c’è ad avere le regole se non si possono fare
le eccezioni?”
Il laboratorio è un salone rettangolare pieno di un’aria umida e
calda e del frastuono di macchinari di legno e di ferro. Una
dozzina di operaie di diverse età lavorano con estrema concentrazione; lavoratrici specializzare che si sono trasmesse il
mestiere di madre in figlia, spiega la mia guida. Poi mi mostra i
pezzi forti della fabbrica-museo, tutti ancora in funzione: un
orditoio settecentesco costruito su disegno di Leonardo, un telaio
del Seicento adibito alla produzione di frange e galloni, e la
macchina più moderna del laboratorio, un orditoio semimeccanico Benninger del 1872.
Tornati nella sala d’esposizione, non sto a perdere tempo.
Ordino subito tre metri di un meraviglioso damasco a fiorami
fucsia che avevo adocchiato appena entrata. Lo userò per ingentilire il verde muffa del mio divano Frau. Mi lascio tentare anche
da una specie di arazzo dalla figurazione rievocante bellezze
botticelliane. Vi aggiungo otto metri di fine ermesino color avorio con cui voglio rifare le tende della mia stanza da letto. Infine
poso gli occhi su un foulard rosso più delicato di un velo da sposa, che ottengo come omaggio della ditta. Consegno un biglietto
da visita con l’indirizzo a cui spedire la merce, insieme a un assegno dalla cifra smodata. Me ne vado appagata, non prima di
aver incoraggiato il maneggere a fare la consegna di persona.
Alle undici e mezzo sono di nuovo in strada. Mi devo affrettare, ché la prossima visita è su appuntamento e l’ho prenotata
per mezzogiorno.
120
Percorro i Lungarni Torriggiani e Serristori e giungo a San
Niccolò. Qui, al piano attico di un palazzo del Trecento, c’è la
profumeria più esclusiva del mondo. Il maestro profumiere mi
accoglie affabilmente e mi fa accomodare in un salotto con vista
mozzafiato sulla città. Dopo qualche convenevole chiama una
commessa, che giunge con un carrello pieno di boccette dalle
forme esotiche. Il maestro ne prende alcune, le apre e me le fa
annusare, illustrandomene i valori spirituali. C’è Alamut, estratto
da tutti i fiori delle Mille e una notte, c’è Dilmun, essenza di
paradisi mesopotamici, e poi Incensi, l’incanto della regina degli
alberi, e Piper Nigrum, che porta l’odore del vento sulle carovane orientali delle spezie.
Lo interrompo gentilmente, spiegandogli che non sono venuta
per acquistare uno dei suoi pur meravigliosi profumi standard.
Mi hanno detto che lui ne crea di personalizzati.
Il suo contegno cambia immediatamente. Con un cenno licenzia la commessa. Si distende sulla poltrona, incrocia le mani sul
ventre e mi esamina con uno sguardo intenso che sembra volermi
penetrare l’anima.
Riavvia la conversazione con tutt’altro tono. Ora si è fatto meno cordiale ma più intimo. Mi spiega che un profumo personale è
un’opera d’arte. Non faccio questione di prezzo, sta per dirgli la
mia anima borgatara. Per fortuna mi trattengo. Lui, dopo aver
insistito sull’idea che un profumo personale deve cogliere l’essenza della persona, mi fa una serie di domande confidenziali,
quasi più con le maniere di un inquisitore che di un confessore.
Vuole sapere dove sono nata e quando, i paesi che ho conosciuto
e le impressioni che mi hanno fatto, i miei gusti artistici, musica,
pittura e lettere, le passioni, i sentimenti, l’amore, cosa mangio e
cosa bevo. Quando chiede della mia professione, gli dico che studio sociologia. Mentre parlo, prende appunti su un taccuino, su
cui intravedo lo schizzo di un disegno del mio volto che sta prendendo forma sotto la sua mano rapida. L’interrogatorio non dura
meno di un’ora. Infine mi congeda dandomi appuntamento alla
settimana successiva per le prove.
“Le prove?”
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“Bambina mia, se un abito su misura lo devi provare, a maggior ragione lo farai per un profumo su misura.”
All’una e mezzo mi ritrovo in strada, e mi avvio verso Ponte
Vecchio. Il sole risplende feroce e la mia anima se lo beve a garganella. Non mi lascio tentare dal ponte dei gioiellieri. Per oggi
non ho bisogno di altre gratificazioni. Mi avvio verso Porta Romana.
Giunta lì, mi fermo al barroccino di un trippaio, gloriosa istituzione fiorentina che risale alla notte del medioevo. Decido che
mi merito un raffinato fast food proletario. Chiedo un panino col
lampredotto ‘completo e bagnato’, cioè condito con una piccante
salsa verde e la mollica della pagnottella inzuppata nel sugo greve.
Il lampredotto è ricavato dall’abomaso, uno dei quattro stomaci del manzo. I macellai del resto d’Italia lo trattano allo stesso
modo degli altri stomaci. Nelle regioni con la puzza al naso ne
fanno addirittura trippa per gatti. Non i fiorentini, per i quali
l’abomaso costituisce una raffinatezza. In effetti ha un sapore
molto particolare. Nonostante la triplice bollitura, lo strato muscoloso del tessuto resta gommoso, come la carne di lampreda,
da cui il nome. Ed è piuttosto insapore. Lo strato di mucosa invece ha un gusto delicato e succulento ad un tempo, e la consistenza di un paté spugnoso. Le due parti vengono mangiate insieme,
sicché la necessità di una lunga masticazione dello strato gommoso consente al palato di estrarre tutta la soavità di quello più
morbido.
Quando Luciano m’invitò a mangiarne la prima volta, rifiutai
schifata. Lui però insistette, e alla fine mi lasciai convincere. Non
me ne sono pentita, tanto che ormai non so passare davanti a uno
di questi barroccini senza fermarmi ad assaggiare la rara prelibatezza, che sia pranzo, cena o colazione. Oggi me ne divoro un
panino così ripieno che pare un doppio king burger. La mollica,
ammorbidita dal sugo caldo, mescola la sua tenerezza con quella
della carne spugnosa, mentre la crosta croccante del pane gratifica le fatiche sostenute dalla mascella per rompere la resistenza
del muscolo gommoso. Me lo pappo lì davanti al carretto, restando in piedi appoggiata a una mensola, e lo bagno con un bicchie-
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re di Chianti non meno greve del sugo di cottura. Torno a casa
nel primo pomeriggio, stanca e appagata.
Quale tremenda sorpresa, quando trovo la porta manomessa e
la casa tutta in soqquadro: le librerie vuote e i libri sparsi per terra, i cassetti rovesciati, la biancheria disseminata sul pavimento
insieme ai libri, gli sportelli degli armadi spalancati, i cuscini dei
divani sottosopra… insomma un casino senza pari!
Corro subito al comò. L’ultimo cassetto, dove tengo nascosti i
gioielli, è aperto e in minuzioso disordine. I miei valori però non
sono stati rubati. Vado al tavolo di lavoro. Il ripiano è stato ripulito dei libri, delle penne e degli scartafacci che ci tenevo sopra.
Sono sparsi per terra tutt’intorno. Ma c’è rimasto il mio diario,
aperto all’ultima pagina scritta. La sedia ben sistemata davanti al
tavolo mi fa capire che il ladro s’è concesso un po’ di tempo per
leggere le mie confessioni.
‘Ladro’ tuttavia non è la parola giusta. Lo capisco la sera
quando, dopo aver perso un pomeriggio per rimettere in ordine,
mi rendo conto che non è stato rubato nulla. Dunque cosa cercava il malfattore? La mia mente balza subito alla conclusione
più ovvia: cercava gli appunti di filosofia di Luciano. In questi
ultimi giorni me li avevano chiesti Gianrico, Silvio e Lilli, e a
tutti e tre li avevo negati. Lucrezia non era parsa interessata. Giuliano ne ha le fotocopie. Lilli è morta. Perciò il malfattore è uno
dei due presidi. È rimasto fregato, visto che quegli appunti li tengo gelosamente custoditi nello zainetto Prada che portavo appresso. O forse è proprio Giuliano, nel qual caso evidentemente
cercava ciò che ha trovato: il mio diario. Magari voleva sincerarsi dei risultati delle mie indagini.
Alle dieci osservo soddisfatta il mio lavoro di riassetto, e ancora più soddisfatta mi compiaccio per averli fregati tutti, i miei
marpioni. Decido che per coronare la piacevole giornata farò festa. Mi chiudo in casa, stacco il telefono e prendo un lussurioso
bagno bollente. Alle undici ceno con pane e nutella. Nel godermi il peccato di gola, perdo il controllo della mente e mi lascio
trascinare dal rimuginio, proprio ciò che oggi avevo deciso di
evitare.
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Quest’indagine sull’omicidio di Luciano mi fa montare l’ansia. Scavo e scavo e non ci capisco niente. Ho l’impressione che
tutti ne sanno più di me e che tutti cercano di utilizzarmi per sapere qualcosa da me. Mi domando se non è il caso di mollare. In
fondo che me ne frega di chi ha ucciso Luciano?
Rileggendo le pagine del diario, mi accorgo che il vero oggetto delle conversazioni che ho avuto nel corso dell’indagine non è
stato l’omicidio di Luciano ma Luciano stesso. A rifletterci bene, mi rendo conto che è lui che m’interessa, che è lui che voglio
capire chi è, piuttosto che il suo assassino.
E riandando alla passeggiata di stamattina capisco che è stato
lo spirito di Luciano a guidarmi. Così, finito di rileggere ciò che
ho appena scritto su questa giornata, metto sul giradischi Prayer
and Meditation, la più inquieta delle suite di Coltrane, e mi abbandono al ricordo di Luciano.
È stato lui a iniziarmi a Coltrane, il virtuoso del jazz che usa il
sassofono per fondere l’angoscia con la rabbia. Mi aveva riempito casa di dischi, oltre che di libri. Me li regalava sistematicamente, monotonamente, una volta un disco, una volta un libro,
quasi ogni settimana. Spesso, dopo aver fatto all’amore, quando
non entrava in quel suo stato di abulia che lo rendeva muto e inerte, scendeva dal letto, avviava il giradischi, si stravaccava su
una poltrona, si accendeva un mezzo Toscano, e cominciava a
leggere poesie ad alta voce, con la sua voce fiacca e sforzata, soffocata dal fumo.
Il sigaro Toscano è un’altra cosa su cui mi ha erudito. La lezione me la impartì proprio il giorno che mi portò in giro per il
quartiere popolare di Firenze. Stavamo seduti a un tavolinetto
all’aperto del Caffè degli Artigiani in Piazza della Passera. Eravamo circondati da avventori che, ad altri tavolinetti, bevevano e
fumavano come turchi. Avevano tutti l’aria di turisti intellettualoidi.
Tanto per dire qualcosa di spiritoso, chiesi a Luciano il suo
parere su un’osservazione che avevo fatto a proposito degli
intellettuali radical-chic, e cioè che molti di loro sono fumatori.
O almeno, diversi miei amici dell’università sono dei fumatori
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accaniti. Dice che in America ormai fumano quasi soltanto i
negri e i portoricani, e che le fumatrici però sono in aumento. In
Italia i portoricani non ci sono e i negri non fumano più degli
altri. Gli intellettuali sovversivi invece sembra di sì. Chissà se c’è
un significato profondo? Glielo chiesi. Lui disse che gli intellettuali scontrosi sono assimilabili non tanto ai portoricani quanto
alle donne, e che se queste fumano sempre di più, è meno un segno di emancipazione che di maturità spirituale. Poi tirò fuori un
toscanello, se lo accese e cominciò la lezione.
“Questo sigaro”, disse, “è una delle più alte espressioni della
toscanità, è il condensato di secoli di civilizzazione. Ed è il contrario della sigaretta: vuole un fumatore sensibile e consapevole, uno che sappia capire nel fumo la metafora della lenta morte
che è la vita e riesca a goderne; e, se la cosa comporta lo sdegno
delle persone sagge e dei crociati della tua salute, prendere anche
ciò come una metafora della vita e fumarci sopra.”
Avevo sempre provato ripugnanza per quel tanfo di terra bruciata e di marcio. Lui me ne spiegò la segreta filosofia, di un
piacere severo che discrimina ferocemente il fumatore passivo
dall’attivo, solo al secondo concedendo i suoi favori esclusivi.
Mi fece dare qualche tirata, mentre sorseggiavo della vodka, e mi
stimolò alla percezione dell’aroma di muschio e di sesso che si
nasconde dietro l’odore acre, quell’aroma che secondo lui si riesce a cogliere quando si consente al fumo di invadere il palato e
ristagnarvi a lungo. Non mi convinse. La lezione teorica mi aveva affascinato, l’esperienza pratica non m’indusse alla conversione.
Poco prima, mentre mi spupazzava per le viuzze d’Oltrarno,
mi aveva erudito sui misteri dell’amore e della morte, misteri
nascosti dai muri delle torri medievali e dei palazzi rinascimentali.
Mentre passeggiavamo in Via Maggio mi aveva parlato
dell’amore di Francesco e Bianca e di quello di Elisabeth e Robert. Aveva accennato a un misterioso collegamento fra le due
vicende, senza spiegarmi molto però, ed eccitando la mia curiosità con allusioni confuse alle insolite pratiche amorose delle due
coppie, alle ricerche alchimistiche di Francesco e al fatto che pur
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a distanza di secoli i due uomini sarebbero appartenuti alla stessa
consorteria iniziatica. Erano parole e frasi smozzicate, buttate lì
quasi distrattamente mentre ammiravo incantata gli ermetici
graffiti incisi sulla facciata del palazzo di Bianca Cappello o la
ieratica espressione di un busto di pietra esposto nella vetrina di
un antiquario vicino a Casa Guidi.
Se voleva incuriosirmi, ci era riuscito in pieno. Così, quando
ci fummo ristorati al Caffè degli Artigiani, e dopo la lezione sul
Toscano, gli chiesi chiarimenti. Lui non si sottrasse, anzi, sembrava che non aspettasse altro.
Però, invece di parlarmi di Bianca ed Elisabeth, mi raccontò la
storia di altre due donne, dolci metà di altre due coppie enigmatiche, di cui pure mi aveva fatto vedere le residenze, o meglio, i
luoghi delle occulte alcove.
Una era Ginevra degli Amieri, amante di Antonio Rondinelli.
Lui era un mercante che si dilettava nell’arte regia, lei era una
delle più belle donne di Firenze alla fine del Trecento. Antonio,
che risiedeva in Borgo Ognissanti, nella zona nobile della città,
aveva un piedaterre in Santo Spirito, proprio vicino alla piazza in
cui noi stavamo frescheggiando, dove si diceva che i due amanti
s’incontravano clandestinamente per darsi a pratiche sessuali
sfrenate.
Il padre di Ginevra, per cementare un’alleanza finanziaria,
diede la figlia in sposa a un ricco banchiere. Questi, gelosissimo
del proprio onore, faceva controllare la moglie giorno e notte,
sicché lei fu costretta a rompere la relazione con l’amante.
Accadde che un bel giorno Ginevra si ammalò gravemente ed
entrò in coma. I medici, i preti e i parenti la diedero per morta, le
allestirono un sontuoso funerale e la seppellirono in Duomo.
Senonché, la notte stessa della sepoltura, quando ancora la pietra
tombale non era stata sigillata, Ginevra si risvegliò dal coma.
Uscì dalla tomba stravolta dall’orrore e, pallida come un cero,
corse subito a casa dal marito, che però la credette un fantasma,
si spaventò a morte e la cacciò, ingiungendole di tornare nel
regno dei trapassati e di non tormentarlo più. Allora lei andò a
casa dei genitori, dove tuttavia non ricevette accoglienza migliore. Alla povera donna non restò che chiedere aiuto all’ex amante,
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il quale l’accolse a braccia aperte e la tenne presso di sé per il
resto dei suoi giorni.
Quando il marito ebbe saputo che in casa di Antonio Rondinelli viveva non il fantasma di Ginevra ma lei in carne e ossa,
pretese di riavere indietro la sposa. Si rivolse al Vicario del
Vescovo e querelò Antonio per sequestro di persona e pratiche
magiche. Al processo lei prese le parti dell’amante e fu così
convincente che infine il Vicario sentenziò salomonicamente:
poiché padre e marito l’avevano trattata come una morta, così lei
sarebbe dovuta restare per loro. Chiarì che la Chiesa non ammette l’inumazione di esseri viventi, ed essendo stata la donna
dichiarata morta dai medici e dal sacerdote che le aveva impartito l’estrema unzione, la sua sepoltura ne implicava la morte
estinguendo ogni obbligo coi vivi, compresi il vedovo e i genitori.
Al processo un avvocato sostenne che Ginevra non aveva la
forza per sollevare da sola la pietra tombale, che qualcuno lo avrebbe fatto dall’esterno nottetempo, sarebbe penetrato nella tomba e avrebbe risvegliato la morta, che il fantasma apparso ai genitori e al marito sarebbe stato una messinscena, e perfino che la
morte apparente di Ginevra sarebbe stata il risultato di un incantesimo messo in atto da Antonio col di lei consenso. Ma non fu
creduto. In seguito un candido poeta, deducendo dalla sentenza
del Vicario che Ginevra era resuscitata, scrisse un poema in cui
traeva l’ovvia morale dell’amore che vince la morte.
“Meno banale”, concluse Luciano enigmaticamente, “sarebbe
stata una morale sull’amore che corteggia la morte per conseguire i propri scopi.”
L’altra donna di cui mi narrò era Giovanna, figlia di Carlo
Duca di Calabria, podestà di Firenze all’inizio del Trecento.
Astrologo e consigliere del Duca era Cecco d’Ascoli, uno dei più
celebrati negromanti di tutti tempi. Quando nacque Giovanna,
Cecco le fece l’oroscopo e predisse che sarebbe diventata potente
e desiderata, nonché proclive alla libidine. In seguito si assunse
l’incombenza dell’educazione della bambina e, quando lei fu
diventata una colta e sensuale fanciulla, se la prese come amante.
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Il Duca non gradì la bricconata e punì severamente i due
innamorati. A Giovanna combinò un matrimonio dinastico che la
rese regina di Napoli. Nella capitale partenopea poi lei si diede
alla pazza gioia, ebbe quattro mariti e un numero imprecisato di
amanti, suscitando scandali e gelosie a non finire, così realizzando la profezia di Cecco. I cortigiani la soprannominarono
‘Giovanna la Pazza’, il Papa la scomunicò e infine qualcuno la
strangolò nella sua camera da letto.
A Cecco il Duca riservò una sorte non meno impietosa. Sfruttando le sue amicizie ecclesiastiche, lo fece processare dai tribunali della fede e condannare per errori contro la dottrina, risultato
che non gli fu difficile conseguire, visto che gli inquisitori già da
tempo sospettavano nel mago un adepto di Satana. Il sospetto divenne certezza quando il Duca rese pubblico l’oroscopo che Cecco aveva fatto a Cristo prevedendone la crocifissione a trentatré
anni.
Una grande folla di cittadini ai lati delle strade assisteva al
passaggio del corteo che accompagnava Cecco al rogo. Quando
la processione passò vicino a Santa Maria Maggiore, il martire
chiese un po’ d’acqua. E stava per ottenerla dai popolani che
ancora lo amavano, senonché una suora di nome Berta, che si
affacciava da una finestrella del campanile, gridò di non dargli
acqua, poiché se il negromante ne avesse bevuta avrebbe potuto
usarla magicamente per rendersi invulnerabile alle fiamme. – Se
beve non brucerà più, – urlò. Allora lui la maledisse: – E tu non
leverai più la testa di lì.
“Infatti”, concluse Luciano, “il corpo di Cecco fu consumato
dal fuoco, e la testa pietrificata di Berta si può vedere ancora
oggi che sporge da una parete di quel campanile.”
Ero incantata. Quando Luciano dismetteva i panni del filosofo
e indossava quelli del narratore, tirava fuori il meglio di sé. Io ho
riassunto i fatti che mi aveva raccontato, ma lui me li aveva
esposti con dovizia di osservazioni toccanti. Sembrava quasi che
s’identificasse coi suoi eroi romantici, e parlava delle non meno
romantiche eroine con una nota di tenerezza nella voce che mi
induceva a mia volta a identificarmi in loro.
“Perché mi hai narrato queste storie fantastiche?” Domandai.
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“Ti assicuro che non c’è nulla di fantasioso.”
“Sia pure. Quello che voglio sapere è perché me le hai raccontate? Perché proprio queste?”
“Sono storie interessanti. Non ti sono piaciute?”
“Molto mi sono piaciute.” Confermai con un sorriso di gratitudine.
“Allora”, mi fece il verso, “perché proprio queste, secondo
te?”
“Sembrano episodi molto simili pur essendo accaduti a distanza di secoli.”
“Molto simili è dir poco. In realtà sono la stessa storia ripetutasi diverse volte. Lo stesso uomo, il mago, che cerca la stessa
cosa; e la stessa donna, la puttana santa, che cerca la stessa cosa.”
“Quale cosa?”
“È ciò che devi capire da sola.”
“Non ci arrivo.”
“Prima o poi ci arriverai.”
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Sabato, 26 maggio
Gianrico e Silvio arrivano a casa mia alle nove. Sbrighiamo subito la faccenda sessuale, tanto per salvare le apparenze, e perché
la giornata non vada sprecata. Quindi ci accomodiamo nel salotto serio e parliamo per due ore buone della faccenda che ci interessa di più.
Non posso lasciar cadere la questione sesso, però, senza fare
una riflessione sull’ipocrisia maschile. In nessun modo meglio
che osservandoli in un’impresa amorosa comune, quale può essere un rapporto a tre, si riesce a capire quanto è artificiosa la sessualità degli uomini, specialmente se sono uomini che hai prima
conosciuto a fondo nell’intimità di un rapporto a due.
‘Impresa’ è la parola giusta. Quando si osservano l’un l’altro,
o quando osservano se stessi, i maschi si sentono impegnati a fare l’amore, a fare. Esibiscono una sessualità risolta nella vigoria
e nella tecnica, una sessualità che nessuno riuscirebbe a distinguere da una bravata eroica, se non per la peculiarità dell’abbigliamento e il ridicolo che ne deriva. I campioni ti prendono,
letteralmente, ti manipolano, ti girano e ti rigirano, ti cavalcano,
ti montano, ti sbattono. Ti fanno di tutto, e non si capisce con
quale scopo particolare, visto che tutto quello che ti fanno non
serve al loro orgasmo, per non parlare del tuo. Alcuni, specialmente i quarantenni, si applicano molto per il tuo piacere, indugiano nei preliminari, ti coccolano, ti carezzano, baci languidi e
parole tenere. Ma sempre di tecnica si tratta. In realtà non è precisamente il tuo orgasmo che gli interessa, bensì la loro capacità
di procurartelo. È esclusivamente a se stessi che guardano, se
stessi che ammirano.
Così capisci che la loro sessualità si risolve al 90% nello specchiarsi. Si specchiano in te, nelle tue reazioni alle loro manipolazioni, nella risposta del tuo piacere alla loro azione. E tanto
peggio per te se ti limiti a simulare. Per loro va bene perfino la
finzione, purché entro certi limiti di verosimiglianza, quanto
basta per rendere convincente la commedia. Meglio di tutto è
quella finzione inconsapevole a cui ricorrono spesso con l’auto-
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inganno le donne volenterose. Qui, per inciso, si misura l’abilità
di una buona puttana o di una brava moglie.
Si rimirano dunque, in ogni istante. Io ho un grande specchio
accanto al mio letto, un potente strumento di depravazione.
Come ci si lasciano impaniare! Non distolgono mai gli occhi
dall’immagine che riflette, e seguono la propria azione e le tue
reazioni con un fervore quasi religioso, una vera e propria venerazione. Così capisci che la grande, profonda, eterna religione
maschile è ancora quella dei miti eroici dell’antica Grecia, ma in
maschera e, in fondo in fondo, risolti in Narciso.
Con tutto ciò, se sei una donna decisa e dalle idee chiare puoi
arrivare qualche volta a disarmarli e a farli sciogliere. Allora puoi
scoprire il tenero che c’è in loro, e puoi addirittura goderteli se
sei riuscita a insegnargli a non fare il maschio.
Be’, io sono stata capace di fare sciogliere perfino Gianrico e
Silvio. Il primo, per esempio, l’ho conosciuto che soffriva di eiaculazione precoce. La sua strategia preferita era questa. Arrivava
tutto ingrifato. Si faceva subito masturbare per un rapido orgasmo. Dopo di che, riuscendo a resistere a lungo nel secondo giro, mi montava più baldanzoso di un cavaliere errante. Gli sono
bastati un po’ di mesi in cura da me, però, e ha imparato ad abbandonarsi, a lasciarsi fare, a non avere vergogna della parte
molle di sé. È emersa la fanciullaggine, il bisogno di carezze
e affettuosità materne, a volte qualche lieve sculacciata. Così è
riuscito a godersi l’orgasmo, anche se precoce; tanto, di me, che
mi paga, può fregarsene. È stato comunque un progresso.
Silvio aveva un problema diverso, solo apparentemente opposto a quello di Gianrico: poteva starsene una mezz’ora con il
membro dritto, continuando a pomparmi che pareva uno stantuffo, senza raggiungere il climax quasi mai. Per me era una tortura, si capisce. Ma lui dava l’impressione di godersela da matti,
urlava che sembrava un cow boy al rodeo e non si fermava fino a
quando non imploravo basta. Allora scendeva, fiero di avere
sfiancato una mignotta, e se lo rimirava orgoglioso, allo specchio, come un bambino la sua pistoletta a ditalini. Con lui ho
faticato parecchio. Dapprima ho cercato di sgonfiargli l’orgoglio
con delle strategie orali, inutilmente. Poi ho provato ad ammor-
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bidirlo lavorandolo su tutto il corpo, e ancora niente. Infine scoprii il suo tallone d’Achille in una notte di furore quando, a sorpresa, gli ficcai un dito nel buco del culo, giusto nel momento di
uno dei suoi rari orgasmi. Ebbe un attimo di panico e mi strinse il
dito nello sfintere così forte che poteva stritolarmelo. Senonché
io lo tenevo anche per lo scettro, e non mollai. Così fu costretto a
lasciarsi andare.
In seguito ho faticato per fargli accettare la realtà. Ma contro il
piacere del corpo non c’è religione che tenga. Recentemente mi
ha regalato un pene di gomma di suo gusto, e ora si fa fare l’amore da me come da un tenero amico. Lo fa solo con me. Mai
oserebbe con un maschio.
Ovviamente quelle rare volte che vengono a trovarmi insieme
Gianrico e Silvio riescono a essere tutto meno che sé stessi. Così
è oggi. Devo cibarmi alcune fra le posizioni più tortuose, tra ‘acca’,‘sandwich’, ‘seicentonovantuno’ e altre plasticità del genere,
mentre loro si dimostrano a vicenda quanto sono bravi. Fortunatamente dura poco, visto che sono venuti a trovarmi per parlare.
A letto, dopo la sfacchinata, parliamo in un’atmosfera surreale, senza approdare a nulla. I due bulli, sdraiati ai miei fianchi,
guardano il soffitto fingendo indifferenza. Osservo Gianrico. Mi
dà l’impressione di un bacarozzo kafkiano: potrebbe agitarsi dalla disperazione. Osservo Silvio. Stessa impressione. Gli animi
sono tesi, logorati, paiono dominati da un sentimento di straniazione. Per cui quando gli servo il caffè, li faccio accomodare in
salotto, i miei minchioni. Pian piano si placano gli animi e la
conversazione si avvia garbata. Parliamo di cose insignificanti,
all’inizio. Insisto per farmi raccontare ancora dei problemi di
carriera di Luciano. È Gianrico il più loquace dei due.
“L’uomo era un vero grullaccio,” attacca, “ma accio accio.
Dopo tutto quello che aveva combinato, avrebbe dovuto capire
che non c’era speranza per lui nel mondo accademico. Avrebbe
dovuto prendere le sue carabattole e andarsene dall’università.
Invece insistette, col risultato di fare una figura cacina dietro
l’altra.”
132
“Forse amava le situazioni difficili,” suggerisco, “forse perseverò perché doveva lottare...”
“Ci vuol altre barbe per spuntarla nella nostra giungla. Però è
vero che lui sapeva stare alla dura. Più che altro, credo che avesse preso un drizzone. Come a Don Chisciotte, nessuno poteva
toglierli la lancia dalla resta una volta che avesse intravisto un
mulino a vento, e come Don Chisciotte, faceva sempre fico. Mi
torna alla mente quel dì che presentò domanda per un concorso
di professore di sociologia.”
“No, questa no, per favore!” Interrompe Silvio. Ma lo fa con
un tono esitante e divertito. Sembra impaziente di sentirsela raccontare per l’ennesima volta. Infatti Gianrico ignora la sua implorazione.
“Proprio il nostro gingillone costì, codesto maestro di fintaggine, proprio Silvio era presidente della commissione di concorso. Devo riconoscerlo: costruì un vero capolavoro di perfidia nel
portare il concorso all’esito che ebbe.”
Qui si arresta e si pone in meditazione.
“Quale esito?” Domando.
Lui ignora la mia domanda. Si gira verso di me, mi appoggia
una mano su un ginocchio e lancia uno sguardo di complicità al
collega.
“Eh, Silviuccio? Ti aveva fatto entrare la fotta, il tuo bardotto!
Eh? Così tu, come disse Virgilio al Poeta a proposito della puttana sciolta, glielo hai messo nel chiocchiero.”
“Dai, adesso racconta.” Insisto. “Se volevi incuriosirmi, ci sei
riuscito.”
“Ebbene, si dimostrò un vero stratega il nostro presidente di
commissione. All’inizio seguì una tattica di aggiramento, cercando d’imbecherare i commissari: sostenne Luciano a spada tratta,
ma punto esito, ovviamente.”
“Perché dici ovviamente?”
“Perché Luciano era odiato da quasi tutti i commissari, nove
quant’erano. Silvio ottenne due voti per lui. Continuò a ottenere
solo due voti, tre con il proprio, per un intero semestre. Tuttavia
tre non bastavano, ce ne volevano cinque. Intanto, man mano che
procedevano i lavori, venivano piazzati altri candidati e lo spazio
133
per Luciano si restringeva. Era una commissione assai giudiziosa, vero Silviuccio?”
“Ah, non c’è dubbio. Giudiziosa e leale. Stabilimmo subito le
regole del gioco.”
“Quali regole?” Domando.
“Due regole molto semplici. Prima: ogni commissario, in linea di principio, aveva diritto a un certo numero di posti, quattro
se era della maggioranza, due se della minoranza; i posti rimanenti ce li saremmo giocati. Seconda: nessun commissario avrebbe dovuto leggere i titoli dei concorrenti.”
“E questo perché? Non era un concorso per titoli?”
“Per evitare di farcene influenzare.”
“Che volpi!” Interrompe l’altro.
“Le due regole funzionarono abbastanza bene,” riprende Silvio, “ma non alla perfezione, visto che continuammo a discutere
a lungo. Il resto te lo racconterà Gianrico, che sa narrare le storie.
Vai pure avanti, Gianricuccio. Però sii conciso.”
“Va bene, dirò le cose come sono andate, senza tanti girigogoli. Per non farla pallottolosa: dopo qualche mese avevano sistemato ventotto candidati e restavano da assegnare tre posti. Su
quei posti si scannarono a lungo. Il presidente della commissione continuava a proporre il nome del nostro eroe. Riuscì infine a ottenere quattro voti. Gliene mancava uno. A questo punto
Silvio fece in modo che Luciano venisse a conoscenza della situazione. E quello sciabicotto, appena ne fu edotto, s’illuse come
un merlo. Così si mise in azione. Mi è stato riferito che si attaccò
al telefono e cominciò a tartassare gli amici, gli amici degli amici, perfino gli amici dei nemici. Andò avanti e insistette, con la
sua proverbiale pervicacia, finché non raggiunse il risultato che
voleva.”
“Che sarebbe?”
“Ma è ovvio: il voto che gli mancava!”
“Come fece?”
“Ah, questo lo ignoro. Probabilmente esiste una specie di mafia sovversiva, chi sa? magari un’associazione segreta, ex combattenti e reduci, vecchi pinguini. Ebbene, il genio di Silvio si
rivelò nell’essere riuscito a usare le armi del nemico contro il
134
nemico stesso. Insomma, giunti al finale, per la precisione, alla
penultima riunione della commissione giudicatrice, Luciano aveva ottenuto i suoi cinque voti, spinte o sponte, e pareva avercela
fatta.”
“Invece?”
“Invece alla riunione successiva Silvio acciabattò una proposta dell’ultimo minuto e tirò fuori il coniglio dal cilindro, anzi il
gatto.”
“Cioè?”
“Cioè disse che ci aveva ripensato, che il candidato ideale per
quel posto non era Luciano. – Cesare Gatto è il candidato giusto
– disse.”
“Chi sarebbe costui?”
“È ciò che si domandarono gli altri commissari. Era un candidato di cui non si era mai parlato fino allora. Anzi, proprio non
lo conosceva nessuno. D’altra parte, i titoli non erano stati letti, e
il fatto di non conoscere quelli di codesto nuovo candidato non
preoccupò nessuno. Inoltre erano tutti stanchi di discutere e volevano chiudere presto. Così alla fine il concorso lo vinse il professor Gatto, e fu lui a essere chiamato nella nostra università.”
“Ma Luciano non aveva ottenuto i suoi cinque voti? Non
erano sufficienti?”
“Le cose non sono così semplici. In situazioni d’incertezza e
di conflitto i voti si danno a miccino, e si danno al commissario,
non al candidato. Il commissario dichiara come vorrebbe impiegare i suoi voti. Però è lui a decidere. Se cambia idea all’ultimo
momento, cortesia vuole che gli altri commissari non si mettano
a rivedere le bucce. Il bello venne dopo, vale a dire il giorno
dell’inizio di quel corso di Sociologia, quando si scoprì che il
vincitore del posto non era altri che il gatto di casa Moscanti: non
Cesare Gatto, bensì il gatto Cesare. Il corso naturalmente doveva
iniziare in ogni modo, e quindi fu assegnato per supplenza a Luciano stesso.”
“Vuoi dire che il concorso fu vinto da un vero gatto?”
“Esattamente.”
A questo punto non posso evitare di girarmi verso Silvio e
gettargli uno sguardo di stupore e di ammirazione. Lui fa degli
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sforzi notevoli per imporre al proprio volto la necessaria maschera d’impassibilità, anche se si vede chiaramente che dentro
di sé sta sorridendo d’orgoglio.
“Scusa,” domando, rivolgendomi sempre a Gianrico, “al Ministero non avevano fatto dei controlli?”
“Vien via!”
“Deve essere stato un bello scandalo.”
“Macché. L’evento fece un certo rumore, però in ambienti ristretti. Prima che giungesse ai quotidiani, un membro di quella
commissione pubblicò su un giornalino intellettuale di provincia
un racconto umoristico dal titolo Un gatto accademico, in cui
narrava per filo e per segno ciò che era accaduto. Così il mondo
della cultura scambiò la cosa per una trovata letteraria e tutto finì
lì. In ogni caso, il risultato pedagogico fu gagliardo: per quattro
mesi, dal momento della chiusura del concorso a quello dell’inizio dell’anno accademico, Luciano si era trovato nella condizione di assistente del gatto di Silvio. Puoi immaginare quanto fosse
arrembato quando dovette iniziare il corso al posto dell’animale.”
“Stupendo,” faccio io, “un vero capolavoro di perfidia! Quale
sarebbe la morale della favola?”
Risponde Silvio, con voce cantilenante, attraverso il suo subdolo sorriso:
“Tanto va il leopardo al lardo...”
Non finisce la frase. Invece si volta verso di me e, tramutando
quel velato ghigno di gloria in un aperto ammiccamento di lascivia, mi fa scivolare una mano sul petto. Io, per tutta risposta, giro
la testa dall’altra parte. Ahimé, neanche Gianrico mi dà scampo.
Allunga una mano sul mio petto e fa:
“Ecco che mi hai rimesso l’uzzolo, pispolina mia. Dunque,
come dice il poeta casto, è ora di nuovo di venire al tasto.”
Torniamo a letto, dove devo sciropparmi i loro gloriosi assalti
per un’altra mezz’ora. Dopo, di nuovo in salotto, riprendiamo la
conversazione, stavolta parlando di cose serie. Così ottengo due
conferme alle ipotesi su cui sto lavorando nella mia indagine
poliziesca. La prima è che effettivamente Giuliano aveva ricevu-
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to una certa chiave; la seconda, che Lilli aveva confidato il suo
segreto solo per paura.
“Proprio così,” è Silvio che parla, “anche se non sono riuscito
a capire bene di cosa precisamente aveva paura.”
“Avesse.” Corregge Gianrico.
“Non scassare. Dunque dicevo: non sono riuscito a capire bene niente perché, per la stessa ragione, cioè per la paura, lei non
mi aveva detto tutto ciò che sapeva.”
“Ho avuto la stessa impressione,” fa Gianrico, “e neanch’io
sono riuscito a capire di cosa avesse paura. Sembrerebbe che
fosse venuta a conoscenza di un terribile segreto e, forse per liberarsene la coscienza, forse per diminuirne la pericolosità dividendolo con altri, l’abbia voluto rivelare a noi. Nello stesso tempo la paura le impediva di svelare la reale natura di quella verità.” Ha un attimo di esitazione. Poi aggiunge: “Mi raccomando
però, di queste cose non devi far motto con nessuno, non devi
alitare.”
“Insomma, in cosa consisteva il segreto?” Domando, un po’
brusca.
“Chi lo sa?” Riprende. “La benedetta chiave potrebbe essere
stata data a Giuliano da Fabrizio Gledo, il quale, com’è noto, è
un gran combriccolone.”
“Ma quello sta in galera!” Dico.
Questa volta interviene Silvio:
“Può darsi che per lettera gli ha rivelato il modo in cui trovarla, la chiave, magari in un nascondiglio. È verosimile che, per
sfuggire alla censura carceraria, abbia usato qualche codice segreto; che abbia cercato di nascondere l’informazione, che so?
tra le righe di una lettera di saluti o qualcosa del genere.”
Sì, è verosimile, penso. Quadra con ciò che mi ha riferito Giuliano riguardo alla loro vecchia passione per i giochi enigmistici.
E quadra con la sua fissazione sulle carte di Luciano. Dopo tutto,
ci ha effettivamente trovato un messaggio nascosto, in quelle carte. Guarda caso, il messaggio era LILLI. Faccio notare la coincidenza ai due marpioni. Loro si mostrano perplessi.
“Che c’entrano le carte di Luciano?” È Gianrico che parla.
“Capirei che ti avesse chiesto carte di Fabrizio.”
137
“Quei vecchi giochetti che facevano da studenti li facevano in
tre.” Dico. “Perché non avrebbero potuto continuarli per corrispondenza dopo l’incarcerazione di Fabrizio?”
“Tutto è possibile, ma non ci sarebbe sugo.” Controbatte lui,
quasi più per saggiare le mie reazioni che per esprimere un suo
dubbio. “D’altra parte che rapporto ci sarebbe tra una tale ipotetica corrispondenza e degli appunti di filosofia?”
Di filosofia avevo parlato molto con Luciano all’inizio del nostro
flirt. Smettemmo quando il flirt divenne un menage parafamiliare. Allora cominciammo a parlare di cose più terrene, di
orto, giardinaggio, cucina. La mattina dopo quella notte favolosa
di ballo m’invitò a restare a casa sua per il fine settimana. Saremmo tornati a Firenze il martedì, propose. Poi, se volevo, potevo venire in campagna con lui il fine settimana successivo.
Se volevo? Lo volli. Fu così che cominciò una fase sublime
del nostro idillio. Durante la settimana lavorativa, dal martedì al
venerdì, abitavamo a Firenze nelle nostre rispettive case, io nel
mio appartamento di studentessa lavoratrice, lui con l’ex compagna, solo per stare con la figlia – aveva messo in chiaro. Gli
altri giorni della settimana, da venerdì pomeriggio a martedì
mattina, li passavamo insieme nel suo lussuoso fienile. Che vita
di sogno facemmo in quei weekend! Proprio come due sposini
infatuati. Durante il giorno lui lavorava nell’uliveto e nell’orto.
Io mi occupavo del giardino, oltre a preparargli dei pranzetti e
delle cenette amorevoli. Certe sere si andava a ballare, altre si
studiava insieme fino alle due di notte, oppure ci abbrutivamo
felicemente davanti alla televisione sbracati sul divano.
Mi comprai dei libri di giardinaggio e li lessi con gusto, scoprendomi una passione inaspettata che, unita a quella della cucina
che già mi conoscevo, faceva di me una mogliettina perfetta.
Il suo giardino era praticamente inesistente: solo un grande
prato d’erba e fiori selvatici. Tutt’intorno, diversi cipressi, qualche oleandro e due enormi acacie. Decisi di renderlo splendente.
A novembre piantai una certa quantità di bulbi e semi di fiori,
alcune piantine di lavanda e di gelsomino e una dozzina di cespi
di rose. Li disposi sui bordi del prato e intorno agli alberi a for-
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mare delle aiuole in apparente disordine. Quando venne l’esplosione primaverile, fu uno sbocciare di gioia. Luciano mi prendeva per mano e mi faceva girare tra i fiori chiedendomene i nomi.
Poi ci spogliavamo e ci sdraiavamo sul prato a prendere il sole e
fare l’amore, tra i profumi della lavanda e del gelsomino che trascinavano tutta un’orchestra di effluvi.
“Mi hai riempito il giardino e la vita di fiori.” Disse un giorno
di prima estate mentre giacevamo sul prato a prendere la tintarella integrale.
Mi venne una specie di extrasistole e non seppi rispondergli
altro che con un mugolio di piacere. Avrei voluto fermare
quell’istante, farlo durare per sempre. Ahimé, con Luciano non
era possibile.
Lo capii qualche tempo dopo, quando feci un passo falso che
ancora non mi sono perdonata. Ma come facevo a sapere quali
erano i confini invalicabili dei suoi sentimenti? Stavo imparando.
E s’impara con gli errori. Un giorno, verso fine agosto, in uno di
quei momenti inebrianti, mentre guardavo il cielo sdraiata sul
prato accanto a lui, mi feci coraggio e proferii le seguenti idiozie:
“Tesoro, vorrei dirti una cosa importante. Sei disposto ad
ascoltarmi? Ti va di parlare?”
“Certo che mi va, cara. Basta che non si parli d’amore.”
Fu una mazzata tra capo e collo. Deglutii la saliva più di una
volta. Però mi controllai e dopo un lungo silenzio domandai:
“Perché non si può parlare d’amore?”
“L’abbiamo già trattato in passato quest’argomento. Non so se
ricordi. E in quell’occasione tu mi hai insegnato che oggigiorno
parlare d’amore è come raccontare la favola di Cappuccetto
Rosso al lupo cattivo.”
La ricordavo benissimo la conferenza che mi aveva tenuto una
volta mentre ci crogiolavamo a letto dopo una scopata felice. Ma
mi sembrava piuttosto che allora era stato il lupo cattivo a cercare di raccontare la fiaba a Cappuccetto Rosso.
Non reagii. Volevo evitare di ficcarmi in una discussione concettosa col grand’uomo. Manifestai il mio disappunto restando in
silenzio e guardandolo di traverso. Siccome io tacevo, fu lui a
riprendere la domanda, fuggendo il mio sguardo:
139
“Vuoi sapere perché non si può parlare d’amore?”
Infierii col silenzio. Lui però non mi si filava più. Osservava
un punto all’infinito, mentre a me mi saliva un groppo alla gola.
Non riuscii a impedirgli di lanciarsi in una disquisizione filosofica. E attaccò:
“Non si può parlare onestamente d’amore nell’era delle filosofie del sospetto, delle soap opera e dei partiti leggeri. Molti sostantivi forti sono stati svuotati di sostanza dalla storia. Come
fanno i dannati della terra a ragionare di liberazione quando è diventata uno slogan dei chierichetti? Come fa la classe operaia a
reclamare il comunismo quando tutti i partiti comunisti al potere
si sono trasformati in macchine di oppressione e sfruttamento dei
lavoratori?”
“Ti prego, non mi affliggere con queste stronzate. Non le
reggo più le tue fughe filosofiche.”
“Dolcezza, la filosofia è vita. E la filosofia di oggi compenetra
un mondo che si è fatto diffidente…”
Ecco: diffidente. Mi sembrò la parola giusta detta al momento
giusto. Così infine abboccai.
“Perché diffidente?” Gli chiesi.
“Perché si gioca disinvolti.”
“Non capisco.”
“Te lo spiego con un esempio. Mettiamo che il leader del partito degli affari decida di chiamarlo partito dell’amore. Allora ce
la vedresti la Sandrocchia dirgli ‘ti amo’? Ce la vedresti la moglie dirgli ‘non t’amo più’?”
“Non capisco ancora.”
“Certe parole sono state così logorate dall’uso ideologico che
non riusciamo più a cogliere le intenzioni nei significanti.”
“Veramente il partito dell’amore l’ha fondato Cicciolina, e
non mi è sembrato un uso ideologico.” Obiettai.
“Quella è solo un’ingenuità, candida e molto retrò.” Replicò.
Evidentemente sentiva la tensione della mia voce e il montare
dell’irritazione. Forse per questo fu infine costretto a scendere
dall’empireo dell’ermeneutica. Domandò:
“È di cose cicciolose che mi vuoi parlare? Cos’è che vorresti
dirmi veramente?”
140
“Veramente vorrei dirti quanto sei stronzo.”
Venne l’autunno e poi l’inverno e furono lugubri. La nostra
passione scese dai picchi che aveva scalato nelle stagioni calde e
si avviò verso il piattume. Ero avvilita. Quei barlumi di fede e
speranza che mi si erano accesi all’epoca del ballo e delle fioriture si erano spenti, e con essi anche i vaghi bagliori di carità.
Emerse in me quasi un senso di commiato. Per lui non sono che
una puttana, continuavo a dirmi. Mi tiene esclusivamente per
soddisfare i suoi bisogni sessuali. Tutte le dolcezze quotidiane
che mi elargisce non sono altro che mosse in un gioco disinvolto.
Come fa a essere così vigliacco?
Poi lui mi faceva una carezza mentre ci scaldavamo al fuoco
del camino e io tornavo a sciogliermi. Quanto sono infantile –
diceva l’anima razionale dentro di me. Ma il demone dell’innocenza resisteva. Allora tornavo sulle mie riflessioni amareggiate,
e poi cercavo di disinnescarle. Forse è sincero quando mi stringe
a sé guardandomi con quegli occhi teneri, pensavo. Forse non è
completante evirato di sentimenti, ha solo timore di esprimerli.
Magari ha paura di rivelarli a se stesso. E io non posso abbandonarlo al suo grigiore. Devo aiutarlo a sciogliersi. Così mi
assumevo il compito di salvarlo.
141
Lunedì, 27 maggio
Mi telefona Lucrezia, stamattina, e mi dice che ha un urgente
bisogno di vedermi. Combiniamo un incontro per cena.
Alle otto di sera la trovo che mi aspetta, nervosa e preoccupata, seduta a un tavolo della Buca Nera. È, questa, una trattoriola senza pretese ricavata dallo scantinato di un antico e fatiscente palazzo in Santa Croce, una taverna scalcinata che più
popolare di così non si può. Però in nessun posto al mondo meglio che qui si mangia la ribollita e l’acquacotta e i crostini col
pane sciapo di Prato e tutte le altre pesanti raffinatezze della cucina popolare toscana. I turisti non lo sanno, per fortuna. Ecco
perché ancora si salva.
Ordiniamo cacciucco entrambe e Chianti della casa, tanto per
restare sul leggero. Nell’attesa, ci sgranocchiamo dei crostini di
fegato. Parte il primo mezzo litro di vino. Quando arriva il cacciucco sono già in fiamme. Lei invece è sempre spenta. Ha due
occhiaie marcate, dal fondo delle quali mi osservano due occhietti lucidi, mobilissimi, da scimmia, ma tristi. Le guance paiono scavate più del solito sul viso privo di trucco; e i capelli,
tirati sulla nuca a crocchia, sono sorretti malamente da una grossa forcina nera della nonna. I vestiti alla zingara, che indossa
sempre con ricercata trascuratezza, e che spesso contribuiscono
a darle un’aria giovanile e maliziosa, stasera sono particolarmente trasandati, la fanno apparire una stramiciona e sembrano volerne rivelare lo smarrimento.
Finalmente si decide:
“Mi devi scusare se t’importuno per una cosa di cui probabilmente non ti frega niente. Con diverse amiche sono in rapporti
più intimi che con te. Ciò nonostante, quando ho sentito il bisogno di parlare di questa cosa, ho capito che non potevo farlo che
con te.”
“Quale cosa?”
“Sono terrorizzata. Dopo la morte di Lilli...”
“Si, è stata sconvolgente.” La interrompo.
“Non è solo questo,” riprende lei, “ho paura per me, ora.”
“Per te? Che c’entri tu?”
142
“Ieri mattina è venuto a trovarmi Giuliano. È entrato in casa a
valanga, mi ha fatto sedere su una sedia, quasi fosse lui il padrone di casa, si è seduto anche lui e ha cominciato a tempestarmi di
domande.”
“Che voleva sapere?”
“Di Luciano, cosa aveva fatto nei cinque giorni precedenti
l’orgia, dove era stato, se si era mosso da Firenze. Ha detto che
stava indagando sulla sua morte e che dovevo aiutarlo a trovare
l’assassino. Inoltre voleva vedere la corrispondenza di Luciano
con Fabrizio.”
“E tu gliel’hai mostrata?”
“Certo che no!”
“Se ti chiedessi io di darle un’occhiata?”
“Non vedo come la corrispondenza con Fabrizio possa servire
a far luce sull’omicidio di Luciano, dato che quello sta in galera.
Le lettere che ho letto erano piene di boiate sessantottarde, tra il
politico e il filosofico. Loro due avevano ormai solo la nostalgia
in comune. Sono rimasta impressionata soprattutto da una cosa:
dal potere che ha la memoria sullo spirito dei depressi. Anche
quando scrivevano di problemi attuali, non riuscivano a pensare
niente senza usare la remota esperienza politica comune quale
punto di riferimento. Gliel’ho dette queste cose, a Giuliano: che
non ci avrebbe trovato che spazzatura nostalgica in quella corrispondenza. Gli ho detto che comunque non gliel’avrei mostrata, essendo roba personale. Ma lui insisteva. E dopo che gli ebbi
ripetutamente chiesto la ragione del suo interesse, mi sono sentita
dire che, secondo lui, Fabrizio e Luciano si trasmettevano dei
messaggi, dei messaggi in codice per passare la censura carceraria. Gli ho domandato che tipo di notizie potevano essere. Lui ha
nicchiato. Il che mi ha ulteriormente insospettito. Figuriamoci se
gli darò mai quelle lettere. Lui, quando ha visto che non riusciva
a sfondare su questo fronte, ha cambiato argomento e mi ha domandato se sapevo niente di una certa chiave della verità che Luciano può aver avuto da Fabrizio, e se ne ho mai sentito parlare
da Gianrico o da Silvio, da Lilli o da te.”
“Tu che gli hai detto?”
“Gli ho detto di sì.”
143
“Di sì?”
“Sì.”
“Sì, cosa? Che Luciano ha ricevuto quella chiave o che ne hai
sentito parlare?”
“Fammi finire. Quando gli ho detto che l’altro ieri erano venuti da me Gianrico e Silvio a chiedermi le stesse cose che mi
stava chiedendo lui, l’ho visto sbiancare. Poi è diventato ancora
più duro, se possibile, e minaccioso. Mi ha ordinato di non darle
a nessuno le lettere di Luciano e Fabrizio, se non volevo darle a
lui. Infine è tornato a parlare del mio uomo e mi ha chiesto se
stava scrivendo qualcosa nei giorni precedenti la sua morte.”
“Perché voleva sapere questo?”
“Gliel’ho domandato, senza ottenere risposta. Così sono stata
reticente anch’io. Gli ho detto che Luciano scriveva poco e niente.”
“Ed è vero?”
“Sì e no. In realtà scriveva parecchio, salvo poi bruciare quasi
tutto. Lui era, come dire? un autolesionista intellettuale. Le cose
che pubblicava erano quelle in cui non investiva gran che. Invece
le cose che lo coinvolgevano a fondo lo lasciavano sempre scontento. Per spiegare questo fatto aveva anche elaborato una teoria, tanto per cambiare. Tuttavia si trattava di un malessere più
profondo di quanto lui stesso era disposto a riconoscere.”
“Dimmi della teoria.”
“Era convinto che l’ambiente dove lavorava, cioè l’università,
lo costringeva a muoversi entro degli steccati stretti che gli impedivano di pensare le cose veramente importanti, o di pensarle
nel modo giusto. Di questo ne so abbastanza perché il suo disagio intellettuale era l’unica cosa elevata, diciamo così, di cui parlavamo ancora un po’. Sentiva il dovere di rendermi conto dei
suoi fallimenti e del suo trastullarsi inconcludente tra una scienza
e l’altra, che ne era la causa principale. Lo viveva come una
colpa.”
“Si sentiva in colpa?”
“Sì, per la sua aggressività intellettuale. E peggio: il sentirsene
in colpa lo mandava in bestia.”
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“Hai detto che le sue spiegazioni nascondevano un malessere
più profondo.”
“Credo che lavorasse in lui un meccanismo psichico micidiale. Da una parte era consapevole della propria intelligenza e
ciò lo portava a pensare in grande. Dall’altra non era mai sicuro
della validità di quel che scriveva. Durante i periodi di furore
intellettuale poteva stare alla scrivania dieci, dodici ore al giorno. Riempiva quaderni e quaderni di appunti. Poi li rileggeva ed
entrava in crisi. Si metteva a correggere, limare, riscrivere, scarabocchiare, con foga sempre decrescente. Alla fine bruciava tutto. Dopo di che passavano mesi in cui non osava neanche prendere la penna in mano. Con i lavori occasionali invece, le critiche, le recensioni, i manuali, non aveva di questi problemi, evidentemente perché non lo coinvolgevano a fondo. Era un tragico
ciclo cerebrale di creazione e autodistruzione, simile a un processo sentimentale che pure lo metteva periodicamente in crisi, anzi,
ci metteva, essendovi implicata anch’io.”
La storia diventa interessante e mi faccio attentissima. Lei se
ne accorge e ha un attimo di esitazione.
“Ma perché ti sto raccontando queste cose?” Domanda.
“Perché hai bisogno di aprirti. Io ti capisco, come una sorella.
Vai avanti.”
Riprende:
“Ne avevamo parlato a iosa del secondo tipo di oscillazione.
Lo chiamavamo ‘il suo ciclo leopardo-coniglio’. Aveva dei periodi di titanismo, una smisurata fede in se stesso, la convinzione
di poter fare a meno degli altri, dell’amore e della solidarietà,
insomma una sorta di Sturm und Drang personale da bestia bionda e solitaria. Era in questi momenti che mi lasciava per scatenarsi con le studentesse e le segretarie. Finché non dava la
classica capocciata al muro. O può darsi che veniva assalito dai
rimorsi, non so. Sia come sia, seguivano sempre dei periodi di
crisi. Allora tornava all’ovile e faceva il mea culpa. Erano i momenti migliori. Tornava dolce e remissivo e si lasciava curare
dalle coccole e dalle carezze. Io vivevo in funzione dei suoi cicli,
sempre in attesa dei suoi soprassalti di conigliaggine.”
Mi guarda con occhi dubbiosi. Domanda:
145
“Ma a te che te ne frega di queste cose?”
“Ti assicuro che me ne frega molto.”
“Uhm. Torniamo a Giuliano.”
Così torniamo a discorsi pedestri.
“Cos’hai raccontato a lui?” Le chiedo. “Voglio dire: degli
scritti di Luciano.”
“Gli ho detto che non aveva scritto niente nei giorni immediatamente precedenti l’omicidio, anche se questo non è vero.”
“Ah no?” La interrompo, interessatissima.
“Ho trovato cinque paginette di robaccia matematica sulla sua
scrivania. Evidentemente non ha fatto in tempo a rileggerle e
bruciarle. Non me le chiedere, però. Voglio prima studiarle io e
vedere se c’è da capirci qualcosa. Giuliano mi ha messo in sospetto con la storia dei messaggi in codice. A lui non gliene ho
neanche parlato, di quelle pagine. Se lo verrà a sapere...”
“È di lui che hai paura?”
“Sì. Ma principalmente ho bisogno di capire cosa sta succedendo. Tu che ne pensi? Voglio dire, della morte di Luciano e
ora di Lilli, e di tutti questi enigmi, messaggi in codice, chiavi
misteriose.”
Così viene il mio turno di parlare. Le dico ciò che so, sinceramente; che peraltro non è molto. Parlo delle varie ipotesi che
ho formulato su chi può essere l’assassino di Luciano e di Lilli,
eccetto quella che riguarda lei, alla quale peraltro credo meno di
tutte.
Quando esaurisco l’argomento, ho appena ripulito il mio
piatto di fagioli all’uccelletto, una delicatezza da bassa osteria
che solo pochi eletti sanno apprezzare... se incontrano uno dei
pochi eletti che la sanno cucinare. Poi arriva la zuppa inglese,
dolce italianissimo e paradisiaco se è ben fatto. Col dessert ci
portano un vino adatto, un brioso Müller Turgau trentino. Non
che me ne intenda gran che, ma questo vino mi manda in estasi, e
quando riesco a trovarne una bottiglia in qualche cantina o
ristorante fiorentino non me la lascio sfuggire.
Il cambiamento di vino e di cibo, col passaggio dal greve e
piccante al delicato e dolce, coincide con un cambiamento
d’umore repentino. Terminati i discorsi lugubri, anche per effetto
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della bottiglia di Chianti che ci siamo scolato, la conversazione
diventa sciolta e amichevole. Parliamo di noi. Soprattutto la faccio parlare di sé. Capisco che ha bisogno di aprirsi. D’altronde
sento il desiderio di conoscerla più intimamente. Il dover parlare
al di fuori della consueta relazione venale mi mette all’inizio un
po’ in imbarazzo, forse perché, per parafrasare il saggio, il rapporto non mercantile mi si presenta come un tradimento all’autenticità. A poco a poco, tra quelli che sembrano dei veri e propri
fumi dell’alcool, riusciamo ad attizzare una lieve fiammella di
affetto. La cosa strana è che non me ne ritraggo turbata.
Lei mi parla del suo mondo, della sua bambina, delle sue
amicizie, che sono ristrette e selezionate. Mi dice dei suoi interessi culturali, anch’essi molto selezionati, per lo più limitati alla
letteratura, anzi a pochi autori. Pochi, dei quali ha letto e riletto
ogni cosa.
Parliamo a lungo di letteratura. Non abbiamo gli stessi gusti,
già nell’approccio al libro. Io leggo di tutto, senza ordine, senza
guida e, lo ammetto, anche un po’ superficialmente. Odio le profondità. Un autore che approfondisco mi pare di smascherarlo e
di perderne la magia. Mi piace preservare l’incanto della scoperta
a ogni libro. Lei invece va a fondo. Quando trova un autore che
le piace, non lo molla fino a che non ne ha penetrato l’anima. Le
domando se per caso non ha qualche ambizione letteraria. Nega.
Si contenta di saper leggere. La vita è così breve, sostiene, che
solo chi non l’ama può preferire lo scrivere al leggere. Per fortuna ci sono quelli che non l’amano la vita. Quando esprime questo
concetto si rende conto di aver esagerato; per cui, quasi a correggersi, chiarisce:
“La si ama veramente la vita solo se la si accetta nella sua
finitezza. Scrive chi non l’accetta, chi vuole vivere in eterno.”
Poi le domando del suo lavoro. È assistente sociale in una
struttura comunale. Per arrotondare lo stipendio, insegna italiano
agli studenti stranieri della LUFSS.
Mi piace sempre di più questa donna man mano che imparo
a conoscerla. Mi piace la sua onesta semplicità e la sua chiara intelligenza, la modestia e la profondità, l’ingenuità e la disponibilità verso gli altri. Mi piacciono le sue debolezze e le contrad-
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dizioni. Mi ricorda tanto Luciano! Chissà perché? È talmente diversa da lui! Eppure... non riesco a pensarli se non insieme. È
come se si completassero l’un l’altra in una maniera intima e necessaria. Deve essere stato un autolesionista spirituale, l’uomo
che si è separato da una simile metà.
Sono tentata di invitarla da me stasera, ma mi trattengo. Avrei
voglia di amarla fisicamente. Ho paura però che si tratti solo di
una voglia perversa, un desiderio malefico di rompere la magia
di questa momentanea sorellanza. Lei sicuramente non apprezzerebbe di me tutto ciò che piaceva a Luciano, a cominciare
dall’esigenza di voltare i sentimenti in esperienze fisiche. No,
con lei sento di dover restare sul platonico, anche se i miei capezzoli hanno un fremito di turgore quando la bacio sulla guancia per salutarla.
La mia tendenza a voltare i sentimenti in esperienze fisiche era
effettivamente una dote che Luciano apprezzava. Io non gradivo
un tale apprezzamento. Anzi, da quando avevo cominciato a frequentarlo, e in misura crescente man mano che il nostro rapporto
si sviluppava, specialmente dopo che mi ero prefissa il compito
di salvarlo da se stesso, avevo cercato di invertire quella tendenza e indurre in lui un tipo diverso di considerazione. Non lo facevo scientemente. Ora me ne rendo conto: era un modo istintivo di
innalzare la nostra intimità a un livello più alto di passione.
Una notte, dopo aver fatto l’amore in modo particolarmente
intenso, e nell’immediato postumo di un orgasmo strepitoso, mi
accorsi che lui non era venuto, una situazione che talvolta mi disturbava un po’. Quella notte invece ne provai un inverecondo
senso di piacere. Fu un’emozione improvvisa, come se l’orgasmo
fisico si fosse improvvisamente tramutato in una frenesia morale.
Fui invasa da un senso di annullamento, e con una folgorazione
compresi cosa intende dire una donna quando dice ‘sono tua’. E
fu il petto, non la testa, a farmi proferire le parole:
“Amore mio, cosa vuoi?”
“Voglio tutto.” Disse lui con un sorriso infantile.
“Oh sì.” Rispose la mia anima estatica.
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Seguì qualche secondo di silenzio pensoso, mentre lo sguardo
liquido di lui penetrava nei miei occhi. Dissi:
“Fai di me ciò che vuoi.”
“No, fallo tu.”
Mi rimisi al lavoro, lasciando il comando alla troia che è in
me, anche il comando della mia volontà e dei sentimenti, e tutte
le arti dell’amore che avevo accumulato in anni di professione si
tramutarono in un esercizio spirituale di devozione. Lui se ne stava abbandonato accanto a me, le mani rivolte verso l’alto, il corpo inerte. Gli montai sopra a cavallo e presi di nuovo il suo potere dentro di me. Era come se volessi dare a lui tutta me stessa,
anche il mio orgoglio, anche la mia identità. Come se volessi
donargli la mia verginità più riposta. Presi le sue mani nelle mie,
i suoi occhi nei miei.
“Non ti muovere.” Dissi.
“Neanche tu.”
Restammo così per un’eternità, muti, inerti, immobili, tutti i
sensi esaltati. Ma lo sentivo muovere dentro, sentivo le intense
vibrazioni della sua virilità. E la mia carne rispondeva con ritmiche contrazioni, come se volesse catturarlo per non lasciarlo più.
“Sei mio.” Dissi.
“Sì.”
“Sono tua.”
“Sì.”
“Per sempre.”
“Un attimo infinito.”
La mia mente era invasa da visioni dell’altro mondo. Verdi
prati sconfinati cosparsi di stelle, cieli risplendenti di fiori, canti
di sirene celestiali, profumi liquidi d’impudicizia. La mia pelle
bruciava di piacere, le mie viscere in subbuglio fremevano, tutto
il mio essere era proiettato oltre me stessa.
Ora lo so che nessuno ci crederà, ma quando lui infine venne,
riempiendomi l’anima con un prolungato urlo selvaggio e il ventre con un getto della sua energia vitale, ebbi un orgasmo quale
non avevo mai provato, uno spasmo unisono del corpo e dello
spirito in un senso di perdizione.
149
Scesi di cavallo e mi distesi prostrata al suo fianco. Mi strinsi
al suo corpo, lo abbracciai e gli poggiai la testa sul petto. C’era
una sorta di comunione di essenza, come se fosse emersa finalmente una nostra verità assoluta, una verità segreta esistente da
sempre e ora rivelata. Avevo voglia di prolungare quella sensazione di totale compenetrazione, anzi, approfondirla con le
parole, dirgli che lo sentivo parte di me, che mi sentivo svanire in
lui. Ma non osavo aprire bocca. Avevo paura di rompere l’incantesimo. Temevo che un qualche scherzo della voce desse un valore ironico all’espressione di quel sentimento. Anzi avvertivo
che la mia voce interiore mi aveva già giocato lo scherzo nel
portare il sentimento al livello della coscienza.
Lo ruppe lui l’incantesimo:
“Questo modo di fare l’amore piace molto alle femministe
amazzoniche.”
Drizzai la testa e lo guardai sbigottita. Dissi soltanto:
“Eh?”
“Quelle che piuttosto che rifarsi il seno preferirebbero farselo
tagliare. Danno una certa importanza ai problemi linguistici e
pensano che il concetto di ‘penetrazione’ comunichi un significato oppressivo. Alcune hanno proposto di sostituirlo con ‘avvolgimento’. Per altre neanche questo era politically correct. Allora
è stato prospettato il termine ‘inghiottimento’, che infine ha ricevuto il consenso generale nei loro circoli esclusivi. Capisci, in
questa posizione i movimenti dei tuoi muscoli interni simulano
una presa di possesso. Se inoltre rifletti sul significato della
posizione dell’amazzone, ti rendi conto del valore politico di
tutta la faccenda.”
Mi sentii sgomenta e rasserenata ad un tempo. Da una parte
ebbi l’impressione di un crollo di ogni speranza. Dall’altra ero
rinfrancata. Fortuna che non avevo parlato d’amore! Sai che figura ci avrei fatto? Lui avrebbe apprezzato la dichiarazione prendendola per una facezia. Mi venne voglia di umiliarlo. Lo guardai trattenendo le lacrime dietro un sorriso beffardo.
“Tu sei malato.” Dissi.
“Già.”
Silenzio. Dopo una lunga pausa riprese:
150
“A volte i pensieri mi escono dalla mente come il pus da un
bubbone.”
“Non è questo. È una malattia ben più grave, una sorta di
amputazione spirituale.”
“Sentiamo.”
“Caro, tu vai forte coi chakra del basso ventre e della testa.
Quelli del petto invece sembrano morti. Così l’energia che ti si
sprigiona dall’inguine bypassa il cuore e arriva direttamente al
cervello.”
“Pensi che sia una cosa grave?”
“Mortale.” Conclusi, guardandolo con un ghigno severo.
“Ti deludo sempre, vero?”
“È più che delusione, annientamento.” Dissi, ora sperando che
il rimorso lo avesse reso vulnerabile alla verità nascosta dal sarcasmo.
“Capisco,” fece lui, “avresti voluto sentirti dire altre cose.”
“Avrei apprezzato anche il silenzio. Ma dimmi tu! È questo il
momento di esibirti in una disquisizione politica?” Quindi entrai
con un colpo basso: “Io mi sentivo tutta trasportata in te, e tu mi
ammorbi l’anima con la teoria dell’inghiottimento.”
“Hai ragione, cara. Ti chiedo perdono.”
Adesso non c’era più rischio che non capisse la verità. Perciò
mi sbracai senza ritegno: “Troppo tardi. Ormai mi hai spento.
Prima mi hai fatto bruciare come un cero alla madonna e poi mi
hai smorzato con un soffio.”
“Ti chiedo perdono.”
Si alzò, andò al frigo, prese una lattina di birra e tornò a letto.
Si appoggiò con la schiena alla testiera e sorseggiò in silenzio.
Dopo un po’ prese a parlare di cose insignificanti. Sembrava volermi far capire che era accaduta una cosa banale, niente di eccelso. Mi diede l’impressione di essere quasi infastidito per il modo
apocalittico con cui avevo accolto la sua tirata filosofica. Evidentemente l’aveva capita bene l’esperienza di compenetrazione
assoluta che avevo appena fatto, ma la cosa lo lasciava indifferente. O forse voleva che così fosse.
Mi resi conto che l’impresa di salvarlo sarebbe stata titanica.
151
Mercoledì, 29 maggio
Oggi è giornata di Giuliano. Gli telefono a mezzogiorno e gli
comunico di aver trovato la soluzione dell’enigma. Il giorno
stesso della morte di Lilli mi aveva fatto sapere di essersi convinto che LILLI non era la soluzione giusta. La soluzione giusta
l’ho ora scoperta io e gliela comunico per telefono. È semplice.
Si tratta di un acrostico. Si prende la prima lettera del primo
aforisma, la seconda del secondo e così via. Il risultato è la seguente frase: Cerca oltre cerca ancora cerca.
Alle cinque del pomeriggio lui mi si presenta a casa tutto arrazzato, e armato di un mazzo di rose rosse. Capisco subito che
ha intenzioni serie. Prendiamo un tè rapidamente e passiamo a
letto. Facciamo appena in tempo a riprendere fiato, dopo la scopata, che lui comincia a parlare. Ammette di aver sbagliato
nell’interpretazione del primo capitolo del Nuovo corso. Gli domando qual è, secondo lui, il significato del nuovo messaggio.
“È elementare,” risponde, “significa che Luciano si è preso
gioco di me. Significa che per trovare la soluzione dell’enigma
bisogna cercare in un altro capitolo, che le notti in cui mi sono
spezzato la schiena scavando nel primo sono state tempo perso.
È tipico di Luciano. Anche dopo morto continua a beffare il
prossimo, e la beffa è tanto più cocente quanto più semplice è la
chiave che dà la soluzione.”
“Certo,” dico, “in un senso particolare è tipico di Luciano.
Uno applica difficili e raffinate tecniche enigmistiche per decifrare un testo e trovarvi un messaggio che abbia un significato e
lui glielo nasconde nel più ovvio degli acrostici. Ci deve essere
una sorta di morale della favola, ma non riesco a coglierla.”
“Però col prossimo capitolo non mi frega,” riprende, “ho già
controllato, e le lettere che si trovano nelle posizioni di
quell’acrostico non contengono nessun significato, comunque
combinate.”
“Sei veramente convinto che quest’enigma abbia una qualche
relazione con l’omicidio di Luciano?” Gli domando, dopo aver
dato un’occhiata ai fogli.
“Non ho dubbi.”
152
“E quello di Lilli come lo colleghi con tutto il resto?”
“Be’, ora la faccenda sembra più complicata. Perciò lavoriamo da scienziati: partiamo dai dati accertati.”
“Quali sarebbero?”
“Intanto, le circostanze della morte di Lilli, l’apparato magico
e rituale, ad esempio. Lo sapevi che Lilli era un’appassionata di
scienze occulte?”
“Sì. Prosegui.”
“Lo sapevi che in quest’università ci sono altre persone che
coltivano interessi del genere?”
“Chi sarebbero?”
“Per esempio, le vergini rosse.”
“Le due matte?”
“Sì.”
“Mi pare un legame piuttosto tenue.”
“Aspetta. Lo sapevi che il giardino della casa delle due donne
confina con quello dell’università, proprio dalla parte in cui è
stato trovato il cadavere di Lilli? E che c’è un buco nella rete che
separa i due giardini? E che la polizia ha già interrogato le
matte?”
“E cosa ha scoperto?”
“Per ora niente. Ma fammi finire. Lo sapevi che le due, in
passato, erano state viste vagare di notte nel giardino Stibbert,
tutte nude, a quanto si dice, al chiaro di luna? E che una notte
sono state viste scavare una buca in un punto non molto distante
dal luogo dove poi è stato scoperto il cadavere di Lilli?”
“Interessante. Come fai a sapere queste cose?”
“Sono il direttore amministrativo della nostra università, e
nulla che vi accada di giorno o di notte mi è ignoto.”
“Va bene. Però se si segue questa traccia si deve accettare
l’idea che l’omicidio di Lilli non ha niente a che fare con quello
di Luciano.”
“Non è detto. Lo sapevi che anche Luciano si occupava di
magia e di scienze occulte?”
“Per lui era un interesse puramente scientifico.”
“Che vuol dire? I maghi si consideravano scienziati, a modo
loro. Ma aspetta, non ho ancora finito. Forse non sai che di que-
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ste scienze Luciano parlava non solo con Lilli. Ne parlava pure
con le vergini rosse.”
