Il libro
Percy si risveglia da un lungo sonno e non ricorda nulla di sé, a parte il proprio nome. Perfino il Campo
Mezzosangue gli sembra un luogo estraneo, e l’unica traccia che riesce a evocare dal passato è una ragazza:
Annabeth. Hazel dovrebbe essere morta, ma è più viva che mai. Ora, a causa di un terribile errore commesso nella
sua vita precedente, il futuro del mondo è in pericolo. Frank discende da un dio, secondo i racconti di sua madre,
eppure lui non ne è affatto convinto: quando si guarda allo specchio vede un ragazzo goffo e paffuto. Ma ora che si
ritroverà coinvolto nella nuova missione di Percy Jackson e dovrà spingersi fino ai ghiacci dell’Alaska per salvare il
mondo dall’ira della divina Gea, dovrà credere in se stesso più che mai. Percy Jackson torna con una nuova
trascinante avventura, in cui i semidei della mitologia greca e romana dovranno unirsi per difendere la Terra e
risolvere la misteriosa Profezia dei Sette.
L’autore
Autore di successo per ragazzi e adulti, Rick Riordan è stato premiato con i
riconoscimenti più importanti del genere mystery. Dopo aver insegnato inglese per
quindici anni, ora si dedica a tempo pieno alla scrittura e vive a Boston con la moglie e i
due figli. Questo è il secondo episodio di “Eroi dell’Olimpo”, la sua terza saga per
ragazzi dopo “Percy Jackson e gli dei dell’Olimpo” (30 milioni di copie vendute nel
mondo) e “The Kane Chronicles”.
Tutti i suoi libri sono pubblicati in Italia da Mondadori.
RICK RIORDAN
IL FIGLIO DI NETTUNO
traduzione di Loredana Baldinucci e Laura Melosi
A Becky, che condivide il mio santuario a Nuova Roma.
Nemmeno Era riuscirebbe mai a farmi dimenticare di te.
PERCY
Quelle donne con i serpenti al posto dei capelli stavano cominciando a stancare Percy.
Sarebbero dovute morire tre giorni prima, quando aveva rovesciato loro addosso una cassa di
palle da bowling, all’ipermercato. Oppure due giorni prima, quando le aveva investite con una
macchina della polizia, a Martinez. Di certo, sarebbero dovute morire quella mattina, quando aveva
mozzato loro la testa, a Tilden Park.
Tuttavia, per quante volte Percy le uccidesse e le guardasse disintegrarsi, quelle continuavano a
rinascere, come dei malefici gomitoli di polvere in formato gigante. Sembravano perfino impossibili
da distanziare.
Arrivò in cima alla collina e riprese fiato. Quanto tempo era trascorso da quando le aveva uccise
l’ultima volta? Due ore, forse. Non restavano mai morte per più tempo.
Nel corso degli ultimi giorni, Percy non aveva quasi chiuso occhio. Aveva mangiato qualsiasi
cosa fosse riuscito a rimediare: orsetti di gelatina dei distributori automatici, ciambelle stantie,
perfino un burrito in scatola, che era il suo nuovo record negativo. Aveva i vestiti strappati,
bruciacchiati e sporchi di poltiglia di mostro.
Era ancora vivo soltanto perché neppure le due donne con i serpenti in testa – gorgoni, così si
chiamavano – sembravano in grado di uccidere lui. I loro artigli non gli penetravano nella pelle; le
zanne si spezzavano a ogni tentativo di morso. Ma Percy non avrebbe resistito ancora per molto.
Presto sarebbe crollato per lo sfinimento, e allora, sebbene fosse così difficile da uccidere, le
gorgoni avrebbero trovato il modo di farlo, ne era certo.
Dove scappare?
Perlustrò i dintorni con lo sguardo. In circostanze diverse, si sarebbe goduto il panorama. Alla sua
sinistra, colline dorate si spiegavano morbide verso l’entroterra, punteggiate di laghi, boschi e
qualche mandria al pascolo. Alla sua destra, le pianure di Berkeley e Oakland si stendevano verso
ovest: un’ampia scacchiera di quartieri, popolati di diversi milioni di persone che probabilmente non
avevano nessuna voglia di farsi sconvolgere la mattinata da due mostri e un semidio straccione.
Più lontano, a ovest, la baia di San Francisco scintillava sotto una bruma argentata. Superata
quella, un muro di nebbia aveva inghiottito gran parte della città, lasciando scoperte solo le cime dei
grattacieli e i piloni del Golden Gate.
Un vago senso di tristezza calò nel petto di Percy. Qualcosa gli diceva che era già stato a San
Francisco. Quella città aveva un qualche legame con Annabeth, l’unica persona del proprio passato
che lui riuscisse a ricordare. Era un ricordo fioco, però, una vera frustrazione. Lupa aveva promesso
che un giorno lui l’avrebbe rivista e che avrebbe recuperato la memoria, se avesse concluso con
successo il suo viaggio.
Forse doveva provare ad attraversare la baia?
Un’ipotesi allettante. Percy avvertiva il potere dell’oceano oltre l’orizzonte. L’acqua lo
rivitalizzava sempre. E l’acqua salata era la migliore. Lo aveva scoperto due giorni prima, quando
aveva strangolato un mostro marino nello Stretto di Carquinez. Se fosse riuscito a raggiungere la
baia, forse avrebbe potuto affrontare un ultimo combattimento. Forse avrebbe potuto perfino far
annegare le gorgoni. Ma la costa distava parecchi chilometri. C’era un’intera città da attraversare.
Percy esitava però per un’altra ragione. Lupa gli aveva insegnato ad acuire i sensi, a fidarsi
dell’istinto che lo aveva guidato verso sud. E il suo radar interiore in quel momento tintinnava a più
non posso. La fine del viaggio era vicina, quasi sotto i suoi piedi. Ma com’era possibile? Non c’era
niente in cima a quell’altura.
Il vento cambiò. Percy colse nell’aria un odore acre di rettile. A un centinaio di metri lungo il
pendio, qualcosa frusciava in mezzo al bosco: rami che si spezzavano, foglie calpestate, sibili…
Le gorgoni.
Per la milionesima volta, il figlio di Nettuno maledisse il fiuto dei mostri. Gli avevano sempre
detto che riuscivano a sentire il suo odore perché era un semidio, il figlio mezzosangue di un’antica
divinità romana. Percy aveva provato a rotolarsi nel fango, ad attraversare torrenti, perfino a infilarsi
dei bastoncini di deodorante per auto nelle tasche per profumare come una macchina nuova; ma, a
quanto pareva, il tanfo semidivino era difficile da soffocare.
Salì ad affacciarsi sul versante occidentale. Il pendio era troppo ripido per scendere. C’era uno
strapiombo di oltre una ventina di metri, che terminava sul tetto di un grande palazzo costruito nel
fianco stesso dell’altura. Più giù ancora, ai piedi della collina, spuntava l’autostrada diretta a
Berkeley.
Fantastico. Non c’erano altre vie di fuga. Era riuscito a intrappolarsi da solo.
Percy scrutò il traffico che scorreva verso San Francisco. Quanto avrebbe voluto trovarsi a bordo
di una di quelle auto… Poi si rese conto che l’autostrada doveva per forza attraversare la collina.
Doveva esserci un tunnel, proprio sotto i suoi piedi.
Il suo radar interiore impazzì. Era nel posto giusto, lo sapeva, solo che era troppo in alto. Doveva
andare a controllare quel tunnel. Gli serviva un modo per scendere, e alla svelta.
Si tolse lo zaino dalle spalle. Era riuscito a procurarsi un po’ di attrezzatura all’ipermercato: un
GPS portatile, del nastro adesivo, un accendino, un barattolo di colla, una bottiglia d’acqua, una
stuoia, un coltellino svizzero e un cuscino Tenerotto Panda Soft, pubblicizzato con l’etichetta VISTO IN
TV: in pratica, tutto ciò che un moderno semidio potesse desiderare, pensò con sarcasmo. Ma non
aveva nulla che potesse fungere da paracadute o da slitta.
Gli restavano due opzioni: un tuffo della morte da venticinque metri, oppure combattere. Pessime
entrambi.
Percy imprecò e si sfilò qualcosa dalla tasca.
La penna non sembrava un granché, era soltanto una penna a sfera qualunque, ma, una volta tolto il
tappo, si trasformava in una scintillante spada di bronzo. Il bilanciamento della lama era perfetto.
L’elsa di cuoio calzava nella mano di Percy come se l’avessero concepita apposta per lui. Lungo la
guardia c’era un’incisione, una parola in greco antico che in qualche modo il ragazzo comprendeva:
Anaklusmos. Vortice.
Si era svegliato con la spada in pugno quella prima notte alla Casa del Lupo. Quando era stato…
due mesi prima? Di più? Aveva perso il conto. Si era ritrovato nel cortile di una villa distrutta da un
incendio, in mezzo a un bosco, con indosso un paio di pantaloncini, una maglietta arancione e una
collanina di cuoio con delle strane perle di terracotta. Stringeva Vortice in mano, ma non aveva la
minima idea di come fosse finito lì, e non ricordava quasi nulla della propria identità. Era scalzo,
infreddolito e confuso. E poi erano arrivati i lupi…
Proprio accanto a lui, una voce familiare lo fece trasalire, riportandolo al presente: — Eccoti qua!
Percy si allontanò di soprassalto, e per poco non cadde di sotto.
La gorgone era quella che sorrideva sempre: Stanlio.
Okay, non si chiamava veramente Stanlio. Ma, quando Percy provava a leggere, le parole si
incasinavano sempre, quindi lui aveva pensato di essere dislessico. E la prima volta che aveva visto
la gorgone, camuffata da commessa dell’ipermercato con tanto di targhetta verde con su scritto:
BENVENUTI! IO SONO STENO, lui aveva letto STANLIO.
Indossava ancora il grembiule verde dell’ipermercato sopra un vestito a fiori. A giudicare dal
busto, poteva passare per la nonna un po’ in carne di qualcuno; tuttavia al posto delle gambe aveva
due zampe da gallina. E agli angoli della bocca le spuntavano zanne di bronzo, simili a quelle di un
cinghiale. Gli occhi mandavano un bagliore rosso, e i capelli erano un nido di vipere verdi.
La cosa più orripilante di tutte? Teneva ancora in mano un grande vassoio d’argento pieno di
salsicciotti al formaggio. Il vassoio era scheggiato dopo tutte le volte che Percy l’aveva uccisa, ma
gli stuzzichini omaggio sembravano in forma smagliante. Steno continuava a portarseli dietro per tutta
la California con l’unico scopo di offrirglieli prima di farlo fuori. Percy non aveva idea del perché lo
facesse, ma se avesse mai avuto bisogno di un’armatura, aveva tutte le intenzioni di farsela di
salsicciotti al formaggio. Erano indistruttibili.
— Assaggiane uno! — offrì Steno.
Percy la scacciò con un fendente. — Dov’è tua sorella?
— Oh, metti via quella spada — lo rimproverò la gorgone. — Lo sai che nemmeno il bronzo
celeste può ammazzarci definitivamente. Prendi un salsicciotto! Sono in offerta speciale questa
settimana, e mi dispiacerebbe ucciderti con lo stomaco vuoto.
— Steno! — La seconda gorgone comparve alla destra di Percy così all’improvviso che il
ragazzo non ebbe il tempo di reagire. Per fortuna era troppo impegnata a rimproverare la sorella per
badare a lui. — Ti avevo detto di coglierlo di sorpresa e farlo fuori!
Il sorriso di Steno vacillò. — Ma, Euriale… Non posso dargli uno stuzzichino, prima?
— No, imbecille! — Euriale si voltò verso Percy e scoprì le zanne.
A parte i capelli, che erano un nido di serpenti corallo anziché di vipere verdi, era tale e quale
alla sorella. Il grembiule dell’ipermercato, il vestito a fiori e perfino le zanne però erano pieni di
bollini adesivi che garantivano il 50% DI SCONTO. Sulla sua targhetta c’era scritto: SALVE! MI CHIAMO
“MUORI, FECCIA DI UN SEMIDIO!”
— Ci hai costretto a una bella caccia! — esclamò Euriale. — Ma ora sei in trappola, e noi
avremo la nostra vendetta!
— I salsicciotti al formaggio costano solo 2 dollari e 99 — aggiunse Steno per rendersi utile. —
Reparto alimentari, terza corsia.
Euriale ringhiò. — Steno, l’ipermercato era solo una finta! Sei entrata troppo nella parte! Ora,
metti giù quel ridicolo vassoio e aiutami ad ammazzare questo semidio. O hai dimenticato che è stato
lui a disintegrare Medusa?
Percy fece un passo indietro. Ancora una manciata di centimetri e sarebbe finito di sotto. —
Sentite, signore, ne abbiamo già parlato. Non me lo ricordo nemmeno di avere ucciso Medusa. Non
ricordo niente di niente! Non possiamo fare una tregua e parlare delle offerte speciali?
Steno guardò la sorella facendo il broncio, cosa piuttosto difficile con due zanne di bronzo giganti.
— Possiamo?
— No! — Euriale puntò gli occhi rossi in quelli di Percy. — Non mi importa di quello che ti
ricordi, figlio del dio del mare. Hai l’odore del sangue di Medusa addosso, lo sento. È debole, sì, è
vecchio di diversi anni, ma tu sei stato l’ultimo a sconfiggerla. E lei non è ancora tornata dal
Tartaro. Per colpa tua!
Questo Percy non riusciva a comprenderlo. Tutta quella faccenda del “morire e ritornare dal
Tartaro” gli faceva girare la testa. Certo, la testa gli girava anche all’idea che una penna a sfera
potesse trasformarsi in una spada, o che i mostri potessero camuffarsi servendosi di una cosa
chiamata Foschia, o che lui, Percy, fosse il figlio di una decrepita divinità marina incrostata di
conchiglie. Però ci credeva. Anche se gli avevano cancellato la memoria, sapeva di essere un
semidio nello stesso modo in cui sapeva di chiamarsi Percy Jackson. Dalla sua primissima
conversazione con Lupa, aveva accettato che quel mondo folle e pazzesco fatto di divinità e mostri
fosse la sua realtà. Una realtà che faceva piuttosto schifo.
— Che ne dite di dichiararla patta? — propose. — Io non posso uccidere voi. Voi non potete
uccidere me. Se siete le sorelle di Medusa – quella Medusa che trasformava la gente in pietra – non
dovrei essere una statua, ormai?
— Ah, gli eroi! — esclamò Euriale, con disgusto. — Devono tirarlo sempre fuori, proprio come
nostra madre! “Perché non sapete trasformare la gente in pietra? Vostra sorella ci riusciva.” Be’, mi
dispiace deluderti, ragazzo! Quella maledizione era di Medusa soltanto. Lei era la più brutta della
famiglia. E ha avuto tutte le fortune!
Steno sembrò ferita. — Mamma diceva che ero io la più brutta.
— Chiudi il becco! — la fulminò Euriale. — Quanto a te, Percy Jackson, hai il marchio di
Achille, è vero. Questo ti rende un pochino più difficile da uccidere. Ma non ti preoccupare.
Troveremo il modo.
— Il marchio di chi?
— Di Achille — rispose Steno allegramente. — Oh, lui era magnifico! Lo avevano immerso nello
Stige da piccolo, e così era invulnerabile, tranne che per un puntino minuscolo sul tallone. È quello
che è successo anche a te, mio caro. Qualcuno deve averti gettato nello Stige, e ora hai una pelle
d’acciaio. Ma non ti preoccupare. Gli eroi come te hanno sempre un punto debole. Dobbiamo solo
trovarlo, e poi possiamo ucciderti. Non sarebbe fantastico? Prendi un salsicciotto!
Percy si sforzò di ragionare. Non ricordava nessun tuffo nello Stige. Ma, del resto, non ricordava
quasi niente di niente. Non gli sembrava di avere la pelle d’acciaio, però quell’ipotesi avrebbe
spiegato come mai fosse riuscito a resistere tanto contro le gorgoni.
E, se fosse caduto giù da quel dirupo, sarebbe sopravvissuto? Non voleva rischiare; non senza
qualcosa che rallentasse la caduta, magari una slitta, o…
Guardò il grande vassoio di stuzzichini omaggio di Steno.
— Ci stai ripensando? — gli chiese subito la gorgone. — Molto saggio, mio caro. Ci ho aggiunto
anche un po’ del mio sangue, così avrai una morte rapida e indolore.
Percy si sentì serrare la gola. — Hai aggiunto il tuo sangue ai salsicciotti?
— Solo un po’. — Steno sorrise. — È bastato un graffietto sul braccio, ma sei carino a
preoccuparti. Il sangue del nostro fianco destro è in grado di curare qualunque cosa, sai… ma il
sangue del sinistro è letale…
— Razza di idiota! — strillò Euriale. — Non dovevi dirglielo! Non mangerà mai quei salsicciotti,
ora che gli hai rivelato che sono avvelenati.
Steno era sbigottita. — Dici di no? Ma gli ho detto che avrà una morte rapida e indolore!
— Ah, lascia perdere! — Le dita di Euriale si trasformarono in artigli. — Lo uccideremo con le
cattive… lo infilziamo finché non troviamo il punto debole. Quando avremo sconfitto Percy Jackson,
saremo più famose di Medusa! La nostra padrona ci ricompenserà immensamente.
Percy strinse la presa sulla spada. Doveva calcolare la mossa alla perfezione: un diversivo, pochi
secondi, e via il vassoio con la mano sinistra, poi…
“Falle parlare” pensò. — Prima che mi facciate a pezzi, chi è questa padrona di cui parli?
Euriale fece un verso di scherno. — La divina Gea, naturalmente! Colei che ci ha riportate in vita
dall’oblio! Non vivrai abbastanza per conoscerla di persona, ma i tuoi amici qui sotto affronteranno
presto la sua ira. In questo stesso istante, le sue armate marciano verso sud. Alla Festa della Fortuna
si risveglierà, e i semidei saranno falciati come… come…
— Come i nostri prezzi all’ipermercato! — suggerì Steno.
Euriale si voltò infuriata verso la sorella.
Percy approfittò subito del varco. Afferrò il vassoio di Steno, sparpagliando i salsicciotti
avvelenati, e menò un fendente al busto di Euriale, mozzandola in due. Poi sollevò il vassoio, e Steno
si trovò di fronte al proprio riflesso.
— Medusa! — strillò la gorgone.
Euriale si era disintegrata, ma stava già cominciando a riformarsi, come un pupazzo di neve mezzo
disciolto. — Steno, razza di stupida! — gorgogliò con la metà del viso che si risollevava dalla
polvere. — È solo il tuo riflesso! Attacca!
Percy sbatté il vassoio sulla testa di Steno, mandandola al tappeto. Poi si mise il vassoio sotto il
sedere, pregò in silenzio il dio romano delle scivolate più stupide del mondo – chiunque fosse – e
saltò giù dalla collina.
PERCY
Il guaio di scivolare lungo un precipizio a diecimila chilometri al secondo sopra un vassoio di
stuzzichini? Se a metà strada ti rendi conto che non è stata una buona idea, è troppo tardi.
Percy mancò un albero per un pelo, s’impennò sopra un masso e ruotò di trecentosessanta gradi in
aria volando poi come un missile verso l’autostrada. Quello stupido vassoio non aveva il
servosterzo.
Il semidio udì le gorgoni strillare e intravide i serpenti corallo di Euriale in cima alla collina, ma
non ebbe il tempo di preoccuparsene. Il tetto del palazzo si stagliava minaccioso ai suoi piedi come
la prua di una corazzata. Impatto previsto entro dieci, nove, otto…
Percy riuscì a ruotare di lato per evitare di spezzarsi le gambe, scivolò obliquo per un lungo tratto
del tetto e sfrecciò di nuovo in aria. Il vassoio schizzò da una parte, lui dall’altra.
Mentre precipitava verso l’autostrada, uno scenario orribile gli attraversò come un lampo la
mente: il suo corpo che si schiantava contro il parabrezza di un SUV, e un pendolare infastidito che
cercava di toglierlo di mezzo con i tergicristalli. “Stupido sedicenne caduto dal cielo! Sono in
ritardo!”
Miracolosamente, una ventata improvvisa lo spostò di lato, quel tanto che bastava per mancare
l’autostrada e schiantarsi su una macchia di cespugli. Un atterraggio non troppo morbido, ma sempre
meglio dell’asfalto.
Percy emise un gemito. Avrebbe tanto voluto restarsene lì svenuto in santa pace, ma doveva
muoversi. Si rimise in piedi a fatica. Aveva le mani graffiate, però non sembrava esserci nulla di
rotto. Aveva ancora il suo zaino. Da qualche parte lungo la scivolata aveva perso la spada, ma tanto
sapeva che alla fine gli sarebbe ricomparsa in tasca in versione penna. Era parte della sua magia.
Guardò in su, verso la cima della collina. Impossibile non individuare le gorgoni, con i serpenti
colorati in testa e i grembiuli verdi dell’ipermercato. Stavano scendendo con estrema cautela lungo il
precipizio, con più lentezza di Percy, ma con molta più sicurezza; evidentemente le loro zampe da
gallina erano ottime per le arrampicate. Percy calcolò di avere ancora quattro o cinque minuti di
vantaggio.
Accanto a lui, un alto recinto di rete metallica separava l’autostrada da un quartiere di strade
curve, villette accoglienti e grandi eucalipti. Il recinto probabilmente serviva a impedire che
qualcuno entrasse in autostrada e facesse qualche stupidaggine – tipo scivolare su un vassoio di
stuzzichini lungo la corsia di sorpasso – ma la rete era piena di buchi. Percy ci si infilò senza
problemi. Forse sarebbe riuscito a trovare una macchina e a raggiungere l’oceano, si disse. Non gli
piaceva rubare le auto, ma nel corso delle ultime settimane, in casi estremi, ne aveva “prese in
prestito” diverse, inclusa una macchina della polizia. La sua intenzione era sempre di restituirle, ma
non sembravano durare mai molto.
Scrutò verso est. Proprio come aveva immaginato, a un centinaio di metri di distanza l’autostrada
si infilava in una galleria ai piedi della collina. I due ingressi del tunnel, uno per ogni senso di
marcia, lo fissavano come le orbite vuote di un teschio gigantesco. Al centro, al posto del naso, c’era
un muro sporgente di cemento, con una porta metallica simile all’ingresso di un bunker.
Forse era un tunnel per la manutenzione. Probabilmente era così che lo vedevano i mortali,
ammesso che notassero la porta. Ma loro non riuscivano a vedere oltre la Foschia. E Percy sapeva
che quella porta era qualcosa di più.
Due ragazzi stavano di guardia all’ingresso. Indossavano una strana accozzaglia di elmi piumati,
armi e pezzi di armatura dell’Antica Roma sopra i jeans e le magliette viola, con scarpe da ginnastica
bianche ai piedi. La sentinella di destra sembrava una ragazza, per quanto fosse difficile stabilirlo,
seminascosta com’era dall’armatura. Quella di sinistra era un ragazzo robusto, con arco e faretra
sulla schiena. Entrambi stringevano lunghe lance con la punta di ferro simili ad arpioni da pesca.
Il radar interiore di Percy impazzì. Dopo tutti i terribili giorni passati, aveva finalmente raggiunto
la meta. L’istinto gli diceva che, se fosse riuscito ad attraversare quella porta, sarebbe stato al sicuro
per la prima volta da quando i lupi lo avevano inviato a sud.
Allora perché era così terrorizzato?
Sul fianco ripido della collina, le gorgoni stavano atterrando sul tetto del complesso edilizio.
Erano a tre minuti di distanza, forse meno.
Percy era combattuto. Da un lato avrebbe voluto correre verso la porta. Doveva attraversare la
linea di mezzeria dell’autostrada, ma era solo questione di scatto. Sarebbe arrivato prima delle
gorgoni.
Dall’altro avrebbe voluto puntare verso ovest, verso l’oceano. Lì sarebbe stato più al sicuro. Lì il
suo potere era al massimo. Quelle sentinelle romane sulla porta lo inquietavano. Una vocina interiore
gli diceva: “Questo non è il mio territorio. È pericoloso.”
— Hai ragione! — esclamò una voce accanto a lui.
Percy trasalì. All’inizio pensò che Steno fosse riuscita a coglierlo di nuovo di sorpresa, ma la
donna seduta tra i cespugli era perfino più repellente di una gorgone. Sembrava una vecchia hippie
vissuta per gli ultimi quarant’anni sul ciglio della strada, anni passati a raccogliere stracci e
spazzatura. Indossava un abito fatto di stoffe scolorite, coperte sfilacciate e sacchetti di plastica. La
zazzera crespa dei capelli era grigio-brunastra, come una schiuma sporca, ed era trattenuta da una
fascia con il simbolo della pace. La faccia era piena di chiazze e di verruche. Il suo sorriso era fatto
di tre soli denti.
— Quello non è un tunnel della manutenzione — gli confidò. — È l’ingresso del campo.
Percy fu scosso da un brivido lungo la schiena. Il campo. Sì, ecco da dove veniva. Da un campo.
Forse allora era a casa. Forse Annabeth era vicina.
Ma c’era qualcosa che non tornava.
Le gorgoni erano ancora sul tetto del palazzo. Poi Steno lanciò un verso stridulo e indicò nella sua
direzione.
La vecchia hippie inarcò le sopracciglia. — Non hai molto tempo, figliolo. Devi fare la tua scelta.
— Lei chi è? — chiese Percy, anche se non era certo di volerlo sapere. L’ultima cosa che gli
serviva era l’ennesimo mortale che si trasformava in mostro.
— Oh, puoi chiamarmi June, come il mese di giugno. — Gli occhi della donna scintillarono come
se avesse fatto una battuta divertente. — Perché siamo a giugno, non è vero? Hanno chiamato il mese
in mio onore!
— Okay, ehm… devo andare. Stanno arrivando due gorgoni. Non voglio che le facciano del male.
June giunse le mani al petto. — Che caro! Ma questo fa parte della tua scelta.
— La mia scelta… — Percy lanciò un’occhiata nervosa alla collina. Le gorgoni si erano tolte i
grembiuli verdi, e sulle loro schiene erano spuntate piccole ali da pipistrello, che luccicavano come
ottone.
Ma da quando avevano pure le ali? Forse però erano solo decorative, si disse. Forse erano troppo
piccole per sollevare una gorgone da terra. Ma poi le due sorelle decollarono con un balzo e presero
a volteggiare verso di lui.
“Fantastico! Ci mancava anche questa.”
— Sì, la tua scelta — disse June, come se non ci fosse nessuna fretta. — Puoi lasciarmi qui alla
mercé delle gorgoni e raggiungere l’oceano. Arriveresti sano e salvo, te lo garantisco. Le gorgoni
saranno felicissime di attaccare me e di lasciarti andare. E, una volta in mare, i mostri non ti
disturberanno. Potresti cominciare una nuova vita, giungere alla vecchiaia e sfuggire alla grande
quantità di dolore e sofferenza che il futuro ha in serbo per te.
Percy non si aspettava un granché dalla seconda opzione. — Oppure?
— Oppure potresti restare e compiere una buona azione per una povera vecchia — concluse la
donna. — Portami al campo con te. In braccio.
— In braccio? — Percy sperò che fosse una battuta. Poi June sollevò le gonne e gli mostrò i piedi
rossi e gonfi.
— Non posso andarci da sola — spiegò. — Mi ci devi portare tu… Attraversando l’autostrada, il
tunnel e il fiume.
Percy non sapeva di quale fiume stesse parlando, ma non gli sembrò un’impresa facile. June aveva
l’aria di essere piuttosto pesante.
Le gorgoni ormai erano molto vicine, e cominciarono a planare verso di lui senza fretta, come se
sapessero che la caccia era quasi finita.
Percy guardò la vecchia. — E perché mai dovrei trasportarla al campo?
— Perché è una buona azione! E perché, se non lo farai, gli dei moriranno, il mondo così come lo
conosciamo perirà, e tutti coloro che appartengono alla tua vecchia vita saranno distrutti.
Naturalmente tu non li ricorderesti, perciò immagino che non avrà importanza. Saresti al sicuro sul
fondo del mare…
Percy deglutì. Le gorgoni emisero una risata stridula e iniziarono la discesa.
— Se andrò a questo campo… mi tornerà la memoria?
— Alla fine, sì — rispose June. — Ma dovrai fare un grosso sacrificio! Perderai il marchio di
Achille. Proverai dolore, sofferenza e smarrimento oltre ogni limite. Ma forse avrai la possibilità di
salvare i tuoi vecchi amici e la tua famiglia, e di riavere la tua vita di prima.
Le gorgoni volteggiavano in cerchio sopra di loro. Probabilmente stavano studiando la vecchia,
per capire chi fosse la nuova arrivata, prima di colpire.
— E le sentinelle alla porta? — chiese Percy.
June sorrise. — Oh, ti faranno passare, caro. Puoi fidarti di quei due. Allora, che cosa dici?
Aiuterai una povera vecchia indifesa?
Percy dubitava che June fosse indifesa. Nel caso peggiore, si trattava di una trappola. Nel caso
migliore, di un test di qualche tipo.
E Percy odiava i test. Da quando aveva perso la memoria, tutta la sua vita era stata un grande
compito in classe pieno di caselle da riempire. Lui era ______________, di ___________. Si
sentiva ____________, e se i mostri lo avessero preso, sarebbe stato ______________.
Poi pensò ad Annabeth, l’unica parte della sua vecchia vita di cui era certo. Doveva
assolutamente trovarla.
— Va bene. L’aiuterò — disse, e sollevò la vecchia tra le braccia.
Era più leggera di quanto si fosse aspettato. Cercò di ignorare il suo alito e le sue mani callose
intorno al collo e attraversò la prima corsia. Un clacson strombazzò. Qualcuno gli gridò dietro
qualcosa che si perse nel vento. La maggior parte degli automobilisti lo schivò con irritazione, come
se Berkeley fosse piena di giovani straccioni che trasportavano vecchie hippie in mezzo
all’autostrada.
Un’ombra gli oscurò il passo. Era Steno, che gridò in tono allegro: — Ma che bravo! Hai trovato
una dea da trasportare, eh?
Una dea?
June ridacchiò, esclamando: — Ops! — quando una macchina per poco non li investì.
Da qualche parte alla loro sinistra, Euriale strillò: — Prendili! Due premi sono meglio di uno!
Percy attraversò come un lampo le corsie rimaste, raggiungendo sano e salvo la linea di mezzeria.
Vide le gorgoni che planavano e le auto che sterzavano al loro passaggio. Si chiese cosa vedessero i
mortali attraverso la Foschia: pellicani giganti? Alianti dirottati? Lupa gli aveva detto che le menti
mortali potevano credere a qualunque cosa, purché non fosse la verità.
Percy corse verso la porta sul fianco della collina, con June che diventava più pesante a ogni
passo. Aveva il cuore a mille e le costole indolenzite.
Una delle sentinelle urlò. Poi incoccò una freccia.
Percy gridò: — Aspetta!
Ma non stava mirando a lui. La freccia volò sopra la sua testa, e una gorgone emise un gemito di
dolore.
La seconda sentinella puntò la lancia; a gesti, incitò Percy a sbrigarsi.
Cento metri alla porta. Cinquanta.
— Preso! — strillò Euriale.
Percy si voltò a guardarla nell’istante in cui una freccia le si conficcava in fronte. La gorgone
cadde nella corsia di sorpasso e fu subito investita da un camion, che la trascinò via per un centinaio
di metri. Il mostro però non si scompose: si arrampicò sull’abitacolo dell’automezzo, si staccò la
freccia dalla fronte e la lanciò nella direzione da cui era venuta.
Percy raggiunse la porta. — Grazie! — disse alle sentinelle. — Bel colpo.
— Dovrebbe essere morta! — protestò l’arciere.
— Benvenuto nel mio mondo — borbottò Percy.
— Frank — intervenne la ragazza — falli entrare, presto! Quelle sono gorgoni.
— Gorgoni? — La voce dell’arciere si era fatta stridula. Non si riusciva a capire molto del suo
viso, seminascosto dall’elmo, ma sembrava un tipo molto robusto, con la stazza di un lottatore, sui
quattordici o quindici anni. — La porta riuscirà a trattenerle?
— No, non ci riuscirà. — June ridacchiò. — Coraggio, Percy Jackson! Attraversiamo il tunnel e il
fiume!
— Percy Jackson? — La ragazza aveva la pelle più scura, con i capelli ricci che spuntavano ai
lati dell’elmo. Sembrava più giovane di Frank, forse sui tredici anni. Il fodero della spada le
arrivava quasi alla caviglia. Eppure sembrava lei a comandare. — E va bene, tu sei chiaramente un
semidio. Ma lei chi…? — Lanciò un’occhiata a June. — Lascia perdere. Filate dentro. Le trattengo
io.
— Hazel, è una pazzia! — protestò il ragazzo.
— Vai! — ordinò lei.
Frank imprecò in un’altra lingua – latino? – e aprì la porta. — Muoviamoci!
Percy lo seguì, barcollando sotto il carico della vecchia, che stava decisamente diventando
pesante. Non sapeva come avrebbe fatto quella ragazza, Hazel, a trattenere le gorgoni da sola, ma era
troppo stanco per protestare.
Il tunnel era scavato nella roccia massiccia, e aveva le dimensioni del corridoio di una scuola.
All’inizio, sembrava il tipico tunnel di manutenzione, pieno di cavi elettrici e cartelli di pericolo,
con scatole di fusibili alle pareti e lampadine protette da griglie di ferro al soffitto. Man mano che si
addentravano, tuttavia, il pavimento di cemento cedette il passo a un mosaico di piastrelle, mentre le
lampadine furono sostituite da torce di canne intrecciate, che ardevano senza fumo. Più avanti, a
poche centinaia di metri, Percy vide un quadrato di luce naturale.
La vecchia ormai pesava più di una pila di sacchi di sabbia, e le braccia di Percy tremavano per
lo sforzo. June canticchiava una canzoncina in latino, come una ninnananna, che non lo aiutava affatto
a concentrarsi.
Alle loro spalle, le voci delle gorgoni echeggiavano nel tunnel.
D’un tratto Hazel gridò. Percy fu tentato di scaricare June e correre in suo soccorso, ma poi tutto il
tunnel fu scosso dal frastuono di una frana. Si udì una sorta di verso stridulo e prolungato, identico a
quello che le gorgoni avevano emesso quando Percy aveva rovesciato loro addosso una cassa di
palle da bowling, a Napa.
Il semidio si voltò a guardare: l’estremità occidentale del tunnel era piena di polvere. — Non
dovremmo andare da Hazel?
— Oh, se la caverà… spero — rispose Frank. — È brava sottoterra. Andiamo avanti! Siamo
quasi arrivati.
— Quasi arrivati dove?
June ridacchiò. — Tutte le strade portano lì, figliolo. Dovresti saperlo.
— In prigione?
— A Roma, figliolo — chiarì la vecchia. — Roma.
Percy dubitò di avere sentito bene. Sì, certo, aveva perso la memoria. E non si sentiva il cervello
a posto da quando si era svegliato alla Casa del Lupo. Ma era piuttosto sicuro che Roma non si
trovasse in California.
Continuarono a correre. Il bagliore in fondo al tunnel si fece più luminoso, e alla fine furono
inondati dal sole.
Percy rimase di stucco. Sotto di lui si estendeva il bacino di un’ampia vallata, in cui si
alternavano colline dolci, pianure dorate e tratti di foresta. Un piccolo fiume limpido scorreva
sinuoso lungo il perimetro, fino a sfociare in un lago al centro, disegnando una sorta di G maiuscola
nella valle.
Geograficamente, avrebbero potuto trovarsi ovunque nel nord della California: querce ed
eucalipti, colline dorate e cielo azzurro. E quella grande montagna dell’entroterra – come si
chiamava… Monte Diablo? – che si innalzava in lontananza, proprio nel punto giusto.
Ma Percy aveva la sensazione di avere appena varcato la soglia di un mondo segreto. Al centro
della vallata, in prossimità del lago, si annidava una piccola città di edifici in marmo bianco con i
tetti di tegole rosse. Alcuni avevano cupole e portici, altri sembravano grandi residenze private, con
portoni dorati e ampi giardini. Vide che c’era anche una piazza, costellata di fontane e statue. Un
anfiteatro con cinque ordini di colonne scintillava al sole, accanto a una lunga arena ovale simile a un
ippodromo.
Dall’altra parte del lago, a sud, un’altra collina era punteggiata di edifici ancora più
impressionanti: templi, intuì Percy. Diversi ponti di pietra attraversavano il fiume lungo il suo
tortuoso percorso nella vallata, mentre a nord una lunga linea di archi in muratura si stendeva dalle
colline fino in città. Percy pensò a una linea ferroviaria sopraelevata. Poi si rese conto che doveva
trattarsi di un acquedotto.
La parte più strana dell’intera vallata però era proprio sotto di lui. A duecento metri di distanza,
sulla riva opposta del fiume, c’era una sorta di accampamento militare. Di forma quadrata, occupava
più o meno cinquecento metri per lato, con terrapieni sormontati da punte affilate lungo tutto il
perimetro. All’esterno delle mura correva un fossato asciutto, anch’esso irto di punte. Sui quattro
angoli sorgevano torri di guardia in legno, provviste di sentinelle e di balestre grandi come cannoni.
Vessilli viola pendevano dalle torri. In fondo al campo si aprivano i cancelli, in direzione della città.
Un ingresso più piccolo sorgeva invece sul lato più vicino alla riva del fiume. Dentro, il forte
brulicava di attività: decine di ragazzi andavano e venivano dagli alloggi militari, trasportavano
armi, levigavano armature.
Percy udì il clangore dei martelli di una fucina e sentì il profumo della carne arrostita sul fuoco.
C’era qualcosa di molto familiare in quel posto, eppure c’era anche qualcosa che non tornava.
— Il Campo Giove — disse Frank. — Saremo al sicuro una volta arri…
Un’eco di passi alle loro spalle. Hazel irruppe alla luce del sole, coperta di detriti e con il fiato
grosso. Aveva perso l’elmo, e i riccioli bruni le ricadevano sulle spalle. Sull’armatura
campeggiavano i lunghi graffi lasciati dagli artigli delle gorgoni, accanto a un bollino del 50% DI
SCONTO. — Le ho rallentate — annunciò. — Ma saranno qui da un momento all’altro.
Frank imprecò. — Dobbiamo attraversare il fiume.
June strinse più forte il collo di Percy. — Oh, sì, per favore. Ma non posso bagnarmi il vestito.
Percy si morse la lingua. Se quella donna era una dea, doveva essere la dea delle hippie
puzzolenti, pesanti e inutili. Ma ormai aveva fatto tutta quella strada. Tanto valeva continuare a
portarsela appresso.
«… è una buona azione!» aveva detto la donna. «E… se non lo farai, gli dei moriranno, il mondo
così come lo conosciamo perirà, e tutti coloro che appartengono alla tua vecchia vita saranno
distrutti.»
Se quello era un test, non poteva permettersi un’insufficienza, si disse Percy.
Rischiò di inciampare un paio di volte mentre correvano verso il fiume, però Frank e Hazel lo
aiutarono a restare in piedi. Raggiunta la riva, si fermò a riprendere fiato. La corrente era rapida, ma
il fiume non sembrava profondo. A un tiro di schioppo c’era l’ingresso dell’accampamento.
— Tu vai, Hazel. — Frank incoccò due frecce. — Scorta Percy, così le sentinelle non lo
colpiranno. Ora tocca a me fermare i cattivi.
Hazel annuì e si addentrò nel fiume.
Percy stava per imitarla, ma qualcosa lo trattenne. Di solito amava l’acqua, ma quel fiume
sembrava… potente, e non necessariamente amichevole.
— Il Piccolo Tevere — disse June. — In lui scorre il potere del Tevere originario, il fiume
dell’impero. Questa è la tua ultima occasione per tirarti indietro, figliolo. Il marchio di Achille è una
benedizione greca. Non puoi conservarla, se entri in territorio romano. Il Tevere la laverà via.
Percy era troppo esausto per comprendere tutto, ma capì il succo. — Quindi, se lo attraverso, non
avrò più una pelle d’acciaio?
June sorrise. — Allora, cosa scegli? La salvezza, o un futuro pieno di dolore e ricco di
possibilità?
Alle loro spalle, stridendo, le gorgoni volarono fuori dal tunnel. Frank scoccò le sue frecce.
Hazel, già a metà strada nel fiume, strillò: — Percy, muoviti!
In alto, sulle torri di guardia, si udirono dei corni suonare. Le sentinelle gridarono e puntarono le
balestre verso le gorgoni.
“Annabeth” pensò Percy. E si addentrò con passo deciso nel fiume. L’acqua era gelida, molto più
rapida di quanto avesse immaginato, ma questo per lui non era un problema. Si sentì invadere da una
forza nuova, i sensi all’erta come per un’iniezione di caffeina. Raggiunse la riva opposta e mise a
terra la donna mentre i cancelli del campo si aprivano. Decine di ragazzi in armatura si riversarono
fuori.
Hazel si voltò con un sorriso sollevato. Poi guardò oltre le spalle di Percy, e la sua espressione si
mutò in orrore. — Frank!
Il ragazzo era ancora in mezzo al fiume quando le gorgoni lo raggiunsero. Piombarono giù dal
cielo e lo afferrarono per le braccia, conficcandogli gli artigli nella carne. Frank urlò dal dolore.
Le sentinelle gridarono, ma Percy capì che non potevano agire. Rischiavano di colpire e uccidere
Frank. Gli altri ragazzi sguainarono le spade e si prepararono a un attacco, ma non sarebbero mai
arrivati in tempo.
C’era un unico modo.
Percy spalancò le mani. Si sentì serrare le viscere da una morsa, e il Tevere fu pronto a obbedire
ai suoi ordini. Il fiume si sollevò. Due vortici si formarono ai fianchi di Frank, e gigantesche mani
fatte di acqua afferrarono le gorgoni, issandole in una micidiale stretta liquida. Le creature mollarono
la preda, sorprese.
Percy udì gli altri ragazzi gridare stupiti e farsi indietro, ma rimase concentrato sul proprio
compito. Fece il gesto di schiacciare qualcosa con i pugni, e le due mani giganti scaraventarono le
gorgoni nel Tevere. Le creature sbatterono contro il fondo e si ridussero in polvere. Nuvole
scintillanti della loro essenza tentarono di riformarsi, ma il fiume le dissipò come un frullatore, e ben
presto ogni residuo dei due mostri si disperse nell’acqua. I vortici svanirono, e la corrente tornò
come prima.
Percy era immobile sulla riva, con i vestiti e la pelle fumanti, come se le acque del Tevere lo
avessero sottoposto a un bagno di acido. Si sentiva esposto, nudo… vulnerabile.
Frank invece barcollava in mezzo al fiume, sbigottito ma sano e salvo. Hazel lo raggiunse e lo
aiutò a raggiungere la riva.
Solo allora Percy si rese conto del silenzio che aveva intorno: lo stavano fissando tutti, a occhi
spalancati.
Soltanto la vecchia June sembrava impassibile. — Be’, è stato un viaggio delizioso! — esclamò.
— Grazie, Percy Jackson, per avermi portato al Campo Giove.
Una delle ragazze emise un verso strozzato. — Percy… Jackson? — Lo disse come se conoscesse
quel nome.
Percy si concentrò su di lei, sperando di riconoscere un volto familiare: aveva un ruolo di
comando, questo era chiaro. Indossava un mantello sull’armatura, e il petto era decorato di medaglie.
Aveva più o meno la sua età, con gli occhi scuri e penetranti e i capelli lunghi e neri. Percy non riuscì
a riconoscerla, ma lei lo guardava come se lo avesse incontrato nei suoi incubi.
June rise, deliziata. — Oh, sì… vi divertirete tanto insieme! — Poi, giusto perché quel giorno non
era già stato abbastanza folle, la vecchia cominciò a risplendere e a cambiare forma. Crebbe fino a
diventare una dea scintillante di luce, alta due metri, vestita con un abito azzurro e una pelle di capra
sulle spalle. Il volto era severo e solenne. In mano stringeva uno scettro che culminava con un fiore
di loto.
I ragazzi del campo si stupirono ancora più di prima, se mai fosse stato possibile. La ragazza con
il mantello si inginocchiò. Gli altri seguirono il suo esempio. Uno si chinò così in fretta che per poco
non si infilzò da solo con la lancia.
Hazel fu la prima a parlare. — Giunone… — Anche lei e Frank si inginocchiarono.
Percy rimase l’unico in piedi. Sapeva che probabilmente avrebbe dovuto imitarli ma, dopo essersi
caricato la vecchia per tutto quel tempo, non aveva molta voglia di mostrarle tanto rispetto. —
Giunone, eh? Se ho passato il tuo test, posso riavere la mia memoria e la mia vita?
La dea sorrise. — Ogni cosa a suo tempo, Percy Jackson. E a condizione che tu abbia successo
qui, al campo. Oggi te la sei cavata bene, è un buon inizio. Forse c’è ancora speranza per te. — Si
voltò verso gli altri. — Romani, vi presento il figlio di Nettuno. È rimasto assopito per mesi, ma ora
si è svegliato. Il suo destino è nelle vostre mani. La Festa della Fortuna si avvicina in fretta, e la
Morte dovrà essere liberata se vorrete avere qualche speranza di vittoria nella battaglia. Non
deludetemi! — Giunone scintillò e scomparve.
Percy guardò Hazel e Frank come a cercare una spiegazione, ma sembravano confusi quanto lui.
Frank aveva in mano due piccole fiasche di terracotta con i tappi di sughero, come le fiale di una
pozione. Percy non aveva idea di dove le avesse prese, ma vide che se le infilava nelle tasche. Frank
gli lanciò un’occhiata come a dire: “Ne parliamo dopo.”
La ragazza con il mantello si fece avanti. — Un figlio di Nettuno, che viene da noi con la
benedizione di Giunone — esordì freddamente, studiando con diffidenza il nuovo arrivato.
Percy non riuscì a scrollarsi di dosso la sensazione che avrebbe tanto voluto infilzarlo con il
pugnale. — Ehm, senti… ho la memoria un po’ sottosopra. Cioè, a dirla tutta, l’ho proprio persa. Ci
conosciamo?
— Io sono Reyna, pretore della Dodicesima Legione. — La ragazza sembrò esitare. — E… no,
non ci conosciamo.
L’ultima parte era una menzogna. Percy glielo lesse negli occhi. Ma capì che se si fosse messo a
discutere lì, di fronte a tutti, lei non lo avrebbe apprezzato.
— Hazel, portalo dentro — continuò Reyna. — Voglio interrogarlo ai Principia. Poi lo
manderemo da Ottaviano. Dobbiamo consultare gli auguri prima di decidere cosa farne.
— In che senso? — replicò Percy.
Reyna strinse l’elsa del pugnale. Non era abituata alle repliche, era evidente. — Prima di
accettare qualcuno al campo, è nostra consuetudine interrogarlo e leggere gli auguri. Giunone ha detto
che il tuo destino è nelle nostre mani. Dobbiamo sapere se la dea ti ha condotto da noi come nuova
recluta… — Reyna scrutò Percy come se trovasse l’idea molto dubbia. — Oppure come un nemico
da uccidere — concluse in tono speranzoso.
PERCY
Percy non aveva paura dei fantasmi, il che era una fortuna, considerato che metà della gente del
campo era morta.
Fuori dall’armeria, guerrieri fatti di scintillante luce violacea levigavano le loro spade eterne.
Altri ciondolavano di fronte agli alloggi. Un ragazzino-fantasma inseguiva un cane fantasma per la
strada. E nelle stalle, un energumeno rosso con la testa di un lupo faceva la guardia a una mandria
di… unicorni?
Nessuno dei ragazzi del campo badava molto ai fantasmi, ma mentre il gruppetto di Percy
avanzava, con Reyna in testa e Frank e Hazel ai due lati, tutti gli spiriti smettevano qualunque cosa
stessero facendo e fissavano Percy. Alcuni sembravano arrabbiati. Il ragazzino-fantasma strillò
qualcosa come “Greggus!” e diventò invisibile.
Anche Percy avrebbe voluto diventare invisibile. Dopo settimane di solitudine, tutta
quell’attenzione lo metteva a disagio. Rimase tra Hazel e Frank e cercò di dare nell’occhio il meno
possibile. — Ho le allucinazioni o quelli sono davvero…?
— Fantasmi? — Hazel si voltò. Aveva occhi molto singolari, sembravano d’oro a 24 carati. —
Sono Lari. Divinità domestiche.
— Divinità domestiche — ripeté Percy. — Nel senso che… non sono “selvatiche”?
— Sono gli spiriti degli antenati — spiegò Frank. Si era tolto l’elmo, rivelando un volto infantile
che mal si accordava con il taglio militare dei capelli e la stazza robusta. Faceva pensare a un
bambino di tre anni gonfio di anabolizzanti e arruolato nei Marine. — I Lari sono una sorta di
mascotte. Nella maggior parte dei casi sono innocui, ma non li ho mai visti così in agitazione.
— Mi stanno fissando — disse Percy. — Quel ragazzino fantasma mi ha chiamato Greggus. Io non
mi chiamo Greg.
— Graecus — lo corresse Hazel. — Dopo che avrai passato un po’ di tempo qui da noi,
comincerai a comprendere il latino. I semidei lo conoscono per istinto. Graecus significa “greco”.
— Ed è una cosa brutta? — replicò Percy.