Mi fissa con gli occhi leggermente socchiusi, senza nascondere un sorriso di soddisfazione. Quindi ha un cedimento del
braccio destro, cosicché la testa, che poggiava sulla mano come
su un piedistallo, crolla sul cuscino. Lo osservo perplessa. Lui si
mette a guardare il soffitto con aria di trionfo. Stiamo in silenzio
per qualche istante. Mi alzo e vado al giradischi. Metto su Vedrai
vedrai, tanto per giustificare l’ansia che mi sta assalendo. Passo
al mobile bar e torno a letto con due Martini dry, con gin e
olivetta come si deve.
Lui rimette la testa sulla mano destra e afferrando il bicchiere
con l’altra mi guarda ora con aria di complicità. Un movimento
appena percettibile sotto il lenzuolo mi svela che non c’era bisogno della bevuta. Gli tolgo il bicchiere di mano senza dargli
manco il tempo di un sorso. Lo appoggio sul comodino e mi
rimetto al lavoro per un’altra ventina di minuti. Poi, di nuovo
relax. Quando lo vedo ben cotto gli rimetto il bicchiere in mano
e riattacco:
“Di cosa poteva mai discutere uno come Luciano con due
stolte come le vergini rosse?”
“Di stoltezze, appunto, di magia. Non ne so molto. So solo
che alcune volte le due donne sono state viste entrare nella stanza di Luciano al dipartimento di Filosofia. Qualche volta è stato
visto lui entrare nella loro riservatissima e inaccessibile villa.
Questa è la cosa più incredibile.”
Proprio così: incredibile, se vera. Le vergini rosse sono proverbiali per la loro maschiofobia. Sono quasi due istituzioni della
facoltà di Sociologia, una specie di sceme del villaggio.
Qualcuno sostiene che la più anziana delle due, quella che è soprannominata ‘la madre’, è iscritta fin dal lontano ’68. ‘La figlia’ invece si sarebbe iscritta negli anni ’80. Si vedono poco in
giro. Non frequentano le lezioni. Raramente fanno esami, che
sostengono sempre in coppia, coi professori che lo consentono.
La maggior parte delle volte toppano vergognosamente, ma non
perché sono impreparate, si dice. La ragione sembrerebbe piuttosto di ordine politico, se non propriamente psichico: se si tro-
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vano un professore maschio in commissione d’esame e sono
interrogate da lui, fanno scena muta. Siccome quindi possono superare gli esami soltanto quando sono interrogate da una donna,
ci sono delle materie che riusciranno a passare, eventualmente,
alla morte o al pensionamento del titolare di cattedra.
La leggenda dice che l’unico docente maschio con cui sono
riuscite a superare un esame è stato Luciano. Me l’hanno raccontata così: lui gli poneva le domande dandosi le risposte da
solo, ad alta voce. Alla fine disse che, potendo il loro silenzio
essere considerato una risposta affermativa, e dato che le risposte
erano esatte, le candidate meritavano non meno di un trenta e
lode; glielo diede e le liquidò. Così si dice, però io non ci credo,
anche se con Luciano tutto è possibile.
Le due donne sono appariscenti, alte e magre, non prive di
sensualità. Ogni tanto le si vedono passeggiare a braccetto su per
le viuzze tra le ville di Montughi, vestite di rosso, con due zainetti di jeans alle spalle e, ai piedi, scarponi da alpino e calzettoni di lana rossi. E parlano tra loro, parlano, parlano, sembrano due vecchie amiche che si ritrovano dopo molti anni. Passeggiano nelle ore più solitarie, tra l’una e le tre del pomeriggio.
Oppure la notte tardi.
Spesso lasciano la strada e, varcato un recinto o un muricciolo, proseguono la loro passeggiata dentro i giardini privati o
tra le vigne e gli uliveti, come fossero di loro proprietà. Ciò accade quando gli si fa incontro un uomo: per evitarlo. Se per caso non ci riescono, perché, mettiamo, la strada è chiusa da reti o
muri troppo alti, sfoderano una tecnica di difesa impressionante:
appena l’ignaro passante gli si avvicina a una distanza limite di
cinque o sei metri, le due sciroccate cominciano a sbraitare e gesticolare, a dare in escandescenze. Il poveretto, dieci volte su dieci, affretta il passo e si sottrae rapido dalla loro portata. Nessun
maschio, dice sempre la leggenda, è mai riuscito a venire in contatto con loro.
Eccetto padre Egisto, curato della vicina chiesetta di S. Martino in Montughi, al quale si dice che una volta tirarono un brutto scherzo. Dunque, lui stava officiando uno di quei matrimoni
chic che l’alta borghesia fiorentina ama celebrare nella magnifica
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scenografia di questi gioielli di chiesette antiche sparsi nei sobborghi nobili della città. Loro due se ne stavano ai lati del portale
del tempio, con le schiene appoggiate ai due stipiti, un piede dentro la chiesa uno fuori, che sembravano due bravacci. Stettero lì a
sentire la messa prendendo il sole durante tutta la durata della
funzione. Alla fine gli sposi e gli invitati uscirono. Quando uscì,
per ultimo, il prete, loro gli si avventarono addosso; una lo afferrò con una mano per i coglioni immobilizzandolo; lui non fece
in tempo a dire ‘ah’; l’altra, calma, gli stese tre sganassoni in
faccia, tre. Dopo di che lo mollarono e se ne andarono tranquille.
‘Le vergini folli’ le chiamano, oppure ‘le vergini rosse’, e si
capiscono gli aggettivi. Quanto al sostantivo, anche qui circolano molte leggende, ma contrastanti. Alcuni dicono che sono
madre e figlia, e che la giovane sarebbe stata concepita nell’unico rapporto sessuale avuto dalla madre, con un prete. Altri ne
parlano come di due amiche lesbiche oltranziste che non avrebbero mai avuto rapporti sessuali con maschi. Per altri ancora si
tratterebbe di due sorelle orfane che vivono in perfetta castità una
loro vita vaneggiante liberata dalle brutture del mondo. L’unica
cosa certa, in ogni versione, è l’ossessività della loro separatezza.
Abitano in via di Montughi, in una stupenda villa antica, quasi una fortezza, circondata da alte mura e chiusa da un cancello di
ferro, un cancello massiccio e incrostato di ruggine che sembra
non sia mai stato aperto. Tutto quel che so della villa, è ciò che
si intuisce dalle cime tetre degli alberi secolari che si intravedono
oltre il recinto e dal primo piano della casa con le sue finestre
sempre sbarrate. Né sono riuscita a sapere molto facendo domande in giro. E dire che ne ho fatte di domande, ché le due donne
mi hanno sempre incuriosito se non affascinato. Questa curiosità
è arrivata al parossismo ora, dopo quanto mi ha detto Giuliano
dei loro contatti con Luciano. Ora, inoltre, ho un valido motivo
per indagare su di loro: l’omicidio di Lilli.
156
Giovedì, 30 maggio
Stamani presto Giuliano mi viene a prendere con la sua Porsche.
Si ferma sotto casa e si mette a strombazzare a tutto spiano. Ha
deciso che oggi faremo una gita sulle Alpi Apuane.
Carichiamo zaini e scarponi, ci facciamo un cappuccio e una
brioche in un bar appena aperto, e via a 160 all’ora verso i monti
di marmo. Il cielo si accende dei primi chiarori dell’alba, mentre
l’aria fredda appanna i vetri e fischia sulle gomme. Arriviamo a
Stazzema, un paesino sulle basse pendici del Procinto, appena in
tempo per vedere il sole che sorge tra le cime rosa. Ce ne stiamo
per qualche minuto lì, seduti su un tronco al lato della strada,
mentre il sole si alza lentamente da dietro la Pania alla Croce.
Lentamente vi si alza sopra, illuminandone i fianchi maestosi, e
pare una luce di scena che prepara lo spettacolo solo per noi.
Finito di assistere alla rappresentazione, mettiamo gli scarponi
con le dita irrigidite dal freddo e impacciate dalla smania di metterci in cammino. Carichiamo gli zaini in spalla, e si va.
Le Apuane sono tra le più belle montagne d’Italia. Sorte
dall’unione tra Alpi e Appennini, hanno preso il meglio dei due
genitori. I boschi cedui dilagano dalle valli risalendo i monti fino
a mezza costa. Lì interrompono seccamente la loro ascensione e
cedono il passo ai prati brulli e alle rocce. In cima marmi bianchi si rizzano in cielo come faraglioni acuminati e i sentieri che
si snodano tra di essi corrono lungo orridi e precipizi oscuri da
far invidia alle dolomiti.
Saliamo per un’ora e mezza tra i boschi. Una breve sosta in un
rifugio pieno di gente assonnata ed eccoci a ridosso del Procinto.
È, questo, uno strano monte a forma di panettone. Si leva superbo, con le pareti verticali di roccia rosa, da un morbido letto boscoso. Sembra il pugno di un demone arrabbiato che, in odio agli
uomini e insofferente di un destino tellurico, abbia voluto sfondare il mondo dal di sotto e poi per punizione sia rimasto impietrito in quell’atto per l’eternità.
Mentre sto così, estasiata, di fronte all’imponenza del monte,
Giuliano prepara la prima sorpresa della giornata. Tira fuori dallo
zaino due imbracature, due paia di scarpe da arrampicata e delle
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corde. Mi fa indossare scarpe e imbracatura, armeggia con nodi e
moschettoni e mi comunica che oggi avrei fatto la prima scalata
seria della mia vita. Per un momento mi sento smuovere il corpo. Tiro un respiro profondo e gli faccio notare che non ho mai
seguito un corso di roccia. Lui mi tranquillizza. I passaggi più
difficili non sono che di quinto grado! Inoltre andremo su in corda doppia col massimo di protezione. Infine c’è lui a guidarmi e
prendersi cura di me.
Detto ciò, comincia ad arrampicarsi e va su per una ventina di
metri, mentre io, da sotto, gli do corda e gli faccio da sicurezza.
Dopo un po’ si ferma in un anfratto della roccia e comincio a
salire io. Non è difficile. La parete è piena di appigli e di buchi in
cui assicurare mani e piedi. La regola è che, avendo negli arti
quattro punti d’appoggio, non ne devo mai muovere uno senza
che gli altri tre siano ben saldi. Ogni tanto, salendo, incontro un
chiodo a cui è agganciato un moschettone nel quale passa la corda. Sgancio il moschettone e procedo. Non oso guardare giù. Mi
sembra di sentirla nel vento la profondità del baratro che mi si
apre sotto e che diventa sempre più orrendo man mano che salgo. In dieci minuti raggiungo Giuliano nel suo anfratto. Mi rannicchio accanto a lui addossandomi alla roccia e riprendo fiato.
Lui mi gratifica con un sorriso pieno di maschia fierezza:
“Sei venuta su che parevi un razzo, meglio di una vecchia
guida alpina.”
“Grazie per il vecchia.” Ribatto con nonchalance. Ma sono
piena d’orgoglio, come una scolaretta che ha preso dieci e lode.
Poi si ricomincia a salire. Lui avanti e io seguo a razzo. La cosa si dimostra meno tremenda di quanto pensavo all’inizio. La
vera paura in realtà non è causata dalla difficoltà dell’ascesa,
bensì dal fatto di sentirmi legata a Giuliano, la mia vita nelle sue
mani. Di ciò mi rendo conto solo più tardi quando, giunti in cima, dopo mezz’ora di passeggiata sulla cresta del monte si pone
il problema della discesa.
Ad un tratto ci troviamo sopra a una parete alta come un palazzo di dieci piani. Guardo giù per un attimo e mi sento di nuovo smuovere il corpo. Tuttavia non mi tiro indietro. Con calma
mi giro verso Giuliano. Lui non mi dà tempo di fiatare. M’infila
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una corda nell’imbracatura in un modo speciale che non ci capisco un cacchio. Ne prende un capo e lo fa passare per un anello
di acciaio fissato nella roccia. Quindi mi dice cosa si deve fare:
lui tiene la corda, facendola sfilare senza fretta nell’anello, mentre io, appesa all’altro capo, devo lasciarmi scivolare giù, lungo
la parete; devo tenere le gambe a squadra, puntarle sulla roccia,
dare dei colpetti di ginocchia per fare dei saltelli orizzontali, e
confidare in lui.
Guardo giù di nuovo. Il baratro pare sprofondare senza fine
sotto di me. Soltanto il mio forte sfintere m’impedisce di farmela addosso. Eppure devo buttarmi. In un momento di debolezza,
con la voce un po’ fessa, chiedo se non esiste per caso un’altra
via. Ma mi pento subito. Riprendo il controllo di me, mi giro con
le spalle al baratro, i piedi sull’orlo, guardo Giuliano negli occhi.
Lui mi guarda negli occhi, non una parola, come da uomo a
uomo. Tendo la corda e mi butto.
È una delle esperienze più eccitanti della mia vita. Sto lì, sospesa nel vuoto, attaccata a una corda il cui altro capo è nelle
mani di un uomo che potrebbe volere la mia morte. Nei dieci
minuti di discesa mi rendo conto di quanto mi è estraneo
quest’uomo. Sono invasa dalla sensazione che nella sua testa
potrebbero passare pensieri bui. Ho l’impressione di essere una
cosa astratta, una cosa che appartiene alla sua mente, il che mi dà
una specie di ebbrezza fredda. Scendo leggera e m’illumino di
smarrimento nel vuoto intorno a me, ed è con voce sonora e spavalda che rispondo ai suoi richiami dall’alto.
“Tutto OK?”
“Tutto OK!”
“Sei fantastica!”
“Sei fantastico!”
Continuo a venire giù con leggerezza, con quegli assurdi saltelli orizzontali lungo la parete verticale, mentre la corda sfila tra
le mani di lui.
Un’ora più tardi ci troviamo di nuovo al rifugio. Ordiniamo
torta di mele e ne divoriamo subito mezzo chilo, bagnandola con
una grappa alla ruta che ci restituisce la pace dei sensi. Gli occhi
di Giuliano brillano di gioia come quelli di un bambino. I miei,
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ne sono sicura, non meno dei suoi. La sua stima per me è alle
stelle. Stranamente non è aumentata la mia stima per lui e neanche la mia fiducia; e quest’uomo, nonostante tutto, mi resta ancora un estraneo.
Al ritorno, sull’autostrada, con i muscoli indolenziti ma rilassati sugli avvolgenti sedili della coupé, Giuliano mi sfodera l’ultima sorpresa della giornata. Ha decifrato il secondo capitolo
degli appunti e ha trovato il nome giusto: GIANRICO. Non mi
spiega neanche come ha fatto per arrivarci. Se non gli credo –
dice – posso tentare da sola; ho già dimostrato, col primo capitolo, di essere più brava di lui.
Appena arrivo a casa mi piazzo davanti alla scrivania, apro
davanti a me i fogli del secondo capitolo del Nuovo corso e mi
metto a studiarli.
Per quanto mi sprema le meningi, non riesco a trovare
nessuna chiave di lettura sensata; nessuna chiave che mi apra la
porta alla parola GIANRICO. Vado avanti per tre ore buone,
provando e riprovando, con acrostici, anagrammi, palindromi,
logogrifi e un’altra mezza dozzina di giochi enigmistici. Niente.
È stressante scavare per ore e ritrovarsi sempre al punto di
partenza. Molto più divertenti i giochi in cui mi sono esercitata
negli ultimi giorni sulla Settimana enigmistica e su due libri specialistici regalatimi qualche tempo fa da Luciano. Devo aggiungere che un tale frivolo studio mi ha portato a fare una meravigliosa scoperta culturale: l’enigmistica d’alto livello è una scienza seria. Perché no, se lo è la letteratura? Magari non ha alcuna
utilità immediata, non per questo è più spregevole di altre scienze formali; penso a certe geometrie non euclidee e a certi modelli
di equilibrio economico generale, giochi di squisita raffinatezza
che Luciano mi aveva insegnato ad apprezzare oltre che per le
proprietà estetiche anche per la potenza conoscitiva controfattuale.
Forse alla fine realizzerò che la storia dei messaggi nascosti
nei capitoli del Nuovo corso è una patacca, e il tempo che avrò
dedicato a queste impossibili decifrazioni si rivelerà una perdita
di tempo. Ma qualcosa mi resterà. Almeno una cosa mi resterà:
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l’arricchimento spirituale che ho ottenuto dallo studio di una piacevole scienza.
Le gite di Giuliano erano diverse da quelle di Luciano, diverse
come la montagna e la campagna, o meglio, la natura e la cultura. Mi piacevano entrambe e non saprei decidere quale preferissi.
Nutrivano due distinti bisogni del mio spirito, direi, una sete e
una fame dell’anima. L’angoscia della solitudine, da una parte,
chiedeva un appagamento elevato che mi desse un arricchimento
culturale. Dall’altra il risentimento sociale, se non proprio esistenziale, mi spingeva verso le sensazioni forti, le sensazioni che
solo la natura selvaggia può dare.
Una volta volli unire le due esperienze. Dopo vari tentativi,
riuscii a convincere i due amici a fare un’escursione noi tre insieme. Andammo a monte Senario, una montagnola venti chilometri a Nord di Firenze che accoglie sulla cima un antico monastero benedettino.
I miei due cavalieri cominciarono a litigare fin dall’inizio. Lasciata la macchina ai piedi del monte, Luciano prese una cartina
e una bussola e fece il punto. Con una matita tracciò due linee
rette sulla mappa e disse, indicando col braccio il folto del bosco:
“Si va in questa direzione.”
Giuliano si mise a ridere. Poi, con un tono tra l’ironico e il
condiscendente, cercò di far capire all’altro che in montagna non
si va come in mare; che le rotte sono già tracciate dalla tradizione, nei sentieri; che esistono delle regole dell’andare in montagna, sia pur non scritte; e che queste regole vanno rispettate,
non solo per il proprio bene, ma anche per amore della montagna. Luciano rispose che il bello delle regole sta nel trasgredirle e
che lui, quando può, disobbedisce a quelle che non si dà da sé.
La discussione s’infervorò subito. E continuò per un pezzo. Infine decidemmo di separarci, dandoci appuntamento sulla cima.
Luciano si avviò sulla sua rotta. Io e Giuliano seguimmo il sentiero segnato.
Restammo sorpresi quando, giunti in cima, trovammo l’amico che ci aspettava. Se ne stava seduto su un masso, con un libro
in mano, un dito tra le pagine, lo sguardo sperduto nel vuoto,
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assorto in una sua contemplazione triste, davanti a una grottina
buia e umida.
Si girò verso di noi, quando gli fummo vicini, e ci ordinò di
sedere per terra e di stare zitti. Ci raccontò la storia dei soci fondatori del santuario di monte Senario, due ricchi mercanti fiorentini, non ricordo i nomi, i quali in un giorno radioso del Duecento decisero di diventare santi. Abbandonarono ogni ricchezza
e gli onori e i piaceri della città e si rifugiarono in quella grotta a
meditare nel silenzio. Luciano narrava tutto ispirato, sembrava
parlare di sé. Neppure il velo d’ironia del suo abituale sorriso
spento riusciva a nascondere l’anelito d’ascetismo che traluceva
dai suoi occhi e dalle sue parole. Giuliano lo lasciò finire senza
interrompere. Poi, sempre in silenzio, tirò fuori dallo zaino birre
e panini e li distribuì.
Dopo pranzo i due amici, se posso usare questa parola senza
dare l’impressione di fare dello spirito, ricominciarono a discutere, stavolta su Firenze, l’Italia e la sua capitale. Era un argomento che li interessava entrambi e molto: Luciano, che era
romano, perché aveva eletto Firenze a sua città ideale, proprio
come me; Giuliano perché qui ci era nato e, sebbene emigrato a
Roma sin da bambino, si sentiva fiorentino al cento per cento.
“Firenze sarebbe l’unica vera capitale d’Italia,” disse Luciano,
“se solo questa nazione avesse una più profonda coscienza di sé.”
“Scherzi?” Lo interruppe il fiorentino. “Stai parlando di una
città provincialissima, dominata culturalmente e politicamente
dalla classe dei bottegai, chiusa nella contemplazione delle glorie passate e refrattaria a ogni cenno di innovazione.”
“Provinciale sì, e appunto perciò rappresentativa della nazione. Cos’è l’Italia se non un’immensa provincia? E come fa a riconoscersi in una capitale dello splendore di Roma? Infatti non
vi si riconosce. La città eterna si è sempre vissuta quale centro del mondo ed è, nel bene e nel male, l’unica vera metropoli
cosmopolita d’Italia.”
“E Milano dove la metti?”
“Milano è una bella cittadona,” riprese il romano, “pulita,
efficiente, ordinata, anche sontuosa; può aspirare a essere la capitale del Lombardo-Veneto, niente di più. Quanto alla capitale
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morale... Be’, ha ampiamente dimostrato di essere la vera capitale dell’Italia furbacchiona. A parte questo, la metto sul piano
di Lione, Zurigo o Monaco, non la confronterei con le grandi capitali spirituali d’Europa: Parigi, Londra, Vienna, Berlino, Roma.
Il problema è che gli italiani non si riconoscono in Roma come i
francesi in Parigi e gli inglesi in Londra, un chiaro segno del loro provincialismo. Un popolo che non è capace di elevarsi oltre
se stesso fino a identificarsi in una capitale cosmopolita, non è
degno di essa. Un popolo provinciale che per un puro scherzo
della storia abbia avuto in dono una capitale del genere non può
non provare un sordo rancore verso di essa. Ecco la ragione profonda dell’odio degli italiani verso Roma.”
“Pensavo piuttosto che l’odio dipendesse un po’ dalla fama
d’inefficienza e di corruzione di cui gode la classe politica romana, un po’ dalla lunga storia dei tradimenti e delle sopraffazioni
perpetrati dalla capitale della cristianità ai danni delle altre città
italiane e della nazione.”
“Qui hai torto e ragione allo stesso tempo. La prima spiegazione non ha molto senso. La classe politica romana, e v’includo il top management della chiesa, l’alta intellighenzia, l’alta
burocrazia, è l’unica classe sociale non romana che vive a Roma. Le lotte politiche in provincia selezionano i migliori cervelli
del paese per spedirli alla capitale. Che colpa ne ha Roma se tra i
requisiti necessari per vincere la competizione rientra l’opportunismo, l’astuzia e la perfidia? Questa gente poi, appena
giunta nella città eterna, comincia a vivere in un suo mondo
elevato, a nutrirsi di valori universali, a fare la grande politica e
la grande cultura, snobbando i piccoli problemi pratici che affliggono la provincia. Anche per ciò è odiata dagli italiani. Loro
hanno prodotto la classe politica, e mandandola a Roma ne hanno fatto una smandruppata: una tronfia prostituta che si scopre
soddisfatta di sé per essere finalmente riuscita ad accasarsi, si
sbraca sulla città e se la gode. In realtà la sua corruzione è una
prova dell’odio degli italiani verso Roma, non una giustificazione. Anzi, del loro odio verso se stessi.”
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“Ahi ahi ahi! Si entra nella psicologia dei popoli!” M’intromisi, gelandolo per un attimo. Lui non si lasciò intimidire e non
ci diede tregua:
“Aspetta, fammi finire. Volevo aggiungere che invece nella
parte storica della sua spiegazione Giuliano ha ragione, almeno
in parte.”
“Volevo ben dire!” Fece l’altro. Ma lui, imperterrito:
“È vero che Roma negli ultimi sei-settecento anni di storia ha
lavorato sistematicamente al disfacimento politico della nazione.
Il che, però, non si spiega soltanto con l’esigenza della Chiesa di
stroncare sul nascere ogni potenziale minaccia alla propria esistenza come stato. Perché il diabolico progetto potesse avere successo era necessaria la collaborazione delle altre città, le quali
infatti hanno contribuito sistematicamente all’opera di annichilamento morale dell’Italia; primo, in quanto hanno fatto propria
l’ideologia cattolica, in tal modo disarmandosi da sé di fronte al
nemico; secondo, in quanto non sono mai state capaci di superare
gli stretti orizzonti delle loro politiche parrocchiali, armando in
tal modo il comune nemico in Roma. Così torniamo al punto di
partenza: è il provincialismo d’Italia che spiega la pervicacia, stavolta sì, di Roma, non viceversa.”
“E la Peppa!” Lo interruppi di nuovo, ora decisa.
“OK. Niente psicologia dei popoli.”
“A me interessava di più il discorso su Firenze.” Dissi. “Dunque sarebbe la degna capitale d’Italia per i suoi difetti, non per le
sue qualità, perché è provinciale, non perché...”
“Non è proprio questo che intendevo.” Abboccò subito. Fece
una pausa, come per riprendere fiato prima di un nuovo assalto,
diede una lunga sorsata alla birra, poi si accese un toscanello.
Ormai si era infervorato e non lo fermava più nessuno. Né
avevo intenzione di fermarlo io, semmai di provocarlo ancora.
D’altronde gli succedeva così raramente di infervorarsi! Di solito
interveniva nelle discussioni elevate, quando interveniva, con
atteggiamento di controllata ironia, parlando poco e cercando di
abbattere gli argomenti degli altri piuttosto che di dare forza ai
propri. Nei rari casi in cui si lasciava accalorare, si trattava di
discussioni futili, come questa sulla vera capitale d’Italia, e
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tendeva a trasformarle in monologhi. Allora gli piaceva assumere punti di vista paradossali e sostenerli con tutti i mezzi
possibili, con la freddezza della logica e la forza della retorica. E
non si capiva mai se ci credeva veramente nelle idee che difendeva o se non era piuttosto mosso da un’inconsulta voglia di aggressione verso il senso comune.
“Quando dico che una nazione provinciale deve essere rappresentata da una capitale provinciale,” riprese, “dico una banalità...”
“Ma no?” Giuliano.
“In realtà,” continuò l’altro, “ci sono due tipi di capitali provinciali: quelle che abbassano e quelle che elevano; Whashington e Bonn da una parte, Madrid e Atene dall’altra. Firenze
apparterrebbe al secondo tipo. Una capitale che eleva una nazione è un centro che ha contribuito in modo essenziale a farne la
storia nei suoi momenti migliori. Al contempo non si distingue
da essa in nulla di essenziale, così da riuscire a esprimerne il
livello culturale e morale diffuso. La nazione però vi riconosce la
sede delle proprie radici e v’identifica la parte nobile di sé. Una
nazione provinciale che vuole elevarsi si sceglie una capitale che
non è molto diversa da sé, ma è in grado di incarnare ed esprimere il meglio di sé. Una tale città per l’Italia sarebbe Firenze, se
gli italiani fossero meno...”
“Dove lo vedi questo meglio di sé in Firenze?” Interruppe il
fiorentino. “In che modo la città esprime il meglio della Lombardia o del Piemonte? Nel lerciume delle strade, nelle case
fatiscenti, nell’incuria con cui sono tenuti i giardini, i monumenti
e l’arredo urbano, nell’arroganza della gente, nell’inefficienza
degli uffici pubblici, nella stolidità dell’assessorato al traffico,
nella preclusione a ogni novità? Io la vedrei bene quale capitale
dell’Italia meridionale, a Sud della linea gotica.”
“Questi che hai appena elencato sono aspetti inessenziali,
esteriori, e sono le caratteristiche per cui Firenze rappresenta la
medietà: più sporca di Bologna e meno di Napoli, più disfatta di
Milano e meno di Roma.”
“Non credo siano qualità tanto esteriori. Sono espressione di
un abito culturale. Né sono tanto medie. Prendi le strade. Nessu-
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na città d’Italia ha strade così sfasciate, neanche Napoli o Palermo. Parlo di cose banali come la pavimentazione dei marciapiedi o...”
“È vero, ma questa è colpa della pietra serena.”
“Esatto. La pietra serena si usa solo in Toscana. È un materiale brutto e fragile, si sfalda con la pioggia, si spacca col sole, si
sfarina sotto le ruote delle automobili. Eppure i fiorentini non
hanno mai pensato di cambiarla. Perché? Perché non sostituirla,
per esempio, con il forte porfido romano o con l’indistruttibile
travertino? Te lo dico io perché: è che si tratta di un lascito della
tradizione. In ciò i fiorentini somigliano agli inglesi: non importa se la tradizione è bella o brutta, buona o cattiva; è sacra, e in
quanto tale non va toccata. Il che, mi dirai, è un segno di provincialismo. E sarei d’accordo...”
“Ti sbagli.” Lo incalzò il romano. “E non potevi scegliere
esempio migliore a sostegno della mia tesi. Il travertino di Roma
è indistruttibile. I monumenti e i marciapiedi fatti di travertino
sono eterni e sono adatti a una città che si sente universale. Da
parte sua la pietra serena intanto non è per niente brutta, con quel
grigio creta che si sposa così bene con il bianco ombrato dei
palazzi rinascimentali. Guarda i colonnati del Brunelleschi che
circondano piazza SS. Annunziata. Si può paragonare la loro
sobria eleganza con la spocchia di piazza S. Pietro? Soprattutto,
per restare al tuo argomento, io credo che la caducità della pietra
serena sia una qualità che i fiorentini hanno ricercato consapevolmente. Una qualità che esprime un senso della vita niente
affatto tradizionalista, bensì modernissimo, se non postmoderno.
La pietra serena sta al travertino come l’effimero all’eterno. E il
senso dell’effimero è uno dei prodotti spirituali più elevati
dell’umanesimo fiorentino. Qui il modo di vivere e di sentire
dell’uomo per la prima volta nella storia perde i toni superbi
della metafisica e assume dimensioni mondane. Gli individui
cessano di cercare fondamenta spirituali alla propria esistenza e
si acquietano nel quotidiano. La trasformazione culturale che
genera l’uomo moderno iniziò a Firenze, pressappoco nell’epoca
in cui il gusto letterario superò Dante per lasciarsi guidare da
Boccaccio. I fiorentini questa eredità se la portano nel sangue. Il
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loro disincanto, la sobrietà nel vestire, la misura dei toni, la raffinatezza delle loro bestemmie, perfino la beceraggine del loro sarcasmo, sono espressioni di levatura spirituale. Il loro senso di superiorità nei confronti di tutti gli altri popoli d’Italia e del mondo
è in un certo senso giustificato dalla loro capacità di guardare al
mondo con distacco, dal di fuori e dall’alto. Quando rifiutano le
innovazioni non si oppongono al mondo moderno, bensì a quanto di volgare c’è in esso. È vero che sono molto selettivi coi doni della civiltà industriale, ma lo sono perché cercano di ottenere
il meglio, lasciando il peggio agli americani. Il loro provincialismo è il modo d’essere che hanno consapevolmente scelto per
porsi al di fuori del vortice e conservare la propria saggezza. Ora,
queste qualità, quest’atteggiamento verso la vita, sono presenti in
diversa misura anche nel resto d’Italia; e si sa che dietro il
complesso d’inferiorità che il Belpaese esibisce agli occhi d’Europa si nasconde piuttosto un complesso di superiorità. In Firenze non si nasconde più e da complesso si tramuta in consapevolezza. Perciò dico che l’unica vera capitale di questa nazione,
l’unica città capace di rappresentarla elevandola alle proprie aspirazioni e rivelandola a se stessa, sarebbe Firenze.”
Si fermò e prese un altro lungo sorso dalla lattina di birra. Io e
Giuliano ci guardammo perplessi e capimmo di nutrire lo stesso
dubbio: che Luciano ci stesse prendendo per il culo. Lui, quasi a
rispondere alla nostra muta domanda, alzò il braccio destro puntando un dito verso il cielo e sentenziò:
“Ma ciò non poteva accadere. Poiché sta scritto: se tutt’Italia
fosse Toscana, povero mondo!”
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Venerdì, 31 maggio
Per pranzo sono da me Gianrico e Silvio. Non è stato difficile
convincerli a venire. È bastato un cenno a una nuova soluzione
del maledetto enigma e alla possibilità che Giuliano l’avesse
trovata. Si mostrano un po’ sorpresi di incontrarsi. Non si aspettavano un tête a tête. In effetti li ho invitati senza informarli l’uno
della presenza dell’altro. La mia intenzione è di metterli a confronto, come fa un giudice con due testimoni contrastanti. Se è
valida l’ipotesi del movente connesso alle malefatte accademiche
di Luciano, uno dei due può essere l’assassino. D’altra parte
ciascuno dei due, calcando la mano sul movente dell’altro, l’ha
di fatto accusato. Però voglio anche sapere qualcosa riguardo a
Lilli. Era la segretaria di Giuliano, ma si dice che fosse un’informatrice di Gianrico, secondo alcuni, di Silvio, secondo altri.
Forse lo era di entrambi e probabilmente giocava una sua partita
personale destreggiandosi fra i tre.
Gianrico e Silvio, messi insieme, sembrano due personaggi
pirandelliani. Quando facciamo l’amore in tre, si comportano
come se non si conoscessero. Ora che abbiamo un colloquio serio
indossano garbate maschere da gentiluomini accademici e fanno
il possibile per nascondere la tensione che la presenza dell’uno
suscita nell’altro. Tuttavia le maschere sono così diverse che sorge spontaneo il dubbio se tra i due sia mai esistita una qualche
relazione, o piuttosto se ne esista la possibilità. Silvio è distaccato, serio, sobrio, di una gentilezza perfino stucchevole. Parla
con calma, scherza poco, mi guarda sempre fisso negli occhi con
un’espressione paternamente amorevole, quasi partecipando dei
miei sentimenti. Gianrico invece è esuberante, rumoroso,
brillante. Si atteggia a filosofo francese, un po’ blasé e un po’
naif. Parla il suo eloquio immaginifico e frizzante. Ogni tanto
sfodera una battuta arguta, di quell’arguzia ruspante che solo i
fiorentini DOC riescono a simulare così finemente.
So bene io come fargli abbassare la cresta a tutti e due. Intanto gli ammannisco un pranzetto che non direi proprio leggero:
Pizzoccheri valtellinesi, di cui Gianrico va matto, bistecche di
maiale al pepe verde, di cui va matto Silvio; per contorno,
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sformato di spinaci e purè di patate al parmigiano; il tutto bagnato da un corposo Tignanello del ’77 che sturerebbe un lavandino intasato; per antipasto, crostini di salsiccia e stracchino;
infine un dessert di frutta in mostarda con mascarpone e shortbread scozzesi. Col dolce gli passo del vinsanto di caratello che
gli taglia definitivamente le gambe. Alle due, quando si accomodano sui divani del mio boudoir, subito dopo l’abbuffata,
sono cotti a puntino, lo sguardo spento di soddisfazione, la lingua impastata, gli stomaci affaticati che pare di sentirli lavorare.
Non mi ero mai interessata di cucina prima di abbracciare la
professione. Ora invece è diventata una vera passione. La coltivo
come un’arte, e senza secondi fini, per lo più. La coltivo soprattutto per il piacere immediato che ne ottengo e meno nel consumarla che nel prepararla. Ho attraversato vari periodi. Prima
l’haute cuisine francese, poi la nouvelle cuisine, in seguito la
cucina rinascimentale fiorentina. Solo recentemente, sotto l’influsso della lettura rivelatrice del divino Artusi, ho cominciato ad
apprezzare la cucina popolare italiana, una cucina modesta, eppure così sapiente! Infine mi sono accorta che si tratta di una vera
arte e, abbandonati i libri alla critica roditrice dei topi, ho cominciato a sperimentare in corpore vili, facendo scorrerie nelle trattorie e nei buchi dei quartieri popolari di Firenze e dei paesini di
provincia. Ma anche quando viaggio nel resto d’Italia cerco di
fare esperienze. Stringo amicizia con i trattori e i cuochi e mi
faccio rivelare i loro segreti. Se mai scriverò un libro serio, sarà
un libro di cucina. La coltivo, quest’arte, per il piacere immediato che ne ottengo, dicevo, sebbene non disdegni a volte di
usarla per qualche fine secondo. Così ho fatto oggi coi miei due
capoccioni.
Dunque, tornando a loro, gli comunico a sorpresa la scoperta
di Giuliano. E la sorpresa è forte. Gianrico ha un sobbalzo quando faccio il suo nome dicendogli che è la parola nascosta nei
famigerati appunti di filosofia. Mi domanda cosa significa, ma io
l’incalzo dicendogli che è lui che deve spiegarmelo. Silvio mi dà
ragione, faticando a nascondere un sogghigno di perfidia. L’altro
resta muto e assorto. L’unica battuta che si lascia sfuggire è
rivolta a se stesso:
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“La cosa non mi garba punto. Proprio no. Direi anzi che la mi
disgarba alquanto.”
La conversazione, di reticenza in reticenza, stenta ad avviarsi
e non risulta particolarmente produttiva. Ciò che riesco a capire è
che Gianrico è piuttosto preoccupato e non si sente a suo agio nei
panni della soluzione dell’enigma. Sembra sinceramente non
capirci un gran che. Né parla molto. Ha perso all’improvviso tutta la sua facondia. Pure Silvio è più pensoso che loquace. A fatica riesco a strappare dalle loro bocche poche frasi riluttanti,
insistendo per sapere cosa pensano dell’omicidio di Luciano. Mi
pare di capire che entrambi ora sono propensi ad attribuirlo a
Giuliano. La conversazione è faticosa, e i silenzi parlano per le
parole. Devo aver esagerato con il pranzo e il vino.
Servo il caffè. È l’occasione per cambiare argomento. Penso
che sull’omicidio di Lilli potrebbero parlare di più. Domando se
credono che possa essere collegato con quello di Luciano. Risponde Gianrico:
“È difficile credere che non lo sia.”
“Cosa pensate di tutto l’allestimento scenico da messa nera?”
“Una messa... in scena, appunto.”
“Carino.” Osservo. “Senonché Lilli si interessava veramente
di magia, e anche Luciano...”
“Vien via! Codesta è una cosa che non ha né babbo né mamma.”
“Vuol dire né capo né coda.” Spiega Silvio. E prosegue: “Sono abbastanza d’accordo con te, Gianrico, però non sottovaluterei la faccenda. Luciano si era interessato di parapsicologia in
uno dei suoi vagabondaggi intellettuali, per quanto lo facesse con
spirito, diciamo così, scientifico.”
“Questo m’interessa. Con spirito, diciamo così, scientifico?”
Gli faccio il verso, ma mi pento: “Veramente, m’interessa molto.”
“Sì.” Riprende lui senza scomporsi. “Era una delle sue avventure intellettuali. Aveva sempre bisogno di studiare cose nuove. Si faceva prendere continuamente dalle passioni più strampalate, senza approfondire veramente mai nulla, anzi, direi, per
evitare di approfondire alcunché. Una volta l’antropologia, un’al-
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tra la psicanalisi, un’altra la poesia. L’ultima era appunto la parapsicologia.”
“Sulla quale si era del tutto inciuchito, il fanfero.” S’intromette Gianrico. L’altro non gli dà spago, e prosegue:
“Ne ho parlato con lui recentemente. Il suo interesse per un
campo di ricerca tanto squalificato accademicamente meravigliava me non meno degli altri colleghi: un ricercatore razionale e razionalista come lui!”
“Forse il fatto che fosse squalificato”, fa Gianrico, “era ciò
che più lo attraeva, quel tenebrone.”
“Sì, lui stesso dava una spiegazione del genere. La cattiva
fama della parascienza, l’ostinazione con cui gli scienziati cercherebbero di confonderla con le pratiche dei fattucchieri e dei
prestigiatori sarebbero, secondo lui, una tipica manifestazione
d’intolleranza religiosa.”
“Questa non l’ho capita.” Interrompo.
“Religiosa perché determinata dall’educazione cristiana che la
stragrande maggioranza degli scienziati si porta dietro. I miracoli, per il cristianesimo, accadono solo per opera di Dio o del
Diavolo, e quindi non possono essere fatti oggetto di ricerca
scientifica. O Dio esiste, e allora i miracoli sono al di fuori della
portata della scienza. O non esiste, e allora non possono esistere
neanche i miracoli. Così, sosteneva, gli scienziati atei e materialisti sono peggio degli spiritualisti negli sforzi volti a screditare
la parapsicologia. Secondo Luciano invece un atteggiamento
seriamente scientifico dovrebbe spingere ad aprire la mente fino
a farle affrontare il problema dell’esistenza degli angeli. Il fatto
che non è stata provata sperimentalmente non autorizzerebbe
nessuno scienziato a sostenere che non si dà, non più di quanto
autorizza un fesso a sostenere il contrario. Deve valere per gli
angeli ciò che vale per i buchi neri: non possono essere osservati
direttamente; dunque si tratta di affinare le esplorazioni degli indizi e le teorie per pensarli.”
“Va bene,” s’intromette di nuovo Gianrico, “ma se non esistono non ci sarà teoria che possa scapolarla, né osservazione che
possa...”
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“Bravo, è l’obiezione che gli feci io. Sai cosa mi rispose? Che
le osservazioni non possono dimostrare le teorie e che questa è la
ragione per cui la scienza si evolve continuamente.”
“Mi sembra una lucianata.” Di nuovo Gianrico. “Però, per tornare a Bomba, è vero che recentemente il grullo si era messo a
introgolarsi con certa razzumaglia, maghi, fattucchiere, cavalieri
del nulla o giù di lì...”
Non finisce la frase. Anzi, s’interrompe bruscamente quasi
mordendosi la lingua.
“Che vuol dire?” Domando.
“Lascia perdere,” fa lui, “razzumaglia e basta.”
“Come le vergini folli?”
“Anche. Ma soprattutto frequentava strane letture, che non
direi proprio scientifiche. Insomma era ringrullito. Qualche settimana fa ho avuto una richiesta d’accesso alle stanze riservate
della biblioteca.”
“Che stanze?” Domando seccamente. La cosa m’interessa.
“Ci sono dei testi antichi, roba di carattere religioso, la maggior parte di provenienza indiana e tibetana, canoni buddisti,
induisti e affini. È materiale antico e molto raro, e non è accessibile al pubblico se non previa autorizzazione del direttore della
biblioteca, il quale la concede dietro parere favorevole di un
preside di facoltà.”
“Non sapevo che Luciano ti avesse richiesto questo parere.”
Interviene Silvio. “Che libri consultò?”
“Non solo consultò, se ne portò a casa alcuni. Erano testi tantrici, magia sessuale e robaccia simile.”
Conoscevo bene quei testi. Alcuni li avevo studiati insieme al
mio uomo. Ma non lo dico ai due presidi. È Silvio a riprendere il
discorso:
“Se Luciano si occupava veramente di certe cose, sarebbe
confermata l’ipotesi di un collegamento tra i due delitti.”
“In tal caso,” proseguo io, “lo sfondo magico-rituale non
sarebbe una messinscena.”
“Già,” ribatte lui, “ma per me resta una pista poco convincente. Mi sembra più verosimile l’altra.”
“Cioè?” Il dialogo ora si svolge tutto tra me e Silvio.
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“Quella dell’enigma nascosto negli appunti di filosofia.”
“Non potrebbero essere la stessa pista?”
“Difficile dirlo. Nella pista dell’enigma è implicato Giuliano e
ora, a quanto pare, anche tu, caro Gianricuccio,” dice, voltandosi
verso di lui, con un filo di malignità nella voce, “e non vi ci
vedo, nessuno dei due, interessati a faccende di parapsicologia.”
“Che mi dite delle vergini rosse?” Insisto.
“So che sono state interrogate dalla polizia per l’omicidio di
Lilli. E sapete cosa? Hanno presentato un alibi che la polizia non
è riuscita a controllare, un alibi incredibile.”
“Che alibi?” Domando all’unisono con Gianrico.
“Non indovinerete mai.”
“Sentiamo.”
“Sapete cosa hanno risposto, quando la polizia gli ha domandato dove si trovavano la notte della morte di Lilli?”
“Dai, non fare il noferi, taglia corto.” Lo sollecita Gianrico.
“Che hanno passato tutta la notte in compagnia di Luciano.”
“Di chi?” Di nuovo in coro. E lui, scandendo le sillabe con un
sorriso beffardo:
“Di Luciano.”
“È un alibi folle.” Dico io, dopo un attimo di sconcerto.
“Mah? Probabilmente quella sera se ne stavano a casa per
conto loro. Probabilmente, non essendo al corrente della morte di
Luciano, hanno sperato che lui gli avrebbe confermato l’alibi. Si
dice che fosse il loro unico amico. D’altra parte è un alibi insensato, certo, ma non dal nostro punto di vista. Se l’omicidio di
Luciano è collegato a quello di Lilli, la loro ignoranza del primo
le proverebbe estranee anche al secondo.”
“Dunque tu pensi che loro non sono implicate.” Riprendo.
“Penso di no.”
Poi la conversazione torna sull’enigma nascosto negli appunti
di Luciano. Vogliono vedere quei maledetti appunti. Gli dico che
non li ho. Loro non sembrano convinti. Si sono svegliati del tutto
ora, e cominciano a farmi un sacco di domande sul direttore
amministrativo. Quali sono i miei rapporti con lui, quali le sue
intenzioni verso di loro, e se è stata trovata quella famosa chiave
della verità. Io non ne so più di loro, glielo dico e glielo ripeto;
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senza essere creduta, purtroppo. La conversazione va avanti
ossessiva per un bel pezzo, per quanto né io né loro riusciamo a
cavarne qualcosa di concreto. Alla fine, stanchi non meno di me,
se ne vanno. Sono le sei del pomeriggio. Una giornata persa.
La faccenda degli studi parapsicologici di Luciano mi evoca ricordi tristi, di quando il movimento ciclico del nostro amore entrò in una profonda crisi di depressione. Nella fissa di salvarlo da
se stesso, mi ero riproposta di entrare nella sua testa, di penetrare il suo mondo chimerico, e mi ero messa a studiare con lui
quegli antichi testi religiosi. Capii subito che non era precisamente di parapsicologica che s’interessava, nonostante che tra i
suoi libri ci fossero alcuni trattati di questa pseudo-scienza scritti
da professoroni californiani. Era un richiamo più spirituale, eppure molto pratico. Non le favole mitologiche e le fisime simboliche lo appassionavano, bensì le tecniche psico-fisiche praticate
dagli antichi santoni.
Quando vide che la cosa cominciava a interessare anche me,
ne fu felicissimo. Si eresse a mio guru personale e mi diede degli
esercizi da fare. Mi consigliava letture di testi sacri e, dopo avermi spiegato il significato tecnico di certi riti, mi dava indicazioni
su come praticarli. M’insegnò a rilassare i muscoli di tutto il corpo, a controllare il respiro e il battito cardiaco, a svuotare la mente e visualizzare immagini.
All’inizio gli esercizi li facevo in posizione supina, e incappavo quasi sempre in una difficoltà: arrivata alla fase del vuoto
mentale mi addormentavo. Allora Luciano mi cambiò metodo.
Mi faceva sedere su uno strano sgabello, alto un palmo e con il
ripiano leggermente inclinato in avanti. I polpacci dovevo tenerli
sotto lo sgabello, di modo che stavo inginocchiata ma senza che
il corpo gravasse sulle gambe. La posizione era comoda, l’unica
fatica che richiedeva era di tenere il busto eretto in equilibrio sul
culo. Questo minimo sforzo era sufficiente per evitare l’addormentamento.
Poi m’insegnò a controllare le visualizzazioni. Per un po’ di
tempo ho meditato a occhi chiusi. Quando giungevo alla fase del
vuoto mentale, comparivano spontaneamente immagini di ghigni
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e volti sconosciuti, a volte benevoli, più spesso diabolici e terribili, tanto da spaventarmi e farmi perdere la concentrazione. Allora Luciano mi disse di tenere gli occhi aperti e fissarli su un
mandala appeso alla parete davanti al letto. Era un quadro indiano astratto, con un’infinità di colori e una certa varietà di
motivi disposti simmetricamente, fiori, croci, svastiche, stelle,
lune, soli. Al centro c’era un occhio stilizzato, sul quale concentravo l’attenzione. Dopo un po’ di tempo che lo fissavo, le figure
cominciavano a cambiare forma e a muoversi, spesso con un moto circolare, talvolta ondulatorio. Il difficile fu imparare a dominare quelle immagini. Con la forza della mente dovevo controllare i cambiamenti di configurazione del mandala fino a dar vita
a una figura umana. Infine riuscii a visualizzare il corpo di Luciano senza guardare lui, ma facendolo emergere dalle trasmutazioni delle forme astratte.
Quando mi fui impratichita nel metodo, m’introdusse a delle
tecniche sessuali, come quella in cui, invece di inginocchiarmi
sullo sgabello di meditazione, mettevo in atto l’esercizio yoga
stando a cavalcioni su di lui. Erano giochetti che avevamo già
fatto diverse volte, però ora li praticavo con una certa consapevolezza. Soprattutto, ero in grado di condividerne con lui il significato spirituale.
Il dramma fu che così riuscì a spoetizzare anche quei giochetti. In passato vi avevo partecipato con gusto, prendendoli
quali variazioni sul tema dei preliminari e dell’eccitazione. Ora
che me li aveva ridotti a esercizi yoga il gusto andò perso. Per un
certo periodo le nostre scopate le classificai in due specie: tecniche e passionali. Poi cominciai a pensare che per lui erano tutte
tecniche. L’orgasmo, che io vivevo come il culmine dell’amore,
lui lo prendeva come il segno di un esperimento fallito. Mi disse
chiaramente che non lo voleva, non lo cercava.
All’epoca sperimentava la pratica della ritenzione del seme. Si
trattava di arrivare alle soglie del parossismo e non superarle.
L’energia accumulata doveva essere incanalata verso la testa a
provocare un’illuminazione. Va da sé che era difficile. Lui, arrivato sulla soglia, raramente riusciva a restarne al di qua. Quando
ci riusciva, invece di avere il satori si ritrovava con un vergogno-
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so ammosciamento. Io ovviamente non mi stavo ad angosciare
per i superamenti della soglia. Lui invece s’irritava. Diceva che
non collaboravo, che non gli servivo a niente, che anzi lo boicottavo.
Fatto sta che in quel periodo toccammo il fondo del nostro
ciclo amoroso. In effetti non riuscivo a collaborare secondo i suoi
desideri. Era l’idea di servirgli a qualcosa che mi disgustava. La
teoria e la metodica spirituale mi avevano affascinato, ma quando capii che la pratica si risolveva nello svilimento dell’unica
cosa che sembrava unirci profondamente mi disamorai.
“Perché le cose funzionavano meglio quando non conoscevi il
vero significato di queste tecniche?” Mi domandò un giorno, subito dopo un risultato per lui deludente, cioè dopo un orgasmo
simultaneo strepitoso.
“Forse proprio perché non conoscevo.”
“Allora non t’interessa un cazzo dell’impresa che stiamo tentando.”
“Amore, un cazzo m’interessa…”
“Amore un cazzo! Tu sei capace di capire solo una cosa.”
“Una cosa che tu invece ancora non hai capito.”
Fu a quei tempi che il nostro rapporto si deteriorò seriamente.
Io non avevo più voglia di fare l’amore con lui e lui mi chiedeva
di farlo di rado. Continuavamo con lo studio e con le tecniche
sessuali, ma oramai la scopata passionale me l’ero scordata. Il
mio uomo era riuscito a svilire perfino quella. Furono giorni di
tristezza. Si era ridotto anche il tempo che stavamo insieme, per
non dire del tempo che dedicavamo al sesso. Anzi, ebbi l’impressione che cercasse soddisfazione altrove. Chissà, magari c’era
un’altra geisha, una che si applicava meglio di me e gli dava tutto
lo spago che voleva.
Non volli indagare. Entrai in una fase di abulia. Avevo l’impressione che il tentativo di salvarlo si fosse risolto in una debacle totale: invece di riuscire a salvare lui, mi stavo perdendo
me stessa. Oramai cercavo solo di salvare il salvabile, mi contentavo del poco che mi chiedeva e tiravo avanti in attesa di tempi
migliori.
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Un giorno gli dissi che stavo meditando di smettere con la
professione. Chissà cosa pretendeva la mia contorta anima infantile. Lui non fece una piega, anzi mi provocò:
“Tesoro, il bello della libera professione è che sei libera di
professarla o no.”
“Che vuoi dire?”
“Che non hai bisogno della mia autorizzazione per smettere di
battere. Non sono mica il tuo pappa.”
“Non cercavo la tua approvazione, tantomeno l’autorizzazione. Volevo solo informarti di una decisione che sto ponderando
da qualche tempo e capire come l’avresti presa.”
“Tranquilla. La prenderei sportivamente.”
Quando faceva così mi mandava in bestia. In quel momento lo
odiai, e la mia angoscia toccò il fondo. Ebbi la sensazione
dell’inizio di una fine.
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Sabato, 1 giugno
Spesso mi scopro a pensare a Lucrezia. Il mio interesse per questa donna cresce di giorno in giorno. Un po’ ho l’impressione
che il suo ruolo in tutto l’intrigo sia più importante di quanto
sembrava a prima vista. Un po’ credo che su di lei si stiano trasferendo parte dei miei sentimenti per Luciano. In fondo, penso,
nessuno deve aver conosciuto l’uomo meglio di lei.
Eppure tutto ciò non mi dà ancora ragione del mio interesse
per Lucrezia. Le mie tendenze lesbiche mi paiono abbastanza
moderate e peraltro sono sempre riuscita a tenerle sotto controllo,
coltivandole come attività professionale. Che mi succede ora? È
possibile che la morte di Luciano abbia risvegliato in me pulsioni che credevo di aver superato da tempo?
Oggi, alle sette di sera, mi presento a casa di Lucrezia e
m’invito a cena.
“Ho voluto contraccambiare la visita.” Le dico sulla porta.
Lei mi accoglie gentilmente, senza mostrare sorpresa o imbarazzo. La bambina è dai nonni. Peccato: mi sarebbe piaciuto
conoscere la figlia di Luciano.
La cena, sobria e fredda, è poco impegnativa, ma bagnata da
una delizia di Schiava Gentile della val di Cembra che ci scioglie
la lingua senza intorpidirci la mente. La conversazione scorre
piacevole, seppur adombrata da un lieve tono di mestizia. Dopo
cena frescheggiamo su un balcone con vista sul giardino di Boboli, un balcone piccolo piccolo e pieno di fiori, tanto piccolo
che c’entrano appena due sdraie l’una accanto all’altra. Siamo
così vicine, distese su quelle sdraie, che quando ci guardiamo i
nostri fiati si confondono. Pian piano si crea un’atmosfera d’intimità, mentre ci godiamo l’affaccio sul verde. La conversazione
procede amabile e vuota.
Appena mi accorgo che sto cedendo all’abbandono, mi do
una scossa e con uno stacco netto, che lei neanche finge di non
notare, porto il discorso sulle cose serie. Le dico della scoperta di
Giuliano riguardo al nome di Gianrico e registro le sue reazioni,
che sono di completa indifferenza. Poi le parlo della conversazione avuta ieri con i due presidi e mi soffermo sulle strane
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letture di materia magica e religiosa frequentate da Luciano. Le
domando cosa ne sa e che ne pensa.
“È vero,” risponde, “recentemente si era messo a studiare
quella roba. Non ci vedo niente di strano, se non altro perché la
bizzarria intellettuale era una cosa normale in lui. Cambiava
continuamente i suoi interessi di studio. Si lasciava appassionare
da cose incredibili. Io non me ne meraviglio più di tanto. Un sociologo che spende le sue giornate su un trattato di metrica italiana, per quale motivo non dovrebbe perdere tempo su un testo
di magia sessuale induista?”
“Insomma un intellettuale perditempo.”
“Però in questo caso doveva trattarsi di un interesse legato al
lavoro. Mi aveva accennato a una tesi di antropologia culturale di
cui era relatore.”
“Che tesi?”
“Non ne so molto. So di quei libri strani che leggeva da mattina a sera. Passava delle giornate intere con le due studentesse
che preparavano la tesi. Aveva dovuto richiedere un’autorizzazione speciale per accedere all’inferno della biblioteca Stibbert, e un’autorizzazione simile l’aveva fatta ottenere alle due
studentesse.”
Continua a parlare, mentre io non l’ascolto. Il mio cervello si
mette a lavorare febbrilmente. Penso che la pista degli omicidi
rituali meriterebbe più attenzione di quanta gliene ho riservata
finora. Intanto consentirebbe un collegamento diretto tra le vergini rosse, Luciano e Lilli. Poi: perché Silvio non mi ha detto che
le due sciroccate avevano anche loro l’autorizzazione per accedere alle segrete della biblioteca? Senza neanche pensarci, mi
sale alla bocca una domanda:
“Sei sempre convinta che l’assassina di Luciano è Lilli?”
Lei mi guarda perplessa. Evidentemente stava parlando di
tutt’altro argomento. Risponde:
“Sì.”
“Allora pensi che la morte di Lilli non sia collegata con quella
di Luciano?”
“Non dovrebbe?”
“Non capisco ...”
179
“Neanch’io.”
Si alza e va in cucina. Torna con una nuova bottiglia di Schiava Gentile, la stappa pigramente e riempie i bicchieri. Per un po’
ce ne stiamo in silenzio, sorseggiando il vino lieve. Pare che non
abbiamo più niente da dirci, eppure mille pensieri premono per
prendere forma. Mi volto verso di lei. È assorta. Guarda un punto
lontano nel cielo ormai buio e sembra non accorgersi di me. In
questi momenti mi ricorda Luciano. All’improvviso mi assale
una matta voglia di baciarla. A fatica riesco a frenarmi. Ma il
mio spiritello maligno mi tira un brutto scherzo, spingendomi a
un approccio maldestro:
“Che ne pensi del pensiero lesbico?”
E lei:
“Che è impensabile.”
Sono avvilita. Improvvisamente mi sento disarmata. Ce ne
stiamo in silenzio per qualche minuto. Sono le dieci. Il cielo è
nero e le stelle non riescono a ravvivarlo. È come una tenda scura
stesa davanti a noi per nasconderci qualcosa, e dà l’impressione
che potremmo toccarlo allungando una mano. Abbiamo finito la
seconda bottiglia di vino e il buio del cielo, lievemente, sta
invadendoci la mente.
Mi volto verso Lucrezia. Nell’oscurità riesco appena a scorgere il suo profilo. Mi pare di sentire il soffio della brezza tra i
suoi capelli. Timidamente ci immergo una mano in quei capelli
morbidi, e dico:
“Chiedendoti cosa pensi delle lesbiche...”
Lei si alza calma e, quasi ignorandomi:
“Ora devo andare a prendere la bambina.” Dice. Si volta verso di me e mi toglie di mano il bicchiere vuoto.
Proprio non ci so fare con le donne.
Né si può dire che ci sappia fare con gli uomini, almeno quelli
che m’interessano. Con Luciano ero giunta a un punto di alienazione totale dopo avergli permesso di ridurre il nostro rapporto
sessuale a una tecnica di meditazione. Ormai si scopava raramente. Né io né lui eravamo più capaci di eccitarci. Non parliamo
della passione o almeno del desiderio dei nostri corpi.
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Me ne feci una malattia, una malattia innanzitutto spirituale.
Quando stavo con lui non riuscivo a liberarmi di un sentimento
di rabbia e di ripulsa. Quando gli stavo lontano, non riuscivo a
non pensare a lui. Lo volevo, avevo bisogno di vederlo, lo desideravo, ma come un sogno utopico.
Era però anche una malattia fisica. La notte dormivo tre o
quattro ore. La sera crollavo a letto spossata, per risvegliarmi
all’una o alle due con forti dolori di pancia. Mi ritrovavo l’addome gonfio d’aria, così gonfio che lo specchio mi restituiva il
profilo di una donna incinta di quattro mesi. Dovevo fare una
mezz’ora di ginnastica dura per liberarmi di tutto quell’inferno
che mi ribolliva in ventre. Poi mi rimettevo a letto senza riuscire
a prendere sonno, torturata stavolta dall’inferno che mi ribolliva
in testa.
Va da sé che di giorno ero stremata. Tra l’altro mi si era chiuso lo stomaco. A colazione non riuscivo a prendere più di un tè e
una fetta biscottata. A pranzo mi sforzavo di mangiare almeno
una braciola e una mela. A cena, quando si avvicinavano le tenebre e il tormento, non riuscivo a mandar giù neanche una tazza di
latte, però gli davo giù col cognac. Anche la professione ne
risentì. Ogni volta che un cliente mi toccava mi si torcevano le
budella e dovevo fare degli sforzi ardimentosi per simulare un
orgasmo credibile. Spesso mi accadeva anche con Luciano, ma
con lui non riuscivo a simulare.
La cosa non gli dispiaceva. Forse interpretava la mia frigidità
come un segno di maturazione spirituale. Si mostrò però
preoccupato per i disturbi intestinali, e mi portò da diversi
specialisti. I gonfiori addominali parevano non avere spiegazioni
cliniche evidenti, dopo che una lunga serie di analisi aveva
portato a escludere allergie e intolleranze alimentari. Tutti i
medici ci dissero che non c’era nessuna causa organica, e
tendevano a spiegare la patologia come una malattia psicosomatica. In realtà non ci capivano niente.
L’unico che pretendeva di aver capito tutto era proprio Luciano. Quando i miei strizzoni in sua presenza erano diventati
abitudine, aveva smesso di preoccuparsi. Mi spogliava, mi faceva distendere sul letto e mi rimetteva al mondo con un pro-
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lungato massaggio shiatsu. Mi tranquillizzava dicendo che non
c’era nulla di allarmante, solo un po’ di stress e di debolezza fisica, come sostenevano i dottori. Cercava di farmi mangiare per
rimettermi in forze, nonostante la mia inappetenza e i conati di
vomito. Ma dava l’impressione di saperla più lunga.
A volte se ne usciva con battutine sarcastiche sul mio infantilismo sentimentale. Spesso metteva un muso lungo peggio di un
somaro bastonato. Capivo che non gradiva il rapporto infermierepaziente al quale si era ormai ridotto il nostro menage. Cercavo
di parlarci, di farlo aprire, di aiutarmi a capire ciò che sembrava
aver capito lui, senza risultato. I miei strizzoni addominali non
facevano che esasperare il suo mutismo.
“Il mio medico dice che dovrei tentare un po’ di psicoterapia.
Che ne pensi?” Lo sollecitai un giorno.
“Quello che può spiegarti un’analista lo puoi capire da sola.”
“Io non lo capisco. Aiutami.”
“Sono l’ultima persona che può aiutarti in questa faccenda.”
“Non dico di aiutarmi con le spiegazioni cliniche. Puoi aiutarmi coi fatti.”
“Lo vedi che non sei stupida?”
“Allora perché non mi aiuti?”
“Perché non posso.”
“Vabbè, almeno dimmi cosa ci hai capito.”
“Ho capito che stai attraversando una crisi profonda, una crisi
d’identità, forse una crisi professionale. Può darsi che i tuoi
gonfiori addominali vogliano simulare una gravidanza. Ecco a
che ti serve la malattia. Ecco perché non sono in grado di aiutarti.
Pensi che potrei darti quello che vuole la tua pancia?”
“Questa è la tua diagnosi? Tutta qua la tua profonda scienza?”
“Freud non poteva fare meglio. Sei un’anima semplice.”
“E qual è la terapia?”
“Ti devi curare da sola.”
“Come?”
“Crescendo.”
“Non riesco a farcela da sola. Non voglio un figlio da te, ma
sento che solo tu puoi aiutarmi.”
“Non sarebbe più una crescita.”
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“Non può esserci una crescita in due?”
“Immagino che qualche medico ti ha consigliato la terapia di
coppia.”
“Esatto.”
“Non ha senso.”
“Perché?”
“Perché non siamo una coppia.”
Non ebbi la forza di reagire. Mi si era ingolfato un groppo alla
gola e sentivo che stavo per sbottare a piangere. Il fuoco nel caminetto languiva. Le casse dell’hi-fi riempivano l’aria con le note
struggenti del tredicesimo movimento della Passione secondo
Matteo. Mi venne in mente quella scena di Accattone in cui il
magnaccia si rotola per terra lottando con il cognato. Cessata la
lotta con la propria sconfitta, lui si rialza in piedi adagio e se ne
va in silenzio. Così feci io. Mi alzai, presi il mio soprabito e me
ne andai. Fine di un amore mai nato, mi dissi.
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Domenica, 2 giugno
In mattinata telefono alle vergini folli e gli chiedo un incontro
per parlare di Luciano. Inaspettatamente mi dicono subito di sì e
m’invitano a prendere un tè da loro.
Alle cinque del pomeriggio mi trovo davanti al tetro cancello
della loro villa. Suono il campanello. Dopo un’interminabile
attesa, uno scatto metallico della serratura m’invita a entrare.
Sospingo il cancello esitando. Non c’è nessuno ad accogliermi.
Sempre più esitante faccio un passo avanti ed entro. Mi trovo di
fronte allo spettacolo di un giardino che pare abbandonato a se
stesso da anni. Cespugli ed erbacce invadono i viottoli che si
snodano tra quelle che devono essere state delle aiuole, mentre
l’edera assale gli alberi come a volerli soffocare. C’è una miriade
di fiori di cento colori che sembrano straripati dalle aiuole. Insieme all’erba formano un’ondata di vegetazione selvatica. Salendo
su dalla valletta di via Cernaia, il mare di verde variopinto minaccia di aggredire tutta la grande casa, e questa a stento si sforza
di dare un centro, un senso, al giardino incantato che si inerpica
verso di lei. L’erba e qualche fiore s’insinuano qua e là anche tra
le crepe che segnano i muri fatiscenti della villa e del recinto,
dando una sfumatura di frivolezza al loro beige scalcinato. Le
persiane sono serrate, o almeno lo sono quelle delle due facciate
che vedo dal punto in cui mi sono fermata a osservare. Sto lì, pochi passi oltre il cancello, incantata, con l’impressione che sia
piuttosto il giardino a osservare me, minacciosamente, quasi fossi un corpo estraneo che disturba la sua pace senza tempo.
Non so quanto dura il momento di stupore. Vengo destata da
un miagolio che mi fa voltare verso un angolo in ombra del giardino. Tra le gambe di un tavolo di marmo tutto sbocconcellato
c’è un gattino nero. Mi avvicino e mi accorgo che non è solo: ce
n’è un’intera nidiata nascosta tra l’erba. Mi avvicino ancora per
accarezzarli, ma appena giungo a due passi da loro, da dietro i
resti di una panchina sbuca una mamma gatta minacciosa che mi
taglia la strada e mi costringe a fermarmi.
Giro sui tacchi e mi guardo intorno. Non c’è anima viva. Mi
decido ad avvicinarmi alla casa. Senza fretta, seguendo le deboli
184
tracce di un sentiero tra l’erba, costeggio la più grande delle due
facciate dalle persiane sprangate. Man mano che procedo, altri
quattro o cinque gatti sbucano dall’erba e mi tagliano la strada,
neghittosi, osservandomi di sottecchi.
Finalmente completo il mezzo giro dell’edificio, volto l’angolo e mi trovo al cospetto delle due padrone. Una delle quali si
dondola pigramente su una sedia di vimini, mentre l’altra è seduta accanto a un tavolo di ferro dipinto di bianco. Appena mi vedono si alzano e mi vengono incontro sorridendo cordiali, come
se non fosse passata un’eternità dal momento in cui ho suonato il
campanello.
“La bellezza del nostro giardino selvatico può essere meglio
apprezzata in solitudine.” Dice Elvira, la più matura delle due.
Ci presentiamo. La giovane si chiama Gina. Ha capelli rossi,
ricci e luminosi, che incorniciano un viso pallido di cera. Due
grandi occhi celesti, su un sorriso che li anima appena, si sforzano di ravvivare quel viso mesto, ma con poco successo. Delle
profonde occhiaie scure riescono a dargli un po’ di vita, seppure
molto spirituale. Non riesco a definirne l’età. Potrebbe essere una
mia coetanea, diciamo: tra i venticinque e i trenta. L’età di Elvira invece sembra aggirasi sui quarantacinque. Pur somigliando
alla giovane nei lineamenti del viso e nella figura del corpo, è un
tipo del tutto diverso. Ha capelli lisci e morbidi, di un biondo carico, artificiale, che emanano riflessi dorati. Rosse le labbra carnose e sensuali. Il viso, un ovale perfetto, è di un colore ambrato
che pare irradiato dagli occhi a mandorla castani. Due rughe verticali tagliano la fronte sopra al naso e danno allo sguardo un
piglio severo che solo a sprazzi il sorriso affabile riesce ad ammantare d’umanità.
È lei che fa le presentazioni. Nella mano sinistra ha un’elegante piccola pipa di ceramica bianca dal lungo bocchino nero.
Ne esce un gagliardo profumo di Toscano con un vago accenno
di hascisc. Mi fa accomodare su una sedia di vimini, mentre Gina
versa quattro cucchiaini di tè nella teiera fumante, già pronta sul
tavolo. Accanto ad essa stanno tre delicate quasi trasparenti tazze di ceramica celesti. Non permetto che i convenevoli durino a
lungo. Dopo qualche chiacchiera vuota domando a bruciapelo:
185
“Avete avuto contatti recenti con Luciano?”
“Certamente. Sono quattro mesi che lavoriamo con lui per la
tesi di laurea.” È sempre Elvira che parla. Per tutto il pomeriggio
dialogo praticamente soltanto con lei. L’altra si limita a dei monosillabi e si occupa di servire il tè e i pasticcini, calma e cerimoniosa più di una geisha. Ma gli occhi attenti mostrano che
partecipa alla conversazione senza perdere una parola.
“Una tesi di parapsicologia?” Domando.
“Direi proprio di no. Lui si occupa di parapsicologia con finalità che non abbiamo capito bene.” Parla sempre al plurale, il che
dà al suo discorrere un tono professorale. “Noi ci siamo interessate di storia della magia quale forma di cultura alternativa femminile. Lui sicuramente non per questa ragione. Tuttavia, qualunque fossero, i suoi interessi s’intersecavano coi nostri, e ciò ci
permetteva di dialogare.”
“La vostra tesi di laurea rientra in tali intersezioni?”
“Sì. È un argomento che ci ha proposto lui, e ci ha subito appassionato: Il giardino Stibbert e l’occultismo europeo di fine
Ottocento.”
“Un tema affascinante! È per preparare questa tesi che voi e
Luciano frequentavate la sala riservata della biblioteca?”
“Sì e no.”
“Cioè?”
“È una storia lunga.”
“Non ho fretta.”
“Vedi, la sala contiene dei lasciti di Federigo Stibbert. È del
materiale di due tipi: scartafacci personali e testi religiosi antichi. Noi siamo interessate a quello del primo tipo, lui a quello del
secondo, per quanto ci fosse un po’ di sovrapposizione tra le due
ricerche.”
“La cosa si fa misteriosa.”
“Devi sapere che il padre di Federigo Stibbert era un colonnello dell’esercito inglese. Aveva trascorso lunghi anni in India.
Lì aveva combattuto molte battaglie, ma senza trascurare un
qualche interesse intellettuale. Quando andò in pensione, si stabilì a Firenze, si sposò con una contadina molto più giovane di
lui e cominciò una vita nuova. Mise su una casa niente male, con
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una discreta collezione di armi antiche e una di testi religiosi
portati con sé dall’India. Le due eterogenee collezioni furono arricchite dal figlio, che inoltre ingrandì la casa facendone la sontuosa villa dove ha oggi sede la LUFSS. Alla sua morte, Federigo
lasciò tutto al comune di Firenze.”
“È a quei libri che era interessato Luciano? Che roba è?”
“Per lo più testi tantrici, sia buddisti che induisti, trattati di
meditazione, yoga, magia sessuale.”
“E gli altri documenti, quelli che interessano a voi?”
“Sono corrispondenze, memorie, relazioni. La nostra tesi è
che i due Stibbert fossero al centro di una rete segreta che collegava, e forse collega ancora, tutte le società e i gruppi occultisti
occidentali. Abbiamo accertato che erano in contatto con la
Golden Dawn in Inghilterra, con varie famiglie di Rosacroce in
Germania, perfino in America, e con diversi gruppi simili in altri
paesi europei. Secondo noi i due Stibbert, prima l’uno e poi l’altro, sono stati gli animatori dell’intero movimento occultista
della loro epoca. Abbiamo trovato una memoria, di pugno dello
Stibbert padre, che ricostruisce la storia della tradizione esoterica
in occidente. Sostiene che il fondatore ne sarebbe stato addirittura Giulio Cesare. Il quale, al ritorno dalle Gallie, resosi conto
della decadenza dei valori su cui poggiava il potere di Roma,
decise di erigere un baluardo, anzi due. Il primo è noto a tutti:
diede avvio al processo di fondazione dell’impero. L’altro sarebbe stato noto solo a pochi iniziati: un centro di culto segreto al
dio Marte, l’ORDO, Opus Romanae Dominationis Orbis. Quindi
avrebbe fondato Firenze per insediarvi questo culto. Il suo compito era di dirigere segretamente le forze che nell’impero lottavano per la salvezza della tradizione.”
“Il suo di chi?”
“Del centro segreto; e della città che lo accoglieva. Così,
mentre Roma diventava un ricettacolo di corruzione e discordia,
Firenze, piccola e appartata, cresceva come la vera Roma, una
Roma occulta, dietro e a difesa di quella palese. Il dio Marte
tutelava entrambe le città. L’intera storia d’Europa degli ultimi
duemila anni sarebbe stata una storia di lotte tra il principio della
disgregazione e il principio della tradizione. In tutti i paesi le
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forze della tradizione sarebbero dirette da centri segreti. I quali
in alcune epoche avrebbero dato vita a dei gruppi d’azione manifesti, per intervenire nella politica durante i momenti di crisi e
quando era necessario fare proselitismo. I Templari, i Fedeli
d’Amore, i Rosacroce, la Golden Dawn, sarebbero i più famosi
di tali gruppi. Ma si tratterebbe delle manifestazioni essoteriche
dell’azione del centro superiore. Questo si sarebbe sempre tenuto nascosto, accessibile solo ai cavalieri del nulla, gli alti iniziati
del nucleo occulto. Ebbene, la nostra tesi è che i due Stibbert furono gran maestri del supercentro segreto e che si trasmisero la
carica per via ereditaria.”
A questo punto si ferma, sorseggia il suo tè, morde un pasticcino e osserva le mie reazioni di ascoltatrice allibita e perplessa.
Allibita per l’assurdità del racconto fattomi dalla donna; perplessa perché, mentre lei parlava, sono stata afferrata da una sensazione di deja entendu. È una sensazione forte, ma per quanto mi
sforzi di venirne a capo resta solo un rovello nella mente. Durante la conversazione il rovello continua a frullarmi nella testa come una mosca in trappola. La mia interlocutrice, imperterrita, afferra la pipa ormai spenta, la svuota, la pulisce, la ricarica e l’accende con calma. Poi riprende:
“Bada bene, non sosteniamo che il contenuto di quel documento sia storia. Tuttavia dalla corrispondenza degli Stibbert
risulta che le persone con cui loro erano in contatto credevano
nella sua veridicità.”
Si ferma di nuovo. Nota che sono ancora allibita e ne ha una
reazione di compiacimento appena velato dallo sguardo severo.
In effetti me ne sto lì, con la bocca aperta, a domandarmi come
sia possibile che Luciano provasse interesse per una tale farragine di fregnacce. La conversazione langue per un po’. Cerco di
riportarla alle cose concrete:
“Non avevi detto che la vostra tesi riguarda il giardino di villa
Stibbert? Che c’entra il giardino con tutto ciò?”
“Il giardino fu costruito da Federigo, e rappresenta la più alta
ed elaborata espressione del suo mondo spirituale. È un antilabirinto.”
“Un che?”
188
“L’opposto di un labirinto. Mentre di un labirinto si tratta di
trovare la via d’uscita, dell’antilabirinto si deve cercare l’entrata.
Se hai mai fatto una passeggiata in quel giardino osservandolo
attentamente, ti sarai accorta della sua stranezza.”
“Effettivamente me ne sono accorta. Mi è sembrato la creazione di uno spirito bizzarro.”
“Bizzarro sì, non insensato. Apparentemente è un incredibile
guazzabuglio di simbologie magiche e religiose.”
“Apparentemente?”
“Sì, perché in realtà è governato da un rigoroso ordine intellettuale. Trovare la via d’entrata significa trovare il filo logico che
gli dà un senso. Noi l’abbiamo cercato, quel filo, e con l’aiuto
delle carte Stibbert l’abbiamo trovato infine.”
Si ferma e mi scruta di nuovo con attenzione, per vedere se è
riuscita a destare il mio interesse. Un po’ c’è riuscita. Afferra la
teiera e si riempie la tazza di un liquido nero e freddo, ormai, che
solo vagamente ricorda il tè. Ne beve un lungo sorso. Si alza e va
a rovistare tra un mucchio di carte accatastate su una scrivania.
L’ampio tavolo di legno scuro, tutto rovinato dall’usura e dal
tempo, non è privo di una sua eleganza. Se ne sta, come appartato, accanto alla porta che collega il giardino con la veranda. Sopra c’è una pila di libri antichi, alcuni quaderni gonfi di scrittura,
penne, matite, attrezzi per fumatori e un mucchio di cianfrusaglie. Tra le altre cose spicca un leggio da messale su cui giace,
aperto nel mezzo, un quaderno di computisteria. È uno strano
quaderno, con le pagine incartapecorite per l’uso e pieno di una
scrittura fitta dalla tessitura ingarbugliata. Di fronte ad esso, un
computer acceso gli restituisce, dallo schermo bluastro del monitor, una pagina limpida e ordinata, e sembra che la macchina sia
stata posta lì con il preciso compito di mettere un ordine logico
in quella magia di anticaglie.
La ricerca di Elvira non dura a lungo. Dalle pagine di un
librone ingiallito esce fuori un foglio ripiegato in quattro. Soddisfatta, la donna torna da me aprendo il foglio; si siede e me lo
mostra.
“Ecco una mappa del giardino. I segni rossi li abbiamo aggiunti noi. Sono il risultato del nostro lavoro di decifrazione e
189
ricostruzione. Questa linea lunga, che congiunge il punto A con
il B è la spina dorsale dell’antilabirinto. In A c’è l’entrata del
giardino. Ora osserva bene il punto B e cerca di localizzarlo
mentalmente nei ricordi delle tue passeggiate. Cosa vedi?”
“Un cancelletto di ferro.”
“Esatto. Dove dà il cancelletto?”
“Su un viale.”
“E dove porta il viale?”
Guardo attentamente la cartina. Poi rispondo:
“A un certo punto si biforca su due vialetti che curvano a U e
si ricongiungono con il viale principale da Est e da Ovest.”
“Ti pare normale?”
La guardo perplessa. Torno a guardare la cartina. Non ci vedo
niente di eccezionale.
“Osserva bene e rifletti.” Continua lei. “ Un cancello serve per
chiudere un luogo, deve separare un luogo chiuso dall’aperto.
Questo invece non chiude niente. Il suo interno dà accesso a un
viale che porta su due altri viali, dai quali si può tornare all’esterno del cancello. È un cancello di cui non si sa qual è la faccia
interna e quella esterna. L’esterno è interno e viceversa. I viali
che congiunge sono due serpenti che si mordono la coda. Ora, a
che serve un cancello se non apre e non chiude niente?”
“È vero,” dico, “non ci avevo fatto caso. È molto strano. Che
significa?”
“Aspetta. Prima devo farti notare altre cose. Guarda: nel punto
C la linea AB incontra la EF e forma con essa una croce latina.
Però, se invece di partire dal punto A, partiamo dal D, ne risulta
una croce greca. Se consideriamo anche le stanghette trasversali
che passano nei punti E, F, B e D, abbiamo una croce potenziata.
Ora seguimi bene. La linea AB separa il monte, a sinistra, dalla
valle, a destra. Osserva le varie serie di scalette: sono ascendenti
da destra a sinistra. Il monte rappresenta il mondo manifesto, il
profano, la materia; la valle, l’occulto, il sacro, lo spirito. La linea EF invece separa il Nord dal Sud, che rappresentano il principio attivo e quello passivo delle forze dell’universo.”
“Vabbè,” la interrompo, “che senso avrebbe tutto ciò?”
190
“Abbi pazienza! Intanto gli si possono dare due diverse interpretazioni, non necessariamente contrastanti: una storica e una
magica. Per esempio, la croce greca è un sottoinsieme, quasi il
nocciolo, della croce latina. Vuol dire che dietro e dentro la tradizione cattolica si nasconde una più antica tradizione pagana, e
che la prima tende a soffocare la seconda. Il punto di congiunzione delle due croci è in D. Qui si trova la statua del Marzocco,
il leone rampante simbolo di Firenze. Le cronache dicono che
con l’avvento del cristianesimo Firenze cessò di essere consacrata al dio Marte e si votò a S. Giovanni Battista. Il cambiamento fu sancito provvidenzialmente da una piena dell’Arno, la quale
un giorno si portò via la statua del dio Marte che troneggiava
sull’accesso di Ponte Vecchio. Accadde che, mentre le autorità
ecclesiastiche sostituirono la statua di S. Giovanni a quella
dell’antico dio, le civili vi sostituirono il leone rampante, a cui
alzarono una statua dall’altra parte del ponte, di qua d’Arno. Il
leone era l’animale sacro a Marte, e il nome Marzocco deriva
dalla radice Mars. Il motto iscritto sullo scudo che il leone sostiene con la zampa sinistra è Si leo ruggiet, quis non timebit, che
sarebbe anche il motto del centro esoterico fondato da Cesare.
Tutte le lotte intestine di questa città doppiamente sacra sarebbero manifestazione del dissidio tra i due principi religiosi che
la governano, quello cattolico ed essoterico, che cerca di soffocare ogni manifestazione di paganesimo nel mondo, e quello
pagano ed esoterico, che cerca invece di mantenere le redini sul
collo dell’altro. Tutte le principali conquiste culturali dell’Europa moderna, Umanesimo, Rinascimento, Riforma, Rivoluzione
scientifica, Illuminismo eccetera, sarebbero state covate, apertamente o in segreto, nella sua città ombelico, e sarebbero il
prodotto dei tentativi della tradizione esoterica di guidare il mondo verso ciò che i profani chiamano ‘fine’. Pure tutte le ondate di
reazione che hanno periodicamente investito l’Europa, Crociate
interne ed esterne, Controriforma, caccie alle streghe, Inquisizione, Restaurazione, sarebbero state concepite segretamente qui,
dalle forze che contrastano quella tradizione, nella città che è il
cuore del continente prediletto dagli antichi dei. Questa interpre-
191
tazione ci è stata suggerita da Luciano. È un’interpretazione però
che deriverebbe da una visione di parte...”
“Che parte?”
“Una setta, una fazione dell’ORDO, il quale sarebbe stato
diviso in due partiti...”
“Interessante.” La interrompo, senza nascondere un sentimento di scetticismo. “E il significato magico?”
“Torniamo al cancelletto. Secondo la nostra ricostruzione, è
l’accesso alla via alta per il paradiso terrestre. Alta e nobile, in
quanto presuppone l’avvenuto passaggio dal principio passivo
all’attivo. Il paradiso terrestre ha sede nel punto G, nell’isoletta
dell’Eden, appunto. Il viaggiatore che, entrato nel mondo dal
punto A, percorre la via della vita, AB, ha diverse possibilità di
accesso alla valle sacra. Ognuna di queste vie rappresenta una
forma di ascesi: la preghiera, l’esicasmo, lo yoga, la meditazione.
La più elevata e difficile è quella che passa per il punto B. Ora
viene il bello. Fai di nuovo mente locale. Riesci a visualizzare le
due statue che sorgono sui bassi pilastri ai lati del cancelletto?”
“Sì. Sono due statue curiose.”
“Cosa hanno di curioso?”
“Boh? Non saprei, ma le ho sempre percepite come molto
strane.”
“Pensaci bene. Una è la statua di un vecchio con tanto di barba, che porta una toga un po’ discinta. Con una mano tiene su la
toga e ci si copre il seno. Se lo guardi di profilo ti accorgi che
quel seno, pur coperto, appare ben prominente. Se guardi la
statua da dietro, dove la toga non copre quasi niente, cogli subito
le forme giovani e femminili di questo singolare vecchio. È la
statua di Tiresia, il veggente che Zeus trasformò in donna per
punirlo di aver separato due serpenti in amore. L’altra statua rappresenta la figura di una giovane donna, anche lei coperta da una
toga che a mala pena nasconde le forme del corpo. L’impressione
netta però è che si tratta di un corpo maschile, con quelle spalle
larghe, quei polpacci muscolosi e quel seno piatto sotto la toga,
così in contrasto con le fattezze morbide del vecchio. Inoltre,
nella mano sinistra la misteriosa donna tiene un corto bastone,
forse uno scettro, oppure un papiro arrotolato, un segno del po-
192
tere o della scienza, comunque un simbolo fallico. La statua rappresenta Ifi, la fanciulla che Iside trasformò in uomo per permetterle di accoppiarsi con la giovane amante.”
“Intrigante! Non avevo mai fatto caso a queste stramberie.” In
realtà non è che la storia m’interessi da morire, oltre alla curiosità suscitata dalle cose insolite. Mi sembra il prodotto di una
gran sega mentale.
Ora cerco di portare il discorso sull’argomento che mi preme
maggiormente. Con un dito indico un punto della mappa. È il
luogo dove è stato trovato il cadavere di Lilli.
“Vedo che il braccio Nord della stanghetta che passa nel
punto F termina nel tempietto egizio. Che significa?”
“L’egizia è la più antica delle grandi tradizioni occidentali. È
quella in cui il fondatore dell’impero avrebbe ricevuto l’iniziazione suprema. Il tempietto ha un’uscita con delle scale che danno sul lago verso l’isola dell’Eden. Rappresenta l’ultimo livello
dell’iniziazione, l’ultima fase della via magico-rituale al Paradiso.”
“È concepibile dunque che ci si siano tenuti dei riti magici?”
“È stato costruito appositamente per questo scopo.”
“Perciò la recente morte della segretaria del direttore amministrativo può essere avvenuta in un rito del genere.”
Proprio mentre termino la frase, le campane della vicina chiesetta di Montughi battono le sette. Elvira si alza calma. Come se
non avesse sentito la mia domanda mi fa, con tono deciso:
“È tardi.” E comincia a togliere tazze e teiera dal tavolo.
“Veramente avrei diverse altre domande da fare. Il tuo racconto è stato interessantissimo e mi ha incuriosito molto.” Però
non riesco a recuperare. Lei mi porge la mano, gentile e perentoria nello stesso tempo.
“Ormai è tardi. Per stasera basta. Il resto te lo racconteremo
un altro giorno.” Conclude.
193
Lunedì, 3 giugno
Vittima il preside della Facoltà di Economia
NUOVO OMICIDIO RITUALE ALLA LUFSS
Il cadavere dell’economista Gianrico Delandi
è stato ritrovato nei giardini dell’università
Indossava strani paludamenti magico-religiosi
Così oggi titola in prima pagina il giornale cittadino. Leggo
l’articolo tutto d’un fiato, mentre faccio colazione al bar Università. Poi corro a comprare altri giornali e mi rifugio in casa.
Le notizie sono scarse. Il cadavere, pugnalato al petto, è stato
scoperto ieri mattina dal guardiano dei giardini. Era vestito con
antichi paramenti neri, bordati e ricamati d’oro, e stava disteso
sul pavimento del cosiddetto grottino degli spiriti, a fianco del
tripode di marmo che contribuisce allo scarno arredamento di
quell’antro. È, questa, una strana grotta artificiale, larga come
una sala da bagno, situata a una ventina di metri dal tempietto
egizio in cui è stato trovato il cadavere di Lilli l’altro giorno. Il
commissario di polizia, recatosi immediatamente sul posto, ha
dichiarato di non avere dubbi sul collegamento dei due omicidi.
Furbo! La ragione principale di tale certezza sarebbe che la strana ferita a croce trovata sui due corpi mostrerebbe che sono stati
colpiti con la stessa arma. Si tratterebbe di un pugnale dalla lama
insolita, a sezione di croce appunto, proprio il tipo di coltello che
è stato trafugato dal vicino museo della guerra.
Finito di leggere i giornali, mi reco all’ufficio di Giuliano,
in Villa Fabbricotti. Lui però non c’è. La nuova segretaria non
sa dirmi dov’è. Gli telefono alla sua abitazione. Non lo trovo neanche lì. Lo cerco per tutta l’università inutilmente. Verso le
quattro mi stanco e torno a casa. Ed è qui che l’incontro. Sta seduto sulla mia poltrona preferita e si beve meditabondo un vodka
e lime. In una mano ha dei fogli dattiloscritti.
“Come hai fatto a entrare?” Gli domando dura.
194
“Con la chiave.”
“Chi te l’ha data la chiave di casa mia?”
“Non certo Luciano!”
Mi chiedo come fa a sapere che a Luciano, unico tra i miei
clienti, avevo dato le chiavi di casa?
“Allora, come te la sei procurata?”
“Io ottengo sempre le chiavi che m’interessano.”
“E hai ottenuto anche la maledetta chiave della verità?”
“Non ancora, però non dispero.”
Sona incazzatissima, ma cerco di controllarmi. Lo lascio solo
e vado in cucina a prepararmi un caffè. Con la tazzina in una mano torno in salotto e mi siedo davanti a lui. Sorseggio il caffè in
silenzio, guardando Giuliano negli occhi senza nascondergli la
mia rabbia. Appena mi sento un po’ più calma, attacco:
“Che c’entra ’sta maledetta chiave della verità con gli omicidi
di Luciano, Lilli e, adesso, Gianrico?”
“Non ne ho idea.”
“Non ci credo. La vuoi smettere di fare il misterioso? È tempo che tu mi dica tutto ciò che sai. Finora non mi hai fatto che
domande, e non mi hai dato una risposta. Mi hai fatto fare delle
indagini, mi hai utilizzato per scopi che non conosco; e io cosa
ho ottenuto in cambio?”
“Guarda che neanche tu mi sei stata molto utile. Hai indagato, indagato. Cosa hai trovato?”
“Proprio niente.”
“Be’, nemmeno io.”
Do una sbirciata ai fogli dattiloscritti che ha in mano e mi accorgo che sono gli originali degli ultimi due capitoli del corso di
Luciano. Glieli strappo di mano, arrabbiatissima. Fortuna che lo
colgo di sorpresa.
“Come ti sei permesso di rovistare tra le mie carte?” Lo aggredisco.
“Mi sono limitato a prendere ciò che mi spetta secondo i patti. Ti ricordi? Stabilimmo che ti avrei dato una poesia di Fabrizio in cambio dei primi due capitoli degli appunti di filosofia e
una di Luciano in cambio degli altri.”
“Non mi sembra che fosse così.”
195
Lui tira fuori dalla tasca un foglietto ripiegato e tutto sgualcito. Lo posa sul tavolino accanto al portacenere.
“Eccoti una poesia,” riprende, “ora dammi quei due capitoli.
Quando li avrò decifrati, ti farò avere l’altra poesia.”
“Non certo gli originali. Ti darò delle fotocopie, più tardi.”
Afferro il foglietto. Lo apro con una sventagliata della mano e
gli butto sopra un’occhiata. È una poesia scritta a penna stilografica, con caratteri piccoli, in linee ordinate e regolari. Mi accendo
un’altra sigaretta con il mozzicone di quella che ho appena finito. Schiaccio la cicca nel portacenere e mi brucio un dito. Faccio
fatica a controllarmi. Infine tiro un respiro profondo, succhiandomi mezzo litro di nicotina, e riprendo:
“Mi vuoi spiegare per favore cosa cerchi in questi cazzo di
appunti di filosofia?”
“La chiave della verità!” Con un sorriso beffardo.
“Sii serio, per favore.”
“Vedi, mi sono accorto che il messaggio nascosto nel secondo
capitolo non era quello giusto. Ricordi? Ero arrivato alla conclusione che la parola cercata fosse GIANRICO.”
“Invece il messaggio vero era un altro.”
“Quale?” Domanda, ansioso.
“Lo stesso del primo capitolo: Cerca oltre cerca ancora cerca.”
“Come hai fatto a trovarlo? Ci ho provato anch’io, e ho cercato questo risultato. Ma il codice che valeva nel primo capitolo
non ha portato a nulla col secondo?”
“Infatti. Bisogna cambiare codice. Però bisogna farlo restando
fedeli al primo. Non ti svelerò quello nuovo, ad ogni modo. Dovrai trovartelo da solo. Evidentemente il codice con cui avevi
trovato GIANRICO era sbagliato.”
“Evidentemente era sbagliato. Interpreteresti Cerca Oltre come un suggerimento di cercare nel capitolo successivo?”
“Boh? Non me ne frega niente.”
“Voglio decifrare il terzo. Naturalmente ti dirò la soluzione.”
“Naturalmente. Con un’alta probabilità che sia di nuovo sbagliata. E poi che me ne faccio della soluzione, se non mi spieghi
a che serve? Insomma, dove devono portare le soluzioni di tutti
questi enigmi?”
196
“Mia cara, è ovvio: alla chiave della verità.”
Andiamo avanti così per un’altra oretta, e non riesco a strappargli un’informazione utile che sia una. Alla fine mi stufo.
Prendo da un cassetto le fotocopie dei due capitoli, che avevo
pronte da tempo, gliele consegno e lo congedo di mala grazia.
Sono le sette di sera. Già mi sento stanca morta. Mi riempio un
bicchiere di cognac e mi metto subito alla scrivania.
Verso le undici, proprio mentre sto scrivendo queste note, mi
telefona Giuliano tutto ringalluzzito per dirmi che già ha decifrato il terzo capitolo. La soluzione dell’enigma sarebbe il nome di
Silvio, guarda caso. Stavolta neanche gli chiedo di rivelarmi il
codice. Tanto mi pare una castronata. Tuttavia dopo me ne pento.
Tiro fuori il capitolo e mi metto alla ricerca del messaggio senza
molto entusiasmo. Difatti dopo mezz’ora mi stanco e lascio perdere.
Avevo avuto una lunga conversazione con Silvio diversi giorni
appresso a quello in cui avevo lasciato Luciano andandomene via
come un Accattone sconfitto. Dopo la debacle avevo raccolto tutte le mie forze e deciso di reagire virilmente alla disfatta.
Una bella mattina andai al dipartimento di Sociologia durante
l’ora di ricevimento di Silvio. Attesi che se ne fossero andati gli
altri studenti ed entrai nella sua stanza con decisione. Mi sedetti
sulla sedia davanti alla scrivania e lo affrontai in modo formale:
“Professore, vorrei fare la tesi di laurea con lei.”
“Andiamo cara, lascia perdere il professore. Tra noi possiamo
parlare teneramente. Dimmi cosa ti frulla per la testa.”
“Semplicemente quello che ho detto. Ormai mi mancano solo
tre esami per completare il piano di studi. Quindi vorrei cominciare a lavorare alla tesi.”
“Hai un’idea sull’argomento?”
“Sì, qualcosa sulla filosofia della scienza nel giovane Marx e
la sua critica all’idealismo.”
“Non mi dire altro. Già so chi ti ha ficcato in testa quest’idea.”
“Come fai a saperlo?”
“So che qualche mese fa il tuo amico del cuore ha tenuto un
seminario sul tema. Io non sono andato a sentirlo, ma mi hanno
197
riferito cose turche. L’aula era piena di marxisti ortodossi, che
l’hanno attaccato violentemente...”
“Proprio così,” lo interruppi, “io c’ero a quel seminario e ne
sono rimasta conquistata.”
“Sai dirmi perché i marxisti-leninisti lo attaccarono?”
“Dissero che era un revisionista anarchicheggiante scettico e
piccolo-borghese.”
“E lui?”
“Disse che loro erano i soliti compagnucci della parrocchietta.”
“Cosa aveva sostenuto di tanto eretico da guadagnarsi la condanna dei preti rossi?”
“Niente meno che questo: che non esiste il Marx, che ne esistono diversi, e nel periodo giovanile almeno due. Li chiamava
Dottor Marx e Mister Karl.”
“Ah, ah, ah. È una storia che ho già sentito…”
Non gli diedi tregua. Lo interruppi di nuovo e lo incalzai:
“È la doppia anima che m’intriga. Ho avuto l’impressione che
Luciano parlasse un po’ di se stesso…”
Stavolta fu lui a interrompermi:
“Ah, qui ti sbagli di grosso. Lui ha un’anima molto più che
doppia. Senz’altro però ha una certa doppiezza d’animo.”
“Non m’interessa la psicologia, ma la filosofia della scienza, e
non Luciano ma il giovane Marx.” Conclusi, negando quel che
avevo rivelato poco prima.
Lui si alzò dalla sua sedia dietro la scrivania, si andò a sbracare su un divano all’altro angolo della stanza e m’invitò ad
accomodarmi su una poltroncina lì davanti. Ci addentrammo in
una discussione epistemologica che non durò meno di mezz’ora.
Pur essendo entrambi interessati alla psicologia del personaggio, cercammo di buttarla sul filosofico. Alla fine della conversazione lui mi disse che gli sembravo preparata e che davo
l’impressione di aver approfondito l’argomento. Mi chiese cosa
avevo letto sul tema. Avevo letto poco e niente. Glielo dissi. Ne
avevo comunque parlato con Luciano, e ora avevo voglia di approfondire con uno studio serio.
“Allora perché non la fai con lui la tesi?” Mi sorprese.
198
“È l’ultima persona con cui vorrei studiare.”
“Già, visto che è lui che vorresti studiare.”
Mi rivelò di non sentirsi preparato sulla materia e insistette
perché andassi da Luciano. Io tenni duro, né esitai a fargli capire
che c’erano dei motivi personali a impedirmi di rivolgermi al suo
assistente. Ci lasciammo senza quagliare. Restammo d’accordo
che ci avremmo pensato entrambi e ci saremmo rivisti la settimana successiva per decidere il da farsi.
Due giorni dopo mi telefonò Luciano. Silvio gli aveva parlato
del mio progetto di tesi.
“Perché non vuoi farla con me?” Domandò.
“Non fare l’idiota. Lo sai benissimo perché.”
“Sentiamo.”
“Non voglio vederti.” Tagliai corto.
Lui rimase in silenzio per qualche secondo. Riprese esitante,
bofonchiando delle scuse. Ma io non gli diedi spago. Parlavo poco e per monosillabi. Lo sentivo imbarazzato. Si era pentito per
la superficialità del suo comportamento. Anzi, si rendeva conto
di essere stato piuttosto rozzo e gli dispiaceva molto. Poi mi propose di rivederci. Rifiutati seccamente. Allora s’informò sulla
mia salute e manifestò un premuroso dispiacere al sentire che era
peggiorata. Dopo quella chiacchierata continuò a telefonarmi, un
giorno sì e uno no.
Mi proibii di rivederlo. Non avevo voglia di fare niente, mangiavo pochissimo e dimagrivo paurosamente. All’appuntamento
con Silvio non ci andai e accantonai l’idea di mettermi a lavorare
alla tesi. Alla fine volli dare un taglio secco. Ingiunsi a Luciano
di non telefonarmi più e seguii il consiglio di un medico secondo
il quale nessuna medicina poteva guarirmi meglio di una vacanza
in montagna.
Era appena iniziata l’estate e decisi di passarla in Alto Adige.
Una sera prenotai in una pensioncina in Val d’Ultimo. La mattina
appresso mi misi in macchina e la raggiunsi nel primo pomeriggio. L’aria era fresca, trasparente. La casetta sorgeva a mezza
costa di una montagna verde, al limitare di un bosco di abeti. Dal
balcone della stanza che mi fu assegnata si godeva un vista idilliaca sulla valle sottostante e i monti maestosi che la delimitava-
199
no verso Sud. A Ovest la valle proseguiva in leggera ascesa per
terminare ai piedi dello Sternai, un massiccio dalla cima innevata
e i fianchi rocciosi ingrigiti da una tenue foschia. Bastò quella
vista per cominciare a squarciare il grigiore che mi offuscava
l’anima.
Ci restai per due mesi. La signora Maria, una sudtirolese energica che parlava uno stentato italiano, gestiva la pensione e i turisti come fosse una grande famiglia. Mi prese subito a ben
volere. All’inizio feci resistenza. Me ne stavo chiusa nella mia
camera tutto il giorno, a leggere romanzi rosa, al massimo affacciandomi al balcone di quando in quando. Lei mi faceva portare i
pasti in camera da una delle due giovani figlie.
Quando vide che i vassoi le tornavano in cucina quasi intatti,
cominciò a interessarsi a me con attenzioni materne. La mattina
prese a venire lei a rifarmi la stanza, e quando era lì mi coinvolgeva in conversazioni insignificanti sulla sua vita grama:
quattro giovani figli da accudire, due maschi e due femmine, e il
marito che era sempre assente, l’estate ad alpeggiare le vacche in
alta montagna, l’inverno a lavorare in una fabbrica di liquori a
Merano. Lei non ce la faceva a stare appresso a tutto,
specialmente l’estate con la gestione della pensione, l’orto, gli
animali, la cucina, la spesa, le pulizie, la contabilità.
Qualche volta mi portava la colazione lei stessa e si metteva a
mangiare con me, forzandomi a trangugiare qualcosa. Un giorno,
essendosi ammalata la sguattera, mi chiese di darle una mano in
cucina. Lo feci volentieri, e lei m’insegnò a preparare alcuni
piatti tipici sudtirolesi. Speciale era la torta al papavero, una sorta
di pan di Spagna corposo, infarcito di semi della pianta oppiacea.
Mi piacque subito e imparai a mangiarne delle discrete quantità a
colazione e a cena. Aveva un effetto rilassante, leggermente soporifero.
Pian piano ripresi a mangiare. A pranzo spilluzzicavo qualcosa in cucina con Maria. La mattina presto lei mi mandava alla
stalla a mungere Nerina e Bianchina, le due vacche di cui si occupava la figlia tredicenne Erika. Il primo bicchiere di latte, prelevato direttamente dal secchio pieno, era riservato a me, ancora
caldo di mammella, senza neanche bollirlo, e guai se rifiutavo.
200
Qualche volta mi mandava a prendere le uova nel pollaio o a
cogliere i broccoli nell’orto. Un giorno mi chiese di aiutare
Heinz, il figlio quattordicenne, ad ammazzare due conigli per la
cena. Quando vide che esitavo, “vai, vai, non mi fare la schizzinosa,” disse, “se ne occuperà Heinz, tu devi solo tenere i conigli fermi mentre li sgozza.” Lo feci, e non m’impressionò più
di tanto.
Dopo tre settimane di questo regime, mi erano tornate un po’
di forze, non dico la gioia di vivere, ma almeno ero ingrassata di
un chilo. E senza che me ne accorgessi, mi erano cessati gli
strizzoni. La pancia mi si era un po’ sgonfiata e la notte riuscivo
a dormire addirittura per sei ore di seguito. La mattina mi
svegliavo prima dell’alba, uscivo in balcone a respirare ampie
boccate di aria frizzante, poi mi vestivo e scendevo in cucina,
dove mi attendeva la colazione da preparare per i villeggianti.
Quando Maria mi chiese di accompagnare Heinz all’alpeggio
per portare degli attrezzi al padre e riportare giù delle forme di
cacio, accettai subito. La passione per le escursioni in montagna
non mi era passata, anche se fino a quel momento non mi ero mai
allontanata dalla pensione. Ora mi sentivo in condizioni di provare qualche esperienza ardita, e lo presi per un segno di guarigione.
Dopo l’ascesa con Heinz, presi a fare delle scalate in solitario,
metodicamente, due o tre volte a settimana. Mi alzavo alle sei,
trangugiavo qualcosa e poi riempivo lo zaino: panini allo speck e
al formaggio, una lattina di birra, due barrette di cioccolata, biancheria di ricambio, borraccia, coltello, poncho, cartina Kompass,
binocolo e bussola. Alle sei e mezzo ero già in cammino.
Tornavo verso le cinque pomeridiane.
Il primo tratto lo facevo attraverso prati di erba medica, salutando i contadini alla fienaggione. Il secondo era tra i boschi,
freschi, oscuri, silenziosi. Quindi raggiungevo la parte brulla
della montagna. I sentieri si snodavano tra le rocce ripidi e sdrucciolevoli, imponendomi la massima attenzione. La fatica era
tanta, il pericolo non meno. Affrontare l’ascesa in solitudine era
un’impresa temeraria che mi suscitava uno strano sentimento misto di potenza e timor panico. Quando mi avvicinavo alle creste,
201
le rocce si facevano irte, i sentieri si perdevano tra di esse, e
spesso dovevo procedere aiutandomi con le mani. Di solito giungevo alle creste quando il sole era alto. Per il caldo e la fatica il
sudore mi colava lungo la schiena. Allora mi toglievo la camicetta e procedevo prendendo la tintarella.
Infine arrivavo in cima. Qualche volta ci trovavo escursionisti
che si erano svegliati prima di me, più spesso mi ritrovavo sola.
Mi sedevo su una roccia, mi volgevo verso la valle e mi estasiavo, colmandomi di una sensazione di pace. Una volta riposata,
mangiavo, bevevo, fumavo e poi mi stendevo seminuda al sole
per non meno di un’ora, la mente vuota, il corpo rilassato, il
sangue che pulsava nelle tempie, il respiro che usciva lieve dai
polmoni portandosi via tutti i mali dell’inferno.
Le discese erano più rapide ma ugualmente faticose. Le affrontavo con un senso di appagamento che mi disponeva alla
meditazione. Era durante quelle camminate verso l’adempimento
di una giornata proficua che attivavo la mia terapia spirituale.
Niente di particolarmente astruso, niente autoanalisi, tanto meno
rievocazioni di cose dette, di colpe, di errori fatti, di orrori subiti.
Solo un po’ di cinismo spicciolo, banali riflessioni sul senso della vita, che non c’è, sulla miseria morale dell’uomo, sull’assoluta
nostra incapacità di determinare alcunché del nostro destino,
sull’inutilità delle mete da raggiungere, di ogni meta, di ogni speranza. Cerca oltre cerca ancora cerca? Figuriamoci! Ma cosa? Ma
perché? Allora la mia mente si svuotava di qualsiasi ambizione,
di qualsiasi miraggio. E con i sogni se ne andavano gli incubi.
Quando infine giungevo alla pensione, mi bastava il sorriso materno di Maria per rimettermi in pace col mondo e con me stessa.
Una regola aurea si consolidava nel mio animo: prendi le cose
come vengono, senza lottare, senza desiderare. Se non c’è senso,
non c’è colpa. Non gioia, né dolore.
È con questo stato d’animo che tornai a Firenze. Appena arrivata, andai a trovare Silvio per dirgli che non avevo problemi a
fare la tesi con Luciano. Lui lo chiamò al telefono e nel giro di
un quarto d’ora me lo ritrovai davanti. Lo salutai con fare distaccato. Gli dissi brevemente del progetto di tesi e gli chiesi di farmi
da relatore. La prima cosa che mi domandò è se avevo sostenuto
202
esami di matematica. No, neanche uno, essendo facoltativi e del
tutto inutili per lo studio della sociologia. Lui fu categorico:
dovevo farne almeno due, se volevo averlo come relatore.
“A che mi serve la matematica, se la tesi è sul giovane
Marx?”
“Non fare la lavativa. Devi mettere in cantiere due esami di
matematica e uno di economia politica.”
Mi faceva imbestialire quando assumeva quei toni autoritari.
Mi veniva voglia di prenderlo a schiaffi. Ma non ci fu niente da
fare. Lui era il supervisore e io la laureanda. Dovevo piegarmi.
Così fui costretta a modificare il piano di studi, togliere i tre esami che mi ero lasciata per ultimi, tra i più facili, e inserire i tre
più difficili, e perdere altri sei mesi di tempo. Mandai giù il rospo. Poi, mentre il preside rideva sotto i baffi, presi dalle mani di
Luciano il foglio con la bibliografia che aveva già preparato, salutai i miei due polli e me ne andai incazzata.
203
QUADERNO 3
Martedì, 4 giugno
La prima cosa che faccio stamani è una telefonata a Silvio per
informarlo di ciò che Giuliano ha scoperto. O è meglio dire inventato? Silvio non riesce a prendere la cosa con filosofia. Quando gli dico che il messaggio decifrato non sarebbe altro che il suo
nome, mi risponde con un lungo silenzio, ma un silenzio così
eloquente che mi sembra di vedermelo davanti, il feroce coniglio, il viso che gli si fa più pallido di un lenzuolo. Con voce tremante mi fa:
“È la mia condanna a morte.” E riattacca.
Certo che c’è da essere preoccupati. Giuliano scopre che la
chiave dell’enigma è il nome di Lilli, e il giorno dopo Lilli muore. Poi scopre che la chiave è il nome di Gianrico, e il giorno dopo questi muore. Nei panni di Silvio avrei già preso il primo aereo per il Brasile.
Però non è solo lui ad avere paura. Alle due del pomeriggio,
mentre sto per farmi una pennichella e recuperare il sonno perduto nelle ultime notti, suonano alla porta. Vado ad aprire un po’
assonnata e un po’ scocciata.
È Lucrezia. Mi guarda con quegli occhi sperduti che non sanno nascondere niente. La faccio accomodare nel salotto verde e
cerco di metterla a suo agio:
“Sono felice e sorpresa. Non mi aspettavo che ricambiassi la
mia visita tanto presto.”
“Già. Neanch’io.”
Silenzio. Dopo un po’ riprendo:
“Cosa c’è che non va?”
“Ho sempre più paura.”
205
“Di chi? Di Giuliano?”
“Sì. Stamattina è venuto di nuovo a casa mia e mi ha sottoposto a un vero e proprio interrogatorio.”
“Che voleva?”
“Vallo a capire! Mi ha domandato un sacco di cose. Prima ha
voluto sapere di me. Mi ha chiesto dei miei movimenti giorno
per giorno, a partire dai cinque precedenti l’omicidio di Luciano.
Era così duro, deciso... Pareva un poliziotto. Io, paralizzata, rispondevo alle sue domande come una colpevole. Poi ha voluto
sapere dei rapporti di Luciano con Lilli, Gianrico, Silvio e te. Infine è passato a Fabrizio.”
“Che voleva sapere di Fabrizio?”
“Insisteva sulla corrispondenza tra lui e Luciano. Voleva vederla. A quel punto però avevo ripreso il controllo di me.”
“Naturalmente non glie l’hai data la corrispondenza.”
“Naturalmente. Da quando è morto Luciano, passo delle giornate intere a scartabellare alla sua scrivania. Ho trovato un voluminoso pacco di corrispondenza che inizia con l’epoca del processo a Fabrizio e continua fino a poche settimane fa.”
“Che avevano da scriversi quei due?”
“Sembra un epistolario settecentesco, tutto pieno di filosofia e
teoria politica. Più politica agli inizi, poi sempre più filosofia.
Infine, in epoca recente, ha assunto toni letterari e spirituali, quasi intimistici. Mi domando: come faceva Giuliano a sapere di
questa corrispondenza?”
“Glielo ha detto Luciano.”
“Che ne sai tu?” Mi fa, meravigliata.
“Ho assistito a una loro discussione. Vedi, ogni tanto cercavo di metterli insieme quei due. Mi piaceva vederli discutere.
Erano due uomini che m’interessavano parecchio, così diversi
l’uno dall’altro! Luciano, scettico e introverso, è l’incarnazione
dell’intellettuale disadattato. Giuliano, al contrario, è un uomo
d’azione, cinico e determinato, e non meno intelligente dell’amico. La sua intelligenza lo mette in condizioni di avere delle idee
chiare su qualsiasi problema in cui scopre un motivo di interesse
pratico. Luciano invece dava l’impressione di usare la propria so-
206
lo per confondere le idee, agli altri e a se stesso. Insomma, due
gemelli, ma: l’ombra e il baleno.”
“Gemelli?”
“Sì, ti sembrerà strano. Avevano molto in comune, qualcosa
che non saprei definire, però di profondo. Fatto sta che quel giorno il discorso andò a finire su Fabrizio Gledo. Luciano parlò della corrispondenza che teneva con lui e di come coltivasse la dissociazione del comune amico.”
“Be’, c’è riuscito: è di poche settimane la notizia che Fabrizio
è entrato nel novero dei dissociati.”
“Lo so.” La interrompo per non perdere il filo del discorso.
“Credo anche di aver capito il senso di tutta quella storia. Sul
problema del terrore Giuliano e Luciano avevano discusso accanitamente un giorno che si erano incontrati qui da me. Per Giuliano il terrorismo è un fenomeno d’infantilismo politico, la
conseguenza sociale dell’incapacità psicologica di accettare la
sconfitta del movimento. Luciano invece sosteneva che le radici
del male sono più profonde e che vanno ricercate nel tentativo di
proiettare nel sociale un terrore di natura spirituale. La psiche dei
brigatisti – diceva – è devastata dal risentimento verso la società
e dal connesso senso di persecuzione. Nel loro rifiuto della realtà
i brigatisti maturano una solitudine totale. Dall’incapacità di
sopportarla derivano il senso di debolezza esistenziale e la disperata paura dell’altro da cui nasce la lotta armata. L’aggressione preventiva serve a tenere a bada l’ansia generata dalla paura
dell’aggressione nemica. La loro esibizione di potenza nel colpire lo stato serve a provare la sua vulnerabilità e quindi a ridurre
la sua capacità distruttiva. Quanto più violenta è la loro azione,
tanto maggiore la sua efficacia nell’erigere una barriera contro
l’ansia. Nello stesso tempo, d’altra parte, quanto più aggressivo è
il loro atteggiamento, tanto più forte la paura che il nemico reagisca violentemente. Il terrore proiettato verso l’esterno quindi,
mentre alza delle difese contro l’ansia, aggrava le manie di persecuzione e fa aumentare il terrore interiore. Questo circolo vizioso spinge i terroristi a scegliere bersagli sempre più grandi e
azioni sempre più violente. La cosa ovviamente non può durare
all’infinito, in quanto gli individui, come anche i gruppetti di
207
venti persone, sono incapaci di distruggere la società. Può terminare solo con l’autodistruzione del terrorismo, cioè dei terroristi
stessi, col suicidio o il pentimento.”
“Be’, suicidio e pentimento non sono la stessa cosa.”
“Secondo Luciano sì, poiché il pentimento comporta l’abbandono completo della propria anima nelle mani del nemico. Al pari di un guerriero sconfitto che si dà schiavo al vincitore, il pentito rinuncia semplicemente a sé stesso. Non è un caso che tutti i
pentiti usciti di galera dopo avere confessato le proprie colpe e
quelle dei complici sono diventati dei lemuri – diceva lui.”
“Per questo Luciano cercava di spingere Fabrizio alla dissociazione piuttosto che al pentimento?”
“Credo di sì. Il dissociato riconosce la sconfitta e cede le armi.
Sconta la pena ma salva l’anima. Il pentito no, lui è un dannato:
si dà anima e corpo al nemico. Un pentito è come un morto. E la
sua stessa sopravvivenza civile, a dispetto della morte spirituale,
è prova dell’onnipotenza dello stato. Su un punto Luciano insisteva particolarmente: che non è lo stato a sconfiggere i terroristi; sono loro stessi che alla fine devono autodistruggersi. Lo stato può influire solo sui modi. Può essere un colpo di mitra o l’assoluzione in confessionale. In entrambi i casi è sempre e soltanto
lui, l’uomo, che, più o meno consapevolmente, ha deciso di porre
fine alla propria esistenza di uomo. Ricordo che questa discussione avvenne all’indomani della condanna in primo grado di Gaddi, condanna che Luciano prendeva a esemplificazione della propria tesi.”
“Com’è possibile?” M’interrompe. “Ti riferisci al Gaddi che è
stato accusato di essere il mandante dell’omicidio del commissario Pugliesi?”
“Proprio lui.”
“Non capisco. Lo sanno tutti che quello di Gaddi non era un
gruppo terroristico. Nel quale gruppo, tra l’altro, avevamo militato io, Luciano, Giuliano...”
“E Fabrizio.”
“Sì, però prima che lui entrasse in clandestinità. Quanto a noi,
io, Luciano e Giuliano, non sapevamo neanche che esistesse un
livello occulto dell’organizzazione.”
208
“Ah, no? Non avevano formato una setta segreta i tre amici?”
“Che c’entra? Quello era solo un gioco innocente.”
“Ne sei sicura?”
“Ma sì!” Risponde, con un sorriso di sufficienza. “Non ti far
prendere da certe fantasie romanzesche. Non credere a tutto ciò
che ti può aver raccontato quella strega di Lilli. Ad ogni modo,
per tornare al processo Gaddi, non sono emerse prove evidenti
che lui era il mandante dell’omicidio Pugliesi. Così il verdetto di
condanna è stato una sorpresa per tutti.”
“Luciano batteva precisamente su questo punto: nonostante
che il processo non ha dimostrato la colpevolezza di Gaddi, i giudici lo hanno condannato.”
“Evidentemente erano prevenuti...”
“No. La tesi di Luciano,” le spiego diligentemente, “era che i
giudici avevano seri dubbi sull’innocenza di Gaddi riguardo allo
specifico reato di cui era accusato, e nell’incertezza lo hanno
condannato. Né sarebbe questa l’unica stranezza. Ancora più
strano, secondo lui, il fatto che l’imputato, pur continuando a
dichiararsi innocente, dopo la condanna in primo grado ha rinunciato a ricorrere in appello. Non doveva rinunciare, secondo Luciano. Per un innocente il diritto a un giudizio di secondo grado è
anche un dovere. E non è soltanto un problema giuridico, ma morale e politico, specialmente per uno come Gaddi, che ha assunto su di sé una condanna impartita a un’intera generazione. O
non riconosceva legittimità a quel tribunale oppure aveva il dovere di lottare per dimostrare la propria innocenza. Se rinuncia a
ricorrere in appello di fronte a una sentenza ingiusta, di fatto e di
diritto ne ammette la legittimità e si riconosce colpevole, ratificando colpevole l’intera generazione che rappresenta sul banco
degli imputati. Così la pensava il tuo compagno. Su questo punto
si accese una discussione accanita tra lui e Giuliano.”
“Posso immaginarla. Giuliano avrà detto che Gaddi non era
così ferrato nella filosofia del diritto.”
“No. Sosteneva due tesi. Primo: che Gaddi non si considerava
più un leader e dunque che lottava solo per se stesso, fregandosene di tutti quelli che lo sostenevano riconoscendosi in lui. Secon-
209
do: che la rinuncia a ricorrere in appello era la conseguenza di
una specie di bluff andato male.”
“Un bluff andato male?”
“Secondo lui,” riprendo la spiegazione, “Gaddi ha cercato di
forzare la mano ai giudici. Siccome oggi in Italia non è ammessa
l’assoluzione per insufficienza di prove, succede che nei casi
incerti i giudici di primo grado tendono a condannare. L’assoluzione comporterebbe il rischio di assolvere un colpevole. Il giudice di primo grado, di fronte a prove insufficienti per condannare, è portato a pensare siano insufficienti per assolvere, fiducioso che un eventuale errore può sempre essere corretto in
secondo grado.”
“Insomma, se ho ben capito, in caso d’incertezza il giudice di
primo grado tenderebbe, con una condanna, a scaricare la patata
bollente su quello di secondo.”
“Più o meno. Prima che la corte emanasse la sentenza, Gaddi
aveva dichiarato pubblicamente di rinunciare in ogni caso al ricorso, accettando il verdetto come definitivo qualunque fosse.
Così, secondo Giuliano, pensava di mettere i giudici con le spalle
al muro.”
“Cioè di forzargli la mano e costringerli ad assolvere in caso
d’insufficienza di prove.”
“In realtà un’arma a doppio taglio. Perché, una volta condannato, per non sputtanarsi non ha potuto fare ricorso in appello. In
altri termini si è fregato con le proprie mani.”
“Mi sembra una spiegazione sensata.” Fa lei, con l’aria di chi
non è convinta.
“Non lo sembrava a Luciano.”
“C’era da aspettarselo. Cos’è che non gli andava?”
“Gli pareva semplicistica. Lui sosteneva che Gaddi era perfettamente consapevole del fatto che con lui stavano processando il
Sessantotto e che cercò di farsi carico a modo suo di questa responsabilità. Ma lo fece nella maniera sbagliata.”
“Vale a dire?”
“Da pentito. In tutte le sue deposizioni Gaddi ha sempre mostrato un sincero pentimento per le colpe vere che la società gli
attribuiva, che lui stesso si attribuiva...”
210
“Scherzi?”
“Fammi finire. L’imputato, sebbene si dichiarasse innocente
di quell’omicidio, si riteneva pienamente responsabile del clima
morale entro cui il delitto era maturato. Con i suoi articoli sul
giornale del gruppo, con i comizi, le manifestazioni e tutto il resto, aveva prima incitato all’assassinio e poi l’aveva giustificato.
L’ammissione di responsabilità, sempre secondo Luciano, era
ancora una manifestazione di quella sopravvalutazione di sé che
è tipica dei leader. Gaddi ha continuato a credersi un piccolo
Lenin, pur molto tempo dopo che il gruppo che dirigeva si era
sciolto. Anzi, nella sua smisurata presunzione si è eretto a leader
di un’intera generazione, anche di quelli, la gran massa del movimento, che non avevano vissuto la contestazione come un gioco
al massacro, che non lo avevano seguito nel gioco dell’insurrezione. Ebbene quell’erronea convinzione lo aveva messo in una
posizione insostenibile al processo: ora doveva dar conto di azioni e pensieri di un’epoca che aveva superato, ma delle quali non
poteva considerarsi non responsabile. Il Gaddi di oggi, che doveva difendere il Gaddi di ieri, aveva da tempo rinnegato l’avventura rivoluzionaria. Sta di fatto che l’accusa se ne fregava del
Gaddi di oggi. Era quello di ieri che voleva condannare.”
“Certo, un bel dilemma per lui.”
“Dal quale è uscito nel modo peggiore: accettando il punto di
vista dell’accusa. Ripudiando il Gaddi di ieri e riconoscendone la
colpevolezza, se non giuridica, almeno morale, tutti i suoi interventi difensivi sono stati in realtà dei micidiali atti di autoaccusa. Nell’ingenua convinzione che il pubblico ministero cercasse il mandante vero dell’omicidio Pugliesi e non quello morale, Gaddi ha riconosciuto le proprie colpe. Come quando una vittima si piega alle convinzioni e alla volontà dell’inquisitore per
accattivarsene la benevolenza e il perdono, Gaddi ha messo la testa nel cappio con slancio. Così si è condannato da sé, e i giudici
ne hanno preso atto. La sua ammissione di colpa morale è stata
plausibilmente presa come un’inconscia confessione di colpevolezza. Il pentimento di Gaddi era sincero. Lui veramente aveva
ripudiato il proprio passato. Così il bisogno della società di condannare un’epoca si è incontrato con il bisogno di espiazione di
211
un pentito. La condanna che ha ricevuto, Gaddi se l’è cercata e se
l’è meritata. E se non ha chiesto un giudizio d’appello, è perché
in effetti, intimamente, non l’ha ritenuto necessario. Vedrai che
non chiederà manco la grazia. Questo sosteneva Luciano.”
“Una spiegazione niente male. Mi pare più sensata di quella
di Giuliano. Però ci sono due cose che non mi quadrano.”
“Sentiamo?”
“Primo, i pentiti ottengono il perdono in cambio della denuncia dei complici.”
“Gaddi ha fatto una chiamata di correo per tutta una generazione, anche di quella parte, la stragrande maggioranza, che non
aveva le sue colpe. Il massimo dell’infamia. Vai avanti: Secondo?”
“Secondo, hanno un interesse materiale: oltre al perdono, ottengono un condono della pena. Dov’è l’interesse di Gaddi, se
non va in appello e non chiede la grazia?”
“Vedrai che riceverà il suo condono, e nel modo più umiliante.”
“In che modo?”
“Lo butteranno fuori del carcere come infermo.”
“Tu pensi?”
“Torniamo ai fatti.” Dico. “Stavamo parlando della corrispondenza tra Fabrizio e Luciano.”
Per segnare il passaggio, mi alzo e vado in cucina a preparare
un caffè. Sono le cinque ormai. Lucrezia mi raggiunge e si mette
ad aiutarmi. Prende un vassoio, ci versa dei pasticcini e ne
mangia uno mentre mi guarda armeggiare con la moka.
Torniamo in salotto con i due vassoi in mano, il suo pieno di
pasticcini, il mio pesante di caffettiera e tazzine. Ci sediamo sul
divano quasi toccandoci. Mentre sorseggio il mio caffè, mi volto
verso di lei guardandola negli occhi e le faccio una domanda diretta:
“Cosa voleva precisamente da te Giuliano?”
“Voleva quella corrispondenza. In particolare ha insistito per
una poesia. Era molto bene informato.”
“Una poesia?”
212
“Sì. Una poesia di Fabrizio. Doveva trovarsi in una sua lettera. Mi sono domandata come faceva Giuliano a saperlo, anche
se ora capisco che può averglielo rivelato Luciano.”
“Ti ha detto perché la voleva?”
“Sì. Perché poteva contenere la chiave di un certo enigma che
lui stava cercando di risolvere.”
“E gliel’hai data?”
“No.”
“A me la daresti?”
“Non ce l’ho.” Bisbiglia, con uno sguardo dolce di bambina.
Poi: “Però ho la lettera di Fabrizio, nella quale c’è il titolo della
poesia. L’ho portata apposta per te. La lettera è strappata a mezza
pagina e qualcuno, forse Luciano stesso, s’è portato via la metà
con la poesia.”
Tira fuori un foglio di carta intestata al Carcere di Massima
Sicurezza G. Pugliesi e me lo mostra. Eccone il contenuto.
Caro Luciano,
ho ricominciato a scrivere poesie. Te ne invio una che è un po’ la
ritrattazione di quella follia di tanti anni fa, quella su cui litigammo
così duramente, quando tra noi si aprì il baratro. Sono passati quasi
vent’anni e mi sembra ieri. Finalmente credo di doverti dare ragione.
Questa poesia si spiega con quella. Il titolo è ‘P3+A-8xS-8 con
leggero white noise’. Oulipeggia un po’, ma tu la capirai. Usa lo
Zingarelli e il Worterbuch Sansoni.
“Che ci capisci?” Domanda.
“Niente. Eppure il titolo mi ricorda qualcosa.”
“Certo: è la formula enunciata da Luciano all’inizio della riunione nella torre del cielo. Ricordi?”
“La notte dell’orgia! È vero!” Dico, quasi gridando. “Che significa?”
“Vallo a capire.”
“Però quel riferimento a un’altra poesia mi fa venire in mente
una cosa raccontatami da Giuliano.”
“Cioè?”
“Cioè che molto tempo fa,” spiego, “quando stava meditando
l’entrata in clandestinità, Fabrizio aveva scritto una poesia che
213
era stata occasione di una discussione accanita con Luciano. Potrebbe essere quella a cui si riferisce nella lettera.”
“Se potessimo averla...”
“Ce l’abbiamo.” E le dico del foglio datomi da Giuliano in
cambio degli appunti del Nuovo corso di filosofia nel boudoir.
Le spiego tutta la storia degli appunti e di quanto Giuliano ne è
ossessionato. Vado avanti per qualche minuto, fino a che lei
m’interrompe bruscamente per dirmi:
“Quei capitoli che tu hai, non erano gli unici. Ce n’è un quinto
tra le carte di Luciano. Te ne avevo già accennato.”
“Non mi avevi detto che era un capitolo del Nuovo corso. Luciano non me ne aveva mai parlato. Perché mi ha passato solo
quattro capitoli se ce n’erano cinque?”
“Forse perché il quinto era ancora provvisorio. In effetti è
poco più di una serie di scarabocchi, con grafici e formule matematiche di un astruso che non ci si capisce niente.”
“Lo hai fatto vedere a Giuliano?”
“Certo che no. Anche su questo lui ha insistito.”
“Vuoi dire che ne conosceva l’esistenza?”
“Esatto.”
“Hai fatto bene a non darglielo. A me lo faresti vedere?”
“Naturalmente. Ho provato a studiarlo, senza approdare a nulla. Possiamo cercare di decifrarlo insieme, se si tratta di qualcosa da decifrare. Domani faccio una fotocopia e te la do. Ora vediamo la poesia di Fabrizio.”
Non posso dirle di no. E, pensandoci bene, non ne ho motivo.
Mi alzo. Vado alla scrivania, apro il cassetto e tiro fuori il foglio
con la famigerata poesia. Torno a sedermi di fronte a lei e leggo.
ROSSO SANGUE
Al Leopardo, ché rinnovi l’assalto sempre
Questa poesia di Ezra Pound era un urlo di lacerazione della coscienza borghese. Io l’ho tradotta e tradita fino farne un grido di rivoluzione per il proletariato.
214
All’inferno! L’ordine appesta l’intero universo.
La tregua a tutti nasconde il suo volto bugiardo.
Tu, cane sfruttato, vieni! Dammi la musica!
Io non ho vita se non quando vedo bandiere rosse
E bandiere, bandiere rosse levarsi al vento.
Allora urla il mio cuore, colmo di folle furore.
Nel fervore dell’estate provo una gioia immensa
Quando le tempeste uccidono la pace sulla terra
E i fulmini dal cielo scuro sfolgorano spaventosi
E i tuoni furiosamente squarciano il silenzio
E i venti ululano tra le nuvole e si scontrano.
E s’innalzano per tutto il cielo le armi del popolo.
Facci udire al più presto l’urlo della mitraglia
E i gridi acuti dei guerriglieri nella battaglia,
Inferno! E il pugno serrato opporsi al ferro rovente.
Meglio solo un’ora di lotta che un anno di tregua,
Fra trogoli colmi, lubrichi lazzi e vino e... sfruttamento.
Perché non c’è vino che uguagli il sangue del prete!
E io amo vedere il sole sorgere rosso sangue
Sull’alba e la sua luce penetrare il buio della notte.
E il petto mi si empie di forza e di tripudio
E la mente di una musica devastatrice
Quando lo vedo così sfidare l’ordine oscuro,
La sua libera forza spazzare le tenebre via.
L’uomo che non si ribella e cerca di opporsi
A queste parole di lotta non può liberarsi. Mai.
È adatto solo a marcire nell’alienazione,
Lungi da dove s’erge il lavoro a creare la storia.
La morte di certe baldracche non piangerò.
Anzi, di musica sacra empirò l’aria.
Compagni, compagni! Correte! Alla musica!
Non c’è canto che uguagli il furor delle masse
Non c’è urlo simile al grido: ‘Rivoluzione!’
Quando si desta, con la violenza, l’odio di classe
E le nostre barricate innalzano bandiere di fiamma.
L’inferno condanni per sempre chi vuole la tregua
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E il suono della mitraglia muto lo renda!
“Non è agghiacciante?” Domando.
“Da far accapponare la pelle! Ricordo che verso il 1972 l’amicizia dei due eroi attraversò un periodo burrascoso, con liti accanite e discussioni avvelenate. Erano problemi politici; non pensavo che c’entrasse la poesia.”
“Qui la poesia c’entra poco, credo. Da come me l’ha raccontata Giuliano, il tuo uomo accusava l’autore di avere cambiato le
parole dei versi di Ezra Pound, non la sostanza. Insomma vi scorgeva sentimenti fascistoidi, mentre Fabrizio credeva di averne
cambiato il segno politico.”
“Questa non l’ho capita.”
“Giuliano mi ha spiegato il retroterra culturale, che tuttavia
non mi sembra particolarmente rilevante per il nostro problema.”
“Ora mi hai incuriosito. Spiegalo anche a me.” Insiste.
“La poesia di Pound è scritta come se fosse cantata da Bertrand de Born, un poeta provenzale parecchio apprezzato da Dante. In un verso della poesia di Pound, Bertrand incita alla resistenza contro l’assalto del Leopardo, cioè Riccardo Cuor di Leone, che, forse per la sua ribellione nei confronti del legittimo re
d’Inghilterra, o forse per il ruolo svolto durante la seconda crociata nel minare l’autorità di Federico Barbarossa, è identificato
da Dante con le forze della sovversione, le forze che lottavano
contro la tradizione e l’autorità sacra. Così c’è un’identificazione
del punto di vista di tre poeti che, notoriamente, sono stati dei
campioni della reazione conservatrice, Bertrand, Dante e Pound.
Fabrizio tentò un rovesciamento di punto di vista. Le movenze e
il tono della sua poesia sono gli stessi di quella di Pound, di cui
viene proposta solo una traduzione, anzi un tradumento.”
“Un che?”
“Tradumento è una traduzione-tradimento, un esercizio letterario che Luciano aveva insegnato agli amici.”
“Vai avanti.”
“Il messaggio politico della poesia di Fabrizio vorrebbe essere
l’opposto di quello della poesia di Pound. Fabrizio assume il
punto di vista della sovversione e dedica la sua poesia al Leopar-
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do, che ora identifica, oltre che col ribelle Riccardo, anche con
Luciano.”
“Già, Leopardo era il soprannome di Luciano negli anni della
rivoluzione.”
“E Leone quello di Fabrizio. Il suo estro poetico propone
un’identificazione dei tre sovversivi, lui stesso, Luciano e Riccardo Cuor di Leone, come se quest’ultimo appartenesse alla
Setta.”
“Interessante. Ma tutto ciò quanto ci illumina su...?”
“Non ci illumina in nulla.”
Se ne va verso le otto, la mia amica. L’accompagno alla porta, le do un bacio casto sulla guancia e la saluto. Mentre sto per
chiudere, lei mi ferma e mi fa:
“Mi è appena venuta in mente una cosa che potrebbe interessarti.”
“Che cosa?”
Rientra, si chiude la porta alle spalle e dice:
“C’era un libro sul tavolinetto dell’ingresso. Parlo di casa mia.
Era stato messo lì per essere spedito, mi aveva detto Luciano.
Restò sul tavolinetto per diversi giorni, come se lui fosse indeciso. Io gli buttai sopra un’occhiata, incuriosita dalla sua
titubanza. In seguito, cinque giorni prima dell’orgia alla torre, il
libro sparì. Evidentemente si era deciso a spedirlo.”
“Perché la cosa dovrebbe interessarmi?” Domando.
“Sopra c’era un post-it giallo con su scritto: cavalieri del nulla; per la Puttana Santa. Ho pensato che volesse spedirlo a te.”
Ho un lampo nella mente, e di nuovo una sensazione di deja
entendu. Stavolta però la memoria non fa cilecca. Mi ricordo
subito che della puttana santa aveva bofonchiato Luciano il giorno che mi portò a spasso di là d’Arno, poi che me ne aveva accennato Lilli quando mi aveva rivelato quel cosiddetto numero
magico. Anche la faccenda dei cavalieri del nulla l’ho già sentita.
Ne avevano parlato prima Gianrico e poi Elvira in due recenti
conversazioni. Ricordo che in tutti e due i casi registrai l’espressione mentalmente quale materia da approfondire, il che non ho
mai avuto occasione di fare.
217
Stranamente, invece di chiedere delucidazioni su questi temi,
come se la mia volontà fosse pressata da problemi più importanti, domando:
“Che libro era?”
“Una cosa sull’Africa. Tu dovresti saperlo bene, se il pacco è
stato spedito a te.”
“Io non ho ricevuto nessun libro del genere. Evidentemente...”
All’improvviso mi torna alla memoria uno strano episodio verificatosi pochi giorni fa. Il postino mi aveva fermato sulla porta
di casa e mi aveva chiesto se poi quel signore tanto autoritario
me lo aveva consegnato il mio pacco postale. Mi aveva spiegato
che qualche giorno prima stava suonando al mio campanello per
consegnarmi un plico, quando era uscito dal portone un signore
burbero dai baffi alla mongola. Aveva dato una sbirciata al plico
e appena visto il nome del mittente glielo aveva strappato di mano. Dopo di che aveva tirato fuori cinquantamila lire e gliele aveva date, dicendo che me lo avrebbe consegnato lui, il pacco. Il
postino si era scusato molto con me: aveva ammorgiato meno per
la mancia che per i modi prepotenti di quel signore.
Evidentemente era il libro spedito da Luciano. Se n’è impossessato Giuliano. Già, ma che c’entra un libro sull’Africa? Mi
domando. Non c’entrerà mica anche l’Africa in questa specie di
ro-manzo d’appendice?
Quando Lucrezia se ne va, mi butto subito sul mio diario. Non
posso chiudere le annotazioni di oggi senza registrare un fatto
che potrebbe essere rilevante. O forse è del tutto insignificante,
tanto insignificante che in effetti me ne ero completamente dimenticata. Solo ora che mi si chiudono gli occhi dal sonno mi
torna alla mente. Oggi è proprio la giornata della memoria. La
scena è quella della mia conversazione con le vergini folli.
“Chi sono questi cavalieri del nulla?” Domandai, quasi involontariamente, quando Elvira ne accennò.
Entrambe le donne ebbero un trasalimento appena percettibile.
Accadde tutto in un attimo. Rapido come un fulmine, il mio demone indagatore, senza neanche consultare la coscienza, decise
di fare una verifica. Allungai una mano per prendere dal tavolo la
tazza del tè e distolsi lo sguardo dalle mie interlocutrici; ma con
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la coda degli occhi le tenni sotto controllo. Così mi accorsi che
loro, approfittando della mia apparente distrazione, si lanciarono
un’occhiata che può essere stata di cruccio. Tutto in un attimo
accadde, e devo aver registrato l’avvenimento al livello preconscio. Per questo me n’ero dimenticata.
La risposta alla mia domanda fu che loro non ne sapevano
niente. Io insistetti, chiedendo se per caso i fantomatici cavalieri
del nulla non erano collegati ai recenti fattacci di villa Stibbert.
Non so per quale motivo feci quella domanda, come la precedente, del resto. Loro non capivano di cosa stavo parlando. In
effetti non lo capivo neanch’io, benché la cosa mi puzzasse un
po’. Mio Dio! Eppure mi sono detta e ridetta mille volte che non
devo fidarmi del cosiddetto intuito femminile.
Tornando al libro sull’Africa, il fatto che Luciano me lo avesse spedito mi sorprendeva. Era parecchio tempo che non me
ne regalava più. E poi, semmai, perché non darmelo di persona?
Avevo ripreso a frequentare il mio uomo per via della tesi di
laurea. Ci vedevamo una volta a settimana; però solo al dipartimento di Filosofia e solo per parlare della mia ricerca. Lui mi
passava dei foglietti con delle indicazioni bibliografiche. Dopo di
che trascorrevo intere giornate in biblioteca a studiare. Scrivevo
un paragrafo della tesi e glielo consegnavo quando ci incontravamo. Lui mi riconsegnava quello della settimana precedente
facendomi le sue osservazioni e le sue critiche. Io prendevo nota,
a volte chiedevo chiarimenti, altre ribattevo. Spesso si accendevano discussioni accanite. A lui piaceva quando ammettevo i
miei errori interpretativi, ancor più quando difendevo le mie
posizioni. Non parliamo di quando lo beccavo in castagna e lo
costringevo a rivedere qualche sua idea. La sua stima per me
saliva alle stelle. Un giorno mi disse che le nostre discussioni lo
arricchivano e che si aspettava che l’allieva superasse il maestro.
La tesi cresceva bene e lui mi fece capire che non meritava meno
di un 110 e lode.
Più di una volta mi propose di incontrarci nella sua casa di
campagna – esclusivamente per discutere della tesi – mi assicurava. Figuriamoci! Rifiutavo seccamente. Gli dissi chiaro e tondo
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che non volevo precipitare di nuovo nel baratro del sesso alienato
e dei sentimenti frustrati. Il rapporto puramente intellettuale che
stavamo costruendo mi andava benissimo. Mi permetteva di avere da lui solo il meglio. Il sentimento di stima che ne emergeva
non era il massimo che ci si può attendere dalla vita, ma era almeno genuino.
Non gli dicevo che sul piano affettivo stavo vivendo un periodo di grande fragilità. Lui mi aveva risvegliato un bisogno vitale che ero riuscita e neutralizzare per diversi anni, e poi me ne
aveva negato l’appagamento.
In quei giorni ridussi drasticamente la mia attività professionale. Mi selezionai una dozzina di clienti affezionati, dei più teneri e gentili. Gli altri li scoraggiai dandomi malata. Ricevevo
soltanto quei dodici. Li trattavo da amici, affettuosamente. Quando arrivava l’amico di turno, gli preparavo una cenetta succulenta
e un’accoglienza calorosa. La notte lo intrattenevo a lungo e
qualche volta gli chiedevo di restare a dormire con me. La mattina mi svegliavo con la pancia dolorante e la testa adagiata sul
suo petto. Cercavo di non svegliarlo e indugiavo a lungo nell’abbraccio inconsapevole di lui. Spesso mi scoprivo a piangere sommessamente.
220
Domenica, 23 giugno
Giuliano mi ha invitato a una vacanza in Tanzania, un inclusive
tour Avventure nel Mondo con scalata al Kilimangiaro e safari
nei parchi. Non ho saputo resistere, e non me ne sono pentita. È
stata un’avventura inebriante. Solo di una cosa mi rammarico: di
non avere scritto un diario del safari. Ma mi sembrava così banale! Il fatto è che non pensavo il viaggio potesse acquistare un valore diverso da quello legato al piacere immediato dello svago
turistico. Invece adesso capisco che ha assunto un grande significato in relazione a tutta questa storia.
Intanto mi è servito per conoscere meglio Giuliano, un personaggio che pare voler giocare un ruolo nuovo nel dipanarsi di
quella che era cominciata come la storia di un altro. Poi, nel
dialogo con lui, che si è fatto più intenso, il flusso d’informazioni si è accresciuto, e in entrambe le direzioni; sicché ora credo
di aver fatto qualche sostanziale passo avanti nell’indagine sugli
omicidi. Né escludo che le mie informazioni possano avere aiutato lui nella ricerca della sua chiave della verità. Infine c’è la
letteratura. Il viaggio, specialmente il viaggio in Africa, è il luogo
letterario per eccellenza. E se c’è del romanzo nel diario che sto
scrivendo, questo safari lo rivelerà. Sento che in qualche modo le
impressioni di turista che non ho scritto avrebbero potuto contribuire a svelare il senso più vero del diario delle indagini che sto
scrivendo. Perciò ora, con uno sforzo della memoria, sperando
almeno di trarre qualche vantaggio dalla sua inconsapevole selettività, e anche cedendo al desiderio di rivivere certi momenti
indimenticabili, scriverò un resoconto di quelle impressioni. Gli
darò il titolo che merita.
221
IL LEOPARDO PERDUTO
Diario di safari
Partenza e primo giorno. Nel pomeriggio di venerdì 7 giugno
siamo partiti da Fiumicino. Al check-in dell’Egipt Air abbiamo
fatto la conoscenza dei nostri compagni di viaggio, otto tra ragazzoni e ragazzone sui 25-30 anni che non starò a descrivere, data
la loro completa irrilevanza nell’economia di questa vicenda.
Da Roma al Cairo abbiamo volato senza storia. Dopo quattro
ore di sosta nella capitale egiziana, abbiamo cambiato aereo e
siamo ripartiti all’una di notte tutti rincoglioniti dal sonno. Il
decollo lungo e mozzafiato ci ha svegliato subito, ma in pochi
minuti il sonno ci è ricaduto addosso più pesante di un macigno.
Le hostess hanno distribuito coperte e cuscini e i passeggeri, ad
uno ad uno, si sono rapidamente addormentati.
Non Giuliano però, al quale l’eccitazione del decollo aveva
fatto venire la fregola. E di conseguenza nemmeno io, che ho
dovuto sopportare i suoi assalti infoiati sopra e sotto la coperta.
Invano ho cercato di fargli capire che non era aria, che avevo
sonno e che era meglio rinviare alla notte meravigliosa che ci
attendeva all’hotel Masai. Lui, tutto arrapato, non dava cenni di
saggezza, sicché alla fine ho ficcato la testa sotto la coperta e gli
ho fatto un servizio veloce e brutale, in quel silenzio soffocato
dal ronzio dei motori e dal russare dei passeggeri. Dopo di che
lui si è placato e io sono riuscita a farmi una pennica.
Quando siamo sbarcati a Nairobi faceva freddo, il primo impatto con le gelide albe dell’altopiano. Ci siamo imbacuccati e
siamo partiti per la Tanzania su un pulmino scassato. Nel viaggio
verso Arusha, dove ci attendeva un comodo albergo, non è successo niente, a parte le prime visioni della savana selvaggia e di
varie bestie da zoo, zebre, giraffe, impala. Ma eravamo tutti troppo assonnati per entusiasmarci. Giuliano è stato di un tremendo
malumore.
Secondo giorno. In sei ore di pullman ci siamo trasferiti da
Arusha a Marangu, ai piedi del Kilimangiaro. A metà strada,
223
verso Moshi, è cominciato a piovere, una pioggerellina fine che
non ci ha più abbandonato per il giorno intero. Anche il paesaggio è cambiato: dopo Moshi, un rigoglio di coltivazioni che pareva Val Padana; quando abbiamo preso a salire i primi contrafforti
del monte, sono comparse le piantagioni di banani e di caffè, fitte, lussureggianti, verdissime, punteggiate di capanne e animate
dal via vai di uomini e donne e bambini vestiti di colori sgargianti.