Frank si schiarì la voce. — Forse no. È che con quel colorito, quei capelli scuri e il resto… Forse
pensano che sei davvero greco. La tua famiglia è di qui?
— Non lo so. Ve l’ho detto, ho perso la memoria.
— O forse… — Frank esitò.
— Cosa? — lo incalzò Percy.
— Probabilmente non è nulla. — Frank scosse la testa. — Romani e Greci hanno un’antica
rivalità. A volte i Romani usano la parola graecus come insulto rivolto agli estranei, ai nemici. Ma
non mi preoccuperei. — Tuttavia sembrava molto preoccupato.
Si fermarono al centro del campo, dove due ampie strade lastricate si incontravano formando una
T.
Un cartello designava la strada che conduceva ai cancelli d’ingresso come VIA PRAETORIA. L’altra
strada, che tagliava il campo in due, si chiamava invece VIA PRINCIPALIS. Sotto le due insegne c’erano
poi altri cartelli dipinti a mano, con su scritto indicazioni del tipo: BERKELEY 8 CHILOMETRI ; NUOVA
ROMA 1 CHILOMETRO ; ANTICA ROMA 11.716 CHILOMETRI ; INFERI 2310 CHILOMETRI (con il cartello che
puntava verso il basso); RENO 208 CHILOMETRI e MORTE CERTA: VOI SIETE QUI!
Per avere un nome del genere, Morte Certa sembrava un posto molto pulito e ordinato. Gli edifici
erano intonacati di fresco e disposti in griglie precise, come se il campo fosse stato progettato da un
professore di geometria particolarmente pignolo. Gli alloggi dei soldati avevano portici ombrosi,
dove i ragazzi si rilassavano sulle amache o giocavano a carte e bevevano bibite. Ogni dormitorio
dispiegava poi una diversa serie di insegne, decorate con numeri romani e simboli di vari animali:
un’aquila, un cinghiale, un lupo, un cavallo e una creatura simile a un criceto.
Lungo la Via Praetoria, file di botteghe pubblicizzavano cibo, armature, armi, caffè, attrezzature
da gladiatori e toghe a noleggio. Un concessionario di bighe esponeva un grande cartello: SPENDETE
BENE I VOSTRI DENARII: ABS CESARE XLS, SENZA ANTICIPO!
A un angolo dell’incrocio c’era l’edificio più impressionante: un palazzo a due piani di marmo
bianco, a forma di cuneo, con il portico colonnato, come una banca dei primi del Novecento.
Centurioni stavano di sentinella all’ingresso. Sopra la soglia sventolava un grande vessillo viola con
le lettere SPQR dorate e ricamate all’interno di una corona d’alloro.
— Il quartier generale? — chiese Percy.
Reyna si voltò a guardarlo dritto in faccia, con occhi ancora freddi e ostili. — Noi lo chiamiamo
Principia.
Scrutò la piccola folla di curiosi che li aveva seguiti dal fiume. — Tornate tutti ai vostri doveri.
Vi aggiornerò all’adunata della sera. Vi ricordo che dopo cena ci saranno i ludi di guerra.
Il pensiero della cena fece brontolare lo stomaco di Percy. Aveva l’acquolina in bocca per il
profumo del barbecue che arrivava dalla mensa. Anche il fornaio in fondo alla strada mandava un
odore delizioso, ma dubitava che Reyna lo avrebbe lasciato andare.
La folla si disperse con riluttanza. Qualcuno borbottò commenti sulle probabilità di Percy.
— È morto.
— Magari lo fossero quei due che l’hanno trovato — aggiunse un altro.
— Sì — borbottò un terzo. — Che si unisca pure alla Quinta Coorte. Greci e secchioni.
L’ultimo commento sollevò diverse risatine, ma Reyna zittì tutti con un’occhiataccia, e anche gli
ultimi rimasti si dileguarono.
— Hazel, tu vieni con noi — disse poi. — Voglio sentire il tuo rapporto su quanto è successo al
cancello.
— Posso venire anch’io? — chiese Frank. — Percy mi ha salvato la vita. Dobbiamo permettergli
di…
Reyna lo guardò talmente male che il ragazzo fece un passo indietro. — Ti rammento, Frank
Zhang, che tu stesso sei in probatio. Hai già causato abbastanza guai questa settimana.
Frank arrossì fino alla punta delle orecchie. Giocherellò con la targhetta metallica che portava su
una cordicella intorno al collo. Percy non ci aveva fatto molto caso, ma sembrava una piastrina
militare di piombo.
— Va’ in armeria — gli ordinò Reyna. — Fa’ l’inventario. Ti chiamerò se avrò bisogno di te.
— Ma… — Frank stava per protestare, poi si trattenne. — Sì, Reyna. — E corse via.
Reyna fece cenno a Hazel e a Percy di dirigersi al quartier generale. — Ora, Percy Jackson,
vediamo se possiamo rinfrescarti la memoria.
Il palazzo dei Principia era ancora più impressionante visto da dentro.
Sul soffitto scintillava un mosaico di Romolo e Remo sotto la loro madre adottiva: Lupa aveva
raccontato a Percy quella storia un milione di volte. Il pavimento era di marmo levigato, mentre le
pareti erano ricoperte da drappi di velluto. Percy ebbe la sensazione di trovarsi all’interno della
tenda da campeggio più costosa del mondo. Sulla parete in fondo erano disposte numerose insegne e
aste di legno costellate di medaglie bronzee: simboli militari, intuì Percy. Al centro della fila c’era
un piedistallo vuoto, come se il vessillo principale fosse in lavanderia o roba del genere.
Alle spalle di Percy, in un angolo, c’erano delle scale che scendevano nell’interrato. L’ingresso
era bloccato da una fila di sbarre di ferro, come la porta di una prigione. Il semidio si chiese cosa ci
tenessero laggiù. Mostri? Un tesoro? I semidei smemorati che stavano sulle scatole a Reyna?
Al centro della stanza, un lungo tavolo di legno era ingombro di pergamene, quaderni, computer
portatili e pugnali, più un grande vassoio di caramelle, che sembrava un po’ fuori posto. Ai lati del
tavolo c’erano due statue di levrieri a grandezza naturale, una d’argento e una d’oro.
Reyna andò a sedersi su una delle due sedie dalla spalliera alta.
Percy sperò di potersi sedere nell’altra, ma Hazel rimase in piedi, e lui ebbe la sensazione di
doverla imitare. — Allora… — cominciò.
La statue canine scoprirono i denti in un ringhio.
Percy si interruppe subito. Di solito gli piacevano i cani, ma quei due lo guardavano con occhi di
rubino, e le loro zanne sembravano affilate come rasoi.
— Buoni! — li redarguì Reyna.
I levrieri smisero di ringhiare, ma continuarono a scrutare Percy come se al suo posto vedessero
un osso gigante.
— Non ti attaccheranno a meno che tu non provi a rubare qualcosa — spiegò Reyna. — O a meno
che io non dica loro di farlo. Si chiamano Argentum e Aurum.
Percy, che aveva istintivamente compreso quei nomi latini, stava quasi per chiedere quale dei due
cani fosse Oro, ma poi si rese conto che la domanda era stupida.
Reyna posò il pugnale sul tavolo. Aveva i capelli neri e lucidi come roccia vulcanica, raccolti in
un’unica treccia che le ricadeva sulla schiena. La postura era quella di uno spadaccino: rilassata ma
vigile, pronta a scattare in azione da un momento all’altro. Le rughe di preoccupazione intorno agli
occhi la facevano sembrare più vecchia di quanto probabilmente fosse.
Osservandola, Percy ebbe la vaga sensazione di averla già vista. — Noi ci siamo incontrati, sì! —
esclamò. — Non ricordo quando. Ti prego, se puoi dirmi qualcosa…
— Una cosa alla volta — lo interruppe lei. — Prima voglio ascoltare la tua storia. Che cosa ti
ricordi? Come sei arrivato qui? E vedi di non mentire. Ai miei cani non piacciono i bugiardi.
Argentum e Aurum ringhiarono per sottolineare il concetto.
Percy raccontò la propria storia, da quando si era risvegliato nelle rovine della villa nei boschi di
Sonoma. Descrisse il periodo trascorso con Lupa e il suo branco, come aveva imparato il loro
linguaggio fatto di movenze ed espressioni, come aveva imparato a sopravvivere e combattere.
Lupa gli aveva insegnato tutto sui semidei, i mostri e gli dei. Gli aveva anche spiegato che lei era
uno degli spiriti guardiani dell’Antica Roma. I semidei come Percy avevano la responsabilità di
portare avanti le tradizioni romane nell’epoca moderna, combattendo i mostri, servendo gli dei,
proteggendo i mortali e tenendo alta la memoria dell’impero. Lupa lo aveva addestrato per settimane,
finché non era diventato forte, robusto e micidiale come un lupo. Una volta soddisfatta del risultato,
lo aveva spedito a sud dicendogli che, se fosse sopravvissuto al viaggio, forse avrebbe trovato una
nuova casa e recuperato la memoria.
Nessuna parte di quel racconto sembrò sorprendere Reyna. Anzi, sembrò trovarlo piuttosto
ordinario, tranne per una cosa. — La tua memoria è cancellata del tutto? Continui a non ricordare
nulla?
— Ricordo solo qualche frammento confuso. — Percy lanciò un’occhiata ai levrieri. Non aveva
voglia di parlare di Annabeth. Sembrava una faccenda troppo personale, e poi ancora non aveva idea
di dove trovarla. Era certo di averla conosciuta in un campo, ma quello in cui si trovava non
sembrava il posto giusto.
E poi era riluttante a condividere il proprio unico ricordo chiaro: il volto di Annabeth, i suoi
capelli biondi e gli occhi grigi, il modo in cui rideva, gli gettava le braccia al collo e lo baciava ogni
volta che faceva qualcosa di stupido.
“Deve avermi baciato tanto” pensò Percy. Temeva che, se ne avesse parlato con qualcuno, il
ricordo sarebbe svanito come un sogno. Non poteva correre il rischio.
Reyna fece roteare il pugnale, ancora nel fodero. — Gran parte di quello che mi racconti è
normale per i semidei. A una certa età, in un modo o nell’altro, troviamo la strada per la Casa del
Lupo. Veniamo messi alla prova e addestrati. Se Lupa ritiene che valiamo qualcosa, ci manda a sud
per entrare nella legione. Ma è la prima volta che sento di qualcuno che ha perso la memoria. Come
hai fatto a trovare il Campo Giove?
Percy le raccontò dei suoi ultimi tre giorni: le gorgoni che non volevano saperne di morire, la
vecchia che si era rivelata una dea, e infine l’incontro con Hazel e Frank all’ingresso del tunnel sulla
collina.
Reyna lo studiò. — Sei vecchio per essere una recluta. Quanti anni hai, sedici?
— Credo di sì.
— Se tu avessi davvero trascorso tutti questi anni da solo, senza addestramento né aiuto, dovresti
essere morto. Un figlio di Nettuno? Con l’aura potente che ti ritrovi, avresti attirato ogni genere di
mostro.
— Sì… mi dicono che puzzo.
Reyna si lasciò quasi sfuggire un sorriso, che fece ben sperare Percy. Forse era umana, dopo tutto.
— Devi essere stato da qualche altra parte prima della Casa del Lupo.
Percy si strinse nelle spalle. Giunone aveva parlato di un lungo sonno, e lui aveva la vaga
sensazione di avere dormito, forse per parecchio tempo. Ma gli sembrava assurdo.
Reyna sospirò. — Be’, i cani non ti hanno divorato, perciò suppongo che tu stia dicendo il vero.
— Fantastico! — esclamò Percy. — La prossima volta possiamo usare la macchina della verità?
Reyna si alzò. Si mise a camminare avanti e indietro di fronte alle insegne, seguita dallo sguardo
dei levrieri di metallo. — Anche se accetto che tu non sia un nemico, resta il fatto che non sei una
recluta qualunque — disse infine. — La regina degli dei non compare così, di punto in bianco, al
campo per annunciare un nuovo semidio. L’ultima volta che una divinità importante ci ha fatto visita
di persona è stata… — Reyna scosse la testa. — Impossibile, sono solo leggende. E un figlio di
Nettuno… non è un buon auspicio. Soprattutto ora.
— Che problemi ci sono con Nettuno? — domandò Percy. — E che vuol dire “soprattutto ora”?
Hazel gli lanciò un’occhiata di avvertimento.
Reyna continuò a fare avanti e indietro. — Hai combattuto contro le sorelle di Medusa, che non
comparivano da migliaia di anni. Hai messo in agitazione i nostri Lari, che ti chiamano graecus. E
indossi strani simboli: quella maglietta, le perle sulla collana… Che cosa significano?
Percy abbassò lo sguardo sulla propria malconcia maglietta arancione. Forse una volta c’erano
state delle parole stampate sopra, ma ormai erano illeggibili, tanto erano scolorite. Era praticamente
uno straccio: avrebbe dovuto buttarla da settimane, ma non sopportava l’idea di separarsene.
Continuava a lavarla nei ruscelli e nelle fontane, come meglio poteva, e poi se la infilava di nuovo.
Quanto alla collana, ciascuna delle quattro perle di terracotta aveva un simbolo diverso. Una
mostrava un tridente. Un’altra un Vello d’Oro in miniatura. Sulla terza era inciso il disegno di un
labirinto, e nell’ultima c’era l’immagine di un edificio – forse l’Empire State Building? – con intorno
dei nomi che lui non riconosceva. Aveva la sensazione che quelle perle fossero importanti, come le
foto di un album di famiglia, ma non riusciva a ricordarne il significato.
— Non lo so — ammise.
— E la tua spada? — lo incalzò Reyna.
Percy si frugò in tasca. La penna era ricomparsa come al solito. La tirò fuori, ma poi si rese conto
di non averla mai mostrata a Reyna. Neanche Hazel e Frank l’avevano vista. Come faceva Reyna a
conoscerla?
Ormai era troppo tardi per fingere che non esistesse. Tolse il tappo. Vortice si dispiegò in tutta la
sua forma.
Hazel rimase senza fiato. I levrieri iniziarono a ringhiare, preoccupati.
— Che roba è? — domandò Hazel. — Non avevo mai visto una spada del genere.
— Io sì — commentò Reyna, cupa. — È molto antica, un modello greco. Un tempo ne avevamo
alcune simili in armeria… — Si interruppe. — Il metallo di cui è fatta si chiama “bronzo celeste”.
Per i mostri è micidiale come l’oro imperiale, ma è perfino più raro.
— L’oro imperiale? — chiese Percy.
Reyna sfoderò il pugnale: la lama era d’oro. — Il metallo consacrato nell’antichità a Roma, nel
Pantheon. La sua esistenza era un segreto gelosamente custodito dagli imperatori, un segreto
attraverso il quale i loro campioni uccidevano i mostri che minacciavano l’impero. Un tempo
avevamo più armi così, ma ora… be’, ora ci bastano a malapena. Io uso questo pugnale. Hazel ha una
spatha, la spada della cavalleria. La maggior parte dei legionari usa invece il gladius, una spada più
corta. Ma quella che hai tu non è affatto romana. Un altro segno del fatto che non sei un semidio
qualunque. E il tuo braccio…
— Che cos’ha di male?
Reyna sollevò il proprio avambraccio. Percy non ci aveva fatto caso prima, ma nella parte interna
c’era un tatuaggio: le lettere SPQR, una spada e una torcia incrociate e, sotto, quattro linee parallele
simili a cicatrici.
Percy lanciò un’occhiata a Hazel.
— Ce l’abbiamo tutti — confermò lei, sollevando il braccio. — Tutti i membri a pieno titolo
della legione ce l’hanno.
Anche il tatuaggio di Hazel aveva le lettere SPQR, ma c’era una sola cicatrice, e il suo emblema
era diverso: un glifo nero simile a una croce con le braccia curve e una testa:
Percy si guardò le braccia. Qualche graffio, un po’ di fango e una vaga traccia di salsicciotti
omaggio, ma niente tatuaggi.
— Perciò non sei mai stato membro di una legione — concluse Reyna. — Questi marchi non si
possono rimuovere. Pensavo che forse… — Scosse la testa, come per scartare un’idea.
Hazel fece un passo avanti. — Se è sopravvissuto così a lungo da solo, forse ha visto Jason. — Si
voltò verso Percy. — Hai mai incontrato un semidio come noi prima d’ora? Un ragazzo con la
maglietta viola, e un tatuaggio sull’avambraccio…
— Hazel. — La voce di Reyna era tesa. — Percy ha già abbastanza preoccupazioni.
Percy toccò la punta della propria spada, e Vortice ritornò una penna. — Non ho mai incontrato
nessuno come voi. Chi è Jason?
Reyna scoccò un’occhiata irritata a Hazel. — Jason è… era il mio collega. — Indicò con un cenno
la sedia vuota. — La legione normalmente elegge due pretori. Jason Grace, figlio di Giove, era
l’altro pretore prima della sua scomparsa, lo scorso ottobre.
Percy cercò di fare due conti. Non aveva badato molto al calendario, nella foresta, ma Giunone
aveva detto che erano nel mese di giugno. — Vuoi dire che è sparito da otto mesi, e non lo avete
sostituito?
— Forse non è morto — replicò Hazel. — Non ci siamo arresi.
Reyna fece una smorfia.
Percy ebbe la sensazione che quel tizio, Jason, fosse più che un collega per lei.
— Le elezioni avvengono solo in due modi — spiegò Reyna. — La legione solleva qualcuno su
uno scudo dopo un grande successo sul campo di battaglia – e negli ultimi mesi non abbiamo avuto
grandi battaglie – oppure teniamo delle votazioni la sera del 24 giugno, alla Festa della Fortuna, che
è tra cinque giorni.
Percy aggrottò la fronte. — La Festa della Fortuna? C’è una lotteria o…?
Hazel lo zittì con un’occhiataccia. — È la festa dedicata alla dea Fortuna. Qualunque cosa accada
quel giorno, può condizionare il resto dell’anno. La dea può accordare al campo i suoi favori… o
condannarlo alla sfortuna.
Reyna e Hazel lanciarono un’occhiata al piedistallo vuoto, come se pensassero entrambe
all’oggetto mancante.
Percy fu scosso da un brivido lungo la schiena. — La Festa della Fortuna… Le gorgoni ne hanno
parlato. E anche Giunone. Hanno detto che il campo sarà attaccato quel giorno. C’entrano una dea
malvagia di nome Gea, e un esercito, e qualcosa sul liberare la Morte… E voi mi state dicendo che
la festa è questa settimana?
Reyna strinse più forte le dita sull’elsa del pugnale. — Non dovrai dire una parola di tutto ciò
fuori da questa stanza — ordinò. — Non ti lascerò diffondere altro panico nel campo.
— Allora è vero! — esclamò Percy. — Sai che cosa succederà? Possiamo fermarlo?
Aveva appena conosciuto quella gente, non era nemmeno sicuro che Reyna gli fosse simpatica, ma
voleva aiutarli. Erano semidei, come lui. Avevano gli stessi nemici. E poi ricordava bene quello che
Giunone gli aveva detto: non c’era solo quel campo in pericolo. La sua vecchia vita, gli dei e il
mondo intero rischiavano di essere distrutti. Qualunque cosa stesse per abbattersi su di loro, era roba
grossa.
— Abbiamo parlato abbastanza, per ora — tagliò corto Reyna. — Hazel, portalo sulla Collina dei
Templi. Trova Ottaviano. E nel tragitto potrai rispondere alle domande di Percy. Parlagli della
legione.
— Sì, Reyna.
Percy aveva ancora così tante domande che si sentiva fondere il cervello.
Ma Reyna mise in chiaro che l’udienza era finita. Rinfoderò il pugnale; i cani di metallo si
alzarono e ringhiarono, avanzando lentamente verso il ragazzo. — Buona fortuna con l’augure, Percy
Jackson. Se Ottaviano ti lascia vivere, forse possiamo scambiarci qualche idea… sul tuo passato.
PERCY
Uscendo dal campo, Hazel gli comprò un espresso e un muffin alle ciliegie da Bombolo, il mercante
a due teste.
Percy trangugiò il muffin in un istante. Il caffè era fantastico. “Ora ci vorrebbero solo una doccia,
dei vestiti puliti e un po’ di sonno, e tornerei come nuovo” pensò.
Osservò un gruppetto di ragazzini in costume e teli da bagno entrare in un edificio dai comignoli
fumanti di vapore. Risate e sciaguattii riecheggiavano all’interno, come in una piscina coperta.
— Le terme — spiegò Hazel. — Ti ci porteremo prima di cena, spero. Non sai che ti perdi!
Percy sospirò. Non vedeva l’ora.
Più si avvicinavano ai cancelli, più gli alloggi dei soldati si facevano grandi e belli. Anche i
fantasmi sembravano passarsela meglio, con armature più lussuose e aure più brillanti.
Percy cercò di decifrare le insegne e i simboli di fronte agli edifici. — Siete suddivisi in diverse
Case?
— Più o meno. — Hazel chinò la testa per schivare il volo radente di un ragazzino in groppa a
un’aquila. — Abbiamo cinque coorti, con una quarantina di ragazzi ciascuna. Ogni coorte è suddivisa
in alloggi che ospitano dieci ragazzi l’uno.
Percy non era mai stato un asso in matematica, ma non ci mise molto a fare la moltiplicazione. —
Mi stai dicendo che ci sono duecento ragazzi al campo?
— Più o meno, sì.
— E sono tutti semidei? Certo che gli dei si sono dati da fare…
Hazel rise. — Non tutti sono figli delle divinità maggiori. Ci sono centinaia di divinità romane
minori. E poi un sacco di questi ragazzi sono legati, cioè di seconda o terza generazione: i loro
genitori erano semidei, o i loro nonni.
Percy strizzò gli occhi. — Figli di semidei?
— Perché ti sorprende tanto?
Percy non lo sapeva. Nelle ultime settimane aveva dovuto preoccuparsi di sopravvivere giorno
per giorno, e l’idea di vivere così a lungo da diventare adulto e avere dei figli… be’, sembrava un
sogno impossibile. — Questi le… come hai detto?
— Legati.
— … hanno gli stessi poteri di un semidio?
— A volte sì, a volte no. Ma possono essere addestrati. Tutti i più grandi generali e imperatori
romani dichiaravano di discendere dagli dei. E nella maggior parte dei casi era vero. L’augure del
campo, Ottaviano, è un legato discendente da Apollo. Ha il dono della profezia, pare.
— Pare?
Hazel fece una smorfia amareggiata. — Vedrai.
Percy non si sentì molto rincuorato, dal momento che quel tizio aveva in mano il suo destino. —
Allora le divisioni, le coorti o come si chiamano… sono formate in base al genitore divino?
— Che idea orribile! — Hazel sgranò gli occhi. — No, gli ufficiali decidono dove assegnare le
reclute. Se fossimo suddivisi in base alle divinità, le coorti non sarebbero mai pari. Io sarei da sola.
Percy sentì una morsa di tristezza, come se nel suo passato si fosse già trovato in quella
situazione. — Perché? Da chi discendi?
Prima che lei potesse rispondere, qualcuno alle loro spalle gridò: — Aspettate!
Un fantasma corse loro incontro: un vecchio con la pancia grossa e una toga così lunga che
continuava a intralciargli il passo. Li raggiunse e si mise ad ansimare con il fiato corto, l’aura
violacea che gli tremolava intorno al corpo. — È lui? Una nuova recluta per la Quinta, forse?
— Vitellio… Abbiamo un po’ fretta — replicò Hazel.
Il fantasma scrutò Percy con la faccia scura e gli girò intorno, studiandolo come se fosse un’auto
usata. — Non lo so — borbottò. — Vogliamo solo i migliori nella nostra coorte. Ha tutti i denti? Sa
combattere? Pulisce le stalle?
— Sì, sì e… no — rispose Percy. — Ma lei chi è?
— Percy, ti presento Vitellio. — L’espressione di Hazel diceva: “Lascialo divertire.” — È uno
dei nostri Lari; si interessa sempre delle nuove reclute.
I fantasmi di un portico vicino emisero dei versi di scherno, mentre Vitellio camminava avanti e
indietro, inciampando sulla toga e tirandosi su la cintura da cui pendeva una spada. — Sì! —
esclamò. — Ai tempi di Cesare – Giulio Cesare, bada – la Quinta Coorte era una meraviglia! La
Dodicesima Legione Fulminata, l’orgoglio di Roma! Ma oggi? Ah, come siamo ridotti. Guarda Hazel,
qui, con quella spatha. Un’arma ridicola per un legionario romano: la spatha è per la cavalleria! E
tu, ragazzo… puzzi di fogna greca. Non sei stato alle terme?
— Ho avuto un po’ da fare con le gorgoni — replicò Percy.
— Vitellio, dobbiamo portare Percy dall’augure prima che possa unirsi a qualsiasi coorte —
intervenne Hazel. — Perché non vai a vedere dov’è finito Frank? Sta facendo l’inventario in armeria.
E sai quanto lui apprezzi il tuo aiuto.
Le sopracciglia cespugliose dello spettro si alzarono di scatto. — Marte Onnipotente! Permettono
a quel probatio di controllare le nostre armi? Siamo rovinati! — Si allontanò come una furia,
fermandosi però a ogni passo per raccogliere la spada o aggiustarsi la toga.
— Scusalo, Percy — disse Hazel. — È un po’ eccentrico, ma è uno dei Lari più anziani. È qui
dalla fondazione della legione.
— Ha chiamato la legione… Fulminata?
— Nel senso di “armata di fulmini”. È il nostro motto. La Dodicesima Legione è stata in
circolazione per tutta la durata dell’impero romano. Alla caduta di Roma, molte legioni sono
scomparse. Noi siamo entrati in clandestinità, agendo agli ordini segreti dello stesso Giove.
L’obiettivo: restare vivi, reclutare semidei e i loro figli, mantenere in vita Roma. Lo facciamo da
allora, spostandoci ovunque l’influenza romana è più forte. Da qualche secolo siamo negli Stati Uniti.
Per quanto la cosa sembrasse assurda, Percy non ebbe alcun problema a crederci. In realtà gli
suonava molto familiare, come se lo avesse sempre saputo.
— E tu sei nella Quinta Coorte — intuì. — Che forse non è la più popolare… giusto?
Hazel aggrottò la fronte. — Proprio così. Sono arrivata lo scorso settembre.
— Quindi… poche settimane prima che quel ragazzo, Jason, scomparisse. — Percy capì di aver
toccato un punto dolente.
Hazel abbassò lo sguardo. Rimase in silenzio a lungo, tanto da poter contare ogni singola pietra
del lastrico. — Vieni — disse infine. — Voglio mostrarti il mio panorama preferito.
Si fermarono fuori dai cancelli. Il forte era situato sul punto più alto della vallata, da cui riuscivano a
vedere quasi tutto.
La strada proseguiva sino al fiume e poi si divideva. Una diramazione conduceva a sud,
attraversava un ponte e risaliva la Collina dei Templi. L’altra proseguiva a nord ed entrava in città,
una versione in miniatura dell’Antica Roma. A differenza dell’accampamento militare, la città era
caotica e colorata, con gli edifici arroccati a ogni angolo disponibile.
Perfino da lontano, Percy riusciva a scorgere la gente riunita nella piazza, gli avventori del
mercato, i genitori che giocavano con i figli nei parchi. — Avete delle famiglie qui?
— In città, certo — confermò Hazel. — Quando ti accettano nella legione, devi svolgere dieci
anni di servizio. Una volta finito, puoi decidere di fare quello che vuoi. Quasi tutti i semidei tornano
nel mondo mortale. Ma per alcuni… be’, è pericoloso là fuori. Questa valle è un santuario. Puoi
andare al college in città, sposarti, avere figli, andare in pensione una volta anziano. È l’unico posto
sicuro sulla terra, per quelli come noi. Perciò sì, un sacco di veterani si stabiliscono qui, sotto la
protezione della legione.
Semidei adulti. Semidei che potevano vivere senza paura, sposarsi, mettere su famiglia. Percy
faticava ad afferrare il concetto. Sembrava troppo bello per essere vero. — Ma… e se la valle
venisse attaccata?
— Abbiamo delle difese. I confini sono magici. — Hazel storse la bocca. — Ma la nostra forza
non è più come prima. Negli ultimi tempi, gli attacchi dei mostri sono aumentati. Quello che ci hai
raccontato sulle gorgoni che non morivano… lo abbiamo notato anche noi, con altri mostri.
— E sapete cosa lo sta causando?
Hazel distolse lo sguardo.
Percy intuì che gli stava nascondendo qualcosa… qualcosa che le era stato ordinato di non
rivelare.
— È… complicato — rispose infine la ragazza. — Mio fratello dice che la Morte non…
Ma fu interrotta da un elefante. Qualcuno alle loro spalle gridò: — Toglietevi di mezzo!
Hazel tolse Percy dalla strada un attimo prima che un semidio passasse in groppa a un pachiderma
adulto ricoperto da un’armatura nera antiproiettile. Sul fianco dell’armatura c’era una scritta:
ELEFANTE… cosa che a Percy sembrò decisamente ovvia.
L’animale si allontanò rapido lungo la strada e svoltò verso nord, diretto a un grande campo
aperto dove c’erano delle fortificazioni in costruzione.
Percy sputò per liberarsi della polvere che gli era entrata in bocca. — Ma che…?
— Un elefante — spiegò Hazel.
— Sì, ho letto. Ma perché avete un elefante in giubbotto antiproiettile?
— Stasera ci sono i ludi di guerra — replicò la ragazza. — E quello è Annibale. Non potevamo
escluderlo, si sarebbe arrabbiato.
— Giusto. Per carità…
Hazel rise. Era difficile credere che fosse la stessa ragazza malinconica di qualche attimo prima.
Chissà cos’era stata sul punto di dire, si chiese Percy. Dunque aveva un fratello. Però aveva detto
che sarebbe stata sola, se il campo fosse stato diviso in base ai genitori divini.
Percy non riusciva ancora a capirla bene. Sembrava una ragazza gentile e tranquilla, matura per la
sua età, considerato che non poteva avere più di tredici anni. Però sembrava anche celare una
tristezza profonda, come se si sentisse in colpa per qualcosa.
Hazel indicò a sud, al di là del fiume. Nuvole nere si stavano raccogliendo sopra la Collina dei
Templi. Lampi rossi inondarono di luce sanguigna i monumenti.
— Ottaviano è occupato — disse. — È meglio andare.
Poco più avanti, passarono di fronte a dei tizi con le zampe caprine che ciondolavano sul ciglio della
strada.
— Hazel! — chiamò uno di loro. E si avvicinò trotterellando, con un grande sorriso stampato in
faccia. Indossava una camicia hawaiana scolorita e non portava i pantaloni, solo un fitto vello
caprino marrone. La voluminosa capigliatura afro si muoveva a scatti a ogni suo gesto. Gli occhi
erano nascosti dietro un paio di occhialetti tondi dalle lenti arcobaleno. In mano aveva un cartello:
LAVORO CANTO PARLO ME NE VADO IN CAMBIO DI DENARII.
— Ciao, Don — disse Hazel. — Scusaci, non abbiamo tempo…
— Oh, che figata! Che figata! — Don si mise a seguirli al trotto. — Un ragazzo nuovo! — Sorrise
a Percy. — Ce li hai tre denarii per il bus? Ho lasciato il portafoglio a casa, e devo andare al
lavoro, e…
— Don — lo interruppe Hazel, in tono di rimprovero — i fauni non hanno il portafoglio. E non
lavorano. E non hanno una casa. E noi non abbiamo autobus, qui al campo.
— Giusto — replicò lui, allegro. — Ma i denarii ce li hai?
Percy sorrise. — Ma come, i fauni non fanno nulla? Non dovrebbero lavorare per il campo?
Don belò. — I fauni… lavorare per il campo? Da morire dal ridere!
— I fauni sono… ehm, spiriti liberi — spiegò Hazel. — Stanno da queste parti perché, be’, è un
posto sicuro per andarsene in giro e chiedere l’elemosina. Noi li tolleriamo, ma…
— Oh, Hazel è fantastica — disse Don. — È gentile! Tutti gli altri ragazzi sono sempre lì a dire:
“Vattene, Don!” E lei invece: “Don, per favore, te ne vai?” La adoro!
Il fauno sembrava innocuo, eppure Percy lo trovava un po’ inquietante. Non riusciva a scrollarsi
di dosso la sensazione che i fauni non potessero essere solo dei senzatetto che mendicavano denarii.
Don posò lo sguardo a terra e trasalì. — Evvai!
Si chinò a raccogliere qualcosa, ma Hazel gridò: — Don, no! — Lo scansò con una spinta e
raccolse al volo un oggetto scintillante.
Percy fece appena in tempo a scorgerlo prima che lei se lo infilasse in tasca. Avrebbe giurato che
fosse un diamante.
— E dai, Hazel! — si lamentò Don. — Mi ci sarei comprato un anno di ciambelle, con quello.
— Don, per favore, te ne vai? — Sembrava scossa, come se avesse appena salvato Don dalla
carica di un elefante col giubbotto antiproiettile.
Il fauno sospirò. — Ah, non riesco ad avercela con te. Ma giuro che mi porti fortuna. Ogni volta
che passi…
— Ciao, Don — si affrettò a dire Hazel. — Andiamo, Percy.
— Ma cos’è successo? — domandò Percy. — Quel diamante per strada…
— Ti prego — replicò lei. — Non fare domande.
Proseguirono in un silenzio imbarazzato per il resto del tragitto verso la Collina dei Templi. Un
sentiero di ciottoli sconnessi avanzava nel verde, attraverso un folle assortimento di altarini e
massicce volte a cupola. Statue di varie divinità sembravano seguire Percy con lo sguardo.
Hazel indicò il tempio di Bellona. — La dea della guerra — disse. — È la madre di Reyna. —
Poi passarono di fronte a una grande cripta rossa decorata con teschi umani e picche di ferro.
— Ti prego, dimmi che non ci dobbiamo entrare — fece Percy.
Hazel scosse la testa. — Quello è il tempio di Marte Ultore.
— Marte… Ares, il dio della guerra?
— Ares è il suo nome greco — replicò Hazel. — Però sì, è lo stesso dio. Ultore significa “il
Vendicatore”. È il secondo dio più importante di Roma.
Percy non fu contento della notizia. Per qualche ragione, si sentiva montare la rabbia solo a
guardare quell’edificio.
Indicò verso la cima. Le nuvole roteavano intorno al tempio più grande, un padiglione a pianta
rotonda con un anello di colonne bianche a sostegno di una cupola. — Immagino che quello sia il
tempio di Zeus… cioè, di Giove, giusto? Stiamo andando là?
— Sì. — Hazel sembrava nervosa. — Ottaviano legge gli auguri lì, nel tempio di Giove Optimus
Maximus.
Percy dovette rifletterci un poco, ma poi le parole latine si tradussero da sole. — Giove… il
migliore e il più grande? Ottimo Massimo, giusto?
— Esatto.
— E qual è il titolo di Nettuno? Il più figo di tutti?
— Ehm, non proprio. — Hazel indicò un piccolo edificio blu grande quanto un capanno degli
attrezzi. Un tridente coperto di ragnatele era inchiodato sulla porta.
Percy vi sbirciò dentro: su un piccolo altare c’era una ciotola con tre mele rinsecchite e
ammuffite. Ebbe un tuffo al cuore. — Un posto davvero popolare.
— Mi dispiace, Percy — disse Hazel. — È solo che… i Romani hanno sempre avuto un sacro
timore del mare. Usavano le navi solo se costretti. Anche in epoca moderna, la presenza di un figlio
di Nettuno è sempre stata di cattivo auspicio. L’ultima volta che ne abbiamo avuto uno nella
legione… be’, era il 1906, quando il Campo Giove si trovava sulla baia di San Francisco. E ci fu
quel violento terremoto…
— Mi stai dicendo che il grande terremoto di San Francisco è stato provocato da un figlio di
Nettuno?
— Così dicono. — Hazel sembrava mortificata. — Comunque… i Romani temono Nettuno, e non
lo amano molto.
Percy scrutò le ragnatele sul tridente. “Fantastico” pensò. Anche se era entrato a far parte del
campo, non lo avrebbero mai amato. Al massimo, i suoi nuovi compagni avrebbero avuto paura di
lui. E se si fosse comportato molto ma molto bene, lo avrebbero ricompensato con qualche mela
ammuffita.
Però… lì, di fronte all’altare di Nettuno, avvertì qualcosa che gli si agitava dentro, come onde che
gli si increspavano nel sangue. Si sfilò lo zaino e tirò fuori l’ultimo pezzetto di cibo rimasto dal
viaggio: un bagel stantio. Non era molto, ma lo posò sull’altare. — Ehi… ehm, papà. — Si sentiva
parecchio stupido a parlare con una fruttiera. — Se riesci a udirmi, dammi una mano, okay?
Restituiscimi la memoria. Dimmi… dimmi che cosa devo fare. — Gli si incrinò la voce. Non voleva
arrabbiarsi, ma era esausto e spaventato, e si sentiva smarrito ormai da così tanto tempo che avrebbe
dato qualsiasi cosa per una direzione certa. Aveva bisogno di punti fermi, era stanco di inseguire i
ricordi perduti.
Hazel gli posò una mano su una spalla. — Andrà tutto bene. Ora sei qui. Sei uno di noi.
Era imbarazzante dipendere da una ragazzina di terza media per avere un po’ di consolazione, ma
Percy fu felice della sua presenza.
Sopra di loro, rombò un tuono. Una luce rossa illuminò la collina.
— Ottaviano ha quasi finito — disse Hazel. — Andiamo.
In confronto al capanno degli attrezzi di Nettuno, il tempio di Giove era decisamente “ottimo e
massimo”. Il pavimento di marmo era solcato da mosaici variopinti e inscrizioni latine. A venti metri
di altezza, il soffitto della cupola scintillava d’oro. L’edificio era tutto aperto e spazzato dal vento.
Al centro c’era un altare di marmo, dove un ragazzo con la toga stava compiendo un rituale
indecifrabile di fronte alla statua d’oro massiccio del grande capo in persona: Giove, il dio del cielo,
vestito con una toga taglia XXXL e con una folgore in pugno.
— Non è fatta così — brontolò Percy.
— Che cosa? — domandò Hazel.
— La folgore originaria.
— A che ti riferisci?
— Io… — Percy aggrottò la fronte. Per un istante, gli era sembrato di ricordare qualcosa. Ma
l’attimo era già svanito. — Niente… credo.
Il ragazzo davanti all’altare sollevò le mani: altri fulmini rossi lampeggiarono nel cielo, scuotendo
il tempio. Quando le abbassò, i tuoni cessarono. Le nuvole nere si fecero prima bianche e poi si
dispersero.
Un numero davvero impressionante, considerato che il ragazzo in questione non sembrava un
granché. Era alto e magro, con i capelli color paglia, i jeans larghi, una maglietta sformata e una toga
floscia che gli cadeva da tutte le parti. Sembrava uno spaventapasseri avvolto nelle lenzuola.
— Che sta facendo? — mormorò Percy.
Il ragazzo con la toga si voltò. Aveva un sorriso sbilenco e un’espressione leggermente folle negli
occhi, come se avesse appena finito una partita a un videogame molto coinvolgente. In una mano
teneva un coltello, nell’altra qualcosa di simile a un animale morto. Il che non contribuiva molto a
migliorare la sua aria da pazzo scatenato.
— Percy, ti presento Ottaviano — disse Hazel.
— Il graecus! — esclamò il ragazzo. — Interessante.
— Oh… ciao — replicò Percy. — Stai, ehm… ammazzando animali?
Ottaviano abbassò lo sguardo sulla cosa pelosa che aveva in mano e rise. — No, no. Un tempo lo
facevamo. Leggevamo il volere degli dei nelle viscere degli animali: polli, capre, cose così. Oggi
invece usiamo questi. — E gli lanciò la cosa pelosa che aveva in mano. Era un orsacchiotto di
peluche, sventrato.
Fu allora che Percy notò la pila di animaletti di peluche mutilati ai piedi della statua di Giove. —
Davvero?
Ottaviano scese dal piedistallo. Doveva avere all’incirca diciotto anni, ma era così magro e
pallido che avrebbe potuto passare per un ragazzo più piccolo. A prima vista sembrava innocuo, ma,
quando si avvicinò, Percy non ne fu più tanto sicuro. Gli occhi dell’augure luccicavano di una
curiosità dura, come se fosse stato capace di sventrare tranquillamente anche Percy come un
orsacchiotto, nel caso gli fosse servito per sapere qualcosa.
Ottaviano socchiuse gli occhi. — Sembri nervoso.
— Mi ricordi qualcuno — replicò Percy. — Ma non so chi.
— Forse il mio omonimo, Ottaviano Cesare Augusto. Tutti dicono che gli assomiglio molto.
Percy ne dubitava, però non riusciva a mettere a fuoco il suo ricordo. — Perché mi hai chiamato
“il greco”?
— L’ho visto negli auguri. — Ottaviano indicò con il coltello il mucchietto di imbottitura
sull’altare. — Il messaggio dice: “Il greco è arrivato.” O forse anche: “Il geco ha gridato.” Ma penso
che la prima interpretazione sia quella giusta. Vuoi entrare nella legione?
Hazel si inserì nella conversazione e raccontò a Ottaviano tutto quello che era accaduto da quando
si erano incontrati al tunnel: le gorgoni, la battaglia sul fiume, la comparsa di Giunone, la
conversazione con Reyna.
Quando sentì menzionare Giunone, Ottaviano sembrò sorpreso. — Noi la chiamiamo Giunone
Moneta, colei che ammonisce, che mette in guardia. Appare in tempi di crisi, per avvertire Roma di
grandi minacce. — Lanciò un’occhiata a Percy come a dire: “La comparsa di misteriosi Greci, per
esempio.”
— Ho saputo che la Festa della Fortuna sarà questa settimana — disse Percy. — Le gorgoni mi
hanno annunciato che ci sarà un’invasione, quel giorno. Hai visto anche questo nella tua imbottitura?
— Purtroppo no. — Ottaviano sospirò. — La volontà degli dei è difficile da discernere. E in
questi giorni la mia visione è perfino più oscura.
— Non avete… non so… un oracolo o qualcosa del genere? — chiese Percy.
— Un oracolo! — Ottaviano sorrise. — Ma che idea carina. No, temo che siamo rimasti a corto di
oracoli. Certo, se avessimo interrogato i Libri Sibillini, come avevo raccomandato…
— Che cosa sono? — domandò Percy.
— Libri profetici, per i quali Ottaviano ha una vera ossessione — chiarì Hazel. — I Romani li
consultavano quando accadevano dei disastri. Quasi tutti sono convinti che siano andati bruciati con
la caduta di Roma.
— È quello che crede qualcuno — precisò Ottaviano. — Purtroppo il comando attuale non vuole
autorizzare una missione per andare a cercarli…
— Perché Reyna non è stupida — ribatté Hazel.
— … perciò abbiamo solo qualche brandello dei libri — continuò Ottaviano. — Poche predizioni
misteriose, come queste. Indicò con un cenno le inscrizioni sul pavimento di marmo.
Percy le guardò senza aspettarsi di comprenderle. E gli si strozzò il fiato in gola. — Quella. —
Indicò, traducendo ad alta voce: — Sette mezzosangue alla chiamata risponderanno. Fuoco o
tempesta il mondo cader faranno…
— Sì, sì. — Ottaviano la concluse senza neppure guardare: Con l’ultimo fiato un giuramento si
dovrà mantenere, e alle Porte della Morte, i nemici armati si dovran temere.
— Io… la conosco. — A Percy sembrò che i tuoni scuotessero di nuovo il tempio. Poi si rese
conto che era il proprio corpo a tremare. — È importante.
Ottaviano inarcò un sopracciglio. — Certo che è importante. La chiamiamo “la Profezia dei
Sette”, ma risale a migliaia di anni fa. Non sappiamo che cosa significhi. Ogni volta che qualcuno
cerca di interpretarla… be’, Hazel potrà raccontartelo. Succedono cose brutte.
Hazel gli scoccò un’occhiataccia. — Senti… leggi l’augurio per Percy e basta. Può entrare nella
legione, sì o no?
A Percy sembrò quasi di vedere la mente di Ottaviano in movimento mentre cercava di calcolare
se poteva o meno essergli utile.
Poi l’augure tese il braccio e posò la mano sul suo zaino. — Un bell’esemplare. Posso? — Percy
non sapeva a cosa si riferisse, ma Ottaviano tirò via il cuscino Tenerotto Panda Soft che spuntava in
cima allo zaino. Era solo uno stupido pupazzo di peluche, ma Percy se l’era portato dietro per tutto il
viaggio… e, insomma, un po’ ci teneva. L’augure si voltò verso l’altare e alzò il coltello.
— Ehi! — protestò Percy.
Ottaviano squarciò la pancia del panda e riversò l’imbottitura sull’altare. Gettò via la carcassa
del pupazzo, borbottò qualche parola sopra le interiora morbide e infine si voltò con un grande
sorriso stampato in faccia. — Buone notizie! — esclamò. — Percy può entrare nella legione. Gli
assegneremo una coorte all’adunata di stasera. Hazel, di’ a Reyna che approvo.
La ragazza rilassò le spalle. — Fantastico! Vieni, Percy.
— Hazel? — proseguì Ottaviano. — Sono felice di accogliere Percy nella legione. Ma, quando
sarà ora di eleggere il pretore, spero che ricorderai…
— Jason non è morto! — sbottò lei. — Tu sei l’augure. E dovresti cercarlo!
— Oh, ma lo faccio! — Ottaviano indicò la pila di pupazzetti sventrati. — Consulto gli dei tutti i
giorni. Ahimè, dopo otto mesi, non ho ancora scoperto nulla. Naturalmente, sto ancora cercando. Ma
se Jason non fa ritorno entro la Festa della Fortuna, dobbiamo agire. Non possiamo reggere ancora a
lungo un vuoto di potere. Spero che mi sosterrai come nuovo pretore. Significherebbe molto per me.
Hazel serrò i pugni. — Io dovrei sostenere… te?
Ottaviano si tolse la toga e la posò insieme al coltello sull’altare. Percy notò sette linee sul suo
braccio: sette anni di campo, intuì. Il marchio invece era una cetra, il simbolo di Apollo.
— Dopotutto, io potrei aiutarti — continuò l’augure. — Sarebbe un peccato se quelle orribili voci
sul tuo conto continuassero a circolare… Oh, gli dei non vogliano, se si dimostrassero vere.
Percy si infilò la mano in tasca e afferrò la penna. Quel tizio stava ricattando Hazel, era evidente.
Un cenno dell’amica, e Percy avrebbe sfoderato Vortice, così Ottaviano avrebbe visto come ci si
sentiva a stare dall’altra parte della lama.
La ragazza trasse un respiro profondo. Strinse ancora più forte i pugni, tanto da sbiancare le
nocche delle dita. — Ci penserò.
— Ottimo — commentò Ottaviano. — A proposito, tuo fratello è qui.
Hazel si irrigidì. — Mio fratello? Perché?
— Perché tuo fratello fa le cose? Chi può dirlo? — Ottaviano alzò le spalle. — Ti sta aspettando
al tempio di vostro padre. Solo non… non invitarlo a restare a lungo. Ha un effetto inquietante sugli
altri. Ora, se volete scusarmi, devo continuare a cercare il nostro povero amico perduto, Jason. È
stato un piacere conoscerti, Percy.
Hazel si allontanò come una furia dal padiglione, e Percy la seguì. Non si era mai sentito così
sollevato uscendo da un tempio, ne era certo.
Mentre scendeva di buona lena la collina, Hazel imprecava in latino.
Percy non capiva parola per parola, ma afferrò comunque “figlio di una gorgone” e “serpente
assetato di potere”, più un paio di suggerimenti su dove Ottaviano avrebbe potuto infilarsi il coltello.
— Quanto lo odio — borbottò Hazel, abbandonando finalmente il latino. — Se si facesse a modo
mio…
— Non riuscirà a farsi eleggere pretore, vero? — chiese Percy.
— Vorrei esserne certa. Ottaviano ha un sacco di amici, molti dei quali comprati. E il resto dei
ragazzi del campo ha paura di lui.
— Hanno paura di quel pappamolle?
— Non sottovalutarlo. Reyna non è tanto male, presa da sola, ma se lei e Ottaviano si divideranno
il potere… — Hazel rabbrividì. — Andiamo da mio fratello. Ti vorrà conoscere.
Percy non obiettò. Voleva conoscere quel misterioso fratello, così forse avrebbe saputo qualcosa
di più sul conto di Hazel: chi era suo padre, quale segreto stava nascondendo… Non riusciva a
credere che avesse fatto qualcosa per la quale fosse davvero il caso di sentirsi in colpa. Sembrava
troppo simpatica. Ma Ottaviano si era comportato come se su di lei pesasse chissà quale nefandezza.
Hazel condusse Percy nei pressi di una cripta nera costruita nel fianco della collina. Lì davanti ad
aspettarli c’era un ragazzo vestito con un paio di jeans neri e un giubbotto da aviatore.
— Ehi! — esclamò Hazel. — Ho portato un amico.
Il ragazzo si voltò. Percy ebbe un altro di quei suoi assurdi flash: come se fosse qualcuno che
conosceva. Il ragazzo era pallido quasi quanto Ottaviano, ma con gli occhi scuri e i capelli neri e
spettinati. Non somigliava affatto a Hazel. Indossava un anello con un teschio, una catena al posto
della cintura e una maglietta nera con un teschio sul davanti. E aveva una spada nerissima appesa al
fianco. Quando vide Percy, per un nanosecondo sembrò turbato, impaurito perfino, come un ricercato
appena scovato dalla polizia.