Siamo scesi all’hotel Masai, affollato di turisti, guide e portatori. Dopo una passeggiata sotto la pioggia per vedere le cascate di un vicino torrente, siamo tornati all’albergo, dove abbiamo
cenato sontuosamente bene a prezzi oltraggiosamente bassi. Più
tardi, relax nella grande hall dell’albergo, un arioso locale dalle
pareti ricoperte di cimeli, bandiere, cartine geografiche, foto e
autografi di famosi esploratori. Al centro della stanza, un ampio
camino circolare, intorno al quale ci siamo seduti a gustare birra
locale. Le poltrone coloniali inglesi e gli sgabelli ricavati da vecchi tamburi Sonjo contribuivano all’ambiance hemingwayiana.
Nell’aria, un clima di festa e di attesa, artificioso solo un po’.
I ragazzi del gruppo hanno fatto baldoria raccontando all’italiana, cioè a voce alta e sguaiata, barzellette sui carabinieri. Infine, tanto per farsi riconoscere da tutti, si sono messi a cantare a
squarciagola canzoni di Jovanotti:
Mamma, guarda come mi diverto!
È una libiiidine!
È una rivoooluzione!”
Giuliano si è allontanato dal gruppo quasi subito, si è rifugiato
nell’angolo più remoto della hall e si è messo a leggere un libro.
Io l’ho seguito poco dopo, mi sono seduta accanto a lui e gli ho
chiesto:
“Cosa leggi?”
“Verdi colline d’Africa.”
“Lettura quanto mai appropriata.”
Terzo giorno. È piovuto tutta la notte, ininterrottamente, e ci
siamo svegliati di umore nero. Nero era il cielo gonfio di nuvole
224
e non dava segni di tregua. C’è toccato iniziare l’ascesa sotto il
diluvio. Da Marangu al rifugio Mandara, nostra prima tappa sulle
falde del Kilimangiaro, sono circa mille metri di dislivello, cinque ore di marcia sotto la pioggia battente.
Dopo dieci minuti ero già bagnata fino all’osso, a dispetto dei
vari strati di giacche e mantelle impermeabili. I piedi sciacquavano negli scarponi come in due pozze di fango. Lo zainetto,
impregnato d’acqua, pesava il doppio del normale. Dopo un’ora
di marcia ero stanca morta. Ogni passo sollevavo un macigno.
La stradella di terra rossa serpeggiava nella giungla. A tratti,
larga e pianeggiante, dava respiro, ma per lo più saliva contorta e
stretta tra gli alberi, le radici dei quali vi formavano una sconnessa gradinata di pozzanghere. La foresta, di un verde intenso,
appena ingrigito dalla pioggia e dalla bruma, si alzava ai lati del
sentiero formando due muraglie minacciose. Non un grido, non
un rumore ne usciva. Solo la pioggia monotona sembrava vivere.
Il gruppo si è sfaldato subito. Dapprima ci siamo sgranati lungo il sentiero, noi avventurieri e i portatori. Poi, a poco a poco,
questi ultimi ci hanno distanziato e se ne sono andati avanti per
conto loro. Dopo venti minuti li avevamo persi di vista. Noi invece ci siamo raccolti in due gruppi che a loro volta si sono gradualmente separati fino a perdersi di vista. All’inizio ho camminato con i quattro del gruppo di testa. Parlavano dei loro viaggi
nel Nepal e ai Caraibi e mi hanno annoiata subito. Così ho rallentato e mi sono aggregata ai quattro del gruppo di coda. Parlavano anch’essi di viaggi nel Nepal e ai Caraibi. Ho mollato anche loro e mi sono messa a camminare in solitudine tra i due
gruppi, grosso modo alla stessa distanza dall’uno e dall’altro.
Dopo la prima ora di marcia quella distanza era tanto aumentata
che avevo perso di vista tutti i miei compagni di sventura.
È stato emozionante camminare così nella giungla. Per due
ore sono andata avanti nel silenzio sommerso dal rumore della
pioggia, fra i muri incombenti di alberi giganti. In certi momenti,
quando la massa verde e grigia si stringeva su di me, ero invasa
da un trepido rispetto; e quando la stradella si assottigliava in un
vago sentiero d’erba, mi afferrava la paura di perdermi nella
giungla. Ma ho saputo mantenere il dominio dei nervi, e perfino
225
da quel senso di controllato timor panico ho tratto del piacere, un
perverso piacere di annullamento. Più di una volta però sono stata lì lì per cedere. Spossata dalla fatica, la coscienza sul bilico
dello sgomento, ogni tanto mi scoprivo a domandarmi: Che senso ha tutto ciò? Chi me l’ha fatto fare? Non era meglio una vacanza a Viareggio?
È stato in uno di quei soprassalti di sconforto che mi è venuto
in mente Giuliano. Pensandoci bene, ho realizzato che non era né
col gruppo di testa né con quello di coda. Dunque, dato che non
si sarebbe mai fatto lasciare per ultimo, doveva trovarsi avanti a
tutti, pure lui in ascesa solitaria. Presa da un impulso immotivato,
mi sono fatta un lungo sorso di tè tiepido dal thermos, mi sono
ciucciata due pastiglie di Enervit, quindi ho ingranato la terza, ho
dato un’accelerata e ho cercato di raggiungere l’uomo. La fatica è
stata immane, ai limiti del dolore acuto in certi momenti in cui la
salita si faceva più ripida. Tuttavia dopo mezz’ora superavo il
gruppo di testa e dopo un’altra mezza ero in vista di lui. Con un
ultimo strappo l’ho raggiunto. L’ho afferrato per una manica della giacca e gli ho domandato:
“Allora?”
“Allora?”
“Sì, allora? In tutto questo sconquasso un dubbio mi perseguita come uno spettro: a che scopo? fino a dove?”
Silenzio. Ma io ho insistito:
“Perché mi hai portato qui?”
Lui si è fermato, si è voltato verso di me e ha dichiarato, in
tono molto formale:
“L’Africa è l’ora della verità.” Poi ha ripreso a camminare. Io
non ho mollato. L’ho raggiunto di nuovo, di nuovo l’ho fermato
e ho insistito:
“Dimmelo.”
E lui:
“Al termine di quest’avventura saremo a conoscenza di tutto
ciò che c’è da sapere sulla chiave della verità.”
La pioggia dava qualche segno di tregua. In lontananza si
scorgevano i tetti delle capanne di Mandara.
226
Quarto e quinto giorno. Dopo una notte travagliata di freddo e di
stanchezza, ci è stata servita una magra colazione a base di tè,
banane nane e sandwich farciti di strane fette di salame color
lillà. I nostri portatori hanno sparecchiato i tavoli del rifugio,
hanno sistemato i bagagli con calma e si sono rimessi in marcia.
Noi abbiamo indugiato ancora un po’. Qualcuno si è fatto una
sigaretta, qualcuno un cicchetto, e tutti ci siamo scaldati le mani
intorno a un fuoco fumoso di legna umida. Quindi abbiamo ripreso il cammino. Per un’ora siamo saliti nella giungla. Era spiovuto, ma stavamo proprio in mezzo a una nuvola. La nebbia fitta
rendeva più tenebrosi i muri di vegetazione. Dal profondo di
quell’oscurità ci giungevano ora urli bestiali.
Il Kilimangiaro è una specie d’immensa mammella con due
capezzoli: uno, il Kibo, è grosso e tondeggiante; l’altro, il Mawenzi, meno alto, ha un profilo audace, coi suoi picchi frastagliati di rocce aguzze. Ai piedi dei due capezzoli si apre una
vasta distesa ondulata, marezzata di verde e di giallo. Il cambiamento dell’ambiente, quando si giunge in vista dell’altopiano, è
improvviso, una specie di miraggio. La foresta termina bruscamente e con essa la parte ripida del sentiero. Si entra in un paesaggio alieno, popolato di cespugli bassi e radi, di seneci e di
lobelie, arbusti e fiori di un altro mondo. Il sentiero sale dolcemente tra questa vegetazione rarefatta e la sua fuga si perde lontano verso un orizzonte brullo, dietro la linea del quale si scorgono le cime dei due capezzoli. La nebbia subito si disperde bassa tra gli arbusti, sotto un sole di fuoco. Ti volti indietro e vedi ai
tuoi piedi il mare di nuvole bianche che ti ha affogato la coscienza fino a un minuto prima. La vita torna a sorridere.
Il resto della camminata, verso le capanne di Horombo, a
3750 metri di altitudine, è stato poco faticoso e senza storia. La
mia mente era sospesa in un’atmosfera irreale. Nella contemplazione della brughiera, si è lasciata portare su senza interferire
col corpo.
La tregua è stata breve. All’arrivo è cominciato il mal di montagna, la testa stretta in un cerchio di ferro, i polmoni annaspanti
in cerca di aria. Era la mia prima volta sopra i 3000 metri.
227
Dopo una notte di pessimo sonno senza riposo, abbiamo ricominciato a salire alle nove. Il sole era già alto e bruciava forte.
Giunti ai piedi del Mawenzi, abbiamo assistito a un’altra metamorfosi del paesaggio. I cespugli si sono fatti dapprima sempre
più piccoli e radi. Quando siamo entrati nella vasta sella che separa i due picchi, la brughiera si è dissolta e ha ceduto il terreno a
un rovente deserto rosso, piatto e desolato, abitato solo da sassi e
macigni sparsi, lasciti delle antiche eruzioni del vulcano. L’aria
era soffocante, e non capivo bene se per il caldo o la rarefazione.
Al Kibo hut, l’ultimo rifugio, siamo giunti spossati. Ci siamo
stesi per terra, sui sassi, e siamo stati così, senza parlare, almeno
per un’ora. La testa martellava nelle tempie e alla nuca. Quando
ho ricominciato a ragionare erano le quattro del pomeriggio. Alle
cinque abbiamo cenato, ma io quasi non ho mangiato per niente.
Alle sei tutti a nanna, in vista dell’ultimo sforzo.
Non ho chiuso occhio. La testa mi doleva senza misericordia.
Con la bocca aperta e disseccata annaspavo al buio, nell’aria
fredda del dormitorio. Rannicchiata nel sacco a pelo, e pur ricoperta di vari strati d’indumenti, non riuscivo a scacciare il freddo
che s’insinuava tra le piume e la lana per invadermi il corpo.
Udivo i rumori dei miei compagni che si rivoltavano nei letti a
castello. Di tanto in tanto dal fondo della sala giungeva l’eco di
un conato di vomito.
Ad un tratto ho sentito nel buio dei passi avvicinarsi al mio
letto. Poi il corpo di un uomo è salito su e mi si è stretto addosso.
Era Giuliano.
“Più stiamo vicini, meno freddo sentiamo.” Ha detto.
Abbiamo aperto lo zip del mio sacco a pelo e l’abbiamo richiuso con quello del suo, ottenendo un sacco a due piazze. Ci
siamo strofinati un po’ e ci siamo subito scaldati. La testa continuava a dolere. Dormire, neanche a pensarci. Così abbiamo
cominciato a parlare, sottovoce, con le teste dentro il sacco per
non sprecare neanche il calore dei fiati.
Dapprima abbiamo parlato di cose assurde, in uno stato di
dormiveglia. A un certo punto però mi è parso che lui volesse
venire al sodo e mi sono destata completamente. Voleva che gli
rivelassi come ho fatto a trovare le parole nascoste nel secondo
228
capitolo del Nuovo corso. Gli ho detto che non mi avrebbe strappato una parola di bocca se prima non rispondeva ad alcune mie
domande. Abbiamo fatto un po’ di schermaglia. Infine si è concordato che lui avrebbe accettato un mio interrogatorio; e avrebbe risposto sinceramente a patto di poter usare il no comment.
Dopo di che sarebbe venuto il suo turno di fare domande. E avrei
dovuto rispondergli altrettanto sinceramente. Così ho attaccato:
“La chiave della verità è una chiave vera e propria?”
“Sì e no.”
“Cosa sai del famoso tesoro delle BR?”
“Quello che hanno scritto i giornali ai suoi tempi.”
“Cioè?”
“Tu non li hai letti i giornali? Cosa ne sai tu?”
“So che si favoleggiava di un bottino di decine di miliardi di
lire nascosto in una cassetta di sicurezza.” Ho sparato. “Qualcuno
ha sostenuto che Fabrizio sarebbe stato il tesoriere del gruppo
terroristico e che, chiusi gli anni di piombo, con tutti i capi brigatisti in galera o sottoterra, lui sarebbe rimasto il padrone del
tesoro, l’unico a sapere dov’era nascosto. È vero?”
“Questo lo scrissero i giornali, ma nessuno è riuscito a dimostrarlo, neanche i giudici d’appello.”
“Mettiamo che sia vero.” L’ho incalzato. “Non potrebbe Fabrizio aver dato la chiave del tesoro a qualche amico?”
“Perché avrebbe dovuto farlo?”
“Guarda che siamo nella fase in cui le domande le faccio io.
Tu limitati a rispondere.”
“Va bene.”
“Tutto ciò può avere qualcosa a che fare con la morte di
Luciano?”
“No comment.”
“Secondo Lilli la chiave ce l’hai tu. È vero?”
“No comment.”
“Se ce l’hai tu, cosa cerchi?”
“Appunto.”
“Allora Lilli mentiva?”
“Sì e no.”
229
Abbiamo continuato così per un po’. Avevo l’impressione di
girare a vuoto dentro un circolo vizioso. Lui rispondeva apparentemente senza mentire, ma senza dire niente. Più chiacchieravamo, più mi s’ingarbugliavano le idee. E se non ci fosse nessuna relazione tra quella chiave, Fabrizio, Luciano e tutto il resto? D’altronde, in che senso sarebbe una chiave della verità, se
fosse una chiave vera e propria? E come potrebbe essere una
chiave del tesoro se servisse solo a dare accesso alla soluzione di
un enigma?
Giunto il turno del suo interrogatorio, è scoccata la mezzanotte. La porta del dormitorio si è aperta con fracasso ed è entrata
la nostra guida Masai, Vincent il magnifico, bardato di scarponi,
giacca a vento e passamontagna. Lui è il capo dei portatori. Ha il
piglio di un re e lo sguardo di un segugio.
“Wake up boys! It’s time to go!” Poi in italiano: “Qui si parrà
la vostra nobiltà.”
E Giuliano:
“Si avvicina l’ora della verità.”
Sesto giorno. Uscire da quel letto di pena è stata una liberazione
e una tortura nello stesso tempo. Non ne potevo più dell’ansimare dei polmoni in crisi d’astinenza e dell’ansia dell’attesa in
vista dell’ultimo sforzo. Appena alzata mi si è ficcato un chiodo
nella nuca, che già mi doleva manco poco. È venuta la nausea
forte e il solo stare in piedi mi dava le vertigini.
I portatori ci hanno servito una veloce colazione di tè, biscotti
e banane. Io ho trangugiato due sorsi del liquido caldo. Ci siamo
bardati in fretta, se non altro perché tutti eravamo andati a letto
completamente vestiti. Alle mani, per consiglio di una guida, ho
messo guanti di pelliccia e, sopra a questi, un paio di calzini di
lana pesanti. Doppi calzini ai piedi. In testa un passamontagna,
un berretto da aviatore e il cappuccio della giacca a vento.
Dentro il rifugio faceva un freddo cane. Figuriamoci fuori.
Difatti ci ha subito aggredito un vento sottile che faceva scrocchiare l’aria. Le tre guide che dovevano portarci in cima ci hanno
ammassato, ci hanno passato in rivista e ci hanno dato gli ultimi
consigli:
230
“Non fermarsi, non parlare, non bere, non preoccuparsi.” Era
Vincent il magnifico che cazzeggiava.
E siamo partiti. I primi contrafforti del Kibo si ergevano sopra
di noi neri come una condanna. Ho alzato gli occhi su di essi e
ho visto file di lucine che si snodavano lontane lungo il sentiero
ripido, su su in alto. Non eravamo partiti per primi. Qualche comitiva di giapponesi era stata più mattiniera di noi.
Anche qui il nostro gruppo si è subito sfaldato, dividendosi di
nuovo in un quartetto di testa e uno di coda. Io stavo sempre in
mezzo. Non volevo restare con gli ultimi e non riuscivo a stare
coi primi. Giuliano di nuovo fuori vista. Mi stavo chiedendo se
fosse in testa o in coda, quando mi ha sorpassato con un’andatura
da forsennato. Era già più di un’ora che camminavamo. Non mi
ha neanche guardato. Sembrava uno zombi. Giunto a una
distanza di venti metri davanti a me, si è fermato, si è piegato in
due, ha avuto un violento conato di vomito, poi un altro, poi un
altro ancora. Quindi si è raddrizzato e ha ripreso a camminare.
Non ho potuto non imitarlo. Mi sono fermata un minuto e
sono stata scossa dal vomito anch’io. La prima ondata è stata di
tè, nero e acido. Dopo mezz’ora, un’altra sosta e la seconda ondata, stavolta di succhi gastrici, gialli e schiumosi. Altri venti minuti, altra sosta, ed è arrivata la terza ondata, ma ora di nulla, ed
è stata la più dolorosa. Ho capito che mi prendeva il vomito non
appena mi fermavo. Dunque non potevo concedermi un minuto
di riposo.
Da quel momento sono andata avanti senza fare una sosta. Ho
preso un ritmo regolare, passi brevissimi, un piede davanti l’altro, tacco punta, tacco punta, gli occhi fissi sul terreno, appena
illuminato da una fioca torcia elettrica. Quando ho raggiunto
Giuliano, lui non mi ha guardato, non si è neppure accorto di me.
Avanzava lentissimamente, ansimando, con passi pesanti e irregolari, sbandando ora a destra ora a sinistra che pareva una macchina sbalestrata. L’ho sorpassato e ho tirato dritto. Dopo un po’
mi sono voltata indietro. Il buio della notte aveva eretto una cortina impenetrabile tutto intorno a me. Solo dalle poche lucine
lontane che tremolavano giù in basso capivo che lì sotto c’era un
sentiero e non il vuoto.
231
Ogni tanto in quella desolazione mi veniva voglia di tornare
indietro. Tuttavia la prospettiva di attendere il ritorno dei compagni nel rifugio, insieme a qualche altro sfigato, di notte, al gelo,
la prospettiva di una tale sconfitta mi ha dissuaso. Dunque dovevo andare avanti, senza fermarmi mai. Ogni volta che guardavo
su, i contrafforti del Kibo mi sembravano più alti. Le gambe
erano diventate di legno ormai, la testa mi scoppiava, la nausea
mi soffocava il respiro. Andavo su sola. Se guardavo in alto, era
un incubo di silenzio, se in basso, una vertigine di tenebre. Dentro gli scarponi, i piedi si erano fatti di pietra. Per paura che mi si
congelassero le dita mi sono messa a muoverle spasmodicamente
artigliando le suole. Poi mi ha assalito il sonno. A ogni passo mi
veniva da chiudere gli occhi e dormire. Sempre più frequentemente mi veniva voglia di dire basta e la domanda tornava a frullarmi nella testa: che senso ha tutto ciò?
All’improvviso, mentre avanzavo stordita in quello che era
ormai diventato una specie di dormiveglia, mi è esplosa davanti
agli occhi un’immagine, forse un ricordo di antiche letture, oppure di un’altra persona che, per magia, si era impossessata della
mia mente approfittando dello stato di dormiveglia; un ricordo
confuso, ma dai colori vividi. Nella scena che mi passava davanti
agli occhi, io cascavo dal sonno e camminavo trascinando le
gambe. Un’aria balsamica mi annunciava una ricompensa che si
poteva ottenere solo al prezzo delle più dure fatiche. Sapevo che
ne valeva la pena. Passavo rapidamente attraverso cancelli lontani gli uni dagli altri. Dei cani tutto intorno sorvegliavano i miei
passi e coi loro latrati mi incitavano all’impresa. Mentre avanzavo rivedevo con gli occhi della mente, sogno nel sogno, un
certo viale della stazione, coi tigli sui marciapiedi illuminati dalla
luna. In quella stazione passavano treni che non si fermavano
mai. Ad un tratto lui mi fece fermare. Un lui senza volto, che
camminava accanto a me e stava dentro di me. Mi domandò: –
Dove siamo? – Io non capivo se era una domanda d’esame o che
altro. Sfinita dal camminare, gli confessavo candidamente che
non ne sapevo nulla. Lui alzava le spalle e rideva. Allora dalla
tasca della sua giacca tirava fuori una chiave e me la mostrava
dicendo: – Ecco la risposta. Con la chiave m’indicò, dritta davan-
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ti a me, una certa cosetta, no, una casetta, no, una cassetta. Stava
in un giardino che si apriva in fondo alla strada, a porre termine a
quel viaggio.
Poi è venuto il miracolo. Alle cinque del mattino la luce ha
dato i primi segni di vita. Le stelle sono scomparse e il cielo ha
cominciato a trascolorare al blu, da nero di pece che era. Ho
guardato in alto e mi è parso di vedere la cima del monte a una
cinquantina di metri di distanza in linea d’aria. Mi sono sentita
rinascere. Le forze sono tornate all’improvviso e l’ultimo tratto
l’ho fatto schizzando su con la lingua di fuori, alla stessa velocità
del sorgere dell’alba.
Sono giunta in cima nell’istante in cui il sole ha dato il primo
segno di esistenza. All’improvviso il mal di testa e la nausea sono scomparsi. Mi sono seduta sulla roccia più alta di Gilman’s
Point, 5685 metri sul livello del mare. Ho voltato la faccia a
oriente e ho assistito a uno spettacolo di una bellezza spirituale.
Sotto di me un mare di nuvole grigie aveva invaso l’orizzonte.
Le guglie del Mawenzi emergevano da quel mare, dritte e superbe come un fascio d’itifalli. Il sole sorgeva maestoso, tingendo le
nuvole di rosa, mentre il cielo s’incendiava. Sono rimasta a bocca aperta, a contemplare l’epifania del nulla, per un’eternità di
secondi. Tutta presa dalla visione, mi sentivo fuori del corpo. È
stata quasi un’esperienza mistica. Chissà cosa ne avrebbe pensato
Luciano. Io mi sono detta: ne è valsa la pena.
Quando sono tornata nel mondo mi sono guardata intorno. Tre
dei miei compagni se ne stavano sbracati per terra e boccheggiavano felici. Altri due stavano giungendo proprio allora. Altri
ancora li vedevo lontani, piccoli come insetti, disseminati in basso lungo il sentiero sassoso. L’ultimo di loro non sarebbe giunto
in meno di un’ora.
Gilman’s Point non è la cima più alta del Kibo. Più alta è
l’Huhuru, la Libertà, a quota 5895. Ci si arriva con un’aggiunta
di fatica di tre quarti d’ora. Vincent ci ha chiamato a raccolta e ha
proposto che i meno stanchi si rimettessero in cammino per completare l’impresa. Io non sarei mai rimasta con gli stanchi. Ho
raccattato tutto il mio misero residuo di forze e mi sono aggregata al gruppo degli indomiti.
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Siamo prima scesi per una ventina di metri, poi abbiamo ricominciato a salire su un declivio lungo la cresta dell’antico vulcano. In un attimo siamo giunti sulla vetta dell’Africa. Ci siamo
seduti, abbiamo bevuto tè freddo e Centerbe, 70 gradi alcoolici,
una granata nello stomaco. Ci siamo riposati, sdraiati sulla terra
fredda e sotto il sole che già cominciava a bruciare. Riacquistato
il ritmo normale del respiro, i miei compagni hanno tirato fuori le
macchine fotografiche, e per cinque minuti è stato tutto in clicchettio di otturatori. Io invece ho preso il binocolo, mi sono allontanata dal gruppo di qualche passo e ho fatto un giro d’orizzonte.
All’interno del cratere si estendeva un paesaggio lunare disseminato di pietre nere, di polvere grigia e, qua e là, di piccoli
crateri rotondi dentro crateri più grandi. Sulla cresta opposta a
quella dell’Huhuru, davanti a me, si ergeva l’ultima rovina di un
antico ghiacciaio. Ne potevo vedere i contrafforti che si rizzavano verticali con l’audacia di un muro ciclopico. Formavano
delle file compatte di colonne bianche e azzurre e sembravano
una cascata d’acqua che era stata gelata all’istante da un dio stravagante.
A lungo sono rimasta a contemplare il ghiacciaio col binocolo. Poi ho fatto un altro mezzo giro d’orizzonte e mi sono
fermata a guardare Gilman’s Point. In quel momento vi stava
giungendo Giuliano, locco locco, col passo rotto dalla stanchezza, barcollante che pareva un ubriaco. Appena in cima, invece di
buttarsi per terra, come avevamo fatto tutti, ha riacquistato vitalità. Si è diretto al cippo di ferro che segna il punto più alto del
rilievo. Si è chinato in ginocchio. Ha aperto una cassetta metallica fissata ai piedi del cippo e ne ha tirato fuori una specie di
grosso quaderno, simile a quelli che si trovano sulle cime delle
Alpi e nei quali gli alpinisti appongono le preziose firme a perenne memoria dell’impresa appena compiuta. Lui però non ha
messo nessuna firma.
Invece ha cominciato a sfogliare freneticamente il quaderno
finché non ha trovato ciò che cercava. Si è fermato su una pagina. In pochi secondi ha letto qualcosa. Poi ha tirato fuori di tasca
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una matita e un’agendina e ha trascritto quel qualcosa. Infine si è
steso su una roccia e si è attaccato alla borraccia.
La cosa mi ha incuriosito. Ho raccolto il mio zaino e mi sono
subito messa in cammino per raggiungere Gilman’s Point. Gli altri mi hanno seguito contro voglia. Quando sono giunta alla
meta, il quaderno era stato rimesso al suo posto. Giuliano se ne
stava seduto nella posizione del loto, discosto dal gruppo, con le
spalle rivolte al cippo, osservando il cratere del Kibo. Mi sono
seduta al suo fianco e:
“Cosa cerchi?” Gli ho fatto.
E lui:
“La carcassa di un leopardo.”
“Che carcassa?”
“Ernest Hemingway narra di una carcassa di leopardo trovata
sulla cima del Kilimangiaro, domandandosi come mai la belva
fosse venuta a finire qui, cosa ci fosse venuta a cercare.”
Non finiva di sorprendermi quest’uomo.
Quando il gruppo si è rimesso in marcia, Giuliano si è alzato e
si è aggregato, mentre io ho traccheggiato un po’ armeggiando
con lo zaino. Ho aspettato che gli altri si allontanassero un bel
pezzo. Sono corsa al cippo metallico, ho tirato fuori il quaderno
dalla cassetta e l’ho sfogliato con attenzione. Non ho dovuto cercare a lungo. Ho trovato una pagina in cui la monotonia delle firme era interrotta da una specie di poesiola scritta in italiano. Ho
tirato fuori il mio taccuino e ve l’ho trascritta. Eccola:
P3+A-8xS-8 CON LEGGERO WHITE NOISE
Al Leopardo dal Leone
Un signore si fermò
E mai quattro più giri
Fece intorno ricominciò
Il dopo di quarto Treviri.
Posticcia quella silfide mezza materiata di tricot!
235
Mah? Luciano diceva che la poesia, una volta conquistate le masse, diventa un ricettacolo di luoghi comuni. Questo forse era un
modo per evitarlo.
Mi sono rimessa in cammino. Quando ho raggiunto il gruppo
Giuliano, che si era accorto del mio ritardo, mi ha domandato
spiegazioni. L’ho ignorato.
Settimo e ottavo giorno. Una giornata per raggiungere Horombo,
un’altra mezza per tornare ad Arusha. Il tempo si era messo al
sereno e noi si veniva giù leggeri, eppure con nessuna delle emozioni dell’ascesa. È dunque la sofferenza che rende interessante
la vita?
Il pomeriggio dell’ottavo giorno l’abbiamo dedicato al riposo,
bighellonando nella cittadina in cerca di souvenir e sensazioni,
ma senza una gran soddisfazione. Giuliano mi ha perseguitato
senza tregua. Voleva riprendere l’interrogatorio, voleva scopare,
voleva la verità. Era tutto ringalluzzito, ora che aveva in tasca un
certificato di scalatore della più alta montagna africana, rilasciato
dal Kilimanjaro National Park, con tanto di timbri, firme e controfirme. Mi ha proprio perseguitato. Io l’ho tenuto a bada.
Nono e decimo giorno. È cominciato il safari. All’alba del nono
giorno siamo stati svegliati dall’assordante cantilena di un muezzin; il quale, dalla moschea vicina all’albergo, con l’aiuto di potenti altoparlanti, rompeva i timpani a mezza città, un po’ come
da noi le campane quando sono registrate in hi-fi e trasmesse a
diecimila decibel tutte le sante domeniche mattina direttamente
nelle orecchie dei fedeli e dei miscredenti. Così mi è venuto in
mente un pensierino della sera che mi sembra niente male: che la
scienza moderna, lungi dall’avere affossato la religione, è servita
invece per fornirle armi e strumenti che la rendono più invadente
e aggressiva.
Alle otto ci siamo imbarcati su due Land Rover scassate e ci
siamo messi in viaggio. Imbarcati è la parola giusta. Dopo due
ore di una monotona strada asfaltata che dirigeva, dritta e piatta,
verso Occidente, verso l’interno selvaggio del paese, abbiamo
deviato a Nord e siamo entrati in una pista della savana tutta pie-
236
na di polvere. C’erano buche ampie e regolari, disposte in sterminate serie come le onde del mare. Su di esse una jeep robusta
può correre veloce quanto una barca nella tormenta con tre mani
di terzaroli: sotto il maestrale rulla e beccheggia, e il mare non le
dà tregua. Così le nostre Land Rover, rullando e beccheggiando a
tutta la velocità possibile, fendevano quel mare verde e giallo alzando scie di polvere rossa dietro di sé.
Stavo seduta nel sedile accanto a Vincent, alla testa della
carovana, e ho cercato di imbastire una conversazione per conoscerlo meglio. Così ho scoperto che è un uomo di cultura. È
figlio di un capo tribù, ma ha rinunciato al trono per emigrare
nella civiltà. Ha studiato in Inghilterra e in Italia. Poi è tornato in
patria per mettere su un’impresina che organizza avventure per
turisti in cerca di emozioni hemingwayane. Parla un discreto italiano, e con una certa flemma. Ogni tanto però si accalora, ed ecco la perla di monologo con cui mi ha deliziato mentre guidava il
fuoristrada scartando dossi e fossati:
“La Land Rover, anzi, la Land, così la chiamiamo noi aficionado, è una jeep portentosa, un vero mito. Sulla pista sconnessa
della savana è capace di fare derapage da spider, e sa scattare
leggera come uno scooter in terza. Parte sempre in pole position
e fila via, dribblando fra le teorie sconfinate di rovi e di arbusti,
che pare una Jaguar sprint fra i guard rail di una strada di campagna. Ha il design di un tank, il ruggito di un jumbo jet, lo chassis
di un camion... il clacson di una city car. Per garage gli basta
un’acacia, nella notte della Rift Valley, e al mattino può partire
senza starter. Non offre certo i comfort di una station wagon
americana, ma carica bagagli più di un container e passeggeri
meglio di un pullman. Non va mai in tilt, mai che dia forfait, mai
che si fermi in panne. Neanche i giapponesi, con tutto l’avanzamento del loro know how, sono riusciti a costruire una safari
car all’altezza di questo capolavoro della sapienza inglese.”
Il lago Manyara è stato la prima rivelazione della vera Africa
da cartolina: giungle intricate nella valle intorno al lago, immensi
baobab spogli sulle colline, acque tinte di rosa dalle colonie di
fenicotteri.
237
I miei compagni di viaggio scattavano foto senza ritegno. Io la
macchina fotografica non l’ho voluta portare, se non altro per
ridurre il peso dello zaino personale. Lo zaino serio, quello che
pesa venti chili, lo portavano i negretti, sul Kilimangiaro. Quello
piccolo, con le cose di uso immediato, che portavo io, pesava già
cinque chili senza macchina fotografica. Quanto alle foto, ne ho
poi comprati due libri in un negozio per turisti, ed erano più belle
di quelle che avrei potuto scattare da me.
Il giorno seguente ci siamo rimessi in moto dopo una dura
notte passata sul duro pavimento di una tendina canadese. Ancora chilometri e chilometri di polvere e sudore e schiene a pezzi, in mezzo a paesaggi di una bellezza esagerata.
Ho notato che neanche Giuliano aveva una macchina fotografica. Cominciavo ad apprezzarlo il mio bove. Questo viaggio,
inaspettatamente, è servito a portare alla luce lati del suo carattere per niente spregevoli. Dal tettuccio aperto della mia Land
Rover, da cui sporgevo con tutto il busto, ogni tanto lanciavo uno
sguardo verso la sua. Lui se ne stava seduto sul tetto, le gambe
che penzolavano una fuori e una dentro la macchina. Più di una
volta i nostri sguardi si sono incontrati, di lontano, ammiccando
in un segno d’intesa. Con quel cappello kaki a falde flosce, la sua
faccia larga, i baffi neri, il sorriso che variava continuamente tra
il cordiale e il beffardo, Giuliano sembrava un vecchio Ernest. Il
gruppo infatti gli ha subito appioppato il soprannome giusto, zio
Ernest, così riconoscendogli un’autorità di fatto, se non altro
quella dell’anziano.
Finalmente, verso mezzogiorno, siamo arrivati al parco di
Ngorongoro. Il paesaggio è cambiato all’improvviso. La strada
ha cominciato a inerpicarsi sulla montagna e la savana ha ceduto
il campo alla giungla.
Ngorongoro è un cratere, un grande cratere vulcanico, sul fondo del quale si stende una valle splendente quasi di luce propria.
Al centro della valle, un lago azzurro-cielo. Tutt’intorno, una vasta catena circolare di monti verdi. Ngorongoro è un cratere. È
stato prodotto da un’apocalittica eruzione vulcanica in tempi remotissimi. Una caldera immensa: seconda al mondo per vastità,
dicono le guide, prima per bellezza. La bellezza è indubbiamente
238
esaltante. Non riesco a definirla che come ineffabile. Suscita il
senso del sacro.
Non starò a narrare delle scorrazzate in Land Rover tra leoni e
rinoceronti e tutte le altre bestie da safari. Il bello è venuto la sera
quando, tornati sui monti, ci siamo accampati nella foresta. Una
radura neanche tanto grande, con al centro un immenso albero
solitario, era il camping messo a disposizione dall’ente del turismo. Non c’era una rete di recinzione né una capanna per i servizi a tradire un sia pur blando segno, non dico di civiltà, ma almeno di organizzazione. Le tende dei turisti, comprese le nostre
cinque, erano una decina. Dalla giungla giungevano urli bestiali.
Entrare nella foresta in cerca di legna per il fuoco è stata
un’impresa in cui si sono cimentati solo i maschi più coraggiosi.
Il fuoco poi è stato debole e di breve durata. Verso le undici,
quando si stava per spegnere, si è avvicinato un negro alto e bello
come Cassius Clay. Aveva un fucile a tracolla.
“Sono il ranger del campo.” Ha detto in un rozzo inglese.
“Non vi preoccupate se stanotte sentite qualche ruggito. Però se
lo sentite troppo vicino alle tende, mettetevi a urlare a squarciagola. Basta che gridate: – hallo, hallo. – Io vengo e sparo.”
Ci ha proprio tranquillizzato. Difatti, entrata nel sacco a pelo,
non ci ho messo meno di due ore per addormentarmi. Avevo
appena preso sonno, credo, quando sono stata svegliata da un
ululato, o un ruggito, non saprei, comunque terrificante. Ho aperto gli occhi, nel buio della tenda, e non ho mosso un dito. Le
orecchie mi si sono forse drizzate. Silenzio assoluto. Il respiro di
Giuliano, accanto a me, non era per niente regolare, sembrava
anch’esso soffocato dallo spavento. È passato un quarto d’ora, e
stavo per cadere di nuovo nel sonno, quando ho sentito un altro
ruggito, più forte e più vicino del primo.
“Cos’è?” Ho chiesto a Giuliano con un bisbiglio.
“Una iena.” Ha risposto lui sicuro. “Non temere. Le iene mangiano solo carogne.”
“Figuriamoci! Ernest dice che una iena, di notte, può assalire
una tenda e morderti la faccia.”
“Ernest scriveva romanzi.”
239
Poi di nuovo silenzio. Anche la iena non si è fatta più sentire.
Ad ogni modo quella notte non ha dormito nessuno nel campo.
Né abbiamo dormito noi due. Dopo un po’ Giuliano si è voltato
verso di me e ha detto:
“Potremmo approfittare per fare conversazione. Ho diverse
cose da domandarti.”
Non ho potuto tirarmi indietro. D’altro canto bisognava pur
trovare un modo per passare la notte. Così:
“Va bene, attacca con le domande.”
“Non ho intenzione di porti domande precise. Voglio soltanto
che mi spieghi come hai fatto a decifrare il messaggio nascosto
nel primo e nel secondo capitolo del Nuovo corso. Io ci ho lavorato duro per giorni e notti, e ho sempre sbagliato. Tu evidentemente sei in possesso della chiave di lettura, o di un codice, insomma di qualcosa che è necessario per orientarsi in quei labirinti di parole.”
“È così.”
“Dai allora, racconta.”
“Dobbiamo partire da un fatto letterario.”
“Vabbè, basta che non la prendi troppo larga.”
“La soluzione era pronta da molto prima che mi mettessi a
cercarla.”
“Dov’era?”
“In una poesia regalatami da Luciano per il mio ultimo compleanno. Lì per lì non ci avevo capito granché. Era una poesia
concettosa, ermetica. Non avevo capito cosa avesse a che fare
con me. Pensavo che avrebbe potuto regalarla a qualsiasi persona. Lui però mi aveva detto che era un dono personalizzato.
L’aveva scritta espressamente per me. Il perché lo capii più tardi
e proprio quando stavo cercando la chiave di lettura dei capitoli
del Nuovo corso.”
“Come hai fatto a capirlo?”
“Era una notte fredda e insonne. Mi rivoltavo nel letto da ore,
la mente offuscata da un qualche assillo che ora non ricordo.
Verso le prime luci dell’alba mi appisolai, ma di un sonno leggero, agitato, non del tutto incosciente, una sorta di dormiveglia
attraverso cui entravo e uscivo continuamente dal torpore. A un
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certo punto devo essermi addormentata sul serio, e all’improvviso mi sono svegliata di soprassalto...”
“Un incubo?”
“Non precisamente un incubo, neanche un delirio di piacere.
Un sogno strano. Così strano... vivido... così vivido... che pareva
realtà.”
“Racconta.”
“Mi trovavo in una sudicia mansarda in una sudicia casa del
quartiere latino a Parigi. Ero seduta in meditazione su una grande
sedia impagliata davanti a una finestra spalancata. Era notte fonda. L’alba sarebbe sorta di lì a poco. Passò del tempo e il cielo, di
un buio senza stelle, cominciò a mostrare i primi segni di pallore.
Dapprima il nero trascolorò in un blu intenso. Poi si schiarì fino
ad assumere una sfumatura di viola appena percettibile. Era un
blu strano, che non avevo mai visto, profondo e denso, pregno di
un’elettricità magica. Mi aspettavo che sorgesse il sole. Invece
all’improvviso c’è stato uno squarcio.”
“Uno squarcio di che? Del cielo?”
“No. Uno squarcio. Non saprei dirlo diversamente. Una specie
di rottura dell’ordine del mondo, che esplose dentro di me e dilagò tutt’intorno. Nello stesso istante comparve un’immagine al
centro della finestra, sospesa in quel blu magico del cielo. Ebbi
un trasalimento, della mente, del corpo, non so.”
“My god, un satori!”
“Certo, è patetico. Ma era solo un sogno. Fui ipnotizzata
dall’immagine. Mi sentivo vuota e cosciente allo stesso tempo,
passiva e padrona di me. E lei se ne stava là, vuota e passiva
anch’essa...”
“Lei chi? Che immagine era?”
“Era una persona, non saprei dire se maschio o femmina. I
capelli lunghi, neri e lisci. Duri i lineamenti del viso, non belli
sebbene trasfigurati da un’aura di dolcezza eterea e impersonale.
Il colore della pelle e degli occhi era blu, ancora il blu magico del
cielo. La tunica che indossava era dello stesso colore. Nella mano
sinistra, sospeso all’altezza del cuore, teneva un libro aperto,
anch’esso di quel colore incredibile. C’erano scritte delle parole
che io non riuscivo a leggere. La mano destra invece era at-
241
teggiata a un gesto ieratico, con il medio e l’indice uniti in un
segno che sembrava di benedizione e di minaccia a un tempo.
Indicava il libro e pareva volesse invitarmi o costringermi a
leggerne il contenuto. Io mi sforzavo di decifrare le lettere senza
riuscirci, e più passavano i minuti più diventava difficile. Sentivo
l’angoscia crescere dentro di me. Sentivo che se non fossi riuscita, qualcosa di terribile mi sarebbe accaduta. Infatti cominciai
a precipitare nel vuoto. Man mano che andavo giù l’angoscia
montava. Solo se fossi riuscita a decifrare quelle parole mi sarei
salvata. Credetti di essere entrata in un sonno da cui non mi sarei
mai risvegliata se non fossi riuscita a penetrare il libro. L’angoscia, l’oppressione e la caduta sarebbero continuate in eterno con
intensità e velocità sempre crescenti. Quand’ecco che, con calma,
quella mano terrificante si mosse. Si volse verso di me, mostrandomi il palmo. Nello stesso tempo dischiuse il pollice, l’indice e
il medio. Capii che mi voleva significare il numero tre. No, era
un tredici; no, un ventisei. All’improvviso sentii di essere lì lì per
capire. Mi svegliai, ma un istante prima riuscii a leggere tre lettere del libro.”
“Che lettere?”
“Una E, una A e una P.”
“Che significa?”
“Il sogno? Magari lo sapessi.”
“No, le tre lettere. Non hai detto che ti hanno dato la chiave
per decifrare il libro di filosofia?”
“Ho detto che alla fine sono riuscita a trovare quella chiave. Il
sogno è stato il punto di partenza di una catena di associazioni
mentali che mi hanno portato alla soluzione. Però se mi chiedi di
spiegarti il senso delle associazioni mi metti in difficoltà. Ho
capito il punto d’arrivo, non come ci sono arrivata.”
“Vabbè, continua.”
“Dopo il sogno sono rimasta a letto madida di sudore e non
ancora del tutto sveglia. Ero stanca e angosciata. Volevo riaddormentarmi, anche se avevo paura di rientrare in quel sogno.
Così il mio corpo ha cominciato a rigirarsi tra le coperte e la
mente a frullare più veloce di una trottola. La prima associazione
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che mi si è presentata era di una discussione che avevo avuto con
Luciano su uno scrittore americano.”
“Molto interessante, ma mi sa che ti stai prendendo gioco di
me.”
“Aspetta. Sono quasi arrivata. Dopo essermi ricordata di quella conversazione letteraria, all’improvviso ho trovato il bandolo
della matassa. Sono corsa a prendere la poesia che mi era stata
dedicata da Luciano, l’ho riletta, l’ho confrontata con un’altra e
ho subito trovato la chiave di lettura.”
Giuliano stava per dire qualcosa quando nel silenzio della
notte, vicinissimo al campo, è prorotto un altro ululato. Gli ha
ucciso le parole in bocca. Io mi sono stretta a lui. Poi si sono
sentiti dei passi d’uomo accanto alla tenda.
“Chi è là?” Ha gridato Giuliano.
“Don’t worry, it’s me. I’m watching over you.” Era il ranger
del campo, col suo inglese singhiozzante. E in swahili: “Pole,
pole m’suri!” Cioè: “non vi preoccupate!”
Figuriamoci! Fortunatamente la tela della tenda cominciava a
schiarirsi alla prima luce dell’alba. Giuliano era rimasto a bocca
aperta e guardava fisso in alto. Non capivo se era preso dalla riflessione o dalla paura. Ne ho approfittato per alzarmi.
Sono uscita dalla tenda in pigiama. Il ranger se ne stava lì
davanti, volgendomi le spalle, a pochi metri dalla tenda, guardando verso la vallata di Ngorongoro. Mi sono avvicinata a lui.
Ho guardato anch’io e sono rimasta sconvolta dalla visione. Il
sole non era ancora sorto e già il cielo si era tinto di rosa laggiù
dietro le grandi montagne nere. Noi stavamo in uno dei punti più
alti del cerchio montuoso. Alla nostra destra, oltre il muro massiccio dei monti che chiudeva la vallata, un’immensa ondata di
nuvole nere avanzava inesorabile, decisa a traboccare nel cratere.
Noi stavamo a guardare in attesa di un evento. Il mare di nuvole
avanzava. Poi, appena il sole è uscito fuori dall’altra parte della
valle davanti a noi, quel mare scuro ha aggredito la cresta del
cratere e ha cominciato a riversarcisi dentro. Nello stesso istante
ha cambiato colore. Si è formata una specie di cascata di panna
rosa. Lentamente veniva giù, scivolando a picco lungo i fianchi
verticali dei monti, e diventava sempre più luminosa. Il sole con-
243
tinuava ad alzarsi, rosso come un grumo di sangue. Appena si è
staccato dalla cima dei monti, la cascata di nuvole ha toccato il
fondo della valle. Si era ormai tutta colorata di un rosa carnicino,
e il cielo le faceva da specchio. Sull’occhio del sole si stagliavano tre linee orizzontali di cirri neri.
Doveva avere ragione Luciano quando sosteneva che dietro la
mia pertinace volontà di svilire il mondo si nasconde un inguaribile animo romantico. Non si spiegherebbe altrimenti questa infantile capacità di entusiasmarmi di fronte a certi oleografici
squarci di albe africane.
Undicesimo e dodicesimo giorno. La savana sterminata di Serengeti, coi suoi gnu e i ghepardi, le zebre e i bufali, le giraffe, i coccodrilli e i saussage trees, non ci ha impressionato più di tanto,
dopo il lago Manyara e Ngorongoro. L’abbiamo attraversata in
un giorno. Una notte ci abbiamo dormito, in tenda, in un campo
in mezzo alla prateria. Neanche gli sghignazzi notturni delle iene
ci hanno fatto grande impressione.
La mattina presto abbiamo imboccato la strada per il lago
Natron, fuori dai parchi nazionali e dai percorsi turistici, in cerca
di un’avventura seria. Usciti da Serengeti, la strada, tutta sconnessa e polverosa, è diventata una pista incerta che si perdeva
spesso tra l’erba disseccata, i cespugli e i fossi dei torrenti prosciugati dal sole. Le Land Rover hanno resistito eroicamente. Le
nostre schiene e i nostri culi però erano a pezzi quando ci siamo
fermati a Wasu, dopo sette ore di gincana.
Wasu è un villaggio primitivo, come quelli che si vedono nei
film di Tarzan, con le capanne di fango e di frasche. I Masai erano genuini, nella loro gloriosa e sporca seminudità. Tre di loro,
vestiti nei tipici drappi amaranto, ci sono venuti incontro con atteggiamento non proprio amichevole. Può sembrare incredibile,
ma erano armati di lance e bastoni nodosi. Entrambe le mani armate avevano e ai fianchi dei lunghi machete di ferro. Le guide
hanno fermato le jeep ai bordi del villaggio, sono scese insieme a
Giuliano e hanno cominciato una trattativa faticosa. Traducevano
dalla lingua Masai all’inglese e il nostro capo sudava abbondantemente nello sforzo di capire e farsi capire. Poi è tornato alle
244
macchine e ci ha detto che potevamo scendere e scattare qualche
foto. Aveva pagato il biglietto d’ingresso: sessanta dollari, una
cifra spropositata.
Abbiamo gironzolato per il villaggio, stretti l’uno all’altro,
circondati da nugoli di ragazzini e giovanotti che ci guardavano
come fossimo scimmie allo zoo. Qualcuno ci toccava, altri ridevano, altri ancora discutevano animatamente. Poi sono venute
delle donne che volevano venderci collanine e braccialetti di perline colorate.
Infine abbiamo trovato una capanna più grande delle altre con
un cartello di legno bianco su cui campeggiava una scritta
sghemba e alquanto pretenziosa: restaurant. Siamo entrati e abbiamo chiesto da mangiare. Servivano solo una pietanza: chapati.
Ne abbiamo ordinati 27 e, spinti dalla tremenda puzza, siamo
subito usciti all’aria aperta. Tanto ci voleva del tempo per prepararli. Il sole, quasi a picco, bruciava peggio di un forno. Ne abbiamo ordinati 27 di chapati, tre per uno. Infatti eravamo diventati nove. Uno di noi mancava all’appello. Chi poteva essere?
Giuliano, naturalmente. Doveva essersi allontanato quando siamo entrati nel restaurant. Dov’era andato?
Ad un tratto ci siamo accorti che le jeep erano sparite. Abbiamo sbirciato tutto intorno, ma non se ne vedeva l’ombra. Neanche le nostre guide tanzaniane si vedevano più. Nel posto in cui
erano state parcheggiate le macchine, ora c’erano i tre capi Masai
che parlavano animatamente tra di loro. Noi nove ci siamo
guardati negli occhi. Nessuno ha aperto bocca. Le macchine
fotografiche avevano smesso di clicchettare.
Ho avuto paura. Neppure le facce dei miei amici parevano
tranquille. Siamo rimasti lì, davanti al restaurant, in attesa del
nostro pranzo, e di qualcosa d’impensato. C’è voluta mezz’ora
per cuocere 27 chapati. La vecchia che li cucinava li aveva impastati e cotti uno per volta con una calma biblica. Finalmente la
cuoca è venuta fuori. Teneva sotto il braccio un mazzo di frittelle
calde, unte e puzzolenti di strutto, avvolte in fogli di vecchi
giornali. Le abbiamo prese e pagate. Ce le siamo subito distribuite, tre per uno. Però nessuno osava avvicinarle alla bocca. E
245
dire che la fame era grande: non mangiavamo dal pranzo del
giorno precedente.
La paura e il disgusto mi avevano afferrato allo stomaco. Che
fine avevano fatto le nostre guide? E le nostre macchine? Poteva
essere successo di tutto. Poteva succederci di tutto. Era questa,
finalmente, l’avventura? È passato un altro quarto d’ora, con noi
lì, in silenzio, paralizzati dalla fifa, circondati da selvaggi sghignazzanti.
Quand’ecco che abbiamo sentito, di lontano, i motori delle
Land Rover che si avvicinavano. Ci siamo voltati all’istante. Sotto una nuvola di polvere, dalla direzione opposta a quella da dove eravamo venuti, le nostre jeep correvano a velocità sostenuta.
In mezzo minuto hanno raggiunto il villaggio. Sono entrate dentro. Hanno inscenato un rapido carosello intorno a noi, facendo
schizzare via i Masai come polli spaventati. Si sono fermate senza spegnere il motore. Giuliano era nella prima macchina. Ha
aperto uno sportello e ci ha fatto un rapido cenno. Noi siamo saltati dentro e le macchine sono ripartite a razzo sgasando nella
polvere. Non eravamo ancora usciti dal villaggio, che ci ha investito una pioggia di lance e di sassi. Uno dei quali, il più
grosso di tutti, ha centrato in pieno il vetro posteriore della jeep
in cui ero salita io. Il vetro è andato in frantumi e il sasso mi ha
sfiorato una spalla. Ho fatto appena in tempo a rannicchiarmi sul
sedile che eravamo già fuori pericolo.
Vincent, che ora si era dimostrato un abile e accorto autista,
oltre che magnifica guida alpina, ci ha detto che si erano allontanati dal campo perché avevano intuito che i Masai volevano
derubarci. Volevano razziare i bagagli che stavano ammucchiati
sui tettucci delle macchine. Chissà se era vero? Certo è che se
hanno voluto farci provare il brivido dell’avventura ci sono riusciti.
Abbiamo fatto una sosta e Giuliano si è venuto a sedere accanto a me. Ha bevuto dalla borraccia. Ha addentato con un
unico morso due dei miei chapati, che gli avevo ceduto volentieri. Si è voltato verso di me, ha dato un altro fiero morso alle
frittelle puzzolenti. Quindi, con la bocca piena, ha parlato:
246
“Chissà, forse rientra tutto nel programma di Avventure nel
Mondo. Questi poveracci di Masai devono pur guadagnarsi da
vivere. Può darsi che i soldi che abbiamo versato servissero a pagare la sceneggiata.”
Siamo andati avanti per altre cinque ore sotto un sole soffocante. Gradualmente la savana si è diradata, fino a trasformarsi in
un paesaggio semidesertico. Per l’intero tragitto non abbiamo visto un essere vivente che fosse uno, neanche un animale.
Alla fine siamo giunti alla nostra meta, il lago Natron dei
fenicotteri rosa, paradiso di struggente bellezza – parola del
Touring Club. Ci siamo fermati in un altro villaggio Masai, uno
più civilizzato del precedente, sebbene solo un po’. Dove il più
avanzato livello di sviluppo s’intuiva da due cose: dalla pianta
rettangolare delle capanne, invece che rotonda, e dall’esistenza di
uno spaccio. Non ho visto restaurant, il che mi è parso un buon
auspicio. Lo spaccio non era altro che una capanna con una
finestra quadrata senza imposte. Alcuni di noi si sono avvicinati
e si sono sporti dentro. Anch’io l’ho fatto, dietro gli altri. Sui
muri giallo sterco dell’interno pendevano quattro rudimentali
scaffali di latta su cui erano esposte poche merci essenziali: sale,
fiammiferi, sigarette, sapone, strutto, gallette e coca-cola.
Nient’altro. Abbiamo fatto incetta di gallette e coche. Queste
erano calde come ciofeche, eppure non ce ne siamo scolate meno
di tre ciascuno. Le gole riarse dalla polvere e gli stomaci
incendiati dai chapati ne hanno ricevuto un sollievo piuttosto
fugace.
Mentre il gruppo si rinfrescava, diciamo così, è successo un
fatto strano. Giuliano, insieme a Vincent, si è allontanato dagli
altri e si è inoltrato nel villaggio perdendosi tra le capanne. Due
Masai li accompagnavano e altri quattro li seguivano poco discosti. Noi, tutti gli altri, ci siamo seduti per terra, con le schiene appoggiate allo spaccio, a goderci le coche calde sotto il sole rosso
del tramonto.
Siamo stati circondati dai ragazzini e dalle donne. Sembravano più cordiali dei loro compatrioti di Wasu. “Picture! Picture!”
Gridavano i ragazzini. Volevano essere fotografati per incassare
il pedaggio che, per una legge non scritta ma inderogabile, gli
247
spettava di diritto: una foto, una moneta. Le donne invece ci
assillavano coi loro innocenti manufatti di perline. Da venti metri
di distanza ci osservava un gruppetto di guerrieri armati. Sorridevano onestamente. Erano belli come eroi di un mondo primevo,
nei loro dignitosi stracci amaranto che coprivano malamente i
corpi lisci e duri. La pelle d’oro brunito, tesa sui muscoli calmi,
lasciava vagheggiare ebbrezze e furori selvaggi.
È passata una mezz’ora. Giuliano e gli altri sono tornati. Ci
siamo rimessi in moto e dopo pochi minuti ci siamo fermati a
quello che le carte davano per l’unico camping attrezzato nel raggio di cinquecento chilometri.
Era una casupola di mattoni e bandoni, in cui vivevano due
giovanotti inglesi. C’erano anche una mezza dozzina di servi
negri. Tutt’intorno alla casupola, a formare un cerchio poco più
ampio di un quarto di ettaro, un’alta palizzata di tavole ben tagliate e intrecciate col filo spinato. Pareva un fortino. Era il camping, ma non c’era una tenda che fosse una. Il prezzo era di 16
dollari a tenda per notte, per campeggiare dentro la palizzata, 4
dollari per campeggiare fuori. Naturalmente abbiamo scelto la
seconda soluzione: L’aventure est l’aventure.
Abbiamo montato le tende, sempre circondati da ragazzini e
donne Masai. Poi il sole è calato all’improvviso, portando una
notte minacciosa. Abbiamo acceso un fuoco stentato, ci siamo
seduti intorno e abbiamo mangiato in silenzio delle scatolette di
tonno e fagioli che c’eravamo portati dall’Italia. I Masai se n’erano andati col sopraggiungere del buio.
Siamo rimasti intorno al fuoco ancora qualche decina di
minuti, chiacchierando stancamente. Infine ci siamo ficcati nelle
tende e siamo crollati nel sonno.
Dodicesima notte e tredicesimo giorno. Sono stata svegliata da
certi rumori sulla tenda, come se qualcuno ci grattasse sopra con
le unghie. Con un calcio ho svegliato Giuliano, che russava al
mio fianco. Lui ha smesso di russare, e anche i rumori fuori la
tenda sono cessati.
“Che c’è?” Ha detto.
“Ho sentito dei rumori strani.”
248
“Io no. Dormi.”
Siamo rimasti in silenzio per qualche minuto. Quando lui si è
riaddormentato e ha ripreso a russare è ricominciato il raspare
alla tenda. Ho mollato un altro calcio.
“L’ho sentito di nuovo.”
“Gesù, Giuseppe e Maria!”
“Aspetta. Non ti riaddormentare. Ascolta.” Mi sono messa a
imitare il suo rantolo monotono. Quel rumore sulla tenda si è fatto subito risentire. Veniva dalla parte di Giuliano.
“Che vuoi che sia?” Ha detto. “Una scimmia curiosa.”
“O un leopardo.”
“Sì, magari un uomo-leopardo.”
“Cioè?”
“Te lo racconto domani, ora dormi.” Ha dato un colpo con la
mano sulla parete della tenda. Dei passi rapidi e lievi si sono allontanati. Sarà stata proprio una scimmia curiosa.
Ho cercato di riaddormentarmi. Giuliano si è girato dall’altra
parte. Dopo qualche minuto si è rigirato, e poi ancora una volta.
E ancora e ancora. Anch’io non riuscivo a prendere sonno. I primi chiarori dell’alba filtravano tra l’ordito della tenda.
“Visto che ormai non si dorme più,” ha detto lui, “potremmo
riprendere quel discorso.”
“Che discorso?
“L’altra notte mi hai raccontato un sogno assurdo senza arrivare al dunque. Mi vuoi spiegare le cose per benino ora?”
“Ti ho già detto quasi tutto. Resta solo che ti reciti la poesia
che contiene la chiave, forse la chiave che stai cercando.”
“La sai a memoria?”
“Naturale. Prendi carta e penna, ché te la detto.”
Lui ha rovistato nello zaino, ha tirato fuori la sua agendina e la
matita, ha acceso la lampadina e:
“Sono pronto.” Ha detto.
“È intitolata ‘La chiave della verità. A valentine.’ Particolare
rilevante: le ultime due parole vanno in corsivo. Recita così:
Ti leggon quasi tutti sulle righe
verità, tra le righe molti meno,
249
happy fews, venticinque o giù di lì.
Nel libro per tutti, per pochi e per nessuno
stai scritta soltanto nei nomi e ti trova
chi ti cerca oltre, chi ti cerca altrove.
Per svelarti ti veli di menzogne,
non sai darti senza negarti, né dirti
senza smentirti, verità più vera.
E però non ha fine la cerca della chiave,
perché non esiste una fede che una logica
tagliente non possa smembrare.
Né c’è yogin che apra una porta
che non apra la strada verso un’altra,
non c’è un’ultima porta da aprire.
Non c’è da credere, proprio no,
che esista una stanza da cui
si possa uscire senza entrare dentro un’altra.
La cerca del Graal è una condanna:
non appaga, ma non dà tregua, neppure
quando infine ti rivela il senso, che non c’è.
Ed è vero: la scienza dà il meglio di sé
nel demolire: costruire, sa solo creare
nomi e parole per prendere il mondo.
Perciò la formula che trovi, mia cara, non chiederle
di darti la chiave per capire il mondo, ma
solo qualche scarna lettera di un nome.
E il nome cerca, indaga la parola,
but remember: le parole della scienza sono
molto più eloquenti se dette da un poeta…
Non t’inganna la parola che si serve dell’inganno,
– come disse D. A. F. Leroy nel Code Saint Peerlesfoy –
non t’inganna se detta da un poeta.
250
You go on, then: never cease trying. Even if you
know that you would not read the riddle,
go on: riddle the read, go on.
But remember: non c’è nodo che infine
non sciolga una spada, che infine non ceda
alla lama di una logica affilata.
“Ecco,” ho concluso, “se esiste una chiave della verità, è nascosta in questa poesia.”
“Bene, qual è?”
“Devi scoprirlo da solo. Devi decifrarla tu.”
“Chi è Valentine?”
“Qui sta il bello. Rifletti. Ti ho detto che le ultime due parole
vanno scritte in corsivo. Ma non voglio dirti altro. Non voglio
toglierti il gusto della scoperta. Ti ho dato tutti gli elementi necessari per venirne a capo. Rifletti bene a quanto ho detto l’altra
sera, a quei pezzi di discorsi fra l’onirico e il letterario. Ricollega le parti e ricostruisci l’insieme. Puoi riuscire a risolvere
l’enigma. Bene, ora cambiamo discorso, ché anch’io ho da togliermi una o due curiosità.”
“Sentiamo.”
“Che siete andati a fare oggi tra le capanne del villaggio Masai, tu e Vincent? E dove sei andato ieri, quando ti sei allontanato
dal gruppo nell’altro villaggio?”
“Ah ah! Potrei dirti che sei in grado di capirlo da sola. Collega
le parti e ricostruisci l’insieme, potrei dirti.”
“Stronzo.”
Ho chiuso la conversazione e mi sono girata dall’altra parte.
Lui si è fatto una risatina. Mi si è accostato e mi ha messo un
braccio sulle spalle. L’ha fatto scivolare sul petto. Ha titubato per
qualche secondo. Mi si è stretto addosso e, a dispetto di due strati
di sacco a pelo, mi ha fatto sentire le sue intenzioni senza parlare.
L’unica cosa che ha rimediato è stata una gomitata nello stomaco. Stranamente sono riuscita a riprendere sonno.
251
Quattordicesimo giorno. Sono stata svegliata dal vociare della
brigata. Erano le nove. Ci si preparava a un’escursione che prometteva bene. Mi sono affrettata a vestirmi e ho raggiunto gli
altri mentre stavano per lasciare il campo. Dovevamo risalire
l’Uaso Nyiro, il principale affluente del lago Natron, fino a raggiungere delle cascate che per le guide turistiche erano di una
bellezza edenica.
Siamo andati avanti per una mezz’ora, sotto il sole che avvampava feroce, su un terreno bianco di sabbia e di sassi. Abbiamo raggiunto il fiume in un punto in cui usciva dalla stretta di
due colline brulle. Più che un fiume era un grosso torrente, largo
sui tre metri. Ma eravamo lontani dalla stagione delle piogge. Il
sentiero che lo costeggiava era appena visibile e spesso si perdeva nelle acque, costringendoci al guado diverse volte. Il
torrente scendeva dai monti tra due pareti di roccia gialla e nera
che diventavano sempre più ripide e più alte man mano che si
saliva. Spesso si stringevano sul fiumiciattolo quasi a volerlo
strozzare. In alcuni tratti, stando in mezzo al torrente si potevano
toccare le due pareti stendendo le braccia. Diverse volte ci siamo
dovuti arrampicare sulle rocce per andare avanti.
Abbiamo scalato i monti così, di guado in guado, arrancando
sui sassi e le pareti scoscese per un’oretta buona. Alla fine, dopo
un’ultima ansa, siamo giunti su un ripiano. Le pareti rocciose si
aprivano in cerchio a formare un ampio seno. Tra di esse il fiume
si allargava tramutandosi in un laghetto. Le acque verdi erano
circondate da rive erbose. In fondo, di fronte a noi, una cascatella
scendeva da una parete di rocce popolate da palme e seneci. Non
era una gran cascata. Alta una decina di metri, scendeva giù
sottile che pareva poco più di una fila di docce.
Erano quattro giorni che non ci facevamo il bagno e tutti abbiamo avuto la stessa idea. Incuranti della bellezza edenica del
posto, abbiamo tirato fuori shampoo e saponette, ci siamo spogliati e siamo corsi sotto le docce. È stata una lussuria ed è durata
a lungo. Poi abbiamo nuotato nelle acque intorbidite dalla nostra
invadenza. Infine ci siamo stesi nudi sull’erba a prendere il sole.
Soltanto allora ci siamo veramente accorti della magia del posto.
252
Accanto a me c’era Vincent. Per quasi tutto il viaggio ero stata seduta accanto a lui, nel sedile anteriore della sua Land Rover,
e avevo avuto modo di conoscerlo. Non era molto amato dal resto del gruppo, che preferiva l’altro autista, il gentile e servizievole Otto. Vincent invece, raro soggetto di Masai civilizzato, ha
sempre svolto il suo lavoro con dignità e distacco e senza nascondere un’ombra di sprezzatura verso la banda di turisti vocianti e volgari che pretendevano di trattarlo da Andalù. Proprio
per questo invece a me piaceva. Non solo: aveva due occhi grandi, lo sguardo fiero, il naso camuso e le labbra tumide ma senza
esagerazione e ben modellati l’uno e le altre. Alto di statura e di
pelle vellutata, il suo corpo esibiva muscoli elastici senza eccessivi turgori. Fin dall’inizio mi era sembrato una promessa di furore. Ora che lo avevo visto nudo non desideravo altro. Lui se ne
stava lì, sdraiato accanto a me. Sentivo il soffio del suo respiro
calmo.
Mi sono voltata verso di lui e l’ho guardato in tutto il suo
splendore, nudo com’era. Dopo qualche secondo lui s’è voltato
verso di me e mi ha guardato negli occhi, nuda com’ero.
“Vuoi venire con me?” Ha detto.
“Dove?”
“In Paradiso.”
“Oh, sì.”
Ci siamo alzati. Ci siamo tuffati in acqua e abbiamo nuotato
fino alla cascata. Vincent vi si è spinto sotto, si è alzato in piedi e
si è addossato alla roccia. L’ho seguito. C’era un gradino naturale, nascosto poco sotto il livello dell’acqua. Aggrappati alla
parete, le abbiamo strisciato contro, camminando su quel gradino. L’acqua della cascata ci nascondeva malamente alla vista
degli altri. Dopo qualche metro il gradino è rientrato dentro la
montagna e ci siamo trovati in una fenditura, alta un due metri e
larga appena da lasciarci passare una persona. Sul fondo scorreva
un’acqua vorticosa. Vincent mi ha preso per mano e mi ha
trascinato nel buio del tunnel, che saliva in leggera pendenza
penetrando nella montagna. Si faceva fatica a procedere, tanto
era forte il flusso. Dopo una ventina di metri il tunnel ha svoltato
a sinistra e dal suo fondo è emerso un raggio di luce. Abbiamo
253
camminato nei flutti vorticosi per un’altra ventina di metri,
finché non ci siamo trovati di nuovo sotto il sole. Ora capivo
com’era possibile che quella cascata esile in cui avevamo fatto la
doccia potesse alimentare l’Uaso Nyiro. Non era possibile; infatti
una buona metà della portata del fiume proveniva dal tunnel.
Il torrente, oltre la grotta, assumeva un andamento a rapida.
Lo abbiamo risalito per un breve tratto, fra rocce e sassi, e ci siamo trovati in mezzo a uno slargo che formava una pozza di
piccoli vortici furiosi. Tutt’intorno si alzavano delle pareti scoscese, umide di muschio, e piene di fiori e di piante rampicanti. I
raggi del sole vi disegnavano sopra ghirigori dai riflessi arcobaleno. Un vero paradiso in miniatura. L’acqua nel piccolo slargo
era tiepida e mi arrivava all’altezza dei fianchi. Pareva un
vigoroso idromassaggio. Veniva voglia di lasciarsi andare alla
corrente, se non fosse stato per le rocce su cui si sarebbe andati a
sbattere. Ho allargato le gambe e mi sono piegata sulle ginocchia.
Flutti violenti mi avvolgevano il petto, i fianchi, il ventre, le
cosce, come mille mani vogliose e impazienti. Sentivo solo il
rumore delle acque, e la presenza muta di Vincent dietro di me.
Mi sono voltata adagio, alzandomi di nuovo in piedi. Lui
stava lì che mi guardava estatico, gli occhi perduti in una sorta di
dolorosa contemplazione. La pelle d’ebano ramato, tutta imperlata di rugiada, tratteneva a stento il vibrare dei muscoli tesi. I
miei occhi, stregati, sono scivolati inesorabilmente lungo quel
corpo stupendo. Tra il vorticare delle acque hanno intravisto il
membro possente. Allora il mio corpo ha preso le redini. Si è
mosso verso il suo senza che neanche ci pensassi. Gli ha gettato
le braccia al collo. Ha sollevato i piedi dal fondo del fiume e si è
lasciato gettare dalla corrente contro di lui. E mentre lui si piegava leggermente in avanti per reggere la spinta, le mie gambe si
sono avvinghiate ai suoi fianchi. Ho chiuso gli occhi e mi sono
abbandonata al suo abbraccio. Ho perso la cognizione del tempo
e ho avuto un orgasmo selvaggio. È esploso dentro di me con un
urlo di furore e non so quanto è durato.
Poi ho mollato la presa delle braccia dal suo collo e, stendendole in fuori nella posizione del morto a galla, mi sono affidata
alle acque. Ma con le gambe sono rimasta avvinghiata al suo
254
corpo. Lui mi stringeva i fianchi con le mani, sempre stando un
po’ piegato in avanti, e dimenava il bacino con ritmo lento e
vigoroso. Le ondate delle sue reni si confondevano con i flutti
del fiume e mi facevano oscillare la mente.
Ho aperto gli occhi e ho visto il cielo sopra di me, lontanissimo, sperduto tra le alte pareti rocciose. Sotto, sentivo i vortici,
e sembrava volessero liquefarmi il corpo. Dentro, un rimescolio
dello spirito. Ed ecco, innescato da un’accelerazione dell’onda
dei fianchi di lui, è esploso un altro orgasmo, più potente del primo, se possibile. È esploso su di lui, insieme al suo. Improvvisamente c’è stato un grido, e il mio corpo s’è irrigidito intorno al
suo; allora la mia mente è stata sbalzata in spazi al di là del nulla.
Alleluia!
Mammamia, quale insulsa letteratura devo aver letto per scrivere roba come questa?!
Quattro ore dopo ancora non mi ero ripresa dallo shock. Stavo
seduta accanto a Vincent nel sedile anteriore della Land Rover,
sulla via del ritorno. Era l’ultimo giorno dell’avventura. Finalmente, quando una sua mano, staccatasi dal volante, si è posata
sulla mia, mi sono risvegliata dal sogno.
“A cosa stai pensando?” Ha detto lui. Ma ormai l’incantesimo
era rotto.
“A Niente.” Ormai l’incantesimo era rotto. Così ho ripreso il
controllo della situazione.
Volevo sapere cosa erano andati a fare lui e Giuliano quando
si erano inoltrati tra le capanne del villaggio Natron, il giorno
precedente, e cosa erano andati a cercare quando si erano allontanati con le macchine dal villaggio Wasu due giorni prima.
Gliel’ho domandato. Lui me l’ha rivelato senza problemi. Erano
andati a cercare l’uomo-leopardo, uno sciamano che secondo
Giuliano doveva trovarsi nell’uno o nell’altro villaggio. Lo avevano trovato a Natron. Giuliano gli aveva chiesto di poter assistere a un certo rituale. Qualche tempo prima era venuto un altro
turista italiano che vi aveva assistito e glielo aveva riferito.
Adesso era curioso di vedere anche lui. Aveva offerto una bella
mancia d’incoraggiamento. Però lo sciamano non aveva voluto
saperne e non c’era stato verso di convincerlo.
255
La deviazione al lago Natron era stata un’idea di Giuliano, e
Vincent era stato convinto con una mazzetta a fare quel viaggio
fuori dei consueti percorsi turistici.
Dopo tre ore ci siamo fermati per sgranchirci le gambe. Ne ho
approfittato per cambiare jeep e sedermi accanto a Giuliano.
“Cos’era quel rituale che lo sciamano del villaggio Natron avrebbe dovuto eseguire espressamente per te?” Gli ho chiesto a
bruciapelo.
“Oh, oh! Volevo ben dire!”
“Cosa?”
“Che tu, almeno per una volta, ti fossi goduta una scopata
gratis. Così il bel Vincent...”
“Di questo non ti curare. Le mie scopate ti devono interessare
solo quando le paghi tu. Ora rispondi alla mia domanda. O siamo
di fronte a un altro dei tuoi ermetici segreti?”
“No, no. Nessun segreto. Sono venuto al lago Natron proprio
per incontrare l’uomo-leopardo. È un soggetto piuttosto famoso
tra gli studiosi di parapsicologia. Sai perché?”
“Perché?”
“Perché sarebbe capace di entrare in catalessi restando seduto,
e poi levitare.”
“Ma va là!”
“Io non ci credevo, Luciano invece sì. Ne avevamo discusso.