— Ti presento Percy Jackson — disse Hazel. — È un bravo ragazzo. Percy, lui è mio fratello,
figlio di Plutone.
Il fratello di Hazel si ricompose e tese la mano. — Piacere di conoscerti. Sono Nico Di Angelo.
HAZEL
Hazel aveva la sensazione di avere appena fatto incontrare due bombe nucleari. E adesso stava
aspettando di vedere quale delle due sarebbe esplosa per prima.
Fino a quella mattina, suo fratello Nico era il semidio più potente che avesse mai conosciuto. Gli
altri ragazzi del Campo Giove lo consideravano solo un tipo un po’ strambo, più o meno innocuo
quanto i fauni. Ma Hazel sapeva la verità. Non era cresciuta con lui, e neppure lo conosceva da
molto. Però sapeva che era più pericoloso di Reyna e Ottaviano, e forse perfino di Jason.
Poi aveva incontrato Percy.
All’inizio, quando lo aveva visto scarpinare su per la collina con quella vecchia hippie in
braccio, aveva sospettato che fosse un dio in incognito. Pur essendo sporco, malconcio e piegato
dalla stanchezza, emanava una forte aura di potere. E poi era bello come un dio romano, con gli occhi
verdi come il mare e i capelli neri spettinati dal vento.
Hazel aveva ordinato a Frank di non colpirlo, pensando che potesse essere un test degli dei.
Aveva sentito parlare di miti del genere: un ragazzo e una donna che cercano asilo, e quando i rudi
mortali rifiutano: bum, eccoli trasformati in viscidi lumaconi.
Poi Percy aveva comandato il fiume e distrutto le gorgoni. Aveva trasformato una penna in una
spada di bronzo. La voce che potesse essere un graecus aveva messo in subbuglio il campo.
Un figlio del dio del mare…
Tanto tempo prima, qualcuno le aveva predetto che un discendente di Nettuno le avrebbe dato la
pace. Ma Percy poteva davvero liberarla dalla maledizione? Le sembrava di chiedere troppo.
Percy e Nico si strinsero la mano. Si studiarono con cautela, e Hazel avvertì l’istinto di darsela a
gambe. Se quei due avessero sguainato le spade magiche, le cose si sarebbero messe male.
Nico non aveva un aspetto che incuteva paura. Era magrolino e un po’ sciatto, con i suoi vestiti
neri spiegazzati. E con quei capelli, come al solito, sembrava che si fosse appena alzato dal letto.
Hazel ripensò a quando lo aveva incontrato. La prima volta che lo aveva visto sguainare la sua
spada nera, lei aveva quasi riso. Il modo in cui la chiamava – “il ferro dello Stige” – e con quella
faccia seria, poi… le era parso ridicolo. Quel ragazzino bianco tutto pelle e ossa non sembrava un
guerriero. Hazel aveva dubitato che fossero parenti, ma aveva cambiato idea alla svelta.
Percy aggrottò la fronte. — Io… ti conosco.
Nico inarcò le sopracciglia. — Davvero? — Guardò Hazel come per chiedere una spiegazione.
Lei esitò. C’era qualcosa di strano nella reazione del fratello. Si stava sforzando di fare
l’indifferente, ma Hazel aveva notato la fugace nota di panico che gli aveva attraversato lo sguardo
nel vedere Percy. Nico conosceva già Percy. Lei ne era certa. Perché stava fingendo il contrario?
Hazel si costrinse a rispondere. — Ehm… Percy ha perso la memoria. — E spiegò al fratello tutto
quello che era successo dall’apparizione del nuovo arrivato. Poi con prudenza aggiunse: — Perciò,
dal momento che hai viaggiato tanto, pensavo che forse avessi già conosciuto semidei come Percy,
o…
L’espressione di Nico si fece scura come il Tartaro.
Hazel non ne capiva il motivo, ma afferrò il messaggio: “Lascia perdere.”
— Questa storia dell’esercito di Gea… — disse Nico. — Avete avvisato Reyna?
Percy annuì. — Ma chi è questa Gea?
Hazel si sentì seccare la bocca soltanto a sentire quel nome. Riuscì a malapena a tenere salde le
ginocchia. Ricordava bene la voce morbida e assonnata di una donna, una grotta baluginante di luce, i
polmoni che le si riempivano di petrolio.
— È la dea della terra. — Nico lanciò un’occhiata al terreno, come se potesse ascoltarli. — La
dea più antica di tutte. Dorme un sonno profondo per la maggior parte del tempo, ma odia gli dei e i
loro figli.
— La Madre Terra è… cattiva? — chiese Percy.
— Molto — confermò Nico in tono grave. — Convinse suo figlio, il titano Crono – cioè, volevo
dire Saturno – a uccidere suo padre Urano e a impadronirsi del mondo. I Titani hanno governato a
lungo. Poi i figli dei Titani, gli dei dell’Olimpo, li hanno rovesciati.
— Mi suona familiare… — Percy sembrava sorpreso, come se un vecchio ricordo fosse
parzialmente riemerso in superficie. — Ma non credo di avere mai sentito la parte sul conto di Gea.
Nico si strinse nelle spalle. — Quando gli dei presero il comando, lei si infuriò. Scelse un nuovo
marito – Tartaro, lo spirito dell’abisso – e diede alla luce una razza di giganti, che cercarono di
distruggere l’Olimpo. Ma gli dei alla fine li sconfissero. Almeno… la prima volta.
— La prima volta? — ripeté Percy.
Nico lanciò un’occhiata a Hazel. Probabilmente non aveva nessuna intenzione di farla sentire in
colpa, ma lei non riuscì a evitarlo.
“Se Percy sapesse la verità sul mio conto” si disse la ragazza. “Le cose orribili che ho fatto…”
— L’estate scorsa, Saturno ha cercato di fare ritorno — proseguì Nico. — C’è stata una seconda
guerra dei Titani. I Romani del Campo Giove hanno messo a ferro e fuoco il suo quartier generale sul
Monte Otri, dall’altra parte della baia, e hanno distrutto il suo trono. Saturno è scomparso… — Il
figlio di Plutone esitò, guardando il volto di Percy.
Hazel ebbe la sensazione che suo fratello temesse che Percy recuperasse altri frammenti di
memoria.
— Ehm, comunque Saturno probabilmente se n’è tornato nell’abisso — continuò Nico. — Tutti
abbiamo pensato che la guerra fosse finita. E adesso invece sembra che la sconfitta dei Titani abbia
riscosso Gea. Sta cominciando a svegliarsi. Mi hanno riferito della rinascita di alcuni giganti. Se
intendono di nuovo sfidare gli dei, probabilmente cominceranno distruggendo i semidei…
— L’avete detto a Reyna? — chiese Percy.
— Certo. — Nico tese la mascella. — I Romani non si fidano di me. Ecco perché speravo che
ascoltassero te. I figli di Plutone… be’, senza offesa, ma ci considerano ancora peggio dei figli di
Nettuno. Portiamo sfortuna.
— Ma hanno permesso a Hazel di restare — obiettò Percy.
— È una cosa diversa.
— Perché?
— Percy ascolta, i giganti non sono il problema più grosso — intervenne Hazel. — Nemmeno Gea
è il problema più grosso. La cosa che hai notato sulle gorgoni, il fatto che non morissero mai, è
questa la nostra preoccupazione più grande. — La ragazza lanciò un’occhiata di sbieco al fratello.
Sapeva di starsi avvicinando troppo al proprio segreto ma, per qualche motivo, si fidava di Percy.
Forse perché anche lui era un intruso, forse perché aveva salvato Frank al fiume. Meritava di sapere
che cos’avevano di fronte. — Io e Nico… ecco, pensiamo che quanto sta succedendo… che la Morte
non…
Ma prima che potesse finire, si udì un grido in fondo alla collina.
Frank correva verso di loro, con indosso i jeans, la maglietta viola del campo e un giubbotto di
jeans. Aveva le mani unte del grasso che serviva per pulire le armi.
Come succedeva ogni volta che vedeva Frank, il cuore di Hazel si esibì in un rapido numero di tip
tap, cosa che la irritò alquanto. Sì, certo, era un buon amico – una delle pochissime persone al campo
che non la trattavano come se avesse una malattia contagiosa – però non le piaceva in quel senso.
Frank aveva tre anni più di lei, e non era precisamente il ritratto del Principe Azzurro, con quella
faccia da bambino e il fisico da lottatore di wrestling; somigliava a un cucciolo di koala palestrato. Il
fatto poi che tutti provassero a metterli insieme – «I due sfigati più sfigati del campo! Siete fatti l’uno
per l’altra!» – non faceva che convincerla ulteriormente: Frank non doveva piacerle.
Peccato che il suo cuore non condividesse il programma. Dava di matto ogni volta che lui era nei
paraggi. Non si sentiva così da… be’, da Sammy.
“Piantala!” pensò. “Sei qui per un motivo, e non è quello di trovare un nuovo ragazzo.”
E poi Frank non conosceva il suo segreto. Se lo avesse conosciuto, non sarebbe stato così carino
con lei.
In quell’istante li raggiunse. — Ehi, Nico…
— Frank. — Nico sorrise. Sembrava che gli fosse simpatico, forse perché era l’unico al campo a
non sentirsi a disagio con i figli di Plutone.
— Reyna mi ha mandato a prendere Percy — annunciò Frank. — Ottaviano ti ha accettato?
— Sì — confermò Percy. — Ha sventrato il mio panda.
— Ha sventrato…? Ah, certo, è l’incubo degli orsetti di peluche. Però sei dei nostri! Dobbiamo
darti una ripulita prima dell’adunata di stasera.
Hazel si rese conto che il sole stava tramontando sulle colline. Perché il giorno era passato così in
fretta? — Hai ragione. È meglio che…
— Frank, perché non porti giù Percy? — intervenne Nico. — Io e Hazel arriviamo subito.
“Oh, no!” pensò Hazel, cercando di non mostrarsi nervosa. — Buona… buona idea — riuscì a
farfugliare. — Voi andate avanti, ragazzi. Vi raggiungiamo dopo.
Percy guardò un’ultima volta Nico, come se stesse ancora cercando di mettere a fuoco un ricordo.
— Mi piacerebbe riparlare con te. Non riesco a togliermi la sensazione che…
— Certo — replicò Nico. — Più tardi. Mi fermo a dormire qui.
— Davvero? — si lasciò sfuggire Hazel. I ragazzi del campo ne sarebbero stati felici… il figlio
di Nettuno e il figlio di Plutone che arrivavano lo stesso giorno. Ormai ci mancavano solo i gatti neri
e qualche specchio rotto.
— Va’ pure, Percy — disse Nico. — Sistemati. — Poi si voltò a guardare Hazel, e lei ebbe
l’impressione che la parte peggiore di quella giornata dovesse ancora arrivare. — Io e mia sorella
dobbiamo fare due chiacchiere.
— Tu lo conosci, vero? — chiese Hazel.
Erano seduti sul tetto del tempio di Plutone, che era ricoperto di ossa e di diamanti. Per quanto ne
sapeva lei, le ossa c’erano da sempre. I diamanti invece erano colpa sua. Se restava seduta a lungo in
un posto, o anche solo se le saliva un po’ di ansia, cominciavano a spuntare come funghi. Diversi
milioni di dollari in gemme scintillavano sul tetto, ma per fortuna gli altri ragazzi del campo non li
avrebbero mai toccati. Sapevano bene che non era il caso di derubare un tempio – men che meno se il
tempio era di Plutone – e i fauni non si spingevano mai da quelle parti.
Hazel rabbrividì, ripensando al rischio che aveva corso con Don, quel pomeriggio. C’era mancato
poco. Se non si fosse affrettata a togliere quel diamante dalla strada… Non voleva neanche pensarci.
Non aveva nessun bisogno di avere un’altra morte sulla coscienza.
Nico faceva dondolare i piedi nel vuoto, come un bambino; la spada nera dello Stige giaceva al
suo fianco, accanto alla spatha di Hazel. Scrutava la valle, dove le squadre di costruzione stavano
ancora lavorando al Campo Marzio, erigendo le fortificazioni per i ludi di quella sera. — Percy
Jackson. — Pronunciò quel nome come un incantesimo. — Hazel, devo stare molto attento a quello
che dico. Ci sono cose importanti in ballo. Alcuni segreti devono restare segreti. Tu più di tutti…
dovresti capirlo.
La ragazza si sentì le guance in fiamme. — Ma lui non è come… come me?
— No. Mi dispiace, non posso dirti altro. Non posso interferire. Percy deve trovare da solo la sua
strada.
— È pericoloso?
Nico riuscì a sorridere un poco. — Molto, per i suoi nemici. Ma non è una minaccia per il Campo
Giove. Puoi fidarti di lui.
— Come mi fido di te — replicò Hazel, in tono amaro.
Nico fece girare l’anello con il teschio che portava al dito. Intorno a lui, le ossa sparse sul tetto
vibrarono, come se stessero cercando di formare un nuovo scheletro. Ogni volta che era malinconico,
Nico aveva quell’effetto sui morti, un po’ come la maledizione di Hazel. Insieme rappresentavano le
due sfere d’influenza di Plutone: la morte e le ricchezze della terra. A volte Hazel pensava che la
parte migliore fosse toccata a lui.
— Senti, lo so che è difficile — riprese Nico. — Ma stai avendo una seconda occasione. Puoi
aggiustare le cose.
— Non c’è niente di giusto in questo — replicò Hazel. — Se scoprissero la verità…
— Non la scopriranno — le promise il fratello. — Sta per partire una nuova missione, un’impresa
eroica. E tu mi renderai fiero di te. Fidati, Bi…
Si interruppe, ma Hazel sapeva com’era stato sul punto di chiamarla: Bianca. Come la sua vera
sorella, quella con cui era cresciuto. Nico si prendeva cura di lei, ma lei non sarebbe mai stata
Bianca. Era solo il rimpiazzo migliore che fosse riuscito a ottenere, un premio di consolazione dagli
Inferi.
— Mi dispiace — disse lui.
Hazel si sentì un sapore metallico in bocca, come se delle pepite d’oro le si fossero formate sotto
la lingua. — Allora sono vere le notizie sulla Morte? È colpa di Alcione?
— Credo di sì — rispose Nico. — Le cose si stanno mettendo male, negli Inferi. Papà sta
impazzendo per tenere tutto sotto controllo. Da quanto Percy ha raccontato sulle gorgoni, la situazione
sta peggiorando anche quassù. Ma, vedi, ecco perché sei qui. Tutta quella roba del tuo passato…
puoi trarne qualcosa di buono. Appartieni al Campo Giove.
Quell’affermazione le sembrò così ridicola che Hazel per poco non scoppiò a ridere. Lei non
apparteneva a quel posto. Non apparteneva a quel secolo.
Non avrebbe mai dovuto concentrarsi sul passato, lo sapeva, ma ripensò al giorno in cui la sua
vecchia vita era andata in pezzi. Perse i sensi così all’improvviso che non fece neanche in tempo a
dire: “Ah.” In un attimo era già tornata indietro nel tempo. E non era né un sogno, né una visione. Il
ricordo la invase con una chiarezza tale che fu come essere là.
Il suo ultimo compleanno. Aveva appena compiuto tredici anni. Era il 17 dicembre 1941, l’ultimo
giorno della sua vita a New Orleans.
HAZEL
Hazel stava tornando a casa dalle scuderie, da sola. Nonostante il freddo della sera, si sentiva ancora
bruciare dentro. Sammy le aveva appena dato un bacio su una guancia.
La giornata era stata piena di alti e bassi. I ragazzi a scuola l’avevano presa in giro per via di sua
madre, chiamandola “strega” e in un sacco di altri brutti modi. La cosa andava avanti da tempo,
ovviamente, ma stava peggiorando. La scuola si chiamava “Accademia Sant’Agnese per fanciulli di
colore e indiani”, un nome che non era cambiato da un secolo a quella parte. E, proprio come quel
nome, il posto celava una dose abbondante di crudeltà sotto una sottile parvenza di buon cuore.
Hazel non capiva come fosse possibile che gli altri ragazzi neri fossero tanto cattivi. Dovevano
pur sapere come ci si sentiva, visto che anche loro sopportavano insulti in continuazione. Eppure le
gridavano dietro e le rubavano il pranzo, e la tormentavano con la richiesta di quei famosi gioielli:
“Dove li hai messi quei diamanti maledetti, ragazzina? Dammene un po’ o te le suono!” La
prendevano a spintoni alla fontanella, e le tiravano i sassi se provava ad avvicinarsi in cortile.
Ma, per quanto fossero orribili con lei, Hazel non dava mai a nessuno oro o diamanti. Non odiava
nessuno fino a quel punto. E poi, un amico ce l’aveva – Sammy – e le bastava.
Sammy scherzava sempre, dicendo di sé che era lo studente perfetto per la Sant’Agnese. Era un
americano di origini messicane, perciò si considerava di colore e indiano. «Dovrebbero darmi una
doppia borsa di studio» diceva.
Non era né robusto né forte, ma aveva un bellissimo sorriso e la faceva ridere.
Quel pomeriggio l’aveva portata nelle scuderie dove lavorava come stalliere. Era un centro
ippico “solo per bianchi”, naturalmente, ma era chiuso nei giorni feriali e, con la guerra in corso, si
mormorava che potesse chiudere del tutto i battenti fino alla sconfitta dei giapponesi e al ritorno dei
soldati a casa. Ogni tanto Sammy riusciva a farla entrare di nascosto, e lei lo aiutava a badare ai
cavalli. A volte si facevano anche una cavalcata.
Hazel amava i cavalli. Sembravano le uniche creature viventi a non avere paura di lei. La gente la
odiava. I gatti soffiavano. I cani ringhiavano. Perfino quello stupido criceto nella classe di Miss
Finley squittiva terrorizzato quando lei provava a offrirgli una carota. Ma i cavalli non le badavano.
E, una volta in sella, lei correva così spedita che le gemme non facevano neanche in tempo a spuntare
sulla sua scia. Si sentiva quasi libera dalla maledizione.
Quel pomeriggio aveva montato un magnifico stallone roano con una splendida criniera nera.
Aveva galoppato tanto veloce nei campi da seminare Sammy. Quando lui l’aveva raggiunta, sia lei
sia il cavallo erano ormai senza fiato.
«Da cosa stai scappando?» le aveva chiesto l’amico, ridendo. «Non sono così brutto, vero?»
Faceva troppo freddo per un picnic, ma si erano seduti lo stesso sotto una magnolia, lasciando i
cavalli imbrigliati a uno steccato. Sammy le aveva portato un pasticcino con una candelina di
compleanno, che si era un po’ spiaccicato durante la cavalcata, ma che era pur sempre la cosa più
dolce che Hazel avesse mai assaggiato. Ne avevano mangiato metà per uno.
Sammy le aveva parlato della guerra: avrebbe voluto avere l’età giusta per partire. Chiese a Hazel
se gli avrebbe scritto delle lettere se fosse andato in servizio oltreoceano.
«Ma certo, scemo» aveva risposto lei.
Lui aveva sorriso. Poi, come per un impulso improvviso, si era chinato in avanti e le aveva dato
un bacio sulla guancia. «Buon compleanno, Hazel.»
Non era molto. Solo un bacio, e nemmeno sulle labbra. Ma lei si era sentita fluttuare per aria. Non
ricordava nulla della galoppata di ritorno alle stalle, né di come aveva salutato Sammy. Lui le aveva
detto: «Ci vediamo domani» come al solito. Ma non lo avrebbe rivisto mai più.
Quando Hazel arrivò al Quartiere Francese, stava facendo buio. Avvicinandosi a casa, la
sensazione di calore svanì, rimpiazzata dal terrore.
Con sua madre – Regina Marie, così si faceva chiamare – abitavano in un vecchio appartamento
sopra un jazz club. Nonostante lo scoppio della guerra, c’era un’atmosfera festosa nell’aria. Nuove
reclute giravano per le strade, ridendo e parlando di come avrebbero battuto i giapponesi. Si
facevano tatuare nelle botteghe o facevano proposte di matrimonio alle fidanzate, in mezzo alla
strada. Alcuni salivano a casa di Hazel per comprare amuleti magici o per farsi predire il futuro da
Marie Levesque, la famosa regina gris-gris.
— Hai sentito? — diceva uno. — Un quarto di dollaro per questo portafortuna. L’ho portato da un
tizio che conosco, e mi ha detto che è una vera pepita d’argento. Varrà almeno venti dollari! Quella
donna vudù è pazza!
Per un po’, il passaparola aveva procurato a Regina Marie un bel giro di affari. La maledizione di
Hazel era cominciata lentamente. E all’inizio era sembrata una benedizione. L’oro e le pietre
preziose comparivano solo una volta ogni tanto, e mai in grandi quantità. Regina Marie le usava per
pagare i conti. Cenavano con la bistecca una volta alla settimana. Hazel si fece pure un vestito nuovo.
Ma poi avevano iniziato a diffondersi quelle storie. La gente del posto aveva cominciato a
rendersi conto di tutte le cose terribili che capitavano a chi comprava quegli amuleti o veniva pagato
con il tesoro di Regina Marie. Charlie Gasceaux aveva perso un braccio nella falciatrice mentre
indossava un braccialetto d’oro. Il signor Henry dell’emporio era morto d’infarto dopo che Regina
Marie aveva pagato il conto con un rubino.
La gente sparlava sul conto di Hazel: si diceva che trovasse i gioielli maledetti camminando per
strada. E ormai solo gente di fuori città andava a trovare Regina Marie, e non erano neppure in tanti.
La donna era diventata irascibile, e lanciava alla figlia occhiate risentite.
Hazel salì le scale più piano che poté, nel caso sua madre fosse con un cliente. Nel club al piano
di sotto, la band stava accordando gli strumenti. Il forno accanto aveva cominciato a preparare i
bignè per la mattina dopo, riempiendo le scale con il profumo del burro fuso.
Arrivata in cima, Hazel pensò di sentire due voci nell’appartamento. Ma, quando sbirciò in
salotto, vide sua madre seduta da sola al tavolo delle sedute spiritiche, con gli occhi chiusi, come in
trance.
Hazel glielo aveva visto fare molte volte, quando fingeva di parlare agli spiriti con i clienti, ma
mai quando era da sola. Regina Marie le aveva sempre detto che il suo gris-gris era “una fesseria”.
Non credeva veramente agli amuleti, alla predizione del futuro o ai fantasmi. Era solo un’artista,
come una cantante o un’attrice, che metteva in scena il proprio spettacolo per denaro.
Hazel sapeva che sua madre in realtà credeva a certe magie. La maledizione non era una fesseria.
Solo che Regina Marie non voleva pensare che fosse colpa sua, che fosse stata lei a rendere la figlia
quello che era.
«È stato quel maledetto di tuo padre» brontolava sempre quando era di umore nero. «Ah! Venire
qui tutto elegante, con quel suo vestito nero e d’argento… L’unica volta che evoco davvero uno
spirito, e che ci guadagno? Esaudisce il mio desiderio e mi rovina la vita. Avrei dovuto essere una
vera regina. È colpa sua, se sei venuta così.»
Non le spiegava mai cosa intendesse dire, e Hazel aveva imparato a non fare domande su
quell’argomento: serviva solo a fare arrabbiare di più la madre.
Hazel la guardò borbottare tra sé e sé. Il volto di Regina Marie era calmo e sereno, e la ragazza
rimase colpita da quella bellezza, senza il solito cipiglio scuro e le rughe sulla fronte. Aveva una
folta criniera di capelli castano dorati come quelli di Hazel, e la stessa carnagione scura. Non
indossava le vesti dorate e i braccialetti che si metteva per impressionare i clienti, solo un semplice
abito bianco. Eppure aveva un’aria regale, seduta dritta e con grande dignità sulla sua sedia dorata,
come se fosse davvero una regina.
— Sarai più al sicuro lì — mormorò. — Lontano dagli dei.
Hazel soffocò un grido. La voce che proveniva dalla bocca della madre non era la sua. Sembrava
appartenere a una donna più anziana. Il tono era dolce e suadente, ma anche autorevole, come quello
di un ipnotizzatore quando dà gli ordini al paziente.
Regina Marie si irrigidì. Nella trance, fece una smorfia, poi parlò con la propria voce normale: —
È troppo lontano. Troppo freddo. Troppo pericoloso. Lui mi ha detto di no.
— Lui? Che cos’ha mai fatto lui per te? Ti ha dato una figlia avvelenata! — replicò l’altra voce.
— Ma possiamo usare il suo dono per un buon fine. Possiamo vendicarci degli dei. Sarai sotto la mia
protezione, al Nord, lontano dal dominio degli dei. Mio figlio sarà il tuo protettore. Finalmente
vivrai come una regina.
Regina Marie trasalì. — E Hazel…?
D’un tratto il suo viso si contorse in una smorfia di scherno. Le due voci parlarono all’unisono,
come se avessero trovato un punto di accordo: — Una figlia avvelenata.
Hazel corse giù per le scale, con il cuore che le batteva forte. Arrivata in fondo, andò a sbattere
contro un uomo in completo scuro.
Lui l’afferrò per le spalle. Aveva le dita forti, fredde. — Piano, bambina — disse.
Hazel notò l’anello d’argento con il teschio che aveva al dito, poi lo strano tessuto del completo
scuro. Nella penombra, la stoffa di lana nera sembrava muoversi e sobbollire, formando immagini di
volti in agonia, come se anime perdute stessero cercando di fuggire dalle pieghe dell’abito. La
cravatta era nera, con strisce di platino. La camicia era grigia come una lapide. Il viso…
Hazel sentì il cuore balzarle in gola. La pelle dell’uomo era così bianca da sembrare quasi
azzurra, come latte freddo. I capelli erano neri, schiacciati sul cranio con la brillantina. Il sorriso era
gentile, ma gli occhi erano impetuosi e ardenti di rabbia, carichi di un folle potere. Hazel aveva visto
quello sguardo nei notiziari che passavano al cinema. Quell’uomo somigliava a Adolf Hitler. Non
aveva i baffi, ma per il resto avrebbe potuto essere il suo gemello, o suo padre.
La ragazza cercò di scostarsi ma, neppure quando l’uomo lasciò la presa, sembrò essere capace di
muoversi. Quegli occhi la incollavano a terra.
— Hazel Levesque! — esclamò lo sconosciuto, con voce malinconica. — Sei cresciuta.
Hazel cominciò a tremare. In fondo alle scale, la base di cemento si incrinò sotto i piedi
dell’ospite. Una pietra scintillante spuntò nella fessura, come se la terra avesse sputato un seme di
cocomero.
L’uomo la guardò, per niente sorpreso. Si chinò.
— Non lo faccia! — gridò Hazel. — È maledetta!
L’uomo raccolse la pietra: uno smeraldo perfetto. — Sì, lo è. Ma non per me. È così bella… vale
più dell’intero palazzo, immagino. — Si infilò lo smeraldo in tasca. — Mi dispiace per il tuo
destino, bambina. Immagino che mi odierai.
Hazel non capiva. L’uomo sembrava triste, come se fosse personalmente responsabile della vita
che lei conduceva. Poi la verità la colpì come uno schiaffo: uno spirito vestito di nero e d’argento,
che aveva esaudito il desiderio di sua madre e rovinato la sua vita. Sgranò gli occhi. — Tu sei
mio…?
L’uomo posò la mano sotto il mento della figlia. — Sono Plutone. La vita non è mai facile per i
miei figli, ma tu porti un peso speciale. Ora che hai tredici anni, dobbiamo provvedere…
Lei gli allontanò la mano. — Tu mi hai fatto questo? Hai maledetto me e mia madre? Ci hai
abbandonate? — Le bruciavano gli occhi di lacrime. Quel ricco uomo bianco era suo padre? Ora che
lei aveva tredici anni, si presentava per la prima volta a dire: “Mi dispiace”? — Sei cattivo! —
gridò. — Ci hai rovinato la vita!
Plutone socchiuse gli occhi. — Cosa ti ha raccontato tua madre, Hazel? Non ti ha mai spiegato il
suo desiderio? Non ti ha mai detto perché sei nata con una maledizione?
La ragazza era troppo arrabbiata per parlare, ma Plutone sembrò leggere le risposte sul suo viso.
— No… — Sospirò. — Dovevo immaginarlo. Era molto più facile dare la colpa a me.
— Che vuoi dire?
— Povera bambina, sei nata troppo presto. — Plutone scosse il capo. — Non posso vedere il tuo
futuro con chiarezza, ma un giorno troverai il tuo posto. Un discendente di Nettuno laverà via la tua
maledizione e ti darà la pace. Temo, però, che dovranno passare parecchi anni…
Hazel non riusciva a seguirlo.
Prima che la figlia potesse dire qualcosa, Plutone le porse la mano. Un album da disegno e una
scatola di matite colorate gli comparvero nel palmo. — Mi dicono che ami l’arte e le corse a
cavallo… Questi sono per la tua arte. Quanto al cavallo… — I suoi occhi scintillarono. — A quello,
dovrai pensarci da sola. Ora devo parlare con tua madre. Buon compleanno, Hazel. — Si voltò e salì
le scale, semplicemente, come se avesse appena cancellato Hazel dalla lista delle cose da fare e
l’avesse già dimenticata. Buon compleanno. Vai a disegnare. Ci vediamo fra altri tredici anni.
Hazel era così sbigottita, così arrabbiata, così confusa che rimase lì ai piedi delle scale,
paralizzata. Avrebbe voluto rincorrere Plutone e prenderlo a calci. Avrebbe voluto scappare, trovare
Sammy, rubare un cavallo, lasciare la città e non tornare mai più. Ma non fece nulla di tutto ciò.
Sopra di lei, la porta dell’appartamento si aprì, e Plutone entrò.
Hazel aveva ancora i brividi per il contatto freddo con le sue mani, ma salì le scale in punta di
piedi per vedere che cos’avrebbe fatto il padre. Che cos’avrebbe detto a Regina Marie? Chi gli
avrebbe risposto, sua madre o quella orrenda voce di prima?
Quando raggiunse la soglia, Hazel li sentì litigare. Sbirciò dentro: sua madre sembrava tornata in
sé, strillava e strepitava, scagliando oggetti in giro per il salotto mentre Plutone cercava di farla
ragionare.
— Marie, è una follia — stava dicendo lui. — Ti troveresti in un territorio troppo lontano dal mio
potere, non riuscirei a proteggerti.
— Proteggermi? — ribatté Regina Marie. — E quando mai mi hai protetto?
Il completo scuro di Plutone tremolò, come se le anime intrappolate nel tessuto si stessero
agitando. — Tu non ne hai idea — replicò lui. — Vi ho tenute in vita, tu e la bambina. I miei nemici
sono ovunque, tra gli dei e tra gli uomini. E ora, con la guerra in corso, non farà che peggiorare. Devi
restare dove io posso…
— La polizia crede che io sia un’assassina! — gridò Regina Marie. — I miei clienti vogliono
impiccarmi come una strega! E Hazel… la maledizione sta peggiorando. La tua protezione ci sta
uccidendo.
Plutone allargò le mani in un gesto di supplica. — Marie, ti prego…
— No! — Regina Marie si voltò verso l’armadio, tirò fuori una valigia e la gettò sul tavolo. —
Noi partiamo — annunciò. — Tieniti pure la tua protezione. Noi ce ne andiamo al Nord.
— Marie, è una trappola — l’ammonì Plutone. — Chiunque sia colei che ti bisbiglia all’orecchio,
mettendoti contro di me…
— A questo ci hai già pensato da solo! — Regina Marie raccolse un vaso di porcellana e lo
scagliò contro Plutone. Il vaso si infranse a terra, e le pietre preziose si riversarono dappertutto:
smeraldi, rubini, diamanti… l’intera collezione di Hazel.
— Non ce la farete — disse Plutone. — Se andrete al Nord, morirete entrambe. Lo vedo
chiaramente.
— Vattene! — gridò la donna.
Hazel desiderò che Plutone si fermasse a litigare. Non le piaceva quello di cui parlava sua madre,
qualunque cosa fosse. Ma l’uomo squarciò l’aria con un rapido gesto della mano e si dissolse in
tenebre… come se fosse davvero uno spirito.
Regina Marie chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo. Hazel ebbe paura che quella strana
voce si impadronisse di nuovo di lei. Ma quando parlò, era quella di sempre.
— Hazel, vieni fuori da dietro la porta.
Tremando, la ragazza obbedì. Si strinse l’album da disegno e le matite colorate al petto.
Sua madre la scrutò come se stesse guardando una grande delusione personale. “Una figlia
avvelenata” aveva detto la voce. — Fai la valigia — ordinò. — Ce ne andiamo.
— Dove?
— In Alaska. Cominceremo una nuova vita. Ti renderai utile.
Dal modo in cui sua madre lo disse, sembrò che, se avessero davvero creato una nuova vita,
l’avrebbero fatto per qualcun altro o per qualcos’altro.
— Cosa intendeva dire Plutone? — chiese Hazel. — È davvero mio padre? Ha detto che tu hai
espresso un desiderio…
— Va’ in camera tua! — gridò Regina Marie. — Fai la valigia!
Hazel fuggì di corsa, e d’un tratto qualcosa la strappò dal suo passato.
Nico la stava scuotendo per le spalle. — L’hai fatto di nuovo.
Hazel strizzò le palpebre. Erano ancora seduti sul tetto del tempio di Plutone. Il sole era basso nel
cielo. Altri diamanti erano spuntati intorno a lei, e le bruciavano gli occhi dal pianto.
— Scu… scusa — mormorò.
— Non importa. Dove sei stata?
— Nell’appartamento di mia madre. Il giorno in cui siamo partite.
Nico annuì. Comprendeva quella storia meglio di chiunque altro. Anche lui era un ragazzo degli
anni Quaranta. Era nato solo pochi anni dopo Hazel, ed era rimasto chiuso in un albergo magico per
decenni. Ma il passato di lei era molto peggiore del suo. Aveva causato così tanti danni e
sofferenze…
— Devi lavorare sodo per controllare questi ricordi, Hazel. Se ti capita un blackout del genere
durante un combattimento…
— Lo so — replicò lei. — Ci sto provando.
Nico le strinse forte la mano. — Va tutto bene. Penso che sia l’effetto collaterale di… sì, del
periodo che hai trascorso negli Inferi. Speriamo che diventi più facile.
Hazel non ne era tanto sicura. Dopo nove mesi, quelle improvvise perdite dei sensi non
sembravano fare altro che peggiorare, come se la sua anima stesse cercando di vivere allo stesso
tempo in due epoche diverse. Nessuno era mai tornato dai morti prima, o almeno non nel modo in cui
era tornata lei. Nico stava cercando di rassicurarla, ma nessuno di loro sapeva cosa sarebbe
successo.
— Non posso tornare al Nord — disse Hazel. — Nico… dovrei tornare dove è successo…
— Te la caverai — promise lui. — Questa volta avrai degli amici. Percy Jackson… ha un ruolo in
tutto questo. Lo percepisci anche tu, vero? È una bella persona da avere al proprio fianco.
Hazel ripensò a quello che Plutone le aveva detto tanto tempo prima: «Un discendente di Nettuno
laverà via la tua maledizione e ti darà la pace.»
Possibile che si trattasse di Percy? Forse, ma lei aveva la sensazione che non sarebbe stato così
facile. Non era nemmeno sicura che Percy riuscisse a sopravvivere a quello che li attendeva su al
Nord.
— Da dove viene? — chiese. — Perché i fantasmi lo chiamano “il greco”?
Prima che Nico potesse rispondere, si udirono dei corni suonare oltre il fiume. I legionari si
stavano raccogliendo per l’adunata della sera.
— È meglio che scendiamo — disse il ragazzo. — Ho la sensazione che stasera i ludi di guerra
saranno interessanti.
HAZEL
Sulla via del ritorno, Hazel inciampò in un lingotto d’oro.
Non avrebbe dovuto correre così forte, lo sapeva, ma aveva paura di arrivare tardi all’adunata. La
Quinta Coorte aveva i centurioni più indulgenti del campo, ma perfino loro l’avrebbero punita per il
ritardo. Le punizioni romane erano severe: strofinare le strade con lo spazzolino da denti, pulire i
recinti dei tori all’anfiteatro, essere chiusi dentro un sacco pieno di furetti inferociti e gettati nel
Piccolo Tevere: le scelte non erano delle migliori.
Il lingotto spuntò dal terreno giusto in tempo per farla inciampare. Nico cercò di afferrarla, ma
Hazel cadde lo stesso e si graffiò le mani.
— Stai bene? — Il fratello le si inginocchiò accanto e fece per raccogliere il lingotto.
— No!
Nico si fermò. — Giusto. È solo che… Santi numi, questo coso è enorme! — Si sfilò una
fiaschetta di nettare dal giubbotto da aviatore e ne versò un poco sulle mani di Hazel. Le ferite
cominciarono subito a rimarginarsi. — Riesci ad alzarti? — E l’aiutò a rimettersi in piedi.
Fissarono entrambi l’oro. Era grande quanto una pagnotta, con tanto di numeri di serie e di sigla:
MINISTERO DEL TESORO.
Nico scosse la testa. — Per tutti gli Inferi, com’è possibile?
— Non lo so — rispose Hazel, affranta. — Forse è il bottino sepolto di qualche rapinatore,
oppure è caduto da una diligenza di chissà quanti anni fa. Magari è migrato qui dalla banca più
vicina. Qualunque cosa ci sia nel terreno, con me nei paraggi… spunta fuori. E più è preziosa…
— … più è pericolosa. — Nico aggrottò la fronte. — Forse dovremmo coprirlo? Se lo trovano i
fauni…
Hazel immaginò un’esplosione atomica in mezzo alla strada, i fauni carbonizzati sparsi in tutte le
direzioni. Un pensiero terribile. — Dovrebbe seppellirsi da solo dopo che me ne sono andata, ma per
sicurezza… — Aveva già usato quel trucco, però mai con qualcosa di così denso e pesante. Indicò il
lingotto e cercò di concentrarsi.
L’oro si sollevò da terra. Hazel chiamò a raccolta tutta la propria rabbia, cosa che non fu difficile:
odiava quell’oro, odiava la maledizione, odiava pensare al proprio passato e a tutti i fallimenti. Si
sentì formicolare le dita. Il lingotto d’oro brillò di calore.
Nico deglutì. — Ehm… Hazel, sei sicura che…?
Lei serrò un pugno. L’oro si piegò come cera. Hazel lo costrinse a plasmarsi in un gigantesco
anello bitorzoluto; poi fece il gesto di scagliare qualcosa a terra. E la sua ciambella da un milione di
dollari cadde e affondò giù, lasciandosi dietro soltanto una cicatrice di terriccio smosso.
Nico sgranò gli occhi. — È stato… fantastico!
Hazel non pensava che fosse un granché in confronto ai poteri del fratello, che rianimava gli
scheletri e riportava indietro la gente dal regno dei morti, ma fu contenta di essere stata lei a
sorprenderlo, per una volta.
All’interno del campo, i corni suonarono di nuovo.
Le coorti avrebbero iniziato l’appello, e Hazel non aveva nessuna voglia di farsi chiudere in un
sacco pieno di furetti. — Presto! — disse a Nico, e si affrettarono a raggiungere gli altri.
La prima volta che Hazel aveva visto l’intera legione radunarsi ne era stata così intimidita che per
poco non se l’era filata a nascondersi negli alloggi. Perfino in quel momento, però, dopo nove mesi
al campo, la trovava ancora una vista impressionante.
Le prime quattro coorti, di quaranta ragazzi ciascuna, erano disposte in fila di fronte ai propri
alloggi ai lati della Via Praetoria. La Quinta Coorte si assemblava invece in fondo alla via, davanti
ai Principia, dal momento che i loro quartieri si trovavano nell’angolo più remoto del campo, vicino
alle stalle e alle latrine. Hazel dovette correre in mezzo alla legione per raggiungere il proprio posto.
Tutti i ragazzi erano vestiti per la guerra. Le armature – cotte in maglia di ferro e lucidi schinieri –
scintillavano sopra le magliette viola e i jeans. Spade e teschi sbalzati nel metallo decoravano gli
elmi. Perfino gli anfibi di cuoio sembravano feroci, con i loro rinforzi di ferro, ottimi per marciare
nel fango e calpestare la faccia del nemico.
Davanti ai legionari, come una fila di tessere del domino in formato gigante, c’erano gli scudi
rossi e dorati, grandi come porte di frigorifero. Ogni legionario era armato con un pilum – ovvero
una lancia simile a un arpione – un gladius, un pugnale e parecchi altri chili di equipaggiamento.
Perciò, se quando ti arruolavi non eri in gran forma, ti rimettevi in sesto alla svelta. Già solo
andarsene in giro con l’armatura era un duro allenamento.
Hazel e Nico corsero lungo la strada mentre tutti si stavano mettendo sull’attenti, perciò il loro
ingresso diede molto nell’occhio. I passi dei due ragazzi riecheggiarono sul lastrico. Hazel cercò di
evitare tutti gli sguardi, ma intravide Ottaviano alla testa della Prima Coorte guardarla con una
smorfia di disprezzo, dandosi un mucchio di arie con il suo elmo piumato da centurione e una dozzina
di medaglie appuntate al petto.
Hazel era ancora furiosa per le minacce di qualche ora prima. Stupido augure, lui e il suo dono
della profezia… con tutta la gente del campo che poteva scoprire il suo segreto, proprio lui doveva
toccarle? Era certa che lo avrebbe già svelato a tutti da settimane, se non avesse capito che i suoi
segreti gli erano più utili come arma di ricatto. Avrebbe dovuto tenersi quel lingotto d’oro, si disse
Hazel, così glielo avrebbe tirato in faccia.
Oltrepassò Reyna, che trottava avanti e indietro in groppa a Scipione detto Skippy, il suo pegaso
dorato come burro di arachidi. I levrieri di metallo, Aurum e Argentum, le stavano al fianco. Il suo
mantello da ufficiale si gonfiava al vento. — Hazel Levesque, felice che tu riesca a unirti a noi! —
esclamò Reyna.
Hazel sapeva che non era il caso di rispondere. Non aveva neanche indossato l’armatura, ma
corse a occupare il proprio posto nella fila, accanto a Frank, e si mise sull’attenti. Il centurione della
loro coorte, un robusto diciassettenne di nome Dakota, stava proprio chiamando il suo nome: l’ultimo
dell’appello.
— Presente! — squittì Hazel. “Grazie agli dei!” Tecnicamente, non era in ritardo.
Nico invece raggiunse Percy Jackson, che se ne stava in disparte insieme a un paio di guardie.
Aveva i capelli umidi per via delle terme e si era cambiato, ma sembrava ancora in imbarazzo. Hazel
non poteva dargli torto. Stava per essere presentato a duecento ragazzi armati fino ai denti.
I Lari furono gli ultimi a schierarsi. Le loro sagome violacee scintillavano mentre si
destreggiavano tra le righe. Avevano l’irritante abitudine di ficcarsi per metà dentro i vivi, così che
le fila sembravano una fotografia sfocata, ma alla fine i centurioni riuscirono a sistemarli.
Ottaviano gridò: — Le insegne!
I vessilliferi si fecero avanti. Come mantello indossavano pelli di leone, e sostenevano le insegne
con gli emblemi delle cinque coorti. L’ultimo a presentare l’insegna fu Jacob, il vessillifero
incaricato di portare l’aquila simbolo della legione. Reggeva una lunga asta, in cima alla quale però
non compariva un bel nulla. L’incarico avrebbe dovuto essere un grande onore, ma Jacob
chiaramente lo detestava. Anche se Reyna insisteva a portare avanti la tradizione, ogni volta che
l’asta priva dell’aquila veniva alzata, Hazel percepiva l’imbarazzo che serpeggiava nella legione.
Reyna fermò il pegaso. — Romani! — annunciò. — Probabilmente avete saputo dell’incursione di
oggi. Due gorgoni sono state scagliate nel fiume da questo nuovo arrivato, Percy Jackson. Giunone in
persona l’ha guidato qui, e lo ha proclamato figlio di Nettuno.
I ragazzi delle file posteriori allungarono il collo per vedere Percy.
Lui alzò la mano e disse: — Ciao!
— Vuole entrare nella legione — continuò Reyna. — Che cosa dicono gli auguri?
— Ho letto le interiora — annunciò Ottaviano, come se avesse ucciso un leone a mani nude
anziché squarciare un cuscino-panda di peluche. — Gli auguri sono favorevoli. È qualificato per il
servizio!
I ragazzi diedero un solo grido: — Ave!
Frank arrivò un po’ in ritardo, e il suo saluto suonò come un’eco un po’ stridula. Gli altri legionari
levarono un verso di scherno.
Reyna fece cenno agli ufficiali anziani di avanzare, uno per ogni coorte.
Ottaviano, in qualità di centurione più anziano, si rivolse a Percy: — Recluta, hai delle
credenziali? Lettere di raccomandazione?
Hazel ricordò di essersi trovata in quella situazione al proprio arrivo. Un sacco di ragazzi
portavano lettere di semidei più grandi che abitavano nel mondo esterno, adulti che erano veterani
del campo. Alcune reclute avevano sponsor ricchi e famosi. Altre erano Romani di terza o quarta
generazione. Una buona lettera poteva significare un posto nelle coorti migliori, a volte perfino un
incarico speciale come messaggero del campo, un compito che esentava dai lavori più duri, come
scavare trincee o coniugare verbi latini.
Percy si agitò un poco, imbarazzato. — Lettere? Ehm… no.
Ottaviano arricciò il naso.
“Non è giusto!” avrebbe voluto gridare Hazel. Percy aveva portato in braccio una dea fino al
campo. Quale migliore raccomandazione di quella?
Ma la famiglia di Ottaviano mandava i suoi figli al campo da oltre un secolo. E lui adorava
rammentare alle reclute che erano meno importanti di lui. — Nessuna lettera! — esclamò infatti,
simulando un tono rammaricato. — Qualche legionario desidera appoggiare la sua candidatura?
— Io! — Frank fece un passo avanti. — Mi ha salvato la vita!
Grida di protesta si levarono dalle altre coorti.
Reyna le mise a tacere sollevando una mano e scoccò un’occhiataccia a Frank. — Frank Zhang,
per la seconda volta quest’oggi ti rammento che sei in probatio. Il tuo genitore divino non ti ha
ancora riconosciuto. Non hai il diritto di garantire per nessuno finché non ti sarai guadagnato la tua
prima cicatrice.
Frank avrebbe voluto morire per l’imbarazzo.
Hazel non poteva non accorrere in suo aiuto. Uscì dalla fila e disse: — Quello che Frank
intendeva dire è che Percy ci ha salvato la vita oggi. Io sono un membro a pieno titolo di questa
legione e appoggio la candidatura di Percy Jackson.
Frank la guardò con gratitudine, ma gli altri ragazzi cominciarono subito a mormorare. Il diritto di
Hazel era discutibile: aveva la sua prima cicatrice solo da poche settimane, e l’atto di valore con cui
se l’era meritata era stato in buona parte frutto del caso. E poi era figlia di Plutone, oltre che una
componente della sventurata Quinta Coorte. Non faceva a Percy un gran favore garantendo per lui.
Reyna arricciò il naso, ma si voltò verso Ottaviano.
L’augure sorrise e alzò le spalle, come se l’idea lo divertisse.
“Perché no?” pensò Hazel. Se Percy fosse stato messo nella Quinta sarebbe stato visto come una
minaccia minore, e a Ottaviano piaceva tenere tutti i suoi nemici in un posto solo.
— Molto bene — annunciò Reyna. — Hazel Levesque, hai il permesso di garantire per la recluta.
La tua coorte lo accetta?
Le altre coorti si misero a tossicchiare, sforzandosi di non ridere.
Hazel sapeva cosa stavano pensando: “Un altro sfigato per la Quinta.”
Frank cominciò a battere con il bordo dello scudo a terra. Gli altri membri della Quinta Coorte lo
imitarono, anche se con scarso entusiasmo. I due centurioni, Dakota e Gwen, si scambiarono uno
sguardo sofferente, della serie: “Ci risiamo.”
— La mia coorte ha parlato — annunciò Dakota. — Accettiamo la recluta.
Reyna guardò Percy con commiserazione. — Congratulazioni, Percy Jackson. Da questo momento
in poi sei in probatio. Ti verrà consegnata una piastrina con il tuo nome e l’indicazione della coorte.
Tra un anno, o non appena avrai compiuto un atto di valore, diventerai un membro a pieno titolo della
Dodicesima Legione Fulminata. Servi Roma, obbedisci alle regole della legione e difendi il campo
con onore. Senatus Populusque Romanus!
Il resto della legione esultò.
Reyna si allontanò da Percy in groppa al pegaso, come se fosse contenta di aver concluso quella
faccenda. Skippy spiegò le magnifiche ali.
Hazel non riuscì a trattenere una punta di invidia. Avrebbe dato qualsiasi cosa per un cavallo
come quello, ma era impossibile. I cavalli erano solo per gli ufficiali, o per la cavalleria barbara,
non per i legionari romani.
— Centurioni, voi e le vostre truppe avete un’ora per la cena — dispose Reyna. — Poi ci
incontreremo al Campo Marzio. La Prima e la Seconda Coorte saranno in difesa. La Terza, la Quarta
e la Quinta attaccheranno. Buona fortuna!
Le grida di esultanza furono ancora più forti alla prospettiva dei ludi, e della cena. Le coorti
ruppero i ranghi e corsero alla mensa.
Hazel fece un cenno a Percy, che avanzò nella confusione generale con Nico al fianco.
Con grande sorpresa della ragazza, Nico la guardò raggiante. — Ottimo lavoro, sorellina —
commentò. — C’è voluto del fegato, a farsi avanti per lui.
Non l’aveva mai chiamata “sorellina” prima di allora. Hazel si chiese se chiamasse anche Bianca
in quel modo.
Una delle guardie aveva consegnato a Percy la piastrina di legionario in probatio, e lui se l’era
infilata nella collana, insieme a quelle strane perline di terracotta. — Grazie, Hazel — disse. —
Ma… che vuol dire esattamente?
— Significa che garantisco io per il tuo comportamento — spiegò lei. — Ti insegnerò le regole,
risponderò alle tue domande, farò in modo che non disonori la legione.
— E… se facessi qualcosa di sbagliato?
— Allora mi faranno fuori insieme a te — rispose lei. — Non avete fame? Andiamo a cena.
HAZEL
Almeno il cibo del campo era buono. Spiriti del vento invisibili – le aurae – servivano ai tavoli e
sembravano conoscere esattamente i gusti di ognuno. Erano così rapidi a trasportare vassoi e coppe,
che la mensa somigliava a un uragano di delizie. Se ti alzavi troppo in fretta, rischiavi di finire
stufato insieme ai fagioli o arrostito con il pollo.
Hazel si fece portare il gumbo, la zuppa di gamberi tipica di New Orleans, il suo piatto preferito.
Ogni volta che lo mangiava, ripensava a quando era piccola, prima che la maledizione prendesse
piede e sua madre diventasse una donna tanto astiosa.
Percy scelse un cheeseburger e una strana bibita di colore azzurro vivo. Hazel non capiva, ma
Percy l’assaggiò e sorrise. — Questa roba mi fa stare bene — disse. — Non so perché… ma è così.
Solo per un attimo, una delle aurae divenne visibile: una ragazzina con l’aria da folletto, vestita
con un abito di seta bianca. Ridacchiò riempiendo il bicchiere di Percy fino all’orlo e scomparve in
un soffio.
La mensa sembrava particolarmente chiassosa quella sera. Le risate riecheggiavano di muro in
muro. I vessilli di guerra appesi alle travi di cedro del soffitto frusciavano per l’andirivieni delle
aurae, occupate a riempire i piatti di tutti. I ragazzi cenavano in stile romano, seduti comodamente su
divanetti disposti intorno a tavolini bassi. Tutti si alzavano in continuazione, scambiandosi di posto,
chiacchierando e facendo pettegolezzi sugli amori del campo.
Come sempre, la Quinta Coorte si era sistemata in fondo alla mensa, accanto alla cucina. Il tavolo
di Hazel era sempre il meno affollato. Quella sera c’erano lei e Frank, come al solito, con Percy e
Nico e il centurione Dakota, che si era seduto con loro, intuì Hazel, per l’obbligo di accogliere la
nuova recluta.
Dakota se ne stava appoggiato cupamente sul proprio divanetto aggiungendo zucchero alla bibita,
per far scoppiettare di più le bolle. Era un tipo tozzo e massiccio, con i capelli ricci e neri e gli occhi
non propriamente dritti, perciò Hazel aveva l’impressione che il mondo pendesse ogni volta che lo
guardava. Non era un buon segno che bevesse tanto già all’inizio della serata. — Allora… — Dakota
ruttò facendo barcollare il calice. — Benvenuto, Pippo. Cioè, Percy. — Si accigliò. — Percy,
Pippo… Fa lo stesso.
— Ehm… grazie — replicò lui, ma la sua attenzione era concentrata su Nico. — Mi chiedevo…
non è che possiamo parlare del… del fatto che ho l’impressione di averti già visto?
— Certo — rispose Nico, un po’ troppo in fretta. — Ma la questione è che io passo la maggior
parte del tempo negli Inferi. Perciò a meno che tu non sia stato da quelle parti…
Dakota ruttò di nuovo. — Ambasciatore di Plutone, così lo chiamano. Reyna non sa mai come
comportarsi con lui quando capita da queste parti. Avresti dovuto vedere la sua faccia quando si è
presentato con Hazel e le ha chiesto di accettarla al campo. Ehm… senza offesa.
— Figurati. — Nico sembrava sollevato di cambiare argomento. — Dakota ci ha aiutato,
garantendo per Hazel.
Il centurione arrossì. — Oh, be’, sì… Sembrava una brava ragazza. E avevo ragione, no? Il mese
scorso mi ha salvato da… ehm… lo sapete.
— Oh, cavolo! — Frank alzò la testa dal suo piatto di pesce con le patatine. — Percy, avresti
dovuto vederla! È così che Hazel ha avuto la sua prima cicatrice. Gli unicorni erano impazziti…
— Non è stato niente di che — si schermì Hazel.
— Niente di che? — protestò Frank. — Dakota ha rischiato di finire sotto i loro zoccoli! E tu ti
sei piazzata di fronte a loro, li hai allontanati e gli hai salvato la pelle. Non avevo mai visto niente
del genere.
Hazel si morse il labbro. Non le piaceva parlarne, e il fatto che Frank la dipingesse come
un’eroina la metteva in imbarazzo. In realtà, aveva avuto soprattutto paura che gli unicorni presi dal
panico si facessero del male. I loro corni erano fatti di metalli preziosi – argento e oro – perciò le
era bastato concentrarsi per dirottarli e ricondurli alle stalle. Il gesto le era valso un posto a pieno
titolo nella legione, ma aveva anche dato il via alle voci sui suoi strani poteri, voci che le
ricordavano i brutti tempi andati.
Percy la scrutò con attenzione; i suoi occhi verde mare la misero un po’ a disagio. — Tu e Nico
siete cresciuti insieme? — le chiese.
— No — rispose Nico. — Ho scoperto che Hazel era mia sorella soltanto da poco. Lei è di New
Orleans.
Era vero, naturalmente. Ma non era tutta la verità. Nico lasciava credere alla gente di averla
incontrata per caso nella moderna New Orleans e di averla condotta al campo. Era più facile che
raccontare la storia vera.
Hazel aveva cercato di passare per una ragazza moderna. Non era facile ma, grazie al cielo, i
semidei non usavano molta tecnologia al campo. I loro poteri tendevano a mandare in tilt gli
apparecchi elettronici. Tuttavia la prima volta che era andata in licenza a Berkeley, per poco non le
era venuto un colpo. Televisioni, computer, lettori MP3, Internet… Era stata felice di tornare nel
mondo dei fantasmi, degli unicorni e degli dei. Sembravano molto meno immaginari di tutte le
diavolerie del Ventunesimo secolo.
Nico stava ancora parlando dei figli di Plutone. — Non siamo in molti. Perciò dobbiamo restare
uniti. Quando ho trovato Hazel…
— Hai altre sorelle? — domandò Percy, come se conoscesse già la risposta.
Hazel si chiese di nuovo dove si fossero incontrati, e cosa suo fratello le stesse nascondendo.
— Una, ma è morta — ammise Nico. — Mi è capitato di vedere il suo spirito negli Inferi, ma
l’ultima volta che ci sono stato…
“Per riportarla indietro” pensò Hazel, anche se Nico non lo disse.
— Era sparita. — La voce di Nico si fece roca. — Si trovava nell’Elisio – il paradiso degli
Inferi, per così dire – ma ha scelto di rinascere. Perciò non la rivedrò mai più. Sono stato fortunato a
trovare Hazel… a New Orleans, certo.
Dakota sbuffò. — Sempre che tu non creda a quello che si dice in giro. Non che io ci creda,
naturalmente.
— Che si dice in giro? — domandò Percy.
Dall’altra parte della stanza, Don il fauno gridò: — Hazel!
Hazel non era mai stata così felice di vedere un fauno in vita sua. Don non aveva il permesso di
entrare al campo, ma riusciva sempre a sgattaiolare dentro, e in quel momento si stava facendo largo
in mezzo ai tavoli diretto verso di loro. Sorrideva a tutti, sgraffignava il cibo dai vassoi e ogni tanto
indicava qualcuno ed esclamava: — Ehi, bello! Chiamami!
Poi una pizza volante lo colpì in piena testa, e lui scomparve dietro un divano. Saltò su un attimo
dopo, ancora sorridente, e finalmente li raggiunse.
— La mia ragazza preferita! — Don puzzava di capra bagnata avvolta in una fetta di formaggio
ammuffito. Si sporse sopra i divani, per scrutare quello che mangiavano. — Di’ un po’, ragazzo
nuovo, lo mangi quello?
Percy aggrottò la fronte. — Ma i fauni non sono vegetariani?
— Non mi riferivo al cheeseburger, amico! Parlavo del piatto! — Don annusò i capelli di Percy.
— Ehi… cos’è questa puzza?
— Don! — lo rimproverò Hazel. — Non essere maleducato.
— No, amico, volevo solo dire che…
In quel preciso istante Vitellio comparve con uno scintillio, restando mezzo piantato nel divano di
Frank. — Un fauno alla mensa! Ma dove siamo arrivati? Centurione Dakota, fai il tuo dovere!
— È quello che sto facendo — brontolò l’altro, col naso nel calice. — Sto cenando!
Don stava ancora fiutando Percy. — Amico, tu hai un legame empatico con un fauno.
Percy si scansò. — Ho un che?
— Un legame empatico! È molto debole, come se qualcuno lo avesse soppresso, ma…
— Ho un’idea! — Nico saltò su all’improvviso. — Hazel, perché tu e Frank non aiutate Percy a
orientarsi? Io e Dakota possiamo fare un salto al tavolo del pretore. Don e Vitellio, venite con noi.
Possiamo parlare delle strategie per i ludi.
— Strategie di sconfitta? — borbottò Dakota.
— Il Mezzo Morto ha ragione! — esclamò Vitellio. — La legione combatte peggio di quando
eravamo in Giudea, e quella è stata la prima volta in cui abbiamo perso la nostra aquila. Ah, se
comandassi io…
— Non posso nemmeno fermarmi per un boccone d’argenteria? — protestò Don.
— Andiamo! — Nico si alzò e afferrò Don e Vitellio per le orecchie. Era l’unico in grado di
toccare i Lari.
Vitellio ribollì di indignazione mentre veniva trascinato al tavolo del pretore.
— Ahi! — protestò Don. — Amico, attento!
— Andiamo, Dakota — chiamò Nico.
Il centurione si alzò con riluttanza. Si asciugò la bocca, inutilmente, dato che restava sempre
macchiata di rosso. — Torno subito. — Si scrollò come un cane bagnato. Poi si allontanò
barcollando, con il calice ancora pieno.
— Che succede? — domandò Percy. — Che problema ha?
Frank sospirò. — È figlio di Bacco, il dio del vino. Beve un po’ troppo.
Percy sgranò gli occhi. — Gli lasciate bere del vino?
— Santi numi, no! — esclamò Hazel. — Sarebbe un disastro. La sua è una dipendenza da Super
Fresh. Una bibita energetica che contiene una tripla dose di zucchero, e considerato che è già
iperattivo… prima o poi esploderà.
Percy allungò lo sguardo verso il tavolo del pretore. Quasi tutti gli ufficiali anziani erano assorti
in una conversazione con Reyna. Nico e i suoi due prigionieri, Don e Vitellio, se ne stavano un po’ in
disparte. Dakota correva su e giù lungo una fila di scudi, percuotendoli con il calice come se fossero
uno xilofono.
— Iperattivo — commentò Percy. — Non mi dire…
Hazel cercò di non ridere. — Be’… quasi tutti i semidei lo sono. Oppure sono dislessici. Il fatto
di essere semidei implica che il nostro cervello è fatto in modo diverso. Anche tu… hai detto che hai
dei problemi a leggere.
— E voi, ragazzi? — chiese Percy.
— Io non lo so — ammise Hazel. — Forse. Ai miei tempi, quelli come noi li chiamavano soltanto
“pigri”.
Percy aggrottò la fronte. — Ai tuoi tempi?
Hazel si maledisse.
Per sua fortuna, intervenne Frank: — Magari io fossi iperattivo o dislessico. E invece ho solo
un’intolleranza al lattosio.
Percy sorrise. — Davvero?
Frank scrollò le spalle. — E adoro il gelato…
Forse era il semidio più scemo di sempre, ma Hazel lo trovava molto carino quando faceva il
broncio. Percy rise. E Hazel fece altrettanto; le piaceva starsene lì a cena e sentirsi davvero tra
amici.
— Va bene, allora ditemi: cosa c’è di tanto brutto nella Quinta Coorte? — continuò Percy. — Voi
siete fantastici.
Il complimento fece arrossire Hazel. — È… complicato. Oltre a essere figlia di Plutone, io voglio
andare a cavallo.
— È per questo che usi una spada da cavalleria?
Lei annuì. — È una cosa stupida, immagino. Un puro desiderio. C’è un solo pegaso al campo, e
appartiene a Reyna. Gli unicorni sono allevati soltanto a scopi medici, perché i trucioli dei loro corni
sono un antidoto ai veleni. Comunque, i Romani combattono sempre a piedi. La cavalleria… è un po’
snobbata. Perciò snobbano anche me.
— Peggio per loro — commentò Percy. — E tu, Frank?
— Tiro con l’arco — mormorò lui. — Neanche l’arco è molto popolare, a meno che tu non sia un
figlio di Apollo. Allora hai una scusa. Io spero che mio padre sia Apollo, ma non lo so. Non me la
cavo molto bene con la poesia. E non sono tanto sicuro di volere una parentela con Ottaviano.
— Come darti torto — replicò Percy. — Ma sei bravissimo con l’arco… La lezione che hai dato
a quelle gorgoni? Fantastica! Fregatene di quello che dicono gli altri.
La faccia di Frank divenne rossa come la bibita di Dakota. — Magari ci riuscissi. Pensano tutti
che dovrei combattere con la spada perché sono così grosso. — Abbassò gli occhi e si guardò, come
se non riuscisse a credere che quel corpo fosse il suo. — Dicono che sono troppo robusto per fare
l’arciere. Forse se mio padre mi riconoscesse…
Rimasero seduti in silenzio per qualche minuto. Un padre che non si decide a riconoscerti… Hazel
sapeva come ci si sentiva. E intuì che anche Percy riusciva a comprenderlo.
— Volevi sapere della Quinta — disse lei infine. — Il motivo per cui è la coorte peggiore. A dire
il vero, la cosa ha avuto inizio molto tempo prima di noi. — Indicò la parete in fondo alla stanza,
dov’erano disposte le insegne della legione. — Vedi quell’asta vuota nel mezzo?
Percy annuì. — L’aquila.
Hazel era stupita. — Come lo sai?
Percy fece spallucce. — Vitellio stava parlando di come la legione abbia perso la sua aquila
molto tempo fa… la prima volta, ha detto. Ne parlava come se fosse una grande disgrazia. Perciò ho
tirato a indovinare. E dal modo in cui Reyna stava parlando poco fa, immagino che la vostra aquila
sia andata persa una seconda volta, in tempi più recenti… e che ci sia di mezzo la Quinta Coorte.
Hazel prese mentalmente nota di non sottovalutare più Percy. All’inizio, dalle domande che
faceva, lei aveva creduto che fosse un po’ imbranato – quella battuta sulla lotteria alla Festa della
Fortuna… – ma chiaramente era più sveglio di quanto desse a vedere. — Hai ragione — confermò.
— È successo proprio così.
— Ma che cos’è quest’aquila, allora? Perché è tanto importante?
Frank si guardò intorno per assicurarsi che nessuno li stesse ascoltando. — È il simbolo del
campo, una grande aquila d’oro. Dovrebbe proteggerci in battaglia e spaventare i nostri nemici.
L’aquila conferisce alla sua legione ogni genere di potere, e la nostra è un dono dello stesso Giove.
Pare che Giulio Cesare in persona abbia soprannominato la nostra regione “Fulminata”, armata di
fulmini, proprio per via di ciò che l’aquila è in grado di fare.
— Non mi piacciono i fulmini — commentò Percy.
— Be’, non è che l’aquila ci rendesse invincibili — aggiunse Hazel. — La Dodicesima Legione la
perse già una volta nell’antichità, durante la prima guerra giudaica.
— Credo di avere visto il film… — disse Percy.
Hazel alzò le spalle. — Può darsi. Ci sono stati un sacco di libri e di film sulla storia di legioni
che perdono la propria aquila. Purtroppo è successo parecchie volte. L’aquila è così importante
che… be’, gli archeologi non ne hanno mai rinvenuta una. Ogni legione la difendeva fino all’ultimo
uomo, perché aveva in sé il potere degli dei. Preferivano nasconderla o addirittura fonderla pur di
non cederla al nemico. La Dodicesima Legione è stata fortunata, la prima volta. Recuperò la sua
aquila. Ma la seconda volta…
— Voi c’eravate? — domandò Percy.
Scossero entrambi la testa.
— Io sono nuovo quasi quanto te. — Frank si picchiettò con un dito la piastrina della probatio. —
Sono arrivato soltanto il mese scorso. Ma tutti conoscono la storia. Porta sfortuna perfino parlarne.
C’è stata questa grande spedizione in Alaska, negli anni Ottanta…
— Quella profezia che hai notato nel tempio… — continuò Hazel. — Sai, quella dei sette semidei
alle Porte della Morte? Il pretore anziano all’epoca era Michael Varus, della Quinta Coorte. Allora
la Quinta era la migliore del campo. Varus pensò che se fosse riuscito a comprendere la profezia e a
farla avverare – salvando il mondo dal fuoco e dalla tempesta – avrebbe portato gloria al campo.
Parlò con l’augure, e l’augure disse che la risposta era in Alaska. Ma avvertì Michael che non era
ancora giunta l’ora. La profezia non era per lui.
— Ma lui partì lo stesso — intuì Percy. — Che successe?
Frank abbassò la voce. — È una storia lunga e dolorosa. La Quinta Coorte fu quasi spazzata via
per intero. La maggior parte delle armi d’oro imperiale andarono perdute, insieme all’aquila. I
sopravvissuti impazzirono o si rifiutarono di raccontare che cosa li aveva attaccati.
“Io però lo so” pensò Hazel cupa. Ma non disse nulla.
— Da quando l’aquila è andata perduta, il campo si è indebolito — continuò Frank. — Le
missioni sono più pericolose. I mostri attaccano i nostri confini più spesso. Il morale è basso. Nel
giro dell’ultimo mese, le cose hanno cominciato a peggiorare ulteriormente, e più in fretta.
— E tutti incolpano la Quinta Coorte — intuì Percy. — E pensano che noi siamo maledetti.
Hazel si accorse che il gumbo era freddo. Ne sorbì un cucchiaio, ma neanche la zuppa di gamberi
le fu di molta consolazione. — Siamo i reietti della legione da… be’, dal disastro in Alaska. La
nostra reputazione era migliorata quando Jason è diventato pretore…
— Il ragazzo scomparso? — chiese Percy.
— Sì — confermò Frank. — Io non l’ho mai conosciuto. Non ho fatto in tempo. Ma ho sentito dire
che era un bravo leader, praticamente cresciuto nella Quinta Coorte. Non gli importava di cosa la
gente pensasse di noi. Aveva cominciato a ricostruire la nostra reputazione. Poi è scomparso.
— E noi dobbiamo ripartire da zero — commentò Hazel, in tono amaro. — La sua scomparsa non
ha fatto che confermare l’idea della maledizione. Mi dispiace, Percy. Ora sai in che guaio ti sei
cacciato.
Percy sorseggiò la bibita azzurra e scrutò la mensa, assorto. — Non so nemmeno da dove vengo…
ma ho la sensazione che non sia la prima volta che mi ritrovo a essere lo sfigato di turno. — Guardò
Hazel negli occhi e sorrise. — E poi fare parte della legione è molto meglio che scappare dai mostri
nel bel mezzo del nulla. Ho trovato dei nuovi amici. Forse insieme possiamo cambiare il destino
della Quinta Coorte, no?
Un corno suonò in fondo alla mensa. Gli ufficiali al tavolo del pretore si alzarono, compreso
Dakota, con la sua bocca rossa come il vampiro delle bibite energetiche.
— Che i Ludi abbiano inizio! — annunciò Reyna.
I ragazzi esultarono e corsero a recuperare l’equipaggiamento ammucchiato lungo le pareti.
— E così siamo nella squadra d’attacco? — chiese Percy ad alta voce, per farsi sentire in tutto
quel chiasso. — È una cosa positiva?
Hazel si strinse nelle spalle. — La buona notizia è che abbiamo l’elefante. La cattiva…
— Fammi indovinare: la Quinta Coorte perde sempre.
Frank gli diede una pacca sulla spalla. — Adoro questo ragazzo. Vieni, amico. Andiamo a
conquistare la mia tredicesima sconfitta di fila!
FRANK
Marciando verso i ludi di guerra, Frank rivisse nella mente la giornata appena trascorsa. Non
riusciva a credere a quanto fosse stato vicino alla morte.
Quella mattina durante la guardia, prima che spuntasse Percy, era stato sul punto di rivelare a
Hazel il proprio segreto.
Erano lì in piedi nella nebbia gelida da ore, a guardare il traffico dei pendolari sulla Highway 24.
Hazel si lamentava per il freddo. — Darei qualsiasi cosa per scaldarmi — disse, battendo i denti.
— Quanto vorrei avere un fuoco.
Perfino con l’armatura indosso era bellissima. A Frank piaceva il modo in cui i suoi riccioli color
cannella si incurvavano ai bordi dell’elmo, e adorava le fossette che le si formavano sul mento
quando si accigliava. Era davvero minuta in confronto a lui, cosa che lo faceva sentire come una
specie di bue grasso e goffo. Avrebbe voluto scaldarla con un abbraccio, ma non osava. Si sarebbe
beccato uno schiaffo, e avrebbe perso l’unica amica che aveva al campo.
“Potrei accendere un bel fuoco” gli balenò per un attimo in mente. “Certo, dopo qualche minuto
però morirei…”
C’era da spaventarsi solo per averlo pensato. Hazel gli faceva quell’effetto: ogni volta che
esprimeva un desiderio, lui provava l’impulso irrazionale di accontentarla. Avrebbe voluto essere il
cavaliere senza macchia e senza paura che correva in suo soccorso… una cosa stupida, considerato
che lei era molto più capace di lui in tutto.
Immaginò che cos’avrebbe detto sua nonna: “Frank Zhang che corre in soccorso di qualcuno? Ah!
Cadrebbe da cavallo e si romperebbe l’osso del collo.”
Difficile credere che fossero passate solo sei settimane da quando se n’era andato da casa della
nonna, sei settimane dal funerale di sua madre.
Era successo di tutto da allora: i lupi che si presentavano alla porta della nonna, il viaggio verso
il Campo Giove, le settimane trascorse nella Quinta Coorte sforzandosi di non essere un disastro
totale. E, per tutto il tempo, lui aveva tenuto quel pezzo di legno con la punta carbonizzata avvolto in
un panno nella tasca del giubbotto.
«Tienilo con te» gli aveva intimato la nonna. «Finché lui è al sicuro, tu sei al sicuro.»
Il problema era che prendeva fuoco molto facilmente.
Frank ripensò al viaggio a sud di Vancouver. Quando la temperatura era scesa sotto lo zero dalle
parti del Monte Hood, lui aveva tirato fuori quel pezzo di legno e lo aveva tenuto stretto fra le mani,
immaginando quanto sarebbe stato bello avere un po’ di fuoco. E subito dall’estremità annerita si era
sprigionata una fiamma gialla che aveva rischiarato la notte e lo aveva scaldato fino al midollo.
Frank però si era sentito scivolare via la vita, come se fosse lui a consumarsi, non il legno. Aveva
gettato la fiamma in un mucchio di neve, e lì, per un solo, orrendo momento, il legno aveva continuato
ad ardere. Quando alla fine si era spento, Frank aveva ripreso il controllo della situazione. Aveva di
nuovo avvolto nel panno il pezzo di legno e se l’era rimesso in tasca, deciso a non tirarlo più fuori.
Ma non poteva dimenticarlo.
Era come se qualcuno gli avesse detto: “Fa’ quello che ti pare, ma non pensare più a quel legno in
fiamme!” Perciò, naturalmente, non riusciva a pensare ad altro.
Durante il turno di guardia con Hazel, si sforzò di dirigere i propri pensieri altrove. Gli piaceva
molto passare del tempo con lei. Le chiese della sua infanzia a New Orleans, ma lei si innervosì,
così parlarono del più e del meno. E, tanto per divertirsi, si misero a parlare in francese. Hazel
aveva sangue creolo per parte materna. Frank aveva studiato francese a scuola. Nessuno dei due era
molto bravo, però, e il francese della Louisiana e quello canadese erano così diversi che era quasi
impossibile sostenere una conversazione. Quando Frank chiese a Hazel come stava il suo bue, e lei
gli rispose che la sua scarpa era verde, decisero di lasciar perdere.
Poi era arrivato Percy Jackson.
Certo, Frank aveva già visto dei ragazzi combattere contro i mostri. Ne aveva combattuti parecchi
anche lui, durante il viaggio da Vancouver. Ma non aveva mai visto le gorgoni. Non aveva mai visto
una dea in persona. E il modo in cui Percy aveva controllato il Piccolo Tevere… Cavoli, quanto gli
sarebbe piaciuto avere dei poteri come quelli!
Sentiva ancora gli artigli delle gorgoni che gli premevano sulle braccia e l’odore del loro fiato da
rettile, come di topi morti e veleno. Se non fosse stato per Percy, quelle streghe raccapriccianti se lo
sarebbero portato via. E a quell’ora sarebbe stato solo un bel mucchietto di ossa accatastato sul retro
di un ipermercato.
Dopo l’incidente al fiume, Reyna aveva mandato Frank in armeria, un compito che gli lasciava fin
troppo tempo per riflettere.
Mentre puliva le spade, il ragazzo ripensò a Giunone, che intimava loro di liberare la Morte.
Purtroppo Frank aveva un’idea piuttosto chiara sul significato di quelle parole. Aveva cercato di
mascherare il proprio sconcerto quando la dea era apparsa, ma era tale e quale a come sua nonna
l’aveva descritta, dalla punta dei capelli all’orlo del mantello di pelle di capra.
«Lei ha scelto la tua via anni fa» gli aveva detto la nonna. «E non sarà facile.»
Frank lanciò un’occhiata al suo arco in un angolo dell’armeria. Si sarebbe sentito meglio se
Apollo lo avesse riconosciuto come figlio. Prima era sicuro che il proprio genitore divino si sarebbe
fatto avanti il giorno del suo sedicesimo compleanno, ma erano già passate due settimane.
I sedici anni erano un traguardo importante per i Romani. Era stato il primo compleanno di Frank
al campo. Ma non era successo nulla. Ormai lui si augurava di essere riconosciuto per la Festa della
Fortuna, anche se, a giudicare dalle parole di Giunone, quel giorno avrebbero combattuto una
battaglia mortale.
Suo padre doveva essere Apollo. Il tiro con l’arco era l’unica cosa in cui lui era bravo. Anni
prima, sua madre gli aveva detto che il loro cognome, Zhang, significava “maestro degli archi” in
cinese. Doveva essere un indizio sull’identità di suo padre.
Frank mise giù gli strofinacci e guardò il soffitto. — Ti prego, Apollo, se sei mio padre, dimmelo.
Voglio essere un arciere come te.
— No, invece — brontolò una voce.
Frank saltò su dalla sedia.
Vitellio, il Lare della Quinta Coorte, comparve alle sue spalle. Il suo nome completo era Gaio
Vitellio Reticolo, ma le altre coorti lo chiamavano Vitellio Ridicolo. — Hazel Levesque mi ha
mandato a controllarti — disse Vitellio, tirandosi su la cintura. — E ha fatto bene. Guarda com’è
ridotta questa armatura!
Be’, con quella toga sformata, la tunica stretta sopra la pancia e il fodero della spada che cadeva
dalla cintura ogni tre secondi, Vitellio non dava certo il buon esempio. Ma Frank non si prese la
briga di farglielo notare.
— Quanto agli arcieri, sono dei pappamolle! — continuò il fantasma. — Ai miei tempi, il tiro con
l’arco era roba da barbari. Un buon romano dovrebbe essere nella mischia con la lancia e con la
spada, a sgozzare il nemico come ogni uomo civilizzato! È così che facevamo durante le Guerre
Puniche. Sii più romano, ragazzo!
Frank sospirò. — Ma non eri nell’esercito di Cesare?
— Certo!
— Vitellio, Cesare è vissuto secoli dopo le Guerre Puniche. Non puoi aver vissuto così a lungo.
— Metti in dubbio la mia parola? — L’aura violacea di Vitellio brillò di rabbia. Il Lare sguainò
il gladius spettrale e gridò: — Prendi questo, fellone! — E passò Frank a fil di spada diverse volte,
con la stessa efficacia di una torcia elettrica.
— Ahi! — esclamò il ragazzo, per buona educazione.
Vitellio sembrò soddisfatto e mise via la spada. — Forse adesso ci penserai due volte prima di
mettere in dubbio gli anziani! Ora… hai compiuto sedici anni da poco, vero?
Frank annuì. Non aveva idea di come Vitellio lo sapesse, dal momento che lo aveva detto soltanto
a Hazel, ma i fantasmi avevano i loro sistemi per scoprire i segreti. E sfruttare l’invisibilità per
spiare la gente era uno di quelli.
— Allora è per questo che brontoli come un gladiatore — continuò il Lare. — Comprensibile. Il
sedicesimo compleanno è il giorno in cui si diventa uomini! Il tuo genitore divino avrebbe dovuto
riconoscerti, almeno con un piccolo segno. Forse ha pensato che fossi più giovane. Sembri più
piccolo, in effetti, con quella faccia paffuta.
— Grazie di avermelo ricordato — borbottò Frank.
— Sì, ricordo bene i miei sedici anni — continuò allegro Vitellio. — Ebbi un segno magnifico!
Un pollo nelle mutande.
— Come, scusa?
Vitellio si gonfiò d’orgoglio. — Proprio così! Ero al fiume a cambiarmi le vesti per i Liberalia, il
rito di passaggio per l’età adulta. Facevamo le cose come si deve, allora. Mi ero tolto la toga da
bambino e mi stavo lavando per prepararmi a indossare quella da uomo. All’improvviso spuntò un
pollo candido come la neve, si infilò nel mio perizoma e corse via. Non lo avevo ancora indossato.
— Che bello… — commentò Frank. — Ma… ecco, avrei fatto anche a meno di questa
informazione.
— Era il segno della mia discendenza da Esculapio, il dio della medicina — continuò Vitellio,
ignorando l’interruzione. — Devo il mio cognome, Reticolo, a questo evento: viene da Reticulus, in
latino “reticella”, che usavo come mutanda. Un modo per ricordare il giorno felice in cui un pollo mi
rubò il perizoma.
— E così in realtà ti chiami… Signor Mutanda?
— Che gli dei siano lodati! Diventai chirurgo della legione, e il resto è storia. — Vitellio annuì.
— Non arrenderti, ragazzo. Forse tuo padre è solo in ritardo. La maggior parte dei segni sono meno
scenografici di un pollo, naturalmente. Conoscevo un tizio a cui era toccato uno scarabeo
stercorario…
— Grazie, Vitellio — lo interruppe Frank. — Ma ora devo finire di lucidare questa armatura…
— E il sangue della gorgone?
Frank rimase di sasso. Non ne aveva parlato con nessuno. A quanto gli risultava, solo Percy lo
aveva visto intascare le fialette giù al fiume, e non avevano ancora avuto occasione di riparlarne.
— Suvvia! — lo rimbrottò Vitellio. — Sono un guaritore. Conosco le leggende sul sangue delle
gorgoni. Mostrami le fialette.
Con riluttanza, Frank tirò fuori dalla tasca le due fialette di terracotta che aveva recuperato nel
Piccolo Tevere. Quando un mostro si dissolveva, rimanevano spesso delle spoglie di guerra: un
dente, un’arma, o perfino l’intera testa. Frank aveva capito subito cos’erano le due fialette. Secondo
la tradizione, appartenevano a Percy, che aveva ucciso le gorgoni, ma Frank non poteva fare a meno
di pensare: “E se potessi usarle io?”
— Sì. — Vitellio studiò i due contenitori. — Il sangue preso dal fianco destro di una gorgone è in
grado di curare ogni malanno, può perfino riportare un morto in vita. La dea Minerva una volta ne
diede una fiala al mio antenato divino, Esculapio. Ma il sangue preso dal fianco sinistro di una
gorgone è fatale. Uccide in un istante. Perciò, come distinguere le due fiale?
Frank chinò lo sguardo. — Non lo so. Sono identiche.
— Ah! Però speri che la fialetta giusta possa risolvere il tuo problema con quel pezzo di legno
bruciato, eh? Che possa spezzare la maledizione, forse?
Frank era così sbigottito da non riuscire a parlare.
— Oh, non temere, ragazzo. — Il fantasma ridacchiò. — Non lo dirò a nessuno. Sono un Lare, un
protettore della coorte! Non farei niente per metterti in pericolo.
— Mi hai appena infilzato con la spada!
— Fidati di me, ragazzo! Ti compatisco. Portare la maledizione dell’argonauta…
— La… cosa?
Vitellio liquidò la domanda con un gesto noncurante della mano. — Non fare il modesto. Hai
radici antiche. Greche oltre che romane. C’è poco da meravigliarsi che Giunone… — Piegò la testa,
come per ascoltare una voce dall’alto. Il suo volto si afflosciò all’improvviso. Tutta la sua aura
scintillò di verde. — Ma ho già detto abbastanza! Ti lascerò decidere da solo a chi spetta il sangue
delle gorgoni. Suppongo che pure al nuovo arrivato, Percy, farebbe comodo, con quel suo
problemino di memoria.
Frank si chiese cosa Vitellio stesse per dire fino a un attimo prima e che cosa lo avesse
spaventato, ma ebbe la sensazione che per una volta il fantasma avrebbe tenuto la bocca chiusa.
Abbassò lo sguardo sulle due fialette. Non aveva pensato che Percy potesse averne bisogno. Si sentì
in colpa per aver voluto usarle per sé. — Sì, naturalmente. Spettano a lui.
— Ah, ma se vuoi il mio consiglio… — Vitellio guardò di nuovo verso il cielo, inquieto. —
Dovreste aspettare entrambi. Se le mie fonti sono esatte, ne avrete bisogno per la grande impresa.
— Impresa?
La porta dell’armeria si spalancò.
Reyna irruppe all’interno accompagnata dai levrieri di metallo. Vitellio scomparve. Sebbene gli
piacessero i polli, non aveva nessuna simpatia per i cani del pretore.
— Frank… — Reyna sembrava turbata. — Qui hai finito, vai a cercare Hazel. Porta giù Percy. È
rimasto troppo tempo su al tempio. Non voglio che Ottaviano… — Esitò. — Portalo giù e basta.
Così Frank era corso in cima alla collina.
Sulla via del ritorno, Percy gli fece un milione di domande sul fratello di Hazel, ma lui non aveva
molto da dirgli.
— È a posto. Non è come Hazel…
— In che senso?
— Oh, ehm… — Frank tossì. Voleva dire che Hazel era più carina e gentile, ma decise di
evitarlo. — Nico è un po’ misterioso. Rende tutti nervosi, con questa storia che è il figlio di Plutone.
— Ma non rende nervoso anche te?
Frank alzò le spalle. — Plutone è forte. Non è colpa sua se governa gli Inferi. Gli è soltanto
andata male quando gli dei si sono spartiti il mondo, no? Giove ha avuto il cielo, Nettuno il mare, e
Plutone è rimasto fregato.
— La morte non ti spaventa?
Frank stava per mettersi a ridere. “Per niente. Ce l’hai un fiammifero?” Invece disse: — Ai vecchi
tempi, nell’Antica Grecia, quando Plutone si chiamava Ade, era decisamente il dio della morte.
Quando è diventato romano, si è fatto più… rispettabile. È diventato anche il dio delle ricchezze
della terra. Tutto ciò che si trova sottoterra gli appartiene. Perciò non credo che faccia davvero
paura.
Percy si grattò la testa. — Come fa un dio a diventare romano? Se è greco, non dovrebbe rimanere
greco?
Frank fece qualche passo in silenzio, riflettendo sulla domanda. Vitellio si sarebbe profuso in una
conferenza di un’ora sull’argomento, con tanto di presentazione in PowerPoint, ma Frank andò subito
al sodo. — Per come la vedono loro, i Romani hanno preso le cose migliori dei Greci e le hanno
perfezionate.
Percy fece una smorfia. — Perfezionate? Come se avessero qualcosa di sbagliato?
Frank ripensò a quello che Vitellio gli aveva detto: “Hai radici antiche. Greche oltre che romane.”
Anche sua nonna aveva detto qualcosa di simile.
— Non lo so — ammise. — Roma ha avuto più trionfi della Grecia. Ha costruito un impero
enorme. Gli dei sono diventati più importanti, più potenti e conosciuti. Ecco perché oggi sono ancora
in circolazione. Molte civiltà si basano su Roma. Gli dei sono diventati romani perché lì si era
spostato il centro del potere. Giove è… be’, più responsabile come dio romano che come Zeus.
Marte è diventato molto più importante e disciplinato.
— E Giunone è diventata una mendicante hippie — aggiunse Percy. — Così mi stai dicendo che le
antiche divinità greche si sono trasformate in modo permanente in divinità romane? Non è rimasto
nulla di greco, in loro?
— Ehm… — Frank si guardò intorno per controllare che non ci fossero né ragazzi né Lari, e i
cancelli d’ingresso erano ancora a un centinaio di metri di distanza. — È un argomento delicato.
Alcuni credono che l’influenza greca sia ancora presente, che sia ancora parte della personalità degli
dei. Ho sentito parlare di semidei che ogni tanto abbandonano il Campo Giove. Rifiutano
l’addestramento romano e cercano di seguire l’antico stile greco… l’eroe solitario, hai presente?
Anziché lavorare di squadra come fa la legione. E se guardi alla storia, dopo la caduta di Roma la
parte orientale dell’impero è sopravvissuta, ed era la metà greca.
Percy lo guardò stupito. — Non lo sapevo.
— Si chiamava Bisanzio. — A Frank piaceva il suono di quel nome. Sembrava forte. — L’impero
d’Oriente è durato altri mille anni, ma è sempre stato più greco che romano. Per quelli di noi che
seguono la via romana, è una specie di tasto dolente. Ecco perché, in qualunque paese migriamo, il
Campo Giove sorge sempre a ovest, nella parte romana del territorio. L’Oriente porta sfortuna.
— Ah… — Percy si accigliò.
Frank non poteva dargli torto se si sentiva confuso: tutta quella roba greco-romana dava il mal di
testa anche a lui.
Arrivarono ai cancelli d’ingresso. — Ti accompagno alle terme, così potrai darti una ripulita. Ma
prima… sai quelle due fialette che ho trovato nel fiume…
— Il sangue delle gorgoni! — esclamò Percy. — Una fialetta cura ogni male, un’altra è un veleno
mortale.
Frank sgranò gli occhi. — Lo sapevi? Ascolta, non avevo intenzione di tenerle. Volevo solo…
— So perché l’hai fatto, Frank.
— Davvero?
— Sì. — Percy sorrise. — Se fossi entrato nel campo con una fiala di veleno, non avrei fatto una
gran bella figura. Stavi solo cercando di proteggermi.
— Oh… giusto. — Frank si asciugò il sudore dalle mani. — Ma se riuscissimo a distinguerle
l’una dall’altra, potresti guarire, recuperare la memoria.
Il sorriso di Percy si spense. — Forse… sì, può essere. — Il semidio scrutò le colline. — Ma è
meglio aspettare. C’è una battaglia in arrivo. Potremmo averne bisogno per salvare delle vite.
Frank lo fissò, stupito. Percy aveva l’opportunità di recuperare la memoria, ed era disposto ad
aspettare nel caso qualcuno ne avesse più bisogno di lui? I Romani dovevano essere altruisti e
aiutare i propri compagni, ma Frank dubitava che chiunque altro lì al campo avrebbe mai fatto una
scelta del genere. — Quindi non ti ricordi nulla? — gli chiese. — La famiglia… gli amici…?
Percy giocherellò con le perle della collana. — Ho solo dei frammenti. Roba molto confusa. La
mia ragazza… pensavo di trovarla al campo. — Guardò Frank con prudenza, come per prendere una
decisione. — Si chiama Annabeth. Non la conosci, vero?
Frank scosse la testa. — Conosco tutti qui al campo, ma nessuna Annabeth. E la tua famiglia? Tua
madre è una mortale?
— Credo di sì… probabilmente starà impazzendo dalla preoccupazione. Tu riesci a vedere la tua?
Frank si fermò all’ingresso delle terme. Prese alcuni asciugamani da un ripostiglio. — È morta.
Percy aggrottò la fronte. — Com’è successo?
Di solito Frank a quella domanda mentiva. Rispondeva: “un incidente”, e fine della
conversazione. Altrimenti l’emozione avrebbe preso il sopravvento, e non poteva permettersi di
piangere al Campo Giove. Non poteva mostrarsi debole. Ma con Percy scoprì che era facile parlare.
— In guerra — rispose. — In Afghanistan.
— Era nell’esercito?
— Nell’esercito canadese, sì.
— Il Canada? Non sapevo che…
— Sono in molti a non saperlo. — Frank sospirò. — Però sì, il Canada ha delle truppe in
Afghanistan. Mia madre era capitano. È stata una delle prime donne a morire in battaglia. Ha salvato
alcuni soldati rimasti sotto il fuoco nemico. Ma lei… non ce l’ha fatta. Il funerale è stato poco prima
che arrivassi qui.
Percy annuì. Non chiese altro, e Frank lo apprezzò. Non disse nemmeno che gli dispiaceva, né
fece nessuno di quei commenti pieni di buone intenzioni che lui detestava sempre: “Oh, povero
ragazzo. Dev’essere molto difficile per te. Condoglianze.”
Era come se anche Percy avesse affrontato la morte prima di allora, come se conoscesse il dolore
del lutto. L’unica cosa che contava davvero era ascoltare. Non c’era bisogno di dire: “Mi dispiace.”
L’unica cosa che serviva era non fermarsi, andare avanti.
— Che ne dici di mostrarmi le terme, adesso? — suggerì Percy. — Faccio davvero schifo.
Frank riuscì a sorridere. — Eh, già. Direi proprio di sì.
Quando entrarono nella sauna, Frank si ritrovò a pensare alla nonna, alla madre e alla propria
infanzia maledetta, grazie a Giunone e al suo pezzo di legno. Sperò quasi di poter dimenticare il
passato, come era successo a Percy.
FRANK
Frank non ricordava molto del funerale. Ma ricordava le ore che l’avevano preceduto, la nonna che
veniva a cercarlo sul retro, e lui che tirava con l’arco usando la collezione di porcellane come
bersaglio.
La casa della nonna era una grande villa di pietra grigia, che occupava con poco ordine un ampio
appezzamento di terreno di Vancouver. Il cortile sul retro arrivava fino al Lynn Canyon Park.
La mattina era gelida e piovigginosa, ma Frank non si accorgeva del freddo. Indossava un
completo di lana e un soprabito neri che erano appartenuti al nonno. Era rimasto stupito e sconvolto
che gli stessero bene. I vestiti puzzavano di naftalina e gelsomino. La stoffa prudeva, ma era calda.
Con l’arco e la faretra, probabilmente somigliava a un maggiordomo molto pericoloso.
Aveva caricato un po’ delle porcellane della nonna su una carriola e le aveva portate in cortile,
dove era solito sistemare i bersagli sui pali dello steccato che delimitava la proprietà. Era rimasto lì
fuori a tirare con l’arco così a lungo che stava cominciando a perdere la sensibilità delle dita. Con
ogni freccia scoccata, immaginava di abbattere uno dei suoi problemi.
Cecchini in Afghanistan. Crash! Una teiera esplodeva centrata da una freccia.
La medaglia al valore di sua madre – un disco d’argento su un nastro rosso e nero – consegnata a
Frank come qualcosa di importante, come una sorta di risarcimento per la morte in battaglia. Twack!
Una tazza volò in mezzo al bosco.
L’ufficiale che era venuto a dirgli: «Tua madre è un’eroina. Emily Zhang, capitano dell’esercito
canadese, è morta cercando di salvare i propri compagni.» Crac! Un piatto bianco e blu in pezzi.
I rimproveri della nonna: «Gli uomini non piangono, tantomeno gli uomini della famiglia Zhang.
Tu terrai duro, Fai.»
Nessuno lo chiamava Fai, solo sua nonna.
«Che razza di nome è, Frank?» brontolava. «Non è un nome cinese.»
“Io non sono cinese” pensava Frank, ma non osava mai dirlo. Sua madre lo aveva avvisato anni
prima: «È inutile litigare con la nonna. Ti farà solo soffrire di più.» Aveva ragione. E ormai Frank
non aveva nessun altro, era rimasto solo con lei.
Thud! Una quarta freccia colpì il palo dello steccato e rimase a vibrare lì, conficcata nel legno.
— Fai — chiamò la nonna.
Frank si voltò.
La nonna stringeva in mano un bauletto di mogano grande come una scatola da scarpe, che lui non
aveva mai visto. Con il vestito nero, il colletto alla coreana e la rigida crocchia di capelli grigi,
sembrava una severa maestra dell’Ottocento. Scrutò la carneficina di porcellane: i pezzi ancora nella
carriola, le schegge del suo servizio da tè preferito sparse sul prato, le frecce di Frank che
spuntavano da terra, dagli alberi, dai pali dello steccato, una perfino dalla testa di un sorridente nano
da giardino.
Frank si aspettava che si mettesse a urlare, o che gli tirasse il bauletto in testa. Lui non aveva mai
fatto niente del genere prima di allora; non aveva mai provato tutta quella rabbia.
Il volto della nonna era pieno di amarezza e disapprovazione. Non somigliava affatto alla mamma.
Frank si chiese come avesse fatto sua madre a diventare una persona tanto amabile, sempre con la
risata pronta, sempre gentile. Non riusciva a immaginarla da piccola insieme alla nonna, così come
non riusciva a immaginarla in battaglia, anche se forse le due situazioni non erano molto diverse.
Rimase in attesa dell’esplosione. Forse la nonna lo avrebbe punito e non gli avrebbe permesso di
andare al funerale. Aveva una gran voglia di ferirla, perché era sempre così cattiva, perché aveva
permesso alla mamma di andare in guerra, perché lo sgridava e gli diceva di farsene una ragione.
L’unica cosa che le importava era la sua stupida collezione.
— Smettila con queste sciocchezze! — esclamò invece la nonna. Non sembrava molto irritata. —
È un comportamento indegno di te. — Con grande stupore del nipote, scansò con un calcio una delle
sue tazze preferite. — L’auto arriverà presto. Dobbiamo parlare.
Frank era sbalordito. Guardò il bauletto di mogano con più attenzione. Per un momento orribile, si
chiese se non contenesse le ceneri di sua madre, ma era impossibile: la nonna gli aveva detto che ci
sarebbe stato un funerale militare. Ma allora perché lo teneva in mano con tanta cautela, come se il
suo contenuto l’addolorasse?
— Vieni dentro — ordinò la nonna e, senza aspettare la sua reazione, si voltò e rientrò in casa
impettita.
In salotto, Frank si sedette sul divano di velluto, circondato da vecchie foto di famiglia, vasi di
porcellana troppo grandi per essere trasportati in cortile e vessilli rossi con gli ideogrammi cinesi.
Frank non sapeva cosa ci fosse scritto; non aveva mai avuto molta voglia di imparare quella lingua.
Non conosceva nemmeno la maggior parte della gente in quelle foto.
Ogni volta che la nonna attaccava uno dei suoi lunghi racconti sui loro antenati – come erano
arrivati dalla Cina e si erano arricchiti con l’azienda di import-export, diventando una delle famiglie
più ricche di Vancouver – be’, per lui era una noia. Frank era un canadese di quarta generazione. Non
gli importava nulla della Cina e di tutte quelle anticaglie ammuffite. L’unico carattere cinese che era
in grado di riconoscere era il suo cognome: Zhang. Maestro degli archi. Quello sì che era forte.
La nonna si sedette accanto a lui, con la schiena rigida, le mani giunte posate sopra il bauletto. —
Tua madre voleva che avessi questo — disse con riluttanza. — Lo conservava da quando eri poco
più di un neonato. Quando è partita per la guerra, l’ha affidato a me. Ma ora lei non c’è più. E presto
te ne andrai anche tu.
Frank si sentì le farfalle nello stomaco. — Me ne andrò? Dove?
— Sono vecchia — continuò la nonna, come se fosse una novità sorprendente. — Il mio
appuntamento con la morte non è lontano. Non posso insegnarti le abilità di cui avrai bisogno, e non
posso portare questo peso. Se dovesse capitargli qualcosa, non me lo perdonerei mai. Tu moriresti.
Frank non era sicuro di avere sentito bene. La sua vita dipendeva da quel bauletto? Si chiese come
mai non lo avesse mai vista prima. Probabilmente era conservato in soffitta, l’unica stanza a cui gli
era proibito l’accesso. La nonna aveva sempre detto che ci teneva i suoi tesori più preziosi.
Gli consegnò il bauletto. Frank sollevò il coperchio, con dita tremanti. Dentro, adagiato su una
morbida fodera di velluto, c’era un terrificante, importantissimo, fondamentale… pezzo di legno.