Il viaggio in Africa lui lo aveva già fatto e aveva conosciuto lo
stregone. Ad ogni modo sospettavo che non c’era venuto per
quest’unico motivo. Così, ho voluto seguirne le orme. Solo per
curiosità, beninteso. Anzi solo per vacanza. Tant’è vero che ti ho
portato con me.”
“Solo per vacanza, eh? Per vedere lo stregone.”
“Esatto.”
“O magari per vedere anche lo stregone.”
“E soprattutto...?”
“E soprattutto per trovare la poesia che Luciano aveva trascritto sul quaderno degli alpinisti a Gilman’s Point.”
“Brava. Non ti sfugge niente.”
“Eppure Luciano non può essere venuto in Africa esclusivamente per nascondere la poesia di una caccia al tesoro.”
256
“Lo penso anch’io. Credo che la poesia fosse lo specchio per
l’allodola, che poi sarei io. La volevo fino allo spasimo quella
poesia. Luciano, per farmela avere, mi ha fatto venire a prenderla
in Africa. Così avrei potuto vedere lo stregone e credere
all’incredibile.”
“Insomma, lui cosa cercava in Africa?
“Cosa ha sempre cercato Luciano?”
“Dimmelo tu.”
“La luna nel pozzo, l’utopia, l’uomo nuovo, e di più, ancora di
più.”
“Di più? Che altro ancora?”
“Levitazione. Lui voleva staccarsi dalla terra, voleva librarsi
nell’aria.”
“Bella metafora, coglie un aspetto essenziale del grand’uomo.
Non ti facevo poeta.”
“Cara, il tuo ganzo lo conosco da molto più tempo di te.”
“Ma l’uomo-leopardo?”
“Questa è un’altra storia, e piuttosto lunga.” Ha detto, duro,
quasi a voler mettere un punto. Guardava avanti, attraverso il finestrino tutto opaco per la polvere della savana.
La macchina continuava a sobbalzare sulla pista sconnessa. Le
nostre schiene ormai neanche reclamavano più e i corpi indolenziti se ne stavano spaparanzati sui sedili scomodi della jeep,
come intontiti da un sonno leggero e disordinato. Le menti però
erano sveglie. L’Africa mi ha dato se non altro l’esperienza di
una mistica separazione della mente dal corpo. Mentre pensavo
questa fantasia, continuavo a guardare Giuliano.
Lui, dopo qualche secondo di assenza in cui forse stava provando la stessa sensazione di dissociazione che stavo vivendo io,
s’è risvegliato e s’è voltato verso di me.
“Vedi,” ha ripreso il discorso senza interromperne il filo, “la
contorta mente di quel genio è imperscrutabile, ma io, che non
sono stupido, credo di aver capito il suo rovello.”
“Sentiamo.”
“Morte le speranze rivoluzionarie, Luciano si era ripiegato su
se stesso, senza tuttavia rinunciare neanche a un grammo della
sua aspirazione all’assoluto. Si era chiuso nella torre d’avorio,
257
dall’alto della quale sputava in testa ai comuni mortali, e aveva
continuato la ricerca dell’uomo nuovo. La mia impressione è che
in realtà, nella mente del genio, l’eroe ricercato si fosse gradualmente trasformato, che avesse subito una metamorfosi, diventando sempre meno marxiano e sempre più nietzschiano.
Gliele avevo dette a lui queste cose. Sai cosa mi aveva risposto?”
“Cosa?”
“Che non avevo del tutto torto e neanche del tutto ragione…”
“Ovvio.”
“E che la cosa era meno contraddittoria di quanto pensavo.”
“Che c’entra lo sciamano?”
“L’uomo nuovo, diceva, sarebbe un assassino. Un assassino
dell’uomo vecchio, dei suoi idoli, delle sue illusioni.”
“E allora?”
“Allora per uccidere un mito non basta negarlo. Bisogna dissipare il fondo di oscurità da cui prende vita. Secondo lui gli
idoli più tenaci sarebbero quelli generati dal pensiero magico e
religioso.”
“Addirittura!”
“Sosteneva che questa tenacia era legata all’esistenza di certi
territori bui, certe zone d’ombra della mente che suscitano fenomeni non ancora spiegati dalla scienza.”
“Come la catalessi?”
“Sì. Il suo miraggio era di strappare quel velo d’oscurità, di ridurre i miracoli a una formula matematica.”
“Il che mi sembra credibile. Quadra con il personaggio, anche
se non mi convince del tutto.”
“Neppure a me. C’era dell’altro.”
“Cosa?”
“Luciano era affascinato, anzi, ossessionato, da quelle zone
d’ombra.”
“Vabbè, ma l’uomo-leopardo?” Ho insistito.
“È lo sciamano. Secondo certi miti Masai i suoi poteri arrivano al punto di consentirgli una metamorfosi nell’animale. Di
giorno sarebbe uomo, di notte leopardo. Una bestia molto singolare: non vagherebbe nella foresta; si aggirerebbe invece in cerca
258
di qualcosa tra le capanne dei villaggi e in tutti i posti frequentati
dagli uomini.”
“In cerca di che cosa?”
“Non lo so. Lui gira nei villaggi tra gli uomini che dormono.
Cerca di penetrare nei loro sogni, di carpirne i segreti. Magari era
proprio lui che raspava alla nostra tenda stanotte.”
“Già. E magari era sua quella famosa carcassa sulla cima del
Kilimangiaro.”
“Perché no? Hemingway aveva capito che era solo una carcassa. Luciano non lo aveva ancora capito.”
“Da cosa lo deduci?”
“Dal fatto che voleva ucciderlo.”
Sono rimasta in silenzio, a guardare attraverso il finestrino
sempre più opaco di polvere. A causa di quei vetri sporchi il panorama ci giungeva nebbioso, immerso in una grande ombra. Il
deserto cancellava i pochi rimasugli di savana. Cespugli spinosi e
basse acacie di un colore giallo smorto lo popolavano radi, a
perdita d’occhio. In quel momento la jeep stava correndo su un
leggero rilievo collinare. Non era molto alto, quanto bastava per
farci abbracciare con lo sguardo un immenso panorama di
fantastica desolazione.
Lontano, davanti a noi, si elevava una bassa catena montuosa.
Ai suoi piedi, dei vortici di vento avevano formato delle altissime colonne di polvere, quasi dei piccoli tornado. Ce n’erano
diversi. Si alzavano in cielo più alti del profilo biancastro delle
montagne e parevano dei sinuosi simboli fallici. Era uno spettacolo primordiale e disumano. Per un attimo ho avuto la strana
impressione di assistere al manifestarsi di un evento ultramondano.
Non è stato un satori, stavolta. Ciononostante mi è venuto un
altro bel pensierino della sera degno di Luciano. Ho pensato che
la ragione per cui le religioni trascendentali non hanno mai
veramente attecchito in Africa è che qui il sacro è immanente al
quotidiano. L’unica vera religione africana può essere quella che
i cristiani chiamano ‘animistica’, i cristiani che conoscono Dio
dai libri.
259
Mi è sembrato un bel pensiero e l’ho annotato sul mio taccuino. Ahimè, più passa il tempo più mi scopro simile a Luciano.
Già mi colgo a vedere il mondo per aforismi. Forse per questo il
mio demone della saggezza mi ha proibito di scrivere un diario
del safari. Adesso, evidentemente, sono sotto il dominio del peggior Luciano che si annida in me.
Come che sia, al momento ero soddisfatta della pensata. Così
mi sono voltata verso Giuliano per comunicargliela. Lui non mi
ha manco sentito. Se ne stava lì, con gli occhi perduti nel vuoto,
a contemplare anche lui, un po’ estatico e un po’ allibito,
quell’epifania dell’essere. Quando ha sentito il mio sguardo su di
sé, si è voltato pigramente dalla mia parte e ha detto:
“Mi sa che ho capito cosa cercava quel leopardo.”
Dunque il leopardo. La mia mente da un po’ di tempo frullava
intorno a questo soggetto. In quel momento mi misi a pensarci
intensamente, all’uomo-leopardo, ma soprattutto ancora a Luciano, che proprio allora mi sono ricordata veniva chiamato Leopardo ai tempi del movimento studentesco. Stavo per parlarne con
Giuliano; quand’ecco, manco a farlo apposta...
Lontano, sulla pista davanti a noi, si vedeva un camion in
sosta e degli omini che gli giravano intorno. Saranno stati distanti un chilometro e in pochi minuti li abbiamo raggiunti. Le nostre
jeep si sono fermate e noi siamo scesi a valanga, contenti di poterci sgranchire le gambe. Il camion era ricoperto da un telone, da
sotto il quale venivano strani rumori. Due degli omini che gli giravano intorno erano i giovanotti inglesi del camping sul lago
Natron. Dietro il camion, alla sua ombra, tre inservienti tanzaniani stavano apparecchiando un tavolinetto per il tè.
In un anfratto distante un centinaio di metri c’era una pozza
d’acqua potabile, ci dissero le nostre guide. Tutti si precipitarono
in quella direzione. Io invece rimasi accanto al camion e attaccai
discorso con i due inglesini. Loro, con rude gentilezza colonialista mi ordinarono di sedermi a prendere il tè. Non chiedevo di
meglio. Così iniziammo un’interessante conversazione sul leopardo.
Sotto la tenda del camion c’erano due gabbie abitate da due
esemplari di questa bestia. Erano destinati a uno zoo svizzero.
260
Gli inglesini li avevano appena catturati e ora li portavano a Nairobi per spedirli.
“Ah, ecco qual è il vostro vero mestiere!” Ho detto.
“Sì, ma oggi non rende. I paesi civilizzati si stanno liberando
dei giardini zoologici, che non vanno più di moda. Per fortuna ci
sono gli svizzeri.” Queste cose le ha dette Bruce, un tipo nerboruto dal ciuffo biondo-cenere che gli cadeva sugli occhi, la pelle
abbronzata che pareva cuoio conciato.
Intanto l’altro, Michael, un moretto dagli occhi azzurri e gli
occhiali cerchiati d’oro, tipo intellettuale cantabrigense, mi versava un tè profumatissimo in una squisita ceramica di Sèvres. Gli
ho chiesto di parlarmi dei leopardi.
“Sono animali che conosco poco e che m’interessano molto.”
Ho detto.
Ha risposto Michael, sorseggiando il tè fumante. Stava seduto
con composta nonchalance sulla sua sediola di tela, una gamba
accavallata sull’altra, gli occhietti penetranti fissi su di me.
“Il leopardo”, ha detto, “è il vero re della foresta...”
“Lo sarebbe”, ha interrotto Bruce, “se...”
“Già, è troppo anarchico per essere re.” Ha ripreso l’altro. “È
un animale individualista. Non fa branco. Non fa famiglia. Anche nell’accoppiamento, morde e fugge. La femmina si fa ingravidare e poi se ne va per conto suo ignorando completamente il
maschio. Non ci sono divisioni di ruoli tra i leopardi. Non ci
sono proprio ruoli. Il leopardo vive solo. Rifiuta ogni legge e
ogni costrizione. Ed è difficilissimo cacciarlo, appunto perché
non ha regole né abitudini. È imprevedibile più di un serpente,
intelligente più di una tigre, feroce più di un leone. Se viene ferito diventa una belva implacabile. È capace di vero odio, e
quando ammazza un cacciatore si accanisce su di lui fino a
ridurlo in pezzi. Non gli basta uccidere, deve dilaniare. È di una
scaltrezza quasi umana. Quando caccia il bufalo, per esempio, si
rotola nei suoi escrementi per confondere gli odori e sorprendere
la vittima. Quando viene inseguito dai cacciatori non si limita a
fuggire, ma si allontana quanto basta per poter tornare indietro
non visto, tracciando un ampio cerchio, e cogliere alle spalle i
261
suoi nemici. Non per niente il leopardo incarna lo spirito della
distruzione e della trasformazione nella religione Masai.”
“È stupendo,” ha concluso Bruce, “la bestia più elegante della
foresta. Le macchie delle pellicce sono diversissime da un esemplare all’altro e possono assumere forme strane. Lo sfondo giallo
acquista riflessi dorati sotto la luce del sole e nella notte brilla del
colore della luna. È un vero peccato ucciderlo, un sacrilegio
prenderlo vivo.”
“Ed è ignobile catturarli per mandarli a rinchiudere in uno zoo
svizzero.” Ha continuato Michael. “Ci sarebbe da vergognarsi se
non fossimo inglesi.” Chi ha detto che gli inglesi sono incapaci
di autoironia?
In quel momento, da sotto il telone, è esploso un tremendo
ruggito che mi ha gelato il sangue.
“Sarebbe possibile vederli?” Ho chiesto a bruciapelo.
I due giovanotti si sono guardati.
“Perché no?” Ha detto Michael.
Al che Bruce ha dato un ordine secco in swahili. I tre inservienti si sono precipitati dall’altra parte del camion e con uno
strappo violento hanno tirato giù il telone.
Due gabbie di ferro troneggiavano sull’automezzo. Dentro di
esse due magnifici esemplari di leopardo dalla pelliccia d’oro
maculata.
“Questa è Karen,” ha detto Bruce, indicando la bestia più
vicina a noi, “una femmina non tanto giovane.” Ha concluso,
guardandola con ammirazione innamorata.
Lei, fiera e flemmatica, volgeva con calma la testa di qua e di
là, guardandosi intorno. Nella gabbia stretta e bassa se ne stava
seduta sulle zampe posteriori, il busto eretto, il collo dritto. Si
vedeva subito che era una creatura orgogliosa. Sembrava ignara
della cattività. Non lo era. Quanto avrei dato per ammirarne il
passo elegante! E pensare che sarebbe finita ad allietare le giornate dei figli degli impiegati di banca. Cosa avrebbe pensato lei
della sua nuova condizione, lassù nei paesi civili? Avrebbe rammentato il suo paese perduto? Le savane, i deserti, i fiumi, le
montagne azzurrine e le scorribande sulle colline di Ngong?
262
“L’altro è Denys,” ha continuato Bruce, “un giovane maschio
nel pieno del vigore fisico. Li abbiamo catturati durante l’accoppiamento. È stato facile. Due colpi di pallottole soporifere e
voilà. Difficile è stato il prima, e rischioso: dover aspettare una
notte di appostamento, immobili come piante in una capanna di
frasche.”
Denys era tutto il contrario di Karen. Non stava un attimo fermo. Pur nella stretta della gabbia continuava a girare intorno a se
stesso. Ogni tanto si fermava e cercava di ficcare la testa tra le
sbarre. Poi alzava le fauci al cielo e gli lanciava un terribile ruggito.
“Ora che gli abbiamo ridato la luce del sole è diventato più
nervoso.” Ha osservato Michael. “Dobbiamo rimettere su il telo.”
“Aspetta ancora un po’,” ho detto, “fammelo guardare ancora
un po’. È così bello!”
Era stupendo nella sua rabbia non repressa. Gli occhi roteavano nelle orbite. La testa continuava a volerla ficcare tra le
sbarre. Poi alzava una zampa e la brandiva fuori della gabbia
mostrando i lunghi artigli bianchi. Poi tornava a incastrare la
testa tra le sbarre. E ruggiva tremendamente. Povero Denys,
chiuso nel tuo piccolo nuovo mondo di ferro, già lontano mille
miglia dagli spazi sconfinati della tua fantasia. Vorresti morire e
non puoi.
Il resto del viaggio l’ho fatto nella tristezza più nera, sulla jeep
sobbalzante, senza neanche accorgermi degli ultimi scorci di quel
mondo meraviglioso che l’indomani avrei lasciato forse per
sempre. Verso le otto siamo giunti in vista di Arusha, ed è stata
una liberazione. Dall’alto delle colline si vedeva la città, distesa
sul fondo di una piana sterminata, che accendeva le prime luci
nella sera. Infine è calata la notte, è calata in un istante, come un
sipario sulla scena.
Ultimo giorno. Il ritorno è stato senza storia, identico all’andata,
sull’aereo dell’Egypt Air che volava alto sopra un mare di nuvole. Perfino l’alba purpurea che si spalancava su quel mare non mi
ha fatto un grande effetto. Mi è solo venuto da pensare che,
stranamente, non saranno le savane, le giungle, gli animali e tutto
263
il resto a imprimersi in modo indelebile nei miei ricordi d’Africa,
ma le albe, le prodigiose albe africane, prodigiose e un po’
oleografiche, sì, ma prodigiose.
Sì, è stato un ritorno senza storia e non meriterebbe di essere
menzionato se non per rievocare una conversazione letteraria
che, rilassati nei comodi sedili dell’aereo, ci siamo goduti io e
Giuliano sorseggiando Champagne.
“Bisogna risalire a Rimbaud”, ha attaccato, “per capire il senso profondo delle ricerche di Luciano in Africa.”
“Sono tutta orecchi.”
“E per capire cosa cercava Rimbaud in Africa bisogna partire
da Livingstone.”
“Il grande esploratore?”
“Proprio lui. Era un uomo di religione, membro della Società
delle Missioni di Londra. Stranamente, nei suoi viaggi in Africa
non ha mai impiantato una missione, né convertito un pagano. E
non si è mai riusciti a spiegare perché si era fermato a Ujiji così a
lungo, quando tutti lo avevano dato per disperso.”
“Insomma un fesso.”
“Non direi. Nessuno ai suoi tempi conosceva l’Africa meglio
di lui. Per capire la sua grandezza bisogna entrare nel suo mondo
spirituale e uscire dalle banalità della vulgata.”
“Tu naturalmente l’hai capito.”
“Non sei molto spiritosa. Cerca almeno di essere paziente.
Vedrai che questa storia t’interesserà. Le cose che sto per dirti
me le ha raccontate Luciano. Sono il risultato di sue personali ricerche e il prodotto di sue ipotesi. Io te le riferisco come tali.”
“OK. Vai avanti.”
“Livingstone sarebbe stato un gran maestro della Golden
Dawn. Luciano mi ha detto che alla biblioteca della LUFSS ci
sono le carte di una corrispondenza tra Livingstone, Robert
Browning e gli Stibbert padre e figlio, dalle quali risulterebbe
che il grande esploratore sarebbe stato mandato in Africa in missione speciale.
“Che missione?”
“Trovare il re del mondo.”
“E la Peppa!”
264
“Non ti agitare. Sappi che qui siamo in una zona di confine tra
la letteratura e la follia, e ricorda che sto riferendo delle tesi di
Luciano. Per quanto...”
“Per quanto?”
“Per quanto anch’io, stimolato da lui, ho fatto qualche lettura
sulla materia, solo per divertimento, però, te l’assicuro.”
“Su questo non ho dubbi.”
“Il percorso apparentemente sconclusionato dei viaggi africani
di Livingstone acquista un senso se letto nell’ottica di quella
ricerca. Si tratta infatti di una serie di viaggi intorno ai Monti
Mitumba nel Congo orientale, con un movimento concentrico
mirante al cuore del continente. A Ujiji Livingstone si sarebbe
fermato in attesa del permesso per penetrare nel regno.”
“Chi avrebbe dovuto dare il permesso?”
“Tippu Tib, un personaggio ambiguo, a quei tempi noto in Africa orientale per essere il più importante trafficante di schiavi e
d’avorio. Sembra che nessun esploratore poteva penetrare nel
continente senza il suo consenso. Lui conosceva i luoghi, i capi
tribù, le lingue, le regole, ed era in grado di dare ordini a tutti.
Stanley ne parla come del ‘re occulto’ del cuore d’Africa.”
“Stanley chi?”
“Sir Henry Morton.”
“Il salvatore di Livingstone?”
“Il cosiddetto salvatore...”
“Anche lui naturalmente cercava il re del mondo.”
“Esatto. Anche lui era membro della Golden Dawn. Però aveva un grado d’iniziazione inferiore a quello di Livingstone.”
“Chi sarebbe questo re del mondo?”
“Nella mitologia buddista è il reggitore segreto dell’umanità.
Vive in un paese occulto a cui solo i grandi iniziati possono
accedere. Secondo alcuni la residenza del personaggio semidivino sarebbe stata in Asia. Ma per Luciano la tesi asiatica
sarebbe fumo negli occhi. Il re del mondo coinciderebbe con il
Prete Gianni, incarnazione europea medievale della leggenda.
Esisterebbe una tradizione occulta occidentale che risalirebbe
addirittura ad Apollonio di Tiana, il grande mago riformatore
della religione pagana che operò nel primo secolo. Questi, dopo
265
aver girato tutti i santuari e i templi dell’impero romano, andò a
cercare l’iniziazione suprema perfino in India, inutilmente. Infine
la ottenne in Africa, da una congrega di santi chiamati Gimnosofisti, saggi nudi. Insomma secondo la più antica tradizione
occidentale la vera residenza del re del mondo sarebbe stata nel
cuore dell’Africa.”
“Dove cercavano di penetrare Livingstone e Stanley.”
“Dove Livingstone cercò invano di penetrare e Stanley riuscì a
entrare. Il successo del secondo fu reso possibile dalla sua maggiore rozzezza e dall’ignoranza dovuta al basso grado in cui si
trovava nella gerarchia iniziatica. Mentre Livingstone si era fermato in meditazione a Ujiji, in attesa del permesso del re occulto,
Stanley, seguendo la massima del Vangelo, cercò di conquistare
il regno dei cieli con la violenza. Infine ci riuscì. O almeno riuscì
a raggiungere il Prete Gianni, che poi sarebbe proprio quel famoso Tippu Tib.”
“Parlami di questo regno africano: cosa sarebbe?”
“Una sorta d’impero ultramondano e tuttavia reale. Nel Medio Evo se ne aveva una conoscenza leggendaria. Successivamente, dopo le prime scoperte geografiche, i navigatori portoghesi portarono in Europa favole di un tenebroso regno africano.
Ne ebbero solo informazioni indirette, quanto bastò per dare esca
alla peggiore letteratura esotica. Nel Settecento ci ricamarono
sopra i filosofi del buon selvaggio.”
“Perché tenebroso, se era un regno dei cieli?”
“Be’, se ne sono sempre avute notizie piuttosto vaghe. Eppure
non si allontanarono molto dalla realtà quegli scrittori che lo rappresentavano come un regno del sangue, del sesso sfrenato e altre
simili nefandezze. Luciano sosteneva che si trattava di una copertura essoterica mirante a nascondere la verità dicendone solo
una parte. Nessuno sa con precisione cosa accadeva in questo
regno, il cui nome sarebbe Butua. Lo stesso Stanley, che c’era
penetrato due volte, fu reticente. Possiamo farci un’idea di cosa
sarebbe successo a chi vi entrava essendo disarmato spiritualmente. C’e un passo di un libro di Jacob Wassermann, un acuto
biografo di Stanley, che è parso rivelatore sia a me sia a Luciano.”
266
Così dicendo si è chinato e ha allungato una mano sotto il sedile. Ne ha tirato fuori la sua borsa da viaggio. L’ha aperta e ne
ha estratto un libricino tutto rovinato dall’usura e dagli anni. Me
l’ha messo in mano.
“È il libro che hai sottratto al mio postino?” Ho domandato.
“Sì. Diciamo che l’ho preso in prestito. Ora te lo restituisco.”
Era un libro dalla copertina arancione, della serie ‘Quaderni
della Medusa’. Titolo originale: Bula Matari.
“Che razza di titolo è?”
“È il nome che gli africani diedero a Stanley. Vuol dire Spaccatore di Pietre.”
“Significa qualcosa?”
“Può darsi! Non sta forse scritto: Su questa pietra edificherò la
mia chiesa?”
“Mah!?”
“Apri il libro alla pagina con l’orecchia e leggi le parti sottolineate. Parlano di cosa accadde a un plotone di soldati della
seconda spedizione di Stanley in Congo, un gruppo di uomini
male in arnese che fu lasciato indietro, nel cuore dell’Africa, per
consentire al grosso della spedizione di avanzare più speditamente verso il Sudan meridionale.”
Ho aperto a quella pagina e ho letto:
“Interiormente il grado d’infiacchimento è inimmaginabile. O, per dir
meglio, di rammollimento, di perdita di sostanza morale e intellettuale.
Si ha il senso di un dilagare di brutture. Si insinua in loro un’avidità
cieca, ma affatto impotente. Qualunque cosa facciano o si propongano
finisce in un conato impotente [...] Il cervello è spento, la memoria
paralizzata, l’energia dileguata [...]; pare loro, a volte, d’aver perduta
la propria identità [...] L’oscurarsi della memoria, il colpevole distacco
dal passato, lo scindersi del nesso tra causa ed effetto come era prima
concepito, l’oblio parziale o totale, in una parola l’inabissarsi in un
irrigidimento del corpo e dello spirito, pigro, inerte, avvelenato, solcato soltanto da dolorosi bagliori del superstite sentimento dell’Io [...]
‘Per qualche segreto motivo essi si aggrappano con tenacia estrema a
Tippu Tib, tornando sempre a prestar fede alle sue promesse’, dice
Stanley [...] Ora il ‘segreto motivo’ non può consistere che in una
seduzione ben determinata, che li spingeva verso Tippu Tib. Ma
come? Stanley [...] non accenna in nessun luogo, nemmeno con l’al-
267
lusione più lieve, a motivi sessuali od erotici, per quanto ovvii essi
appaiano ad un osservatore spregiudicato. E d’altra parte non si è mai
tentato, che io sappia, di spiegare l’enigma di Butua da questo lato [...]
Non occorre un grande sforzo di fantasia per penetrare oltre il velo di
riserbo e d’onesto riguardo di Stanley [...] Tuttavia in un luogo dove
torna a parlare della morte di Bartelot [un Maggiore che Stanley aveva
lasciato al comando del drappello ritardatario – spiega Giuliano], egli
menziona il canto delle donne Maniema e dice che tali canti erano una
vera mania delle donne del campo. Egli si esprime in modo assai
enigmatico e lascia intendere che quelle donne avevano atteggiamenti
da forsennate, ‘o, per essere più preciso – aggiunge – andavano
soggette ad attacchi isterici e col loro perpetuo canto di notte impedivano alla gente di dormire [...] E ogni costrizione, anziché far tacere
le sciagurate, non faceva che immergerle vieppiù nel loro stato
morboso’. L’esplosione di furore in seguito al canto avrebbe causato
anche la morte del Maggiore [...] In mancanza di documenti o di
informazioni circa gli eventi svoltisi dietro le quinte, tutto rimane
affidato all’ipotesi; ma che vi sia stata una decomposizione e
disorganizzazione morale, risulta già con chiarezza dai dati di fatto. Al
‘re occulto’ Tippu Tib doveva premere molto di mettere a modo suo
fuori combattimento gli intrusi europei, giovani inesperti e per lui
stolti [...] Impiegando antichissime arti del suo paese [...], forse che gli
sarebbe riuscito difficile inscenare le seduzioni più raffinate? Egli non
ha che da fare un cenno, e le sue creature saranno ai suoi comandi
come i Ginn e i Giann a quelli del mago delle Mille e una notte:
Danzatrici d’Arabia, e le belle more di Somalia, le slanciate fanciulle
nere dell’alto Congo, i ragazzi arabi, maturati per tempo nell’amore da
uomo a uomo; ricorrerà alla musica barbarica che sferza i nervi e farà
risuonare nella foresta vergine canti misteriosi; il ritmo tormentoso,
ipnotico, eccitante dei tamburi di legno metterà in ebollizione il
sangue degli sciagurati – l’angoscia è così vicina alla voluttà; egli sarà
l’ospite generoso, la cui suprema ambizione è che i suoi amici europei
si trovino bene presso di lui; sa benissimo che i piaceri sensuali
tornano sempre a richiamare con magico potere chi li prova al luogo
dove li godette; sa dosare i suoi doni, accrescere l’attrattiva, riattizzare
la brama spenta con nuove promesse: in tutta questa scienza è maestro;
e come potrebbe non riuscire con la sua superiorità, il vecchio
corrotto, a cogliere nelle sue reti quei giovani e maldestri miscredenti
[...]? E quelli vanno da bravi in bocca al lupo; egli non ha affatto bisogno di darsi gran daffare [...]: i loro sensi depauperati si attaccano ai
miseri, barbarici, occulti piaceri con i quali egli li adesca; è per loro
268
come un hascisc, uno stordimento della coscienza, il vizio in forma
mai veduta, un paradiso di voluttà e di morte. Forse che egli non
conosce la forza che si cela nella fragranza dei fiori, nei succhi delle
piante, nelle figure dei tappeti, non sa distillare bevande afrodisiache e
giovarsi dell’aiuto galeotto della notte tropicale? Sotto questo rispetto
le sue risorse sono illimitate.”
“Bello,” mi sono lasciata sfuggire, appena finita la lettura,
“sembra un brano di Conrad.”
“Invece è la descrizione di fatti veri.”
“Be’, insomma, direi piuttosto un’interpretazione.”
“Secondo Luciano è una vaga descrizione degli effetti di un
tipo di riti iniziatici della mano sinistra, una descrizione fatta da
un profano.”
“Ah, la cosa diventa sempre più misteriosa. La mano sinistra,
eh? Spiega, spiega.”
“Qui entra in scena Rimbaud.”
“Già, il cantore dello sregolamento di tutti i sensi.”
“Vacci piano col sarcasmo. È una cosa seria, se non tragica.
Devi sapere che il poeta maledetto era uno studioso di scienze
occulte. Inizialmente praticava l’ascesi usando la poesia, l’hascisc e pratiche sessuali sfrenate.”
“Addirittura!”
“Strumenti per rompere la corazza culturale che impedisce
l’apertura delle porte della percezione.”
“È sempre l’interpretazione di Luciano!?”
“Ti assicuro che è un’interpretazione plausibile.”
“Sarà!?”
“A un certo punto Rimbaud si sarebbe reso conto che necessitava di strumenti più acuminati, soprattutto che aveva bisogno
di contatti con persone...”
“Non mi dire che anche lui era affiliato alla Golden Dawn.”
“Questo non si sa. Ma è possibile. Lui faceva su e giù tra
Parigi e Londra proprio ai tempi in cui Robert Browning, lasciata
Firenze, si era ristabilito in Inghilterra, e in cui Livingstone e
Stanley scorazzavano per l’Africa. Le date sono significative.
Nel 1878 esce Through the Dark Continent, il libro di viaggi
africani di Stanley. A novembre di quello stesso anno Rimbaud
269
s’imbarca per Alessandria d’Egitto. Gira un po’ per il Mediterraneo Orientale e poi nel 1880 si sistema in Africa, ad Harrar, la
città santa. Lì si converte all’islamismo, si prende una compagna
africana e inizia una serie di scorribande verso l’interno del continente.”
“Per fare cosa?”
“Secondo le biografie ufficiali, per commerciare: avorio, caffè, armi, perfino schiavi.”
“Secondo Luciano, invece?”
“Per cercare l’iniziazione nera, una forma d’ascesi che usa la
rottura di tutte le leggi del corpo e dello spirito, che pratica la
droga, il sesso, la danza...”
“Non mi convince. Ci sono varie cose che non quadrano. Per
esempio, se ben ricordo, Rimbaud viaggiò in Abissinia, non nel
Congo. E, come tu stesso hai detto, si fece mussulmano, non pagano.”
“Incongruenze solo apparenti. Nella teoria di Luciano, il regno
di Butua sarebbe stato circondato, geograficamente, da una serie
di cerchi concentrici che lo proteggevano. C’era una prima fascia
di stati ben organizzati, pressoché sconosciuti agli occidentali,
come i regni di Buganda e Bunyoro nel territorio che oggi va sotto il nome di Uganda. I primi esploratori europei che li avevano
visitati parlavano con ammirazione e sorpresa dell’ordine, della
civiltà e dell’organizzazione di questi stati. C’era poi una fascia
di territorio abitata da tribù guerriere, cosiddette selvagge, per
esempio i Masai. C’erano infine gli stati copti e mussulmani della costa orientale. Qualcosa di simile esisteva anche negli altri
punti cardinali. Le tre fasce rappresentavano una specie di triplice barriera culturale che doveva essere penetrata e superata
dall’adepto; un superamento che richiedeva varie metamorfosi
spirituali. La prima delle quali imponeva ai cristiani di passare
all’islamismo. I musulmani invece avrebbero dovuto convertirsi
al cristianesimo. Per un cristiano, l’abiura della propria fede e la
conversione all’islamismo sarebbero state il primo passo verso la
liberazione spirituale.”
“Che c’entra l’uomo-leopardo in tutto ciò?”
270
“Quella degli uomini-leopardo è una società iniziatica intertribale, il vero cemento che tiene unito un popolo apparentemente
anarchico come i Masai. Ma non è limitata alle loro tribù. Nel
Congo, tra i Babali, c’è la setta degli anyoto, parola che significa
appunto ‘uomini-leopardo’. Vi si pratica il rito del mambela ancora oggi, un rito terribile, dicono.”
“In che consisterebbe questo rito?”
“Impossibile saperlo. Probabilmente la ricostruzione di Wassermann si avvicina alla realtà: pratiche a sfondo orgiastico, con
uso di droghe, musica, danze, sangue. Una sorta di misteri dionisiaci in terra d’Africa. Non tutti lo superano e gli europei, cui
manca il necessario retroterra culturale, incontrano speciali difficoltà. Chi non lo supera muore. Comunque non se ne sa niente di
preciso. Gli iniziati non parlano. Chi osa farlo viene ucciso nelle
maniere più atroci, sbranato dai leopardi, divorato dagli adepti...”
“Stai cercando d’impressionarmi?”
“Ti assicuro che...”
“È questo che cercava Rimbaud?”
“Sembra di sì.”
“E anche Luciano?”
“Ahimé, lui stesso mi aveva detto che stava seguendo la via di
Rimbaud.”
“Forse aveva in mente qualcosa di letterario. Dopo tutto Rimbaud era un poeta.”
“Che aveva abbandonato la poesia per venire in Africa. – La
letteratura dà scienza, non luce, la verità si trova oltre – diceva.”
“Chi?”
“Indovina.”
271
Mercoledì, 26 giugno
Ho speso tutto l’altro ieri alla ricerca di Giuliano. All’università
non l’ha visto nessuno. Né l’hanno visto i vicini di casa. A più
riprese, mattino, pomeriggio e sera, ho bussato inutilmente alla
sua porta. Al telefono risponde un nastro registrato: “Questa è la
segreteria telefonica di Giuliano Serlo. Avete trenta secondi di
tempo per lasciare un messaggio dopo il bip.” Certo che il registratore non contribuisce a rendere il personaggio meno scostante. La sua voce baritonale incute timore anche in sua assenza. Io
poi ho sempre avuto difficoltà col telefono, la sensazione di parlare con un ordigno, un essere impersonale, piuttosto che con un
uomo o una donna di là dal filo. Figuriamoci le segreterie telefoniche! Infatti riattacco sempre prima del bip.
Dopo vari tentativi al telefono, ieri ho deciso di scrivergli una
lettera. L’ho ficcata personalmente nella sua buca della posta.
Ero sicura che il marpione si era semplicemente barricato in casa.
Oggi, alle cinque del pomeriggio, ricevo la risposta per pony
express. È una strana lettera, la prima che ricevo da lui. Mi conferma nel cambiamento d’opinione che sto maturando nei suoi
riguardi. Più sta e più mi si rivela un personaggio diverso da
quello rozzo e arrogante che avevo sempre conosciuto, un personaggio non privo di erudizione o almeno di una certa qual
dimestichezza letteraria. Né escludo che il contenuto della lettera
se lo sia completamente inventato. Scrive:
Mia cara puttanella,
ti ammiro perché la tua troiaggine è l’opposto di quella di Emma
Bovary. Per questo non so dirti di no. Tanto più volentieri quindi rispondo alle tue domande ‘oziose’, come le definisci tu stessa. Le quali
sono tre ma si fondono in una.
Dunque, bisogna risalire alla comunità di uomini formata nei tempi
gloriosi da Luciano, Fabrizio e me. Ti ho già detto che i nostri nomi di
battaglia erano Leopardo, Leone e Tigre. Li consideravamo nomi esoterici. Un po’ per gioco, un po’ per presunzione filosofica, appartenevamo a una sorta di ordine iniziatico, una setta di monaci guerrieri che
avevamo denominato Cavalieri del Nulla. Discutemmo a lungo degli
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scopi da assegnare alla Setta, senza venire mai a capo di niente. E accanitamente discutemmo della regola. Non c’è ordine monacale che si
rispetti che non sia dotato di una sua regola. Però anche su questo tema le nostre discussioni si rivelarono sempre inconcludenti. Le principali difficoltà, riguardo a entrambi i problemi, venivano da Luciano.
Pareva sempre che noi altri non fossimo all’altezza delle sue idee. Così alla fine non se ne fece niente, e la cosa rimase allo stato di un gioco
abortito. Tra noi, tuttavia, continuammo a lungo a rievocarlo scherzosamente, e spesso ci rivolgevamo l’un l’altro usando i nomi esoterici.
Quello di Leopardo, Luciano se l’era scelto da sé. Ne potrai capire
il significato riflettendo sul fatto che, secondo lui, si tratta della più
femminile delle bestie feroci. Lui aveva una specie di fissazione sulla
donna, una vera e propria mitizzazione. Per dartene un’idea ti riporto
dei brani da una lettera che il Leopardo scrisse a noi adepti sul tema
della regola.
«Cari compagni d’ascesi,
non insensibile alle vostre pene, mi sono fatto un dovere di istituire
una regola. Dopo lunghe meditazioni sono giunto a una determinazione che, tradotta in pratica, non potrà non alleviare quelle pene. Per
una comunità come la nostra, che ha individuato nel nulla la sua vocazione, può esserci solo una regola: la legge del nulla. Che non vuol
dire nessuna legge. Contrariamente al comandamento di Rabelais, io
non vi dico ‘fate ciò che volete’. Vi dico ‘vogliate ciò che fate’. Forse
nessuno meglio della nostra santa patrona, Eloisa la pura, monaca blasfema, protettrice di streghe e meretrici, nessuno meglio di lei potrà
chiarire il senso dell’eccelsa regola. Scrive infatti:
«Non c’è cosa che sia sì poco in poter nostro come l’animo: a cui
siam più costretti a ubbidire che liberi di comandare […] Per questo,
se non m’inganno, decisero dunque i santi padri di non prefiggere una
regola, quasi nuova legge per noi come invece per gli uomini [secondo] quel detto dell’Apostolo: «La legge provoca infatti la reazione;
che, dove non c’è legge, neanche c’è l’illegalità»; poi ancora: «Ma
sopravvenne la legge, onde abbondasse il delitto» [...] C’è dunque di
che pensare ai casi nostri: di che guardarsi dall’assumere noi donne
quei pesi sotto cui vediamo piegare – e perfino perire – gli uomini
ormai quasi tutti. Il mondo è invecchiato, lo vediamo bene: uomini e
cose vi han già perduto il pristino vigor di natura: raffreddata vi si è –
secondo la previsione di Verità – la stessa carità non di molti, ma
quasi di tutti: sino a doversi, a quanto sembra, cambiare o temperare le
stesse regole scritte per gli uomini.»
273
C’è quindi di che pensare se si vuole dar credito al profeta Gioacchino quando annuncia l’avvento dell’era dello Spirito Santo. Ché, se
fu dato solo agli uomini di far ritorno al paradiso nell’era del Padre, e
se fu detto che solo i fanciulli vi sarebbero potuti entrare nell’era del
Figlio, allora io in verità vi dico: solo coloro che si faranno liberi come
le donne vi avranno accesso nell’era che sta per venire.»
Così il Leopardo. E questo povero Tigre, che non ci aveva capito
un gran che, continuò a ruggire nel buio.
Un bacio dove meno te lo aspetti,
tuo
Giuliano
274
QUADERNO 4
Venerdì, 28 giugno
Ieri è stato ucciso Silvio. Stesso macabro rituale degli altri due
omicidi nel giardino Stibbert, stessi paramenti, stessa arma. Non
leggo neanche gli articoli dei giornali. Mi bastano i titoli. Tanto
non ci troverei niente d’inatteso.
Non è inattesa neanche la telefonata di Giuliano, stamattina, e
il suo invito a pranzo. All’una sono a casa sua. Ho la sensazione
di entrare nella tana dell’orco, ma non ho paura. Mi sento vuota,
stanca, non ho voglia di parlare. Lui, da parte sua, è di umore tetro e non proprio loquace. Ha preparato un pranzo freddo che mi
serve all’aperto nell’ampia terrazza del suo attico con vista
sull’Arno. Fa un caldo afoso. L’ombrellone che copre il tavolo di
ferro su cui è servito il pranzo ci ripara appena dai raggi del sole
più diretti e non riesce a rendere l’aria meno irrespirabile.
Mangiamo poco e beviamo molto, chiacchierando stancamente, ognuno preso dai suoi pensieri. La conversazione si ravviva
un po’ quando arriviamo alla macedonia. Giuliano m’informa di
cose scontate: che il messaggio da lui trovato nel terzo capitolo
del Nuovo corso era sbagliato e che bisognerà guardare nel quarto.
Io gli comunico una cosa che ora è scontata per lui; che il
messaggio giusto era quello solito – cerca oltre cerca ancora cerca – e che l’ho trovato applicando un nuovo codice. Lui prende
atto della soluzione dell’enigma senza mostrare un grande entusiasmo. Dà un lungo sorso alla quarta birra direttamente dalla
bottiglia. Mi passa la bottiglia mezza vuota. Poi si alza dalla sedia, si spoglia fino a restare in slip e va a buttarsi su un ampio
tappeto turco steso sul pavimento arroventato dal sole. Non rie-
275
sco a pensare a niente di meglio che imitarlo: vada per la tintarella. In pochi sorsi ci scoliamo un’altra bottiglia di birra.
Il calore dell’aria è così forte e quello della birra così piacevole che i pensieri, gradualmente, diventano più evanescenti del vapore acqueo. Il pavimento è duro sotto il tappeto. Giuliano si gira
e si rigira senza riuscire a trovare una posizione comoda. Io non
ce la faccio neanche a voltare la testa dall’altra parte. Alla fine,
annoiata da tutto il rigirio, mi distendo sul fianco dando le spalle
a quell’anima in pena. E per la fiacca non faccio neanche un movimento quando sento il contatto del suo corpo col mio. – My
God – penso – con questo caldo! – Ma lui non aveva intenzione.
O forse percepisce la mia nausea. Così, con un altro movimento
estenuato, si gira dall’altra parte e mi mostra le spalle a sua volta.
Dopo un po’ si mette a smaneggiare nel mucchietto dei suoi vestiti lì accanto. Mi alzo sul gomito per vedere cosa fa.
Estrae la camicia dal mucchio di vestiti, infila una mano nel
taschino e ne tira fuori un sacchetto di tabacco. Lo apre. Scava
fra i trucioli di tabacco e ne tira fuori un pacchetto di cartine da
sigarette giganti e un piccolo involto di carta stagnola. Apre l’involtino e ne porta alla luce il prezioso contenuto, una pallina di
hascisc non più grande di un cece. La prende tra l’indice e il
pollice della mano sinistra e la scalda alla fiamma di un cerino.
L’hascisc si scurisce subito sporcando di nerofumo la pelle delle
dita, mentre nell’aria si sprigiona quell’odore forte, quell’afrore
acre e dolce che risveglia sempre in me un piacevole senso del
peccato, una delle poche cose al mondo ormai che hanno questo
potere.
Prendo il pacchetto delle cartine. Ne estraggo una. La apro tra
le dita, vi distendo sopra un abbondante ricciolo di tabacco e passo il tutto a Giuliano. Lui afferra la cartina e se la adagia tra l’indice e il medio della mano sinistra tenendola ferma con il pollice.
Con il pollice e l’indice della destra sbriciola il cece di hascisc
sul tabacco. Finita l’operazione, arrotola la cartina con un movimento rapido. Con la lingua ne bagna il bordo e la chiude. Attorciglia un’estremità della sigaretta a mo’ di caramella, per non far
cadere neanche un grano della preziosa sostanza.
276
Me la infila in bocca per l’altra estremità e l’accende. La prima tirata è profonda. Espirando mi distendo di nuovo sul tappeto,
adagio, e mi sembra che il fumo, uscendo dalla bocca e dal naso,
si porti via con sé le residue forze che mi tenevano seduta. Do
altre tre tirate e passo la sigaretta a Giuliano. Lui fuma un po’ e
me la ripassa. Andiamo avanti così per un bel pezzo. Fumiamo
calmi, cercando di farla durare a lungo, come indugiando su dei
preliminari.
L’effetto però è immediato. Comincia con la prima tirata e
continua in crescendo. Gli occhi ce l’ho chiusi e il corpo, abbandonato al calore del sole, quasi non lo sento più. Non ne percepisco più i confini, sento che si confonde con l’aria calda che
mi circonda e mi soffoca dolcemente.
A me questa roba, normalmente, mi fa un piacevole effetto,
mi rilassa e mi annebbia la mente, e spegne quel senso di angoscia sottile che domina le mie ore. Per lui invece è tutta un’altra
cosa: gli basta mezza canna per mettersi a vaneggiare di marziani
e di anarchia come Jack Nicholson in Easy Rider. Ecco perché se
ne fa una ogni morte di Papa, dice. Qualche volta gli funziona
perfino da eccitante: lo arrazza fisicamente e gli accende l’immaginazione. E quanto è tedioso doverselo cuccare sopportandone
anche i vaneggiamenti della fantasia. Così accade oggi. Il resto
dell’accaduto, vaneggiamenti compresi, non merita di essere raccontato.
Torno a casa alle due di notte, e sono completamente sveglia.
Mi siedo subito alla scrivania e apro il mio diario. Ormai, da
quando ho cominciato a scrivere questo tormento di diario, pur
non andando quasi mai a letto prima delle quattro non prendo
sonno che alla luce dell’alba. Ma potrei mettermi a scrivere alle
otto dopo cena e, calcolando una durata media di scrittura di due
ore, andarmene a letto verso le dieci. Mi addormenterei comunque all’alba.
Il fatto è che dal giorno in cui ho cominciato a scrivere il
diario, cioè dal giorno successivo a quello della morte di Luciano, la sera, se non ho qualche cliente da trastullare, mi piazzo
davanti alla televisione e mi abbrutisco fino a tardi. L’unico palliativo che sono riuscita a trovare alla mia insonnia e ai miei ri-
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svegli col mal di pancia è andare a letto molto tardi. Così nelle
notti migliori riesco a farmi fino a quattro ore di sonno, ma sono
notti sempre più rare. Inoltre mi sveglio in pieno giorno, e la luce
del sole sembra avere un qualche potere di dissoluzione sul mio
inferno interiore.
Il disturbo è un regalino che mi aveva lasciato Luciano. Lui
stesso, tuttavia, oltre a farmene una diagnosi ridicola, mi aveva
suggerito l’unico rimedio efficace: quello delle ore piccole, una
strategia psichica che definiva ‘combattere l’inferno con le sue
armi’. Nel caso specifico si trattava di rubargli la notte.
Ora mi domando: questa recrudescenza dell’insonnia che è
seguita alla scomparsa di Luciano, non può avere un significato,
dopo tutto, piuttosto ovvio? Non potrebbe darsi che nella perdita
di Luciano io abbia visto la perdita definitiva di ogni speranza?
All’improvviso mi si chiudono gli occhi dal sonno. Faccio appena in tempo a riaprirli per alzarmi dalla sedia e andarmi a buttare
sul letto.
Eppure, appena mi ritrovo sotto il lenzuolo, mi accorgo di non
riuscire ad addormentarmi, nonostante che la notte già mostri intenzione di cedere il campo al nuovo giorno. La mia mente rimugina febbrilmente. Sento che qualcosa non va in ciò che ho appena scritto. Così mi alzo e torno alla scrivania, se non altro per
ammazzare l’insonnia. E dire che pochi minuti fa me ne ero allontanata per la cecagna!
Rileggo le pagine scritte oggi e capisco subito l’inghippo. Ad
un tratto sono brutalmente saltata di palo in frasca, per dirlo come l’avrebbe detto Giuliano. Stavo scrivendo del trip hasciscetico avuto in casa di lui e all’improvviso sono passata a descrivere i miei disturbi del sonno. Quale nesso c’è? Boh? Queste
devono essere le pagine più sconclusionate di tutto il mio diario.
Stasera sono proprio sbalestrata.
Adesso mi rendo conto che in realtà sono tornata alla scrivania
perché voglio scrivere di un ricordo, un episodio che segna un
punto di svolta nella mia travagliata relazione con Luciano.
Da quando avevamo preso a incontrarci per discutere della tesi di laurea avevo sempre respinto le sue avance erotiche, nono-
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stante le proponesse mostrando segni di crescente tenerezza, sia
quelle che qualche volta tentava maldestramente nel suo studio al
dipartimento, sia quelle che prometteva di tentare invitandomi a
cena o a ballare.
Il rapporto docente-discente mi bastava, mi dava un appagamento che non derivava solo dal sentimento di stima reciproca.
Lui stesso mi spiegò che in alcuni casi quel tipo di vincolo tende
a travalicare i confini accademici e a creare una specie di transfert affettivo come tra padre e figlia. L’allieva s’innamora del
maestro, da cui riceve conoscenza, formazione, stimolo alla crescita. Il maestro s’innamora della figlia spirituale, a cui dà un
pezzo della propria anima e in cui ritrova la parte migliore di sé,
quella che aveva perduto lasciandosi alle spalle gli anni degli
slanci giovanili.
Devo riconoscere che questo flusso di transfert si era indubbiamente insinuato tra noi, suscitando nei nostri incontri scientifici un’atmosfera d’intesa emotiva che esorbitava le semplici
manifestazioni di riconoscimento intellettuale.
Un giorno m’invitò a passare una serata al circolo Arci di
Montelupo. Era il posto dove mi portava a ballare nei tempi
migliori. Stavo per dirgli di no, ma prima che aprissi bocca mi
assicurò che ci saremmo divertiti. La locale sezione del Partito
Comunista lo aveva invitato a tenere una conferenza sulla situazione generale del paese e lui aveva accettato proponendo l’argomento ‘Il ciclo infernale della politica italiana: cosa ci aspetta nel
futuro prossimo?’
“Che ci va a fare uno come te alla parrocchietta?” Lo burlai.
“A fomentare.”
Ero esitante. Lui m’invogliò con un argomento persuasivo:
“Ti servirà in vista del tuo esame di laurea.”
“Parlerai di Marx?”
“No, ti mostrerò come si fa a provocare un uditorio.”
La sala della conferenza non era molto grande, avrebbe dovuto contenere una cinquantina di uditori. Però ce n’erano parecchi
di più, stipati sulle scomode sedie e in piedi lungo le pareti.
Arrivammo verso le nove e mezzo e all’inizio fu tutto un susseguirsi di strette di mano e abbracci di compagni vecchi e nuovi,
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alcuni dei quali riconobbi per quelli che avevo frequentato alla
Bolera, la vicina sala da ballo. Da cui ci separavano le pareti di
una stanza attigua e ci giungeva un lontano sottofondo musicale.
Luciano fu introdotto dal segretario di sezione e presentato come un professore di Firenze che ci avrebbe spiegato la situazione
politica dell’Italia dei nostri giorni, fine anni ’80.
Lui si alzò in piedi, distese uno sguardo accattivante e dominatore sulla platea, indugiando per qualche secondo. Poi attaccò:
“Nel 1529 Firenze fu posta sotto assedio dagli eserciti del Papa e dell’Imperatore.”
Dal pubblico si levò un brusio di sorpresa.
“Ma non doveva parlarci dell’Italia di oggi?” Disse sottovoce
uno seduto in prima fila accanto a me.
Luciano, come se lo avesse sentito, chiarì:
“Vi parlerò dell’Italia di sempre. Il che ci illuminerà su quella
di oggi.”
La conferenza non durò meno di un’ora, e un’altra se ne andò
per il dibattito che seguì. Avevo preso degli appunti, da brava
allieva, che ora utilizzerò per riassumere il succo degli argomenti
trattati.
La prima mezz’ora Luciano la dedicò alla ricostruzione degli
eventi storici. Ci spiegò che nel 1494 il popolo di Firenze aveva
cacciato dalla città la famiglia Medici, che l’aveva tiranneggiato
per buona parte del secolo. Aveva quindi restaurato una forma di
governo repubblicano in cui le classi popolari riuscivano a esercitare un embrione di potere democratico. In quella repubblica
avevano dato il meglio di sé Girolamo Savonarola, profeta e arruffapopolo, e Niccolò Machiavelli, cancelliere, diplomatico e
ideologo della Repubblica. Nel 1512 i Medici erano riusciti a tornare al potere con un colpo di stato e l’aiuto dell’esercito spagnolo. Ma i fiorentini li avevano cacciati di nuovo nel 1527, restaurando la repubblica per l’ultima volta. Senonché a quei tempi il
capo mandamento della famiglia Medici era niente meno che il
Papa, Clemente VII. Ebbene costui non esitò ad allearsi col suo
arcinemico naturale, l’imperatore Carlo V, pur di riconquistare
alla propria famiglia il potere su Firenze.
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Fu così che la città finì sotto assedio. Era stata abbandonata,
per paura o per opportunismo, da tutti i suoi alleati e ora si ritrovava a combattere una guerra per l’esistenza, sola contro il
resto del mondo. La combatté magnificamente, con un esercito
popolare e una compagnia di ventura, contro due eserciti preponderanti in numero di armati e armamenti e che raccoglievano la
più fecciosa soldataglia di Spagna, Germania e Italia. Le milizie
popolari fiorentine vinsero quasi tutte le battaglie con atti di
eroismo che suscitarono l’ammirazione del mondo, ma persero
l’ultima e decisiva per un tradimento del comandante generale
del suo esercito mercenario, che era in combutta col Papa stesso.
Così i Medici tornarono definitivamente al potere, dapprima con
Alessandro, un despota ladroncello e debosciato che si diceva
fosse il bastardo di Clemente, poi con Cosimo, uno scaltro demagogo altamente dotato di capacità tattiche. Non solo per Firenze, per l’intera penisola fu la fine degli ultimi residui delle
aspirazioni repubblicane e l’inizio dell’era più buia della sua
storia.
Narrando questi fatti il mio uomo si era accalorato, parlava
con voce sonora, gesticolava elegantemente ed esibiva una retorica patriottarda che faticavo a credere genuina. Il pubblico si era
lasciato trascinare in un delirio sciovinistico da chiamata alle armi. Si era creata un’atmosfera esaltata, gli ascoltatori pendevano
dalle labbra di Luciano come scolaretti da quelle di un maestro
che narra le avventure di Pinocchio. Lo guardavano a bocca aperta, a volte facevano dei commenti appassionati, non riuscivano a
stare fermi sulle sedie, e tifavano rumorosamente, soprattutto
quando Luciano prese a raccontare le gesta di Francesco Ferrucci, il comandante partigiano che, combattendo nelle campagne e
sui monti del contado fiorentino, aveva ripetutamente umiliato
un reggimento del maramaldo esercito papale comandato da Fabrizio Maramaldo. Quando descrisse la finale battaglia di Gavinana, in cui i 4.000 partigiani di Ferrucci furono disfatti da un’armata di 10.000 criminali al soldo del Papa, l’angoscia che aleggiava nella sala si fece bruciante. Il parossismo fu raggiunto con
la tragica fine del Ferrucci. La battaglia era praticamente terminata e lui ancora combatteva, spada alla mano, sopra un
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mucchio di cadaveri nemici. E quando fu ferito a morte, e
quando stava per ricevere il colpo di grazia da Maramaldo, e
quando infine pronunciò le fatidiche parole ‘vile, tu uccidi un
uomo morto’, le lacrime sgorgarono dagli occhi di molti montelupesi scivolando sulle rudi facce di lavoratori. Mi ero emozionata perfino io.
A quel punto Luciano gettò una bomba a mano. Si fermò, si
ricompose, fece una lunga pausa, cambiò il tono della voce, che
divenne freddo e sibilante. Disse:
“Ciò che fu ucciso così vilmente fu la libertà, e i responsabili
ultimi dell’omicidio siete voi, cari compagni.”
In sala ci fu un gelo improvviso e subito dopo un’ondata di
sconcerto.
“Sì, avete capito bene.” Infierì Luciano.
Da un istante all’altro poteva esplodere il linciaggio. Lui lo
prevenne:
“Non vi agitate. Datemi tempo. Ora vi spiegherò.”
“Siamo tutt’orecchi.” Disse beffardo il segretario di sezione,
che presiedeva la riunione.
“A Firenze c’erano tre partiti, i palleschi, i piagnoni e gli arrabbiati. Sono gli eterni e universali partiti della politica italiana.
Muovetevi attraverso la nostra storia e la nostra geografia e troverete sempre questi tre partiti, mutatis mutandis.”
“E cambiando le mutande con quelle di oggi, come si chiamerebbero i tre partiti?” Lo interruppe il segretario, suscitando l’ilarità della sala.
“DC, PCI e…”
“BR?” Lo interruppe di nuovo quello, scatenando un’altra risata collettiva.
“No, le BR sono un bubbone cresciuto sul corpo ideologico di
voi piagnoni.”
In sala tornò il gelo.
“I palleschi erano i seguaci dei Medici.” Riprese Luciano con
tono aggressivo, quasi a tacitare preventivamente ogni possibile
sollevazione dell’uditorio. “Sono il partito endemico e naturale
del popolo italiano, quello che governa normalmente il paese.
Sostenevano un blocco di potere dominato dall’alta borghesia
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magnatizia e articolato in un’alleanza che abbracciava tutte le
classi sociali, dalla media e piccola borghesia giù giù fino alla
bassa plebe. Il cemento che teneva unita l’alleanza era un impasto formato dalla politica del favoreggiamento, l’etica del sacro
egoismo e l’ideologia cattolica. Ognuno era libero di farsi i cazzi
propri purché non mettesse in discussione il potere centrale. Ai
padroni si assegnavano appalti, ai bottegai si consentiva di
evadere le tasse, ai poveri si elargivano donativi e pensioni
d’invalidità. A tutti l’impunità. La chiesa benediceva.”
“Non capisco la faccenda dell’ideologia cattolica e della benedizione della chiesa.” Urlò una vecchietta dal fondo della sala.
“È una faccenda seria. I preti godevano di privilegi eccezionali, dall’esenzione fiscale all’autonomia giurisdizionale, per non
dire delle generose regalie statali. Erano l’azienda più ricca del
paese ed erano ammanicati a doppio nodo col potere dei Medici,
i quali avevano dato alla chiesa ben due papi. Il servizio che i
preti rendevano al potere mediceo era essenziale. Il loro ruolo era
di continuare a formare il carattere italiano, come avevano sempre fatto dai tempi di Costantino. Opportunismo, servilismo, dispregio dei valori collettivi e del bene pubblico…”
“Ah, questa poi…” Disturbò la vecchietta.
“Questa poi è l’essenza del problema. Per la chiesa cattolica la
civiltà politica è la città del male. I fedeli non possono impegnarvi la propria anima, che devono invece proiettare verso la
città di Dio. Il controllo sullo stato deve essere esercitato dai preti, non dai sudditi. L’individualismo economico e civile è un peccato veniale nella misura in cui la dedizione al bene pubblico è
un disvalore. La chiesa è sempre pronta a perdonarlo in cambio
di qualche elemosina e pateraveggloria.”
“Il cattolicesimo ideologia individualista?” Domandò il segretario.
“Peggio, utilitarista.”
“Questa me la devi spiegare.”
“La chiesa cattolica ha inventato l’utilitarismo trascendentale.
Poiché le azioni umane ricevono nell’aldilà un premio o una
punizione, i credenti sono indotti a sviluppare l’etica del comportamento razionale per massimizzare la felicità. Le azioni morali
283
sono dei mezzi per conseguire un fine, un fine che giustifica ogni
mezzo, il valore del premio essendo infinito. Siccome la chiesa è
l’istituzione che detiene la verità assoluta, il cattolico che le
obbedisce ciecamente si comporta in modo razionale. Se accade
che la verità della chiesa viene a trovarsi in contrasto con le leggi
civili e il bene pubblico, il cittadino cattolico che agisce razionalmente deve mettersi contro le leggi e il bene pubblico.”
“Perché dici cattolico?” Urlò la vecchietta. “Perché non cristiano?”
“I protestanti si sono dissociati adottando la dottrina della
predestinazione, secondo cui il premio celeste è impartito da Dio
arbitrariamente. In tal modo l’azione morale acquisisce valore in
sé, non come mezzo per massimizzare l’utilità trascendente.”
“Se fosse così,” intervenne il segretario, “tutti i cattolici del
mondo sarebbero opportunisti, non solo gli italiani.”
“No. In Francia, Spagna, Austria, Polonia la chiesa si è alleata
con la nazione, per il semplice motivo che ha usato quegli stati
per difendersi dall’invadenza dell’Islam e degli imperi ghibellino, ortodosso, protestante. In Italia invece ha sempre lavorato
contro la nazione, dato che la sua stessa esistenza politica presupponeva l’inesistenza di uno stato unitario. Così è accaduto
che soltanto in Italia l’utilitarismo cattolico ha indotto sentimenti
e comportamenti antinazionali e antisociali, soltanto in Italia
l’opportunismo è diventato una norma morale positiva. Ebbene è
precisamente questa forma di eticità abietta che rende stabile il
potere pallesco. La repubblica medicea era la prevaricazione di
tutti contro tutti; a ognuno assicurava una certa libertà di depredare, ovviamente in proporzione al potere detenuto. La funzione
del governo era di far sì che nessuno osasse travalicare i limiti
della competizione tra persone e cricche isolate e che ogni suddito ne ottenesse un sia pur piccolo vantaggio economico. Il comandamento fondamentale era: defrauda il prossimo tuo come tu
stesso sei da lui defraudato. Ruba anche alla repubblica; basta
che non ti organizzi insieme ad altri in una guerra rivoluzionaria
di classe.”
“Vabbe’, la descrizione della Democrazia Cristiana ci piace.
Sono più o meno le critiche che noi le abbiamo sempre rivolto.”
284
Disse il segretario in tono sarcastico. “Ora sentiamo che ci dici
dei piagnoni.”
“Erano il partito moralista. Criticavano i Medici per la loro
corruzione, per il lusso, le orge, l’omosessualità, i gioielli e le
scollature delle donne, e ovviamente per la loro azione di pervertimento morale delle istituzioni statali. Predicavano la prevalenza
del bene pubblico su quello privato e la restaurazione di costumi
morigerati, la modestia, l’austerità…”
“Non osare toccare Berlinguer!” Urlò uno dal centro della sala, ricevendo un fragoroso applauso. Luciano, imperterrito, riprese a provocare nel mezzo dell’applauso e alzando la voce per
soffocarlo:
“Nell’ideologia piagnona c’era molto di Girolamo Savonarola,
ma anche qualcosa di Machiavelli.”
“Ora ci dirà della doppia morale.” Se ne uscì il segretario,
stavolta con durezza e senza ombra d’ironia.
“Non ce n’è bisogno. Vedo che la sapete lunga. Vi dirò invece
di ciò che i piagnoni avevano in comune coi palleschi. Erano
anch’essi cattolici.” Pausa meditabonda. Poi: “Cattolici della
specie più pericolosa, onesti e idealisti, e fortemente protestatari,
quasi protestanti. Volevano la città di Dio in terra. Infatti appena
presero il potere trasformarono la repubblica in monarchia, elevando al trono niente meno che Cristo Re. Loro si contentavano
di esserne i ministri. La loro idea di democrazia si risolveva nella
dottrina del governare per il bene del popolo, non per suo mandato. Tanto è vero che lo stato savonaroliano escludeva dai diritti
politici tutta la plebe e la borghesia piccola e media, e assegnava
il diritto di voto solo ai migliori…”
“Lascia stare Togliatti!” Risata generale.
“Chi? Il factotum di Stalin?”
“Ora stai esagerando!” Alzò la voce il segretario. “Lo scherzo
è bello quando dura poco.”
Luciano non fece una piega. Sfoderò un sorrisetto dalemiano e
sfidò l’uditorio con un lungo silenzio. Neanche un brusio si levò
dalla sala. L’atmosfera era tesa e vi aleggiava di nuovo quell’ansia di linciaggio. Io cominciavo a preoccuparmi. Ma anche a
guardare al mio ganzo con occhio nuovo. È incredibile com’era
285
riuscito a manovrare i sentimenti di quegli uomini rudi. Prima li
aveva esaltati, emozionati, commossi. Ora li provocava e li irritava. Riprese il discorso con freddezza:
“Passiamo agli arrabbiati.”
“Ecco, sarà meglio.” Disse il segretario cercando di allentare
la tensione.
“Erano ferocemente anticlericali. Odiavano i piagnoni non
meno dei palleschi. S’ispiravano alla teoria repubblicana di Machiavelli. Erano atei e materialisti. Oltre che ‘arrabbiati’, erano
chiamati ‘libertini’, col significato che oggi si dà a ‘libertari’. Si
professavano radicalmente democratici. Infatti puntavano sulla
spinta rivoluzionaria del Parlamento, che allora consisteva
nell’assemblea di tutto il popolo in Piazza della Signoria. Uno di
loro, certo Pier Filippo Pandolfini, tenne un discorso incendiario
alle milizie popolari, sostenendo che non bastava armarsi per
combattere il nemico esterno, cioè l’esercito papale-imperiale
che assediava Firenze. Il nemico più pericoloso stava dentro la
città ed era costituito da quelle classi privilegiate che sfruttavano
e opprimevano il popolo lavoratore. Contro di esse bisognava
rivolgere le armi prima di ogni altra cosa, se non si voleva che la
città fosse riconsegnata ai Medici con qualche tradimento.”
Qui si fermò, forse aspettandosi una reazione dal pubblico.
Siccome tutti tacevano perplessi, lanciò un’altra bomba a mano:
“Pandolfini s’è rivelato profeta lungimirante. Difatti alla fine
il tradimento si materializzò, e non fu solo opera del comandante
generale dell’esercito mercenario, Malatesta Baglioni. Costui era
al soldo dei fiorentini, ma in segreta macchinazione col Papa e in
ambigua intesa col suo partito dentro la città. Il tradimento fu sostenuto politicamente dai palleschi. Però non sarebbe stato possibile se voi piagnoni aveste dato retta a Pandolfini, se aveste
avuto il coraggio di scatenare una rivoluzione sociale per togliere
ogni potere economico e politico alle classi magnatizie e al loro
partito. Per questo dico che i responsabili ultimi della morte della
libertà non sono stati i palleschi e il Baglioni, che hanno armato
la vile mano di Maramaldo, bensì voi piagnoni che glielo avete
permesso con la vostra dabbenaggine.”
Urla dalla sala:
286
“Provocatore! Anarchico! Troschista! Bucaiolo!”
“Calma, calma, compagni!” Intervenne il segretario alzandosi
in piedi e battendo una mano sul tavolo. La caciara andò avanti
per un po’, mentre quello continuava a battere la mano. Infine,
quando fu in grado di farsi sentire da tutti, disse:
“Riservate le vostre critiche per il dibattito. Credo che ora il
professore abbia finito e che possiamo dare la parola al pubblico.”
“No, non ho finito,” lo interruppe Luciano, “il meglio deve
ancora venire.”
Fischi e improperi dalla sala. Lui assunse un tono professorale:
“È giunto il momento della generalizzazione. In quei tempi a
Firenze si manifestò in modo esemplare, quasi paradigmatico,
quello che io chiamo il ciclo infernale della politica italiana. Funziona così. In tempi di normalità governa il partito pallesco e dilaga la politica del sacro egoismo, attuata all’interno nel modo
che ho detto e all’estero con la prontezza con cui si corre in soccorso del vincitore in tutte le diatribe europee. La politica estera
non è mai giustificata da forti motivazioni ideali, bensì dal dogma etico nazionale: Francia o Spagna, basta che se magna. Ora,
se l’Italia non si trovasse in un consesso europeo molto conflittuale, sarebbe governata permanentemente dai palleschi. Invece
ogni tanto il loro potere entra in crisi. Il che accade o perché l’alleato che si presagiva vincitore alla fine perde la guerra o perché
la vince ma non riconosce all’Italia i presunti meriti e non le paga
adeguatamente il contributo alla vittoria. Qualche volta la crisi
arriva per implosione interna, specie quando la stabilità del potere genera un livello di corruzione tale da compromettere perfino
la minima efficienza economica della guerra di ognuno contro
ogni altro, cosicché il governo non riesce più a dare il contentino a tutti. A quel punto il potere passa ai piagnoni, che normalmente sono minoritari salvo vedersi aumentare i suffragi popolari, inattesi e immeritati, nei periodi di crisi.”
“Oh, finalmente arrivano i nostri!” Suggerì il segretario, suscitando l’applauso e le risate.
287
“Finalmente arrivano i vostri. Ottengono il potere. Che ci fanno? Scatenano la rivoluzione sociale? Scardinano le istituzioni
del comando borghese? Tagliano gli alimenti alla chiesa? Nulla
di tutto ciò. Cercano di moralizzare la vita pubblica, non solo
quella della classe politica, anche quella del popolo, costringendolo all’austerità e a pagare le tasse. Cosa propongono per risolvere il problema dello sfruttamento del lavoro? Le fabbriche agli
operai? No, la filiera etica. Ve da sé che durano poco, poiché se i
palleschi riuscivano a comprare il consenso degli sfruttati e degli
sfruttatori, loro di entrambi riescono a guadagnare nient’altro che
il disdegno.”
Lunga pausa. Poi:
“Così giunge il momento degli arrabbiati.”
“Facci qualche esempio. Chi sono questi arrabbiati?” Urlò la
vecchietta di prima.
“Il Pandolfini, il Ferrucci e i loro partigiani.”
“Ma oggi?”
“Il quarantotto, il biennio rosso, la resistenza, il sessantotto.”
“Tutte sollevazioni vittoriose!” Lo motteggiò il segretario.
“Tutte sconfitte, ovviamente.”
“E perché?”
“Per colpa di voi piagnoni. Che a quel punto vi spaventate e
correte ad accodarvi ai palleschi.”
Strepito e fischi in sala:
“Basta! Quando la pianti?”
E lui:
“Il peggio deve ancora venire.”
“Speriamo che venga presto!”
“È presto detto. Segue un periodo di disordine e incertezza. I
palleschi sono fuori gioco, i piagnoni sono in ritiro spirituale, gli
arrabbiati sono in galera. A quel punto…”
“Arriva Mussolini.” Sempre la vecchietta.
“Vedo che qualcuno mi capisce al volo. A Firenze arrivò Cosimo dei Medici, il despota demagogo. Il suo compito è duplice.
Primo, deve fare piazza pulita delle vecchie classi dirigenti. Secondo, deve sopprimere le istituzioni che hanno fallito nel precedente sistema politico. Quando lui uscirà di scena, si ricostitui-
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ranno in vesti nuove i partiti pallesco e piagnone, il primo per governare, il secondo per deplorare.”
“E oggi chi sarebbe il despota, Bettino Craxi?” Domandò il
segretario.
“No, a Bettino mancano le doti più importanti, l’abilità tattica
e la simpatia popolare.”
“Allora chi sarà il nuovo uomo della provvidenza?”
“Non lo so. Però so che deve venire, con la necessità di una
legge naturale. Se non chi è, vi posso dire come sarà.”
“Sentiamo. Come sarà?”
“Furbo come un bidonaro, maneggione come un democristiano, fariseo come un prete, machiavellico come uno stalinista, arrogante come un fascista, e carismatico come Arlecchino.”
“E l’onestà?”
“Non è una qualità necessaria, anzi può essere una remora. È
vista con sospetto dal popolo.”
“Qual è l’ideologia del despota?”
“È indifferente. Può essere un ex garibaldino, un ex socialista,
un ex liberale, un ex democratico. Il punto è che deve diventare
un ex, poiché deve fare piazza pulita della vecchia cultura politica.”
“E come ottiene il consenso popolare?”
“Affranca il popolo da ogni ritegno morale che i piagnoni avevano tentato di inculcargli e diffonde una nuova ideologia della
libertà, intesa come facoltà di depredare. Insomma, libera legittimandoli gli istinti bestiali degli italiani. Il futuro Cosimo dirà al
popolo: – Guardate me. Ho fatto il furbo per tutta la vita e sono
diventato l’uomo più potente del paese. La posizione che ho me
la merito per il semplice fatto che me la sono conquistata. Il merito è un valore ed è giusto che appartenga a chi vince. Perciò
sentitevi liberi di fare come me, liberi da ogni senso di colpa. –
Così preparerà il ritorno alla normalità.”
Seguì il dibattito, che non fu meno lungo e meno rovente della
conferenza. Io smisi di prendere appunti, e anche di seguire le
discussioni. Ero più interessata a capire il personaggio, il quale
stava esibendo ancora un altro volto. Prima li aveva entusiasmati
e commossi quegli uomini rudi, poi li aveva provocati e irritati,
289
ora li conquistava intellettualmente. Rispondeva alle loro domande in modo persuasivo, alle recriminazioni in modo conciliante.