Sembrava un relitto recuperato su una spiaggia: duro, levigato, scolpito dalle correnti in una forma
sinuosa. Era grande più o meno quanto il telecomando di un televisore.
Frank ne toccò la punta, annerita dal fuoco. Era ancora calda. Gli lasciò una macchia nera sul dito.
— È un bastone! — esclamò infine. Non riusciva a capire perché la nonna ne parlasse in toni così
gravi e seri.
Gli occhi di lei scintillarono. — Fai, tu conosci le profezie? Conosci gli dei?
Quelle domande lo misero in imbarazzo. Pensò alle stupide statuine dorate di cinesi immortali
della nonna, alle sue superstizioni secondo cui bisognava disporre i mobili in certi punti precisi ed
evitare i numeri sfortunati. Le profezie gli facevano pensare ai biscotti della fortuna, che in realtà non
erano neppure cinesi, ma i bulli della scuola lo prendevano in giro con stupidaggini come: «Dice il
saggio…» Frank non era mai stato in Cina. Non voleva averci niente a che fare. Ma, naturalmente,
non era quello che la nonna voleva sentirsi dire.
— Poco, nonna. Non molto.
— Tanti avrebbero deriso il racconto di tua madre — continuò lei. — Ma io non lo feci. Io so
quello che c’è da sapere sulle profezie e sugli dei. Greci, romani, cinesi… si intrecciano nella nostra
famiglia. Non misi in dubbio quello che mi raccontò di tuo padre.
— Aspetta… cosa?
— Tuo padre era un dio — proseguì lei in tono piatto.
Se la nonna avesse posseduto il minimo senso dell’umorismo, Frank avrebbe pensato a uno
scherzo. Ma lei non scherzava mai. Si stava forse rimbambendo per la vecchiaia?
— Piantala di guardarmi come un pesce lesso! — lo fulminò. — Non sono impazzita. Non ti sei
mai chiesto come mai tuo padre non sia mai tornato?
— Lui era… — Frank esitò. La perdita della mamma era già un grande dolore. Non aveva nessuna
voglia di pensare anche al padre. — Era nell’esercito, come la mamma. Risulta disperso in azione. In
Iraq.
— Sciocchezze! Era un dio. Si innamorò di tua madre perché era una guerriera nata. Era come me:
forte, coraggiosa, buona, bella.
Forte e coraggiosa, sì. Frank non stentava a crederlo. Ma immaginare la nonna anche buona e bella
era un’altra storia.
Sospettava ancora che stesse perdendo qualche rotella, ma chiese: — Che genere di dio?
— Romano — rispose la nonna. — A parte questo, non so altro. Tua madre non volle dirmelo, o
forse non lo sapeva neppure lei. Non c’è da sorprendersi che un dio si sia innamorato di lei,
considerato l’antico lignaggio della nostra famiglia.
— Aspetta… noi siamo cinesi. Perché un dio romano vorrebbe mettersi con una cino-canadese?
La nonna arricciò il naso, stizzita. — Se ti fossi preso la briga di imparare la storia di famiglia,
Fai, lo sapresti. La Cina e Roma non sono così diverse, né così disgiunte come sembra. La nostra
famiglia è della provincia di Gansu, di una città che un tempo si chiamava Li-Jian. E prima ancora…
come ho già detto, siamo di antico lignaggio. In noi scorre il sangue di principi ed eroi.
Frank si limitò a fissarla.
Lei sospirò, esasperata. — Parlare con te è come parlare a un bue! Conoscerai la verità, una volta
arrivato al campo. Forse tuo padre ti riconoscerà. Ma per ora devo spiegarti cos’è questo pezzo di
legno. — Indicò il grande caminetto di pietra. — Poco dopo la tua nascita, al nostro focolare
comparve un’ospite. Io e tua madre sedevamo qui sul divano, proprio dove siamo noi ora. Tu eri una
cosetta minuscola, avvolto in una coperta azzurra, e lei ti cullava tra le braccia. — Sembrava un
ricordo molto tenero, ma la nonna lo raccontò in tono amaro, come se sapesse, perfino allora, che
Frank sarebbe diventato un ragazzone goffo e imbranato. — Una donna comparve davanti al fuoco —
continuò. — Era una donna bianca – una gwai poh – vestita di seta azzurra, con uno strano mantello
simile a una pelle di capra.
— Una pelle di capra… — ripeté Frank, confuso.
La nonna si scurì in viso. — Sì, sturati le orecchie, Fai Zhang! Sono troppo vecchia per raccontare
le cose due volte. La donna con la pelle di capra era una dea. Queste cose io le capisco sempre al
volo. Sorrise al bambino, a te, e disse a tua madre queste precise parole: «Lui chiuderà il cerchio.
Restituirà la tua famiglia alle sue radici e ti farà grande onore.» Lo disse in cinese mandarino
perfetto. — La nonna fece un verso di scherno. — Non mi metto a discutere con le divinità, ma forse
questa dea non aveva guardato bene nel futuro. Comunque, aggiunse: «Andrà al campo e riscatterà la
vostra reputazione. Libererà Thanatos dalle sue catene di ghiaccio…»
— Aspetta… chi?
— Thanatos — ripeté la nonna, con impazienza. — È il nome greco della Morte. Ora posso
continuare senza interruzioni? Dunque… la dea disse: «Il sangue di Pylos è forte in questo bambino,
per parte materna. Avrà il dono della famiglia Zhang, ma avrà anche i poteri di suo padre.»
All’improvviso la storia di famiglia non sembrò più tanto noiosa. Frank aveva una voglia matta di
chiedere cosa significassero tutte quelle cose: poteri, doni, sangue di Pylos… Che cos’era quel
campo, e chi era suo padre? Ma non voleva interrompere di nuovo la nonna. Voleva che continuasse
a parlare.
— Tuttavia ogni potere ha un prezzo, Fai — proseguì lei. — Prima di svanire, la dea indicò il
fuoco e disse: «Sarà il più forte del vostro clan, e il più grande. Ma le Parche hanno decretato che
sarà anche il più vulnerabile. La sua vita farà una grande luce, ma brucerà presto. Non appena quel
tizzone ardente si sarà consumato del tutto – quel pezzo di legno, sul bordo del focolare – tuo figlio
morirà.»
Frank non riusciva quasi più a respirare. Guardò il bauletto che teneva in grembo, e la macchia di
cenere sul dito. Quella storia era ridicola, ma tutt’a un tratto quel pezzo di legno sembrava più
sinistro, freddo e pesante. — Questo… questo…?
— Sì, mio piccolo bue dalla testa dura — confermò la nonna. — Questo è proprio quel pezzo di
legno. La dea scomparve, e io corsi subito a prenderlo. Lo conserviamo da allora.
— E se finisce di ardere, io muoio?
— Non è poi così strano — commentò la nonna. — Il destino degli uomini si può spesso predire,
e a volte salvaguardare, almeno per un certo periodo di tempo. Quel pezzo di legno adesso ti
appartiene. Tienilo con te. Finché è al sicuro, tu sei al sicuro.
Frank scosse la testa. Voleva protestare, dirle che era solo una stupida leggenda.
Forse la nonna stava solo cercando di spaventarlo, magari per vendicarsi delle porcellane rotte.
Ma il suo sguardo era provocatorio. Sembrava volerlo sfidare: “Se non ci credi, brucialo.”
Frank richiuse il bauletto. — Se è così pericoloso, perché non lo avete sigillato in qualcosa che
non bruci, nell’acciaio, per esempio? Perché non lo avete messo in una cassetta di sicurezza?
— Che succederebbe se rivestissimo quel pezzo di legno con un’altra sostanza? — ribatté la
nonna. — Soffocheresti anche tu? Non lo so. Tua madre non volle correre il rischio. Non sopportava
l’idea di separarsene, per paura che qualcosa andasse storto. Le banche si possono rapinare. Gli
edifici vengono distrutti dagli incendi. Accadono strane cose quando si tenta di ingannare il fato. Tua
madre pensava che il pezzo di legno fosse al sicuro soltanto con lei, finché non è partita per la
guerra. Allora l’ha dato a me. — La nonna emise un sospiro amaro. — Emily è stata una sciocca ad
andare in guerra, anche se immagino di avere sempre saputo che fosse questo il suo destino. Sperava
di incontrare di nuovo tuo padre.
— Pensava… pensava di incontrarlo in Afghanistan?
La nonna allargò le mani, come se la cosa andasse oltre la sua comprensione. — Comunque fosse,
è partita. Ed è morta con coraggio. Pensava che il dono di famiglia potesse proteggerla. E senza
dubbio è così che ha salvato i suoi compagni. Ma il dono non ha mai tenuto al sicuro la nostra
famiglia. Non aiutò mio padre, né il padre di mio padre. Non ha aiutato me. E ora tu sei diventato un
uomo. Devi seguire la via.
— Ma… quale via? Qual è il nostro dono… il tiro con l’arco?
— Tu e il tuo arco! Sciocco di un ragazzo. Presto lo scoprirai. Stanotte, dopo il funerale, dovrai
andare a sud. Tua madre ha detto che, se non fosse tornata dalla guerra, Lupa avrebbe mandato dei
messaggeri. Ti scorteranno fino a un luogo in cui i figli degli dei possono essere addestrati affinché
seguano il proprio destino.
Frank si sentì come trafitto dalle frecce, con il cuore che si infrangeva in frammenti di porcellana.
Non capiva quasi nulla di ciò che la nonna aveva detto, ma una cosa era chiara: lo stava cacciando di
casa. — Mi lasci andare via così? — gridò. — Sono l’ultimo pezzettino di famiglia che ti è rimasto!
Le labbra della nonna tremarono, i suoi occhi erano lucidi; Frank si rese conto che stava per
piangere. Aveva perso suo marito anni prima, poi sua figlia, e ora stava per mandare via il suo unico
nipote. Ma si alzò dal divano e tenne la schiena dritta, la postura rigida e corretta come sempre. —
Quando arriverai al campo, dovrai parlare con il pretore, in privato — lo istruì. — Dille che il tuo
bisnonno era Shen Lun. Sono passati molti anni dall’incidente di San Francisco. Spero che non ti
uccidano per quello che fece, ma forse dovrai chiedere perdono per le sue azioni.
— Di bene in meglio — borbottò Frank.
— La dea ha detto che permetterai alla nostra famiglia di completare il cerchio. — Non c’era
traccia di compassione nella voce della nonna. — Ha scelto la tua via anni fa, e non sarà facile. Ma
adesso dobbiamo pensare al funerale. Abbiamo degli obblighi. Vieni. La macchina ci starà
aspettando.
La cerimonia era per Frank un ricordo confuso: volti solenni, il picchiettio della pioggia sul
tendone che copriva la tomba, i colpi di fucile della guardia d’onore, la bara calata nella terra.
Quella notte, arrivarono i lupi. Ulularono di fronte al portico. Frank uscì a incontrarli. Prese lo
zaino da viaggio, i vestiti più caldi, l’arco e la faretra; infilò la medaglia della madre nello zaino. Il
pezzo di legno annerito era avvolto in tre strati di stoffa nella tasca del giubbotto, accanto al cuore.
Cominciò il suo viaggio verso sud: prima alla Casa del Lupo, a Sonoma, e infine al Campo Giove,
dove parlò a Reyna in privato, come da istruzioni della nonna. Chiese perdono per il bisnonno di cui
non sapeva nulla. Reyna gli permise di entrare a far parte della legione, ma non gli spiegò mai
cos’avesse fatto il suo bisnonno, anche se era evidente che lei lo sapeva. Frank capì che era una cosa
brutta.
— Io giudico le persone in base ai loro meriti personali — gli disse Reyna. — Ma non fare il
nome di Shen Lun con nessun altro. Deve restare il nostro segreto, o ti tratteranno male.
Purtroppo Frank non aveva molti meriti. Il suo primo mese al campo era trascorso rovesciando
file di armi, rompendo bighe e facendo inciampare intere coorti durante la marcia. La sua
occupazione preferita era badare ad Annibale, l’elefante, ma era riuscito a incasinarsi pure lì,
procurandogli un’indigestione di noccioline. E chi se lo aspettava che gli elefanti potessero avere
un’intolleranza alle arachidi? Frank pensava che Reyna si fosse pentita della sua decisione.
Ogni giorno si svegliava chiedendosi se il pezzo di legno avrebbe preso fuoco, decretando la sua
fine.
Tutto questo passava per la testa di Frank mentre si dirigeva ai ludi di guerra insieme a Hazel e
Percy. Pensava al pezzo di legno che portava nella tasca del giubbotto, e al significato della
comparsa di Giunone al campo. Forse stava per morire? Sperava di no. Non aveva ancora procurato
nessun onore alla propria famiglia, questo era certo. Forse Apollo lo avrebbe riconosciuto quella
sera, e gli avrebbe spiegato i suoi poteri e suoi doni.
Una volta lasciato il campo, la Quinta Coorte si dispose in due file dietro i centurioni, Dakota e
Gwen. Marciarono verso nord, costeggiando il margine della città, e si diressero al Campo Marzio,
la porzione più ampia e pianeggiante della vallata. L’erba era molto corta, per via di tutti gli
unicorni, i tori e i fauni vagabondi che vi pascolavano di giorno. Il terreno però era irregolare,
cosparso di crateri di esplosione e trincee dei ludi passati. All’estremità settentrionale del campo si
ergeva il loro obiettivo. Gli ingegneri avevano costruito un forte di pietra con tanto di portone in
ferro a saracinesca, torri di guardia, baliste, cannoni ad acqua e chissà quante altre sorprese a uso dei
difensori.
— Oggi hanno fatto un buon lavoro — notò Hazel. — Peggio per noi.
— Aspetta! — esclamò Percy. — Mi stai dicendo che hanno costruito quel forte soltanto oggi?
Hazel sorrise. — I legionari sono addestrati nelle costruzioni. In caso di necessità, potremmo
demolire l’intero campo e ricostruirlo da qualche altra parte. Ci vorrebbero forse quattro o cinque
giorni, ma ce la faremmo.
— Però evitiamo, eh? — commentò Percy. — Ogni sera attaccate un forte diverso?
— Non tutte le sere — rispose Frank. — Abbiamo diversi esercizi di addestramento. A volte le
simulazioni di guerra avvengono con le armi a proiettili di vernice… solo che al posto della vernice
usiamo il veleno, l’acido e le palle di fuoco. A volte corriamo con le bighe e combattiamo come
gladiatori, a volte facciamo i ludi di guerra.
Hazel indicò il forte. — Lì dentro, da qualche parte, la Prima e la Seconda Coorte tengono le loro
insegne. Il nostro compito è di entrare e catturarle senza farci ammazzare. Se ci riusciamo, abbiamo
vinto.
Lo sguardo di Percy s’illuminò. — Penso che mi piacerà.
Frank rise. — Sì, be’… è più difficile di quello che sembra. Dobbiamo superare le baliste e i
cannoni ad acqua sulle mura, farci largo tra i nemici all’interno del forte, trovare le insegne e
sconfiggere le guardie, il tutto continuando a proteggere le nostre insegne e le nostre truppe. E la
nostra coorte è in competizione con le altre due coorti d’attacco. Dobbiamo collaborare, sì, ma non
proprio. La coorte che cattura le insegne nemiche è quella che si prende tutta la gloria.
Percy inciampò, cercando di tenere il passo della marcia… sinist-dest, sinist-dest. Frank non
faceva fatica a comprenderlo: aveva passato le sue prime due settimane a cadere.
— Comunque… perché facciamo questo tipo di esercitazione? — chiese Percy. — Quante vere
città fortificate vi è capitato di dover assediare, finora?
— Lavoro di squadra — rispose Hazel. — Tempismo. Tattica. Strategia. Ti sorprenderà scoprire
quante cose si possono imparare nei ludi di guerra.
— Compreso chi sarebbe disposto a pugnalarti alle spalle — aggiunse Frank.
— Soprattutto questo — concordò la ragazza.
Sempre a passo di marcia, raggiunsero il centro del Campo Marzio e formarono le fila. La Terza e
la Quarta Coorte si disposero il più lontano possibile dalla Quinta. I centurioni che guidavano
l’assalto si riunirono per consultarsi. Nel cielo sopra di loro, Reyna volteggiava in groppa a
Scipione, pronta a rivestire il ruolo di arbitro. Una mezza dozzina di aquile giganti volavano in
formazione alle sue spalle, pronte per il servizio di ambulanza aerea in caso di necessità.
L’unica persona che non partecipava ai ludi era Nico Di Angelo, “l’ambasciatore di Plutone”, che
era salito su una torre di avvistamento a un centinaio di metri dal forte e avrebbe osservato tutto con
un binocolo.
Frank appoggiò il pilum contro lo scudo e controllò l’armatura di Percy. Ogni cosa era al suo
posto, ogni singolo pezzo era collocato nel modo giusto. — Sei stato bravo — commentò, stupito. —
Mi sa che questa non è la prima volta che partecipi ai ludi di guerra.
— Non lo so… forse.
L’unico elemento non regolamentare in Percy era la spada di bronzo lucente: non era d’oro
imperiale, e non era un gladius. La lama era a forma di foglia, e la scritta sull’elsa era in greco.
Frank la guardò un po’ a disagio.
Percy aggrottò la fronte. — Possiamo usare armi vere, giusto?
— Sì. Solo che non avevo mai visto una spada come quella.
— E se ferisco qualcuno?
— Lo curiamo — lo rassicurò Frank. — O perlomeno ci proviamo. I medici della legione sono
molto bravi con il nettare e l’ambrosia, oltre che con il corno degli unicorni.
— Non muore nessuno — intervenne Hazel. — Be’, di solito, almeno. E se capita…
Frank imitò la voce di Vitellio: «Siete dei pappamolle! Ai miei tempi morivamo in continuazione,
e ci piaceva!»
Hazel rise. — Cerca solo di restare con noi, Percy. È probabile che ci toccherà il servizio
peggiore e che saremo eliminati presto. Ci manderanno per primi contro le mura, per infiacchire le
difese. Poi la Terza e la Quarta Coorte marceranno dentro e si prenderanno tutti gli onori, ammesso
che riescano ad aprirsi una breccia.
I corni risuonarono. Dakota e Gwen tornarono dalla riunione degli ufficiali con aria cupa.
— Va bene, questo è il piano. — Dakota bevve un gran sorso di Super Fresh dalla borraccia. —
Ci mandano per primi contro le mura, per infiacchire le difese.
L’intera coorte emise un gemito di sconforto.
— Lo so, lo so — replicò Gwen. — Ma forse stavolta avremo un po’ di fortuna!
Gwen era sempre ottimista. Tutti le volevano bene perché si prendeva cura degli altri e cercava di
tenere alto il morale dei compagni. Riusciva perfino a controllare Dakota durante i suoi attacchi da
sovradosaggio di Super Fresh. Questo però non impedì loro di continuare a lamentarsi. Nessuno
credeva alla fortuna della Quinta Coorte.
— La prima linea andrà con Dakota — proseguì Gwen. — Serrate gli scudi e avanzate in
formazione a testuggine fino alla porta principale. Cercate di restare uniti. Attirate il fuoco di difesa.
Quanto alla seconda linea… — Si voltò verso la fila di Frank, con scarso entusiasmo. — Voi
diciassette, da Bobby in poi, vi occuperete dell’elefante e delle scale d’assedio. Tentate un attacco
laterale, sul muro occidentale. Forse così riusciremo a sparpagliare le difese. Frank, Hazel, Percy…
be’, fate quello che volete. Spiegate a Percy come funzionano le cose. Cercate di non farlo
ammazzare. — Poi Gwen si rivolse all’intera coorte: — Chiunque di noi scavalcherà per primo le
mura, riceverà la Corona Muralis, garantisco io. Vittoria alla Quinta!
La coorte le fece eco, con grida poco convinte, e ruppe le fila.
Percy aggrottò la fronte. — Fate… quello che volete?
Hazel sospirò. — Un grande gesto di fiducia.
— Che cos’è la Corona Muralis?
— Una medaglia militare — spiegò Frank. Conosceva tutti i possibili riconoscimenti, glieli
avevano inculcati a forza. — Un grande onore per il primo soldato che infrange la linea nemica ed
entra nel forte. Come noterai, nessuno della Quinta ne ha una. Di solito nel forte non entriamo
neppure, perché stiamo ancora andando a fuoco o affogando o… — Si interruppe e guardò Percy. —
Cannoni ad acqua.
— Eh?
— I cannoni sulle mura — continuò Frank. — Attingono l’acqua dall’acquedotto. C’è un sistema
di pompe… cavolo, non so come funzionino, ma utilizzano un sacco di pressione. Se tu riuscissi a
controllarli come hai controllato il fiume…
— Frank, è un’idea geniale! — Hazel era raggiante.
Percy non ne sembrava così certo. — Non so come ci sono riuscito, al fiume. E non so se riesco a
controllare i cannoni da questa distanza.
— Allora ti porteremo più vicino. — Frank indicò il muro orientale, dove la Quinta Coorte non
avrebbe attaccato. — È lì che le difese saranno più deboli. Non ci prenderanno mai sul serio, siamo
soltanto in tre. Penso che potremo avvicinarci parecchio prima che ci vedano.
— Avvicinarci di nascosto? E come?
Frank si rivolse a Hazel: — Tu puoi rifare quella cosa?
Lei gli mollò un pugno sul petto. — Avevi promesso di non dirlo a nessuno!
Frank si sentì subito in colpa. Si era lasciato prendere così tanto dall’idea…
— Lascia perdere. Non importa — brontolò Hazel, tra i denti. — Percy, Frank sta parlando delle
trincee. Il Campo Marzio è percorso da tunnel, tutti quelli scavati nel corso degli anni. Alcuni sono
crollati, o sono sepolti in profondità, ma ce ne sono molti ancora percorribili. Io sono piuttosto brava
a scovarli e a usarli. Posso anche farli crollare, quando serve.
— Come hai fatto per rallentare le gorgoni… — osservò Percy.
Frank confermò con un cenno. — Te l’avevo detto che Plutone è davvero forte. È il dio di tutto ciò
che sta sottoterra. Hazel è in grado di trovare grotte, tunnel, botole…
— … e questo era il nostro segreto — borbottò lei.
Frank si rese conto di essere arrossito. — Sì, scusa. Ma se riusciamo ad avvicinarci…
— E se riesco a far saltare i cannoni… — Percy annuì, entusiasmandosi all’idea. — Dopo che
facciamo?
Frank controllò la faretra. La riempiva sempre di frecce speciali. Non era mai riuscito a usarle
prima, ma forse quella era la sera giusta. Forse finalmente sarebbe riuscito a fare qualcosa di buono
per attirare l’attenzione di Apollo. — Al resto ci penso io — disse. — Andiamo.
FRANK
Frank non si era mai sentito così sicuro di qualcosa in vita sua. Era una sensazione nuova, che un po’
lo innervosiva. Di solito, niente di quello che progettava andava mai per il verso giusto. Riusciva
sempre a rompere, rovinare, bruciare, spappolare o ribaltare qualcosa di importante. Eppure sapeva
che quella strategia avrebbe funzionato.
Hazel individuò senza problemi un tunnel. In realtà, Frank sospettava che non si limitasse soltanto
a trovare i tunnel: era come se si formassero da soli per rispondere alle sue necessità. Gallerie
colmate da anni all’improvviso si svuotavano, cambiando perfino direzione per condurre Hazel dove
desiderava.
Si mossero alla luce baluginante di Vortice, la spada di Percy. Sopra di loro, sentivano i suoni
della battaglia in corso: i ragazzi che gridavano, l’elefante che barriva di gioia, le baliste che
esplodevano e i cannoni ad acqua che bersagliavano gli assalitori. Il tunnel tremò, e furono investiti
da una pioggia di terra.
Frank si infilò una mano nell’armatura. Il pezzo di legno era ancora sano e salvo nella tasca del
giubbotto, ma un solo colpo ben piazzato di una delle baliste avrebbe potuto mandare a fuoco tutta la
sua vita. “Stupido!” si rimproverò da solo. “Fuoco è la parola proibita. Non ci pensare.”
— C’è un’apertura proprio davanti a noi — annunciò Hazel. — Sbucheremo a soli tre metri dal
muro orientale.
— Come fai a dirlo? — chiese Percy.
— Non lo so. Ma ne sono sicura.
— Non potremmo sbucare dall’altra parte del muro, allora? — domandò Frank.
— No… Gli ingegneri sono stati furbi. Hanno costruito le mura su vecchie fondamenta che
poggiano sulla roccia. E non chiedermi come lo so… lo so e basta.
Frank inciampò su qualcosa e imprecò. Percy avvicinò la spada per fare luce. Somigliava a un
cioccolatino grande come un pugno.
— Cavoli! — esclamò Frank. — Argento?
— Platino. — Hazel sembrava terrorizzata. — Sparirà tra un secondo. Vi prego, non lo toccate. È
pericoloso.
Frank non capiva perché quel grumo di metallo potesse essere pericoloso, ma prese l’amica sul
serio. E poco dopo, sotto il loro sguardo, il blocco di platino affondò di nuovo nel terreno. Guardò
Hazel con tanto d’occhi. — Come facevi a saperlo?
Alla luce della spada di Percy, Hazel sembrava spettrale come uno dei Lari. — Te lo spiego dopo
— promise.
Un’altra esplosione scosse il tunnel, e i ragazzi si mossero.
Sbucarono fuori da una fossa proprio dove Hazel aveva predetto. Di fronte a loro si stagliava il
muro orientale del forte. Lontano, sulla sinistra, Frank scorse la linea d’attacco della Quinta Coorte
che avanzava a testuggine, con gli scudi che formavano un guscio sopra la testa e sui fianchi dei
soldati. Stavano cercando di raggiungere la porta principale, ma i difensori li bombardavano di sassi
e proiettili infuocati, squarciando crateri ai loro piedi. Un cannone sparò con un TRUUUM da far
tremare i denti, e il getto d’acqua scavò una trincea nel terreno proprio di fronte alla coorte.
Percy fischiò. — Decisamente parecchia pressione, avevi ragione.
La Terza e la Quarta Coorte non stavano neanche avanzando. Erano rimaste nelle retrovie e se la
ridevano, godendosi lo spettacolo dei loro “alleati” che prendevano una batosta. I difensori si
assiepavano sulle mura e gridavano insulti alla testuggine. I ludi di guerra ormai erano scaduti nel
gioco “diamo una bella lezione alla Quinta”.
Frank ci vide rosso dalla rabbia. — Movimentiamo un po’ le cose! — esclamò, e sfilò dalla
faretra una freccia più pesante delle altre. La punta di ferro era un cono metallico simile al muso di
un missile. Un sottilissimo cavo d’oro correva lungo l’impennaggio. Scoccarla e farla andare a segno
oltre le mura avrebbe richiesto più forza e abilità di quanto ne avessero la maggior parte degli
arcieri, ma Frank aveva braccia robuste e una buona mira. “Forse Apollo mi sta guardando” si disse
speranzoso.
— Quello a cosa serve? — domandò Percy. — È un arpione?
— Si chiama “freccia idra” — rispose Frank. — Puoi far saltare i cannoni?
Un difensore comparve sulle mura. — Ehi! — gridò ai compagni. — Guardate qui, altre vittime!
— Percy, questo sarebbe il momento ideale — disse Frank.
Altri ragazzi si affacciarono alle merlature per prenderli in giro. Alcuni corsero al cannone ad
acqua più vicino e lo puntarono su Frank.
Percy chiuse gli occhi e alzò la mano.
Dal forte, qualcuno gridò: — Con tutt’e due le braccia, sfigati!
BOOOM!
Il cannone esplose con uno scoppio di azzurro, verde e bianco. L’onda d’urto scaraventò i
difensori urlanti contro le merlature. Qualcuno cadde giù dalle mura, ma venne afferrato al volo dalle
aquile giganti e portato in salvo. Poi l’intero muro orientale tremò, con l’esplosione che si diramava
attraverso le tubature. Uno dopo l’altro, i cannoni ad acqua scoppiarono, inondando le baliste e i loro
proiettili di fuoco. I difensori si sparpagliarono nel caos o furono scaraventati in aria, dando un bel
da fare alle aquile di soccorso. Al cancello principale, la Quinta Coorte abbandonò la testuggine e
calò gli scudi per osservare perplessa la confusione generale.
Frank scoccò la sua freccia. Il missile filò dritto verso l’alto, portandosi dietro il suo cavo
scintillante. Quando fu in cima alle mura, la punta di metallo si infranse in una dozzina di cavi più
piccoli, che si avvolsero intorno a qualunque cosa si trovasse nel loro raggio d’azione: parti delle
mura, una balista, un cannone spezzato e un paio di difensori, che strillarono e finirono contro le
merlature, a mo’ di ancore. Lungo il robusto cavo principale, a intervalli di mezzo metro l’una
dall’altra, si aprirono delle maniglie: una scaletta pronta all’uso.
— Andate! — esclamò Frank.
Percy sorrise. — Prima tu. È la tua festa, bello.
Frank esitò. Poi si lanciò l’arco sulle spalle e cominciò a salire. Quando i difensori si ripresero e
corsero a dare l’allarme, era già a metà strada.
— Allora? — gridò Frank. — Attaccate!
Gwen fu la prima a riaversi dallo shock. Sorrise e ripeté l’ordine. Un grido di esultanza salì dal
campo di battaglia. Annibale barrì di gioia, ma per Frank non era il momento di godersi la scena.
Arrivato in cima alle mura, trovò tre avversari che stavano cercando di buttare giù la sua scaletta.
Frank era come una gigantesca palla da bowling corazzata, l’unica cosa buona dell’essere grossi,
goffi e rivestiti di metallo. Si lanciò sui difensori, che caddero come birilli. Poi si rialzò e prese il
comando delle merlature, mettendo i nemici fuori uso con il suo pilum. Alcuni provarono a colpirlo
con le frecce, altri tentarono di prenderlo in contropiede con la spada, ma Frank era inarrestabile.
D’un tratto Hazel comparve al suo fianco, roteando la spatha come se non fosse nata per fare
altro.
Percy superò le mura con un salto e sollevò Vortice. — Fantastico! — gridò.
E insieme spazzarono via tutti i difensori delle mura. Sotto di loro, la porta si squarciò. Annibale
entrò come un carro armato nel forte, mentre i sassi e le frecce rimbalzavano impotenti sulla sua
armatura antiproiettile.
La Quinta Coorte si riversò all’interno dopo l’elefante, e si passò a combattere corpo a corpo.
Allora, finalmente, dai margini del Campo Marzio salì un grido di battaglia. La Terza e la Quarta
Coorte corsero a tuffarsi nella mischia.
— Un po’ tardi — brontolò Hazel.
— Non possiamo permettere che siano loro a prendere le insegne — replicò Frank.
— No — concordò Percy. — Sono nostre!
Non fu necessario dire altro. Si mossero come una squadra, quasi combattessero insieme da anni.
Imboccarono le scale che conducevano dentro e si precipitarono nella base nemica.
FRANK
A quel punto, la battaglia era degenerata in una baraonda generale.
Frank, Percy e Hazel si fecero largo tra i nemici, abbattendo chiunque intralciasse loro il
cammino. La Prima e la Seconda Coorte – l’orgoglio del Campo Giove, macchine da guerra rodate e
disciplinate – si sgretolarono sotto l’assalto e lo sconcerto di trovarsi per la prima volta nel ruolo
dei perdenti.
Parte del loro problema era Percy. Si batteva come un demonio, roteando tra le fila nemiche in
uno stile del tutto fuori dagli schemi, menando fendenti anziché stoccate con la sua spada, stordendo
gli avversari con il piatto della lama e seminando il panico. Ottaviano strepitava con voce stridula –
forse per ordinare alla Prima Coorte di tenere la posizione, forse per esercitarsi come soprano – ma
ci pensò Percy a farlo smettere, scavalcando con un balzo una sfilza di scudi e mollandogli una
sonora botta sull’elmo con il pomello dell’elsa. Il centurione crollò come una bambola di pezza.
Frank scoccò frecce finché non ebbe la faretra vuota, usando punte arrotondate che non
uccidevano nessuno, ma lasciavano dei brutti lividi. Spezzò il pilum sulla testa di un difensore, e
solo allora con riluttanza estrasse il gladius.
Nel frattempo, Hazel salì in groppa ad Annibale e partì alla carica verso il centro del forte,
sorridendo ai due amici. — Andiamo, lumache!
“Dei dell’Olimpo, quanto è bella!” pensò Frank.
Corsero fino al cuore della base, trovandolo praticamente indifeso. La Prima e la Seconda Coorte
non avevano neanche lontanamente immaginato che un attacco potesse giungere fino quel punto.
Annibale abbatté le porte. Dentro, i due vessilliferi erano seduti intorno a un tavolo a giocare con le
carte e le statuine di Mitomagia. Le insegne erano appoggiate distrattamente a un muro.
All’ingresso di Hazel e Annibale, i due poveretti caddero dalle sedie. L’elefante non si fermò
neanche di fronte al tavolo, sparpagliando ovunque i pezzi del gioco.
Quando il resto della coorte li raggiunse, Percy e Frank avevano già disarmato i nemici e afferrato
le insegne, ed erano saliti in groppa ad Annibale insieme a Hazel. Marciarono fuori dalla stanza
tenendo in trionfo i colori nemici.
La Quinta Coorte formò le fila, e insieme uscirono in parata dal forte, passando di fronte agli
avversari sbigottiti e alle schiere ugualmente stupefatte degli alleati.
Reyna volteggiava bassa nel cielo con il suo pegaso. — Abbiamo un vincitore! — Annunciò, con
il tono di chi si sta sforzando di non ridere. — Adunata! Rendiamo gli onori!
Lentamente, tutti si raggrupparono sul Campo Marzio.
Frank vide una miriade di feriti lievi – bruciature, ossa rotte, occhi neri, tagli e squarci, più un
vasto assortimento di nuove acconciature causate dal fuoco e dallo scoppio dei cannoni ad acqua –
ma niente di irrimediabile. Scivolò giù dall’elefante. I compagni lo circondarono a frotte,
riempiendolo di pacche sulle spalle e complimenti. Gli sembrava un sogno. Era la serata migliore
della sua vita… finché non vide Gwen.
— Aiuto! — gridò qualcuno.
Un paio di soldati corsero fuori dal forte, trasportando una ragazza su una barella. La posarono a
terra, e gli altri ragazzi cominciarono ad accorrere. Anche da lontano, Frank riconobbe Gwen. Era
distesa su un fianco, con un pilum che spuntava dall’armatura: sembrava quasi che lo tenesse infilato
sottobraccio, solo che c’era un po’ troppo sangue.
Scosse la testa incredulo. — No, no, no… — mormorò mentre correva da lei.
I medici gridavano a tutti di farsi da parte e lasciarla respirare. L’intera legione ammutolì mentre i
guaritori erano al lavoro, cercando di fermare il sangue con le garze e la polvere di unicorno,
infilandole a forza del nettare in bocca.
Gwen non si muoveva. Il suo volto era cinereo.
Alla fine, uno dei medici sollevò lo sguardo verso Reyna e scosse la testa.
Per un attimo, si sentì solo lo sgocciolio dell’acqua dei cannoni lungo le mura del forte. Annibale
strofinò la punta della proboscide sui capelli di Gwen.
Reyna scrutò i presenti dall’alto del pegaso, con espressione dura e cupa. — Ci sarà un’inchiesta.
Chiunque abbia fatto questo, ha causato alla legione la perdita di un buon ufficiale. Morire con onore
è un conto, ma questo…
Frank non era sicuro di cosa intendesse dire. Poi notò i segni incisi sull’asta di legno del pilum:
COHORS I LEGIO XII. L’arma apparteneva alla Prima Coorte, e la punta della lancia sbucava dal petto
dell’armatura. Gwen era stata trafitta di spalle, probabilmente dopo la fine dei ludi.
Con lo sguardo, Frank cercò Ottaviano. Il centurione osservava la scena con più interesse che
preoccupazione, come se stesse esaminando uno dei suoi stupidi orsetti sventrati; non aveva il pilum.
Frank si sentì salire il sangue alle orecchie. Avrebbe voluto strangolare l’augure a mani nude, ma in
quello stesso istante Gwen sussultò, inalando una grossa boccata d’aria.
Tutti si fecero indietro.
Gwen aprì gli occhi e le tornò il colore sul viso. — Ch-che c’è? — Strizzò le palpebre. — Perché
mi fissate tutti? — Non sembrava accorgersi dei due metri di lancia che le spuntavano dal petto.
Alle spalle di Frank, un medico sussurrò: — Impossibile. Era morta.
Gwen cercò di mettersi a sedere, ma non ci riuscì. — C’era un fiume, e un tizio mi ha chiesto…
una moneta? Mi sono voltata, e l’uscita era aperta. Così… be’, me ne sono andata. Non capisco.
Cos’è successo?
Tutti la guardavano inorriditi. Nessuno cercava di aiutarla.
— Gwen… — Frank si inginocchiò al suo fianco. — Non cercare di alzarti. Chiudi gli occhi per
un secondo, va bene?
— Perché? Cosa…?
— Fidati di me.
Gwen obbedì.
Frank afferrò l’asta del pilum sotto la punta, ma gli tremavano le mani. Il legno era scivoloso. —
Percy, Hazel… aiutatemi.
Uno dei medici si rese conto delle sue intenzioni. — Non farlo! — esclamò. — Rischi…
— Cosa? — lo fulminò Hazel. — Di peggiorare le cose?
Frank trasse un respiro profondo. — Tenetela ferma. Uno, due, tre! — Con uno strattone, estrasse
il pilum.
Gwen non trasalì nemmeno. Il sangue si fermò in fretta.
Hazel si chinò a esaminare la ferita. — Si sta chiudendo da sola. Non so come, ma…
— Mi sento bene — protestò Gwen. — Cos’avete tutti da preoccuparvi?
Con l’aiuto di Frank e Percy, si rialzò. Frank lanciò un’occhiataccia a Ottaviano, ma il volto
dell’augure era una maschera di preoccupazione. “Dopo” pensò Frank. “Lo sistemerai dopo.”
— Gwen… — cominciò Hazel in tono gentile. — Non so come dirtelo, ma… eri morta. E in
qualche modo sei tornata.
— Io… cosa? — La ragazza barcollò, appoggiandosi a Frank. Si passò la mano sullo squarcio
nell’armatura. — Come…?
— Bella domanda. — Reyna si voltò verso Nico, che osservava cupo la scena dai margini della
folla. — C’è forse Plutone di mezzo?
Nico scosse la testa. — Plutone non permette a nessuno di tornare dal regno dei morti. — Lanciò
un’occhiata a Hazel, come per intimarle di tacere.
Frank si chiese cosa ci fosse sotto, ma non ebbe il tempo di fermarsi a riflettere.
Una voce tonante dilagò per tutto il campo: — La Morte sta perdendo il suo controllo. Questo è
soltanto l’inizio!
Tutti sguainarono le armi. Annibale barrì innervosito. Scipione si impennò, quasi disarcionando
Reyna.
— Conosco questa voce — disse Percy. Non sembrava contento.
Nel bel mezzo della legione esplose una colonna di fuoco. Il calore scottò le ciglia di Frank. I
ragazzi ancora fradici dell’acqua dei cannoni si ritrovarono con i vestiti asciutti in un istante. Tutti si
fecero indietro spaventati, mentre un soldato enorme usciva dall’esplosione.
Frank non aveva molti peli, ma quelli che aveva gli si drizzarono tutti. Il soldato era alto tre metri
e indossava l’uniforme mimetica da deserto dell’esercito canadese. Irradiava sicurezza e potere. I
capelli neri erano tagliati molto corti, con la parte superiore a spazzola, come quelli di Frank. Il
volto era spigoloso e rozzo, segnato da vecchie cicatrici di coltello. Gli occhi erano nascosti dietro
un paio di occhiali a infrarossi che brillavano di una luce interna. Era armato di pistola, coltello e
bombe a mano, tutti custoditi nei foderi della cintura. In mano stringeva un gigantesco fucile d’assalto
M16.
La cosa peggiore era che Frank si sentiva attirato verso di lui. Mentre gli altri arretravano, il
ragazzo si fece avanti. Si rese conto che il soldato, in silenzio, gli stava ordinando di avvicinarsi.
Avrebbe voluto disperatamente scappare a nascondersi, ma non ci riusciva. Fece altri tre passi, poi
si inginocchiò.
Tutti seguirono il suo esempio. Perfino Reyna smontò da cavallo.
— Bravi così — commentò il soldato. — Fate bene a inginocchiarvi. Era da molto tempo che non
facevo visita al Campo Giove.
Frank notò che c’era solo una persona ancora in piedi.
Percy Jackson, con la spada in pugno, guardava con occhi torvi il soldato gigantesco. — Tu sei
Ares! Che cosa vuoi?
Duecento ragazzi e un elefante restarono a bocca aperta. Frank avrebbe voluto dire qualcosa per
scusare l’impertinenza di Percy e placare il dio, ma non sapeva cosa; temeva che l’amico sarebbe
stato spazzato via da una raffica di M16.
Invece il dio scoprì i denti in un sorriso dal candore abbagliante. — Hai fegato, semidio —
replicò. — Ares è la mia forma greca. Ma per questi miei seguaci, per i figli di Roma, io sono Marte,
protettore dell’impero, padre divino di Romolo e Remo.
— Noi ci siamo già incontrati — disse Percy. — Abbiamo… abbiamo combattuto…
Il dio si grattò il mento, come per sforzarsi di ricordare. — Combatto contro un sacco di gente.
Ma te l’assicuro, non ti sei mai battuto contro di me nelle mie vesti di Marte. O saresti già morto.
Ora, inginocchiati, come si addice a un figlio di Roma, prima di mettere a dura prova la mia
pazienza.
Intorno ai piedi di Marte, il terreno ribollì in un cerchio di fiamme.
— Percy, ti prego — mormorò Frank.
Percy non lo fece con piacere, ma obbedì.
Marte scrutò la folla. — Amici, Romani, concittadini, prestatemi orecchio! — Scoppiò in una
risata forte, piena di calore, così contagiosa che Frank per poco non sorrise, anche se tremava ancora
di paura. — Ah, Shakespeare! Avevo sempre desiderato dirlo. Ma torniamo al punto. Vengo
dall’Olimpo con un messaggio. A Giove non piace che comunichiamo direttamente con i mortali,
soprattutto di questi tempi, ma ha accordato questa eccezione, poiché voi Romani siete sempre stati il
mio popolo speciale. Posso parlare solo per pochi minuti, perciò ascoltate bene. — Indicò Gwen. —
Lei dovrebbe essere morta, e non lo è. I mostri contro cui combattete non fanno più ritorno nel
Tartaro, una volta uccisi. Alcuni mortali defunti da tempo ora camminano di nuovo sulla terra.
Era l’immaginazione di Frank, o il dio aveva lanciato un’occhiataccia a Nico Di Angelo?
— Thanatos è stato messo in catene — annunciò Marte. — Le Porte della Morte sono state aperte
con la forza, e nessuno le governa più – o almeno non in modo imparziale. Gea permette ai nostri
nemici di riversarsi nel mondo dei mortali. I giganti suoi figli stanno radunando un esercito contro di
voi, un esercito che non sarete in grado di sconfiggere. Se Thanatos non verrà affrancato dalle sue
catene e non ritornerà ai suoi doveri, sarete schiacciati. Dovete trovarlo e liberarlo dai giganti. Solo
lui può rovesciare il corso di questa marea. — Marte si guardò intorno e notò che tutti erano ancora
inginocchiati. — Oh, potete alzarvi, adesso. Domande?
Reyna si alzò, un po’ imbarazzata. Si avvicinò al dio, seguita da Ottaviano, che strisciava e si
inchinava come un leccapiedi di professione. — Divino Marte, siamo onorati — esordì Reyna.
— Più che onorati — rincarò Ottaviano. — Molto più che onorati…
— E allora? — sbottò Marte.
— Allora… Thanatos è il dio della morte, il braccio destro di Plutone, vero? — chiese Reyna.
— Esatto — confermò il dio.
— E lei ha detto che è stato catturato dai giganti.
— Esatto.
— E per questo la gente non muore più, giusto?
— Non tutti, non da subito — chiarì Marte. — Ma le barriere tra la vita e la morte continueranno
a indebolirsi. Coloro che sanno come trarre vantaggio dalla situazione la sfrutteranno. I mostri sono
già più difficili da eliminare. Presto saranno del tutto impossibili da uccidere. Alcuni semidei
potrebbero perfino trovare la via per tornare dagli Inferi, come la vostra amica, il centurione Shish
Kebab.
Gwen trasalì. — Centurione Shish Kebab?
— Se non si pone rimedio, perfino per i mortali alla fine sarà impossibile morire — proseguì
Marte. — Riuscite a immaginare un mondo in cui non muore nessuno?
Ottaviano alzò una mano. — Ma… ehm… possente e potentissimo divino Marte, se non possiamo
morire, non è una buona cosa? Se possiamo vivere in eterno…?
— Non essere stupido, ragazzo! — tuonò Marte. — Massacri infiniti, senza nessuna conclusione?
Carneficine inutili? Nemici che risorgono in continuazione, impossibili da uccidere? È questo che
vuoi?
— Tu sei il dio della guerra — intervenne Percy. — Non ti piacerebbe una carneficina senza fine?
La luce dietro gli occhiali a infrarossi di Marte brillò con più forza. — Insolente, eh? In effetti, è
possibile che noi due ci siamo scontrati. Non faccio fatica a comprendere perché io volessi
ammazzarti. Sono il dio di Roma, ragazzino. Sono il dio del potere militare usato per una giusta
causa. Proteggo le legioni. Sono felice di schiacciare i miei nemici, ma non combatto senza una
ragione. Non desidero una guerra senza fine. E tu lo scoprirai, perché sarai al mio servizio.
— Ci credo poco — replicò Percy.
Di nuovo, Frank si aspettò che il dio lo fulminasse.
Invece Marte sorrise, come se lui e Percy fossero due vecchi amici che si prendevano a male
parole per scherzo. — Ordino una grande ed eroica impresa! — annunciò. — Andrete a nord a
cercare Thanatos, nella terra oltre gli dei. Lo libererete e sventerete il piano dei giganti. Fate
attenzione a Gea! E fate attenzione a suo figlio, il gigante più anziano!
Accanto a Frank, Hazel emise un gemito soffocato. — Nella terra oltre gli dei?
Marte abbassò lo sguardo su di lei, stringendo la presa sul fucile. — Esatto, Hazel Levesque. E tu
sai che cosa intendo. Tutti qui ricordano la terra in cui la legione ha perso l’onore. Forse, se la
missione avrà successo, e se ritornerete in tempo per la Festa della Fortuna… forse allora il vostro
onore sarà ristabilito. Se non ce la farete, non ci sarà più nessun campo al quale ritornare. Roma sarà
rasa al suolo, il suo retaggio perso per sempre. Perciò il mio consiglio è questo: non fallite.
Ottaviano in qualche modo riuscì a fare un inchino ancora più profondo. — Ehm… divino Marte,
mi lasci dire soltanto una cosa. Un’impresa eroica richiede una profezia, un poesia mistica che possa
farci da guida. Un tempo le ricavavamo dai Libri Sibillini, ma ora spetta all’augure interpretare il
volere degli dei. Perciò, se solo mi lasciasse correre a prendere un po’ di animaletti di peluche e un
coltello…
— Tu sei l’augure? — lo interruppe il dio.
— S-sì, mio signore.
Marte si sfilò una pergamena dalla cintura. — Qualcuno ha una penna?
I legionari lo guardarono perplessi.
Marte sospirò. — Duecento Romani, e nessuno ha una penna? Ah, lasciamo perdere! — Si mise il
fucile in spalla e tirò fuori una bomba a mano, provocando diversi strilli terrorizzati. Poi la bomba si
trasformò in una penna a sfera, e Marte si mise a scrivere.
Frank guardò Percy con gli occhi sgranati e mimò con le labbra: “Anche la tua spada può
diventare una bomba?”
Percy replicò con lo stesso sistema: “No. Chiudi il becco.”
— Ecco qua! — Marte finì di scrivere e lanciò la pergamena a Ottaviano. — Una profezia. Puoi
aggiungerla ai tuoi libri, scolpirla nel pavimento, come pare a te.
L’augure lesse il messaggio. — “Andate in Alaska. Trovate Thanatos e liberatelo. Tornate entro il
tramonto del 24 giugno o morirete.”
— Sì — confermò Marte. — È tutto chiaro?
— Be’, mio signore, al contrario… di solito le profezie non sono chiare. Sono piene di enigmi.
Sono scritte in rima e…
Marte si sfilò un’altra granata dalla cintura, come se niente fosse. — Sì?
— La profezia è chiara! — annunciò Ottaviano. — Un’impresa eroica!
— Perfetto. — Marte si picchiettò il mento con la granata. — Ora, che altro? C’era qualcos’altro
che dovevo… Oh, sì! — Si voltò verso Frank. — Vieni qui, figliolo.
“No” pensò Frank. Il legno che teneva nella tasca gli sembrò all’improvviso più pesante. Si
sentiva le gambe di gelatina. Un senso di terrore lo invase, più del giorno in cui l’ufficiale
dell’esercito si era presentato alla sua porta. Sapeva cosa stava per succedere, ma non poteva
impedirlo. Si fece avanti suo malgrado.
Marte sorrise. — Hai preso le mura, ragazzo. Ottimo lavoro. Chi è l’arbitro del gioco?
Reyna alzò la mano.
— Hai visto com’è andata, arbitro? — domandò Marte. — Mio figlio! Il primo a superare le
mura, vincitore per la sua squadra. Perciò, a meno che tu non sia cieca, riconoscerai che è stato il
giocatore migliore in campo. E tu non sei cieca, vero?
Reyna aveva l’aria di una che stesse ingoiando un topo. — No, divino Marte.
— Allora vedi di fare in modo che riceva la Corona Muralis — ordinò il dio. — Mio figlio, il
mio ragazzo! — urlò all’intera legione, nel caso qualcuno non l’avesse sentito.
Frank avrebbe voluto dissolversi.
— Il figlio di Emily Zhang — continuò Marte. — Era una brava combattente, una donna in gamba.
E questo ragazzo ha dimostrato il suo valore, stasera. Buon compleanno, figliolo. Anche se un po’ in
ritardo. È ora di passare a un’arma da vero uomo. — E gli lanciò il suo M16.
Per una frazione di secondo, Frank pensò che il peso di quell’enorme fucile d’assalto lo avrebbe
schiacciato, ma a mezz’aria l’arma cambiò, diventando più piccola e sottile. Quando finalmente la
prese, si era trasformata in una lancia, con l’asta d’oro imperiale e una strana punta simile ad avorio,
che scintillava di luce spettrale.
— La punta è un dente di drago — spiegò Marte. — Non hai ancora imparato a usare i talenti di
tua madre, vero? Be’, fino ad allora questa lancia ti darà un po’ d’aiuto. Hai solo tre cariche a
disposizione, perciò usale saggiamente. — Frank non capì, ma per Marte la faccenda sembrava
chiusa. — Mio figlio, Frank Zhang, condurrà la missione per liberare Thanatos. Ci sono obiezioni?
Naturalmente, nessuno disse una parola. Ma molti dei ragazzi guardarono Frank con invidia,
gelosia, rabbia, amarezza.
— Puoi portare due compagni con te — continuò Marte. — Così dicono le regole. E uno dovrà
essere questo pivello. — Indicò Percy. — Imparerà un po’ di rispetto per Marte durante il viaggio, a
costo di lasciarci la pelle. Quanto al secondo compagno, non mi importa. Scegli chi ti pare, figliolo.
Fate uno dei vostri dibattiti in Senato. Siete così bravi. — L’immagine del dio tremolò. Un fulmine
lampeggiò nel cielo. — Il segnale! — esclamò Marte. — Ci vediamo, Romani. Non deludetemi! — Il
dio esplose in una fiammata, e un attimo dopo era svanito.
Reyna si voltò verso Frank con un’espressione a metà tra lo stupore e il disgusto, come se
finalmente fosse riuscita a inghiottire quel topo. Alzò il braccio nel saluto romano. — Ave, Frank
Zhang, figlio di Marte.
L’intera legione seguì il suo esempio, ma Frank non desiderava più quelle attenzioni. La sua serata
perfetta era stata rovinata.
Suo padre – Marte, il dio della guerra – lo stava mandando in Alaska. Frank aveva appena
ricevuto molto più di una lancia per il compleanno. Quella era una condanna a morte.
PERCY
Percy dormì come una vittima di Medusa, ovvero come un sasso.
Non passava la notte su un letto comodo e sicuro da… be’, non riusciva neanche a ricordarlo.
Nonostante la giornata folle e il milione di pensieri che gli si accavallavano nella testa, il suo corpo
prese il sopravvento e gli ordinò: “Adesso dormi.”
Sognò, naturalmente. Sognava sempre, ma stavolta fu come vedere le immagini sfocate che
scorrono sul finestrino di un treno in corsa. Vide un fauno con i capelli ricci e i vestiti stracciati che
correva cercando di raggiungerlo.
— Non ho spiccioli — gridò Percy, nel sogno.
— No, Percy. Sono io, Grover! — replicò il fauno. — Resta dove sei! Stiamo per arrivare, ti
abbiamo quasi trovato. Tyson è vicino, o almeno pensiamo che sia lui quello più vicino. Stiamo
cercando di localizzarti.
— Che dici? — urlò Percy, ma il fauno scomparve nella nebbia.
Poi Annabeth correva al suo fianco, tendendo la mano. — Grazie agli dei! — gridò. — È una vita
che non ti vediamo! Stai bene?
Percy ricordò le parole di Giunone: «È rimasto assopito per mesi, ma ora si è svegliato.» La dea
lo aveva tenuto nascosto di proposito, ma perché?
— Sei reale? — chiese ad Annabeth. Voleva crederci così tanto che si sentiva come se Annibale
l’elefante gli fosse salito sul petto.
Ma il volto di Annabeth cominciò a dissolversi, urlando: — Resta dove sei! Tyson ti ritroverà più
facilmente! Resta dove sei! — Un attimo dopo era svanita.
Le immagini accelerarono. Percy vide una grande nave a secco su un molo, operai che lavoravano
alacremente per finire lo scafo, un ragazzo con la fiamma ossidrica che saldava una polena a forma di
testa di drago sulla prua. Poi scorse il dio della guerra andargli incontro sulla battigia, la spada
stretta con tutt’e due le mani.
La scena cambiò. Percy era sul Campo Marzio e scrutava le colline di Berkeley. L’erba dorata si
increspò, e un volto comparve nel paesaggio: una donna addormentata, con i lineamenti formati dalle
ombre e dalle pieghe del terreno.
Gli occhi della donna rimasero chiusi, ma nella mente di Percy risuonò la sua voce: “E così
questo sarebbe il semidio che ha distrutto mio figlio Crono. Non sembri un granché, Percy Jackson,
ma mi sei prezioso. Vieni a nord. Incontra Alcione. Che Giunone faccia pure i suoi giochetti con i
Greci e i Romani. Alla fine, tu sarai la mia pedina. Sarai la chiave per la sconfitta degli dei.”
La visione di Percy si scurì. Ora si trovava in una versione gigante del quartier generale del
campo – i Principia – con le pareti di ghiaccio e una nebbia gelida nell’aria. Il pavimento era
ingombro di scheletri in armatura romana e di armi d’oro imperiale incrostate di ghiaccio. In fondo
alla stanza sedeva una figura enorme e cupa, con la pelle che scintillava d’oro e d’argento, come se
fosse un automa simile ai cani di Reyna. Alle sue spalle, una quantità di insegne rovinate e vessilli
stracciati, più una grande aquila d’oro su un’asta di ferro.
La voce del gigante tuonò nella vastità della sala. — Sarà divertente, figlio di Nettuno. Sono
secoli che non anniento un semidio del tuo calibro. Ti aspetto in cima al ghiacciaio.
Percy si svegliò con i brividi. Per un attimo non capì dove si trovava, poi ricordò: il Campo
Giove, gli alloggi della Quinta Coorte. Rimase disteso nel letto a fissare il soffitto, cercando di
controllare il battito del cuore.
Un gigante d’oro lo stava aspettando per annientarlo. Magnifico. Ma il volto della donna
addormentata sulle colline lo inquietava ancora di più, insieme alle sue parole: «Sarai la mia
pedina.» Percy non giocava mai a dama o a scacchi, ma era piuttosto sicuro che essere una pedina
non fosse una bella cosa. Anche nel migliore dei casi, finivano quasi sempre tutte mangiate.
Persino le parti più amichevoli del sogno lo turbavano. Un fauno di nome Grover lo stava
cercando. Forse era per questo che Don aveva percepito un – come l’aveva chiamato? – un “legame
empatico”. Anche qualcuno di nome Tyson lo stava cercando, e Annabeth lo aveva pregato di restare
dov’era.
Percy si drizzò a sedere. I suoi compagni di alloggio erano già in piedi e indaffarati, chi a vestirsi,
chi a lavarsi i denti. Dakota si stava avvolgendo in un lungo telo macchiato di rosso: una toga. Un
Lare gli stava dando dei suggerimenti su dove piegare e rimboccare la stoffa.
— È ora di colazione? — chiese Percy, speranzoso.
La testa di Frank spuntò dal letto sopra il suo. Aveva le borse sotto gli occhi, come se non avesse
dormito bene. — Una colazione rapida, però. Dopo abbiamo la seduta del Senato.
Dakota era rimasto con la testa impigliata nella toga. Se ne andava in giro brancolando alla cieca
come un fantasma.
— Ehm… Devo mettermi le lenzuola? — domandò Percy.
Frank sbuffò. — La toga è solo per i senatori. Ce ne sono dieci, eletti ogni anno. Ci vogliono
cinque anni di campo per essere candidabili.
— E allora perché siamo invitati alla seduta?
— Perché… be’, sai… l’impresa eroica. — Frank sembrava preoccupato, come se avesse paura
che Percy potesse tirarsi indietro. — Dobbiamo essere presenti alla discussione. Cioè, se vuoi…
Frank probabilmente non aveva alcuna intenzione di farlo sentire in colpa, ma Percy ebbe una
stretta al cuore. Il suo nuovo amico gli faceva un po’ pena. Era stato appena riconosciuto dal dio
della guerra di fronte a tutto il campo: un incubo. E poi come poteva dire di no a quel faccione da
bambino imbronciato? A Frank era stato affidato un compito enorme che, con ogni probabilità, lo
avrebbe fatto ammazzare. Era spaventato. Aveva bisogno del suo aiuto.
E lui, Hazel e Frank erano stati davvero una grande squadra, la sera prima. I suoi due amici erano
persone generose e affidabili. Lo avevano accettato come uno della famiglia. Eppure l’idea di quella
missione continuava a non piacergli, soprattutto considerato che arrivava da Marte, e ancora di più
dopo i suoi sogni.
— Io… ehm… è meglio che mi prepari… — Percy scese dal letto e si vestì. Il tutto senza
smettere di pensare ad Annabeth. I soccorsi stavano arrivando. Poteva riavere la sua vita, si disse.
Non doveva fare altro che restare dov’era.
A colazione, si rese conto che tutti lo stavano guardando, bisbigliando commenti sulla sera prima.
— Due dei in un giorno solo…
— Non combatteva come un romano…
— Il cannone ad acqua mi è scoppiato sotto il naso…
Ma aveva troppa fame per badarci. Si rimpinzò di frittelle, uova, bacon, cialde, mele e diversi
bicchieri di succo d’arancia. E avrebbe anche continuato, ma Reyna annunciò che il Senato si
sarebbe riunito subito in città, e tutti quelli che indossavano la toga si alzarono, pronti a partire.
— Ci siamo. — Hazel giocherellava con una pietra che somigliava tanto a un rubino da due carati.
Il fantasma di Vitellio comparve in uno scintillio violaceo. — Bona fortuna, voi tre! Ah, le sedute
del Senato. Ricordo ancora quella in cui fu assassinato Cesare. Diamine, la sua toga era così
insanguinata che…
— Grazie, Vitellio — lo interruppe Frank. — Dobbiamo andare.
Reyna e Ottaviano condussero fuori la fila di senatori, con i due levrieri di metallo che
sfrecciavano avanti e indietro lungo la via. Hazel, Frank e Percy si accodarono agli altri.
Percy notò che pure Nico Di Angelo faceva parte del gruppo. Indossava una toga nera e parlava
con Gwen, che sembrava un po’ pallida ma incredibilmente in salute, per essere morta soltanto la
sera prima. Nico salutò Percy con la mano e poi tornò alla sua conversazione, lasciandolo sempre
più convinto che stesse cercando di evitarlo.
Dakota procedeva inciampando sulla toga macchiata di rosso, e anche altri senatori sembravano
avere qualche problema con la veste ufficiale: se la tiravano sulle spalle in continuazione.
Percy era felice di indossare una normalissima maglietta e un paio di jeans. — Come facevano i
Romani a muoversi con quegli affari? — chiese.
— Indossavano la toga solo nelle occasioni ufficiali — rispose Hazel. — Un po’ come lo smoking
di oggi. Scommetto che la odiavano quanto noi. Comunque, non hai armi con te, vero?
Percy si appoggiò la mano sulla tasca, dove c’era la sua penna. — Perché? Non si può?
— No. Non si possono portare armi oltre la linea del pomerium.
— Oltre la che?
— La linea del pomerium. I confini della città, oltrepassati i quali il suolo è considerato sacro,
una zona sicura — spiegò Frank. — Alle legioni non è consentito entrare. Tutte le armi sono vietate.
Questo per evitare che si versi sangue durante le sedute del Senato.
— Come per l’assassinio di Giulio Cesare? — osservò Percy.
Frank annuì. — Non ti preoccupare. Sono mesi che non succede niente del genere.
Percy si augurò che scherzasse.
Man mano che si avvicinavano, poté apprezzare quanto fosse bella la città. I tetti di tegole e le
cupole dorate scintillavano al sole. I giardini traboccavano di rose e caprifogli. La piazza principale
era pavimentata di pietre grigie e bianche e ornata di statue, fontane e colonne dorate. Nei quartieri
circostanti, le strade lastricate costeggiavano case dipinte di fresco, botteghe, caffè e parchi. In
lontananza sorgevano l’anfiteatro e l’arena dell’ippodromo.
Percy non si accorse di avere raggiunto i limiti della città finché i senatori davanti a lui non
cominciarono a rallentare. Sul ciglio della strada c’era una statua di marmo: un uomo muscoloso, a
grandezza naturale ma privo delle braccia, con i capelli ricci e un’espressione infastidita in viso.
Forse era arrabbiato perché l’avevano scolpito solo dalla vita in su. Sotto, era solo un grosso pezzo
di marmo.
— In fila indiana, prego! — esclamò la statua. — Documento di identificazione pronto.
Percy si guardò intorno. Non ci aveva fatto caso prima, ma una fila di statue identiche circondava
la città a intervalli di un centinaio di metri l’una dall’altra.
I senatori passarono tranquillamente. La statua controllò i tatuaggi sulle braccia e li chiamò uno a
uno per nome. — Gwendolyn, senatrice, Quinta Coorte, sì. Nico Di Angelo, ambasciatore di Plutone,
molto bene. Reyna, pretore, naturalmente. Hank, senatore, Terza Coorte… oh, belle scarpe, Hank!
Ah, ma chi abbiamo qui?
Hazel, Frank e Percy erano gli ultimi.
— Terminus, ti presento Percy Jackson — disse Hazel. — Percy, lui è Terminus, il dio dei
confini.
— Nuovo, eh? — osservò il dio. — Sì, vedo la piastrina della probatio. Bene. Ah, hai un’arma in
tasca, eh? Tirala fuori!
Percy ignorava come facesse a saperlo, ma obbedì.
— Molto pericolosa — commentò Terminus. — Lasciala nel vassoio. Aspetta, dov’è la mia
assistente? Julia!
Una bambina sui sei anni sbucò da dietro la base della statua. Aveva i capelli stretti in due codini,
un vestitino rosa e un sorriso da diavoletto, con due denti mancanti.
— Julia? — Terminus lanciò un’occhiata alle proprie spalle, e la bambina sgattaiolò dalla parte
opposta. — Ma dove si è cacciata quella monella? — La statua guardò dall’altra parte e intravide
Julia prima che riuscisse a nascondersi; la bambina squittì contenta. — Oh, eccoti qua! — esclamò
Terminus. — Mettiti subito davanti a me, al centro. Porta il vassoio.
Julia sbucò fuori e si aggiustò il vestito. Raccolse un vassoio e lo piazzò sotto il naso di Percy.
Sopra c’erano diversi coltelli, un cacciavite, un barattolo gigante di lozione solare e una bottiglia
d’acqua.
— Potrai riprenderla all’uscita — disse Terminus. — Julia ne avrà buona cura. È una
professionista.
La bambina annuì. — Pro-fes-sio-ni-sta. — Pronunciò ogni singola sillaba con molta attenzione,
come per esercitarsi.
Percy lanciò un’occhiata a Hazel e Frank, che non sembravano trovarci niente di strano. Lui però
non impazziva all’idea di consegnare un’arma letale a una bambina. — Il fatto è che la penna mi
ritorna automaticamente in tasca — provò a spiegare. — Perciò anche se la lascio qui…
— Non c’è da preoccuparsi — lo rassicurò Terminus. — Faremo in modo che non se ne vada in
giro. Vero, Julia?
— Sì, signor Terminus.
Con riluttanza, Percy mise la penna sul vassoio.
— Ora, qualche regola, visto che sei nuovo — continuò Terminus. — Stai per varcare i confini
della città. Superata la linea, mantieni la pace. Rispetta il traffico delle bighe quando cammini sulle
strade pubbliche. Arrivato al Senato, siediti a sinistra. E laggiù… vedi dove sto indicando?
— Ehm… lei non ha le mani.
A quanto pare, quello era un tasto dolente per Terminus. Il suo volto di marmo si ingrigì. —
Siamo sfacciati, eh? Ti piace prenderti gioco delle regole? Be’, signorino, laggiù, nel foro… Julia,
indica al posto mio, per favore…
Julia mise giù il vassoio, obbediente, e indicò la piazza.
— La bottega con le tende da sole blu… — continuò Terminus. — Quello è l’emporio generale.
Vendono anche i metri a nastro. Compratene uno! Voglio quei pantaloni a due virgola cinque
centimetri esatti sopra le caviglie, e un taglio di capelli regolamentare. E rimboccati la maglietta nei
pantaloni.
Hazel intervenne in soccorso dell’amico. — Grazie, Terminus. Ora dobbiamo andare.
— E va bene, va bene, passate — replicò il dio, stizzito. — Ma tenete la destra! E quella pietra
lì… No, Hazel, guarda dove sto indicando. Quella pietra è decisamente troppo vicina all’albero.
Spostala di cinque centimetri a destra.
Hazel eseguì e finalmente si allontanarono, con Terminus che continuava a gridare ordini e Julia
che faceva la ruota nel prato.
— È sempre così? — domandò Percy.
— No — ammise Hazel. — Oggi era rilassato. Di solito è ancora più nevrotico.
— Dimora in ogni cippo di confine intorno alla città — disse Frank. — Diciamo che è la nostra
ultima linea di difesa, in caso di attacco.
— Non è tanto male — continuò Hazel. — Basta solo non farlo arrabbiare, o ti costringerà a
misurare la lunghezza di ogni singolo stelo d’erba della valle.
Percy archiviò l’informazione. — E quella bambina, Julia?
Hazel sorrise. — Carina, vero? I suoi genitori abitano in città. Muoviamoci, è meglio raggiungere
i senatori.
Avvicinandosi al foro, Percy rimase colpito dalla quantità di gente. Ragazzi poco più grandi di lui
chiacchieravano accanto alla fontana. Diversi salutarono i senatori quando li videro passare. Un tipo
sulla trentina stava al bancone del forno e flirtava con una giovane donna che stava comprando il
caffè. Una coppia più grande teneva d’occhio un bimbetto col pannolino che inseguiva i gabbiani, con
indosso una versione mini della maglietta del campo. I mercanti stavano aprendo bottega, esponendo
insegne in latino che pubblicizzavano ceramiche, gioielli e biglietti a metà prezzo per l’ippodromo.
— Sono tutti semidei? — chiese Percy.
— O discendenti di semidei — confermò Hazel. — Come ti dicevo, è un bel posto per frequentare
l’università o metter su famiglia senza doversi preoccupare dei mostri. Ci saranno forse… due,
trecento persone? I veterani fungono da… diciamo così, consiglieri e riserva in caso di bisogno, ma
perlopiù sono cittadini che vivono la loro vita.
Percy cercò di immaginare che effetto potesse fare: prendere un appartamento in quella piccola
replica di Roma, protetto dalla legione e da Terminus, il dio dei confini affetto da mania ossessivocompulsiva. Si immaginò mano nella mano con Annabeth al caffè. E magari, una volta adulti, mentre
guardavano insieme il loro bambino che inseguiva i gabbiani nella piazza…
Ma scacciò subito quell’idea dalla mente. Non poteva permettersi di indulgere in pensieri del
genere. La maggior parte dei suoi ricordi era svanita, ma sapeva che quel posto non era casa. Lui
apparteneva a un altro luogo, insieme ai suoi amici.
E poi il Campo Giove era in pericolo. Se Giunone aveva ragione, nel giro di cinque giorni ci
sarebbe stato un attacco. Percy ripensò al volto della donna addormentata – il volto di Gea – che si
formava sulle colline del campo. Immaginò orde di mostri che invadevano la vallata.
«Se non ce la farete, non ci sarà più nessun campo al quale ritornare» li aveva messi in guardia
Marte. «Roma sarà rasa al suolo e il suo retaggio perso per sempre.»
Percy pensò a quella bambina, Julia, alle famiglie con figli, ai suoi nuovi amici della Quinta
Coorte, perfino a quei fauni sciocchi. Non voleva neanche immaginare che fine avrebbero fatto se
tutto fosse andato distrutto.
I senatori si diressero verso un grande edificio con la cupola bianca, sul lato occidentale del foro.
Percy si fermò un istante sulla soglia, sforzandosi di non pensare a Giulio Cesare che veniva
accoltellato. Poi trasse un respiro profondo ed entrò, seguendo Hazel e Frank.
PERCY
L’interno del Senato somigliava all’aula magna di un liceo. Un semicerchio digradante di posti a
sedere terminava di fronte a una pedana con un podio e due sedie. Le sedie erano vuote, ma su una di
esse era posato un piccolo involto di velluto.
Percy, Hazel e Frank si sedettero alla sinistra del semicerchio. I dieci senatori e Nico Di Angelo
occuparono il resto della prima fila. Le file superiori si riempirono di diverse dozzine di Lari e di
pochi veterani della città, tutti con indosso la toga da cerimonia. Ottaviano rimase in piedi con un
coltello e un leoncino di peluche, caso mai qualcuno avesse avuto bisogno di consultare il dio dei
pupazzetti da collezione.
Reyna salì sul podio e richiamò l’attenzione dei presenti sollevando una mano. — Bene, questa è
una seduta di emergenza — esordì. — Perciò non baderemo alle formalità.
— Adoro le formalità! — si lamentò un fantasma.
Reyna lo fulminò con lo sguardo. — Innanzitutto, non siamo qui per votare sulla missione in sé —
continuò. — È stata indetta da Marte Ultore, protettore di Roma. Obbediremo alla sua volontà. Né
discuteremo della scelta dei compagni effettuata da Frank Zhang.
— Tutti e tre della Quinta Coorte? — gridò Hank, della Terza. — Non è giusto.
— E non è saggio — aggiunse il ragazzo accanto a lui. — Sappiamo che la Quinta rovinerà tutto.
Dovrebbero farsi accompagnare da qualcuno davvero bravo.
Dakota schizzò in piedi così in fretta che rovesciò la Super Fresh dalla borraccia. — Ce la siamo
cavata bene, ieri sera, quando ti abbiamo fatto il podex, Larry!
— Basta, Dakota! — lo zittì Reyna. — Lasciamo il podex di Larry fuori dalla discussione. Come
capo della missione, Frank ha il diritto di scegliere i propri compagni. E ha scelto Percy Jackson e
Hazel Levesque.
Uno spettro della seconda fila gridò: — Absurdus! Frank Zhang non è neppure un membro a pieno
titolo della legione! È in probatio. Le imprese devono essere guidate dai centurioni o da qualcuno di
rango superiore. È assolutamente…
— Catone — lo folgorò Reyna. — Dobbiamo obbedire ai desideri di Marte Ultore. E questo
comporta alcuni… aggiustamenti. — Batté una volta le mani.
Ottaviano si fece avanti. Posò coltello e pupazzo e raccolse l’involto di velluto dalla sedia. —
Frank Zhang, vieni avanti.
Il figlio di Marte lanciò uno sguardo nervoso a Percy. Poi si alzò e si avvicinò all’augure.
— È con… piacere — cominciò Ottaviano, pronunciando l’ultima parola con un certo sforzo —
che ti consegno la Corona Muralis per essere stato il primo a scavalcare le mura durante i ludi di
guerra. — Diede a Frank un distintivo militare di bronzo, a forma di corona d’alloro. — Inoltre, per
ordine del pretore Reyna, ti promuovo al rango di centurione. — Consegnò a Frank un altro
distintivo, una mezzaluna di bronzo, e in Senato esplosero le proteste.
— È un novellino in probatio!
— Impossibile!
— Mi ha fatto scoppiare il cannone ad acqua sotto il naso!
— Silenzio! — La voce di Ottaviano suonò molto più autorevole della sera prima, sul campo di
battaglia. — Il nostro pretore riconosce che nessuno di rango inferiore a quello di centurione può
essere a capo di una grande impresa. Nel bene o nel male, Frank Zhang deve guidare questa missione,
perciò il nostro pretore ha decretato che debba essere promosso a centurione.
Percy capì tutt’a un tratto quanto fossero grandi le capacità oratorie di Ottaviano. Parlava in tono
pacato e comprensivo, ma il suo viso era addolorato. Aveva scelto con cura le parole in modo che
tutta la responsabilità della scelta cadesse su Reyna. “L’idea è stata sua” sembrava dire.
Se le cose fossero andate male, la colpa sarebbe stata di Reyna. Ah, se al comando ci fosse stato
lui, le cose sarebbero state fatte in modo molto più ragionevole. Ma, ahimè, non aveva altra scelta
che sostenere Reyna, perché lui era un leale soldato romano.
Ottaviano era riuscito a trasmettere tutto questo senza neanche bisogno di dirlo, riuscendo al
tempo stesso a calmare i senatori e a simpatizzare con loro. Per la prima volta, Percy si rese conto
che quel buffo spaventapasseri allampanato poteva essere un nemico pericoloso.
Anche Reyna l’aveva capito. Un lampo di irritazione le attraversò il volto. — Si è liberato un
posto da centurione — disse. — Una dei nostri centurioni, nonché senatrice, ha deciso di ritirarsi;
dopo dieci anni nella legione, si trasferirà in città per frequentare il college. Gwendolyn della Quinta
Coorte, ti ringraziamo per il tuo servizio.
Tutti si voltarono a guardare Gwen, che riuscì a rispondere con un sorriso coraggioso. Sembrava
stanca per le fatiche della sera prima, ma anche sollevata. Percy non poteva darle torto. In confronto
a morire infilzati da un pilum, il college sembrava un’ottima alternativa.
— In qualità di pretore, ho il diritto di designare gli ufficiali — continuò Reyna. — Certo, è
insolito che un giovane in probatio assurga subito al rango di centurione, ma credo che possiamo tutti
concordare sul fatto che… pure la serata di ieri sia stata insolita. Frank Zhang, la tua piastrina, prego.
Frank si sfilò la piastrina dal collo e la passò a Ottaviano.
— Il braccio — ordinò l’augure.
Frank sollevò l’avambraccio. Ottaviano alzò le mani al cielo. — Accettiamo Frank Zhang, figlio
di Marte, nella Dodicesima Legione Fulminata per il suo primo anno di servizio. Giuri di impegnare
la tua vita per il Senato e il popolo di Roma?
Frank farfugliò qualcosa. Poi si schiarì la voce e riuscì a scandire: — Lo giuro.
I senatori gridarono: — Senatus Populusque Romanus!
Un fuoco fiammeggiò sul braccio di Frank. Per un attimo i suoi occhi si riempirono di terrore, e
Percy ebbe paura che svenisse. Poi il fumo e le fiamme si spensero, e nuovi segni furono impressi a
fuoco sulla pelle di Frank: le lettere SPQR, due lance incrociate e una linea, a rappresentare il primo
anno di servizio.
— Ora puoi sederti. — Ottaviano guardò i presenti come a dire: “Non è stata una mia idea,
gente.”
— Adesso dobbiamo discutere della missione — dichiarò Reyna.
I senatori borbottarono scomposti mentre Frank tornava a sedere.
— Ti ha fatto male? — bisbigliò Percy.
Frank si guardò l’avambraccio, che fumava ancora. — Sì. Un sacco. — Sembrava ancora confuso
dai distintivi che stringeva in pugno – quello da centurione e la Corona Muralis – come se non
sapesse bene cosa farsene.
— Vieni qui. — Gli occhi di Hazel brillavano d’orgoglio. — Lascia fare a me. — Appuntò i
riconoscimenti sulla maglietta di Frank.
Percy sorrise. Conosceva quel ragazzo soltanto da un giorno, ma si sentiva ugualmente fiero di lui.
— Te lo meriti, amico — disse. — Ci pensi a quello che hai fatto ieri sera? Hai un talento naturale
per il comando.
Frank aggrottò la fronte. — Ma centurione…?
— Centurione Zhang — lo richiamò Ottaviano. — Hai sentito la domanda?
Frank strizzò gli occhi. — Ehm… scusa. Cosa mi hai chiesto?
Ottaviano si voltò a guardare il Senato con un verso di scherno, come a dire: “Che vi avevo
detto?” — Ti stavo chiedendo se hai un piano per la missione — chiarì Ottaviano, parlando come se
si rivolgesse a un bambino di tre anni. — Almeno sai dove andare?
— Ehm…
Hazel si alzò, poggiando una mano sulla spalla di Frank. — Non stavi prestando ascolto ieri sera,
Ottaviano? Marte è stato molto chiaro. Andremo nella terra oltre gli dei… in Alaska.
I senatori si agitarono nelle toghe. Alcuni fantasmi scomparvero con uno scintillio. Perfino i cani
metallici di Reyna curvarono la schiena e uggiolarono.
Alla fine, il senatore Larry si alzò. — Abbiamo sentito che cos’ha detto Marte, ma è una follia.
L’Alaska è maledetta! Non è un caso che la chiamino “la terra oltre gli dei”. È così a nord che gli dei
romani non vi esercitano alcun potere. Quel posto pullula di mostri. Nessun semidio è tornato vivo
da…
— … da quando avete perso la vostra aquila — concluse Percy.
Larry rimase così spiazzato che ricadde a sedere sul proprio podex.
— Sentite, fu la Quinta Coorte a guidare quella spedizione — continuò Percy. — Fummo noi a
fallire, e nostra dev’essere la responsabilità di rimediare. Ecco perché Marte ci ha scelti. Questo
gigante, il figlio di Gea… fu lui a sconfiggere le vostre forze, trent’anni fa. Ne sono sicuro. Ora se ne
sta seduto lassù, in Alaska, con un dio della morte incatenato, e tutte le vostre vecchie armi. Sta
raccogliendo un esercito, e presto lo manderà ad attaccare il campo.
— Davvero? — commentò Ottaviano. — Sembri conoscere molto bene i piani del nemico, Percy
Jackson.
Percy non aveva nessun problema a ignorare la maggior parte delle offese: potevano dargli del
debole o dello stupido, non gli importava. Ma cominciò a sospettare che Ottaviano lo stesse
accusando di essere una spia, un traditore. Era un concetto così estraneo a lui, così diverso da ciò
che era, che faticava perfino a comprenderlo. Quando ci arrivò, si irrigidì, tendendo le spalle. Fu
tentato di dargli un’altra botta in testa, ma capì che era un tranello: Ottaviano stava cercando di farlo
apparire inaffidabile. Trasse un respiro profondo. — Affronteremo questo figlio di Gea — disse,
senza scomporsi. — Recupereremo la vostra aquila e libereremo il dio in catene… — Lanciò
un’occhiata a Hazel. — Thanatos, giusto?
Lei annuì. — Letus, in latino. Ma il suo nome greco è Thanatos. E quando c’è di mezzo la Morte…
il nome greco ci va benissimo.
Ottaviano sospirò. — Be’, chiamatelo come vi pare… ma come credete di fare tutto questo e
tornare in tempo per la Festa della Fortuna? È la sera del 24. Oggi è già il 20. Sapete dove
cominciare a cercare? Sapete almeno chi è, questo figlio di Gea?
— Sì. — Hazel parlò con una sicurezza tale che perfino Percy ne restò sorpreso. — Non so dove
si trovi esattamente, ma ne ho una vaga idea. Il nome del gigante è Alcione.
La temperatura della stanza sembrò abbassarsi all’improvviso di venti gradi. I senatori
rabbrividirono.
Reyna strinse forte i bordi del podio. — Come fai a saperlo, Hazel? È perché sei figlia di
Plutone?
Nico Di Angelo era rimasto così tranquillo e zitto che Percy si era quasi dimenticato della sua
presenza. In quel momento si alzò, nella sua toga nera. — Pretore, col tuo permesso, prendo la parola
— esordì. — Io e Hazel abbiamo… imparato diverse cose sui giganti, da nostro padre. Ogni gigante
fu generato per opporsi a uno dei dodici dei dell’Olimpo, per usurpare il dominio di ciascuno di
loro. Il re dei giganti era Porfirio, nemico giurato di Giove. Ma il gigante più anziano era Alcione,
nato per opporsi a Plutone. Ecco perché sappiamo della sua esistenza in particolare.
Reyna aggrottò la fronte. — Davvero? Mi pare che lo conosciate piuttosto bene, da come ne parli.
Nico giocherellò con il bordo della toga. — Comunque… i giganti furono difficili da uccidere.
Secondo la profezia, potevano essere sconfitti solo dagli dei e dai semidei insieme.
Dakota ruttò. — Scusa, hai appena detto dei e semidei? Nel senso di combattere fianco a fianco?
Impossibile!
— Ma è già successo — replicò Nico. — Nella prima guerra contro i giganti, gli dei chiesero
l’intervento degli eroi e vinsero. Non so se questo sia di nuovo possibile. Ma quanto ad Alcione…
lui era diverso. Era immortale, impossibile da uccidere per mano divina o semidivina, finché
rimaneva nel suo territorio, il luogo in cui era nato. — Nico fece una pausa, perché tutti afferrassero
bene il concetto. — E se Alcione è rinato in Alaska…
— Allora non potrà essere sconfitto là — concluse Hazel. — Mai. In nessun modo. Ed è per
questo che la nostra spedizione degli anni Ottanta era destinata a fallire.
Esplose un nuovo coro di discussioni e proteste.
— Questa missione è impossibile! — gridò un senatore.
— Siamo spacciati! — esclamò uno spettro.
— Versatemi dell’altro Super Fresh — strillò Dakota.
— Silenzio! — sbottò Reyna. — Senatori, comportiamoci da Romani. Marte ci ha assegnato
questa missione, e noi dobbiamo credere che sia possibile. Questi tre semidei dovranno raggiungere
l’Alaska. Dovranno liberare Thanatos e tornare prima della Festa della Fortuna. E se in tutto questo
riusciranno anche a recuperare la nostra aquila, tanto meglio. Noi non possiamo fare altro che
consigliarli e accertarci che abbiano un piano. — Reyna guardò Percy, senza molta speranza. —
Avete un piano?
Percy avrebbe tanto voluto rispondere chiaro e tondo: “No, non ce l’abbiamo!” perché era la
verità. Ma, guardando tutti quei volti tesi, capì che non poteva. — Prima devo capire una cosa. — Si
rivolse a Nico: — Pensavo che Plutone fosse il dio dei morti. Ora invece spunta fuori questo altro
tizio, Thanatos, e ci sono pure le Porte della Morte di quella profezia, come si chiama… la Profezia
dei Sette. Che significa?
Nico trasse un respiro profondo. — Dunque, Plutone è il dio degli Inferi, ma il vero dio della
morte, il dio che si assicura che le anime vadano nell’oltretomba e ci restino… quel dio è il braccio
destro di Plutone, Thanatos. È un po’ come… ecco, immagina che la vita e la morte siano due paesi
diversi. Tutti vorrebbero abitare nella vita, giusto? Perciò tra i due paesi esiste un confine di
sbarramento, che impedisce alle anime di fare ritorno senza permesso. Solo che questo confine è
enorme, e ci sono un sacco di varchi. Plutone cerca di chiudere le falle, ma continuano a spuntarne di
nuove. Per questo lavoro quindi si affida a Thanatos, che ha il compito di controllare il confine.
— Perciò, se ho capito bene, Thanatos è quello che cattura le anime e le riporta negli Inferi…
giusto? — domandò Percy.
— Esatto — confermò Nico. — Ma ora Thanatos è stato catturato e messo in catene.
Frank alzò la mano. — Ma come si fa a incatenare la Morte?
— Non è la prima volta che capita — rispose Nico. — Nell’antichità, un uomo di nome Sisifo
ingannò Thanatos e lo incatenò. Un’altra volta, Ercole riuscì a batterlo nella lotta.
— E ora è stato catturato da un gigante — disse Percy. — Perciò, se riuscissimo a liberare
Thanatos, i morti resterebbero morti… giusto? — Lanciò un’occhiata a Gwen. — Ehm… senza
offesa.
— È più complicato di così — replicò Nico.
Ottaviano alzò gli occhi al cielo. — Perché la cosa non mi sorprende?
— Ti riferisci alle Porte della Morte — intervenne Reyna, ignorando l’augure. — Sono nominate
nella Profezia dei Sette, che portò alla prima spedizione in Alaska…
Lo spettro di Catone fece un verso di scherno. — E sappiamo tutti come è andata a finire. Noi Lari
lo ricordiamo bene!
Gli altri fantasmi borbottarono il loro consenso.
Nico si portò un dito alle labbra, e tutti gli spettri si zittirono all’unisono. Alcuni avevano una
faccia allarmata, come se avessero le labbra sigillate con la colla. Percy pensò che avrebbe voluto
avere anche lui quel potere su certi vivi di sua conoscenza… come Ottaviano, tanto per dirne uno.
— Thanatos è solo una parte della soluzione — spiegò Nico. — Le Porte della Morte… be’,
questo è un concetto che nemmeno io riesco a comprendere sino in fondo. Ci sono molte strade che
portano agli Inferi: il fiume Stige, la Porta di Orfeo… più alcune vie di fuga più piccole, che si
aprono di quando in quando. Con Thanatos imprigionato, tutte queste uscite saranno più facili da
utilizzare. A volte la cosa funzionerà a nostro vantaggio, e vedremo tornare un’anima amica, come la
nostra Gwen. Più spesso, saranno le anime malvagie e i mostri a beneficiarne, i più furbi, quelli che
cercano di scappare. Ora, le Porte della Morte sono le porte personali di Thanatos, la sua corsia
preferenziale tra la vita e la morte. Solo Thanatos dovrebbe sapere dove si trovano, e il luogo esatto
si è spostato nel corso dei secoli. Se ho capito bene come stanno le cose, le Porte della Morte sono
state spalancate con la forza. I sudditi di Gea ne hanno assunto il controllo…
— E questo significa che Gea controlla chi può tornare dal regno dei morti — concluse Percy.
Nico annuì. — Può scegliere a suo piacimento chi far uscire, i mostri peggiori, le anime più
malvagie. Se salviamo Thanatos, almeno potrà ricominciare a catturare le anime e rispedirle negli
Inferi. I mostri moriranno come prima, e avremo un po’ di respiro. Ma, a meno che non ci
riprendiamo le Porte della Morte, i nostri nemici non resteranno lontano per molto. Avranno
comunque una facile via di ritorno nel mondo dei vivi.
— Perciò noi potremmo anche prenderli e rispedirli negli Inferi, ma loro non faranno altro che
tornare attraverso le porte aperte — riassunse Percy.
— Una sintesi deprimente, ma esatta — confermò Nico.
Frank si grattò la testa. — Thanatos sa dove sono le porte, giusto? Se lo liberiamo, potrà
riprendersele da solo.
— Non credo — replicò Nico. — Non da solo. Contro Gea non c’è gara. Ci vorrebbe davvero
un’impresa eroica… un esercito dei migliori semidei.
— … e alle Porte della Morte, i nemici armati si dovran temere — citò Reyna. — È la Profezia
dei Sette… — Guardò Percy, e per un attimo lui comprese quanto fosse spaventata. Era bravissima a
non darlo a vedere, ma Percy si chiese se anche lei non avesse avuto incubi su Gea, o visioni del
campo invaso da mostri impossibili da uccidere. — Se questo è l’inizio dell’antica profezia, non
abbiamo le risorse per mandare un esercito alle Porte della Morte e allo stesso tempo proteggere il
campo. Non posso neanche pensare di fare a meno di sette semidei…
— Una cosa alla volta. — Percy si sforzò di assumere un tono sicuro, anche se percepiva il
panico che montava nella sala. — Non so chi siano questi sette, né cosa significhi di preciso quella
vecchia profezia. Ma prima dobbiamo liberare Thanatos. Marte ci ha detto che avevamo bisogno
solo di tre persone per la missione in Alaska. Concentriamoci su questo e cerchiamo di tornare in
tempo per la Festa della Fortuna. Poi ci occuperemo delle Porte della Morte.
— Giusto — concordò Frank, con un filo di voce. — Mi pare già abbastanza per una sola
settimana.
— Allora, avete o non avete un piano? — domandò Ottaviano, in tono scettico.
Percy guardò i suoi compagni di squadra. — Andiamo in Alaska il più velocemente possibile…
— E improvvisiamo — concluse Hazel.
— Parecchio — aggiunse Frank.
Reyna li studiò. Sembrava che stesse già scrivendo mentalmente il loro necrologio. — Ottimo! —
esclamò. — Non ci resta altro che votare sul genere di sostegno che possiamo offrirvi per la
missione… trasporto, fondi, magia, armi.
— Pretore, con il tuo permesso… — intervenne Ottaviano.
— Oh, fantastico — borbottò Percy. — Ci risiamo.
— Il campo è in grave pericolo — cominciò l’augure. — Due dei ci hanno avvisato che verremo
attaccati di qui a quattro giorni. Non dobbiamo ridurre troppo le nostre risorse, soprattutto
finanziando missioni che hanno una scarsa probabilità di successo. — Ottaviano guardò Frank, Hazel
e Percy con pietà, come a dire: “Poverini.” — Marte ha chiaramente scelto i candidati meno
probabili per questa missione. Forse perché li considera i più sacrificabili. Forse perché preferisce
giocare in condizioni di inferiorità assoluta. Comunque sia, saggiamente, non ha ordinato una grande
spedizione, né ci ha chiesto di finanziare la loro avventura. Io dico che dobbiamo tenerci le nostre
risorse e difendere il campo. È qui che la battaglia sarà vinta o persa. Se questi tre avranno successo,
magnifico! Ma dovranno farlo grazie al proprio ingegno.
Un mormorio imbarazzato si diffuse tra la folla. Frank balzò in piedi.
Prima che scoppiasse una rissa, Percy intervenne: — Bene! Non c’è problema. Ma almeno dateci
un mezzo di trasporto. Gea è la dea della terra, giusto? Credo che dovremmo evitare di andare via
terra, allora. In ogni caso, ci metteremmo troppo.
Ottaviano rise. — Vuoi che ti prenotiamo un volo?
Alla sola idea a Percy venne la nausea. — No. Un viaggio aereo… ho la sensazione che non
sarebbe la soluzione giusta. Pensavo a una barca, invece. Potete almeno darci una barca?
Hazel fece un verso strano. Percy le lanciò un’occhiata, e lei scosse la testa, muovendo le labbra
muta: “Tutto bene.”
— Una barca! — Ottaviano si rivolse ai senatori. — Il figlio di Nettuno vuole una barca.
Viaggiare per mare non è mai stato nello stile romano, ma del resto neppure lui è molto romano!
— Ottaviano, una barca è una richiesta ben modesta — intervenne Reyna, severa. — E non fornire
nessun altro genere di aiuto mi sembra molto…
— … tradizionale! — esclamò Ottaviano. — È molto tradizionale. Vediamo se questi soldati
hanno la forza di sopravvivere senza aiuti, da veri Romani!
Altri mormorii riempirono la stanza. Gli occhi dei senatori si spostavano da Ottaviano a Reyna,
osservando lo scontro.
Reyna drizzò la schiena. — Ottimo — disse in tono teso. — Lo metteremo ai voti. Senatori, la
mozione è la seguente: l’eroica impresa troverà il suo compimento in Alaska. Il Senato fornirà ai tre
soldati pieno accesso alla marina romana nel porto di Alameda. Non ci saranno altri aiuti. I tre
soldati vivranno o periranno in base ai loro meriti. Tutti a favore?
Le mani dei senatori si alzarono.
— La mozione è passata. — Reyna si rivolse a Frank: — Centurione, puoi andare. Il Senato ha
altre faccende da discutere. E, Ottaviano, vorrei conferire con te per un momento.
Percy fu felicissimo di rivedere la luce del sole. In quella sala buia, con tutti quegli occhi
addosso, si era sentito come se avesse il mondo sulle spalle, un’esperienza che era piuttosto sicuro di
aver già provato una volta. Si riempì i polmoni di aria fresca.
Hazel raccolse un grande smeraldo da terra e se lo infilò in tasca. — E così… in pratica siamo
fritti?
Frank annuì, affranto. — Se volete tirarvi indietro, non posso darvi torto.
— Stai scherzando? — replicò la ragazza. — Dovrei farmi il turno di guardia da sola per tutta la
settimana!
Frank riuscì a sorridere, poi si voltò a guardare Percy, che stava scrutando il foro.
«Resta dove sei» aveva detto Annabeth nel sogno. Ma, se restava dov’era, il campo sarebbe
andato distrutto, si disse Percy. Alzò lo sguardo verso le colline, e immaginò il volto di Gea che
sorrideva tra le ombre e i crinali. “Non puoi vincere, piccolo semidio” sembrava dire. “Mi servirai
restando, o mi servirai partendo.” Percy prese un impegno solenne con se stesso: dopo la Festa della
Fortuna, avrebbe trovato Annabeth. Ma ora doveva agire. Non poteva permettere a Gea di vincere.
— Sono con te — disse a Frank. — E voglio proprio vedere la marina romana.
Erano ancora nel foro, a metà strada, quando qualcuno chiamò: — Jackson!
Percy si voltò e vide Ottaviano corrergli incontro. — Che vuoi? — gli chiese brusco.
L’augure sorrise. — Hai già deciso che sono tuo nemico? Una scelta affrettata, Percy. Sono un
romano leale.
Frank ringhiò. — Razza di viscido serpente tradi… — Percy e Hazel dovettero trattenerlo in due.
— Oh, santi numi! — esclamò Ottaviano. — Non mi pare assolutamente il modo di comportarsi
per un nuovo centurione. Jackson, vi ho seguiti soltanto perché Reyna mi ha consegnato un messaggio.
Vuole che tu torni ai Principia senza i tuoi… ehm… due lacchè. Ti incontrerà dopo che il Senato si
sarà aggiornato. Vuole scambiare due parole in privato con te prima della partenza.
— Di cosa vuole parlarmi? — chiese Percy.
— Ti assicuro che non lo so. — Ottaviano gli rivolse un sorriso scaltro. — L’ultima persona con
cui ha voluto parlare in privato è stato Jason Grace. E quella è stata l’ultima volta che l’ho visto.
Buona fortuna e… addio, Percy Jackson.
PERCY
Percy fu felice che Vortice gli fosse già tornata in tasca. A giudicare dall’espressione di Reyna, forse
avrebbe avuto bisogno di difendersi.
Il pretore entrò come una furia nei Principia, con il mantello svolazzante e i due levrieri al
seguito. Percy era seduto su una delle due sedie pretoriali, che aveva spostato sul lato degli ospiti, e
forse non era stata una scelta appropriata. Fece per alzarsi.
— Aspetta — ringhiò Reyna. — Parti dopo pranzo. Abbiamo parecchie cose di cui parlare. —
Piazzò il coltello sul tavolo con tanta forza che la ciotola delle caramelle tremò. Aurum e Argentum
presero posto al suo fianco e puntarono i loro occhi di rubino su Percy.
— Che ho fatto di male? — chiese lui. — Se è per la sedia…
— Non sei tu. — Reyna era scura in viso. — Odio le sedute del Senato. Quando Ottaviano
comincia a parlare…
Percy annuì. — Tu sei una guerriera. Ottaviano è un oratore. Mettilo di fronte al Senato, e
all’improvviso è lui quello più potente.
Reyna socchiuse gli occhi. — Sei più sveglio di quanto sembri.
— Oh, be’… grazie. Ho sentito dire che forse Ottaviano sarà eletto pretore, ammesso che il
campo sopravviva.
— Il che ci porta all’argomento che vorrei affrontare con te — disse Reyna. — Ovvero il “giorno
del giudizio”, e come tu puoi contribuire a fermarlo. Ma prima che io metta il destino del Campo
Giove nelle tue mani, dobbiamo chiarire alcune cose. — Si sedette e posò un anello sul tavolo: una
fascia d’argento a forma di torcia e spada intrecciate, come il suo tatuaggio. — Sai cos’è questo?
— Il simbolo di tua madre — rispose Percy. — La… ehm… dea della guerra. — Non era sicuro
di ricordarsi bene il nome – Bellona, forse? – ma gli sembrava un nome un po’ buffo, e aveva paura
di sbagliare.
— Sì, Bellona. — Reyna lo scrutò con attenzione. — Non ricordi dove hai già visto questo
anello? Davvero non ti ricordi di mia sorella, Hylla?
Percy scosse la testa. — Mi dispiace.
— Quattro anni fa…
— Poco prima che tu arrivassi al campo — osservò Percy.
Reyna si accigliò. — Come fai a…?
— Hai quattro linee sul tatuaggio. Quattro anni.
La ragazza si guardò l’avambraccio. — Già, certo. Sembra passato un secolo. Immagino che non ti
ricorderesti di me neppure se avessi ancora la memoria. Ero solo una bambina, una delle tante
assistenti del centro benessere. Ma parlasti con mia sorella, poco prima che tu e quella ragazza,
Annabeth, distruggeste la nostra casa.
Percy cercò di ricordare. Si sforzò davvero tanto. Per qualche ragione, lui e Annabeth erano
andati in un centro benessere e avevano deciso di distruggerlo. Non riusciva a immaginare il perché.