Cercava di trascinarli al ragionamento e alla critica. Ora s’identificava con loro, li incoraggiava a parlare, li spingeva a riflettere,
gli tirava fuori idee confuse per restituirgliele chiarificate, e gli
rimetteva un sentimento di rabbia condivisa.
Fu allora che riuscii finalmente ad afferrare il bandolo della
sua anima aggrovigliata. Dietro le sue molteplici maschere, dietro la facciata d’intellettuale blasé, di critico provocatore e di
superuomo nichilista, si nascondeva il volto di un visionario, un
rivoluzionario sconfitto e disperato ma ancora sognante: ancora
sognante in quanto disperato. Non una figura beffarda e farsesca,
come lui si atteggiava, ma tragica. Fu allora che colsi tutta la fragilità dell’uomo, e la tenerezza, e capii perché mi ero innamorata
di lui, e riconobbi che ero perdutamente innamorata.
Uscimmo dalla sala alle undici e mezzo. Lui era spossato. Parlava con un filo di voce, le spalle ricurve come sotto un peso intollerabile. Mi prese sottobraccio, quasi a volersi appoggiare a
me, e si avviò verso la motocicletta. Mi aspettavo che mi avrebbe
invitato a passare la notte nella sua casa di campagna, che distava
pochi chilometri da Montelupo. Invece disse semplicemente:
“Vieni, ti riporto a Firenze.”
“No, ancora no.” Mi sorpresi a dire. “La notte è lunga. Ho voglia di fare quattro salti alla Bolera. Non senti che musica?”
Dalla sala da ballo ci giungeva il ritmo di un walzer travolgente. Lui non fece resistenza e si lasciò trascinare come un
bambino che va a scuola contro voglia. Lo portai prima al bar. Lo
scossi con un caffè scecherato. Poi ordinai due bicchieri di Biancosarti, l’amaro che ti dà la carica, gliene misi uno in mano e lo
guidai alla sala da ballo. Lì trovammo alcuni di quelli che avevano partecipato alla conferenza. Ci accolsero amichevolmente e ci
fecero accomodare al loro tavolo.
C’era anche la vecchietta dalle domande intelligenti. Avrà
avuto una settantina d’anni, ma portati magnificamente. I capelli
biondi dai riflessi argentei le illuminavano il volto come una veneranda aureola. Gli occhi verdi, messi in risalto da una sottile
linea di kajal, brillavano di un’intensità adolescenziale. I linea-
290
menti delicati, il mento con la fossetta, le labbra mobili, appena
ravvivate da un rossetto rosa incarnato, tutto rivelava una residua
bellezza che in tempi migliori doveva essere stata conturbante e
che ora le rughe sulla fronte, le occhiaie pesanti e la pelle stanca
contribuivano a nobilitare. Era vestita con una certa finezza. Un
foulard del colore del rossetto si sforzava di nascondere i cedimenti del collo, la camicetta e la gonna nere aderivano a un corpo asciutto esaltando forme ancora provocanti. Le gambe accavallate esponevano due ginocchia ossute, ma le calze di nylon
color carne ne compattavano i muscoli e insieme alle scarpe rosa
coi tacchi alti da ballerina contribuivano a confezionare un certo
qual fascino sensuale.
Cercò subito di monopolizzare Luciano. Lo invitò a sedere accanto a sé e lo aggredì con un sorriso malizioso:
“Bellina quella tua teoria dell’utilitarismo trascendentale, peccato che non funziona.”
“Perché?” Abboccò lui.
“Perché la chiesa cattolica guarda ai propositi con cui si compiono le azioni. Sei fai un’opera di bene con lo scopo di guadagnarti il paradiso ottieni l’inferno. Le opere di bene non bastano,
devono essere accompagnate dalla coscienza, dalla consapevolezza di voler fare del bene.”
“Ah, ah! Sai una cosa? L’economia sperimentale ha dimostrato che le creature più razionali che ci sono al mondo sono gli
animali. Razionalità utilitarista vuol dire efficienza economica,
capacità di trovare il mezzo migliore per conseguire un fine.
Certi animali trovano sempre la strada meno costosa per raggiungere le loro mete, che si riducono al cibo e al sesso. E gli
animali non hanno né intenzioni né coscienza né consapevolezza.”
“Ma gli uomini sì.”
“La psicologia del profondo poi ha dimostrato che gli esseri
umani possiedono una grande capacità di autoinganno. Possono
convincere la propria coscienza di star perseguendo un certo fine,
mentre inconsciamente tendono a un altro. Ciò che differenzia
l’animale cattolico dalla bestia selvatica è precisamente questa
capacità. Da essa origina la nota ipocrisia pretesca, che non è
291
quella di don Abbondio, ma quella del cardinal Borromeo, non la
doppiezza di chi predica bene e razzola male, ma la commedia
interiore di chi è sinceramente convinto di razzolare bene quando invece nei più reconditi recessi dell’anima mira solo al proprio bene, terreno o eterno che sia.”
S’intromise il segretario:
“Ma c’è il comandamento dell’amore.”
“Questo non dovevi dirlo.” Fece la vecchietta.
“Perché?”
“Perché così dai ragione al professore.”
“In che senso?”
“Dice Giovanni: ‘Il comandamento di Dio è che ci amiamo gli
uni gli altri, come ci ha ordinato. Chi mette in pratica i suoi comandamenti rimane unito a Dio e Dio è con lui.’ Dunque si deve
amare per avere Dio dalla propria parte. La lettera ai Corinzi
chiarisce: ‘Se do ai poveri tutti i miei averi ma non ho amore,
non mi serve a nulla.’ E Matteo: ‘Se voi amate soltanto quelli
che vi amano, che merito avete?’ Insomma l’amore è un merito,
e in quanto tale mi serve a qualcosa.”
Uno sfoggio di erudizione che Luciano non riuscì a far passare
liscio. Replicò con una citazione raffinatamente ingenua:
“L’essenza del problema fu colta con acume dal grande tedescologo tedesco, che così faceva recitare il fanciullo soave: ‘Chi
pel prossimo intercede a se stesso anche provvede, e chi prega
Dio per tutti che l’eterno amor gli frutti.’ Dopo di che fece
obiettare al genio faustiano: ‘L’uomo pio ha da sapere che fa
l’utile proprio pregando per gli altri? Ma il disinteresse se ne va
non appena si sa che reca qualche vantaggio’.”
“E allora?” Domandò il segretario, con un’aria da fanciullo
soave.
“L’amore vero è un sentimento,” concluse perentoria la tardona, “un moto dell’animo che scaturisce spontaneamente dal
cuore. Non può essere un dovere; se lo imponi con una norma
morale, per di più una norma che ne fa un mezzo per accumulare
meriti, lo uccidi.”
“Bravissima.” La provocò Luciano. “Si vede che hai studiato
dalle suore.”
292
“E tu dai preti.”
Una breve pausa di sorrisi. Bevvero entrambi guardandosi negli occhi. Ebbi un impeto di gelosia.
Il segretario però non era ancora convinto:
“Fatemi capire bene, ché io non ho studiato né dalle suore né
dai preti.”
“Ragiona.” Fece Luciano. “A un merito è sempre associata
una ricompensa.”
“E con questo?”
“L’amore come sentimento è premio a se stesso. Se diventa un
mezzo per acquisire un premio altro da sé non è più amore vero.
L’amore si sente, la carità si fa. Ecco l’essenza dell’ipocrisia cattolica. Un sentimento è stato trasformato in virtù meritevole di
retribuzione, cosicché l’autoinganno può arrivare al punto di credere di fare del bene al prossimo mentre si fa il proprio.”
“Da come la metti tu, sembrerebbe che le aspirazioni terrene
siano meno ipocrite di quelle eterne.”
“Esattamente. E sai perché? Perché lo stesso adattamento della coscienza è funzionale all’efficacia della condotta utilitaria: si
mente meglio quando si mente anche a se stessi. Senonché quando l’interesse egoistico è perseguito apertamente la coscienza
non ha bisogno di fare salti mortali. È il caso della stragrande
maggioranza degli italiani. È accaduto che l’atavica dimestichezza con l’assurdità dei dogmi e dei riti cattolici e con la perfidia
dei loro officianti ha fatto degli italiani il popolo più ateo del
mondo. Così, caduta la copertura trascendentale, il loro edonismo è diventato puro opportunismo materialista, una razionalità
strumentale che non ha bisogno dell’autoinganno. Questo è un
popolo di furbi, non d’ipocriti.”
“Furbi quelli che evadono le tasse e poi si lamentano che i servizi pubblici non funzionano?”
“È il dramma dell’opportunismo, e un teorema dell’economia
politica: se ognuno mira al massimo benessere personale ai danni
degli altri, tutti ottengono il minimo. L’Italia è una dimostrazione
del teorema in corpore vili.”
A quel punto mi ero scocciata. Mi feci coraggio e gli intimai
un alt:
293
“Compagni, ora basta con la politica. Siamo qui per divertirci.”
“Parole sacrosante.” Approvò la tardona. Prese il mio uomo
per mano e lo trascinò in pista. Io mandai giù il rospo insieme a
un sorso dell’amaro che ti dà la carica. Poi mi girai verso il segretario, che non poté fare a meno di invitarmi a ballare.
Tornai al tavolo per prima e mi sedetti al posto della vecchietta. Luciano si mise accanto a me. Da quel momento facemmo
coppia fissa e ballammo senza posa. Lui cominciò a riscaldarsi
dopo il secondo tango e il quarto bicchierino. Alla fine della
serata, verso le due di notte, la sala si era quasi svuotata e noi
ancora danzavamo. Le musiche si erano fatte melense. Ballavamo stretti stretti, guancia a guancia. Quando ci buttarono fuori
dalla sala perché chiudeva, salimmo in moto e ci avviammo al
suo fienile lì vicino.
Per la stanchezza non combinammo niente. Ma la mattina mi
risvegliai felice tra le sue braccia e mi godetti come un dono del
cielo il suo russare sommesso e la carezza del suo respiro sui
miei capelli, quasi un sussurro dell’anima.
294
Sabato, 29 giugno
Fa un caldo infernale. A Firenze d’estate il caldo picchia feroce.
Quest’anno poi è venuto in anticipo e a giugno già martella peggio di Ferragosto. Alle tre del pomeriggio spacca le pietre.
Io me ne sto lì, alle tre del pomeriggio, nascosta dietro una
colonna del loggiato esterno di villa Stibbert, a fare la posta alle
vergini folli. L’ombra debole e corta della colonna è uno sfottio
del sole e non riesce a rendere l’aria respirabile.
È più di mezz’ora che aspetto, quando finalmente si apre il
cancello della villa delle sciroccate. Le due donne escono dal loro covo con fare circospetto. Si guardano intorno, controllano la
strada deserta, si chiudono il cancello alle spalle e iniziano la
passeggiate delle tre.
Ho dovuto ricorrere a questo stratagemma per vederle. Tutto
ieri non ho fatto che telefonare inutilmente per chiedere un appuntamento. Sono andata anche a suonare il loro campanello,
diverse volte, sempre inutilmente. Eppure le matte erano in casa.
Me l’ha confermato il guardiano di villa Stibbert che le ha viste
uscire e rientrare, per la consueta passeggiata, sia ieri che l’altro
ieri.
Aspetto che s’inoltrino un po’, su per la viuzza stretta tra i
muri di cinta delle ville. Appena svoltano, mi metto a seguirle a
distanza. Procedo così per qualche tempo, senza farmi vedere,
allungando quando loro svoltano e fermandomi quando vanno su
tratti rettilinei. Dopo che si sono allontanate dalla loro villa quanto basta perché non possano sfuggirmi rincasando, gli do una
voce e cerco di raggiungerle.
Le colgo di sorpresa. Ai miei primi richiami fanno finta di non
sentire e allungano il passo. Io le rincorro. Appena sto per raggiungerle, eccole che esplodono in una di quelle loro sceneggiate
balzane. Si mettono a gridare e farfugliare gesticolando con le
braccia. Urlano parole incomprensibili, digrignano i denti, sbarrano gli occhi. I corpi interi entrano in agitazione. Insomma recitano da forsennate. La scena fa veramente senso. Capisco che
può essere un potente meccanismo di difesa, un efficace strumento per tenere alla larga presenze indesiderate.
295
Però me non m’impressionano. Mi avvicino rapida al loro cerchio di gesti inconsulti, lo penetro, getto le braccia al collo di entrambe le donne in un abbraccio deciso e dico:
“Calma ragazze, con me non funziona.”
Difatti si smontano subito. Giustifico il mio pedinamento raccontando di come ho cercato invano di raggiungerle ieri. Ora che
le ho trovate, glielo dico chiaro e tondo, non ho intenzione di
mollarle fino a che non hanno risposto ad alcune domande. Propongo di farla insieme la passeggiata odierna e di parlare cammin
facendo.
Senza molto entusiasmo, e anzi piuttosto passivamente, accettano la mia proposta. Riprendono il cammino, io con loro, in
mezzo a loro. Mi aspetto un tour de force podistico, ma non mi
preoccupo. Non le aggredisco subito con le domande che m’interessano. Cerco di farle sciogliere parlando di banalità. Loro restano mute e remissive.
Dopo un po’ mi stanco di parlare, e non solo per l’aridità della
conversazione. La strada è in salita e vuole la sua dose di fiato.
L’ambiente inoltre diventa sempre più insolito, man mano che ci
allontaniamo dall’abitato. Camminiamo tra stradine così strette
che non ci passano due macchine affiancate, stradine serpeggianti tra ville misteriose e fiancheggiate da alte cinte murarie. I
muri sono pieni di graffiti, alla maniera fiorentina, con motivi
geometrici insoliti e disegni ornamentali astratti che danno l’impressione di nascondere significati arcani. Dietro di essi s’intravedono le cime di alberi fronzuti e, confusi tra loro, tetti di tegole
antiche largamente aggettati sui fianchi delle case, e altane oscure sorrette da agili colonne in pietra serena, e torri posticce coronate da merli guelfi.
Cammina cammina, passiamo da via Montughi ad altre vie dai
nomi suggestivi: della Pietra, degli Incontri, dei Massoni. Giungiamo in cima a una collina da dove si abbraccia con lo sguardo
tutta la città nell’aria tremolante di calura. Firenze laggiù, coi
suoi tetti rossastri e i muri bianchi e gialli, sembra un’enorme
pizza margherita appena tolta dal forno. Accenno a fermarmi,
tanto per riprendere fiato, ma le due matte continuano tetragone
296
per la loro strada. Evidentemente non è una passeggiata senza
meta.
Ora si cammina in aperta campagna e le ville cedono il campo
a sparse case coloniche. A un certo punto ci si trova su una stradella sterrata e parzialmente invasa dall’erba. Passiamo attraverso orti coltivati a carciofi e cavoli neri. Più avanti il sentiero si
perde in una macchia fitta di sambuchi, che raggiungiamo in
pochi minuti. Avanziamo a fatica nel folto degli arbusti, spostando rami con le mani e con le gambe. La camminata nel verde
dura un bel po’, e non faccio in tempo a meravigliarmi per
l’esistenza di un tale prodigio di wildlife alla periferia della città,
quando il bosco improvvisamente si apre e cede la vista a una
stupenda valletta verde e gialla di erba medica e grano. È attraversata da un torrente, sulla cui riva sorge una casa contadina
minuscola e tutta bianca, dalle linee semplici e aggraziate.
Mi fermo a contemplare l’inattesa visione. Intanto le mie due
compagne di passeggiata si siedono a terra e si dissetano a una
borraccia.
“Non è incredibile”, fa Elvira, “che quasi dentro la città possa
esistere un posto così fuori dal mondo?”
È ansiosa di saziare la mia evidente curiosità. Riprende:
“Quel fiumiciattolo si chiama Terzollino. È tanto piccolo che
non si trova neanche sulle cartine Kompass. Pochi ne conoscono
l’esistenza, come della valle che lo abbraccia. A Est e a Ovest
della valletta, due colline coperte da boschi. A Nord, verso Fiesole, passa la via Bolognese. A Sud, costeggiando il Terzolle,
torrente non più grande del Terzollino, corre la via delle Masse.
Due rilievi e due vie di comunicazione così poco importanti che
la città non si è manco accorta della valle.”
La donna s’è sciolta tutta insieme, forse placata dalla bellezza
bucolica del posto. Si volta verso la compagna e sorride. Bevo
alla loro borraccia e mi siedo per terra anch’io. Cerco di cogliere
l’attimo di disgelo per avviare la conversazione. Qualche breve
divagazione arcadica e arrivo subito al sodo.
“Vorrei farvi alcune domande su Luciano Vinel.”
Ed Elvira: “Anche noi.”
297
“Bene,” cercando di dissimulare la sorpresa, “allora cominciate voi.”
Le sorprese sono appena cominciate. Lei vuole sapere nientemeno che questo: “Perché una donna emancipata e intelligente
come te fa il mestiere?”
Che c’entra con Luciano? – Mi domando. Non fa niente. Devo
stare al gioco. Mi viene da pensare che la donna è stata presa da
un rigurgito di moralismo. Così, per sorprenderla a mia volta, le
snocciolo tutta la solfa dell’intrinseca puttaneria femminile nel
mondo del dominio maschile:
“Una moglie cosa fa che non fanno le puttane? Qual è la differenza reale, a parte il maggior grado d’ipocrisia?”
“Giusto.” Conclude lei. “Come dice quella femminista inglese: cos’è una moglie se non una puttana addomesticata?”
Evidentemente la teoria riscuote un certo gradimento. Alle
vergini folli suona a conferma della validità della loro scelta di
un’assoluta separatezza. Così passo a un discorso più aggressivo.
Cerco di provocarle con una citazione rivoluzionaria:
“Se le donne potessero parlare, direbbero: il nostro valore
d’uso può interessare gli uomini. A noi, come cose, non compete.
Ma quello che, come cose, ci compete, è il nostro valore.”
“Sono d’accordo,” interrompe Elvira, “e l’unico modo per non
rinunciare al nostro valore...”
“No, non hai capito. Non ‘Valore’ con la V maiuscola, semplicemente ‘valore’. Gli unici valori che contano nell’attuale
società sono quelli che interessano alle banche. Noi ci rapportiamo ai nostri simili solo come valori di scambio.”
“Ho capito benissimo. Vuoi dire che nella società degli uomini tutte le donne sono puttane. Ecco una profonda verità, peraltro
confermata dal fatto che tutte le puttane sono donne. Tanto è
vero che tutti gli utenti sono uomini. Utente è colui che usa.
L’uomo ha una storia di utente, di soggetto. La donna, di cosa, di
complemento oggetto.” Le spara con sicumera e in tono saccente
queste trivialità.
“No. Non hai capito ancora. Ciò che voglio dire è che senza il
valore di scambio il valore d’uso è uno spettro, perché non c’è
uso senza relazione. È lo scambio che costituisce la relazione e
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rende possibile l’uso. Nella nostra società i rapporti umani si riducono a relazioni tra merci; perciò l’unico tipo possibile di rapporto umano è quello basato sui valori di scambio. Chi rinuncia a
tale tipo di relazione rinuncia alla propria umanità.”
Beccati questa! Segue qualche secondo d’imbarazzo. Lei,
dando l’impressione di voler cambiare discorso, riprende:
“Anche i tuoi rapporti con Luciano erano puramente mercenari?” Lì per lì non capisco che non sta affatto cambiando discorso.
“Sì.” Rispondo.
“A noi risulta che lui aveva un interesse particolare per te.”
“Davvero?” Cado subito nella trappola, come una scolaretta.
“Ci risulta che si trattava appunto di un interesse, sebbene un
interesse poco materiale.”
“Cioè?”
“Lui ti usava per scopi, diciamo così, spirituali. Praticava con
te certe tecniche yoga con cui si riproponeva di attivare degli stati
alterati di coscienza.”
Me la sono voluta. Mai abbassare la guardia quando si lotta
contro la perversità del sentimentalismo e del moralismo, il proprio sentimentalismo e il moralismo altrui. Riprendo subito il
controllo di me.
“Non c’era niente di spirituale nel nostro rapporto. Comunque
mi usava, sì.”
“Ma tu volevi qualcosa di più...”
Stavolta non mi faccio fregare.
“Come fate a conoscere le intenzioni mie e di Luciano? Intuito femminile?”
“Abbiamo parlato a lungo con lui: del giardino Stibbert, del
paradiso terrestre, dell’ascesi, dei cavalieri del Graal...”
“Che c’entra tutto ciò con il rapporto che Luciano aveva con
me?”
“Eh, c’entra, c’entra.” Fa lei. Poi, per chiudere il discorso, si
alza in piedi e riprende il cammino. Gina e io ci guardiamo esitanti. Ci alziamo anche noi e la seguiamo.
Va veloce come un treno, la ‘madre’. Noi, dietro a ruota.
Giungiamo in fondo alla valletta in dieci minuti, oltrepassiamo il
torrente con un salto e riprendiamo a salire. L’altra collina non è
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più ripida di quella da cui siamo scese. Però farla in salita e quasi
di corsa non è la stessa cosa che farla in discesa. Elvira va su
spedita. Noi, sempre dietro, trafelate. Dopo un quarto d’ora siamo in preda al fiatone. Neanche pensarci alla conversazione!
Tuttavia provo:
“Mi hai fatto le tue domande e non mi hai dato tempo per farti
le mie.”
Silenzio.
“Vorrei farne una molto importante e un po’ delicata.”
Silenzio.
“Posso? Chi tace acconsente?”
Silenzio.
“Allora: ho saputo che in alcune notti siete state viste aggirarvi nel giardino Stibbert e che vi avete scavato una buca in
terra. È vero? Cosa cercavate?”
“Ecco una domanda a proposito.” È Gina che parla, sorprendentemente; parla con un filo di voce, soffocata dall’affanno.
Elvira se la cava con una risatina.
La passeggiata continua a velocità sostenuta. Solo il rumore
dei passi e dei respiri ansimanti rompe la monotonia del silenzio,
dopo che ho rinunciato a fare altre domande. In poco tempo siamo lontane dagli ultimi sparsi agglomerati suburbani. Il sentiero
torna a inoltrarsi nella boscaglia, inerpicandosi ripido sulle pendici di Monte Morello. La vegetazione diventa più varia e produce quella strana atmosfera di disordine e di abbandono che è tipica delle campagne deruralizzate ma non ancora inurbate, mescolata com’è con una sporcizia fatta di scarichi di calcinacci, sacchetti di plastica e altre immondizie cittadine. E le frangole e i
rovi, gli ornielli e le filliree e i soliti sambuchi cercano invano,
con la loro delicatezza, di fare finta di niente.
Man mano che si sale, l’altezza e il volume degli alberi crescono. Prima sono roveri e roverelle; più avanti, in un crescendo
d’intensità spirituale, cerri, lecci e farnie. Camminiamo per
mezz’ora nel querceto. Quand’ecco, l’atmosfera cambia di nuovo. Il sentiero s’incurva sopra un costone ed entra in un bosco di
cipressi.
300
Ora bisogna sapere che già il cipresso maschio, quello sottile,
lungo e affusolato, è il prodotto di una selezione culturale, inequivocabile opera dell’uomo. Il bosco di cipressi poi è una cosa
che proprio non esiste in natura. Dove c’è, è perché qualcuno ce
l’ha messo. L’atmosfera che vi si respira dunque è quella di un
luogo magico, di un regno fantastico in cui vigono le leggi di una
natura artificiosa. La mano dell’uomo non vi compare di persona,
però la sua presenza è svelata da ogni particella vivente e perfino
da quelle morte, i sassi, i rami secchi e il sottobosco composto di
foglioline squamose e di galbuli color ruggine.
Poco più avanti infatti il bosco si apre e quasi si infrange su
un muro. È una parete alta, dritta e lunga. L’intonaco è stato raschiato via dal tempo. Il sentiero, che ora procede addossato al
muro, è indurito di calcinaccio. Lo seguiamo affascinate. O almeno, io sono tutta presa dal fascino di questa nuova magia.
A un certo punto il muro forma un angolo. Il sentiero lo aggira
e prosegue lungo il nuovo tratto di muro. Lo seguiamo. Le due
donne avanzano sicure, una avanti e una dietro a me.
Giungiamo in un tratto dove la barriera si rompe in una breccia. Non è larga: poche pietre divelte, quanto basta per lasciarvi
strisciare una persona dentro. Elvira vi s’infila senza esitazione.
Gina, dietro di me, mi fa cenno di non indugiare. Entro anch’io.
Lei mi segue.
Come avevo intuito dalle cime degli alberi che si scorgevano
oltre il muro, il recinto racchiude un giardino. Avverto che è un
giardino molto particolare, ma stento a capire cos’è che lo rende
tale.
I sassi che avrebbero dovuto racchiudere le aiuole sono pressoché sommersi dal verde e dal sottobosco; e a fatica si riesce a
intravedere i viottoli su cui si cammina. La vegetazione è fitta e
selvaggia. Diverse piante rampicanti hanno assalito gli alberi e
penzolano dai loro rami come liane. Fiori e cespugli d’insolite
varietà hanno invaso il terreno. Gli alberi sono anch’essi svariati
e delle specie più strane. Eppure mi paiono familiari.
Mi viene da pensare che non si tratta né di un giardino né di
un bosco, bensì di una via di mezzo. Evidentemente è un antico
giardino trasformato in bosco da una prolungata incuria, penso.
301
Non ho tempo di perdermi nelle riflessioni. Le mie due guide
si sono già inoltrate nel fitto della vegetazione. Per non perderle,
mi metto alla loro coda. Le raggiungo e non mi stacco più da loro. Una sorta di trepidazione si sta facendo strada dentro di me e
fatico a resisterle, anche se il contatto con le due donne mi infonde un po’ di coraggio.
Loro camminano spedite, chiaramente conoscono la strada.
Ogni tanto troviamo, nascosti tra le ortiche e i rovi, qualche pietra antica, pezzi di panchine di marmo, frammenti di statue e di
capitelli.
“Questo giardino ha qualcosa di strano,” dico, “ma non riesco
a capire cosa.”
“Ti evoca visioni note, vero?” Risponde Elvira.
“Proprio così. Ma non capisco.”
“Ti aiuto io. Qui abbiamo una copia del giardino Stibbert, una
copia non perfetta, una copia volutamente difforme.”
All’improvviso le due donne si fermano. Dobbiamo aver attraversato tutto il parco, perché davanti a noi, parzialmente nascosti dal folto di una residua vegetazione, s’intravedono i muri
di una costruzione. Gina si toglie lo zaino dalle spalle, lo posa a
terra, lo apre e ne estrae un librone e un laptop. Inserito tra le
pagine del libro, c’è un foglio di carta protocollo. Mentre Gina
avvia il computer, l’altra afferra il libro e ne tira fuori il foglio.
Sbircio il titolo del libro: Alberi esotici in Italia. Il foglio è ripiegato in quattro. Una volta aperto, mi rivela senza pudore il suo
contenuto, che non è altro che un lungo elenco di nomi latini di
piante.
La passeggiata riprende. Ora si procede senza fretta. Ci si ferma a ogni albero. Elvira lo osserva, scorre con la penna lungo il
foglio protocollo e mette una crocetta accanto a un nome. Infine
declama un numero. Qualche volta, prima di scorrere l’elenco, dà
una rapida sfogliata al libro in cerca di conferme.
Ognuno dei numeri declamati viene battuto da Gina sul quaderno elettronico, che tiene appoggiato sull’avambraccio sinistro
mentre vi lavora sopra con la mano destra. Si va avanti così per
un bel pezzo, albero dopo albero, sistematicamente. L’operazio-
302
ne diventa monotona e non riesco a trattenere dei segni d’impazienza.
“Non ti agitare, abbiamo quasi finito. Sei stata fortunata. Sei
capitata il giorno in cui concludiamo. È un lavoro che va avanti
da diverse settimane e solo oggi ne vedremo la fine... spero.” È
sempre Elvira che parla.
“Che lavoro?” Domando.
“Il censimento di tutti gli alberi di questa villa e del giardino
Stibbert.”
“Perché...”
“Un attimo. Non farmi distrarre. Tra poco la tua curiosità sarà
soddisfatta.”
Il gioco continua ancora per una ventina di minuti, lungo un
percorso contorto. Alla fine ci ritroviamo sul margine del bosco,
al cospetto di una costruzione tetra, le finestre sprangate da assi
di legno, i muri sbrecciati e logorati dall’età. Un grande portone
nero è tenuto chiuso da una catena di ferro arrugginito. Il tutto
suscita un’impressione di decadenza e di mistero.
Le due matte si siedono su una vecchia panchina di pietra, e
Gina si concentra sul lavoro al computer, che ora tiene appoggiato sulle ginocchia. Elvira attende il risultato del calcolo, direi
con ansia. Il calcolo non dura a lungo. Alla fine Gina dice:
“Ci siamo. È il numero 79.”
Elvira apre il foglio protocollo. Cerca il numero 79. Legge il
nome che gli corrisponde. Poi, data una veloce scorsa all’indice
analitico del librone, cerca la pagina che descrive quell’albero.
Legge con attenzione, molto concentrata, in silenzio. Infine
erompe:
“Non poteva essere che lui: il siliquastro, Cercis Siliquastrum.”
“Non poteva essere che cosa?” Domando.
“La dimostrazione della nostra teoria, e la risposta alla tua
domanda di poco fa.”
“Quale?”
“Cosa stavamo cercando, quella notte che scavammo nel giardino Stibbert?”
“Cosa stavate cercando?”
303
“L’albero della vita. Già sai che quel giardino è un antilabirinto, la rappresentazione della perdizione del mondo e nello
stesso tempo delle vie che conducono a un altro mondo, cioè al
paradiso terrestre, un paradiso che è appunto terrestre. È altro dal
mondo, ma non sta altrove. Solo che è inaccessibile ai più. Bisogna cercarlo. Bisogna cercare la via d’accesso, al contrario che in
un labirinto, di cui devi cercare la via d’uscita. E molti sono i
chiamati, sta scritto, non tutti. Pochi gli eletti, ad ogni modo.”
“Che c’entra il siliquastro?”
“Secondo la Genesi, Adamo ed Eva furono cacciati dall’Eden
per aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene
e del male. Furono cacciati per impedire che mangiassero anche
il frutto dell’albero della vita e diventassero, così, simili a Dio. È
questo lo scopo dell’ascesi, della ricerca della verità nel mondo:
trovare l’albero della vita, un albero che sta nascosto nel paradiso.”
“È l’albero che stavate cercando?”
“Esatto. Avevamo elaborato un modello che ci doveva dare la
chiave dell’enigma. Ricordi il cancelletto di Tiresia e di Ifi? Te
ne abbiamo parlato l’altra volta.”
“Sì.”
“Si apriva su un vialetto che si biforcava in due altri vialetti
che conducevano di nuovo al cancello.”
Tira fuori dallo zaino la mappa del giardino, la dispiega, la
stende per terra davanti a me e con un dito m’indica un punto su
di essa, un punto segnato con la lettera C.
“Questo, vedi? è il punto critico della mappa. Da esso, girando in un cerchio di vialetti, si passa al cancello. Ad esso si torna
seguendo i viali su cui il cancello apre. Ad esso convergono tutti
i viali del giardino. Infine questo punto rappresenta il centro della
croce formata dal cardo e dal decumano del parco. Qui doveva
trovarsi l’albero della vita. Però non c’era.”
“Dov’era andato?”
“Doveva essere stato lì ai tempi degli Stibbert. In seguito,
morti loro, può essere stato tagliato da qualche giardiniere comunale. Così, per verificare la nostra teoria siamo andate a scavare in quel punto.”
304
“E cosa avete trovato?”
“Poco, quasi niente. Una terra di consistenza e colore diversi
da quella circostante, indizio che lì potevano effettivamente
esserci state le radici di un albero. Ma ciò non provava nulla. Ad
ogni modo non potevamo sapere quale tipo di albero fosse.”
È sempre Elvira che parla. L’altra se ne sta seduta per terra
con la schiena appoggiata al siliquastro, gli occhi persi nel vuoto.
Pare in trance, e sembra non ascoltare la nostra conversazione.
“Per fortuna c’era quest’altro giardino.” Riprende, sempre Elvira.
“Già, che c’entra quest’altro?”
“Era un’antica villa. Nell’Ottocento divenne anch’essa proprietà degli Stibbert, che l’affittarono a Robert Browning. Abbiamo cercato di risalire indietro nella storia e siamo arrivati fino al
Quattrocento, quando apparteneva a un mecenate che si dilettava
di filosofia neoplatonica. Nel tardo Cinquecento è appartenuta al
granduca Francesco I, l’alchimista; nel Seicento, a un ricco medico che fu processato e messo al rogo per stregoneria. Secondo gli
atti del processo, si erano tenute terribili pratiche magiche in questo giardino.”
Mi corre un brivido nella schiena. Gina si volta verso di me e
mi guarda assorta negli occhi senza parlare. Poi si alza, si mette
lo zaino in spalla e, rivolta a Elvira:
“Bisogna andare,” dice, “se non vogliamo far notte.”
“Andare dove?” Domando.
“In cima a Monte Morello, dove dobbiamo verificare un’altra
ipotesi.” Risponde Elvira.
Così ci alziamo e ci rimettiamo in marcia. Gina ci precede di
una dozzina di passi. Io ed Elvira avanziamo l’una accanto all’altra, continuando la conversazione.
“Gli Stibbert”, riprende lei mentre camminiamo a passo sostenuto, “comprarono la villa nel 1858 e la ristrutturarono completamente. È probabile che la ristrutturazione sia stata realizzata insieme a quella di villa Stibbert, che pure nella stessa epoca fu
fatta oggetto di ampi rimaneggiamenti architettonici. Ebbene,
questo giardino è una copia della villa fiorentina.”
305
“Una copia difforme.” Precisa Gina che, pur distanziata da noi
di diversi metri, non si perde una parola della conversazione.
“Infatti,” riprende l’altra, “una copia della sola metà settentrionale, la sezione che abbraccia la parte greca della croce.”
“Che vuol dire?” La interrompo.
“Secondo noi vorrebbe dire che la villa di monte Morello rappresenta una sorta di anima esoterica dell’altra. In essa dovevano
svolgersi le cerimonie più segrete dell’Ordine. Gli alberi delle
parti dei due giardini che si sovrappongono sono pressoché gli
stessi, delle stesse specie, voglio dire, e dislocati nello stesso modo. A ogni albero di qui ne corrisponde uno di là.”
“Hai detto ‘pressoché’?”
“Be’, è passato un bel po’ di tempo dalla morte di Federigo
Stibbert, e qualche pianta sarà caduta, nuovi alberi saranno cresciuti. Tuttavia per gli alberi secolari la corrispondenza è perfetta. Anche per i meno antichi è molto buona, non per i giovanissimi. Segno che fino a una certa epoca, magari abbastanza recente, una tradizione è stata rispettata. Mi segui?”
“Perfettamente. Vai avanti.”
“Insomma abbiamo ricostruito lo schema dei due giardini,
riempiendo i vuoti e cancellando le piante che ci sembravano
troppo giovani. Alla fine abbiamo individuato l’albero della vita.
Che è uno che si trova, nel giardino del monte, precisamente nel
luogo che corrisponde al punto C del giardino della città. È un
albero che deve avere poco più di cent’anni. Quindi può essere
stato piantato dagli Stibbert. Senonché non esiste un suo corrispondente nell’altro giardino. Segno che lì deve essere stato tagliato.”
“O che non c’è nessuna corrispondenza. Ma non mi hai detto
perché ci tenevate tanto a conoscere la specie dell’albero della
vita.”
“Siamo convinti che quest’albero esprime in nuce la filosofia
del giardino Stibbert.”
“Hai detto ‘convinti’?”
“Sì, nel noi includo Luciano. È una ricerca che abbiamo svolto insieme a lui.”
306
“E lui, un uomo così razionale e ipercritico,” sparo, “vi seguiva in tutta questa farragine di occultismo?”
“Anzi è stato lui che ci ha avviato alla ricerca, ci ha indirizzato e istruito. Lui è quasi completamente d’accordo con le nostre idee. O forse dovrei dire ‘le sue’. Ci divide però una divergenza interpretativa di non poco conto...”
“Su cosa?”
“Sulla Genesi. Noi tendiamo a una visione storica ed escatologica. Lui a una soteriologica.”
“Soterio che?”
“La scienza della salvezza dell’anima.” Detto ciò, si ferma.
Prende la borraccia, dà un lungo sorso. Me la passa e si rimette in
cammino. Bevo anch’io e riprendo fiato. Il sentiero ha ricominciato a salire ripido. Sono le cinque del pomeriggio, il sole continua a picchiare duro. La stanchezza si fa sentire e mi fa sudare
abbondantemente. Le mie compagne di passeggiata non soffrono
di meno. Il sudore è così abbondante sul corpo di Gina che short
e t-shirt sarebbero da strizzare. Gli si sono appiccicati alla pelle e
svelano al sole e ai miei occhi ammirati forme snelle e flessuose
di una delicata sensualità.
“Quanto manca alla cima?” Domando con uno sbuffo.
“Mezz’ora circa.” Risponde Elvira, da dietro di me, invisibile,
nascosta dagli alberi oltre una curva del sentiero; e sembra la voce di un genio del bosco. Il quale bosco nel frattempo ha di nuovo cambiato aspetto. Adesso è dominato dagli abeti, i pini mughi
e i larici, i veri alberi di montagna, con la loro atmosfera cupa e
severa. Ma, qua e là, ancora qualche quercia maestosa cerca di
preservare l’aura di sacralità che dà il tono a tutto il monte.
“Parlami di quest’albero della vita.” Continuo, rivolta a Elvira.
“Il siliquastro è noto anche come albero di Giuda. Secondo
un’antica tradizione eretica è l’albero sotto cui Giuda baciò Gesù
e ai cui rami infine si impiccò. Giuda non sarebbe un volgare traditore, bensì l’apostolo che interpretò il messaggio di Cristo in
termini iniziatici. Con il bacio a Gesù tentò di farsi simile a Dio,
di completare l’opera cominciata da Eva e Adamo. L’albero della
conoscenza del bene e del male aveva dato all’uomo la coscienza
307
morale, differenziandolo dall’animale. L’albero della vita gli avrebbe fatto fare un altro passo avanti. Giuda tentò l’impresa ma
fallì. Dopo di lui altri tentarono in nome di Cristo. Tutta la saga
della cerca del Graal, ad esempio, s’inscrive in questa tradizione.”
“Che c’entra il Graal adesso?”
“Vedrai che c’entra.”
Ne prendo nota mentalmente, ricordandomi che il Graal era
menzionato nella poesia dedicatami da Luciano. Poi riprendo:
“Torniamo all’albero della vita.”
“Il siliquastro è noto ancora con un altro nome...”
“Cioè?”
“Albero dell’amore, nome che probabilmente gli deriva da alcune sue proprietà morfologiche. Le foglie hanno una perfetta
forma di cuore. I fiori, di un intenso color porpora, hanno la forma di piccole labbra. Ma la cosa più interessante è che si tratta di
una pianta ermafrodita.”
“Perché interessante?”
“Ecco una domanda interessante. Sull’interpretazione di questo simbolo vertevano le principali divergenze tra il compagno
Luciano e noi.”
“Cosa pensava Luciano?”
Lei, ignorando la mia domanda, e come seguendo un suo dialogo interiore, fa:
“Sta tutto scritto nella Bibbia. Epperò quante diverse verità in
ogni parola! Secondo noi la Genesi è una teoria della filogenesi
umana e contiene una chiara implicazione teleologica, una promessa utopica. L’essere umano fu creato maschio e femmina,
dice Mosè. Ciò significa che nell’orda preistorica non esistevano
stratificazioni sociali basate sul sesso. La storia dell’umanità comincia con la dialettica dei sessi. Tutta la storia è storia di lotte di
genere. Prima ci fu il conflitto tra Adamo e Lilith, la diavola che
non accettava il rapporto sessuale in posizione sottomessa. Poi la
vicenda di Adamo ed Eva e quella di Caino e Abele, quest’ultimo essendo una figura della femminilità. Il racconto delle origini
narra dei tentativi del maschio di sottomettere la femmina e della
femmina di liberarsi dal potere maschile. Il messaggio fonda-
308
mentale della Genesi è che l’uomo incarna il principio d’autorità,
la donna il principio di ribellione. La donna, nata alla storia già
sottomessa, quale costola dell’uomo, non può affermare la propria umanità se non rivoltandosi contro il primum movens della
propria oppressione. Nel movimento della propria liberazione
trascina con sé l’uomo stesso. Tutto il dinamismo della storia
conosciuta, il progresso, la crescita, la civilizzazione, proviene
dall’impulso rivoluzionario che le donne riescono a infondere
negli uomini. Per questo la femmina, complice di Lucifero, l’angelo ribelle, ha sempre rappresentato il peccato e la tentazione.
Tutto quel che è reazione e conservazione, d’altra parte, rientra
nell’orizzonte politico del maschile.”
“Vabbè, ma che c’entra con l’albero di Giuda?”
“Con l’albero dell’amore! O della vita.”
“Sia pure.”
“L’albero dell’amore è ermafrodito. In quanto tale è simbolo
della condizione primigenia dell’umanità. Il frutto dell’albero
della vita, a cui il genere umano ha perennemente teso fin dalla
nascita, è il sogno di un’umanità pacificata. Il movimento storico
è una grande rivoluzione. Come un pianeta compie una rivoluzione facendo un giro completo intorno al sole, così l’umanità
compirà la propria rivoluzione quando tornerà alla promiscuità
delle origini. Tuttavia, poiché il sole è in movimento, il punto
d’arrivo non sarà lo stesso del punto di partenza. Il comunismo
finale, per dirlo col giovane Marx, nega e realizza la storia e riporta alle origini, però a un livello di coscienza superiore. Il comunismo primitivo è lo stato animale dell’umanità, quello finale
è lo stato divino. Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, cioè maschio e femmina.”
Senza accorgercene ci ritroviamo in cima al monte. Il bosco,
come fosse stato rasato da un gigantesco rasoio, s’interrompe
seccamente ai margini di un’ampia radura verde. Una volta fuori
dal folto degli alberi, ancora cinquanta metri di lieve pendio ed
eccoci sul cucuzzolo calvo del monte. Sono stanca morta. Appena arrivo in cima mi stendo per terra e cerco di riprendere conoscenza. L’orologio segna le cinque e mezzo e il sole è sempre
splendente. Non c’è un alito di vento, né l’ombra di un albero
309
sotto cui cercare refrigerio. Anche le mie due accompagnatrici si
sdraiano in terra, giusto il tempo di calmare il respiro. Dopo di
che, si alzano e si rimettono al lavoro. Gina tira fuori dallo zaino
un binocolo, una cartina geografica e una bussola. Passa gli ultimi due strumenti all’amica e con il primo si mette a scrutare lungo le pendici del monte.
Incuriosita, sollevo il busto da terra anch’io e guardo giù. Per
piccolo e non bello che sia, monte Morello se ne sta maestoso
sopra a Firenze; e lei, distesa sul fondo della val d’Arno, giace ai
suoi piedi come un tappeto di preghiera al cospetto dell’eterno.
Elvira, quasi traducendo in prosa il mio sentimento, dice:
“Questo, per i romani, era il monte sacro di Firenze. Il suo nome era monte Amor, dove ‘Amor’ sta sia per ‘amore’ sia per il
rovescio di ‘Roma’. Era consacrato alla trinità pagana, Giove,
Marte e Quirino. Ha tre cime, infatti, e ognuna è dedicata a un
Dio. Monte Amor, capisci? I fiorentini, col passare del tempo, un
po’ per l’influsso del cristianesimo blasfemo e un po’ sotto la
spinta della vena iconoclasta che fluisce dalla loro titanica anima
di bottegai, hanno trasformato Amor in Amorello.”
Mi volto indietro a guardare le altre due cime del monte, che
prima avevo solo intravisto. Sono arrotondate e calve anch’esse.
Poi torno a osservare le bellezze della val d’Arno mentre il cielo
comincia a riempirsi dei colori caldi che preludono al tramonto.
Le due donne lavorano. Elvira orienta la cartina. Poggia la
bussola su di essa lungo un segmento tracciato con la matita. Finite le operazioni di orientamento, impartisce delle istruzioni a
Gina:
“Un po’ più a destra, ancora un po’. Ecco, ora dovresti esserci.”
L’altra, col binocolo incollato agli occhi, segue le istruzioni
cambiando la direzione di osservazione con un movimento rotatorio del busto. Quando trova la direzione giusta, smette il movimento orizzontale e ne comincia uno dall’alto in basso e viceversa. Continua così per qualche minuto, adagio, su e giù col binocolo, puntandolo ora su Firenze ora sulle pendici del monte.
Infine prorompe:
310
“Eccola! Sembra proprio a metà strada.” E passa il binocolo
all’amica, indicando col dito il punto in cui guardare. L’altra osserva, poi afferra la cartina e con la matita ci traccia sopra una
crocetta.
“Si può sapere cosa state facendo?” Domando.
“L’ultima verifica della nostra teoria.” Risponde Elvira.
“E sarebbe?”
“Guarda.” Dice, mostrandomi la cartina e indicando con la
matita i due punti terminali della linea disegnata. Prima l’uno e
poi l’altro me li mostra, ripetutamente. “Questo è il posto dove
ora ci troviamo noi e questa è villa Stibbert.”
Quindi, dopo essersi accertata che ho osservato bene, m’indica il punto con la crocetta a metà linea. Conclude:
“Questa è la villa del siliquastro.”
“Che vuol dire?”
“I tre punti sono perfettamente allineati lungo l’asse NordSud. Rappresentano tre luoghi sacri della tradizione occulta che
faceva capo agli Stibbert, e tre livelli della scala iniziatica. Villa
Stibbert era la porta esterna; la villa del siliquastro, la sede segreta in cui si svolgevano le cerimonie dell’alta iniziazione; la
cima del monte, l’altare in cui si praticavano i riti più sacri.”
“Che riti?” La interrompo.
“Non ne sai niente tu?”
La domanda mi coglie di sorpresa. Lei insiste:
“Non ci sei mai stata qui con Luciano?”
La mia sorpresa ora raddoppia. Mi viene in mente che proprio
una settimana prima di morire Luciano mi aveva invitata a una
escursione su monte Morello, che però non facemmo.
“Allora, ci sei mai stata?” Insiste Elvira, che si è accorta della
mia incertezza.
“No.”
“Be’, comunque ti ci avrebbe portato, prima o poi.”
“Perché? E come fai a saperlo?”
“Noi conosciamo bene la natura del rapporto che legava Luciano a te. La conosciamo meglio di quanto la conosci tu stessa.”
“Per questo, prima, mi avete fatto quelle domande sulla mia
professione e tutto il resto?”
311
“No. Solo per capire qual è il tuo livello di consapevolezza.”
“Cosa avete capito?
“Che non è il top.”
“Cos’è che non saprei?”
“Come Luciano ti usava. Per lui eri la puttana santa.”
Al che esplodo in una risata fragorosa, e quasi convinta.
“C’è poco da ridere.” Interviene Gina, stavolta. “Abbiamo letto una quartina mostrataci da lui. Sappiamo che era destinata a te.
È intitolata proprio così: Puttana santa.”
“Dedicata a me?”
“No, ho detto destinata. Tu eri la sua Ginevra. Tu...”
Ma non finisce la frase, la bocca della verità. È gelata da uno
sguardo di Elvira. La quale, riacquistata la sua durezza, si alza di
scatto e afferra lo zaino.
“Si sta facendo scuro,” dice, “è ora di andare.” E si avvia verso la discesa.
Gina si alza subito e le si mette dietro come un cagnolino ma
arrabbiato. Dopo un attimo di esitazione mi alzo anch’io e inseguo le due matte. Mi sovviene che Puttana santa era la destinataria che compariva sul post-it attaccato da Luciano sul libro
speditomi prima del viaggio in Africa.
Ora la mia curiosità è alle stelle. Cerco di riavviare la conversazione. Non ho intenzione di mollare le due donne finché non
mi hanno detto tutto ciò che sanno.
La discesa è veloce e piuttosto pericolosa. Le ginocchia mi
dolgono e il fiatone mi fa boccheggiare. Non c’è modo di sostenere una gran conversazione. Nondimeno qualche notizia riesco
a strapparla, qualche notizia e una promessa. Dopo un’ora di
cammino Elvira si stacca da me e da Gina e se ne va per conto
suo. Pare una bambina capricciosa. Noi altre due ne approfittiamo per rallentare la marcia e scambiarci poche parole. Così vengo a sapere che quella quartina Luciano l’ha scritta a matita sulla
pagina di un libro antico conservato nell’inferno della biblioteca
Stibbert. La promessa è di mostrarmi il libro.
“Anche Elvira dovrà convincersi che è necessario mostrartelo.” Conclude. Mi spiega che lo faranno dopodomani sera, quando ci vedremo a casa loro.
312
Martedì, 2 luglio
Ormai comincio a vederci abbastanza chiaro. Restano da inserire
alcuni tasselli e il puzzle sarà ricomposto. L’ultimo tassello spero
di poterlo mettere quando avrò letto Puttana santa.
Perciò stamani presto mi reco all’ufficio di Giuliano. La segretaria che ha preso il posto di Lilli è una ventenne super sexy,
viso da bambola e corpo da Barbi con una lieve tendenza al lardoso. È qui da poche settimane e già tratta Giuliano come cosa
che gestisce lei.
“Il dottore è molto occupato ora e non può ricevere nessuno.”
Mi fa. “Se crede, posso fissarle un appuntamento per un altro
giorno.”
“Senti sciacquetta, alza quelle chiappe cellulitiche e va subito
da lui. Digli solo che lo voglio vedere io.”
Quando torna ha abbassato la cresta. Con una voce stridente
di rabbia repressa mi dice semplicemente:
“Può entrare.”
Lui sta prendendo il caffè. Tiene la tazzina fumante nella mano sinistra con l’indice e il pollice, mentre la sigaretta, tra l’indice e il medio della stessa mano, mischia il suo fumo a quello
del caffè. Con l’altra tiene il ricevitore del telefono, che posa
sull’apparecchio appena mi vede. Mi accoglie cordialmente e mi
offre un caffè. Dal citofono ordina alla sciacquetta di andare subito a prenderlo al bar.
Mi siedo davanti alla sua maestosa scrivania di direttore amministrativo e la prima cosa che faccio è di ingiungergli di restituirmi il mio diario. Me l’ha sottratto l’altro ieri, non contento
di avermi già derubato del libro sull’Africa speditomi da Luciano. Due giorni fa, rientrando a casa la notte tardi ho trovato di
nuovo la scrivania sottosopra e tutte le mia carte sparse per terra.
Il diario era sparito. Il resto della casa non era stato toccato. Evidentemente il ladro sapeva cosa cercare. Non è stato difficile dedurre che doveva essere Giuliano.
Perché è tanto interessato al mio diario? O forse cercava qualcos’altro? Magari il quinto capitolo del Nuovo corso? Se è così, è
rimasto fregato, perché quel manoscritto non è ancora nelle mie
313
mani. Gli ingiungo di rendermi il diario. Lui mi guarda beffardo
da dietro la scrivania. Mi osserva in silenzio per qualche secondo. Quindi, calmo, apre un cassetto, ne tira fuori il diario e me lo
restituisce.
Intanto è arrivato il caffè. Mentre lo sorseggio, passiamo ad
altri argomenti. Chiacchieriamo del trekking sul Kilimangiaro e
del safari, che ormai sembra un’esperienza da collocare tra i ricordi perduti. Infine veniamo al sodo. Gli rivelo che ho decifrato
il quarto capitolo del Nuovo Corso e che ho trovato il solito messaggio. Gli spiego il codice, stavolta. Lui prende una matita e si
scrive la formula su un blocco note. Poi tira fuori dal cassetto i
cinque fogli con gli aforismi del quarto capitolo.
È poco convinto. Dà una scorsa ai fogli seguendo la lettura
con la matita. Man mano che legge, individua le lettere del messaggio applicando la formula che gli ho rivelato. Le sottolinea e
le trascrive ad una ad una sul blocco note. Infine afferra il blocco
e legge:
“Cerca oltre cerca ancora cerca.”
Dopo alcuni secondi che paiono di profonda riflessione, ma
che forse sono di perplessità, dice:
“Bene, grazie. Mi hai risparmiato un lavoro inutile. Vuol dire
che bisognerà proseguire la ricerca nel quinto capitolo.”
“Non ce n’è bisogno. Ho decifrato pure quello.” Mento.
“Che hai trovato? Il solito messaggio anche lì?”
“No. Stavolta no.”
“Che cosa, allora?” Con un’alzata di sopracciglia appena percettibile.
Cerco di tenerlo sulle spine:
“I vari messaggi non potevano rinviare sempre oltre. Ci doveva essere un punto d’arrivo. Siccome il quinto capitolo è l’ultimo...”
“Qual è il punto d’arrivo?”
“È stata una sorpresa. Tutto m’aspettavo, meno che una cosa
del genere. Infine, quando ho trovato questa cosa, ho capito.”
“Hai capito tutto?”
“Quasi. Mi manca un’ultima informazione, che non dispero di
trovare presto.”
314
“Trovare cosa?”
“La chiave della verità, naturalmente.”
“Come la troverai?”
“Devo incontrare delle persone.”
“Chi sono?”
“Non telo dico.”
“Tanto lo so. Sono le vergini rosse, le due pazze.”
“Bravo.”
“E quando l’avrai trovata, la verità, spero vorrai mettermi in
condizione di conoscerla anch’io.”
“Giuliano, non fare il furbo con me. Lo so che tutto ciò che io
scopro, in questa storia, tu già lo conosci.”
“Quasi tutto, potrei dire con le tue parole.”
“Infatti.”
“Intanto”, prosegue, “non conosco il messaggio nascosto
nell’ultimo capitolo del Nuovo corso.”
“Questo te lo dico io.”
Lui mi fissa intensamente. Lo tengo a rosolare ancora per un
po’, infine sparo:
“Il messaggio è un nome di persona.”
“Quale?”
“Il mio.”
Lui continua a guardarmi intensamente. Solo un impercettibile
assottigliarsi degli occhi ne tradisce l’incertezza. Sicuramente si
sta domandando: – sarà vero? Lascia passare qualche altro secondo di silenzio. Infine, come risvegliandosi da un breve sonno,
dice:
“Sai cosa significa?”
“Sì. E non ho paura. Sai perché?”
“Perché?”
“C’è una cosa che tu hai bisogno di conoscere: quella che
forse scoprirò domani.”
“Bene. Quindi possiamo incontrarci domani.”
“No. Dopodomani. A casa mia. Alle nove.”
“Magnifico!”
315
Me ne vado senza una parola di più. Quando passo davanti
alla segretaria cellulitica, manco rispondo al suo saluto reverenziale.
Sono già tutta in fermento per l’attesa di un altro appuntamento: stasera alle sette, con Lucrezia. Sono emozionata. Da giorni
non penso ad altro. Ho anche riflettuto sulle ragioni di questa
eccitazione e non mi è stato difficile ammettere una semplice
verità: che la donna mi attrae. Potrebbe essere una specie d’innamoramento vicario, che so? una proiezione sulla sua ex compagna di un sentimento suscitato e frustrato da Luciano. Ho evitato
però di approfondire la faccenda. Bando alla psicologia!
No, non ho voluto cedere all’elucubrazione mentale. Invece
mi sono lasciata prendere dal sentimento peggio di una fanciulla
alle prime armi, e mi sono abbandonata alla reverie. Già faccio
con lei dei deliziosi dialoghi interiori e non passa notte che non
sogni di dormire nel suo letto, solo dormire, abbracciate come
due sorelle. Stasera mi decido: si viene al sodo, accada quel che
accada.
In ogni caso ho da chiarire con lei due questioni di una certa
importanza. Appena giunta a casa sua, affronto la prima. Seduta
su un divano, con in mano una coppa di Ferrari freddo al punto
giusto, le dico apertamente che temo per la sua vita e che deve
stare in guardia da Giuliano. Lei, seduta a terra con le gambe incrociate in mezzo a un mucchio di cuscini indiani, mi guarda con
amore filiale. La mia apprensione non la sconvolge. Insisto sulla
gravità della situazione fino a strapparle la promessa che nei
prossimi giorni starà alla larga da quell’uomo.
Quindi passo all’altra questione: il quinto capitolo del Nuovo
corso di Luciano, di cui lei possiede l’unica copia esistente. Mi
ero preparata un lungo discorso e un’accorta strategia di persuasione. Avrei dovuto avere il capitolo ad ogni costo. Invece,
appena lo menziono, lei si alza e va in un’altra camera. Torna
con cinque fogli manoscritti tutti ciancicati e me li consegna col
più dolce e disarmante dei sorrisi.
Sbrigate le faccende pratiche, ci ritroviamo con la notte intera
davanti a noi. Mangiamo in cucina, un localino angusto con le
pareti piene di ammennicoli e poster floreali. Un ventilatore si
316
sforza con scarsi risultati di abbattere il caldo della sera. Non è
una cena pretenziosa. Il vino da tavola amabile e senza nome è
quasi un dispetto a confronto di quello che abbiamo bevuto per
aperitivo. I cibi sono semplici, insalata di riso, fettine alla pizzaiola e panna cotta, e tutti preparati con le sue manine d’oro. Alla
fine si torna alla mezza bottiglia di Ferrari. Con una coppa ciascuna, piena fino all’orlo, torniamo in salotto e ci sediamo vicine
sul divano. Nelle viscere di un CD-player gira un John Lennon
d’annata, sempre lo stesso da quando sono entrata. Contribuisce
a creare l’atmosfera giusta.
Rapita da quella musica di malinconica ribellione, Lucrezia
sembra cadere fuori dal mondo di tanto in tanto e mi guarda trasognata. Quando si riprende, la conversazione torna viva e piacevole. Parliamo a lungo, delle cose più insulse e insignificanti,
così, per il solo piacere di comunicare.
Ripetutamente cerco di portare la conversazione su di lei.
Voglio conoscerla meglio e le faccio molte domande, sulla sua
vita, i suoi interessi, il lavoro. Appena mi avvicino a questi argomenti, lei s’irrigidisce, come bloccata da una sorta di timidezza
infantile, una pudicizia non scevra di una certa malizia però. Allora decido di aggirare l’ostacolo e porto la conversazione sul
suo rapporto con Luciano, argomento che peraltro m’interessa di
per sé.
Le chiedo di spiegarmi i motivi profondi della loro rottura. Lei
fa qualche resistenza ma non troppa. Dice che me ne ha già parlato. Io ribatto che non fa niente, che mi piacerebbe risentirla
quella triste storia. Mentre lei parla, mi rendo conto che di ciò
che mi racconta su Luciano mi importa relativamente poco. Più
interessante è ciò che dice di se stessa.
“Avevamo due caratteri diversi,” attacca, “se non proprio opposti. All’inizio non era un problema. Ci completavamo: io gli
davo stabilità, lui mi dava la carica. Mi diceva che avevo tutte le
qualità che a lui mancavano e che, stando con lui, gliene passavo
un po’. Si sentiva, per merito mio, più concreto, più aperto, più
ottimista e anche più sicuro di sé. Pareva un sogno, e durò a lungo. Poi venne l’inferno. Quando cominciammo ad allontanarci, le
mie doti divennero difetti, e io un castigo di Dio.”
317
“Come possono delle doti trasformarsi in difetti?”
“Ah, semplicemente le guardava da un’altra prospettiva. La
mia disponibilità, la mia apertura verso gli altri, la mia tendenza
a commuovermi per le sofferenze umane, erano diventate forme
di sentimentalismo deamicisiano. Quando regalavo mille lire a
un lavavetri, lui s’incazzava a morte. Diceva che così non facevo
del bene al prossimo, ma incoraggiavo la furfanteria. Mi spiegava che non lo facevo veramente per amore del prossimo bensì per
compiacere un demone puerile che mi dominava e si burlava di
me.”
“Già. Lui detestava il demone della bontà.”
“Io non mi facevo turbare. Erano due opposte filosofie della
vita che finalmente venivano alla luce e si scontravano. Recentemente ho lavorato sui tossico-dipendenti in un quartiere di degrado sociale. I colleghi mi chiamano ‘la buona samaritana’, soprannome che peraltro non mi dispiace. Semplicemente, svolgo
bene il mio mestiere e quindi lavoro di più di quanto fanno in
media i miei colleghi. Io me ne frego dei colleghi e penso che
riuscire a salvare un solo ragazzo dall’abbrutimento sarebbe una
gratificazione sufficiente per compensare, oltre che la loro irrisione, il mio sopralavoro. Be’, sai cosa mi disse Luciano quando
gli feci un discorso del genere?”
“Cosa?”
“Che quand’anche fossi riuscita a salvare un ragazzo dall’eroina, il mondo non sarebbe cambiato minimamente e sarebbe rimasto lo stesso sistema di sfruttamento, alienazione e oppressione che spinge i ragazzi a bruciarsi il cervello.”
“E tu?”
“Io credo che un mondo con un infelice in meno è meglio di
un mondo con un infelice in più. Forse quello che facevo io era
poco, gli dissi. Ma era senz’altro molto rispetto al niente che faceva lui.”
“E lui?”
“Diceva che avevo sempre avuto l’animo della dama di S.
Vincenzo.”
“Che stronzo!”
“Lo puoi dire forte.”
318
“Che stronzo!!!”
“Inoltre derideva il mio senso del dovere e il rispetto che ho
per la legge, le convenzioni sociali e il galateo. Io insegnavo a
mia figlia a stare a tavola, a usare correttamente coltello e forchetta, a non fare rumori con la bocca. E lui ogni tanto ci mollava
dei rutti tremendi. La cosa che più m’irritava è che lo faceva con
intenti educativi. Bisogna conoscere le regole – diceva – ma a
volte bisogna saperle trasgredire. Quando cercavo di spiegargli
che le norme rendono possibile la convivenza civile, che nessuno
ama pestare le cacche di cane sul marciapiede e che chi porta il
cane a cacare sul marciapiede non è un anarchico, è un cane, lui
sai cosa mi rispondeva?”
“Cosa?”
“Che non mi sono mai liberata della mentalità piccolo borghese. Lui i cani e gli infami, i delinquenti e gli schizzati li aveva
eletti a proprio ideale. Li definiva ribelli senza fedi e li collocava un gradino più in alto dei comunisti e degli anarchici. Io non
capivo bene se scherzava o faceva sul serio.”
“Secondo me non faceva mai sul serio.”
“Una volta”, riprende, “ci scontrammo duramente in una discussione sul senso della vita.”
“Addirittura!”
“Sì, sul senso della vita. Secondo me è la ricerca della felicità
che dà valore a una vita. Ognuno ha una sua idea personale della
felicità; ma tutti la perseguono, consapevoli o no. Secondo lui
questa era una cacata ideologica. Roba da Secolo dei Lumi. Oggi
non ci crederebbero più neanche gli americani.”
“Li odiava tanto gli americani!”
“No, al contrario. Li ammirava. – Hanno dato al mondo tre
cose importanti – diceva – il pragmatismo, Marilyn Monroe e
l’Harley Davidson.”
“Torniamo alla felicità.”
“Lui sosteneva che una vita mossa dalla ricerca della felicità
non sarebbe degna di essere vissuta, e poi che le cose in realtà
non andrebbero in questo modo. Sarebbero ben altre le forze che
tengono in vita gli uomini, secondo lui.”
“Quali?”
319
“La fede, l’orgoglio, l’amore, l’odio, il senso del dovere o di
un destino da compiere. Insomma: le passioni. Non solo è così,
insisteva, ma è bene che lo sia.”
“Perché?”
“Questo non me l’ha spiegato. Il fatto è che così piaceva a lui.
Continuava a tacciare le mie idee di perbenismo piccolo borghese. Che è la massima offesa, detta da lui. A volte era veramente offensivo. Anzi, credo che spesso cercava le discussioni
elevate proprio per cogliere l’occasione di offendermi. Ci metteva una particolare cattiveria nello sparare i suoi giudizi perentori e le sue stronzate filosofiche.”
“E tu come reagivi? Ti lasciavi insultare?”
“Io non me la prendevo...”
“Male!”
“Sapevo che il problema era suo. Cercavo per quanto possibile di non scendere al suo livello e spesso rispondevo con la
comprensione. Il che naturalmente lo mandava in bestia. Sai cosa
mi disse una volta?”
“Cosa?”
“Che il mio più potente meccanismo di difesa era la dabbenaggine.”
“Che stronzo!”
“Lo puoi dire forte.”
E insieme:
“Che stronzo!!”
Scoppiamo a ridere e ci abbracciamo, e nell’abbraccio i nostri
visi si toccano. Indugio qualche istante nel caldo contatto, inspirando il profumo della sua pelle. Lei non si tira subito indietro e
quei pochi istanti sono più deliziosi di una promessa. Si è creato
il clima giusto. Lucrezia, forse imbarazzata da quel fugace contatto fisico, si alza dal divano e va al rack per cambiare musica.
Le dico che John Lennon mi piace e le chiedo di lasciarlo. Mentre lui ricomincia a cantare Immagine, lei torna a sedere accanto a
me.
“Ti piace questa canzone?” Mi fa.
“Sì, anche se non è roba della mia generazione.”
320
“A me piace da morire, per le parole e per la musica. Conosci
le parole?”
“Vagamente.”
“Parla di un mondo senza paradiso e senza inferno, dove la
gente vive alla giornata.” Traduce in prosa man mano che il poeta canta. “Non ci sono né patrie né religioni. Né nemici da uccidere né fedi per cui morire. Non esiste proprietà e quindi niente
avidità e niente miseria. Tutti gli uomini sono fratelli e posseggono il mondo in comune. Dirai che sono una sognatrice, ma non
sono la sola, e se tu ti unisci a noi allora il mondo...”
Che tenerezza. Deve aver superato la quarantina questa donna,
e ha ancora l’animo di una sovversiva. Mi viene da piangere per
la commozione. Lei se ne accorge e capisce fischi per fiaschi.
S’interrompe e mi guarda negli occhi con uno sguardo interrogativo tra l’ingenuo e il perplesso, uno sguardo limpido, dal profondo dei suoi occhi neri. Metto la mia mano destra sulla sua
sinistra, che tiene appoggiata su un ginocchio. Lei gira la mano e
mi porge il palmo. Ci stringiamo le mani che sembriamo due tredicenni. Stiamo così per un po’, mano nella mano, occhi negli
occhi, mentre John Lennon, galeotto, ci canta la sua poesia smielata. Ora dice:
Love is touch
Touch is love
Love is reaching
Reaching love
Love is asking
To be loved.
Chiedo:
“Vuoi ballare?”
Lei abbassa lo sguardo e arrossisce come una smorfiosetta.
Non mi risponde. Allora le stringo più forte la mano, che ho ben
salda nella mia, e la tiro su. Lei si lascia trascinare. Non le faccio
fare neanche un passo, per paura che si rompa l’incantesimo.
Proprio lì, tra il divano e il tavolinetto, le metto un braccio alla
vita e la stringo a me. Lei mi lascia fare. È in uno stato di completa passività, una mano abbandonata nella mia e l’altra lungo i
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fianchi. Accenno a un lieve passo di slow, appena un cenno. Lei
mi segue. Ora non ci guardiamo più negli occhi. Sento il calore
del suo alito sul mio collo. Il suo corpo aderisce al mio. È morbido e cedevole. I seni, piccoli eppure incredibilmente sodi per la
sua età, si schiacciano sui miei come labbra sulle labbra. Siamo
entrambe senza reggiseno, entrambe con due camicette di seta.
Sento sul ventre e sulle cosce la pressione del suo ventre e delle
sue cosce. Accosto il mio viso al suo. Lei mi lascia fare. Lentamente, ma lentamente, faccio scivolare la mia guancia sulla sua
con una leggera rotazione del viso. Le faccio sentire il tremore
delle mie labbra. Lei mi lascia fare. Le do dei bacetti sulla guancia. Lei mi lascia fare. Mi avvicino alla sua bocca. E lei... L’ultimo passo lo fa lei. Appena l’angolo delle mie labbra sta per
sfiorare quello delle sue, lei gira il viso decisa e schiaccia la sua
bocca sulla mia, mentre il suo braccio morto si risveglia e mi si
avvinghia al collo.
Il resto non voglio scriverlo. Ho paura di rovinarlo. Dirò solo
che è stata una notte meravigliosa, come non ne ricordavo più dai
tempi della mia vita mortale, quando beltà splendeva negli occhi
miei ridenti e fuggitivi e risalivo lieta e pensosa il limitare della
gioventù. Mi ero quasi dimenticata di quant’è bello fare l’amore
quando c’è la tenerezza.
Ai primi di maggio ci fu il mio esame di laurea. Fu un esame
memorabile. Luciano era il relatore della tesi e si supponeva che
avrebbe dovuto aiutarmi a difenderla. Per fortuna non lo fece.
Mi presentai con un look sobriamente provocante. Indossavo
un abito di seta indiana, di un colore rosa che sfumava al cremisi,
vagamente trasparente, lungo fino alle caviglie, con uno spacco
laterale a mezza coscia. Non era aderente, ma il movimento della
stoffa morbida sul mio corpo era tutto un gioco di controllata
sensualità. Rimmel e kajal agli occhi e un rossetto dello stesso
colore dell’abito completavano l’armamentario che avevo predisposto per quel tentativo di circonvenzione d’incapaci.
Tali infatti si dimostrarono i membri della commissione di
laurea. Caddero immediatamente nel vischio; tutti meno la professoressa Toselli, vecchia ultrà femminista lesbica ancora rab-
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biosa. Si fecero ammaliare, i baroni, e con la scusa di farmi domande dotte e astute mi tennero sotto torchio per un’ora intera.
Solo questo fatto sarebbe già un chiaro segno della perdita di
senso della realtà a cui avevo trascinato la commissione.
C’era come un’atmosfera d’incantesimo nella sala. Il pubblico
assisteva devotamente a quella specie di cerimonia vudu. Il silenzio era totale, a parte la mia calda voce che modulava teorie e
confutazioni. I commissari ascoltavano ipnotizzati, gli occhi
sbarrati e le bocche aperte. La Toselli dava l’impressione di fare
degli enormi sforzi di volontà per resistere alla bufera di malie
che le scagliavo addosso. Luciano fu l’unico a tenersene fuori.
Non fece neanche una domanda e restò tenebroso per l’intera
seduta. Sicuramente non era questa la provocazione che si era
aspettato da me. Assisteva alla scena con uno sguardo che rivelava irritazione, godendosi però il supplizio che trapelava dagli
occhi dei colleghi.
La discussione sul voto fu lunga. Me l’ha riferita Luciano
stesso, quasi parola per parola. Quando io e tutto il pubblico
fummo usciti dall’aula, lui propose subito la lode e i due correlatori l’accettarono. Senonché la Toselli si impuntò e costrinse la
commissione a una defatigante diatriba. Il suo potere era enorme,
giacché per attribuire la lode è necessaria l’unanimità. Luciano se
ne stette in disparte pure in questa fase. Il che contribuì a fargli
assumere un’insolita posizione di distaccata neutralità. Alla fine
il presidente della commissione si rivolse a lui, sperando che
riuscisse a trovare la via d’uscita del vicolo cieco in cui li aveva
cacciati la Toselli. Lui riconobbe che le critiche della collega al
comportamento provocatorio e provocante della candidata erano
giustificate. Poi si rivolse a lei:
“Ma il punto è: l’hai letta la tesi?”
Lo domandò anche agli altri professori. Così si scoprì che oltre al relatore e ai due correlatori non l’aveva letta nessun altro.
Quando sentenziò che la lode era meritata, i correlatori ribadirono il loro assenso e nessuno osò contraddirlo. La Toselli dovette
ingoiarsi tutto il veleno che le ghiandole salivali le avevano prodotto nelle ultime due ore.
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In serata andammo a festeggiare in un ristorantino nel Chianti,
io e lui soli soli. Era piuttosto teso e, dopo aver terminato il resoconto della discussione sul voto, me ne disse di tutti i colori.
Tanto per cominciare, mise in chiaro che la lode non l’avrei presa se non fosse stato per il suo intervento decisivo. Poi disse di
non essere sicuro che il suo giudizio era stato determinato dal valore della tesi e non piuttosto dal ricordo dei servizi della mia
magica bocca. Io l’ascoltavo impassibile.
Allora passò a una paternale, cercando di farmi capire che in
certe occasioni l’atteggiamento verso gli altri deve essere consono ai ruoli sociali e che, se ci sono momenti in cui può essere
bello civettare con i gonzi, ce ne sono altri in cui bisogna mantenere la dignità.