Forse non gli era piaciuto il massaggio? Facevano una pessima manicure? — Niente da fare — disse.
— Vuoto totale. Visto che i tuoi cani non mi stanno attaccando, spero che mi crederai. Dico la verità.
Aurum e Argentum ringhiarono.
Percy ebbe la sensazione che stessero pensando: “Menti, per favore. Anche solo una piccola
bugia.”
Reyna tamburellò le dita sull’anello. — Io ti credo, ma non tutti la pensano così. Ottaviano è
convinto che tu sia una spia. Crede che tu sia stato mandato qui da Gea per scoprire i nostri punti
deboli e distrarci. Crede alle vecchie leggende sul conto dei Greci.
— Quali leggende?
La mano di Reyna era posata a metà strada fra il pugnale e le caramelle. Percy ebbe la sensazione
che, se lui avesse fatto una mossa improvvisa, lei non avrebbe afferrato un dolciume.
— Qualcuno ritiene che esistano ancora semidei greci — spiegò Reyna. — Eroi che seguono le
vecchie forme degli dei. Ci sono leggende di battaglie tra eroi greci e romani in tempi relativamente
moderni: la Guerra civile americana, per esempio. Non ne ho le prove, e se i nostri Lari sanno
qualcosa, si rifiutano di dirlo. Ma Ottaviano è convinto che i Greci siano ancora in circolazione e
tramino la nostra caduta, lavorando con le forze di Gea. Pensa che tu sia uno di loro.
— È questo che credi?
— Quello che credo è che tu venga da qualche altra parte, e che tu sia una persona importante, e
pericolosa. Ben due divinità hanno mostrato un interesse speciale per te da quando sei arrivato,
perciò non posso credere che agiresti mai contro l’Olimpo… o contro Roma. — Reyna si strinse
nelle spalle. — Naturalmente, potrei sbagliarmi. Forse gli dei ti hanno mandato qui per mettere alla
prova la mia capacità di giudizio. Ma in realtà penso… che ti abbiano mandato per colmare la
perdita di Jason.
Jason. Percy non riusciva a muovere un passo al campo senza che saltasse fuori quel nome. — Da
come ne parli… Voi due stavate insieme?
Reyna lo guardò dritto negli occhi: era lo sguardo di un lupo affamato. Percy ne aveva visti a
sufficienza per dirlo. — Avremmo potuto, se ce ne fosse stato il tempo — rispose la ragazza. — I
pretori lavorano a stretto contatto. Succede spesso che ci siano dei coinvolgimenti romantici. Ma
Jason è stato pretore soltanto per pochi mesi prima di scomparire. E da allora Ottaviano mi dà il
tormento, si agita per indire nuove elezioni. — Reyna scosse la testa. — Mi sono opposta. Ho
bisogno di un compagno che condivida l’onere del comando, certo, ma preferirei qualcuno come
Jason. Un guerriero, non un intrigante.
Percy capì che gli stava rivolgendo un muto invito. Si sentì la gola secca. — Oh… vuoi dire…?
— Credo che gli dei ti abbiano mandato qui per aiutarmi — continuò Reyna. — Non capisco da
dove vieni, proprio come non lo capivo quattro anni fa. Ma credo che il tuo arrivo sia una sorta di
compensazione. Hai distrutto la mia casa, una volta. Ora sei stato mandato a salvarla. Non ce l’ho
con te per il passato, Percy. Mia sorella ti odia ancora, è vero, ma il fato mi ha portato qui al Campo
Giove. Mi è andata bene. Ora ti chiedo solo di lavorare con me per il futuro. Ho intenzione di salvare
questo campo.
Percy scoprì che era diventato molto più difficile sostenere lo sguardo di Reyna. I cani di metallo
lo fissavano minacciosi, con le fauci fisse in modalità ringhio. — Senti, io ti aiuterei volentieri — le
assicurò. — Ma sono nuovo, qui. Hai un sacco di altra gente che conosce questo campo meglio di
me. Se la missione avrà successo, Hazel e Frank saranno degli eroi. Potresti chiedere a uno di loro…
— Ti prego — lo interruppe Reyna. — Nessuno seguirebbe mai una figlia di Plutone. E c’è
qualcosa in quella ragazza… le voci sulle sue origini… No, non andrà mai bene. Quanto a Frank
Zhang, è un ragazzo di buon cuore, ma è un inguaribile ingenuo e non ha esperienza. E poi se gli altri
scoprissero i precedenti della sua famiglia al campo…
— Quali precedenti?
— Il punto è, Percy, che sei tu la vera forza di questa impresa eroica. Tu sei un veterano esperto.
Ho visto quello che sei in grado di fare. Un figlio di Nettuno non sarebbe la mia prima scelta ma, se
tornerai trionfante da questa missione, potremmo riuscire a salvare la legione. Il posto da pretore
sarà a tua disposizione. Insieme, io e te potremmo espandere i poteri di Roma. Potremmo radunare un
esercito e trovare le Porte della Morte, schiacciare le forze di Gea una volta per tutte. In me troverai
il sostegno di una… amica molto affidabile. — Pronunciò la parola “amica” come se potesse avere
molti significati, e toccasse a lui scegliere quale preferiva.
Percy non riusciva più a tenere fermi i piedi sotto il tavolo. Sarebbe voluto scappare. — Reyna…
sono onorato, lusingato e… sì, insomma, davvero. Ma ho già una ragazza. Non voglio il potere, e non
voglio diventare pretore. — Temette di averla fatta arrabbiare.
Invece lei si limitò a inarcare le sopracciglia. — Un uomo che rifiuta il potere? Non è molto
romano — dichiarò Reyna. — Tu pensaci. Fra quattro giorni dovrò compiere una scelta. Se
dobbiamo fermare un’invasione, ci servono due pretori forti. Preferirei avere te, ma se fallisci in
questa missione, o non torni, o rifiuti la mia offerta… be’, dovrò lavorare con Ottaviano. Ho
intenzione di salvare questo campo, Percy Jackson. Siamo in una situazione peggiore di quanto tu
creda.
Percy ripensò a quello che Frank gli aveva detto: gli attacchi dei mostri che diventavano sempre
più frequenti… — Quanto peggiore?
Reyna conficcò le unghie nel tavolo. — Nemmeno il Senato conosce tutta la verità. Ho chiesto a
Ottaviano di non diffondere i suoi auguri, per evitare il panico. Ha visto un grande esercito marciare
verso sud, più grande di quanto noi saremmo mai in grado di sconfiggere. È guidato da un gigante…
— Alcione?
— Non credo. Se è davvero invulnerabile in Alaska, sarebbe uno sciocco a venire di persona.
Dev’essere uno dei suoi fratelli.
— Fantastico! — commentò Percy. — Perciò abbiamo due giganti di cui preoccuparci.
Reyna annuì. — Lupa e il suo branco stanno cercando di rallentarli, ma è un esercito troppo forte
perfino per loro. Il nemico arriverà presto, al più tardi per la Festa della Fortuna.
Percy rabbrividì. Aveva visto Lupa in azione. Conosceva molto bene lei e il suo branco. Se quel
nemico era troppo potente anche per loro, il Campo Giove non aveva alcuna possibilità.
Reyna glielo lesse negli occhi. — Sì, la situazione è grave, ma non è disperata. Se riuscirete a
riportarci la nostra aquila, se libererete la Morte permettendoci così di uccidere davvero i nostri
nemici, allora forse ce la faremo. E c’è anche un’altra possibilità… — Reyna fece scivolare il suo
anello d’argento sul tavolo. — Non posso aiutarvi molto, ma il vostro viaggio vi porterà vicino a
Seattle. Ti chiedo un favore, che forse potrà darvi una mano. Trova Hylla.
— Tua sorella… quella che mi odia?
— Sì, le piacerebbe molto ucciderti — confermò Reyna. — Tu però mostrale questo anello come
un pegno da parte mia, e forse vi sosterrà.
— Forse?
— Non posso decidere io per lei. — Reyna aggrottò la fronte. — In realtà, non riesco a parlare
con lei da settimane. Silenzio assoluto. E con il passaggio di quell’esercito…
— Vuoi che vada a vedere se sta bene — intuì Percy.
— In parte, sì. Certo non posso credere che qualcuno l’abbia sconfitta. Le forze di mia sorella
sono potenti, e il suo territorio è ben difeso. Se riuscissi a trovarla, potrebbe offrirvi un aiuto
prezioso. Che potrebbe fare la differenza per il successo della missione. E se le dicessi cosa sta
succedendo qui…
— Potrebbe mandare aiuti?
Reyna non rispose, ma Percy lesse la disperazione nei suoi occhi. Era terrorizzata, e si
aggrappava a qualunque cosa per salvare il campo. Non c’era da stupirsi che volesse la sua
collaborazione. Era l’unico pretore. La difesa del campo gravava tutta sulle sue spalle.
— La troverò. — Percy prese l’anello. — Dove devo guardare? Che tipo di potere ha?
— Non ti preoccupare. Pensa solo ad arrivare a Seattle. Vi troveranno loro.
Non sembrava molto incoraggiante, ma Percy infilò l’anello nella collana insieme alle perle e alla
piastrina della probatio. — Augurami buona fortuna.
— Combatti bene, Percy Jackson — disse Reyna. — E grazie.
Percy capì che l’udienza era tolta. Reyna stava facendo fatica a trattenersi, a conservare
l’immagine di comandante sicuro; aveva bisogno di stare un po’ da sola. Arrivato alla porta, però, il
semidio non resistette all’impulso di voltarsi. — Come abbiamo distrutto la vostra casa… il centro
benessere in cui abitavate?
I cani di metallo ringhiarono.
Reyna li zittì schioccando le dita. — Avete distrutto il potere della nostra padrona — rispose. —
Avete liberato dei prigionieri, che si sono vendicati su tutti quelli che abitavano sull’isola. Io e mia
sorella… be’, siamo sopravvissute. È stato difficile. Ma ripensandoci ora, in prospettiva, credo che
stiamo meglio lontano da là.
— In ogni caso, mi dispiace — disse Percy. — Se vi ho fatto del male, ti chiedo scusa.
Reyna lo scrutò a lungo, come sforzandosi di tradurre le sue parole. — Scuse? Un gesto per niente
romano, Percy Jackson. Saresti un pretore molto interessante. Spero che rifletterai sulla mia offerta.
PERCY
A pranzo sembrava che fosse appena morto qualcuno. Tutti parlavano sottovoce. Nessuno sembrava
particolarmente felice, e molti continuavano a lanciare occhiate a Percy, come se il morto fosse lui.
Reyna fece un breve discorso per augurare buona fortuna ai tre che partivano per l’impresa eroica.
Ottaviano squarciò un grazioso coniglietto di peluche e annunciò funesti presagi e difficoltà a venire,
ma predisse che il campo sarebbe stato salvato da un eroe imprevisto (il cui nome probabilmente
cominciava per “otta” e finiva con “viano”). Poi gli altri ragazzi uscirono per le lezioni del
pomeriggio: arte gladiatoria, latino, simulazione di guerra con i proiettili di vernice e i fantasmi,
addestramento delle aquile e una decina di altre attività che suonavano molto meglio di una missione
suicida.
Percy seguì Hazel e Frank negli alloggi, per fare i bagagli. Non che avesse molto. Aveva ripulito
lo zaino già usato durante il viaggio verso sud e si era tenuto gran parte dell’attrezzatura presa
all’ipermercato, a cui aveva aggiunto un paio di jeans puliti e una maglietta di ricambio, nettare e
ambrosia, qualche spuntino, un po’ di soldi mortali e l’occorrente per il campeggio. A pranzo, Reyna
gli aveva consegnato una pergamena di referenze del pretore e del Senato; mostrando la lettera,
qualunque ex legionario avessero incontrato sul loro cammino avrebbe dovuto aiutarli.
Percy passò le dita sulla collana di perle con la piastrina della probatio e l’anello d’argento.
Vortice, naturalmente, era sempre in tasca. Infine, ripiegò la scolorita maglietta arancione e la posò
sul letto. — Tornerò — disse. Si sentiva piuttosto stupido a parlare con una maglietta, ma in realtà
stava pensando ad Annabeth e alla propria vecchia vita. — Non sto partendo per sempre. Ma devo
aiutare questi ragazzi. Loro mi hanno accettato. Meritano di vivere.
La maglietta non rispose, grazie al cielo!
Uno degli altri ragazzi dell’alloggio, Bobby, diede loro un passaggio in groppa ad Annibale fino
al confine. Arrivati in cima alle colline, Percy poté vedere tutto il paesaggio sottostante. Il Piccolo
Tevere che scorreva sinuoso tra i pascoli dorati degli unicorni. I templi e le piazze di Nuova Roma
che scintillavano al sole. Sul Campo Marzio, gli ingegneri erano già al lavoro per abbattere i resti
del forte della sera prima e montare le barricate per la simulazione di guerra. Una giornata come
tante per il Campo Giove, ma all’orizzonte settentrionale si stavano raccogliendo nuvole
temporalesche. Le loro ombre si spostavano sopra le colline, e Percy immaginò il volto di Gea che si
faceva sempre più vicino.
«… ti chiedo solo di lavorare con me per il futuro» aveva detto Reyna. «Ho intenzione di salvare
questo campo.»
Scrutando la valle, Percy comprese perché lei ci tenesse tanto. Pur essendo appena arrivato,
avvertiva un desiderio feroce di proteggere il Campo Giove, un porto sicuro in cui i semidei
potevano costruirsi una vita. Voleva che quel posto facesse parte anche del proprio futuro. Forse non
come Reyna lo aveva immaginato, ma se avesse potuto condividerlo con Annabeth…
Scesero dall’elefante. Bobby augurò loro buon viaggio. Annibale li abbracciò tutti e tre con la
proboscide, poi il taxi pachidermico prese la via del ritorno.
Percy sospirò e si voltò a guardare gli altri, cercando di mostrarsi ottimista. Prima che potesse
aprire bocca, sentì una voce familiare.
— Documento di identificazione, prego. — Una statua di Terminus comparve in cima alla collina.
Il volto marmoreo del dio si aggrottò per l’irritazione. — Allora? Diamoci una mossa!
— Ancora tu? — replicò Percy. — Ma non stavi a guardia della città?
Terminus sbuffò. — Anch’io sono felice di rivederti, signorino infrangi-regole. Di norma, sì, sono
a guardia della città, ma per le partenze internazionali, mi piace garantire maggiore sicurezza ai
confini del campo. Dovevate prendervi almeno due ore di anticipo sull’ora di partenza, sapete. Ma
dovremo accontentarci. Ora, vieni qui e lasciati perquisire.
— Ma non hai le… — Percy si fermò in tempo. — Ehm… certo. — Si fermò accanto alla statua
senza braccia.
Terminus eseguì una rigorosa perquisizione mentale. — Sembri pulito — stabilì. — Niente da
dichiarare?
— Sì — rispose Percy. — Dichiaro che questa sceneggiata è una stupidaggine.
— Bah! Piastrina della probatio: Percy Jackson, Quinta Coorte, figlio di Nettuno. Va bene, puoi
andare. Hazel Levesque, figlia di Plutone. Bene. Hai del denaro straniero o… ehm, dei metalli
preziosi da dichiarare?
— No — mormorò lei.
— Ne sei sicura? — la incalzò Terminus. — Perché l’ultima volta…
— No!
— Caspita, che gruppetto scontroso — commentò il dio. — Partiamo per un’impresa eroica, eh?
Ah, sempre di fretta, sempre. Ora, vediamo… Frank Zhang. Ah! Centurione? Bravo, Frank. E quel
taglio non potrebbe essere più regolamentare. Approvo! Vai pure allora, centurione Zhang. Servono
indicazioni oggi?
— No, credo di no.
— Raggiungete la stazione — continuò Terminus, imperterrito. — Cambiate treno sulla
Dodicesima Strada, a Oakland, coincidenza per la Fruitvale Station. Da lì, potete andare a piedi
oppure prendere un autobus per Alameda.
— Non avete un treno magico o qualcosa del genere? — chiese Percy.
— Treni magici! — esclamò Terminus con un verso di scherno. — Come no? E magari anche una
corsia preferenziale e un pass per la sala d’attesa VIP . Pensate piuttosto a viaggiare sicuri, e state
attenti a Polibote. A proposito di gente che non rispetta le regole… bah! Quanto vorrei dargli una
lezione… lo stritolerei con le mie mani.
— Aspetta… chi? — domandò Percy.
Terminus fece un’espressione sofferta, come se stesse flettendo i bicipiti immaginari. — Be’…
state attenti. Immagino che sarà in grado di fiutare un figlio di Nettuno a più di un chilometro di
distanza. Filate, ora! Buona fortuna!
Una forza invisibile li spinse con prepotenza oltre il confine.
Quando Percy si voltò, Terminus era scomparso. In effetti, l’intera valle era sparita. Sulle colline
di Berkeley non c’era traccia del campo romano. Il figlio di Nettuno guardò gli amici. — Avete
capito a che cosa si riferiva? Dobbiamo stare attenti a un certo… Politico o qualcosa del genere?
— Polebeto, forse? — Neanche Hazel ricordava bene il nome. — Mai sentito.
— Sembra un nome greco — commentò Frank.
— Ah, questo restringe il campo. — Percy sospirò. — Be’, immagino che saremo appena
comparsi nel fiuto-radar di ogni mostro nel giro di dieci chilometri. È meglio che ci muoviamo.
Ci misero due ore per arrivare al molo di Alameda. In confronto agli ultimi mesi di Percy, il
viaggio fu facile. Non furono attaccati da alcun mostro. Nessuno lo guardò come se fosse un
vagabondo o un selvaggio.
Frank aveva sistemato la lancia, l’arco e la faretra in una lunga borsa da sci. La spatha di Hazel
invece era infilata nel sacco a pelo che portava sulla schiena. Insieme, sembravano normalissimi
ragazzi delle superiori pronti a passare la notte in campeggio. Raggiunsero a piedi la Rodrick
Station, comprarono i biglietti con i soldi mortali e saltarono a bordo del treno.
Scesero a Oakland. Dovettero attraversare diversi quartieri, ma nessuno badò a loro. Ogni volta
che qualche malintenzionato del posto si avvicinava abbastanza da guardare Percy negli occhi,
cambiava subito strada. Il semidio aveva perfezionato il proprio sguardo da lupo nel corso degli
ultimi mesi, e quell’espressione diceva: “Per quanto cattivo tu creda di essere, ti assicuro che io
sono peggio di te.” Dopo aver strangolato mostri marini e investito gorgoni, non aveva certo paura di
quattro bulletti di periferia. Del mondo mortale, non lo spaventava quasi più nulla.
Raggiunsero il molo nel tardo pomeriggio. Percy scrutò la baia di San Francisco e inspirò la
salsedine a pieni polmoni. Si sentì subito meglio: quello era il regno di suo padre. Qualunque cosa li
aspettasse, lui avrebbe avuto il coltello dalla parte del manico finché erano in mare.
C’erano dozzine di imbarcazioni alla fonda, dagli yacht di quindici metri a barche da pesca di tre
metri. Percy perlustrò gli scali sperando in un vascello magico di qualche tipo: una trireme, forse, o
una nave da guerra con la polena a forma di testa di drago, come quella che aveva visto nel suo
sogno. — Ehm… ragazzi, voi sapete che cosa stiamo cercando?
Hazel e Frank scossero la testa.
— Io non sapevo nemmeno che avessimo una marina. — Hazel lo disse come se si augurasse che
non fosse vero.
— Oh… — Frank tese un braccio a indicare qualcosa. — Non pensate che…?
In fondo al molo c’era un’imbarcazione minuscola, simile a un canotto, coperta da una cerata
viola. Sulla tela, ricamata in lettere dorate e scolorite, c’era la scritta SPQR.
La sicurezza di Percy vacillò. — Non ci credo. — Si avvicinò e tolse la cerata, con le mani che
scioglievano i nodi come se non avessero mai fatto altro in vita loro.
Sotto il telo c’era una barchetta di legno, senza remi. Doveva essere stata dipinta di blu a un certo
punto, ma lo scafo era così incrostato di catrame e sale che nell’insieme sembrava una sorta di
grosso livido nautico. Sulla prua era ancora leggibile il nome Pax, in lettere dorate. Occhi dipinti si
abbassavano mestamente sul pelo dell’acqua, come se la barca fosse sul punto di addormentarsi. A
bordo c’erano due panche, qualche paglietta di ferro, una vecchia borsa termica e un mucchio di
corde sfilacciate, con un capo legato all’ormeggio. Sul fondo della barca, un sacchetto di plastica e
due lattine vuote galleggiavano su diversi centimetri di acqua stagnante.
— Ammirate la possente marina romana! — esclamò Frank.
— Dev’esserci un errore — disse Hazel. — Questo è praticamente un rottame.
Percy immaginò Ottaviano che si faceva delle grasse risate alle loro spalle, ma decise di non
dargliela vinta. La Pax era pur sempre una barca. Saltò a bordo, e lo scafo vibrò sotto i suoi piedi,
reagendo alla sua presenza. Raccolse la spazzatura e la infilò nella borsa termica, che depositò sul
molo. Ordinò all’acqua stagnante di scivolare via dai lati della barca. Poi col dito puntò le pagliette,
e quelle si misero a strofinare di buona lena il pavimento, così in fretta che l’acciaio cominciò a
fumare. Quando ebbero finito, la barca era lustra.
Percy indicò la fune d’ormeggio, e quella si sciolse. I remi continuavano a mancare, certo, ma non
importava. Percy capì che l’imbarcazione era pronta a salpare, aspettava solo un suo comando. —
Così dovrebbe bastare — dichiarò. — Saltate su!
Hazel e Frank erano sconcertati, ma salirono a bordo. Hazel in particolare sembrava nervosa.
Quando si furono sistemati, Percy si concentrò, e la barca si staccò con grazia dal molo.
“Giunone aveva ragione, sai” bisbigliò la voce assonnata di Gea nella sua mente, cogliendolo così
di sorpresa da far vacillare la barca. “Avresti potuto scegliere una nuova vita in mare. Laggiù saresti
stato al sicuro da me. Ormai è troppo tardi. Hai scelto il dolore e la sofferenza. Fai parte del mio
piano adesso: sei la mia piccola, importante pedina.”
— Vattene dalla mia barca — ringhiò Percy.
— Che dici? — domandò Frank.
Percy rimase in attesa, ma la voce di Gea non si fece più sentire. — Niente — borbottò. —
Vediamo come va questa barchetta. — Fece rotta verso nord, e nel giro di pochi attimi sfrecciavano
già a una velocità di quindici nodi, diretti al Golden Gate.
HAZEL
Hazel odiava le barche.
Soffriva così tanto il mal di mare, che sarebbe stato più giusto chiamarlo “flagello”. Tuttavia non
aveva detto nulla a Percy. Non voleva creare problemi alla missione, ma ricordava la vita orribile
che aveva fatto quando si era trasferita con sua madre in Alaska. Non c’erano strade: ovunque
andassero, dovevano prendere un treno o una barca.
Sperava che il disturbo fosse migliorato dopo che era tornata dal regno dei morti. Ma
naturalmente no. E quella barchetta, la Pax, somigliava troppo all’imbarcazione che avevano in
Alaska. Le tornavano alla mente dei brutti ricordi…
Non appena lasciato il molo, Hazel si sentì rivoltare lo stomaco. Il tempo di superare i piloni
dell’Embarcadero, e la testa le girava tanto che pensò di avere le allucinazioni. Sfrecciarono accanto
a un branco di leoni marini stesi pigramente sul molo, e le sembrò di vedere un vecchio senzatetto
seduto in mezzo a loro, che puntava un dito ossuto in direzione di Percy e borbottava qualcosa tipo:
“Non ci pensare nemmeno.”
— Avete visto? — chiese.
Percy aveva il volto arrossato dal tramonto. — Sì. Sono già stato qui. Non so quando né come, di
preciso. Credo che stessi cercando la mia ragazza.
— Annabeth — ricordò Frank. — Ci sei stato mentre venivi al Campo Giove?
Percy aggrottò la fronte. — No. Prima. — Scrutò la città, come se stesse ancora cercando
Annabeth, finché non passarono sotto il Golden Gate e virarono verso nord.
Hazel cercò di calmarsi lo stomaco pensando a cose piacevoli: l’euforia della sera prima quando
avevano vinto i ludi di guerra, la cavalcata in groppa ad Annibale fin nel cuore del quartier generale
nemico, l’improvvisa trasformazione di Frank in un capo. Era sembrato una persona diversa mentre
scalava le mura e incitava la Quinta Coorte all’attacco. Il modo in cui aveva spazzato via il nemico
sui bastioni… Lei non lo aveva mai visto così prima di allora. Ne era stata talmente fiera da volergli
appuntare al petto personalmente il distintivo di centurione.
Poi i suoi pensieri andarono a Nico. Prima di partire, il fratello l’aveva presa da parte per
augurarle buona fortuna. Hazel aveva sperato che restasse al Campo Giove per aiutare le difese, ma
lui le aveva detto che sarebbe partito il giorno stesso, diretto agli Inferi.
«Papà ha bisogno di tutto l’aiuto possibile» aveva detto. «Ai Campi della Pena sembra di stare
nel bel mezzo di una rivolta carceraria. Le Furie riescono a stento a mantenere l’ordine. E poi…
voglio provare a seguire le anime in fuga. Forse riesco a trovare le Porte della Morte, dalla parte
opposta alla vostra.»
«Stai attento» lo aveva avvisato Hazel. «Se c’è Gea a guardia di quelle porte…»
«Non ti preoccupare.» Nico aveva sorriso. «So nascondermi bene. Abbi cura di te, sorellina. Più
ti avvicinerai all’Alaska… Non so se i tuoi blackout miglioreranno o peggioreranno.»
“Abbi cura di te” pensò Hazel con amarezza. Come se quella missione potesse finire bene, per lei.
«Se liberiamo Thanatos, potrei non rivederti più» aveva detto a suo fratello. «Mi rimanderà negli
Inferi…»
Nico le aveva preso la mano. Le sue dita erano così pallide che era difficile credere che avessero
lo stesso padre divino. «Volevo darti una possibilità per conquistarti l’Elisio» aveva detto. «E
quello che ho fatto è stato quanto di meglio potessi fare per te. Ora però vorrei che esistesse un altro
modo. Non voglio perdere mia sorella.»
Non aveva aggiunto “di nuovo”, ma senza dubbio l’aveva pensato, Hazel ne era certa. Per una
volta, però, non era stata gelosa di Bianca. Aveva solo rimpianto di non poter trascorrere più tempo
con Nico e con i suoi amici al campo. Non voleva morire per la seconda volta.
«Buona fortuna, Hazel» le aveva poi augurato Nico, svanendo nell’ombra. Proprio come suo
padre, settant’anni prima.
La barca traballò, riportando Hazel al presente. Entrarono nelle correnti del Pacifico e
costeggiarono il profilo roccioso di Marin County.
Frank teneva in grembo la borsa da sci. Era così lunga che arrivava anche sulle ginocchia di
Hazel, come la sbarra di sicurezza del trenino delle montagne russe, e lei si ritrovò a pensare alla
volta in cui Sammy l’aveva portata al luna park per il Mardi Gras… Scacciò subito il ricordo. Non
poteva rischiare di perdersi in un altro blackout.
— Stai bene? — le chiese Frank. — Hai la nausea, o sbaglio?
— Mal di mare — confessò lei. — Non pensavo che mi venisse così forte.
Frank si scurì in viso, come se fosse colpa sua. Si mise a frugare nello zaino. — Ho del nettare. E
dei cracker. Ehm… mia nonna dice che lo zenzero aiuta… Non l’ho portato, ma…
— Non preoccuparti. — Hazel riuscì a sorridere. — Sei molto dolce, però.
Frank tirò fuori un cracker, che si spezzò tra le sue grosse dita, e le briciole si sparsero ovunque.
Hazel rise. — Santi numi, Frank… scusa. Non dovrei ridere.
— Non c’è problema — replicò lui, imbarazzato. — Non lo vuoi, eh?
Percy non stava facendo molta attenzione. Teneva gli occhi fissi sulla costa. Quando superarono
Stinson Beach, indicò l’entroterra, dove una montagna solitaria si stagliava sopra le colline verdi. —
Quella mi sembra familiare.
— È il Monte Tam — disse Frank. — I ragazzi del campo ne parlano sempre. Sulla cima c’è stata
una grande battaglia, era la vecchia base dei Titani.
Percy si accigliò. — C’eravate anche voi?
— No — rispose Hazel. — È successo tutto in agosto, prima che io… arrivassi al campo. Però
Jason mi ha raccontato com’è andata. La legione ha distrutto il palazzo del nemico e almeno un
milione di mostri. Jason ha dovuto combattere contro Crio. Corpo a corpo con un titano, riesci a
immaginarlo?
— Sì — borbottò Percy.
Hazel non era sicura di cosa intendesse dire, ma Percy le ricordava Jason, anche se non si
somigliavano affatto. Emanavano la stessa aura di potere quieto, più una sorta di tristezza, come se
conoscessero il proprio destino e sapessero che era solo questione di tempo: prima o poi avrebbero
incontrato un mostro che non sarebbero stati in grado di sconfiggere.
Una sensazione che lei comprendeva bene. Osservò il sole che tramontava sull’oceano, e capì che
le restava meno di una settimana da vivere. Qualunque fosse stato l’esito della missione, il suo
viaggio personale sarebbe finito entro la Festa della Fortuna.
Ripensò alla sua prima morte, e ai mesi che l’avevano preceduta: la casa a Seward, i sei mesi
trascorsi in Alaska, la piccola barca su cui saliva di notte per raggiungere la Resurrection Bay,
l’isola maledetta.
Hazel si accorse troppo tardi dell’errore. Le cadde un velo nero davanti agli occhi, e scivolò
indietro nel tempo.
La casa in affitto era una scatoletta di legno sospesa su piloni, sopra la baia. Quando passava il treno
da Anchorage, i mobili tremavano e i quadri vibravano sulle pareti. Di notte, Hazel si addormentava
al suono dell’acqua gelida che lambiva le rocce sotto le assi del pavimento. Il vento faceva cigolare
e gemere tutto l’edificio.
Avevano una sola stanza, con un fornellino e un minifrigo come cucina. In un angolo, dietro una
tenda tirata, Hazel teneva il materasso e un baule. Aveva attaccato i propri disegni e vecchie foto di
New Orleans alle pareti, ma servivano soltanto ad aumentare la nostalgia di casa.
Sua madre non c’era quasi mai. Non si faceva più chiamare Regina Marie. Era solo Marie, la
domestica. Cucinava e puliva nella trattoria sulla Terza Avenue per i pescatori, gli operai della
ferrovia e qualche marinaio di passaggio. Quando tornava a casa, odorava di detersivo e frittura di
pesce.
Di notte, Marie Levesque si trasformava. La Voce prendeva il sopravvento, dava ordini a Hazel,
la metteva all’opera sul loro orrendo progetto.
L’inverno fu il momento peggiore. La Voce si tratteneva di più, grazie al buio costante. Il freddo
era così intenso da convincere Hazel che non sarebbe mai riuscita a scaldarsi.
Quando arrivò l’estate, passò tutto il tempo al sole. Ogni singolo giorno delle vacanze estive,
restò fuori di casa il più possibile, ma non poteva andarsene in giro per il paese. Era una piccola
comunità. Gli altri ragazzi misero in giro delle voci sul suo conto: la figlia della strega che abitava
nella vecchia baracca sul molo. Se si avvicinava troppo, la schernivano o le lanciavano bottiglie e
sassi. Gli adulti non erano molto migliori.
Hazel avrebbe potuto rendere le loro vite un inferno. Avrebbe potuto regalare loro diamanti,
perle, oro. Lassù in Alaska, c’era oro in abbondanza. Ce n’era così tanto sulle colline che Hazel
avrebbe potuto seppellirci tutto il paese senza neanche troppo sforzo. Ma non riusciva a odiare le
persone che la scacciavano. Non poteva dar loro torto.
Trascorreva le giornate camminando sulle colline. Attirava i corvi. Le gracchiavano contro,
appollaiati sugli alberi, e aspettavano gli oggetti brillanti che comparivano sempre sulla sua scia. La
maledizione non sembrava un problema, per loro. C’erano anche gli orsi, e ne vide qualcuno, ma si
tenevano a distanza. Quando le veniva sete, cercava una cascatella di neve sciolta e beveva
quell’acqua gelida e pulita finché la gola non le faceva male. Poi si arrampicava il più in alto
possibile e si scaldava la faccia al sole. Non era un brutto modo di passare il tempo, però sapeva che
alla fine doveva sempre tornare a casa.
A volte pensava a suo padre, quello strano uomo dal volto pallido, nel completo gessato nero e
argento. Sperava che tornasse a proteggerla, che magari usasse i suoi poteri per sbarazzarsi di quella
voce orribile. Se era un dio, avrebbe dovuto esserne capace.
Hazel sollevò lo sguardo sui corvi e immaginò che fossero emissari di suo padre. Avevano gli
occhi scuri e folli, come quelli di Plutone. Si chiese se non gli riferissero i suoi movimenti.
Ma Plutone aveva messo in guardia Marie Levesque sull’Alaska. Era una terra oltre gli dei. Lui
non poteva proteggerle lì. E se in qualche modo stava guardando la figlia, comunque non le parlava.
Spesso Hazel si chiedeva se non fosse stato il frutto della sua immaginazione. La sua vecchia vita
sembrava lontana come le trasmissioni che ascoltava alla radio, o il presidente Roosevelt che
parlava della guerra. Ogni tanto la gente del posto discuteva dei giapponesi e di qualche battaglia
sulle isole più lontane dell’Alaska, ma anche quelli sembravano eventi lontani, neppure vagamente
spaventosi quanto il problema di Hazel.
Un giorno di mezza estate era rimasta fuori più a lungo del solito, per inseguire un cavallo.
Aveva sentito un crepitio alle spalle, si era voltata ed era stato allora che lo aveva visto per la
prima volta. Era uno splendido stallone dal manto color miele, con la criniera nera, proprio come
quello che aveva cavalcato in quell’ultimo giorno a New Orleans, quando Sammy l’aveva portata
alle scuderie. Avrebbe potuto essere lo stesso cavallo, anche se era impossibile. Brucava qualcosa
sul sentiero e, per un secondo, Hazel ebbe l’incredibile sensazione che stesse masticando una delle
pepite d’oro che comparivano sempre sulla sua scia.
— Ehi, bello! — chiamò.
Il cavallo la guardò, timoroso.
Hazel pensò che dovesse appartenere a qualcuno. Era troppo curato, il suo manto era troppo liscio
per essere un cavallo selvaggio. Se fosse riuscita ad avvicinarsi abbastanza… Cosa? Avrebbe
rintracciato il proprietario? Lo avrebbe restituito?
“No” pensò. “Voglio solo cavalcare di nuovo.” Si avvicinò tenendosi in un raggio di tre metri, e
l’animale fuggì via come un lampo.
Hazel passò il resto del pomeriggio a cercare di raggiungerlo: arrivava vicinissima, per poi
vederlo sfrecciare di nuovo via. Da impazzire.
Perse la cognizione del tempo, una cosa che le capitava spesso, con il sole che rimaneva alto così
a lungo d’estate. Alla fine si fermò a bere a un ruscello e guardò il cielo: calcolò che potessero
essere le tre del pomeriggio. Poi udì il fischio di un treno nella valle. E si rese conto che era l’ultimo
treno diretto ad Anchorage, e quindi erano le dieci di sera.
Lanciò un’occhiataccia al cavallo, che brucava serenamente sull’altra riva del ruscello.
Lo stallone nitrì. Poi… no, doveva averlo immaginato. L’animale sfrecciò via in una macchia
confusa di nero e marrone, più veloce di un fulmine, quasi troppo veloce perché i suoi occhi lo
registrassero.
Hazel non capiva come fosse possibile, ma il cavallo era decisamente scomparso. Fissò il punto
in cui si trovava fino a un attimo prima: un ciuffo di vapore si levava dal terreno.
Il fischio del treno riecheggiò di nuovo sulle colline, e Hazel capì di essere in guai seri. Corse a
casa.
Sua madre non c’era.
Per un secondo, si sentì sollevata. Forse sua madre doveva lavorare fino a tardi. Forse quella sera
non avrebbero dovuto fare il solito viaggio.
Poi vide il disastro. La tenda divisoria davanti al suo letto era a terra. Il baule era aperto e i suoi
pochi vestiti erano sparpagliati sul pavimento. Il materasso era squarciato, come per l’attacco di un
leone. E la cosa peggiore di tutte: il suo album da disegno era strappato in mille pezzi. Le matite
colorate erano tutte rotte. Il dono di compleanno di Plutone, il suo unico lusso, era stato distrutto.
Inchiodato al muro c’era un messaggio scritto in rosso sull’ultimo foglio da disegno, in una grafia che
non era quella di sua madre: “Ragazza cattiva. Ti aspetto sull’isola. Non mi deludere.”
Hazel singhiozzò disperata. Avrebbe tanto voluto ignorare quella convocazione. Avrebbe voluto
scappare, ma dove? E, in ogni caso, sua madre era in trappola. La Voce aveva assicurato che
avevano quasi finito il loro lavoro. Se lei avesse continuato ad aiutarla, sua madre sarebbe stata
libera. Hazel non si fidava della Voce, ma non vedeva altre opzioni.
Prese la barca a remi, una barchetta che sua madre aveva comprato con qualche pepita d’oro da un
pescatore, che il giorno dopo aveva avuto un tragico incidente con le reti. Avevano solo quella
barca, ma ogni tanto sua madre sembrava capace di raggiungere l’isola senza nessun mezzo di
trasporto. E Hazel aveva imparato a non farle domande.
Pur essendo estate, blocchi di ghiaccio vorticavano nella Resurrection Bay. Mentre Hazel remava,
le foche costeggiavano speranzose la barca, annusandola a caccia di resti di pesce. Al centro della
baia, il dorso lucido e nero di una balena solcava la superficie.
Come sempre, il dondolio della barca diede la nausea alla ragazza. Dovette fermarsi a vomitare
fuori bordo. Il sole stava finalmente calando oltre le montagne, tingendo il cielo di rosso sangue.
Hazel remò verso l’imboccatura della baia. Dopo diversi minuti si voltò e guardò davanti a sé. Lì
di fronte, nella nebbia, si materializzò l’isola: un acro coperto di pini, massi e neve, con una spiaggia
di sabbia nera.
Se l’isola aveva un nome, lei non lo conosceva. Una volta aveva commesso l’errore di chiederlo
agli abitanti del paese, ma loro l’avevano guardata come se fosse pazza.
«Non ci sono isole dove dici tu» le aveva risposto un vecchio pescatore. «Altrimenti ci sarei
arrivato un migliaio di volte, con la mia barca.»
Hazel era a una cinquantina di metri dalla costa quando un corvo atterrò sulla poppa. Era un
grosso uccello nero grande quanto un’aquila, con il becco aguzzo come un coltello di ossidiana. I
suoi occhi scintillavano di intelligenza, perciò Hazel non rimase molto sorpresa quando parlò.
— Stanotte — gracchiò. — Ultima notte.
Hazel appoggiò i remi. Cercò di capire cosa le stesse dicendo esattamente il corvo: era un
avvertimento, un consiglio o una promessa? — Ti manda mio padre? — chiese.
Il corvo appoggiò i remi. — Ultima notte. Stanotte. — Diede un colpo di becco alla prua della
barca e volò verso l’isola.
“L’ultima notte” rifletté Hazel. Decise di prenderla come una promessa. “Qualunque cosa mi dirà,
non mi importa. Farò in modo che questa sia davvero l’ultima notte.”
Quel pensiero le diede la forza di continuare a remare. La barca raggiunse senza scossoni la riva,
facendosi strada sul leggero strato di ghiaccio e sabbia nera.
Nel corso dei mesi, Hazel e sua madre, con i loro passi, avevano tracciato un sentiero che
conduceva dalla spiaggia alla pineta. La ragazza era sempre attenta a seguirne il tragitto: l’isola era
piena di pericoli, naturali e soprannaturali. D’un tratto udì un rumore di orsi nel sottobosco; spettri di
luce bianca, vagamente umani, si spostavano aleggiando tra gli alberi. Non sapeva cosa fossero, ma
intuiva che la osservavano sperando che finisse tra le loro grinfie.
Al centro dell’isola, due giganteschi massi neri formavano l’ingresso di un tunnel. Hazel si
addentrò nella caverna che lei chiamava “il Cuore della Terra”.
Era l’unico posto veramente caldo che avesse trovato da quando si era trasferita in Alaska. L’aria
odorava di terra smossa di fresco. Quel calore dolce e umido la intorpidì, ma si sforzò di restare ben
sveglia. Immaginava che, se si fosse addormentata lì, il suo corpo sarebbe affondato nel terreno,
trasformandosi presto in concime.
La grotta era grande quanto la cappella di una chiesa, come la cattedrale di St Louis a casa, in
Jackson Square. Le pareti baluginavano di muschi luminescenti: verdi, rossi e viola. L’intera sala
palpitava di energia, e c’era un tum, tum, tum costante, che a Hazel ricordava il battito di un cuore.
Forse era solo il rumore delle onde che si infrangevano sull’isola, ma nemmeno lei ci credeva
veramente. Quel posto era vivo. La terra era addormentata, ma pulsava di potere. E i sogni della terra
erano così malevoli, così capricciosi, che Hazel sentì scivolare via la sua presa sulla realtà.
Gea voleva distruggere la sua identità, proprio come aveva sopraffatto sua madre. Voleva
distruggere ogni essere umano, dio e semidio osasse posare i piedi sulla sua superficie. “Appartenete
tutti a me” mormorò la dea, come una ninnananna. “Arrenditi. Ritorna alla terra.”
“No” pensò Hazel. “Io sono Hazel Levesque. Non mi avrai.”
Marie Levesque era di fronte al baratro. In sei mesi, i suoi capelli erano diventati grigi come
lanugine. Era dimagrita. Le mani erano ruvide per il lavoro. Indossava un paio di stivaloni da neve e
il grembiule sporco della trattoria. Nessuno l’avrebbe presa per una regina. — È troppo tardi. — La
sua voce fragile riecheggiò nella caverna.
Hazel si rese conto, sconvolta, che era proprio la voce di sua madre, non quella di Gea. —
Mamma?
Marie si voltò. Aveva gli occhi aperti. Era sveglia e cosciente. Hazel avrebbe dovuto sentirsi
sollevata, invece si innervosì. La Voce non aveva mai allentato il controllo quando si trovavano
sull’isola.
— Che cos’ho fatto? — chiese la donna, inerme. — Oh, Hazel, che cosa ti ho fatto? — Fissava
inorridita la creatura nel baratro.
Andavano in quella grotta da mesi, quattro o cinque notti alla settimana a seconda di ciò che la
Voce ordinava. Hazel aveva pianto, era svenuta dalla fatica, aveva supplicato, si era arresa alla
disperazione. Ma la Voce che controllava sua madre era stata implacabile: “Richiama ogni cosa
preziosa dalla terra. Usa i tuoi poteri, bambina. Porta fino a me ciò che di più prezioso possiedo.”
A poco a poco, lo squarcio nella terra si era riempito di oro e di pietre preziose, ribollendo come
una densa zuppa di petrolio: il tesoro di un drago gettato in una fossa di catrame. Poi, lentamente, una
guglia di roccia aveva iniziato a spuntare come un enorme bulbo di tulipano. Era emerso così
lentamente, una notte dopo l’altra, che Hazel quasi non riusciva a vederne i progressi. Spesso si
concentrava tutta la notte per sollevarlo, finché mente e anima non erano esausti, e alla fine non
notava nessuna differenza. Eppure la guglia cresceva.
In quel momento Hazel poté vedere il risultato dei propri sforzi. Quella cosa era alta due piani, un
vortice di volute rocciose che sbucavano come la punta di una lancia dalla palude oleosa. Dentro,
qualcosa baluginava di calore. Hazel non riusciva a vedere chiaramente, però sapeva cosa stava
succedendo. Si stava formando un corpo, d’oro e d’argento, con il sangue di petrolio e diamanti
grezzi al posto del cuore. Il figlio di Gea stava risorgendo; era quasi pronto a risvegliarsi.
Marie Levesque cadde in ginocchio e scoppiò in lacrime. — Mi dispiace, Hazel. Mi dispiace
tanto. — Sembrava impotente e sola, terribilmente triste.
Hazel avrebbe dovuto essere furiosa. Mi dispiace? Viveva nel terrore di sua madre da anni. Le
era stata addossata la colpa della vita infelice di entrambe. Si era vista trattare come un fenomeno da
baraccone, per poi essere strappata dalla casa di New Orleans e trasferita in quelle terre gelide e
selvagge, per lavorare come una schiava agli ordini di una dea spietata e malvagia. “Mi dispiace”
non era abbastanza. Avrebbe dovuto disprezzare sua madre.
Ma non riusciva ad arrabbiarsi.
Hazel si inginocchiò e le mise un braccio intorno alle spalle. Marie Levesque era l’ombra di se
stessa: pelle, ossa e grembiule da lavoro. Tremava perfino al caldo della grotta.
— Cosa possiamo fare? — chiese Hazel. — Dimmi come fermare tutto.
Sua madre scosse la testa. — Lei mi ha lasciata. Sa che è troppo tardi. Non possiamo fare più
nulla.
— Lei… la Voce? — Hazel aveva paura di sperare, ma se sua madre era davvero libera,
nient’altro contava. Potevano andarsene di lì. Potevano fuggire, tornare a New Orleans. — Se n’è
andata?
Marie Levesque si guardò intorno timorosa. — No, è qui. Vuole solo un’ultima cosa da me. E, per
averla, ha bisogno che sia una mia libera scelta.
A Hazel non piacque per niente quella frase. — Andiamocene di qui — disse. — Quella creatura
nella roccia… tra poco si schiuderà.
— Sì, presto — concordò la donna, guardando con tenerezza la figlia.
Hazel neppure ricordava l’ultima volta in cui aveva visto tutto quell’affetto nei suoi occhi. Si sentì
salire un singhiozzo in gola.
— Plutone mi aveva avvisato — disse Marie Levesque. — Mi aveva detto che il mio desiderio
era troppo pericoloso.
— Il tuo… desiderio?
— Tutte le ricchezze custodite sotto la terra. Lui le controllava. Io le volevo — continuò la donna.
— Ero così stanca di essere povera, Hazel. Così stanca. Per prima cosa lo evocai… così, solo per
vedere se ne fossi stata in grado. Non pensavo che quel vecchio incantesimo gris-gris funzionasse
con un dio. Ma lui arrivò, mi corteggiò, mi disse che ero coraggiosa e bella… — Marie Levesque si
guardò le mani piagate e callose. — Quando nascesti tu, era così felice e orgoglioso. Mi promise
qualunque cosa. Giurò sullo Stige. E io chiesi tutte le sue ricchezze. Lui mi avvisò che i desideri più
avidi portano con sé i dolori più grandi. Ma io insistetti. Immaginavo di vivere come una regina… la
moglie di un dio! E invece tu… tu ricevesti la maledizione.
Hazel si sentiva al limite del punto di rottura. Presto non avrebbe più potuto trattenere il dolore
immenso che le si gonfiava dentro, e la sua pelle sarebbe esplosa. — È per questo che riesco a
trovare le cose sottoterra?
— Ed è per questo che tutto ciò che trovi porta solo dolore. — Marie Levesque indicò con un
ampio gesto la caverna. — È così che lei mi ha trovata, ed è così che è stata in grado di controllarmi.
Ero arrabbiata con tuo padre. Lo incolpavo dei miei problemi. Incolpavo te. Ero così amareggiata
che ho ascoltato la voce di Gea. Sono stata una stupida.
— Dev’esserci qualcosa che possiamo fare — disse Hazel. — Dimmi come fermarla.
All’improvviso il terreno tremò.
La voce disincarnata di Gea riecheggiò nella caverna, o forse soltanto nella mente di Hazel. “Mio
figlio, il maggiore, sta risorgendo!” esclamò. “Il tesoro più prezioso della terra, e sei stata tu a
riportarlo dagli abissi, Hazel Levesque. Tu l’hai ricreato. Il suo risveglio non si può fermare. Resta
una sola cosa da fare.”
Hazel strinse i pugni. Era terrorizzata ma, ora che sua madre era libera, si sentiva finalmente
capace di affrontare la sua nemica. Quella creatura, quella dea malvagia, aveva rovinato loro la vita.
Hazel non le avrebbe permesso di vincere. — Non ti aiuterò più! — gridò.
“Ma non ho più bisogno del tuo aiuto, ragazzina. Ti ho portata qui per una sola ragione. Tua madre
aveva bisogno di un… incentivo.”
Hazel si sentì serrare la gola. — Mamma?
— Mi dispiace, Hazel. Perdonami, se puoi, ti prego… Sappi che è solo perché ti voglio bene. Mi
ha promesso che ti lascerà vivere se…
— Se sacrificherai te stessa — concluse Hazel, rendendosi conto della verità. — Ha bisogno che
tu sacrifichi spontaneamente la tua vita perché quella… cosa risorga.
“Alcione, il maggiore dei giganti ” disse Gea. “Lui deve sorgere per primo, e questa sarà la sua
nuova casa, lontano dagli dei. Camminerà tra queste montagne e foreste ghiacciate. Radunerà un
esercito di mostri. E mentre gli dei sono divisi e combattono l’uno contro l’altro in questa guerra
mondiale dei mortali, manderà il suo esercito a distruggere l’Olimpo.”