“A me non me ne frega niente dei ruoli sociali.” Lo interruppi
nel mezzo della paternale. “Io sono come sono, integralmente me
stessa, mi mostro per quello che sono, e tanto peggio per chi non
mi capisce.”
“Anche una puttana si mostra per quello che è, e di solito lo fa
in ogni situazione, senza preoccuparsi dei ruoli. Tanto è vero che
le puttane sono sempre facilmente riconoscibili.”
Non feci una piega. Lui riprese le sue critiche e disse che non
c’era stato uno solo degli altri commissari maschi che durante la
discussione fosse riuscito a cogliere gli apporti innovativi della
tesi, e ciononostante erano tutti favorevoli alla lode. Erano rimasti inebetiti per il sortilegio dei miei occhi e delle mie labbra.
“Mi sa che sei geloso fino al midollo.” L’interruppi di nuovo.
“Ti dà fastidio che mi guardino gli altri uomini.”
“Al contrario, gli sguardi degli uomini che ti sbavano dietro
mi danno un’emozione di orgoglio e di potenza. – Fatevi le seghe, cazzoni! Questa è la mia donna – mi verrebbe voglia di gridare a tutti.”
“Eh sì, sei proprio geloso. Ma sei sicuro che sono la tua donna?”
Ebbe un lampo di sgomento negli occhi.
Precisai:
“Io non sono di nessuno. Sono mia.”
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“Bambina cara, sei rimasta un po’ indietro con gli slogan.
Questo era di moda negli anni ’70.”
Insomma l’intera serata andò avanti così, in un battibecco
insensato e inconcludente, con lui che cercava di farmi capire e
io che cercavo di farlo arrabbiare. Ebbe meno successo lui. Fece
un brindisi per chiudere la serata e bevve la sua coppa di spumante tutta d’un fiato, quasi con stizza.
Alla fine però, quando stavamo per andarcene, riuscì a far
breccia nella mia corazza di spavalderia. Disse:
“Sei veramente sicura che quella lode l’hai presa perché la
meritavi?”
Lo guardai fisso senza dire niente e per un momento sentii di
star per cedere al panico. Lui insistette:
“Eppure sei una donna intelligente.”
“Eppure!?”
“Già. Secondo me tu sei dominata da un profondo senso d’insicurezza proprio riguardo alla tua dote migliore.”
“Che sarebbe?”
“L’intelligenza, appunto. Io credo che sia questa insicurezza
che t’induce a sfoderare tutto il tuo potere seduttivo con gli
uomini di cui temi il giudizio intellettuale.”
Lo guardai negli occhi con cattiveria. Volevo fulminarlo, dirgli un improperio feroce. Ma sentii che la voce mi avrebbe tremato. Distolsi lo sguardo e mi nascosi dietro la coppa di spumante, che mi scolai senza fretta.
“Credi veramente che non l’ho meritata la lode?” Domandai
poi con un filo di voce.
Lui allungò una mano e mi fece una carezza.
“No amore, non lo credo.” Disse. “È stata una delle mie tante
cattiverie. Mi dispiace. Ti chiedo perdono. La verità è, l’ho scoperto solo oggi, la verità è che sono spudoratamente geloso.”
Accettai l’invito a passare la notte con lui. E fu una notte
fantastica. Sarebbe stato un nuovo inizio? Forse sì, se di lì a tre
giorni Luciano non fosse uscito di scena nella fatidica orgia.
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Mercoledì, 3 luglio
Dopo la notte passata con Lucrezia, torno a casa alle sei di mattina. Lo specchio delle mie brame mi rimanda l’immagine di un
viso sfatto dalla stanchezza e gli stravizi. Dalle persiane chiuse
filtra la luce di un’alba matura. Gli occhi mi si chiudono dal
sonno. Mi butto a letto dimenticandomi di prendere le mie due
pillole di Lendormin. Incredibile! Dormo tredici ore e mi risveglio alle sette di sera! Da epoche immemorabili non riuscivo a
farmi un sonno continuo più lungo di sei ore. Merito della dolcezza della notte passata con Lucrezia? Forse il profumo lasciato
dal suo corpo sul mio ha avuto un effetto rasserenante. Ancora lo
sento, come un’aura creata dalle sue carezze.
Mi crogiolo nel letto per un’ora ascoltando un disco di John
Lennon. Dopo di che mi alzo allegra e pimpante. Faccio una doccia fredda con sapone di lavanda; una rapida cena di biscotti integrali, cioccolato di carruba e aranciata; una toletta anche più rapida; ed eccomi pronta per l’appuntamento con le vergini folli.
Arrivo a casa loro poco dopo le nove. Trovo il cancello socchiuso. Entro senza suonare il campanello e attraverso il giardino
nel buio, costeggiando i muri della casa. Le due donne stanno
nella veranda. Sedute nell’oscurità, mi aspettano godendosi il
fresco che solo a quest’ora comincia a levarsi dai giardini circostanti. M’invitano a sedermi e a bere caffè. Bisogna aspettare un
po’, dicono, tempo che faccia buio completo e che il guardiano
dello Stibbert si addormenti davanti alla televisione.
“Perché?” Domando.
“Perché dobbiamo introdurci nella villa di soppiatto.” Risponde Elvira.
“Per quale motivo?”
“È l’unico modo per arrivare all’inferno della biblioteca di
notte. La quartina che t’interessa si trova in un libro antico. E da
qualche tempo ci è proibito accedere alle stanze riservate della
biblioteca. Il permesso speciale che ci era stato rilasciato per
intercessione di Luciano ci è stato revocato.”
“Da chi?”
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“Dal direttore amministrativo. Però noi conosciamo un passaggio segreto.” È sempre Elvira che parla. “Così tutte le notti
andiamo in biblioteca a lavorare. È bello di notte. C’è una solitudine perfetta, un silenzio assoluto. E le nostre menti sono al
massimo di rendimento dalle undici alle tre. La nostra ricerca è
andata avanti e anzi non è andata mai così bene come da quando
ci è stato revocato quel permesso.”
“Stasera andate lì per lavorare?”
“No, per mostrarti la quartina.”
“Perché ci tenete tanto a farmi vedere quella poesia?”
“Perché potresti aiutarci a capire cosa significa e a confermare
una nostra ipotesi. Ora rilassati e finisci il caffè. Aspettiamo ancora mezz’ora, poi andiamo.” Conclude, guardando l’orologio da
polso.
Mi rilasso, o almeno cerco. Distendo la schiena sulla sdraia e
guardo il cielo. È di un blu scuro, picchiettato di stelle che sembrano strass su un abito da sera. L’aria è piena del canto dei grilli. Dal fondo della valletta che collega il giardino Stibbert con
Villa Fabbricotti sale un venticello fragrante di fiori. Gina mi
versa una seconda tazza di caffè caldo. È un caffè americano,
lungo, zuccherato appena. Va giù liscio come una bibita e mi
scalda lo stomaco rinfrescandomi la mente. Per un po’ ce ne stiamo tutt’e tre lì, senza parlare, sdraiate a contemplare il cielo.
Sono io che rompo quella pace:
“Ci sono molti punti oscuri nelle storie che mi avete raccontato l’altro ieri. Vi dispiace se vi faccio qualche domanda per chiarirmi le idee?”
“No, dato che dobbiamo aspettare senza fare niente.” Risponde Elvira. L’altra continua a meditare sul cielo stellato.
“Intanto mi piacerebbe approfondire la faccenda della Genesi
e del paradiso terrestre. Mi avete dato la vostra interpretazione,
non quella di Luciano, che avete detto è diversa.”
“Sì, diversa. Forse opposta, forse complementare. Noi tendevamo a una visione di tipo sociale. Lui privilegiava la fisiologia.”
“Sentiamo.”
“Lo stato di promiscuità originario, secondo lui, sarebbe fondato sull’ermafroditismo. La Bibbia andrebbe presa quasi alla
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lettera: Dio avrebbe fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza e
cioè maschio e femmina, un individuo dotato dei caratteri sessuali maschili e femminili. Sarebbe stata la cultura a determinare la
diversificazione dei sessi.”
“No, non ci credo.”
“A cosa?”
“A che Luciano potesse pensare una tale idiozia.”
“Fammi finire. Lo stato originario non va inteso in senso storico. È uno stato di natura ipotetico, sebbene presente nella storia
come possibilità oggettiva. Luciano aveva abbracciato una teoria
sessuale elaborata recentemente da alcuni sessuologi americani.”
“Questo m’interessa.”
“In natura non esisterebbero due forme di sessualità alternative, quella maschile e quella femminile, bensì due polarità sessuali presenti entrambe in ogni individuo in una vasta gamma di
gradazioni e di combinazioni. Ci sarebbe un polo di sessualità
attivo, che nel maschio si esprime nell’orgasmo uretrale e nella
femmina in quello clitorideo; e uno passivo, che nel maschio
produce l’orgasmo prostatico e nella femmina...”
“Quello vaginale.”
“No, quello grafenberghiano.”
“What?”
“Procediamo con ordine. L’orgasmo prostatico è quello di cui
godono gli omosessuali maschi passivi. La penetrazione anale
porterebbe il pene a esercitare una pressione interna sulla prostata. Il che provocherebbe nel soggetto passivo una lenta eiaculazione, non tanto forte da stimolare l’uretra, ma abbastanza da
generare una scarica di languore. Secondo questa teoria il maschio sessualmente completo dovrebbe essere bisessuale, attivo e
passivo, e ovviamente libero da ogni condizionamento culturale.”
“E la donna?”
“Per la donna le cose non sarebbero sostanzialmente diverse.
La clitoride, anzi, il clitoride, secondo la teoria, è omologo al
pene, e l’orgasmo clitorideo...”
“Va bene, questo lo so. M’interessa l’altro.”
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“Quello grafenberghiano sarebbe simile all’orgasmo prostatico maschile. Grafenberg era un medico tedesco che aveva
scoperto l’esistenza di una protuberanza all’interno della vagina,
una specie di bernoccolo grande quanto un fagiolo. Dal nome del
suo scopritore è stato chiamato ‘punto G’. Sarebbe l’omologo
della prostata. Esercitando una forte e ripetuta pressione su di
esso si otterrebbe un orgasmo lungo, languido e struggente. È
quello che una volta si chiamava ‘orgasmo vaginale’, ma erroneamente, perché non è la penetrazione della vagina che lo scatena,
bensì la pressione sul punto G. Il modo migliore per esercitare
questa pressione, per esercitarla efficacemente, si avrebbe con la
penetrazione venus aversa.”
“Che?”
“More ferarum. Coitus a tergo.”
“Insomma a pecoroni.”
“Per dirlo in termini scientifici. La civiltà, imponendo la posizione del missionario, venus obversa, avrebbe fatto dimenticare
l’arte di tale tipo di sessualità.”
“Interessante.” Dico. “Luciano non mi aveva mai accennato a
questa teoria.”
“Ce ne saranno ben altre di cose che ti ha fatto fare senza spiegartele.”
“Come lo sai?”
“Lui non faceva mai nulla che prima non avesse elaborato teoricamente, anche se spesso si teneva le teorie per sé.”
“Si vede che non ci credeva molto.”
“O non credeva negli altri.”
“La faccenda della puttana santa rientrerebbe in queste cose?”
“Dalla tua ignoranza al riguardo sembrerebbe di sì.”
“Mah?! Comunque sia, finite con la faccenda della Genesi.”
“Il paradiso terrestre sarebbe una condizione umana, una condizione solo allegoricamente collocata alle origini della storia. In
realtà è una condizione sempre accessibile a ogni individuo capace di liberarsi dalle limitazioni culturali e di espandere la propria sessualità ermafrodita. La divisione funzionale dei sessi, e la
connessa identificazione di ruolo con cui gli individui vengono
costretti a definire la propria appartenenza di genere, non avrebbe
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nulla a che fare con alcuna differenza naturale nella capacità di
godimento sessuale. Sarebbe nient’altro che il prodotto della necessità della riproduzione entro rapporti politici conflittuali.”
“Sì, ma c’è una bella differenza tra pene e clitoride.”
“Una differenza connessa alla funzione riproduttiva, non alla
capacità di godimento. Come che sia, l’evoluzione della specie
lavorerebbe alla graduale eliminazione delle differenziazioni funzionali dei sessi.”
“Com’è possibile?”
“Questa è la parte più audace della teoria di Luciano. Secondo
lui nascono continuamente degli individui ermafroditi, dei veri
ermafroditi. Nella stragrande maggioranza sono sterili, eppure si
verificano casi di fecondità. Gli ermafroditi perfetti sarebbero
individui privilegiati, dotati di pene, testicoli, prostata, ovaie, vagina e utero e tutto perfettamente funzionante. La società finora li
ha considerati dei mostri, perciò ha sempre cercato di annientarli.
Gli spartani li gettavano giù da una rupe. Oggi li si normalizza
con operazioni chirurgiche in età neonatale. Ad ogni modo non
gli si dà la possibilità di accoppiarsi e riprodursi. Senonché i costumi culturali si evolvono verso l’ermafroditismo. Nei paesi civili sono già consentiti matrimoni tra omosessuali. In un futuro
non lontano gli ermafroditi avrebbero la possibilità di unirsi legalmente e proliferare. Ecco com’è che il paradiso terrestre solo
allegoricamente appartiene ai primordi dell’umanità. In realtà sarebbe un progetto da realizzarsi nei tempi dell’Apocalisse.”
“Tutto ciò è molto bello...” Commento, senza nascondere il
mio scetticismo.
“Luciano era fatto così. Per lui nessun sogno, nessuna utopia
sarebbe irrealizzabile.”
“Sono le undici, è ora di andare.” C’interrompe Gina. Come
svegliandosi da uno stato di trance, si alza neghittosa, beve un
ultimo sorso di caffè e, afferrato il solito zainetto, si avvia spedita lungo il sentiero invaso dalle erbacce, facendosi luce con una
torcia elettrica. Noialtre ci alziamo e la seguiamo silenziose. Nel
mare di fiori e di erba c’è tutto un viavai di gatti. Attraverso il
buio se ne scorgono qua e là gli occhi stregati pieni di luce.
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Il sentiero scende verso il fondo della valletta, ma non lo seguiamo fino al termine. Ad un tratto Gina vira a destra e si inoltra tra gli alberi. Camminiamo fuori sentiero per pochi minuti,
finché non ci troviamo di fronte a una rete di recinzione. Gina
apre lo zainetto e ne tira fuori una pinza, con cui si mette a snodare dei cappi di fil di ferro che tengono uniti due bordi di rete.
In pochi secondi apre un varco, nel quale ci insinuiamo cautamente. Ed eccoci all’interno di Villa Stibbert, di notte, alla luce
di una torcia elettrica. Il punto dove ci troviamo non dista molto
dal laghetto e dal tempio egizio. Il gracidare delle rane ora prevale sul canto dei grilli.
Ci addentriamo nel giardino. Gli alberi si fanno più fitti e con
le loro masse nere nascondono le stelle. L’atmosfera è tetra.
Avanziamo in un viale di ghiaia. Superiamo il tempio e in pochi
passi ci troviamo davanti al grottino degli spiriti, quello in cui è
stato trovato il cadavere di Gianrico. È chiuso da un cancello di
legno tenuto serrato da un grosso lucchetto.
Elvira tira fuori di tasca una chiave e apre il lucchetto. La
grotta è piccola e la torcia elettrica la illumina tutta. Al centro c’è
un tavolino di marmo a tre piedi e intorno ad esso cinque piccoli
sedili rotondi, sempre di marmo. È una grotta artificiale. La volta
e le pareti sono ricoperte di finte escrescenze rocciose di malta.
Giriamo intorno al tavolino e ci fermiamo di fronte alla parete
opposta all’entrata. Elvira dirige il fascio di luce su una scritta
che campeggia sulla finta roccia. È incisa rozzamente, ma con la
pretesa di un font lapidario, e recita: Jehoshua-Lanceolatus.
“Che vuol dire?” Domando.
“Sono due nomi di persona.” Risponde Elvira. Intanto la taciturna afferra la roccia con la scritta e la spinge con forza dentro il
muro. Un passaggio segreto è il meno che ci si poteva aspettare.
“Nomi di chi?” Insisto.
Alla pressione sulla roccia segue uno scatto metallico, e un’altra roccia, più bassa e più grossa della prima, si muove di qualche centimetro. Le due donne introducono le dita nella fessura
apertasi nella parete e tirano a sé quello che ora appare essere un
portello. Si apre un pertugio dai contorni irregolari largo circa un
metro.
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“Sono i nomi di due eroi.”
Capisco che ora dovremmo introdurci in quel buco. Le due
matte sembrano esitare. Le comprendo. Dal pertugio esce un’aria
puzzolente di muffa e di cimitero. La conversazione ci permette
di tergiversare un po’.
“Il paradiso ha sette porte, guardate da sette patriarchi,” prosegue Elvira, “sette porte ufficiali, diciamo così.” Intanto Gina
cerca di incastrare due sassi sotto il portello per bloccarlo in modo da impedirne la chiusura. “Ma esiste un ottavo accesso, una
via proibita, per la quale, l’unica, si può entrare da vivi. Secondo
l’Antico Testamento, il solo uomo che sia riuscito nell’impresa è
Jehoshua, un asceta che ha potuto sconfiggere l’angelo della
morte facendo ricorso all’inganno. Gli ha rubato la spada di
fiamma e ha dato l’assalto al cielo. A Dio stesso ha imposto il
fatto compiuto. È riferendosi a lui, forse, che Cristo ha potuto
dire che il regno dei cieli si conquista con la violenza. In epoca
cristiana lo stesso tentativo è riuscito a Lanceolatus, un cavaliere
romano, personaggio mitico del quinto secolo, delle cui gesta il
ciclo del Graal rappresenta una tarda rielaborazione letteraria. Il
suo nome volgare è Lancillotto.”
“Possiamo andare.” Interrompe Gina, che ha terminato l’operazione di bloccaggio del portello.
Ci pieghiamo sulle ginocchia e ci introduciamo nella stretta
apertura, prima Elvira, poi io, infine Gina. Ci ritroviamo in un
corridoio stretto, alto quanto basta per starci in piedi. La torcia
elettrica non riesce a mostrarne la fine. Le pareti sono scavate
nella roccia. Sotto la guida di Elvira ci avviamo lungo il corridoio, per sboccare su una scalinata dai gradini scavati anch’essi
nella roccia. La scalinata conduce a un altro corridoio, che è più
ampio del precedente. La volta è a tutto sesto e come il pavimento e le pareti è rivestita di mattoni murati a taglio alla maniera
romana.
Avanziamo seguendo la luce della torcia sul pavimento. Le
pareti sono in ombra. Guardando con attenzione, mi accorgo che
non sono disadorne. A un metro e mezzo d’altezza dal pavimento
e a una distanza regolare di circa due metri l’uno dall’altro, ci sono, infissi nella parete, degli stemmi di pietra serena. Hanno le
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fogge più strane. Molti hanno la forma di scudi, scudi romani,
normanni, inglesi. Altri di losanghe, altri ancora di cerchi, libri
aperti, papiri srotolati, insomma una gran varietà di figure, tutte
piuttosto belle. Per non parlare dei simboli araldici che vi sono
incisi sopra. Ce n’è una quantità, a destra e a sinistra, e il corridoio non finisce mai. Stranamente gli stemmi mi suscitano
un’impressione di familiarità. Elvira anticipa la mia domanda:
“Non ti sembra di averli già visti?”
“Infatti. Dove?”
“Pensaci bene. Dove puoi averli visti?”
Ci penso bene ma non mi viene in mente niente.
“Prova a visualizzare palazzo Stibbert, il muro che dà sul
giardino verso il cancello Sud,” insiste lei, “quel muro nascosto
dalla grande camelia.”
Ora è come se ce l’avessi davanti agli occhi. È un muro interamente ricoperto di stemmi nobiliari, una delle bizzarre collezioni
degli Stibbert.
“C’è una qualche corrispondenza tra quegli stemmi e questi?”
Domando.
“Una perfetta corrispondenza. Per ognuno di quelli lassù ce
n’è uno identico quaggiù. Li abbiamo verificati uno a uno.”
“Che significa?”
“Si tratta delle armi dei gran maestri dell’Ordine. Qua sotto
potrebbero esserci le urne cinerarie, murate dietro agli stemmi.
Ma non l’abbiamo verificato. Quelli infissi sulla facciata del palazzo sono disposti in apparente disordine. Questi qui invece
sono in ordine cronologico, i più antichi più all’interno.”
“Quindi si può sapere chi è l’ultimo gran maestro morto.”
“Sì.”
“E chi è?”
“Un illustre sconosciuto. È morto nel 1977.”
“E sapete chi è quello vivente, ammesso che ce ne sia uno?
“Abbiamo una teoria.”
“Non ne avrei dubitato. Non ve l’ha per caso suggerita il relatore della vostra tesi?”
“Luciano ne rideva. Diceva che tutta la storia dell’Ordine
fondato da Cesare non sarebbe che una fandonia inventata in
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epoca recente, magari dagli Stibbert stessi, sotto l’influsso del
clima occultistico che ha infestato la cultura romantica dell’Ottocento. Ma non ci ha mai convinte su questo punto.”
“Che punto?”
“La faccenda dell’inesistenza dell’Ordine. Abbiamo sempre
avuto l’impressione che la sapesse più lunga di quanto desse a intendere. Tra le carte Stibbert c’erano dei trattati di alchimia e magia sessuale risalenti al Cinquecento, e Luciano vi era molto interessato.”
“Quale sarebbe la vostra teoria?”
“Lascia stare!”
“No,” interviene Gina, da dietro le mie spalle, “è bene che sia
informata. Altrimenti come potrà esserci d’aiuto?”
“Avete bisogno del mio aiuto?”
“Non proprio.” Risponde Elvira, secca, quasi a voler chiudere
la conversazione. Ormai ho capito la divisione dei ruoli tra le due
donne. Una parla, l’altra agisce. M’interrogo sui motivi che le
fanno interessare a me. Perché mi hanno trascinato in questa ridicola prospezione tellurica? Cosa vogliono? Ora intuisco, inoltre,
che c’è una certa divergenza tra le due matte, una divergenza che
riguarda appunto me.
È un bel pezzo che camminiamo in quella specie di catacomba, quando finalmente il budello si restringe. Si rimpicciolisce
gradualmente fino a ridursi a un meato piccolo e nero che da
lontano sembra un buco di culo. In pochi passi giungiamo all’orifizio. Non è più alto di un metro e mezzo. Ci chiniamo e lo oltrepassiamo, per ritrovarci in un altro corridoio con una nuova scalinata. Comincio a stancarmi.
Saliamo in silenzio le scale, e alla fine arriviamo a una porta
di ferro arrugginito con un pomello anch’esso di ferro. Elvira lo
agguanta e lo gira con calma. La porta si apre e la torcia illumina
degli scaffali di biblioteca che chiudono il passaggio come delle
enormi sbarre. I libri sono vecchi e logori e, visti dal davanti invece che dalla costola, suscitano un sentimento di straniazione.
“Stiamo dietro gli scaffali della sala riservata della biblioteca.” Dice Elvira.
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Gina intanto toglie i libri da uno dei ripiani. Apre così un passaggio nel quale ci insinuiamo a fatica, sempre nell’ordine: Elvira, io, Gina. Ci ritroviamo in un bugigattolo non più grande di un
salotto, tutto tappezzato di libri dal pavimento al soffitto, con un
tavolino al centro e tre sedie intorno. La torcia illumina la stanzetta con una luce spettrale.
La taciturna apre lo zainetto, ne tira fuori cinque libri e uno a
uno li ripone nei loro loculi, mentre l’altra fa scorrere lo sguardo
su uno scaffale. Lo percorre anche con la mano destra, oltre che
con gli occhi, sfiorando i libri con i polpastrelli, come se, per fare
la ricerca, non si fidasse di un solo senso. Si ferma in fondo allo
scaffale, afferra un librone con una copertina di pergamena giallastra e lo tira fuori. Si volta verso di me e me lo consegna.
“Qui c’è quello che cerchi. È nell’ultima pagina.”
Sono emozionata. Potrei finalmente trovare la chiave della verità, penso. Prendo il libro nelle mie mani, delicatamente. Lo
accarezzo, lo osservo, lo annuso. È un in-quarto molto bello, più
spesso di un mattone e più pesante. Lo apro. Il frontespizio reca
una lunga serie di righe scritte in caratteri di grandezza decrescente man mano che si scende in fondo alla pagina. Il titolo è
lapidario: Saint Peerlesfoy. Non c’è indicazione d’autore.
“È il primo testo noto del ciclo del Graal,” dice Elvira, “traduzione provenzale di una precedente opera latina. Può essere
dell’undicesimo secolo. L’originale romano, che è andato perduto, dovrebbe risalire ad almeno cinque secoli prima.”
Sfoglio il codice con delicatezza. Le pagine sono gialle e rigide. Danno l’impressione di potersi spezzare al minimo tentativo
di piegarle. Finalmente mi faccio coraggio e apro il libro all’ultima pagina. Contiene una poesiola scritta a matita.
“È questa?” Domando.
“Sì.”
“Non vi sembra una profanazione avere sporcato un libro tanto fiero di anni?”
“L’ha scritta Luciano.”
“Capisco.”
“Sbrigati a copiarla che dobbiamo andarcene.”
335
Nel frattempo Gina, finito di riporre i suoi cinque libri negli
scaffali, ne ha prelevati altri sette. Li infila delicatamente nello
zainetto.
“Che fate?” Domando.
“Non ti preoccupare, non li rubiamo.”
“Come avete fatto a conoscere questa specie di passaggio segreto? No, non me lo dite. Scommetto che ve l’ha rivelato Luciano.”
“Ti decidi a ricopiare la poesia?” Fa Gina. Da un po’ di tempo
sta diventando loquace. Potrebbe arrivare a proferire cento parole
al giorno. Glielo dico, scherzosamente. Lei fa finta di non aver
capito, e prosegue: “O non t’interessa? Se è così, rimetti il libro a
posto, che ce ne andiamo.”
“No, no, m’interessa e come!”
Lei mi passa una penna e un foglietto di carta strappato da un
taccuino. Io copio.
PUTTANA SANTA
Al Leopardo
Ti possiede chi ti paga, ma ti apri
A chi cerca il Graal, purché abbia la chiave.
Il tuo corpo è uno scrigno prezioso e
Lo Spirito Santo risiede in te, Ginevra.
“Chi è il Leopardo?” Domando, più che altro per avere una
conferma.
“Luciano, naturalmente.” Risponde Elvira. “È il suo nome iniziatico.”
“Iniziatico?”
“Il leopardo era l’animale araldico di Lancillotto, il leopardo
lanceolato, un animale mitico dalla pelliccia dorata e le macchie
nere di forma triangolare.”
“In che senso ‘iniziatico’?”
“Ora andiamo. Te lo spieghiamo a casa.”
A casa siamo di ritorno a mezzanotte. Le due matte sono tutte
contente, e anche Gina ha ripreso un sembiante umano. Sembra-
336
no due ladre che l’hanno fatta franca. Brindano con della grappa
e io partecipo alla festa. Si crea subito un’atmosfera distesa e allegra e le due donne diventano perfino cordiali. Ne approfitto per
chiedere delucidazioni.
“Mi spiegate il senso di questa quartina?”
“Sei tu che ce lo devi spiegare. Ti abbiamo aiutato apposta.
Abbiamo motivo di credere che la poesia è stata trascritta lì proprio per te.” È Elvira che parla. “Luciano s’è imbarcato in un’impresa che lui stesso ha assimilato alla cerca del Graal.”
“Non ci credo. E comunque io che c’entrerei?”
“Tu sei la puttana santa, la sua Ginevra.”
“Che vuol dire?”
“Nella versione popolare del ciclo della tavola rotonda solo
uno dei cavalieri giunge alla meta: Galaad, il figlio di Lancillotto.
A un certo momento, nel corso della cerca, Galaad giunge a un
bivio e deve fare una scelta. Decide per la via della mano destra,
che si rivela come la scelta che lo conduce al Graal.”
“Ho sentito già parlare di questa via della mano destra.
Cos’è?”
“È un metodo. Il metodo della tradizione e dell’ordine, della
disciplina, del digiuno, della preghiera, della castità.”
“Ma c’è una versione esoterica.” S’intromette Gina, come se
volesse tagliare corto.
“OK, vai avanti tu.” Le fa l’altra.
Lei prosegue:
“Nella versione esoterica, che si trova esposta nel Peerlesfoy,
il Graal sarebbe stato conquistato anche da un altro cavaliere.”
“Lancillotto.” Dico io.
“Esatto. Il quale seguì la via della mano sinistra.”
“Che è quella del disordine e della sovversione, naturalmente.”
“Proprio così.”
“E l’amore, il sesso, la magia rossa…”
“Vedo che sei informata.” Interrompe Elvira.
“Conosco alla perfezione tutta quella paccottiglia di dottrine
orientali con cui Luciano cercava di rendere più interessanti certi
giochetti erotici.”
337
“È una cosa meno ridicola di quanto credi.”
“Che c’entra Ginevra?”
“È la regina, la moglie di re Artù, la forza della regalità. Per
sua virtù si ottiene il regno. La via della mano sinistra è quella
della trasgressione suprema: tradire il re e impossessarsi della regalità costringendo la regina a tradirlo. Per mezzo della sovversione d’amore si conquista il paradiso. È la via della violenza e
dell’anarchia interiori. Jehoshua vinse l’angelo della morte, Lanceolatus l’angelo dell’amore. La stessa via: la mano sinistra.
“Capisco.” Dico, più per rispondere a un mio interrogativo
che per interrompere il discorso.
“Be’, noi non lo capiamo perfettamente, il collegamento di
amore e morte. È qui che abbiamo bisogno del tuo aiuto. Luciano
ci ha parlato di un certo rito antico, ma in termini piuttosto generici, una sorta di tecnica dell’estasi che spinge l’amore fino al
limite della morte.”
“Non sarò certo io a spiegarvelo. Di teoria ne so meno di voi,
probabilmente. Quanto alla pratica, si trattava solo di giochetti
erotici, piuttosto eccitanti, a dire il vero, però niente di più.”
Le due donne mi guardano dubbiose. Non sono sicura che
l’abbiano bevuta. In realtà non è la cosa che gli preme sapere da
me, lo capisco al volo. Le vedo titubanti. Così decido di incoraggiarle:
“Dai, non è per conoscere queste fregnacce che mi avete scarrozzata per boschi e per monti, per non parlare dei passaggi
segreti e le catacombe. Avanti, cosa volete sapere veramente da
me?”
“Va bene,” dice Elvira, “allora veniamo al dunque. Noi abbiamo motivo di credere che i recenti omicidi di villa Stibbert
abbiano a che fare con L’Ordo.”
“L’Ordo?” Lì per lì non capisco. Poi mi torna alla mente la
fantastica storiografia stibbertiana.
“Si, l’Ordo.” Risponde lei. “Te ne abbiamo già parlato. Vuol
dire ‘ordine’ in latino, e anche ‘Opus Romanae Dominationis
Orbis’, il centro superocculto...”
“... Fondato da Cesare. Come no?”
338
“Non c’è bisogno di fare del sarcasmo. Per noi non è che un
oggetto di studio, sebbene ormai...”
Ha un attimo di esitazione. Io la incalzo:
“Sebbene ormai...”
“Ormai ne siamo state coinvolte in prima persona: gli inquirenti ci sospettano per quegli omicidi.”
“Questo m’interessa. Che c’entrano gli omicidi con l’Ordo?”
“Potrebbero essere il risultato di una lotta intestina. Ti ho già
detto che nel 1977 muore l’ultimo gran maestro dell’ordine.”
“L’ultimo?”
“L’ultimo che è stato sepolto. Non sappiamo se ce n’è uno vivente e chi sia. Ma abbiamo degli indizi. Secondo una congettura
di Luciano, un nuovo gran maestro non è stato ancora nominato.”
“E perché una tale stranezza?”
Ora risponde Gina, ignorando il mio tono ironico:
“La ragione potrebbe essere che gli adepti non sono riusciti a
trovarne uno che andasse bene a tutti. E l’unanimità era la regola
in ogni decisione presa dal gruppo dirigente, i cavalieri della
tavola rotonda.”
“Chi sarebbero questi cavalieri?”
“È la domanda a cui non siamo riuscite a dare una risposta.
Neppure uno ne conosciamo con certezza, per quanto abbiamo
dei sospetti. È qui che entri in gioco tu.”
“In che modo?”
“Cosa sai della setta dei cavalieri del nulla?”
“Nulla. Anzi, speravo di saperne qualcosa da voi.”
“Per favore. Noi siamo state gentili e sincere con te.”
“Hai ragione. Scusa. Ma ne so veramente poco. Me ne ha parlato Giuliano.”
“Questo vuol dire che lui ne faceva parte?”
“Sì.”
“Ecco una conferma. E Luciano?”
“Ne faceva parte anche lui. E Fabrizio Gledo, il brigatista. Di
altri non so. Però mi risulta che non era una cosa seria. Nient’altro che una goliardata. È una vecchia storia, ormai chiusa e sigillata da tempo.”
339
Le due donne sono attentissime. Gina prende perfino appunti,
mentre io racconto le altre cose che so. A me continua a sembrare una faccenda insignificante, loro invece la considerano importantissima. Nel seguito della conversazione vengo a conoscenza
dell’ipotesi su cui stanno lavorando: cioè che i cavalieri del nulla
fossero membri del circolo della tavola rotonda, e fossero al suo
interno i sostenitori di una linea nichilista, checché ciò voglia
dire; che la lotta intestina durava da anni e che sarebbe giunta al
redde rationem proprio ai nostri giorni; e che il criterio dell’unanimità, che viene sempre adottato nelle loro deliberazioni, sarebbe responsabile dell’uso dell’omicidio quale strumento di decisione collettiva. Punto. Non c’è bisogno di aggiungere altro. E mi
domando se sono più matte loro, le vergini folli, o io che sono
stata a sentirle.
Torno a casa che è notte tarda. Camminando nel silenzio da
thriller delle stradine deserte intorno a villa Stibbert, mi accorgo
di non essere impressionata nemmanco un tantino dalla tesi delle
due donne, sebbene sia colpita dalla forma di serena razionalità
assunta la loro follia. È possibile che razionalità e fantasia possano intrecciarsi così strettamente da generare un tale mostro di
visione romanzesca della storia? Per un attimo provo a prendere
sul serio l’ipotesi da loro suggerita sulla catena di omicidi di villa
Stibbert. Ma la scarto subito. Troppo bene conosco Luciano e
Giuliano per crederli tanto idioti.
340
Giovedì, 4 luglio
Ormai non dormo che di giorno. Di notte la mia mente è desta.
Le tenebre mi eccitano i sensi e lo spirito. Sono sempre più frequenti i giorni in cui mi addormento e mi desto nel pomeriggio.
Stasera sono le sei quando Giuliano mi sveglia con una telefonata. Mi ricorda il nostro appuntamento delle nove e mi domanda
se ho letto i giornali. No, non li ho letti. Lui non ci crede. Chi se
ne frega. Glielo dico. Mi ordina di andare subito a comprarne
uno. Ci troverò una notizia tragica che mi riguarda. Ribadisce
l’ora del nostro appuntamento e in tono minaccioso mi consiglia
di non mancare.
Scendo all’edicola. Compro La Nazione e La Repubblica, il
più moderato e il più sinistro dei giornali italiani. La notizia che
mi riguarda la trovo in prima pagina. Lucrezia è stata assassinata.
In casa sua. La stessa arma usata negli altri tre delitti. La stessa
messinscena da rito satanico. La morte è avvenuta tra le cinque e
le sei di ieri mattina. Cristo! L’ora in cui ci siamo lasciate!
Mi prende un tremore per tutto il corpo. Le gambe mi si fanno
molli. Faccio appena in tempo ad afferrarmi a una sedia e cadere
seduta davanti a un tavolino del bar Università. Viene subito il
cameriere a chiedere l’ordinazione. Mi devo controllare. Devo
resistere all’impeto di piangere e urlare. Ordino un caffè corretto
al mistrà. Solo dopo averlo mandato giù, tutto d’un sorso, incendiario com’è, solo allora riprendo il controllo di me.
Torno a leggere gli articoli sull’omicidio. Poi piego i giornali
e rifletto. Stasera potrebbe essere il mio turno. Il primo impulso è
di correre a un aeroporto e partire per le Bermuda. Ma sarebbe un
errore: come confessarmi omicida. Ho passato quella notte con
Lucrezia e l’ho lasciata più o meno nell’ora del delitto. La sua
casa sarà piena delle mie impronte.
Devo mantenere il sangue freddo, e ragionare con la testa.
L’accusa di omicidio non è il rischio peggiore che correrò nelle
prossime ore. Alle nove ho un appuntamento con la morte, mi
dico senza autoironia. Stasera sarà in gioco la mia vita. Devo
giocarmela bene. Mi faccio portare un secondo caffè corretto. Lo
bevo tutto di un fiato, come il primo. Mi ripasso mentalmente il
341
piano che ho preparato già da qualche giorno in vista dell’ora
della verità. È infine giunto il momento di entrare in azione.
Pago il conto e senza manco passare a casa torno di corsa alla
valle del Terzollino. L’altro giorno vi ho scorto delle piante di
stramonio e voglio farne raccolta. È praticamente diventato impossibile trovare quest’erba in Toscana da quando, un anno fa,
all’ospedale di Lucca furono ricoverati dieci adolescenti inebetiti
dagli effetti inebrianti dell’erba magica. Dopo che i giornali hanno diffuso la notizia per mettere in guardia i giovani, si è affermata la moda di rallegrare i party giovanili con infusi di stramonio. Bande di adolescenti hanno battuto la campagna in tutta la
regione, riuscendo a fare in pochi mesi quello che la guardia forestale, ordinata di debellare il nuovo flagello sociale, non sarebbe riuscita a fare in molti anni: la pianta è diventata introvabile.
Evidentemente l’isolamento della valle del Terzollino ne ha salvata un po’. Ne raccolgo un bel mazzetto e scappo subito via.
Torno in città che sono le otto. Prima di salire a casa, passo in
farmacia e compro una siringa e un flacone di salicitato di eserino, l’antidoto dello stramonio.
Preparo un infuso dell’erba e lo faccio micidiale, di foglie e
semi. Quindi m’inietto una pera di salicitato e mi rilasso un attimo. Preparo una cenetta sbrigativa ma speciale. Quando lui
arriva, ho appena finito di cuocere il riso e il pesce. Li dispongo
in due piccoli vassoi di terracotta. In un altro vassoietto metto dei
pezzi di carne cruda. In un bricco di porcellana mescolo lo stramonio con un bicchiere di sakè. Lascio che il campanello della
porta suoni a lungo.
Vado ad aprire e lo trovo spazientito. Cerco di rabbonirlo col
più troiesco dei sorrisi:
“Oggi ti riserverò un trattamento eccezionale,” gli dico, facendolo entrare, “da cliente molto speciale.”
“Non sono nello spirito giusto.” Fa lui bruscamente. Entra, va
diritto al salotto verde e si accomoda su una poltrona. Ma ‘accomoda’ non è la parola giusta. Se ne sta lì in punta di culo, con la
schiena rigida e le mani aggranfiate ai braccioli. Mi siedo
anch’io. Lui mi guarda negli occhi e dice:
“Veniamo al sodo.”
342
Dunque veniamo al sodo. Non voglio contraddirlo. Lui quasi
non apre bocca. Se ne sta sempre lì, rigido come un palo. Mi
guarda fisso, arcigno, e sembra un professore davanti a una studentessa impreparata. Io però sono tutt’altro che impreparata.
Gli confesso subito che la mia rivelazione riguardo al nome
nascosto nel quinto capitolo del Nuovo corso era una bugia: che
non avevo ancora capito una cosa elementare quando gli dissi,
qualche giorno fa, che il nome nascosto era il mio.
“Quale sarebbe questa cosa elementare?” M’interrompe.
“Che in realtà non c’era stato nessun nome nascosto in nessun
capitolo.”
“Come hai fatto a sgamarlo?”
“Alla fine mi è venuto un dubbio. Ho riflettuto sul fatto che
solo del codice che ti aveva portato a LILLI mi avevi dato spiegazione. Per gli altri nomi avevi fatto assegnamento sulla mia
credulità. Così ho avuto l’ispirazione di andare a vedere se quel
codice funzionava davvero. Non funzionava.”
“Brava, vai avanti.”
“Se prendi ventisei aforismi e prelevi una lettera da alcuni di
essi partendo dal primo e saltando di cinque in cinque, ottieni sei
lettere. E in LILLI ce ne sono cinque. Inoltre la quinta lettera del
nome cercato, quella che si trova nel ventunesimo aforisma, non
è una I, è una T. Insomma ci hai provato. Hai contato sul fatto
che ti avrei creduto sulla parola, è proprio il caso di dirlo, e al più
mi sarei limitata a verificare le prime due o tre lettere. Ma me
non mi freghi facilmente.”
“Molto brava. Adesso rivelami il messaggio nascosto nel
quinto capitolo.”
“Spiacente, niente messaggio. Non l’ho trovato.”
“Strano. Nei primi quattro sì e nell’ultimo no?”
“Può darsi che nell’ultimo non ci sia, forse perché è un capitolo incompiuto.”
“O forse, essendo l’ultimo, non poteva contenere il solito Cerca Oltre.”
“In tal caso conterrebbe il messaggio decisivo, quello veramente significativo. Se è così, io purtroppo non l’ho trovato. Pro-
343
vaci tu.” Prendo i fogli con gli aforismi del capitolo e glieli mostro.
“Ti sfido a cercare il messaggio nascosto.” Riprendo. “Io non
sono riuscita a trovare nulla di sensato. Probabilmente, se il
capitolo fosse stato completato, avrei ottenuto la solita massima:
Cerca oltre cerca ancora cerca. Ora non credo che la frase rinvierebbe a un sesto capitolo. Si tratterebbe piuttosto di una sorta di
aforisma essa stessa, un condensato della filosofia della scienza
elaborata da Luciano.”
Qui m’interrompe di nuovo:
“Qual è la regola per estrarre i messaggi?”
“Nel primo capitolo la regola é semplice, già la conosci se hai
decifrato A valentine: prendere la prima lettera del primo aforisma, la seconda del secondo e via di seguito. Uno pensa che
valga la stessa regola per il secondo capitolo. Ma si sbaglia.”
“Infatti ci ho provato, senza approdare a niente.”
“Il punto è che, se parti dall’idea che si tratta di una cosa facile, contribuisci a renderla più difficile.”
“Questa non l’ho capita.”
“Ora te la spiego. Sulla base della regola applicata al primo
capitolo e del fatto che non funziona col secondo, uno può pensare che in questo valga un’altra regola. Mi sono messa a cercarla,
e per semplificarmi il problema l’ho scomposto in due sottoproblemi, uno riguardante la posizione della lettera cercata nel
primo aforisma di ciascun capitolo, l’altro la posizione delle
lettere cercate negli aforismi successivi al primo. Per il secondo
sotto-problema credetti che la soluzione fosse semplicemente la
stessa che funzionò per la poesia intitolata ‘La chiave della verità. A valentine’ e cioè: in ogni strofa o aforisma si prende la lettera corrispondente alla posizione di quella scelta nel primo aforisma più un numero corrispondente all’ordine dell’aforisma
meno 1. In formula: l(a)=a-1, dove l(a) è la posizione della lettera scelta nell’aforisma numero a.”
Giuliano prende una matita e un foglio di carta e scrive la
formula. Osserva:
“Non sembra complicato.”
344
“Aspetta, ora viene il bello. C’è il primo sotto-problema: individuare la posizione della lettera scelta nel primo aforisma dei
diversi capitoli. Questo, per semplificarlo, l’ho scomposto a sua
volta in quattro sotto-sotto-problemi. Nel primo capitolo la formula sembrava banale: l(1,c)=1, dove l(1,c) è la posizione della
lettera cercata nel primo aforisma del capitolo c. Secondo questa
formula la lettera cercata sarebbe stata la prima del primo aforisma in ogni capitolo. Abbiamo visto però che il risultato è valido
solo col primo capitolo. Nel secondo perciò mi sono messa alla
ricerca di un’altra formula. Dopo svariati tentativi ho trovato
questa: l(1,c)=c, che mi dà 1 nel primo capitolo, 2 nel secondo e
via di seguito. La nuova formula è una generalizzazione della
precedente, ma purtroppo funziona col primo e col secondo capitolo, non col terzo e il quarto. Così mi sono messa alla ricerca di
un’altra formula ancora.”
“Vabbè, taglia corto.”
“Infine ho creduto di aver risolto il problema con la formula
l(1,c)=2(c-1), che genera la serie 1, 2, 4, 8 e va bene per i primi
quattro capitoli. Per il quinto non funziona. Ripeto: siccome questo è un capitolo incompiuto, secondo me Luciano non deve aver
fatto in tempo a strutturarlo secondo una formula.”
“Oppure la formula c’è e tu non sei riuscita a trovarla. Perfino
tu avrai i tuoi limiti. Dunque, se ho ben capito, in ogni nuovo
capitolo il lavoro di decifrazione diventa più complicato. Prima
devi trovare la formula per individuare la lettera giusta nel primo
aforisma, una lettera posta in una posizione diversa in ogni capitolo, poi devi usare un’altra formula per individuare la posizione
della lettera negli aforismi successivi al primo.”
“No. Qui sta il bello. Tutto il crescendo di complicazione,
come dicevo, è derivato dai miei sforzi semplificatori. Ricorda
che prima ho scomposto il problema in due sotto-problemi, poi
ho ridotto uno di questi a quattro sotto-sotto-problemi.”
“Invece?”
“Invece, se fossi stata più ambiziosa, avrei puntato fin
dall’inizio a cercare un’unica formula generale.”
“E saresti riuscita a trovarla?”
345
“Be’, alla fine ci sono riuscita. Eccola.” E la scrivo sul foglio
in fondo alle altre. “l(a,c)=2(c-1)+a-1, dove l(a,c) è la posizione
della lettera scelta nell’aforisma numero a del capitolo numero
c.”
“Questa funziona con tutti i capitoli?”
“Tutti meno il quinto, il quale quindi è senza dubbio incompiuto anche rispetto alla codificazione.”
“Insisto: è sempre possibile che col quinto non sei riuscita...”
“Se fosse così, vorrebbe dire che la mia formula generale non
è ancora sufficientemente generale. In tal caso ti lascio volentieri
il compito di proseguire la ricerca.”
“Non credo che ne varrebbe la pena. Dopotutto pare poco più
che un balocco intellettualistico. È tipico di Luciano. Ci ha fatto
perdere un sacco di tempo e si è preso gioco di noi.”
“Io ho piuttosto l’impressione che il giochetto nasconda una
specie di morale della favola. Mi viene in mente una lezione di
filosofia della scienza in cui Luciano cercò di smontare la tesi
della crescita della conoscenza...”
“No! Pietà! Basta con la filosofia. Io cerco un’altra cosa.”
“Lo so. Tu non cerchi la chiave della verità, cerchi la verità
della chiave.”
“Cioè?”
“Tu la chiave ce l’hai già. Dimmi se sbaglio. È la chiave di
una cassetta di sicurezza, una cassetta che contiene il tesoro delle
BR.”
“Non sbagli,” fa lui, con uno sguardo di apprezzamento, “ci
hai azzeccato in pieno. È una cassetta numerata. La banca che la
custodisce non è interessata all’identità del proprietario. Per accedervi bisogna usare un numero.”
“Tu conosci quel numero.”
“Sì, e lo conosceva anche Luciano.”
“Ciò che non conosci è la banca. Semplicemente non sai dove
si trova la cassetta, banale e ridicola situazione. Hai la chiave, ma
non ti serve a niente.”
“Brava. Molto brava davvero. Continua.”
“Fabrizio Gledo, il capo e tesoriere delle BR, vi ha rivelato il
numero della cassetta. A te e a Luciano l’ha rivelato. Successiva-
346
mente è riuscito in qualche modo a farti avere la chiave. Questa
l’ha data solo a te. A Luciano invece, e solo a lui, ha fatto conoscere il nome della banca. Magari voleva farvi un regalo. Tanto
lui, coi suoi quattro ergastoli, non se li sarebbe mai goduti quei
soldi. Magari vi ha chiesto di farne un uso particolare. Senonché...”
“Senonché…”
“Per costringervi a gestirli insieme, quei soldi, ha distribuito i
poteri. A te la chiave della verità, pardon, della cassetta. A Luciano la verità della chiave, vale a dire il nome della banca. A
entrambi il numero della cassetta. Ma...”
“Ma…”
“Lilli è riuscita a sapere qualcosa e ha intuito quanto stava accadendo. Forse è riuscita anche a impossessarsi di una delle due
informazioni, o addirittura della chiave. Questo punto non mi è
chiaro.”
“Te lo chiarisco io. Lei mi controllava la posta. Cinque giorni
prima di quello della morte di Luciano arrivò la lettera in cui Fabrizio mi rivelava il numero della cassetta. Lilli l’aprì.”
“Ecco perché eri tanto interessato a sapere cosa lei aveva fatto
nei cinque giorni che precedettero l’orgia.”
“Lei ha capito quasi tutto, ed era a conoscenza del numero
della cassetta. Si è resa conto del pericolo che correva per essersi
impossessata dell’informazione. Così, per assicurarsi ripartendo
il rischio, ha rivelato quel numero a varie persone, te compresa.”
“Io non avevo capito inizialmente. Non so se ad altri disse di
più. Io lì per lì non avevo capito l’importanza della rivelazione.
Poi, dopo la serie di omicidi e dopo aver decifrato la poesia intitolata P3+A-8xS-8 …”
“L’hai decifrata?”
“Eh, eh, tu non ci sei riuscito. Quando l’hai trovata sulla cima
del Kilimangiaro hai creduto che fosse nascosta lì la chiave della
verità e hai cercato di decifrarla.”
“Proprio così, e non ci sono riuscito. Tu invece sì? Cosa hai
trovato?”
“Ciò che già sai. È una poesia che deve essere decomposta per
capirla. Ma non è il suo contenuto letterario che ci interessa ora.
347
Dalla poesia ho avuto conferma del fatto che Fabrizio vi aveva
rivelato quel numero. Il titolo, oltre a dare la chiave per l’interpretazione letteraria della poesia, è una formula matematica. Luciano sapeva che a tutti Lilli aveva rivelato il numero della cassetta e che tutti cercavano un’altra informazione. Così, all’inizio
dell’orgia ci ha comunicato la formula matematica facendoci credere che contenesse l’informazione cercata. In realtà ci dava l’informazione che già conoscevamo. La soluzione della formula è il
numero che Lilli mi aveva rivelato: P3+A-8xS-8= 2919.”
“Come si fa a trovare questa soluzione?”
“Non te lo dico. Così ti diverti a trovarla da solo. Però ti voglio dare due indizi. La soluzione si ottiene assegnando il giusto
valore alle variabili P, A e S. I due indizi sono questi: S sta per
sostantivo, A per aggettivo.”
“Non mi diverto con certi giochetti. E mi fido di te se dici che
il numero è la soluzione. Dopo tutto, è quello giusto.”
“Infatti. Fabrizio a te aveva mandato il numero, a Luciano la
formula con cui poteva determinarlo. Così il Leopardo si è preso
doppiamente gioco di te quando ti ha spedito sul Kilimangiaro a
cercare la chiave della verità. Ti ha fatto trovare l’informazione
che già avevi.”
“O forse era destinata a te? Il libro sull’Africa…”
“Può darsi. Ma torniamo a Lilli. Lei non si rese conto che con
quella rivelazione aveva fatto il più grosso errore della sua vita.”
“Giusto.” Dice lui. “Continua.”
“No, continua tu.”
“Con la tua versione o la mia?”
“Perché? Divergono?”
“Precisamente a questo punto cominciano a divergere.”
“Allora dimmele entrambe.”
“Va bene.” Fa, assumendo un atteggiamento pedagogico. “Cominciamo con la tua. Io non volevo spartire il malloppo con altre
sei persone. Luciano aveva rivelato la formula a tutti, all’inizio
dell’orgia. Non sapevo che fosse solo la formula per conoscere il
numero della cassetta di sicurezza. Invece pensavo che rivelasse
il nome della banca. Se Luciano avesse spiegato a qualcuno come risolvere la formula, la situazione mi sarebbe sfuggita di ma-
348
no. Dico: qualcuno dei personaggi che hanno partecipato all’orgia. Quando Luciano fu ucciso, ho pensato che quel qualcuno lo
avesse ammazzato per prendersi i soldi. Io non sapevo chi era
quel qualcuno.”
“Così li hai ammazzati tutti.” Concludo.
“Non soltanto per evitare che altri si prendessero i soldi. Volevo anche venire in possesso dell’informazione eventualmente
detenuta dell’assassino di Luciano.”
“Logico. Magari li avrai torturati per farli confessare.”
“I famosi nomi nascosti nei capitoli del Nuovo corso non c’erano affatto in quegli aforismi. Li ho detti io a te, quei nomi, affinché tu li rivelassi agli altri del gruppo dell’orgia. Avendo reso
pubblico tra gli interessati il nome della vittima designata, la colpa dell’omicidio sarebbe potuta ricadere su ognuno di essi. Si sarebbero sospettati gli uni gli altri e ciò avrebbe facilitato il mio
compito.”
“Con Lucrezia però non c’era bisogno della messinscena, dato
che saremmo rimasti io e te.”
“Tant’è vero che il nome di Lucrezia non l’ho fatto. Ma tu hai
fatto il tuo.”
“Feci il mio nome per distogliere la tua attenzione da lei.”
“Io non avevo ancora capito tutto, mentre tu mi stavi attirando
nella tua trappola.”
“Questa non l’afferro.” Dico.
“Sì che l’afferri, mia cara. Perché quella che ti ho appena raccontato è solo la tua versione della verità. Esiste un’altra versione, la mia.”
“Che naturalmente è la vera! Sentiamola.”
“Molto semplice. L’assassina sei tu. Ti sei fatta rivelare da
Luciano il suo pezzetto di verità, dopo avere avuto da Lilli il
mio. In seguito hai fatto fuori i potenziali concorrenti. Ora sarebbe venuto il mio turno, poiché hai il numero della cassetta e il
nome della banca, ma ti manca la chiave, che ho io.”
“Tutto qua?” Dico, cercando di nascondere la sorpresa con un
sorriso di sufficienza.
“Ti sembra poco? I particolari lasciamoli agli inquirenti. A noi
interessa...”
349
“Così, se ora mi ammazzi la presenterai come legittima difesa.”
“La stessa cosa vale per te.” Dice sibilando.
“Vai avanti.”
“Io sarò in grado di dimostrare con una prova oggettiva che
l’assassina sei inequivocabilmente tu.”
“Come?”
“Possiedo l’arma del delitto. Mi sarà sufficiente far trovare
agli inquirenti quell’arma con le tue brave impronte digitali impresse sul manico.”
“Capisco.” Ripeto ancora, stavolta freddamente, e guardandolo dritto negli occhi.
A questo punto cala un silenzio che definire imbarazzante sarebbe eufemistico. Ci guardiamo fissi per qualche secondo. Sono
io che distolgo lo sguardo per prima. Fingo di cercare il mio pacchetto di sigarette. Ma mi accorgo di avere un vero bisogno di fumarmene una. Da una parte ho la sensazione di stare nella fossa
del leone. Dall’altra mi sento dentro la sicurezza e il disagio di
chi ha il dito sul grilletto. Continuo a cercare invano le mie sigarette con lo sguardo. Non oso alzarmi.
“Dammi una sigaretta.” Gli dico.
Lui tira fuori il suo pacchetto di Camel e me ne offre una. Per
accenderla si alza dalla poltrona e si viene a sedere sul divano accanto a me. Se ne accende una anche lui. Dà una tirata profonda
ed espirando lentamente si appoggia allo schienale rilassandosi.
Mi mette un braccio sulle spalle. Il che non contribuisce al mio
rilassamento. Fisso il vuoto davanti a me. Mi sento il suo sguardo addosso. Finalmente mi volto verso di lui. Faccio:
“Allora?”
“Allora abbiamo davanti a noi tre possibilità.”
“Sentiamo.”
“Primo: io ammazzo te. Secondo: tu ammazzi me.”
“Terzo?”
“Ci mettiamo d’accordo. Si tratta di un bottino veramente favoloso, che ora andrebbe spartito solo in due. Tu non hai la chiave della cassetta e io non conosco il nome della banca.”
“Come la mettiamo con la polizia?”
350
“In due sarebbe più facile. Ci forniamo un alibi a vicenda. Ci
inventiamo un serial killer, anzi due...”
“Le vergini folli?”
“Perché no? È forse senza una ragione che si sono meritate
questo soprannome? Non sarà difficile convincere i giudici della
loro ossessione per le scienze occulte.”
“A proposito, mi devi togliere un ultimo dubbio.” Lo interrompo. Gli racconto la faccenda dei cavalieri del nulla e la tesi
delle due matte, domandandogli cosa ne sa.
“Tutte cazzate.” È la sua risposta. “I cavalieri del nulla erano
una goliardata.”
“Loro ci credevano fermamente. E anche voi, tu e Luciano, ci
avete creduto.”
“Solo delle menti immature possono dare importanza a certe
fandonie. Noi ci giocavamo al tempo della nostra tarda adolescenza. Loro non ne sono ancora uscite da quel ritardo. Torniamo
agli omicidi.”
“Torniamo agli omicidi.”
“Bada che fra noi due chi rischia di più sei tu.” Dice fissandomi. “Per tutti gli altri delitti sembra che la polizia non abbia
uno straccio d’indizio. Però con Lucrezia hai lasciato tracce in
ogni angolo della sua casa. Da cui sei uscita alle sei precise.”
“Come lo sai?”
“Lo so.”
“Brutto porco.”
“Devo pur difendermi.”
“Stai bluffando.”
“Ti ho visto coi miei occhi. L’altro ieri, quando mi hai detto
che il messaggio nascosto nel quinto capitolo era il tuo nome, mi
sono insospettito. Sia tu che io cercavamo il quinto capitolo del
Nuovo corso. Tutti e due sapevamo che ce l’aveva Lucrezia. Così
ti ho seguito, quella notte, mi sono appostato davanti alla sua casa e ho aspettato. Quando tu sei uscita io sono entrato...”
“E l’hai ammazzata.” Concludo.
“Questa è la tua versione.”
“Invece la tua?”
351
“Ho trovato il cadavere ancora caldo. Ciò che non capisco è
perché hai sparso tutte quelle tracce in giro. Hai addirittura lasciato il pugnale nel corpo della vittima. Dovevi essere fuori di
te.”
“Brutto porco. “
“Ma io ti voglio bene e mi preoccupo per te. Ho preso il pugnale, l’ho lavato per benino e te l’ho portato.”
Così dicendo, infila la mano nella tasca interna della giacca e
ne estrae un involto, un fazzoletto bianco arrotolato. Lo srotola
sul tavolino accanto al posacenere. Ne esce fuori un prezioso pugnaletto. La strana lama ha una sezione a forma di croce e non è
più lunga di un palmo di mano. L’impugnatura è d’argento.
“Non raccontare storie.” Lo incalzo. “Conosco benissimo le
tue intenzioni. Mi strozzerai per legittima difesa preventiva, e poi
metterai le mie impronte digitali sul manico del pugnale.”
“Guarda che io propendo per la terza soluzione.”
Mi rendo conto che sto rischiando di brutto. Devo giocarmela
fine. D’altronde avevo previsto qualcosa del genere. Così gli dico
che la terza soluzione va bene anche per me. Discutiamo ancora
un po’ per definire i particolari, e per convincerci a vicenda che
non stiamo barando. Ma sono tutt’altro che convinta, e dubito
che lo sia lui. Per festeggiare l’accordo beviamo del Porto. Fatichiamo molto a sciogliere la tensione. Solo quando decidiamo di
scambiarci i nostri due segreti, il mezzo litro di vino che ci siamo
scolati comincia a far sentire i suoi primi effetti. Giuliano si riempie un altro bicchiere fino all’orlo e lo manda giù d’un fiato.
Quindi infila la mano nella stessa tasca dove aveva tenuto l’involto del pugnale e ne tira fuori una chiave. L’appoggia sul tavolinetto e mi guarda negli occhi.
“Ora sta a te.” Dice.
“È la filiale di Ginevra del Banco di Santo Spirito.” Dico.
“Mi devi convincere.”
Al che mi alzo, vado alla scrivania, prendo il foglietto su cui
ho trascritto Puttana santa e glielo mostro. Gli recito la poesia:
“Ti possiede chi ti paga, ma ti apri a chi cerca il Graal, purché
abbia la chiave. Il tuo corpo è uno scrigno prezioso e lo Spirito
Santo risiede in te, Ginevra.”
352
Lui segue la mia recitazione con gli occhi inchiodati sul foglio. Quando finisco alza lentamente la testa e punta nei miei
occhi uno sguardo freddo. Però si riprende in un attimo e la sua
espressione torna subito falsa e cordiale come prima.
“Tutto qui?” Mi fa. “Che significa?”
“Non l’ha scritta Luciano. È dedicata al Leopardo. Così ho
pensato che l’aveva scritta Fabrizio. Dopo di che non è stato difficile risolvere il doppio senso, sapendo che poteva avere a che
fare con un tesoro. Sembra avere un significato esoterico. La realtà è più triviale: lo scrigno prezioso è la cassetta; il Graal, il tesoro; benché il proprietario è colui che ha pagato il servizio bancario, se ne appropria chi possiede la chiave; e lo Spirito Santo
che risiede in Ginevra è la banca, una filiale svizzera del Banco
di Santo Spirito.
“Fantastico!” Fa lui. Quasi lo grida. “Semplice e geniale.”
Si sta entusiasmando. L’atmosfera ormai si è riscaldata. Il balordo comincia a ruzzarmi attorno e io sto al gioco. È il momento
di mettere in esecuzione il mio piano.
È un piano molto elaborato. L’ho denominato ‘soluzione terminale’.
Fase prima: gli do una bella stranita.
“Ti farò passare una notte indimenticabile.” Dico, scolandogli
la bottiglia nel bicchiere semivuoto.
“Questa è già una notte indimenticabile. Siamo miliardari.”
“Io ti darò di più. Ti farò vedere il volto di Dio.”
“Proprio quello che cercavo.”
“C’è un rito sessuale fantastico. Ne avrai sentito parlare e so
che ne sei curioso.”
“Ah, la famosa tecnica di Oshima?”
“È solo una parte. È un rito tantrico. Si chiama Panchatattva,
che vuol dire ‘cinque elementi’.”
“Ho sentito dire che è una cosa pericolosa.”
“Tu non sei tipo da temere pericoli del genere.”
“Che genere?” Domanda, con una lieve risonanza di trepidazione nella voce.
“Lo saprai al momento giusto.”
353
Lo prendo per mano e lo trascino giù per le scale verso il seminterrato. Lì c’è la mia sauna già in funzione. Lui vi si lascia
trascinare senza opporre resistenza, però guardingo.
“Prima dobbiamo purificarci e rilassarci.” Dico.
Lo spoglio rapidamente e lo spingo sotto la doccia bollente.
Mi spoglio anch’io e lo raggiungo. Giochiamo e ridiamo. Ci insaponiamo le cicce indugiando sulle parti immonde. Ci strofiniamo e ci baciamo. Lui si fa subito tutto un turgore. Ma non appena
giro la manopola dell’acqua fredda, si sgonfia. Si sgonfia in un
attimo. Si sgonfia con un urlo, sotto l’acqua gelata.
“Bisogna soffrire, per godere.” Lo consolo.
Poi ci lanciamo nel cubicolo di legno di frassino, dove la temperatura è già altissima. Con un grosso mestolo di legno raccolgo
dell’acqua da un catino e la getto sulle pietre di granito che si arroventano sopra la stufa. Se ne sprigiona uno sbuffo di vapore
bollente. Lui si distende sulla panca di fronte a me. Ripeto per tre
volte l’operazione. L’umidità e la temperatura salgono rapidamente. Mi distendo anch’io sulla panca di legno umido.
Per dieci minuti ce ne stiamo così, a goderci il calore infernale, distesi senza forze e senza volontà. Dopo di che usciamo e
ci tuffiamo sotto la doccia bollente. Passiamo dall’acqua calda
alla fredda con urli agghiacciati, è proprio il caso di dirlo. Ci riposiamo due minuti su dei lettini di gommapiuma e infine torniamo dentro il forno di frassino. Getto di nuovo dell’acqua sulle
pietre roventi. La temperatura e l’umidità salgono ancora.
Per tre volte ripetiamo ordinatamente tutte le operazioni: sauna, doccia, lettino e di nuovo sauna. Alla fine siamo cotti.
Con l’umidità e la temperatura al massimo, me ne sto lì distesa sulla panca dura, gli occhi chiusi, madida di sudore, la mente
vuota, il corpo abbandonato, il sangue che mi pulsa rumorosamente negli orecchi, quando sento una mano strisciare sulle mie
cosce. Apro gli occhi a fatica. Giuliano è seduto accanto a me
sulle tavole dell’impiantito e guarda il mio pube imperlato di sudore.
“Sarebbe questo quel rito pericoloso?” Domanda.
“Figuriamoci! No. La sauna serve solo per rilassarci. Per purificare il corpo e la mente.”
354
“Per rilassarci non c’è niente di meglio di una scopata.”
China la testa sulla mia pancia e comincia a baciarmi. Con le
labbra, la lingua, i denti mi esplora tutto il corpo. Potrei quasi
eccitarmi, se non fosse per l’oppressione del caldo e dell’aria satura d’umidità. Lo lascio fare. Meglio che si spompi. Lo avverto:
“Guarda che io sono completamente passiva.”
“Non chiedo di meglio.” Fa lui.
Mi prende per la vita e mi rigira come una porchetta. Poi mi
afferra i fianchi e mi mette a pecorina. Lo lascio fare. Lui mi si
dà dattorno con le mani e la lingua, e meno per infiammarmi che
per lubrificarmi. Non sono eccitata. Però lo lascio fare. Non tento
neanche di simulare un orgasmo. D’altronde conosco il cliente e
so che una completa passività da parte mia lo arrazza meglio di
un pompino. Gli sembrerà di farmi una sottile violenza. Infatti mi
penetra con foga.
“Non stancarti troppo,” gli dico, “il meglio deve ancora venire.”
“Voglio godermi ogni istante di questa notte.”
Ci mette un bel po’ per venire. Ma devo riconoscere che è già
tanto che ci riesca, in quelle condizioni. Quando usciamo per
l’ultima rinfrescata lui è più sderenato di un abbacchio pasquale,
e si sostiene a me nel breve tragitto dall’inferno di vapore alla
doccia. Solo quando si ritrova sotto il getto di acqua fredda riprende vita.
Altri cinque minuti di riposo sopra i lettini di gommapiuma.
Dopo di che ci asciughiamo, risaliamo le scale e torniamo in salotto.
Inizia la fase seconda: lo faccio volare fino alle stelle.
Gli metto addosso un kimono di seta giapponese di un bel
colore azzurro cesio ricamato d’argento.
“Sono colori lunari.” Dico. “Il rito implica una sorta d’inversione dei ruoli sessuali, sul piano spirituale.”
Lui si lascia vestire. Poi si stende sul divano e si abbandona
all’abbiocco. Mentre si riposa vado in camera da letto e preparo
l’ambiente. Inzuppo tre bastoncini d’incenso in una tazza di acqua ragia e gli do fuoco. Bruciando piano piano, riempiranno
l’aria del loro profumo spirituale. I vapori d’acqua ragia ci stor-
355
diranno la mente preparandola all’ebbrezza perversa che ci attende. Metto sul giradischi un pezzo di musica sacra indiana.
Accendo una piccola abat-jour e la copro con un velo rosso. Riempio una ciotola di olio profumato al muschio e la poso sul
comodino accanto al letto. Accendo il grande ventilatore appeso
al soffitto facendolo andare a bassa velocità. Indosso il mio kimono di seta giapponese, in realtà una vestaglia leggera e semitrasparente, dipinta a fiorami d’ibisco rossi e dorati. È molto corta, poco più di un baby-doll. Sotto, un cache-sex rosso fuoco.
Infine:
“Vieni,” grido, “si aprono le danze!”
Quando lui entra nella camera e mi vede vestita così, sdraiata
sul letto, ha un sussulto di voluttà negli occhi. Il suo kimono
slacciato lascia intravedere flaccide vergogne. Avanza cautamente. Ancora non si è ripreso dallo shock della battaglia in sauna.
Mi alzo, gli vado incontro, lo prendo per mano, lo trascino
verso l’alcova. Lui mi segue in silenzio. Ci fermiamo accanto al
letto. Mi accosto a lui, aderisco al suo corpo, mi sollevo in punta
di piedi e gli do un bacino sulla bocca. La mia mano libera striscia sul suo petto e risale con una lunga carezza fino al collo e
alla nuca. Infilo le dita sotto il kimono all’altezza delle spalle e
gli faccio scivolare via l’indumento. Lo spingo a sedere sul letto.
Lui appoggia il viso sul mio addome e mi bacia l’ombelico. Lo
spingo di nuovo e lo faccio sdraiare.
“Ora immagina di essere Shiva, il dio maschio. Chiudi gli occhi e ripeti questa formula: ‘Shiva hum’. Vuol dire: ‘io sono
Shiva’.”
Chiude gli occhi. Io mi siedo accanto a lui. Mi ungo le mani
di olio muschiato e comincio a massaggiarlo delicatamente. Parto
dal collo e scendo al petto, al plesso solare, alla pancia, all’inguine. Lo ungo tutto e continuo a massaggiarlo, finché la pelle non
ha assorbito completamente l’essenza profumata. Lui se ne sta lì,
moscio moscio che pare già in coma, con gli occhi chiusi e un
sorriso ebete sulla bocca. Solo qualche timido mugolio di piacere
mi rivela che non sta dormendo.
Gli infilo la mano sotto la schiena, lo faccio girare bocconi e
ricomincio a ungerlo. Lo friziono adagio, dalle spalle scendo giù,
356
verso i lombi, i fianchi, i glutei. I quali glutei sono ancora troppo
duri e tesi. Li picchietto con il taglio delle mani e insisto e insisto
fino a rompere ogni resistenza. Poi scendo alle cosce e garbatamente gliele allargo a 30 gradi. Le massaggio all’interno e faccio
risalire le dita fino a raggiungere il perineo. Sposto la mano
sinistra sui suoi fianchi e lo tengo fermo. Con il dito medio della
destra gli titillo vigorosamente il piccolo fascio di muscoli e nervi che congiunge l’ano al pene. Lui ha un brivido di piacere.
“Qui risiede Kundalini,” dico, “la potenza dell’universo. Ha la
forma di un serpentello attorcigliato. Se ne sta assopito in attesa
che qualcuno lo risvegli. La stragrande maggioranza delle persone non si accorge della sua esistenza nel corso di una vita intera.
Solo pochi eletti lo sanno, e tentano il risveglio. Solo pochissimi
ci riescono. Dice l’Apocalisse: chi oserà risvegliare il demone
che si annida nel ventre dell’uomo?”
“A questo mira il nostro rito?” Domanda lui, con la vocina di
un bambino.
“Sì. Il Panchatattva mira al risveglio per via sessuale. Bada,
però, che una volta risvegliato, il serpente può diventare pericoloso. Il problema non è tanto di destarlo, quanto di controllarlo.
Bisogna dirigerne i movimenti, farlo risalire lungo la spina dorsale e portarlo alla testa. Lì, se si riesce a farcelo arrivare, produrrà l’esplosione estatica. Quello è il momento più delicato e
pericoloso.”
Intanto lui si gira e si mette supino. S’intreccia le mani dietro
la testa e mi guarda con quei suoi occhietti perfidi e lubrichi,
mentre io continuo a massaggiargli il perineo.
“Non crederai di spaventarmi con queste bubbole!” Dice.
Risalgo con il massaggio fino al petto e gli titillo i capezzoli.
Lentamente torno a scendere giù. Con la mano sinistra gli
accarezzo le trippe, mentre con la destra scivolo verso il pube.
Comincia finalmente a vedersi qualche segno di vita.
“Kundalini si risveglia.” Fa lui.
“Non è così semplice.”
I segni di vitalità si fanno rapidamente più appariscenti. Al
che mi alzo e vado in cucina. Torno con il vassoio dei cibi. Lo
poso al centro del letto. Mi spoglio nuda e mi metto in ginocchio
357
accanto al vassoio. Gli occhi di lui luccicano di voglia. Mi chino
sul vassoio, prendo del riso e glielo metto in bocca. Lui non mi
lasca andare la mano prima di avermi leccato tutte le dita. Ripeto
l’operazione del riso con me stessa.
“Il riso è il simbolo della terra.” Dico. “Il pesce invece rappresenta l’acqua.” Porto la mano alla ciotola del pesce, ne raccolgo un po’ e gliene do da mangiare. Ne mangio anch’io. Passo
alla carne e ripeto l’operazione.
“La carne simboleggia l’aria e, con il cardamomo, la vita organica.” Mangiamo dei semi di cardamomo.
“Ora berremo una bevanda potente.” Proseguo. Afferro il
bricco di ceramica e verso il liquido verde in due grandi coppe di
cristallo. Bevo prima io, un sorso breve, poi un altro. Lui mi
guarda un po’ sospettoso, poggia le labbra sul bicchiere e assaggia.
“Ha uno strano sapore,” dice, “non male. Che roba è?”
“Strakè, un miscuglio di stramonio e sakè. È una bevanda diabolica. Nell’antichità la usavano le pitonesse, con il vino al posto
del sakè ovviamente. La usavano per darsi la trance. Nel Medioevo era la bevanda preferita delle streghe, che ne facevano uso e
abuso, soprattutto durante i sabba. Lo stramonio infatti veniva
chiamato ‘erba delle streghe’. È una strana droga. In piccolissime
dosi è un medicinale. In dosi più abbondanti diventa un allucinogeno e in dosi massicce un veleno. Può portare al coma, a volte
irreversibile. Stai tranquillo, comunque. Questo è in dosi da blando allucinogeno, giusto per esaltare i sensi. Così lo usavo con
Luciano, che me ne ha svelato i magici segreti.”
Per metterlo a suo agio, ne prendo un lungo sorso. Lui, come
se le due coppe non fossero state riempite dallo stesso bricco, posa la sua sul vassoio, mi toglie la mia dalle mani e se la scola
quasi tutta.
“Lo strakè simboleggia il fuoco. Ora abbiamo assunto in noi
quattro degli elementi fondamentali dell’universo. Ci resta il
quinto.”
“Che sarebbe?”
“Maithuna, il sesso.”
“Che simboleggia...?”
358
“L’unione di Shiva e Shakti, la creazione. Shakti è la divinità
femmina.”
“Che sarebbe incarnata in te.”
“Fino a un certo punto. Anzi, fino a un certo momento. Dopo
di che i ruoli dovranno invertirsi. Tu diventerai Shakti, la potente, io Shiva, il distruttore.”
Mangiamo ancora un po’ di carne e pesce, e di nuovo qualche
seme di cardamomo, che in realtà serve a purificare l’alito. Beviamo gli ultimi sorsi di strakè. A questo punto la musica sacra
finisce. Scendo dal letto e rimetto il disco.
Inizia la terza fase del piano: gli mostro il volto di Dio.
“È l’ora del maithuna.” Dico.
“Si,” fa lui, ammiccando alla bestia che ha tra le gambe,
tornata alle sue dimensioni anormali, “Kundalini freme dal
desiderio di risveglio.” Non ha capito un cazzo.
Mi afferra per le spalle e mi costringe a sdraiarmi supina. Comincia a baciarmi per tutto il corpo, con le sue labbra umide e
dure. Indugia sul seno e intorno ai capezzoli, che s’inturgidiscono subito. Quando si mette a stuzzicarmeli con la lingua e a stringerli tra le labbra e a mordicchiarli coi denti, sento ondate di brividi che salgono su per la schiena fino a raggiungere la sommità
della testa. Poi lui abbandona il mio seno e si avvia con la lingua
strisciante verso l’ombelico. Vi cincischia un po’ intorno e dentro, per ricominciare subito la marcia d’avvicinamento verso laggiù, dove sono già tutta bagnata. Mi apre le gambe infilandoci in
mezzo la testa. Mi s’incolla con la bocca alle grandi labbra,
mentre la lingua mi frusta dentro come un pesce nella rete del
pescatore. Ogni tanto risale in superficie per lambirmi la clitoride. Allora mi lascio sfuggire degli urli di gloria, mentre lui se
ne sta là piegato in due, in ginocchio tra le mie gambe, che sembra un peccatore al cospetto del suo Dio.
Viene il momento di quagliare. Lo afferro per la testa, stringendogli le tempie con le mani, e lo tiro su verso di me. Il suo
corpo si distende strisciando sopra il mio. Viene su piano piano,
guidato da me. La penetrazione è fluida e profonda come di una
lama affilata.
359
“Sento che verrò presto,” gli dico, “tu invece non devi venire,
altrimenti il rito non può neanche iniziare. Recita lo ‘Shiva hum’
mentre lavori.”
“Quando inizierà questo rito?” Mi fa lui, tra un ansito e l’altro.
“Quando sarai cotto al punto giusto. Devi essere più eccitato
di un santo al cospetto delle cinque tentazioni. Ora recita la formula e applicati.”
Lui prende a pompare con un movimento calmo. Io, da parte
mia, che solo quando sono veramente infiammata soffro di orgasmo precoce, gliene simulo subito uno, esplosivo e spasmodico.
“Non ti fermare,” gli intimo, “ne voglio un altro e un’altro
ancora. Intanto continua a recitare lo ‘Shiva hum’.”
Per fortuna lui è tutt’altro che un eiaculatore precoce. E la
lotta nella sauna sarà pure servita a qualcosa.
“Bravo.” Gli dico, dopo aver inscenato il terzo orgasmo in
dieci minuti. “Il segreto per la riuscita del rito è la ritenzione del
seme, e in questo tu sei anche più forte di Luciano.”
Lui, con un sorriso prostrato, esce da me e si accascia al mio
fianco, il membro sempre pieno di superbia. Ci riposiamo un po’,
quanto basta per riprendere fiato. Quindi attacco:
“Finora è stato tutto normale. Adesso comincia la vera musica. Per prima cosa dobbiamo realizzare un’inversione di polarità.”
“Come si fa?”
“Da questo momento dovrai identificarti con Shakti. Hai ancora negli occhi l’immagine del mio corpo che freme. Ora recita
la formula: ‘so Khum’. Vuol dire: ‘io sono lei’. Fra poco dovrebbero farsi sentire i primi effetti dello strakè.”
“Già li sento. La testa è piena di stelle che ballano.”
“Bene. Lasciati andare alle nuove sensazioni, ma senza perdere il controllo. Raccontami quello che ti succede. Ti aiuterà a
restare consapevole.”
I suoi occhi sono fissi sui fiori rossi della mia vestaglia, che
pende dalla testiera del letto.
“Cosa vedi? Dimmelo.” Gli ingiungo.
360
“Il fuoco. Si sprigiona dai fiori. I fiori sono di fuoco. Si alzano
a piccole fiamme e crescono fino al soffitto... È un’edera rossa
che si arrampica su colonne d’aria. No, è viola, nera, cobalto.
Salendo, produce una musica soave. Tamburi e cembali che
suonano note armoniose... La musica scende dal soffitto... sembra pioggia. No, dal cielo. Dal cielo rosso. Scende come una
pioggia leggera e oscillante. Le gocce sono perline variopinte. Mi
bagnano il corpo. La musica adesso si fa più forte. Viene da dietro quella porta chiusa, oltre la parete bianca. Vuole sfondarla,
ma la porta nera resiste. La porta... La porta resiste. È una musica
di violini. Entra dal buco della chiave ed è un filo di fumo viola.
Ora nel buco c’è una chiave. Gira... gira... gira. Ma lei non si
apre. La musica passa da sotto la porta... passa attraverso le fessure. È un flusso di vapori variopinti. Vola verso di me con potenti onde melodiose... Violini che rullano come tamburi... Sento
rumori terribili di là della porta. Ma lei non si apre. Se ne sta
salda, con lo sguardo feroce sopra di me. La chiave continua a
girare. Sento rumori infernali di là della barriera. Belve che
danzano al buio su un fuoco liquefatto. Ma lei non si apre. Sento
una voce che viene da dietro la porta, che parla dentro di me, che
dice qualcosa, che soffia, che ringhia... Legge da un libro dissigillato: ‘cosa non si farebbe per il cazzo’. E recita salmi. E preme
sulla porta. E la chiave continua a girare... Ma lei non si apre.
L’aria s’è fatta rovente. Sono sospeso nell’aria. Mille lombrichi
giallastri mi strisciano addosso... le dita di mille puttane... piene
di anelli di mille colori. Ah, quei violini! Che rumore assordante!
Più forte dell’odore di una passera mestruata. Spandono note di
fiele che si squassano contro la porta, venti di fiamma. Sento le
danze selvagge di cento leopardi di là. Gli uomini cantano feroci
come belve. Battono i piedi per terra e fanno vibrare l’intero universo. Battono, battono, contro la porta... spandono intorno un
puzzo di fiera infoiata. La chiave continua a girare, a destra, a
sinistra, a destra, a sinistra. La porta potrebbe squarciarsi. E io lo
voglio. Apriti! Apriti! Sì! Ecco, ora si apre. Si apre. Scompare.
Sì, non c’è più. Tutti i colori della notte mi si avventano addosso.
Sono una troia in calore. Gli uomini danzano intorno. Ne sento
361
l’odore di belva, ne sento il rumore. I piedi che battono il tempo
per terra.”
Qui si ferma. Seguono cinque minuti di silenzio. Sono impressionata. Non avevo mai visto un effetto così potente. Non me lo
aspettavo dallo stramonio. Può darsi che il dosaggio sia stato
troppo leggero. Prevedevo una rapida entrata nel coma, con scarsi effetti allucinogeni. E invece no…
Ora forse arriva l’esito che attendevo. Giuliano se ne sta lungo
sul letto, rigido come un bastone, i muscoli tesi, gli occhi e la
bocca serrati con forza. Ora dovrebbe essere finita la fase allucinatoria. Ora entra in coma, mi dico. Lo osservo con attenzione,
ne spio ogni minimo segno di vita, ogni tremore della pelle... E
invece no. Dopo un po’ i muscoli tornano a rilassarsi. La bocca si
distende. Gli occhi si socchiudono. Guarda verso di me. Guarda
attraverso me. Apre la bocca. Vorrebbe dire qualcosa. Emette un
bisbiglio incomprensibile. Mi avvicino con l’orecchio. Il bisbiglio si fa sempre più chiaro e più forte. Ricomincia a vaneggiare:
“È buio. È buio completo. Un buio lucente che penetra tutti i
miei pori. Le dita delle mille puttane mi suonano il corpo creando armonie dolorose. L’aria s’increspa di piccole onde caliginose... Onde fragranti di fiori e di morte. E di nuovo quella terribile
voce che legge dal libro proibito: ‘cosa non si farebbe per il cazzo’. Ma ora lo vedo, è lui, lo sento, l’uomo-leopardo... Danza
lontano oltre la porta che non c’è più. Batte per terra i suoi piedi
mostruosi... batte il tamburo coi suoi piedi dorati. E gira intorno
a se stesso, gira dentro la notte. Danza e saltella e piroetta dentro
la gonna d’organza. E gira e rigira e rigira, e viene verso di me.
Tiene sul capo e le spalle una pelliccia maculata... E viene verso
di me... Viene dentro di me. Aaaah. Mi copre la testa e le spalle
con quella pelliccia. Ecco, la testa è una maschera d’oro, la testa
dell’uomo-leopardo. Aaaah.”
Ancora qualche secondo di silenzio. Poi riprende.
“Ora vedo con gli occhi di lui... di lei. L’uomo-leopardo è una
donna, sono io. Continuo a danzare, faccio dei piccoli salti verso
il soffitto. Ora non giro, non giro più. Faccio dei piccoli salti
nell’aria dolce e odorosa di morte, dei piccoli salti sopra la punta
dei piedi, senza piegare le ginocchia. La notte è nera come il ma-
362
re infernale. Vedo nell’aria i numeri d’oro che reggono tutte le
leggi del mondo. I salti si fanno potenti... Resto sospeso nell’aria
sempre più a lungo... Sono in attesa dell’ultimo salto. Ma
l’uomo-leopardo non è... non sono... L’uomo-leopardo sei tu,
sono io.”
Gli occhi ora li tiene sbarrati, le pupille dilatate. Le labbra si
muovono appena. Le ultime parole si confondono in un soffio.
“Non ti fermare,” lo esorto, “continua a guardare e a descrivere quello che vedi.” Lo dico con voce ferma. Lui sembra sotto
l’effetto di un’ipnosi, e mi obbedisce prontamente.
“Sono... in attesa...”
“Di cosa?”
“L’ultimo salto... Eccone uno...”
“Così. Non ti fermare. Fai dei respiri profondi. Continua a recitare la formula magica: so khum.”
Silenzio.
“Ripeti con me,” insisto, “ripeti: so khum.”
Silenzio.
“Ripeti: so khum. Ripetilo.”
“So khum.” Barbuglia in un soffio.
“So khum.”
“So khum.” Sempre più debole. Gli prendo un braccio. È freddo e legnoso. Lo sollevo in aria e lo lascio andare. Ricade sul letto a peso morto. Lo tocco in vari punti del corpo. È freddo dappertutto. Sembrerebbe un cadavere, se non fosse per quegli occhi
sbarrati e terribili, fissi su di me. Le labbra sono socchiuse e i respiri, lievi e profondi, gli sollevano il petto con un ritmo lentissimo. L’enorme membro in erezione palpita come un animale ansimante.
Ora è cotto al punto giusto. Gli monto a cavallo e prendo il
suo pene dentro di me. Lo faccio penetrare a fondo. Comincio a
cavalcare con un ampio movimento del bacino. Gli poggio le mani sul petto e gli titillo i capezzoli. I suoi occhi hanno un lieve
sussulto, appena un cenno. C’è un’espressione di gioia e inquietudine in quegli occhi terribili.
“Continua a recitare la formula magica e non pensare ad altro.” Dico.
363
Le sue labbra fanno un movimento appena percettibile.
“Ora ti trovi in stato di grazia. Lo strakè sta producendo su di
te i suoi effetti magici. Su me non lo può, perché ho preso l’antidoto. Il tuo corpo è paralizzato, i tuoi muscoli sono morti e ne hai
perso ogni controllo, mentre i nervi e il cervello sono desti come
non mai. Ora ti trovi in stato di assoluta ricettività. Sei lei. Non
puoi fare niente eppure recepisci tutto. Non sei più un soggetto.
Sei un oggetto, un oggetto nelle mie mani; un oggetto sensibile,
direbbe il filosofo. Lo so che vorresti ribellarti. Non puoi. Lo so
che vorresti farmi mille domande. Non ti preoccupare. Le farò io
le tue domande e ti darò le risposte.”
L’espressione dei suoi occhi subisce una violenta metamorfosi
sotto la violenza delle mie parole. L’inquietudine si tramuta in
terrore. Non gli do requie:
“Mettiti l’animo in pace, considerati già morto e goditi questi
ultimi istanti di vita. Sì, ora ti ucciderò, amore mio. Non potevo
mica correre il rischio di fare la fine di Lucrezia e tutti gli altri?
Ti ho fregato, amore mio. Ti ho dato una dose massiccia di stramonio. Ti procurerà il coma. Non sono sicura che sarà irreversibile. Ma non ce ne sarà bisogno, poiché non ti ucciderà lo stramonio. Ti ucciderò io. Ti strozzerò, per legittima difesa. E tu
dovrai anche ringraziarmi, perché sarà una morte bella.”
Così dicendo, gli metto le mani al collo e comincio a stringere, dolcemente, gradualmente. Intanto il mio bacino continua a
cavalcare sul pene rigonfio.
“Ora ti trovi in stato di grazia,” insisto, “le tue capacità di
comprensione, di percezione, di godimento sono al loro climax,
mentre il tuo corpo attivo è come morto. Ora in un certo senso
sei un puro spirito, liberato dal peso della materia. È così, non ci
puoi fare niente. Perciò non ti angosciare e goditi il gran finale.
Ti farò provare il più potente orgasmo della tua vita, e forse vedrai veramente il volto di Dio.”
Le mie mani si stringono intorno alla sua gola con forza crescente. Già il viso gli comincia a diventare paonazzo.
“Questa è la famosa tecnica di Oshima, di cui eri tanto curioso. Me l’ha insegnata Luciano. È una tecnica dell’estasi. La riduzione dell’afflusso sanguigno al cervello serve ad attivare uno
364
stato alterato di coscienza. Luciano usava la tecnica in cerca
dell’illuminazione. Qualche volta usava lo stramonio; e allora lo
scopo era di entrare in catalessi. Tu in catalessi quasi ci sei. Prima, comunque, ti darò un satori. Credimi, non è una cosa facile
per me, nonostante l’esperienza. Non è facile. Devo dosare la
stretta al collo in modo da non ucciderti subito e, nello stesso
tempo, in modo da accendere lo stato alterato di coscienza un
istante prima dell’orgasmo. In Luciano questa tecnica, quando
riusciva, impediva l’orgasmo fisico e ne provocava una sorta di
uno mentale, lo scatenamento di Kundalini nella sfera dello spirito. Non era facile, no. Con te lo sarà ancora meno, perché voglio provocarti un orgasmo che è sia fisico sia mentale e farlo un
attimo prima della morte, il massimo del massimo.”
Tuttavia è più facile di quanto credessi. All’improvviso l’espressione dei suoi occhi muta di nuovo, e al terrore, in un istante, subentra un’esplosione di felicità; ma un’esplosione così potente che sembra gioia ineffabile. D’altronde c’è poco da affabulare. In quello stesso istante il suo corpo comincia a vibrare col
ritmo di una lavatrice in centrifuga. Gli stringo le cosce ai fianchi. Il suo viso è ora diventato blu. E gli occhi... oh, quegli occhi!
Cosa avranno mai visto?
Proprio mentre mi sento inondata da un getto potente di energia, lungo e ripetuto, quegli occhi che vogliono esplodere fuori
dalle orbite mi lanciano un ultimo lampo di odio e di stupore, sì,
e di beatitudine.
Quando scendo da cavallo sono spossata. Però non mi do tregua. Vado in salotto e prendo l’arma del delitto. Il pugnale crociato luccica tra le mie mani. Tenendolo col fazzoletto per la lama, metto l’impugnatura nella mano destra di lui. Gli stringo intorno le sue dita, in modo che ci lascino delle impronte chiare.
Dopo di che mi crolla addosso una stanchezza infinita. Allora mi
ciuccio le solite due pillole e mi concedo qualche ora di sonno
senza sogni.
365
EPILOGO
Le impronte sull’arma dei delitti non lasceranno dubbi agli inquirenti. Né mi sarà difficile convincerli che ho ucciso Giuliano per
legittima difesa.
Mi rendo conto che nella spiegazione che fornirò alla polizia
dovrò fare ricorso a delle mezze verità, anzi, a delle vere e proprie menzogne. È inevitabile. Chi testimonierebbe altrimenti la
verità vera?
Certo – direbbe lui – sarebbe la tua versione. – La quale è per
me l’unica – potrei rispondergli. Qui mi si apre un problema di
natura logica che parrebbe scombinare tutto il diario, questo diario così ambiguamente veritiero. Ora che l’ho riletto da cima a
fondo, e con attenzione, ho trovato che è un resoconto particolareggiato dei fatti… secondo la mia versione: Giuliano è
l’assassino di almeno quattro vittime e io sono la quinta vittima
designata che si è difesa uccidendo. Nondimeno mi rendo conto
che il diario rappresenta un valido riscontro per me, che sono
convinta della sua veridicità, e solo per questo.
Ho provato a rileggerlo in un’altra ottica, quella di Giuliano, e
ho capito che lo stesso resoconto dei fatti, interpretato come non
del tutto veritiero, potrebbe sostenere altrettanto bene la sua verità, cioè che la pluriassassina sono io e lui la quinta vittima designata.
A questo punto mi viene un dubbio. Che la cosa mi sia sfuggita di mano? Che io stessa sia andata inconsciamente oltre le mie
intenzioni? Però non vedo perché dovrei farmi impressionare da
certi problemi. Sono problemi del lettore, non miei.
Il mio problema è un altro, in quanto c’è qualcosa che ancora
non quadra nella stessa mia versione dei fatti. Ho proposto, nella
vittima dell’ultimo omicidio, l’omicida delle precedenti quattro
vittime. Non ho un’idea di chi sia l’omicida della prima. Chi ha
ammazzato Luciano la notte dell’orgia? Se quei quattro sono stati uccisi perché uno di loro poteva essere in possesso di un segreto carpito a Luciano dal suo assassino, quest’ultimo non può essere la stessa persona che ha ucciso quelli; se il segreto lo avesse
366
carpito lui, non avrebbe avuto bisogno di ammazzare nessun altro dopo Luciano. D’altra parte, se l’assassino di Luciano fosse
stato una delle successive vittime, allora la serie degli omicidi si
sarebbe interrotta a quello dell’assassino stesso. Giuliano avrebbe continuato a uccidere finché non avesse trovato l’omicida
di Luciano. E siccome l’ultima sua vittima designata ero io,
proprio io avrei ucciso Luciano. Tesi che risulterebbe confermata
dal fatto che infine il segreto, il nome della banca, era in mio
possesso.
Questa versione in ogni caso è basata sul presupposto che sia
valida la mia verità; e dunque potrebbe essere contraddittoria,
giacché nella mia verità non rientra la possibilità che Luciano lo
abbia ucciso io.
Se invece partissi dalla versione di Giuliano, allora, essendo
lui l’ultima vittima designata, proprio lui avrebbe dovuto possedere il segreto del nome della banca. Ma ciò non ha senso, visto
che lui lo cercava da me.
Così nessuno degli altri sei personaggi dell’orgia può aver ammazzato Luciano, se la mia logica non difetta. Chi l’ha ucciso?
Ecco il problema.
La soluzione ora mi si presenta nella forma di un bivio. La
prima strada conduce a una verità sofistica: che la logica della
storia non solo può essere diversa da quella del narratore, ma può
essere più di una. Perché esclusivamente la verità di Giuliano o
la mia? Perché non due, tre, molte verità? Perché una di esse non
potrebbe risolvere il problema della morte di Luciano? E perché
non potrebbe esserci una verità dal punto di vista di ogni personaggio? Mettiamo, ad esempio, le vergini rosse: non potrebbero
scoprire nell’epilogo di questa storia una conferma della loro tesi
sul complotto esoterico?
Certo, in quest’ottica tutto è possibile, perfino che Luciano sia
stato ucciso per sbaglio da Lilli, o addirittura da me, con la tecnica di Oshima. E che il romanzo giallo che ne è seguito debba
risolversi alla fine in un’apocalisse scatenata dal caso.
Però, se ne può risultare una visione incoerente, oppure coerente col punto di vista delle vergini folli, allora perché non anche una coerente, che so? con un punto di vista di Luciano?
367
Qui si apre la seconda strada del bivio, ed è più bella e romantica di una Weinstrasse altoatesina. Con essa narrerò la fine di
una storia che, alla fin fine, potrebbe ben avere un lieto fine. Dopo tutto, è la verità che io preferisco. Anzi, se volessi misticheggiare, potrei dire che è quella che preferisce me. Infatti non so
resistere all’impulso di scegliere la strada del sogno e dell’incanto; un impulso tanto forte che, appunto, sembra sia stato questo
finale a tessere le fila della storia per trascinarmi a lui.
Perché Luciano non potrebbe essere vivo? Ho riletto il diario
alla luce dell’assurda domanda e mi sono accorta che vi sono
disseminati indizi che sembrerebbero tramare a favore di una
conclusione così stravagante. Evidentemente la narratrice li ha
registrati senza accorgersene; potenza della debolezza del soggetto!
L’ipotesi è che Luciano, durante quell’orgia, si sia appartato
in un angolo e si sia messo in catalessi. Noi altri sei, presi
dall’ansia e dalla precipitazione, l’abbiamo scambiata per morte.
Più tardi, dopo la nostra fuga, lui s’è risvegliato e se n’è andato.
In seguito, o magari anche prima del fattaccio, può aver deciso di
giocare con noi come un gatto coi topi. Si sarà nascosto in
qualche luogo appartato da cui avrà osservato l’evoluzione del
gioco, magari intervenendo quando necessario. Potrebbe essersi
nascosto in casa delle vergini folli. Non è forse vero che loro
avevano rinviato a Luciano come a un alibi per l’omicidio di
Lilli? E il loro interesse alla mia persona negli ultimi capitoli
della storia, quel loro condurmi per mano lungo la strada che
portava alla soluzione di ogni enigma, non può essere stato un
agire manovrato da lui?
Lui se ne sarebbe rimasto in disparte, aspettando che ci ammazzassimo tutti, l’uno dopo l’altro. Sì, più ci penso, più mi
convinco: questa è la soluzione giusta. O no? No, è troppo incredibile! È troppo bella!
E se fosse vera? Se lo fosse, ora dovrei poter dire: lupus in
fabula. Infatti mi pare di sentire dei passi fuori della porta. Sì,
deve essere lui. Mi pare di sentirlo. O me lo sto sognando? Potrebbe essere proprio lui, o potrebbe non essere.
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Ora salirebbe le scale. Mi pare quasi di vederlo mentre sale gli
scalini dell’ingresso, con il suo passo strascicato, il cronico broncino sotto i baffi spioventi, i pollici infilati nelle tasche posteriori
dei jeans come Paul Newman in Hud il selvaggio.
Oddio, ora mi accorgo che di lui non ho mai dato una descrizione. Quanto deve essere lacunosa la mia narrazione se il
protagonista è senza volto! Però è giusto che sia così, se la storia
ha voluto farsi scrivere così. D’altronde non era lui un protagonista fantasma, un soggetto assente? E non è stato presente,
quando lo è stato, solo coi prodotti della mente? E perché
un’esposizione di prodotti mentali dovrebbe essere meno efficace
di un tratteggio figurativo? By the way, adesso mi accorgo di
un’altra lacuna: non ho mai dato uno straccio di descrizione neanche di me stessa. E di me non posso certo dire di essere stata
assente col corpo e presente solo con la mente. Pazienza! Del resto non è detto che anche questa lacuna non abbia il suo significato.
Dunque ecco, Luciano salirebbe le scale adagio, consapevole
della suspense in cui mi terrebbe appesa. Si fermerebbe un istante davanti alla porta. Poi busserebbe coi suoi tre inconfondibili
brevi colpi secchi. Io andrei ad aprirgli con calma, frenando un
impulso a correre, e i capezzoli mi s’indurirebbero sotto la camicetta. Aprirei. Ci guarderemmo senza fiatare. Entrerebbe. Faremmo roba. Subito. Senza fiatare.
Dopo potremmo riacquistare l’uso della parola, solo dopo,
nell’atmosfera magica delle First Meditations di John Coltrane.
Luciano mi reciterebbe la nostra poesia, quella stramba poesia
che mi regalò il giorno del primo anniversario del nostro menage
post-idillico:
MINESTRONE ALLA MAJAKOVSKIJ
Solo una pioggia di baci saprebbe spegnere il fulgore
di una coppia di glutei ardenti. Come in un letto
di morte il giorno ci vorrebbe sprofondare dentro,
un tuffo che vale mille mietiture di vendetta.
Hai voglia ad affilare i denti della rabbia sulla pietra
dura della democraxia! Non esiste rivalsa
369
che tenga al furore di un affondo in quell’oscurità.
Non c’è sole che bruci o fiume che scavi come
la sete di quel nulla. Né so di un solo discepolo
del buio, di un solo anarchico dall’animo assassino,
che non abbia voluto abbeverarsi a quella notte prima
che la bocca del cielo possa spalancarsi sull’alba
dei secoli. All’orda dei sensi scatenata da un solo
desiderio non basta l’urlo di tutte le utopie. La rivolta
che ingolfa il mio respiro non conosce tregua, eppure
proprio non tiene contro i secreti di una vulva turgida.
L’amore è un cocktail di umori corporali.
E come le flotte corrono al porto, e più veloce
dei treni verso la stazione, corre l’amore all’approdo
tra i monti dei seni e fa rombare il sangue agli orecchi.
E quando fianchi rotondi come coppe
si aprono allo schianto della mente, le schiere
delle idee e delle visioni si sfaldano all’urto delle sue
armate. Dice: Oltre l’amore non c’è sole. Proprio così:
L’amore è meglio di tutte le più prelibate zuppe di cavolo.
Non avevo mai penetrato il senso di questa poesia, e se debba
essere interpretata come una dichiarazione. Ma ora l’ho afferrato.
“Non m’inganni più caro.” Gli direi. “Finalmente ho capito
una cosa di te che tu non hai compreso.”
“Sarebbe?”
“Tu, quando parli di sesso, credi di svilire l’amore. Invece
cerchi di esorcizzarlo. Ma…”
“Ma?”
“Quando parli di sesso, tu parli d’amore.”
Lui si schermirebbe, e cercherebbe di confondermi le idee con
la filosofia:
“Resta il fatto che aveva ragione il filosofo della follia: La
verità è laggiù.”
“E allora a che serve la chiave della verità?”
“Ormai dovresti averlo capito. A che può servire se non a sorprenderla?”
Ovvio no? E mi affretterei a cambiare discorso:
“Così alla fine”, gli direi, “i soldi te li becchi tu.”
370
“Li spartiremo fraternamente.”
“E tutto questo cataclisma di morte, solo per qualche miliardo
di Lire? Quindi l’uomo nuovo non è che un volgare opportunista.”
“Volgare, sì,” direbbe lui, “un superuomo comune.”
“Ma l’uomo comune non ha filosofie. Che ne sa del mondo?”
“Che del mondo in sé non vale la pena di sapere niente.”
“L’uomo nuovo è uno che non sa niente?”
“Sa che il mondo è retto da un’unica legge.”
“Sentiamo.”
“Chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato.”
“E basta?”
“No.”
“Cos’altro?”
“Non gli basta.”
Che bello se la storia finisse così! Sarebbe come l’inizio di un
mondo nuovo. Ma purtroppo non ho ancora sentito nessun toc
toc toc sulla porta di casa.
Ciò mi fa tornare coi piedi per terra. E come accade di solito,
quando precipito dalle vette dei miei sogni ad occhi aperti tendo
a sprofondare sotto il livello dei piedi. Mi sento annientata, svuotata, irrimediabilmente disperata.
Neanche la mia terapia cinica riesce a salvarmi dall’avvilimento. Non è vero che, se nulla ha senso e nulla valore, insieme
alla gioia perdiamo anche il tormento. Aveva ragione quella maitresse americana quando diceva che una puttana che pensa è una
puttana triste.
Ora la fantasia corre al mazzetto di stramonio che è rimasto
sul tavolo di cucina. Ce n’è quanto basta per farne una pozione
letale. E se mi decidessi a dargliela vinta? Magari potrei farlo
domani, quando si sarà completamente esaurito l’effetto dell’antidoto nelle vene. Ma forse domani lui verrà.
Ecco che mi lascio di nuovo travolgere dall’inclinazione a
sognare ad occhi aperti. Ah, che sogno sarebbe poter dire
FINE
371
ALLEGATO
NUOVO CORSO DI FILOSOFIA NEL BOUDOIR
373
Capitolo I
DEL DESTINO DELL’UOMO: LA DONNA
C’è del nulla in tutti i soggetti. Non dico ‘Soggetto’: questi morì uccidendo Dio, prendendone coscienza. Ma proprio ‘i soggetti’. Attendiamo un omicidio definitivo.
C’è del nulla in ogni uomo. Ma col nichilismo compiuto nasceranno uomini nuovi: quando avranno imparato a non essere per se stessi,
a trasgredire tutte le leggi, a infischiarsene di tutti i valori, a rinunciare
a ogni fine. E anche qui: non la Legge, il Valore, il Fine, ma molto di
più.
Però si tratta precisamente di quel famoso salto che la filosofia non
può fare. Si tratta di farlo, non di pensarlo. Per farlo si dovrà rinunciare ad agire: l’azione infatti è un movimento verso un fine sostenuto
da valori e regolato da leggi. L’abbandono sostituirà l’azione.
E anche la volontà di potenza, quest’ultimo baluardo dell’essere, se
ne va con l’azione. Gli uomini nuovi rinunceranno all’essere e a ogni
suo strascico. Allora verrà il momento della donna.
Lei sa, la donna, cosa vuol dire non essere, e in quest’impresa si
troverà in una posizione privilegiata. Non è rinunciando a essere ciò
che altri hanno deciso per lei, che la donna si libererà, ma essendolo
fino in fondo. Così libererà l’uomo.
Dall’io femminile partirà l’ultima azione, dalla coscienza della propria nullità. Questa presa di coscienza è una non-azione sommamente
disgregatrice. Solo annientando in se stessa ogni residuo di umanità la
donna si libererà.
Così soltanto potrà liberarci. Quando non ci saranno più oggetti, gli
uomini impareranno a non essere dei soggetti.
375
Altro, oltre, altrove: questo è la donna nel mondo degli uomini.
Perciò è sacra. E sulla sacralità di lei poggia ogni metafisica, fonte e
prodotto dell’immaturità dell’uomo.
Però l’oppressione della donna poggia sull’immaturità dell’uomo.
E lei, in quanto coltiva la propria sacralità, si fa strumento della propria oppressione.
Se lei si piega alla volontà dell’uomo, lo fa rendendosi preziosa,
desiderabile, inavvicinabile. L’uomo la desidera come una parte di sé
perduta. Solo perché lei non gli si dà lui la vuole.
È con l’uomo e con se stessa che la donna deve lottare. L’uomo ha
bisogno di conquistare la donna, di corteggiarla, di adularla, di sedurla, di violentarla. Ha bisogno di possederla. L’uomo non ha la donna
presso di sé. Per questo ha bisogno di prenderla. Contro tutto ciò lei
deve lottare.
Che ne resta della donna, una volta conquistata? La donna conquistata ne deve pagare la colpa. Da quel momento sarà eternamente in
colpa. Per questo si darà. La dedizione è il destino della donna conquistata.
Così l’uomo la pretende come un risarcimento per la perdita del sacro, la dedizione della donna; la donna la concede come un’espiazione. L’uomo ha bisogno di ottenerla, la donna di darla.
La donna, appena conquistata, come in una pena del contrappasso,
diventa lo scrigno di ogni delizia, o almeno la parvenza. Esisterà per
dare piacere. Per questo non potrà mirare al proprio piacere. Farà
l’amore per l’uomo. A lui darà il piacere.
Ma se la vera causa dell’oppressione della donna non è la dedizione, bensì ciò che la causa, la sua sacralità, allora solo dandosi
liberamente la donna potrà liberarsi.
376
E quando l’uomo non avrà più bisogno di cercarla, di cercarla altrove, quando l’avrà presso di sé, imparerà a riconoscersi in lei e non
dovrà più volerla conquistare.
Liberamente la donna si darà. Chi lo fa è una free prostitute. Non è
per l’altro. Non è per sé. Non è oggetto. Non è soggetto.
Free nel senso duplice di ‘libera’ e ‘gratis’. Lei si dà all’altro senza
freni e senza prezzo.
Questo non è libero amore, è il suo opposto: la free prostitute non
si dà a chi vuole, ma a chi la vuole.
Cosa abolisce la free prostitute? Abolisce la necessità della conquista, insieme al premio. Non chiederà altro prezzo, ai propri clienti, che
il piacere. Dandosi liberamente, rifiuterà ogni dedizione.
La totale disponibilità di lei non sarà altro che una forma di egoismo senza limite. L’uomo che la frequenterà imparerà a sue spese che
il proprio piacere non è più neanche concepibile se non in funzione del
piacere altrui. Alla fine solo gli uomini liberi frequenteranno le donne.
La free prostitution, se accadrà che si avveri questo sogno, può
essere la salvezza dell’umanità: con essa l’umanità imparerà a perdersi.
Le donne che realizzano questa filosofia si fanno pubblicane, peccatrici immonde. Esse non subiscono imposizioni, né riconoscono leggi, valori e fini nel decidere che fare, neanche le leggi, i valori e i fini
che possono provenire dalla propria identità.
Questa filosofia potranno realizzarla le donne che si fanno pubblicane, esattrici esose. Loro si danno a tutti. In cambio vogliono tutto.
Guai all’uomo che le frequenta senza rinunciare a se stesso. Il sogno
sarà conquistato quando anche gli uomini avranno imparato a darsi
senza freni e senza prezzo.
377
Tutta la storia, ma la storia scritta, è storia della preparazione della
donna a questo atto. È dall’istante della nascita che l’uomo si è messo
in attesa di questo momento. Lo ha desiderato e sognato. E lo ha preparato educando la donna al vuoto e alla ribellione.
Ora che finalmente vede il paradiso, l’uomo si fa impaziente, e freme, e grida: Donne, ancora uno sforzo… se volete essere pubblicane.
378
Capitolo II
DELLA LETTERATURA
BREVE STORIA DI UN LUNGO INGANNO
È col suo primo atto di liberazione che devasterà le nostre lettere la
donna. E porterà a compimento il lungo processo di rivelazione attraverso cui la regina delle scienze umane giungerà infine a realizzarsi
nel proprio annullamento.
Questa disciplina aspirava a dire la verità, e s’era costruita nella
menzogna il proprio metodo. La disciplina del metodo piegava lo scrittore a dire la verità mentendo. Egli non capiva che precisamente in
questa ambizione a dire la verità stava la menzogna più profonda.
Il Trecento diede avvio alla vicenda che avrebbe portato alla perdita dell’aura. Cominciò con la produzione di merci. E bisogna dire
chiaramente che le condizioni di quella perdita non si danno nel
processo lavorativo bensì in quello di valorizzazione. Cominciò nel
Trecento, ma cominciò appena, quando si prese la vita della gente
comune a oggetto d’indagine. Cosa fu il Decamerone se non la prima
rivelazione delle aspirazioni scientifiche di questa disciplina?
Ogni campo d’indagine ha la sua scienza. Le relazioni sociali pertengono alle scienze sociali: in quanto merci, all’economia; in quanto
ruoli, alla sociologia; in quanto vita, alla letteratura. La vita, cioè lo
spirito inteso come secrezione degli scambi sociali: si trattava solo di
scriverla. Questa era la materia della scienza di Boccaccio e di Shakespeare.
Però è anche col metodo che si identificano le scienze. Quello delle
lettere è il modo della scrittura. Poiché scrittura è descrizione, la buona descrizione deve essere buona scrittura. Solo in quanto tale essa
potrebbe rivelare il vero della vita. Il bello era il metodo del vero.
La menzogna della scienza borghese, così, fu duplice! Poiché la
vera materia era solo la falsa coscienza degli oggetti descritti; e il
379
metodo solo la forma assunta dalla sua speciale retorica nel tentativo
di autoccultamento.
Poi ecco la seconda fase: il romanzo. Il dovere scientifico alla
verità già si piegava consapevolmente al servizio di un’ideologia. Così
la storia naturale dell’umanità si tramutò in una sorta di entomologia
sociale. Un passo indietro e due avanti, comunque. Il verismo fu il
massimo della menzogna: si faceva passare per spiegazione, ora, l’ossequio più spudorato al senso comune. Questo era il passo indietro.
Per le pretese filosofiche, però, fattesi più limpide, vennero i primi
segni di cedimento. Dalle crepe della falsa coscienza trapelavano
squarci di luce. Gli scrittori più acuti sapevano che i fatti che contano
sono quelli che accadono nella testa della gente. E questo fu il primo
passo avanti. Dostoievski chiuse l’era aperta da Cervantes.
Quando entrò nei mercati, abbandonando le corti, il metodo divenne stile. Questo fu il secondo e il più importante dei passi avanti, perché dietro l’apparenza dell’imitazione connotativa cominciò a fare
capolino la vaga intuizione della produzione di merci.
La terza fase l’annunciò, con un secolo d’anticipo, il Divino Marchese. Il quale mise in chiaro tre cose: che il sociale risiede nell’individuo, che lo spirito si nutre del suo corpo, che la scienza è discorso.
Ma restava ancora un passo da fare per il raggiungimento della
perfetta consapevolezza: la presa d’atto della natura di merce del prodotto letterario. Fu solo con tale consapevolezza che l’aura poteva
andare veramente perduta. Altro che rivoluzione tecnologica! Si trattava di capire che la disciplina nella rappresentazione della vita non
era che la forma, anzi, la confezione, con cui l’ideologia borghese
poteva essere rivenduta alla borghesia come verità. Questo fu il passo
più lungo e difficile.
Già de Sade sapeva di scrivere per un pubblico particolare. Poi vennero i romanzi a puntate, e l’interazione tra consumo e produzione di-
380
venne più stretta, il contenuto di una puntata venendo a dipendere
dalle reazioni del mercato alla puntata precedente.
Il processo si era quasi concluso quando Jack London decise che
non avrebbe lavorato per scrivere il Grande Romanzo Americano.
1000 parole al giorno, dieci cents a parola; e quando perdeva a poker,
gli straordinari. Jack London assunse su di se con la gioia del martire
il fardello dello scrittore libero: la coscienza di produrre merci.
C’eravamo quasi. Ecco invece che venne il Novecento, la grande
reazione antiborghese dello scrittore borghese. Quelli che avevano capito furono relegati nelle note a pie’ di pagina come scrittori minori. E
si cercò di ricreare una sorta di aura posticcia. La descrizione del
sociale era solo riproduzione di un’ideologia? Allora: via il sociale! Si
trattava dell’ideologia della borghesia? Allora: via la borghesia! Peggio, una borghesia vincente? Allora: via l’eroe!
Si ridusse a studiare l’animo umano, il romanzo. Distrutta l’oggettività del sociale, restava un’ancora di salvezza: l’oggettività
dell’io, se non proprio la sua semplice esistenza. Ma si era solo sostituita all’imitazione della sociologia quella della psicologia, la più
tremenda delle scienze borghesi. Dall’entomologia sociale si passò
alla teratologia spirituale.
Ahimé, poi non parliamo del metodo. La forma era solo una gabbia
del pensiero? Ed ecco l’avanguardia! Il grande equivoco della quale fu
questo: che dietro la legittima aspirazione a liberare le parole dal Bembo e dal Petrarca e le idee dal capitale e dal partito, si nascondeva la
velleità di rigenerare l’aura perduta.
E si sa: nel trito romanzo borghese lo scrittore poteva mentire; il
lettore lo sapeva e faceva finta di niente. Ma restava saldo un principio
di onestà, di sana moralità mercantile: si scriveva per farsi leggere. Il
lettore pagava e lo scrittore era tenuto a fornire una merce fruibile. Il
mercato comunque assicurava il rispetto della legge: niente vendite,
niente pubblico; niente pubblico, niente lettore; niente lettore, niente
scrittore.
381
Fu basata su una nuova convenzione la letteratura d’avanguardia:
non più il patto di sospensione dell’incredulità fra scrittore e lettore,
ma un patto di sospensione dell’onestà. Lo scrittore non scrive per farsi leggere, perché non vuole produrre merci. Il lettore non compra per
leggere (è noto che nessuno ha mai letto Laborintus fino in fondo,
neanche Sanguineti, neanche in bozze).
Perché mai allora uno comprerebbe un libro d’avanguardia? Ebbene: per poterlo citare dentro un altro. Con l’avanguardia non si legge
più, si scrive soltanto. E la citazione è fondamentale: serve all’identificazione, è un segno d’appartenenza al club degli scrittori antiborghesi. È così che si pensava di aver ricostituito l’aura: un prodotto che
non è più merce ed è fruibile solo da un’élite.
Il nuovo autoinganno fu reso possibile, in realtà, da un nuovo fenomeno sociale: la nascita dell’intellettuale-massa. Cosa garantirebbe
altrimenti le dimensioni minime del mercato? I nuovi poeti non sapevano che la produzione crea il proprio mercato e che è in grado di
preservare il suo carattere di massa solo in quanto sa produrre merci
diverse per segmenti diversi del mercato. La produzione di massa crea
mercati specializzati e merci speciali: Asimov per i bancari, Maigret
per i pensionati, Alberoni per le casalinghe, Queneau per gli intellettuali.
Però l’avanguardia fu il canto del cigno dell’illusione che la letteratura sia altro. Dopo c’è solo il riconoscimento di un fatto elementare:
che nella mercificazione dell’arte non c’è la sua morte, ma la sua rinascita. È qui che entrano in scena le donne.
Le donne, relegate alla più consueta delle loro funzioni, quella di
riproduzione, sono state sempre escluse da ogni forma di produzione,
quindi anche dalla letteratura (a parte, com’è ovvio, le note a piè di
pagina).
Ora è perché vogliono il potere di produrre che le donne danno
l’assalto alla letteratura. Ed è perché vi cercano solo il potere di pro-
382
durre che la conquistano. Ed è perché la conquistano loro che la restituiscono a se stessa dopo secoli di virili menzogne.
E la nuova letteratura non cercherà la verità, ma la produrrà, non
vorrà descrivere mondi, ma crearli, non vorrà penetrare la realtà, ma
giocarla. La nuova letteratura la butta in gioco. Per essa non c’è nulla
di latente dietro il nulla manifesto, e tutta la sostanza che c’è sta
nell’apparenza. Una scoperta, questa, che, mentre ci toglierà i fondamenti da sotto i piedi, ci libererà dal tragico della loro perdita. La
nuova letteratura mira a molto di più che a rappresentare la vita: mira a
inventarla.
Andrà perduto anche il metodo, con l’oggetto d’indagine. Quando
la sostanza non si distingue più dall’apparenza, non avrà più senso
tenere separata la forma dal contenuto. Per questo, anche, la nuova
letteratura sarà territorio di conquista delle donne. Solo chi cerca in
essa la libertà potrà usarla per liberarsi da ogni disciplina. La rinuncia
a scrivere il Grande Romanzo cambierà la forma del romanzo: lo
disgregherà. Il nuovo romanzo, se così si potrà ancora chiamare, sarà
giallo, rosa, nero e tutti i colori dell’arcobaleno, e saggio e trattato e
poesia e musica. Infine, quando si sostituirà consapevolmente all’ambizione di scrivere il capolavoro quella di scrivere il best seller, allora,
e solo allora, avrà veramente senso rinunciare allo stile in favore degli
esercizi di stile.
Il decalogo della nuova letteratura:
Non esistono parole privilegiate. Si scrive ciò che si dice.
Uno stile vale meno di molti stili.
La connotazione non vale né più né meno della denotazione.
Ogni pretesa di originalità è un’ammissione d’ignoranza.
La musica non è privilegio di un genere.
Non fatti, ma parole. Le parole sono idee.
La sociologia e la psicologia sono peccati mortali.
Scopo principale di un libro è di essere letto.
Gli unici valori che contano sono quelli del mercato.
Scrittori non si nasce, si nasce analfabeti.
383
Capitolo III
DELLA SCIENZA: CHE NON SI DISTINGUE DALL’ARTE
Perché mai si dovrebbe dar credito all’illusione idealista secondo cui
l’attività umana è mossa da tre distinti fini supremi? Il fine è uno solo:
l’utile. Il bello è il mezzo. Quanto al vero, solo da poco tempo si è scoperta la tragica ed esaltante verità: che la verità della verità è la sua
utilità.
Non c’è che l’azione umana alla base di tutto. Un’azione presuppone una decisione, e questa uno schema d’azione, cioè un insieme di
segni strutturato nella forma di una relazione tra determinati fini e i
mezzi per perseguirli.
La teoria è prassi: una legge è uno schema d’azione astratto da fini
particolari, un insieme di segni che individua una relazione tra mezzi e
fini indeterminati. Nell’indeterminatezza dei fini sta il segreto della
scienza. Dei fini indeterminati non sono concepibili come fini di un’azione determinata, non sono proprio concepibili come fini.
I fini accade che siano camuffati e trasformati in effetti. L’indeterminatezza si tramuta in generalità, mentre i mezzi assumono la forma
di cause. Lo schema d’azione diventa legge scientifica.
La stessa accettazione, lo stesso riconoscimento della verità di una
teoria svolge una funzione pratica. Per intraprendere un’azione sulla
base di una teoria bisogna essere convinti che la teoria funzionerà, bisogna essere convinti della sua verità. Insomma la verità si riduce a un
giudizio di valore e assume il valore pratico che effettivamente le compete: quello di un’esperienza.
E si sa: la comunicazione scientifica svolge un ruolo essenziale
nell’attività di ricerca. Una scoperta che non viene comunicata resta
coperta e quindi inutile. Per farla accettare dalla comunità scientifica
lo scienziato cerca di stabilirne la verità.
384
Così, stabilire la verità di una teoria significa convincere molti
soggetti dell’efficacia degli schemi d’azione da essa implicati, di
rendere intersoggettivo il giudizio sul suo valore di verità. Ebbene, due
sono i concetti di verità usati nella scienza: verità come necessità,
verità come senso; necessità dei nessi individuati dalla teoria, senso
dell’esistenza dei fenomeni.
È nella verità nel primo significato che si manifesta la sua dimensione formale. Il mezzo di comunicazione è un gioco linguistico; il
modo, l’estetica. L’estetica non è altro che la retorica della verità.
Varrà come vera una teoria che piace. Il gioco linguistico viene
usato per imitare i nessi interni dello schema d’azione. L’uso rigoroso
delle regole del gioco mira ad esprimere con efficacia la necessità
dell’azione prefigurata dallo schema. Tanto più rigorosamente è mostrata tale necessità, tanto più convincente e accettabile è una teoria.
Una teoria accettabile è una teoria che può piacere. Una teoria
accettata è considerata vera.
E una singola teoria non dice alcunché sul mondo. Una singola
teoria si riferisce a un particolare fenomeno. Il mondo è l’insieme dei
fenomeni. Il mondo di una disciplina è l’insieme dei fenomeni che
appartengono al suo campo d’indagine e d’azione. Solo un sistema
teorico, cioè un insieme ordinato di teorie, può dire qualcosa del
mondo.
Se uno si convince che il fenomeno cui si riferisce una teoria rileva, cioè che la sua esistenza è rilevante per lui, allora e solo allora
quella teoria acquista senso. Quando ciò accade, si dice che la teoria è
vera nel secondo significato. Un fenomeno irrilevante è un fenomeno
inesistente.
Visto che i fenomeni non possono essere individuati se non in relazione gli uni agli altri, nessuna singola teoria può acquistare valore di
verità se non all’interno di un sistema teorico. D’altra parte è anche
vero che i fenomeni non possono essere definiti che dalle teorie. Ma,
385
se un sistema teorico non è altro che un insieme di teorie, la sua capacità di attribuire valori di verità non può provenire dall’esterno di esso.
Per un sistema teorico che si rispetti, la pretesa di essere un riflesso
del mondo è più ridicola che riduttiva. Un sistema teorico è molto di
più di ciò: è la creazione di un mondo, il mondo di un soggetto.
Un soggetto vede il come del mondo, non l’essere, e lo vede in
funzione dei suoi fini. Il mondo viene ricreato mentalmente in vista
dell’azione che si vuole svolgere in esso. Poiché soggetti diversi
possono avere scopi contrastanti, è possibile che vengano costruiti
sistemi teorici, non solo diversi, ma alternativi.
D’altronde un sistema che viene accettato da molti soggetti non è
altro che un sistema di verità intersoggettive. Le regole dei giochi
linguistici non esauriscono il processo che porta all’accettazione o al
rifiuto definitivi. Il rispetto delle regole del gioco è condizione necessaria ma non sufficiente per l’accettazione di un sistema. Diversi sistemi alternativi possono essere tutti perfettamente in regola dal punto di
vista formale e tuttavia implicare verità alternative.
La verità di un sistema teorico implica un atto di fede. Un tale atto
di fede è un’azione. Infatti porta il soggetto ad accettare una particolare visione del mondo e quindi a predisporsi ad un particolare atteggiamento pratico.
B
musica
poesia
pittura
architettura
letteratura
antropologia
psicologia
sociologia
economia
biologia
fisica
E
Figura 1
386
Non esistono dei confini netti tra arti e scienze. Arte e scienza non
sono cose sostanzialmente diverse, a parte le ovvie differenze dei giochi linguistici usati. Le altre differenze sono solo di grado. E sono differenze del tutto estrinseche: attengono al peso con cui si combinano il
fattore estetico, B, e quello pratico, E, nella rappresentazione che le diverse discipline danno di sé. Queste differenze riguardano solo la
superficie.
L’apparenza più superficiale è che le varie discipline si distribuiscono su una scala di valori in cui la relazione tra B ed E assume la
forma di una mappa, B=B(E), B’<0, che è mostrata in figura 1.
Ma questa apparenza nasconde un’altra realtà. Se si definisce Z
come il grado di privatezza dell’esperienza, allora si può vedere che
dietro la mappa B(E) ce ne sono altre due, B=ß(Z), ß’>0, e E=E(Z),
E’<0, con Z=E-1(E)=µ(E). Le due mappe sono mostrate in figura 2.
B
E
musica
fisica
letteratura
letteratura
fisica
musica
Z
Z
Figura 2
Evidente che B(E)=ß(µ(E)). La figura 3 mostra come si ottiene la 1
dalla 2.
ß(Z) e µ(E) rappresentano ancora uno strato piuttosto superficiale
della realtà. Bisogna scavare più a fondo. Le varie discipline differiscono soprattutto nell’oggetto d’indagine. Il quale oggetto può essere
più o meno duro, materiale, concreto, ovvero più o meno soft. Evidentemente Z è una mappa del grado di softness, N, cioè Z=F(N), F’>0.
387
Questo tipo di diversità può essere anche misurato tecnologicamente o
economicamente. Con l’inverso di N infatti crescono le dimensioni e il
costo degli apparati hardware di cui si servono le varie discipline.
B
ß(Z)
B(E)
Z
E
Z=Z
µ(E)
Z
Figura 3
A questo terzo strato della scienza non ci si può ancora fermare: è
ancora piuttosto superficiale. Bisogna scavare più a fondo. Dov’è l’utile della musica e della poesia? Per quali azioni esse dovrebbero creare
schemi d’azione? Di cosa danno conoscenza?
Per i campi d’indagine e d’azione delle arti si può dare una definizione basata sul senso comune: le arti si occupano degli stati d’animo
e dell’esperienza interiore. Le azioni da esse suscitate sono cambiamenti d’umore, conquiste dello spirito. Sono fenomeni mentali, ma
non per questo sono meno reali.
Non meno solida la conoscenza proveniente dalle arti, la quale consiste in nient’altro che in quell’improvvisa illuminazione che spesso
s’accompagna all’esperienza di un mutamento psichico. Né l’individualità dell’illuminazione costituisce una peculiarità dell’arte. Anche
388
qui la verità è un’esperienza che va oltre l’individuo solo in quanto
accede all’intersoggettività.
La conoscenza nell’arte è solo la coscienza del cambiamento che
produce. Precisamente come nella scienza.
E ora un’ultima parola su una vexata quaestio: l’unità della scienza
implica unità del metodo? Se il metodo è l’insieme dei criteri volti alla
giustificazione della verità, un metodo indipendente dai sistemi teorici
sarebbe metascientifico. Ma se ogni sistema produce i propri metodi,
allora l’unico criterio metodologico che può unificare le scienze è il
principio di Mao-Feyerabend: che cento fiori sboccino. Se non esiste
un unico metodo in ogni disciplina, figuriamoci uno per tutte.
389
Capitolo IV
DELLA CONOSCENZA OGGETTIVA: CHE NON SI DÀ
(DIALOGO TRA UNO SCIENZIATO E UNO SCETTICO)
SC1. Tutte le cose esistenti costituiscono l’universo, chiamiamolo
U.
SC2. Ciò implica l’assunzione che esistano delle cose.
SC1. No. Non è che una definizione. Per ora l’universo può anche
essere vuoto, cioè 0⊆U.
SC2. OK, vai avanti.
SC1. Dell’universo si può dire che i suoi elementi, cioè le cose, si
dividono in due sottoinsiemi, i soggetti, S, e gli oggetti, G. I primi
sono in grado di concepire delle mappe dai secondi in se stessi.
SC2. Dunque S⊆G=U.
SC1. Esatto. E ora – Cogito, ergo sum – posso dire. Perciò 0≠U.
SC2. No. Il pensiero è una proprietà del soggetto. La sua presenza
non implica nulla riguardo ad alcuna realtà oggettiva. Non posso provare l’esistenza di una realtà oggettiva, cioè indipendente dal mio pensiero, anche soltanto la realtà della mia esistenza, a partire dal mio
pensiero. Se parti dal pensiero puoi solo dire: Cogito.
SC1. Mi dispiace, ma dovrò pur cominciare da qualche parte.
SC2. No problem. Puoi assumere di esistere come oggetto pensante. E sottolineo ‘assumere’. Allora puoi dire: Sum, ergo cogito.
SC1. E va bene. Esisto come oggetto pensante. Io, I, esisto. Dunque
0≠I⊆S⊆G=U e U≠0. Mi segui?
SC2. Come un’ombra. Ma tieni a mente che 0≠I⊆G è solo
un’assunzione. Ha lo stesso valore della proposizione: Dio esiste. Comunque, se deve essere un’assunzione utile, tanto vale che sia anche
S⊂G. Così eviti il solipsismo.
390
SC1. OK. E vada per S⊂G. Allora, se posso procedere, adesso dirò
che l’universo è immerso in uno spazio oggettivo, oR3.
SC2, Qual è la struttura di oR3?
SC1. Due passi per volta, al più! Prima di rispondere alla tua domanda devo sapere come si osservano gli oggetti in oR3. Un’osservazione, C, è una mappa dallo spazio oggettivo allo spazio soggettivo,
3
3
3
3
sR . Cioè C: sR → oR . Lo spazio soggettivo è il codominio di oR . È
euclideo, come risulta dalla comune esperienza. Che ne dici?
SC2. Finora vai benone, salvo il fatto che non hai ancora risposto
alla mia domanda. E poi, se parli di osservazione come di una mappa,
devi tirare in ballo la teoria.
SC1. E veniamo alla teoria, T. È una mappa più o meno complessa
dallo spazio del codominio dell’osservazione in se stesso, T: sR3 → sR3.
SC2. Naturalmente T pretenderà di essere un omeomorfismo.
SC1. Perché mai? Potrebbe bastargli di essere iniettiva. La conoscenza non ha bisogno di essere perfetta per essere oggettiva.
SC2. Non capisco di cosa stai parlando. Non so ancora cos’è la
conoscenza, figuriamoci quella oggettiva. Comunque, ciò di cui stai
trattando ora è soltanto la conoscenza teorica. In cosa consiste?
SC1. La conoscenza teorica è un’immagine attraverso T. Quella
osservativa, un’immagine attraverso C. Di conseguenza d’ora in poi
possiamo ignorare T e concentrarci su C.
SC2. In realtà dovremmo risalire oltre C. Infatti le osservazioni partono dai dati sensoriali, non dalla realtà oggettiva. Ciò vuol dire che,
prima di capire cos’è la conoscenza, dovremmo sapere cos’è la coscienza, cioè la percezione dei dati sensoriali. Si porrebbe quindi il
problema di definire la coscienza come, eventualmente, una mappa di
ordine superiore dallo spazio oggettivo in quello percettivo. Ma capisco che ciò non farebbe che spostare in avanti il problema senza modificarne la natura. Perciò ti concedo di ignorare il problema della coscienza, oltre quello della teoria. E facciamo anche finta che sia ragionevole assumere la possibilità di un riflesso di C su T e non il contrario.
391
SC1. Se riesco a dimostrare, ora, che C dà una genuina conoscenza,
posso sostenere che il lavoro scientifico e teorico è uno strumento conoscitivo.
SC2. Cos’è una genuina conoscenza?
SC1. La conoscenza può essere considerata genuina solo se è oggettiva, cioè solo se il codominio di C riflette il dominio fedelmente e
indipendentemente dal soggetto che la formula.
SC2. Ora sì che ti sei messo in un bel guaio.
SC1. No. La definizione della conoscenza che ti ho appena dato è
fedele al senso comune.
SC2. Appunto.
SC1. Non capisco la difficoltà. Dov’è?
SC2. Emergerà non appena ti porrai il problema di spiegare in cosa
consiste la fedeltà del codominio e la sua indipendenza dal soggetto.
Se non vedi la difficoltà è perché assumi implicitamente che, se non T,
almeno C sia un omeomorfismo.
SC1. Che ci sarebbe di male? Puoi assumerlo anche esplicitamente,
se vuoi.
SC2. Ciò naturalmente ti toglie da ogni imbarazzo con la giustificazione dell’oggettività della conoscenza. Ma così facendo, come dicono gli inglesi, you are begging the question.
SC1. Spiegati meglio. Cos’è che non va?
SC2. Se C è un omeomorfismo, allora il codominio di oR3 può
riflettere abbastanza fedelmente il dominio. Però solo se il codominio
di oR3 è riflesso fedelmente puoi essere certo che C è un omeomorfismo. Così finora l’unica cosa che garantisce l’oggettività della tua
conoscenza è un’assunzione arbitraria, un’assunzione la cui indipendenza dal soggetto è essa stessa non giustificata.
392
SC1. Non dispererei. Si può fare ricorso all’esperimento. Un’osservazione, C, implica qualcosa sulla struttura di U e quindi di oR3. Con
un esperimento posso verificare se quella implicazione è valida.
SC2. Come?
SC1. Producendo dei fenomeni che poi...
SC2. Allora stai dicendo che, sulla base di un’osservazione, C, si
può costruire una teoria, T, che individua dei nessi causali tra elementi
del codominio di C. Se, usando la teoria, sei in grado di produrre dei
fenomeni in oR3 la cui immagine in una nuova osservazione, C’, corrisponde a quella di C, concluderai che l’osservazione è verificata.
SC1. Con te si può ragionare senza perdere tempo. Mi piace.
SC2. Resta vero che la tua conoscenza sperimentale è ancora l’immagine di una mappa. Cosa garantisce che C’ non deformi la realtà, se
C la deforma? Di nuovo: devi assumere che C’ è un omeomorfismo. E
ti ritrovi da capo a dodici.
SC1. Un esperimento può esser fatto da diversi scienziati!
SC2. E con ciò? Se ogni scienziato ha una sua personale C deformante, cosa impedisce che anche la sua personale C’ sia deformante?
Per di più entra in ballo la questione della comunicazione scientifica.
Dammi una definizione di comunicazione scientifica.
SC1. Comunicazione è trasmissione di conoscenza. Esistono delle
regole linguistiche che consentono di istituire delle mappe, M, dagli
spazi delle teorie e delle osservazioni di un soggetto a quelli di un altro, cioè M: sR3 → sR3.
SC2. Ciò non fa che complicare ulteriormente la faccenda. Ora bisognerebbe anche dimostrare che M stesso è un omeomorfismo, sebbene questo problema non è insormontabile. Poiché M dipende da regole
prodotte dai soggetti stessi, cioè da convenzioni, si può stabilire, per
convenzione, appunto, che sia un omeomorfismo.
SC1. Capisco dove vuoi arrivare: con ‘oggettività della conoscenza’ intendiamo qualcosa di puramente convenzionale.
393
SC2. No. Voglio arrivare alla conclusione che l’oggettività della
conoscenza è un nonsenso. Poiché ogni conoscenza, per tua stessa
definizione, è il risultato di una mappa istituita da un soggetto, di
conoscenza oggettiva non si può neanche parlare.
SC1. Però, se fosse così, non si potrebbe parlare neanche di conoscenza tout court. Dunque cosa conosciamo? Conosciamo?
SC2. Hai messo il dito nella piaga. Se non sappiamo niente di certo
e oggettivo sulla natura di C non sappiamo niente di certo e oggettivo
neanche sulla struttura del suo dominio. E viceversa. Tuttavia non disperare. Possiamo sempre fare delle ipotesi e stabilire delle convenzioni. Nemmeno l’esistenza di U è self evident. Ricorda che è stata
data per assunzione essa stessa. La conoscenza è convenzionale e
inter-soggettiva. Nulla di più.
SC1. Ecco un risultato appena insoddisfacente. Che conoscenza sarebbe quella per cui non sai nulla con certezza della natura dell’oggetto?
SC2. Quella che mi basta per agire. L’uomo sta nel mondo come un
cieco in un labirinto. Ha bisogno di farsene un’idea per muovercisi.
Nulla garantisce che una certa idea rifletta fedelmente la realtà. Ma
non qualsiasi idea va bene. Quelle che fanno dare capocciate al muro
sono scartate.
SC1. Mi sembra che col tuo modo di non ragionare dovresti
arrivare a una conclusione ancora peggiore: visto che 0≠I⊂G è
un’assunzione arbitraria, nulla garantisce che un’idea del mondo, e,
anzi, il mondo stesso, non sia un sogno.
SC2. Perché peggiore? Perché mai dovresti avere bisogno di garanzie ontologiche, se il vero problema è solo quello di muovercisi, nel
mondo?
394
Capitolo V
DELLA COSCIENZA: COME SQUARCIARLA
Siano X1, X2, X3 le dimensioni della realtà che percepiamo in un ordinario stato di coscienza, OSC; X4 quella (una, per semplicità) che percepiamo in uno stato alterato di coscienza, ASC.
Sul significato delle Xi, i=1,...4, non si può dire nulla in generale,
visto che il tipo di esperienza che ne facciamo dipende dallo stato di
coscienza. Per comodità, e in ossequio al senso comune, si possono
pensare come delle dimensioni spaziali delle immagini degli oggetti.
Si ipotizzerà inoltre che la coscienza dipende da quattro parametri
percettivi, Pj, j=1,...4. P1 è il grado di lateralizzazione cerebrale, con
P1>0 in presenza di pensiero logico (prevalente lateralizzazione sinistra) e P1<0 in presenza di pensiero analogico (prevalente lateralizzazione destra). P2 è il negativo del grado di vigilanza mentale, con
P2>0 in stato di sonno e P2<0 in stato di veglia. P3 è il grado di determinazione o volontà di ottenere un certo stato di coscienza. P4 è il
grado di convinzione o fede nella capacità di ottenerlo. P1 e P2 sono
parametri psicologici, P3 e P4 parametri culturali.
Sia σ una particolare mappa che chiameremo ‘funzione di coscienza’ e scriveremo come (X1,...X4)=σ(X1,...X4;P1,...P4). Applicando lo
splitting lemma di Thom, la σ diventa σ(X1,...X4;P1,...P4)=CatX4+
Σ(i=1…3)liXi2, dove li sono trasformazioni dei parametri.
Si ha coscienza Xi-dimensionale quando Xi>0. In equilibrio percettivo di OSC si verifica che in Σ(i=1…3)liXi2 è Xi>0. Il problema si
riduce quindi allo studio di CatX4, della quale si assume trattarsi di un
potenziale, π. Per semplicità d’ora in poi il simbolo X4 verrà sostituito
dal simbolo X. Perciò si può scrivere CatX=π(X;P1,...P4).
Si ponga che la coscienza sia il risultato di un processo psichico di
minimizzazione del potenziale percettivo: di tutti gli attributi dell’og-
395
getto che sono potenzialmente percepibili, solo quelli selezionati
dall’intenzionalità della coscienza vengono effettivamente percepiti.
Perciò da CatX si ottiene il gradiente dX/dt=-∂π/∂X, e in equilibrio,
quando il potenziale è minimizzato, -∂π/∂X=0.
Per poter rappresentare graficamente la catastrofe percettiva che
può verificarsi su X, conviene, per il momento, ridurre i parametri a
due, limitandosi a quelli psicologici. In tal caso si ha
CatX=(1/4)X4+(1/2)P2X2+P1X, che è una catastrofe a cuspide. I punti
critici della catastrofe sono individuati dalla condizione -∂π/∂X=
X3+P2X+P1=0, che viene rappresentata come la varietà V in figura 4.
X
0
V
P2
P1
B
Figura 4
La proiezione della fold curve di V sullo spazio dei parametri dà
origine all’insieme di biforcazione, B, mostrato anche in figura 5, nella
quale sono indicati alcuni stati di coscienza e alcune traiettorie.
OSC è l’ordinario stato di coscienza di veglia; si ottiene in tutto il
quadrante Sud-Est con valori negativi di X. ASC1 significa ASC da
sogno razionale, e implica anch’esso valori negativi di X. ASC2 significa ASC con ESP in stato di incoscienza (ad esempio: trance e
396
ipnosi) e implica valori positivi di X. ASC3 significa ASC con ESP in
stato cosciente (ad esempio: telepatia e chiaroveggenza) e implica
sempre valori positivi di X. ASC4 infine significa ASC con lucidità
mentale (ad esempio: illuminazione da meditazione trascendentale o
training autogeno) e si ottiene, per valori positivi di X, nell’area
compresa tra il braccio destro dell’insieme di biforcazione e l’asse P2.
P2
T1
ASC2
ASC1
T2
P1
OSC
ASC3
T3
B
ASC4
Figura 5
Ora si possono reintrodurre i parametri culturali. Saranno misurati
in modo tale che le loro variazioni modificheranno la posizione e la
forma dell’insieme di biforcazione nel seguente modo: una crescita di
P3 aumenta l’ampiezza di B; una crescita di P4 sposta B verso il quadrante Sud-Est. Questi cambiamenti sono mostrati in figura 6.
Le tecniche che si possono usare per ottenere un ASC4 sono di tre
tipi: 1) tecniche di condizionamento psichico, 2) tecniche di condizionamento culturale, 3) tecniche di shock psico-fisico. Non sono alternative, e possono essere usate insieme.
Nelle tecniche di condizionamento psichico si modificano i valori
di P1 e P2 in modo da imprimergli una traiettoria che punta verso
l’ASC desiderato. Tre di tali traiettorie, T1, T2, T3, sono mostrate in
figura 5.
397
P3’> P3
P4’> P4
P2
P2
P1
P1
B(P3’)
B(P3)
B(P4’)
B(P4)
Figura 6
Nelle tecniche di condizionamento culturale si mira ad alterare
l’atteggiamento verso la vita e la visione del mondo del soggetto in
modo da modificare i parametri P3 e P4 nella direzione voluta. Testimonianze del ruolo giocato dai parametri culturali sono fornite dal
fenomeno sheep-goat (che agisce su P3) e da fenomeni di psi-mediated
instrumental response (che agiscono su P4). L’influenza esercitata
dalla relazione sperimentatore-soggetto agisce probabilmente su
entrambi i parametri. Di qui l’importanza di una guida.
Nelle tecniche di shock psico-fisico si interviene sulla dinamica
rapida della percezione in modo da innescare la catastrofe percettiva
all’interno dell’insieme di biforcazione, possibilmente nel quadrante
Sud-Est. Qui sono utili molti strumenti di destabilizzazione della coscienza: sesso, allucinogeni, deprivazione sensoriale, esasperazione
dell’emotività, dolore, danza, musica ecc.
Per mezzo degli strumenti di destabilizzazione della coscienza in
parte si cerca di modificare P1 o P2 nella direzione voluta. Ma in parte,
e soprattutto, si cerca di aumentare l’ampiezza del rumore bianco, che
per ciò stesso cessa di essere tale, in modo da riuscire a toccare dal
basso la sezione instabile della varietà V. Ciò è mostrato in figura 7 col
caso di una tecnica sessuale.
398
X
orgasmo
P1
Figura 7
Il satori è una catastrofe della coscienza. In ASC4 si può raggiungere la verità. Se, dopo avere operato un cambiamento di coordinate,
le Xi sono trasformate in variabili come “nomi e parole per prendere il
mondo”, allora la verità può essere ridotta a una semplice formula.
X ≡ X 4 = ( X1 − X 2 ) U ( X 3 − X 2 )
399
INDICE
Avvertenza
3
QUADERNO 1
Prologo in cielo
Lunedì, 13 maggio
Martedì, 14 maggio
Mercoledì, 15 maggio
Giovedì, 16 maggio
Venerdì, 17 maggio
Sabato, 18 maggio
Lunedì, 20 maggio
5
11
26
39
51
63
76
85
QUADERNO 2
Mercoledì, 22 maggio
Giovedì, 23 maggio
Sabato, 25 maggio
Lunedì, 27 maggio
Mercoledì, 29 maggio
Giovedì, 30 maggio
Venerdì, 31 maggio
Sabato, 1 giugno
Domenica, 2 giugno
Lunedì, 3 giugno
91
111
130
142
152
157
168
178
184
194
QUADERNO 3
Martedì, 4 giugno
Domenica, 23 giugno
Il leopardo perduto: Diario di safari
Mercoledì, 26 giugno
205
221
223
272
QUADERNO 4
Venerdì, 28 giugno
Sabato, 29 giugno
Martedì, 2 luglio
Mercoledì, 3 luglio
Giovedì, 4 luglio
Epilogo
275
295
313
326
341
366
ALLEGATO: Nuovo corso di filosofia nel boudoir
Del destino dell’uomo: la donna
Della letteratura: breve storia di un lungo inganno
Della scienza: che non si distingue dall’arte
Della conoscenza oggettiva: che non si dà
Della coscienza: come squarciarla
373
375
379
384
390
390
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