I sogni di Gea erano così potenti da gettare ombre sulle pareti della grotta: immagini mutevoli e
spettrali di armate naziste che infuriavano in Europa, di aeroplani giapponesi che distruggevano le
città americane.
Hazel finalmente comprese. Gli dei dell’Olimpo si sarebbero divisi e schierati in quella battaglia,
come facevano sempre nelle guerre degli umani. E mentre gli dei si combattevano in una sanguinosa
impasse, un esercito di mostri sarebbe sorto lì a nord. Alcione avrebbe resuscitato gli altri giganti e
li avrebbe mandati alla conquista del mondo. Gli dei indeboliti sarebbero caduti. Il conflitto mortale
avrebbe infuriato per decenni, finché la civiltà non sarebbe stata spazzata via, e la dea della terra si
sarebbe finalmente svegliata. Gea avrebbe governato per l’eternità.
“Tutto questo perché tua madre è stata avida e ti ha maledetta con il dono di saper ritrovare le
ricchezze della terra” continuò melliflua la dea. “Nel mio assopimento, avrei avuto bisogno di
decenni, di secoli forse, per trovare il potere di resuscitare Alcione da sola. Ma ora lui si
risveglierà, e presto anch’io sarò desta!”
Con terribile certezza, Hazel capì cosa sarebbe successo. L’unica cosa di cui Gea aveva bisogno
era un sacrificio volontario, un’anima da consumare affinché Alcione si svegliasse. Sua madre
sarebbe entrata nel baratro e avrebbe toccato quella guglia orrenda, e ne sarebbe stata assorbita.
— Hazel, va’ via. — Marie Levesque si rimise in piedi, traballando. — Ti lascerà vivere, ma
devi sbrigarti.
Era questa la cosa più terribile: Gea avrebbe onorato il patto e l’avrebbe lasciata vivere. Hazel
sarebbe sopravvissuta per vedere la fine del mondo, sapendo di essere stata lei a provocarla.
— No. — Hazel aveva deciso. — Non vivrò. Non per questo. — Si mise in profondo contatto con
la propria anima. Fece appello a suo padre, il Signore degli Inferi, ed evocò tutte le ricchezze che
esistevano nel suo vasto reame.
La caverna tremò. Intorno alla guglia di Alcione, il petrolio ribollì, roteò e infine eruppe come un
calderone infuocato.
“Non essere sciocca” disse Gea, ma Hazel colse una vena di preoccupazione nella sua voce, forse
perfino di paura. “Ti distruggerai per nulla! Tua madre morirà!”
Hazel rischiò di vacillare. Ricordò la promessa di Plutone: un giorno, un discendente di Nettuno
le avrebbe dato la pace e la maledizione sarebbe stata cancellata. Aveva perfino detto che forse
avrebbe trovato un cavallo tutto per sé. Forse lo strano stallone che aveva visto sulle colline era
destinato a lei, si disse Hazel. Ma niente di tutto ciò sarebbe successo, se fosse morta in quel
momento. Non avrebbe mai più rivisto Sammy, né sarebbe mai tornata a New Orleans. La sua vita
non sarebbe stata altro che quei tredici, brevissimi, amari anni, coronati da una brutta fine.
Hazel incontrò lo sguardo della madre.
Per una volta, Marie Levesque non sembrava triste, e nemmeno arrabbiata. I suoi occhi brillavano
d’orgoglio. — Eri tu il mio dono, Hazel — le disse. — Il mio dono più prezioso. Sono stata una
stupida a pensare di avere bisogno di altro. — Baciò la figlia sulla fronte e la strinse forte.
Il suo calore diede a Hazel il coraggio di continuare. Sarebbero morte, ma non come sacrifici a
Gea. Istintivamente, Hazel capì che il loro ultimo gesto sarebbe stato quello di rifiutare il potere
della dea. Le loro anime sarebbero sprofondate negli Inferi, e Alcione non sarebbe risorto. Almeno
per il momento.
Chiamò a raccolta le ultime forze. L’aria si fece incandescente. La guglia cominciò ad affondare.
Pietre preziose e interi blocchi d’oro spuntarono dal baratro con una forza tale da incrinare le pareti
della grotta, lanciando schegge di pietra nell’aria, che trapassarono il giaccone della ragazza e le si
conficcarono nella pelle.
“Fermati!” ordinò Gea. “Non puoi impedire il suo ritorno. Al massimo, potrai solo ritardarlo di
qualche decennio. Mezzo secolo. E sacrificheresti le vostre vite per questo?”
Hazel le diede la sua risposta.
«Ultima notte» aveva detto il corvo.
Il baratro esplose. Il tetto crollò.
Hazel affondò nel buio, tra le braccia di sua madre, mentre il petrolio le riempiva i polmoni e
l’isola si sgretolava nella baia.
HAZEL
— Hazel! — Frank la scosse per le braccia, in preda al panico. — Dai, ti prego! Svegliati!
La ragazza aprì gli occhi. Il cielo notturno scintillava di stelle; il dondolio della barca era svanito.
Giaceva sulla terraferma, la spada nel sacco a pelo e lo zaino al suo fianco. Si mise a sedere stordita,
con la testa che le girava.
Si trovavano su una scogliera affacciata su una spiaggia. A un centinaio di metri di distanza,
l’oceano riluceva sotto la luna piena. Le onde della battigia lambivano dolcemente la poppa della
barca tirata a riva. Alla sua destra, abbarbicato alla scogliera, c’era un edificio simile a una
chiesetta, con un riflettore sul campanile. Un faro, concluse Hazel. Dietro di loro, campi di erba alta
frusciavano nel vento.
— Dove siamo? — chiese.
Frank tirò un sospiro di sollievo. — Grazie agli dei, sei sveglia! Siamo a Mendocino, a più di
duecento chilometri dal Golden Gate.
— Più di duecento chilometri? — Hazel emise un gemito. — Sono rimasta svenuta così tanto?
Percy le si inginocchiò accanto; il vento marino gli spettinava i capelli. Le mise una mano sulla
fronte per controllare se avesse la febbre. — Non siamo riusciti a svegliarti. Alla fine abbiamo
deciso di portarti sulla terraferma. Abbiamo pensato che forse il mal di mare…
— Non è stato quello. — Hazel trasse un respiro profondo. Non poteva più nascondere la verità
agli amici. Ricordava bene le parole di Nico: «Se ti capita un blackout del genere durante un
combattimento…» — Non sono stata… sincera, con voi — confessò. — Quello che mi è successo è
stato un… un blackout. Mi capita di tanto in tanto.
— Un blackout? — Frank le prese la mano, scombussolandola un poco… in modo piacevole,
però. — È una malattia? Perché non me ne sono mai accorto prima?
— Cerco di nasconderlo — confessò lei. — Finora sono stata fortunata, ma sta peggiorando. Non
è una malattia… non esattamente. Nico dice che è un effetto collaterale del mio passato, del luogo in
cui mi ha trovato.
— E dove ti ha trovato, di preciso?
Hazel si sentiva la lingua secca come se avesse in bocca del cotone. Temeva che, se avesse
cominciato a parlare, sarebbe di nuovo scivolata nel passato, ma i suoi amici avevano il diritto di
sapere. Se nel corso della missione li avesse delusi, se avesse avuto uno di quei blackout nel
momento del bisogno… Non riusciva neanche a pensarci. — Vi spiegherò tutto — promise. Frugò
nello zaino. Stupidamente, aveva dimenticato di portare una bottiglia d’acqua. — C’è qualcosa da
bere?
— Sì. — Percy imprecò in greco. — Che stupido! Ho lasciato le provviste giù alla barca.
A Hazel dispiaceva farsi servire in quel modo, ma si era svegliata esausta e con la gola secca,
come se avesse vissuto le ultime ore sia nel passato sia nel presente. Si mise lo zaino con legato il
sacco a pelo in spalla. — Non importa. Posso camminare…
— Non pensarci nemmeno — la fermò Frank. — Prima devi mangiare e bere qualcosa. Vado io.
— No, vado io. — Percy lanciò un’occhiata alle loro mani unite. Poi scrutò l’orizzonte come se
percepisse guai, ma non c’era nulla da vedere, tranne il faro e i campi d’erba che si allungavano
nell’entroterra. — Voi due restate qui. Torno subito.
— Sicuro? — domandò Hazel, con un filo di voce. — Non voglio che…
— Figurati — la interruppe Percy. — Frank, tieni gli occhi aperti. Questo posto ha qualcosa
che… non lo so.
— La proteggerò — promise Frank.
Percy corse via.
Una volta soli, Frank sembrò accorgersi di tenerla ancora per mano. Si schiarì la voce e la lasciò
andare. — Io… ehm… credo di capire i tuoi svenimenti — disse. — E anche da dove vieni.
Il cuore di Hazel saltò un battito. — Davvero?
— Sembri così diversa dalle altre ragazze che ho conosciuto. — Frank strizzò le palpebre, poi si
affrettò a continuare: — Non… non in senso cattivo. È solo che… il modo in cui parli… le cose che
ti sorprendono, come le canzoni, gli spettacoli in TV o lo slang che usa la gente. Parli della tua vita
come se risalisse a tanto tempo fa. Sei nata in un’epoca diversa, vero? Vieni dagli Inferi.
Hazel era sul punto di piangere; non perché fosse triste, ma perché era un tale sollievo sentire
qualcuno che diceva la verità. Frank non sembrava né disgustato né spaventato. Non la guardava
come se fosse un fantasma o uno zombie. — Frank, io…
— Risolveremo tutto — promise lui. — Ora sei viva. E faremo in modo che lo resti.
L’erba frusciò alle loro spalle. Hazel si sentì bruciare gli occhi nel vento freddo. — Non merito
un amico come te. Tu non sai che cosa sono… che cosa ho fatto.
— Smettila. — Frank si accigliò. — Sei fantastica! E poi non sei l’unica ad avere dei segreti.
Hazel lo fissò. — Davvero?
Frank fece per dire qualcosa. Poi si irrigidì.
— Che c’è? — chiese lei.
— Il vento si è fermato.
Hazel si guardò intorno. Era vero: l’aria sembrava perfettamente immobile. — E allora?
Frank deglutì. — Come mai l’erba si muove ancora?
Con la coda dell’occhio, Hazel vide sagome scure che guizzavano nel campo.
— Hazel! — Frank cercò di afferrarla per le braccia, ma si mosse troppo tardi. Qualcosa lo fece
cadere all’indietro.
Poi una forza simile a un uragano d’erba si avvolse intorno a Hazel e la trascinò nei campi.
HAZEL
Hazel era un’esperta di misteri e stranezze. Aveva visto sua madre posseduta da una dea della terra.
Aveva creato un gigante d’oro. Aveva distrutto un’isola, era morta ed era tornata dagli Inferi.
Ma il rapimento a opera di un campo? Questa era nuova anche per lei.
Era come essere intrappolata in un vortice d’erba. Le avevano raccontato che i cantanti moderni si
tuffavano sulla folla dei fan per poi farsi trasportare in alto scorrendo su migliaia di mani. Immaginò
che fosse qualcosa di simile, solo che lei si spostava mille volte più in fretta, e i fili d’erba non
erano fan adoranti.
Non riusciva a tirarsi su. Non riusciva a toccare il terreno. La spada era ancora chiusa nel sacco a
pelo legato allo zaino, ma non riusciva a raggiungerla. Le piante continuavano a farle perdere
l’equilibrio, lanciandola di qua e di là, graffiandole il viso e le braccia. Riusciva a malapena a
distinguere le stelle in quel groviglio di verde, giallo e nero. Le grida di Frank si affievolirono in
lontananza.
Era difficile pensare con lucidità, ma di una cosa Hazel era certa: si stava muovendo molto
velocemente. Ovunque la stessero portando, presto sarebbe stata troppo lontana perché i suoi amici
potessero rintracciarla.
Chiuse gli occhi e cercò di ignorare lo sballottamento. Inviò i propri pensieri alla terra. Oro,
argento… qualsiasi cosa sarebbe andata bene pur di confondere i rapitori. Ma non sentì nulla. Pietre
e metalli preziosi sembravano inesistenti.
Stava per disperare, quando avvertì un’ampia area fredda sotto di lei. Vi si aggrappò con la
massima concentrazione, gettando un’ancora mentale. D’un tratto, la terra tremò. Il vortice vegetale la
liberò, catapultandola in aria come un proiettile.
In quell’unico attimo senza peso, Hazel aprì gli occhi. Piegò il corpo a mezz’aria. Il suolo era a
poco più di sei metri da lei. Un secondo dopo stava precipitando, ma per fortuna l’addestramento
ebbe la meglio. Si era già esercitata nelle cadute in volo dalla groppa delle aquile. Ruotò su se
stessa, fece una capriola e atterrò in piedi.
Slacciò il sacco a pelo ed estrasse la spada. A pochi metri da lei, alla sua sinistra, un
affioramento roccioso grande quanto un garage si stagliava sul mare d’erba. Hazel capì che era la sua
ancora. Era stata lei a farlo spuntare.
L’erba vi si agitava intorno. Voci furenti sibilavano sbigottite contro il blocco di pietra argentea
che aveva interrotto l’avanzata. Prima che potessero ricompattarsi, Hazel corse alla roccia e si
arrampicò sulla cima. I fili d’erba frusciarono e ondeggiarono intorno a lei come i tentacoli di un
gigantesco anemone di mare.
La ragazza percepì la delusione dei rapitori. — Non riuscite a crescere sulla roccia, eh? — gridò.
— Andate via, brutte erbacce! Lasciatemi in pace!
— Maledizione! Che gigantesco mucchio di stronzio!
Hazel non sapeva come replicare. Ricordava che una volta una suora della Sant’Agnese le aveva
lavato la bocca con il sapone per avere detto una cosa simile.
Poi, tutt’intorno a quell’isola di pietra, i rapitori si materializzarono fuori dall’erba. A prima
vista, somigliavano agli angioletti che si vedono sui biglietti di San Valentino, piccoli e paffuti
cupidi. Ma, quando si avvicinarono, Hazel si rese conto che non erano né carini né angelici.
Erano grandi quanto neonati, con tanto di simpatici rotolini di grasso, ma la pelle aveva una strana
sfumatura verdastra, come se nelle loro vene scorresse clorofilla al posto del sangue. Avevano ali
secche e fragili, come le foglie delle pannocchie, e ciuffi di capelli bianchi simili alle barbe del
granoturco. Gli occhi erano verdi, senza pupille, e i canini appuntiti.
La creatura più grande si fece avanti. Indossava un perizoma giallo e aveva i capelli ispidi come
le setole di una spiga di grano. Sibilò contro Hazel e si mise a camminare come una papera avanti e
indietro, così in fretta da mettere a rischio la tenuta del perizoma. — Odio lo stronzio! — si lamentò
la creatura. — Sopra non vi può crescere il frumento!
— Non vi può crescere il sorgo! — rincarò un’altra.
— Né l’orzo! — strepitò una terza. — Non vi può crescere l’orzo. Maledetto stronzio!
Hazel si sentì le ginocchia molli. Quelle creaturine le sarebbero perfino sembrate buffe se non le
avesse avute intorno in quel modo, con i loro occhietti famelici e i dentini aguzzi; erano come dei
cupidi piranha. — State parlando della roccia? — balbettò. — Questa roccia si chiama “stronzio”?
— Sì, pietra argentea! Stronzio! — strillò la prima creatura. — Brutta roccia cattiva.
— Vale molto?
— Bah! I popoli sciocchi del posto la usavano per farci i gioielli — replicò la creatura col
perizoma giallo. — Preziosa? Forse. Mai quanto il frumento.
— O il sorgo!
— O l’orzo!
Le altre si unirono al coro, gridando il nome di diversi tipi di cereali. Accerchiarono la roccia,
senza fare alcun tentativo di scalarla. Se avessero deciso di arrampicarsi, Hazel non avrebbe mai
potuto scacciarli tutti.
— Siete servi di Gea! — esclamò, per prendere tempo. Forse Percy e Frank non erano troppo
lontani. Forse l’avrebbero vista, in cima a quella roccia che si stagliava sui campi. Peccato che la
spada non brillasse come quella di Percy.
Il cupido col perizoma giallo ringhiò. — Noi siamo i karpoi, gli spiriti del grano. Figli della
Madre Terra, sì! Siamo i suoi servitori, da sempre. Prima che gli umani brutti e cattivi ci
coltivassero, eravamo selvatici. Lo saremo di nuovo. Il frumento distruggerà tutto!
— No, sarà il sorgo!
— No, invece, dominerà l’orzo!
Le altre creature si unirono di nuovo al coro, ogni karpos difendeva la propria varietà.
— Giusto. — Hazel fece buon viso a cattivo gioco. — Perciò tu, con le mutan… le brache gialle,
sei Frumento.
— Sì — confermò Frumento. — Scendi giù da quel mucchio di stronzio, semidea! Dobbiamo
portarti dall’esercito della nostra padrona. Ci ricompenseranno. Ti uccideranno lentamente!
— Mi stai tentando — replicò Hazel. — Ma preferisco di no, grazie.
— Ti darò del frumento! — ribatté lui, come se fosse un’offerta molto generosa in cambio della
vita. — Tanto frumento!
Hazel cercò di riflettere. Quanta strada le avevano fatto fare? Quanto ci avrebbero messo i suoi
amici a trovarla? I karpoi si stavano facendo più audaci, e si avvicinavano alla roccia in gruppetti di
due o tre, graffiandola come per capire se avrebbe fatto loro del male.
— Prima di scendere… — Alzò la voce, sperando che si diffondesse sopra i campi. — Ehm… mi
spieghereste una cosa, per favore? Se voi siete spiriti del grano, non dovreste essere dalla parte degli
dei? La dea dell’agricoltura non si chiama Cerere?
— Nome malvagio! — gemette Orzo.
— Ci coltiva! — aggiunse Sorgo, sprezzante. — Ci costringe a crescere in file disgustose. Lascia
che gli umani ci raccolgano. Puah! Quando Gea sarà di nuovo la signora del mondo, cresceremo
liberi e selvatici, sì!
— Be’, naturalmente — disse Hazel. — Perciò questo suo esercito, dove mi state portando in
cambio di frumento…
— O di orzo — propose Orzo.
— Sì, certo — confermò Hazel. — Questo esercito dove si trova, adesso?
— Oltre quel crinale! — Sorgo batté le mani, contento. — La Madre Terra ci ha detto: “Cercate la
figlia di Plutone, che è tornata in vita. Trovatela! Portatela da me, viva! Ho in mente molte torture da
infliggerle.” Il gigante Polibote ci ricompenserà per la tua vita, semidea. Poi marceremo verso sud,
per distruggere i Romani. Non ci possono uccidere. Ma tu… sì, puoi essere uccisa.
— Magnifico. — Hazel si sforzò di sembrare entusiasta. Non era facile, sapendo che Gea aveva
programmato una vendetta speciale solo per lei. — E così… nessuno può uccidervi, perché Alcione
ha catturato Thanatos, giusto?
— Esatto! — confermò Orzo.
— E lo tiene incatenato in Alaska — continuò Hazel. — Aspetta… come si chiama il posto?
Sorgo fece per rispondere, ma Frumento lo atterrò con un pugno. I karpoi cominciarono a lottare,
dissolvendosi in piccoli vortici di cereali. Hazel valutò la possibilità di scappare.
D’un tratto Frumento si riformò, stringendo la testa di Sorgo sotto il braccio. — Fermi tutti! —
urlò agli altri. — Il combattimento multicereali è proibito!
I karpoi si solidificarono, tornando i paffuti cupidi piranha di poco prima.
Frumento allontanò Sorgo con una spinta. — Oh, la semidea è furba. Cerca di farci rivelare i
nostri segreti. Ma non troverà mai il covo di Alcione!
— So già dove si trova — ribatté Hazel, fingendo sicurezza. — Su un’isola della Resurrection
Bay.
— Ah! — la schernì Frumento. — Quel posto è affondato in mare tanti anni fa. Tu dovresti
saperlo! Gea ti odia per questo. Quando hai sventato i suoi piani, è stata costretta a dormire di nuovo.
Per interi decenni! E Alcione… ha dovuto aspettare i tempi oscuri per poter risorgere.
— Gli anni Ottanta — confermò Orzo. — Orribili! Orribili!
— Sì — concordò Frumento. — E la nostra padrona dorme ancora. Alcione è stato costretto ad
attendere il momento opportuno, su al Nord. Ha aspettato, progettato. Solo ora Gea ha iniziato a
svegliarsi. Oh, ma si ricorda di te, e neppure suo figlio ti ha dimenticata!
Sorgo ridacchiò, maligno e contento. — Non scoprirai mai la prigione di Thanatos. L’intera
Alaska è la casa del gigante. Potrebbe tenere Thanatos ovunque! Ci metterai anni a trovarlo, e il tuo
povero campo ha solo pochi giorni. Arrenditi, ti conviene. Ti daremo del grano. Tanto grano.
Hazel sentì la spada farsi pesante. Aveva il terrore di tornare in Alaska, ma fino a un attimo prima
almeno aveva un’idea di dove cominciare a cercare Thanatos. Aveva pensato che l’isola su cui era
morta non fosse andata completamente distrutta, o che magari fosse emersa di nuovo al risveglio di
Alcione. Ma, se davvero non c’era più, non avrebbe saputo proprio dove trovare il gigante. L’Alaska
era enorme. Avrebbero potuto cercare per decenni senza mai trovarlo.
— Sì — disse Frumento, percependo la sua angoscia. — Arrenditi.
Hazel strinse forse la spada. — Mai! — Alzò di nuovo la voce, sperando che raggiungesse in
qualche modo i suoi amici. — Se devo distruggervi tutti, lo farò. Sono la figlia di Plutone!
I karpoi avanzarono. Si aggrapparono alla roccia, soffiando come se fosse incandescente, e
cominciarono ad arrampicarsi.
— Adesso morirai — promise Frumento, digrignando i denti. — Subirai la furia del grano!
All’improvviso si udì un fischio.
Il ringhio di Frumento si pietrificò. La creatura abbassò lo sguardo sulla freccia dorata che le
aveva appena perforato il petto. Poi si dissolse in briciole di cereali.
HAZEL
Per mezzo secondo, Hazel rimase sbigottita quanto i karpoi. Poi Frank e Percy irruppero allo
scoperto e cominciarono a massacrare ogni cereale a portata di arma. Frank scoccò una freccia
contro Orzo, che si sgretolò in una manciata di semi. Percy tagliò a fette Sorgo e si lanciò all’attacco
di Miglio e Avena. Hazel saltò giù dalla roccia e si unì alla battaglia. Nel giro di pochi minuti, i
karpoi furono ridotti a pile di granaglie e cornflakes vari.
Frumento cominciava già a riformarsi, ma Percy tirò fuori dallo zaino un accendino e fece scattare
la fiammella. — Provaci, e darò fuoco a questo bel campo — minacciò. — Restate morti e alla larga,
o tutta quest’erba se la vedrà brutta!
Frank trasalì, come se l’idea del fuoco lo terrorizzasse.
Hazel non capì perché, ma gridò comunque al mucchio di granaglie: — Lo farà! È pazzo!
I resti dei karpoi si sparpagliarono nel vento. Frank si arrampicò sulla roccia e li guardò
allontanarsi.
Percy spense l’accendino e sorrise all’amica. — Grazie per aver gridato. Non ti avremmo trovato
altrimenti. Come hai fatto a tenerli a bada per tanto tempo?
Hazel indicò la roccia. — Grazie a un gran bel mucchio di stronzio.
— Come dici, scusa?
— Ragazzi — li richiamò Frank da sopra la roccia. — Dovete venire a vedere.
Percy e Hazel si arrampicarono e lo raggiunsero.
Non appena Hazel vide ciò che Frank stava guardando, rimase senza fiato. — Percy, niente luci!
Metti via la spada!
— Maledizione! — Percy toccò la punta della spada, e Vortice tornò in formato penna.
In lontananza, sotto di loro, c’era un esercito in marcia.
Il campo infatti terminava in una gola non molto profonda, dove una strada sterrata serpeggiava in
direzione nord-sud. Sul lato opposto della strada, verdi colline si estendevano all’orizzonte, del tutto
disabitate, tranne che per un emporio in cima all’altura più vicina.
L’intera gola pullulava di mostri, colonne su colonne dirette verso sud. Erano così tanti e a
distanza così ravvicinata che Hazel si stupì che non l’avessero sentita gridare.
I ragazzi si accovacciarono sulla roccia, e rimasero a spiare increduli il passaggio di decine di
creature umanoidi e pelose, vestite di pellicce e pezzi rabberciati di armatura. Avevano sei braccia
ciascuna, tre per ogni fianco, come cavernicoli evolutisi dagli insetti.
— Gegenees — bisbigliò Hazel. — I Figli della Terra.
— Li hai già combattuti? — chiese Percy.
Lei scosse la testa. — Ne ho solo sentito parlare a lezione, giù al campo. — Non le erano mai
piaciute le lezioni sui mostri, i libri di Plinio il Vecchio e di tutti quegli altri autori decrepiti che
descrivevano le creature leggendarie ai margini dell’impero romano. Hazel credeva nell’esistenza
dei mostri, ma alcune di quelle descrizioni erano così folli che le aveva prese solo per delle voci
ridicole. E invece, in quel preciso momento, c’era un intero esercito di voci ridicole che marciava
sotto il suo naso. — I Figli della Terra combatterono contro gli Argonauti — mormorò. — E quegli
esseri alle loro spalle…
— Centauri — disse Percy. — Ma… è strano. I centauri sono buoni.
Frank per poco non si strozzò. — Non è quello che ci hanno insegnato al campo. I centauri sono
pazzi, non fanno altro che bere e ammazzare gli eroi.
Hazel li guardò passare al piccolo trotto. Erano umani dalla vita in su e cavalli dalla vita in giù.
Indossavano armature in cuoio e bronzo, ed erano armati di lance e fionde. Le sembrò che portassero
elmi vichinghi, poi si rese conto che avevano dei veri e propri corni in mezzo alle chiome scomposte.
— Hanno sempre quelle corna taurine? — domandò.
— Forse sono di una razza speciale — suggerì Frank. — Ma non andiamo a chiederglielo, okay?
Percy spinse ancora più in là lo sguardo, e rimase di sasso. — Santi numi… ciclopi!
Poco dopo, dietro i centauri, fece il suo pesante ingresso un intero battaglione di ciclopi, maschi e
femmine, di almeno tre metri ciascuno, vestiti con armature raffazzonate. Sei di loro avevano il
giogo, come dei buoi, e trascinavano gigantesche torri d’assedio armate di enormi baliste.
Percy si premette le mani sulle tempie. — Ciclopi, centauri… È sbagliato. È tutto sbagliato.
Quell’esercito di mostri avrebbe fatto disperare chiunque, ma Hazel intuì che a Percy stava
capitando qualcos’altro. Sembrava pallido e malaticcio alla luce della luna, come se i suoi ricordi
cercassero di fare ritorno, gettandolo però nello scompiglio più totale.
La ragazza lanciò un’occhiata a Frank. — Dobbiamo riportarlo alla barca. Il mare lo farà sentire
meglio.
— Non se ne parla — replicò lui. — Sono troppi. Dobbiamo avvertire il campo.
— Lo sanno già — intervenne Percy. — Reyna lo sa.
A Hazel salì un groppo in gola. La legione non avrebbe mai potuto sconfiggere tutti quei mostri.
Era impossibile. Se erano solo a poche centinaia di chilometri a nord del Campo Giove, la loro
missione era già segnata. Non sarebbero mai riusciti ad andare e tornare dall’Alaska in tempo.
— Forza — disse. — Muovia… — Poi vide il gigante, e non riuscì a credere ai propri occhi.
Era più alto di una torre d’assedio, almeno dieci metri, con le gambe ricoperte di scaglie come un
varano, e un’armatura blu-verde dalla vita in su. Sul pettorale di ferro erano scolpite file e file di
facce mostruose e fameliche, con le fauci spalancate come in attesa di cibo. Il volto era umano, ma i
capelli erano verdi e selvaggi, come un grande cespuglio di alghe. Quando girò la testa da un lato
all’altro, scrollando la chioma, piovvero giù dei serpenti. Forfora di vipere… che schifo!
Era armato di un gigantesco tridente e di una rete da gladiatore. Hazel si sentì stringere lo stomaco
alla sola vista di quelle armi. Aveva affrontato quel genere di guerriero molte volte durante gli
addestramenti al campo. Era lo stile di combattimento più infido, abietto e malvagio che conoscesse.
Quel gigante era un retiarius in formato XXXXL.
— Chi è? — La voce di Frank tremava. — Non sarà…?
— No, non è Alcione — disse Hazel, in tono flebile. — Uno dei suoi fratelli, credo; quello di cui
parlava Terminus. Anche gli spiriti del grano l’hanno nominato. È Polibote.
Non sapeva nemmeno come, ma riusciva a percepire l’aura di potere del gigante perfino da lì.
Aveva provato una sensazione simile quando aveva fatto risorgere Alcione, nel Cuore della Terra:
era come trovarsi di fronte a una potentissima calamita che attirava tutto il ferro che le scorreva nelle
vene. Quel gigante era un altro figlio di Gea, una creatura così malvagia e potente da irradiare un
proprio campo gravitazionale.
Hazel sapeva che avrebbero dovuto andarsene. Il loro nascondiglio non sarebbe stato più tale per
una creatura tanto alta, se si fosse voltata da quella parte. Ma intuì che stava per succedere qualcosa
d’importante. I tre ragazzi scivolarono un po’ più giù sulla roccia e restarono a guardare.
Quando il gigante si avvicinò, una ciclope corse a parlargli. Portava una vestaglietta di cotta di
maglia; era enorme, grassa e bruttissima, ma accanto al gigante sembrava una bambina. Indicò
l’emporio chiuso in cima alla collina e borbottò qualcosa a proposito di cibo. Il gigante le rispose
brusco, come se fosse seccato. La ciclope gridò un ordine ai suoi compagni, e tre di loro la seguirono
verso l’altura. Quando furono a metà strada, una luce accecante trasformò la notte in giorno.
Hazel non ci vide più. Sotto di lei, nell’esercito nemico esplose il caos. I mostri strillavano di
dolore e di sdegno. Hazel socchiuse gli occhi, strizzando le palpebre. Le sembrava di essere appena
uscita dalla buia sala di un cinema nella luce di un pomeriggio di sole.
— Troppa luce! — strepitarono i ciclopi. — Ci fa male all’occhio!
L’emporio in cima alla collina era racchiuso nell’arcobaleno più vicino e luminoso che Hazel
avesse mai visto. L’arco era ancorato al negozio e da lì saliva verso il cielo, inondando la campagna
di uno strano bagliore caleidoscopico.
La ciclope sollevò la mazza e partì alla carica. Quando colpì l’arcobaleno, cominciò a mandare
fumo da tutto il corpo. Mugghiò dal dolore e lasciò cadere la mazza, ritraendosi coperta di bolle
multicolore sulle braccia e sul volto. — Orribile dea! — urlò rivolta all’emporio. — Dacci da
mangiare!
Gli altri mostri impazzirono: attaccarono anche loro l’emporio, per poi scappare subito via, come
scottati dall’arcobaleno. Lanciarono sassi, lance, spade e perfino pezzi di armatura, ma ogni
proiettile esplose in fiamme di tutti i colori.
Alla fine il gigante a capo dell’esercito sembrò rendersi conto che i suoi sottoposti stavano
gettando al vento il loro ottimo equipaggiamento. — Fermi! — ordinò. Con una certa difficoltà, a
furia di urla, spinte e pugni, riuscì a sottomettere le sue truppe. Quando tutti si furono calmati, si
avvicinò all’emporio protetto dall’arcobaleno, camminando impettito intorno ai confini disegnati
dalla luce. — Dea! — gridò. — Vieni fuori e arrenditi!
Non giunse nessuna risposta. L’arcobaleno continuò a scintillare.
Il gigante sollevò il tridente e la rete. — Io sono Polibote! Inginocchiati al mio cospetto e, forse, ti
distruggerò in fretta!
A quanto pareva, nell’emporio nessuno rimase molto impressionato. Un minuscolo oggetto nero
volò fuori dalla finestra e atterrò ai piedi del gigante.
Polibote urlò: — Una granata! — E si coprì il volto.
Le truppe si gettarono a terra.
Quando l’oggetto non esplose, Polibote si chinò con prudenza e lo raccolse. Ruggì di sdegno. —
Un pasticcino? Osi insultarmi con un pasticcino? — Lo rilanciò al mittente, e il pasticcino si
disintegrò nella luce.
I mostri si alzarono. Diversi borbottarono affamati: — Pasticcini? Dove?
— Attacchiamo! — esclamò la ciclope. — Ho fame. I miei ragazzi vogliono uno spuntino!
— No! — ribatté Polibote. — Siamo già in ritardo. Alcione ci vuole al campo fra quattro giorni.
Voi ciclopi siete di una lentezza insopportabile. Non abbiamo tempo per le divinità minori.
L’ultimo commento era diretto all’emporio, ma non ottenne nessuna risposta.
La ciclope ringhiò. — Il campo, sì. Vendetta! I viola e gli arancioni mi hanno distrutto la casa. E
ora Mamma Cinghia distruggerà la loro! Sentito, Leo? Jason? Piper? Sto venendo ad annientarvi!
Gli altri ciclopi risposero con potenti grida di approvazione. Il resto dei mostri si unì al coro.
Hazel si sentì formicolare in tutto il corpo. Lanciò un’occhiata ai suoi amici. — Jason… —
bisbigliò. — Ha combattuto contro Jason. Forse è ancora vivo.
Frank annuì. — E gli altri nomi ti dicono niente?
Lei scosse la testa: non conosceva nessun Leo e nessuna Piper al campo. Percy sembrava ancora
molto provato; se quei nomi significavano qualcosa per lui, non lo diede a vedere. Hazel rifletté sulle
parole della ciclope: «I viola e gli arancioni…» Il viola era chiaramente il colore del Campo Giove,
ma l’arancione… Percy era arrivato con una maglietta arancione indosso. Non poteva essere una
coincidenza.
Sotto di loro, l’esercito riprese a marciare verso sud, ma Polibote rimase fermo in disparte, a
fiutare l’aria. — Il dio del mare… — borbottò, con la fronte aggrottata. E, facendo rabbrividire
Hazel, si voltò dalla loro parte. — Sento il suo odore.
Mamma Cinghia ringhiò con disprezzo. — Per forza! Il mare è laggiù!
— No, c’è dell’altro — insistette Polibote. — Io sono nato per distruggere Nettuno. E ora sento…
— Si accigliò, voltando la testa e facendo piovere altre manciate di serpenti.
— Marciamo o fiutiamo l’aria? — lo rimbeccò Mamma Cinghia. — Niente pasticcini per me,
niente divinità marine per te!
Polibote grugnì. — E va bene. In marcia! In marcia! — Diede un’ultima occhiata all’emporio
racchiuso nell’arcobaleno e si passò le dita tra i capelli. Tirò fuori tre serpenti più grandi degli altri,
con dei segni bianchi sul collo. — Un dono per te, dea! Il mio nome, Polibote, significa “molti da
sfamare”. Eccoti qualche bocca affamata. Vedi un po’ quanti clienti riesci ad attirare nel tuo negozio,
con queste sentinelle qua fuori. — Scoppiò in una risata malvagia e lanciò i serpenti nell’erba alta
della collina. Poi partì in marcia verso sud, scuotendo la terra sotto il peso delle grosse gambe.
A poco a poco, l’ultima colonna di mostri superò le colline e scomparve nella notte. Solo allora
l’arcobaleno accecante si spense.
Hazel, Frank e Percy rimasero soli nel buio, a fissare un emporio chiuso.
— Che spettacolo, eh? — mormorò Frank.
Percy era scosso dai brividi. Hazel capì che aveva bisogno di aiuto, o di riposo o… insomma,
dovevano fare qualcosa. La vista di quell’esercito doveva avergli riportato alla mente qualche
ricordo: era traumatizzato. Dovevano riportarlo sulla barca.
Però… un lungo tratto di erba e campi li separava dalla spiaggia. Hazel aveva la sensazione che i
karpoi non sarebbero rimasti lontani a lungo. Non le piaceva l’idea di muoversi nel cuore della notte.
E non riusciva a scrollarsi di dosso la terribile certezza che, se non avesse evocato quella roccia,
ormai sarebbe stata prigioniera del gigante.
— Andiamo all’emporio — disse. — Se là dentro c’è una dea, forse potrà aiutarci.
— Peccato che adesso ci sia un bel gruppetto di serpenti a guardia della collina — osservò Frank.
— E quell’arcobaleno infuocato potrebbe tornare.
Si voltarono entrambi a guardare Percy, che tremava come in preda a un attacco di ipotermia.
— Dobbiamo provarci — disse Hazel.
Frank annuì, cupo. — Be’… una dea che lancia pasticcini a un gigante non può essere tanto male.
Andiamo.
FRANK
Frank odiava i pasticcini. Odiava i serpenti. E odiava la propria vita. Non necessariamente in
quest’ordine.
Mentre arrancava su per la collina, pensò che fosse un peccato non poter svenire come Hazel, non
poter entrare in trance e tornare a vivere in un’altra epoca, per esempio a prima di essere scelto per
quella folle impresa, a prima di scoprire che suo padre era una sorta di sergente istruttore divino con
un serio problema di ego supersviluppato.
L’arco e la lancia gli sbattevano contro la schiena. Odiava anche quella lancia. L’istante stesso in
cui l’aveva ricevuta, aveva giurato in silenzio che non l’avrebbe mai usata. «… un’arma da vero
uomo…» Bah! Marte era un idiota.
Forse c’era stato uno scambio. Non c’erano test del DNA per i figli degli dei? Forse alla nursery
degli dei avevano commesso uno sbaglio, mettendo lui al posto di uno dei teneri bulli in fasce di
Marte. Sua madre non poteva essersi messa con quell’arrogante dio della guerra. Impossibile.
«Era una guerriera nata» ribatté la voce di sua nonna. «Non c’è da sorprendersi che un dio si sia
innamorato di lei, considerato l’antico lignaggio della nostra famiglia. In noi scorre il sangue di
principi ed eroi.»
Frank scacciò quel pensiero dalla mente. Lui non era né un principe, né un eroe. Era un imbranato
che soffriva di intolleranza al lattosio e non riusciva neppure a impedire che la sua amica venisse
rapita dal frumento.
I distintivi appena conquistati erano freddi contro il suo petto: la mezzaluna del centurione, la
Corona Muralis. Avrebbe dovuto esserne orgoglioso, ma gli sembrava di averli ottenuti soltanto
perché suo padre aveva fatto il prepotente con Reyna.
Frank non capiva come riuscissero i suoi amici a sopportarlo. Percy aveva chiarito senza mezzi
termini di odiare Marte, e lui non poteva dargli torto. Hazel continuava a guardarlo con la coda
dell’occhio, come se avesse paura che si trasformasse in una specie di palestrato fenomeno da
baraccone.
Frank si diede una rapida occhiata e sospirò. Piccola correzione: che si trasformasse ancora di
più in un fenomeno da baraccone. Se l’Alaska era davvero una terra oltre gli dei, forse poteva
restarci. Dubitava di avere qualcosa a cui tornare.
«Non piagnucolare» avrebbe detto sua nonna. «Gli uomini Zhang non piagnucolano.»
Aveva ragione. Frank aveva un lavoro importante da fare. Doveva portare a termine quell’impresa
impossibile, e ciò al momento significava raggiungere l’emporio vivi e vegeti.
Avvicinandosi, temeva che il negozio esplodesse in una nube di luce arcobaleno e li disintegrasse,
ma l’edificio restò buio. I serpenti gettati da Polibote sembravano svaniti.
Erano a venti metri dal portico quando qualcosa sibilò nell’erba alle loro spalle.
— Scappate! — gridò Frank.
Percy inciampò. Mentre Hazel lo aiutava ad alzarsi, Frank si voltò e incoccò una freccia.
Lanciò alla cieca. Pensava di avere usato una freccia esplosiva, ma era solo un razzo di
segnalazione, che schizzò in mezzo all’erba e scoppiò con una fiammata arancione, fischiando
WUUUU!
Almeno illuminò il mostro. Adagiato su uno spiazzo giallo di erba secca c’era un serpente verde
acido, tozzo e grosso quanto il braccio di Frank, con la testa coronata da una criniera di aculei
bianchi. Osservava il passaggio della freccia come a chiedersi: “Che accidenti è?” Poi puntò i suoi
grandi occhi gialli su Frank. Avanzò come un bruco, incurvando il dorso. L’erba seccava e moriva
non appena il rettile la sfiorava.
Frank udì gli amici arrampicarsi sui gradini dell’emporio. Non osò voltarsi e scappare. Lui e il
serpente si studiarono. La bestia sibilò, mandando fiamme dalle fauci.
— Buooono! Bravo il mio serpentello viscido — disse Frank, tutto concentrato sul pezzo di legno
nella tasca del giubbotto. — Bravo il mio serpentello velenoso e sputafuoco.
— Frank! — gridò Hazel alle sue spalle. — Vieni!
Il serpente si lanciò all’attacco. Volò nell’aria così in fretta che Frank non ebbe il tempo di
incoccare una freccia. Usò l’arco come un bastone e scaraventò il mostro giù per la collina. La
creatura svanì roteando in aria e strillando: “Scriiiiiiiiiiiiiiiiiiii.”
Frank si sentì molto fiero del gesto, finché non guardò l’arco: nei punti in cui era entrato in
contatto col serpente stava mandando fumo. Pochi attimi dopo, sotto il suo sguardo incredulo, il legno
si ridusse in polvere.
Poi udì un sibilo infuriato, a cui risposero altri due sibili ai piedi della collina. Allora gettò a
terra l’arco semidisintegrato e corse verso il portico.
Percy e Hazel lo tirarono su. Quando si voltò, vide tutti e tre i mostri vagare in cerchio nell’erba,
sputando fuoco e annerendo la collina con il loro tocco avvelenato. Non sembravano capaci né
interessati ad avvicinarsi all’emporio, ma era una magra consolazione.
— Non ce ne andremo mai di qui — constatò Frank, affranto per la perdita dell’arco.
— Allora sarà meglio entrare. — Hazel indicò il cartello dipinto a mano sopra la porta: ALI.ST.AR
ALIMENTI & STILI ARCOBALENO.
Frank non aveva idea di cosa significasse, ma suonava meglio di: SERPENTI VELENOSI E
SPUTAFIAMME. Seguì gli amici dentro.
Non appena entrati, si accesero le luci. Partì una musica di flauti, come se fossero appena saliti su un
palcoscenico. Le ampie corsie erano tappezzate di scatole di noci e frutta secca, ceste di mele e
scaffali pieni di magliette hippie e abitini leggeri da fatina. Il soffitto era pieno di scacciaspiriti.
Lungo le pareti, scaffalature di vetro mostravano geodi, sfere di cristallo, acchiappasogni in macramè
e tanta altra roba strana. Da qualche parte c’era sicuramente dell’incenso acceso; sembrava che ci
fosse un intero bouquet di fiori in fiamme.
— È il negozio di una cartomante? — chiese Frank.
— Spero di no — borbottò Hazel.
Percy si appoggiò all’amica. Aveva un pessimo aspetto, come se fosse stato colto da un’influenza
improvvisa. Il viso era lucido di sudore. — Devo… sedermi — balbettò. — Un po’ d’acqua forse…
— Sì — disse Frank. — Dobbiamo trovare un posto per farti riposare.
Le assi del pavimento cigolarono al loro passaggio. Frank passò in mezzo a due fontanelle con la
statua di Nettuno.
Una ragazza comparve dietro i contenitori dei cereali. — Posso aiutarvi?
Frank arretrò di soprassalto, rovesciando una delle fontanelle. Un Nettuno di pietra si spezzò sul
pavimento. La testa del dio del mare rotolò via e l’acqua continuò a uscire dal collo, schizzando su
uno scaffale di borselli da uomo di tela colorata.
— Mi scusi! — Frank si chinò per rimediare al guaio che aveva fatto, e per poco con la lancia non
infilzò la ragazza.
— Fermo! — strillò la poveretta. — Non importa!
Frank raddrizzò la schiena lentamente, cercando di non causare altri danni. Hazel sembrava
mortificata. Percy fissava la statua decapitata del padre, con una brutta sfumatura verdognola in viso.
La ragazza batté le mani. La fontanella si dissolse in nebbia e l’acqua evaporò. — Davvero, non
c’è problema. Quelle fontanelle di Nettuno avevano un’aria così burbera, mi deprimevano.
Frank la guardò. Gli ricordava una di quelle escursioniste che a volte intravedeva al Lynn Canyon
Park, dietro la casa della nonna. Era bassa e muscolosa, con un paio di scarponcini, i pantaloni corti
e una maglietta di un bel giallo brillante con su scritto: ALI.ST.AR. ALIMENTI & STILI ARCOBALENO .
Sembrava giovane, ma aveva i capelli bianchi e crespi, che le circondavano la testa come l’albume
di un gigantesco uovo al tegamino.
Frank cercò di ricordarsi come si facesse a parlare. Gli occhi di quella ragazza erano una vera
distrazione. Le iridi cambiavano colore di continuo, passando dal grigio, al nero fino al bianco.
— Ehm… mi dispiace per la fontana — disse infine. — Stavamo solo…
— Oh, lo so! — lo interruppe lei. — Volevate dare un’occhiata. Non c’è problema. I semidei
sono i benvenuti. Non siete come quegli orrendi mostri. Volevano usare il bagno, e senza acquistare
nulla! — Fece un verso di scherno. Un lampo attraversò i suoi occhi.
Frank guardò Hazel per capire se non fosse per caso frutto della sua immaginazione, ma anche lei
era stupita.
In fondo al negozio, la voce di una donna esclamò: — Fiocco? Non spaventare i clienti, su. Portali
qui, per favore!
— Ti chiami Fiocco? — chiese Hazel.
Fiocco ridacchiò. — Nella lingua delle nebulae in realtà è… — Produsse una serie di crepitii e
scoppi che a Frank ricordarono una tempesta in allontanamento. — Ma potete chiamarmi Fiocco, sì.
— Nebulae… — ripeté Percy, quasi delirando. — Ninfe del cielo.
Fiocco sorrise, raggiante. — Oh, che bello! Di solito nessuno conosce le ninfe del cielo. Ma…
misericordia, il vostro amico non sta bene! Venite in fondo al negozio. Il capo vuole incontrarvi. Lo
guariremo noi. — Fiocco li guidò lungo la corsia del reparto ortofrutta, tra file di melanzane, kiwi,
cachi e melegrane.
In fondo al negozio, dietro un bancone con un vecchio registratore di cassa, c’era una donna di
mezza età con la pelle olivastra, i capelli lunghi e neri, un paio di occhiali senza montatura e una
maglietta con su scritto: LA DEA È VIVA! Al collo aveva diverse collane d’ambra, e anelli turchesi le
ornavano le dita. Profumava di petali di rosa. Aveva un’aria abbastanza amichevole, ma c’era
qualcosa in lei che fece tremare Frank.
Il ragazzo si rese conto che gli veniva da piangere. Ci mise un secondo, poi capì cos’era: il modo
in cui sorrideva, solo con un angolo della bocca, la sfumatura calda dei suoi occhi castani, la testa
leggermente inclinata, come per riflettere su una domanda. Quella donna gli ricordava sua madre.
— Salve! — La donna si sporse sul bancone, in mezzo a decine di statuette: gatti cinesi che
salutavano con la zampa, Budda in meditazione, piccoli San Francesco e uccellini con il cilindro che
si chinavano a bere da una ciotola. — Sono molto felice che siate qui. Io sono Iride!
Hazel sgranò gli occhi. — Non sarà quella Iride? La dea dell’arcobaleno?
Iride fece una smorfia. — Be’, quello è il mio lavoro ufficiale, sì. Ma io non definisco la mia
identità sulla base della mia attività. E, nel tempo libero, dirigo questo negozio! — Indicò intorno a
sé con orgoglio. — La Cooperativa ALI.ST.AR: un’azienda di soci lavoratori che promuove stili di vita
sani e alternativi e alimenti biologici.
Frank la guardò con tanto d’occhi. — E i pasticcini che ha lanciato contro i mostri?
Iride fece una faccia inorridita. — Oh, non erano affatto pasticcini. — Frugò sotto il bancone e
tirò fuori un pacco di dolcetti identici a pasticcini. — Questi sono senza glutine, senza zuccheri
aggiunti, arricchiti di vitamine, senza soia, a base di alghe e latte di capra. Insomma, sono una
simulazione dei pasticcini.
— Naturali al cento per cento! — aggiunse Fiocco.
— Allora chiedo scusa. — All’improvviso Frank aveva la nausea, come Percy.
Iride sorrise. — Dovresti provarne uno, Frank. Sei intollerante al lattosio, giusto?
— Come ha…?
— Oh, conosco questo genere di cose. Come messaggera degli dei… be’, vengo a conoscenza di
un sacco di cose, a furia di ascoltare tutte le comunicazioni degli dei e via dicendo. — Lanciò i
pasticcini sul bancone. — Quei mostri avrebbero dovuto essere contenti di fare uno spuntino salutare.
Sempre a mangiare eroi e cibo spazzatura. Sono così poco “illuminati”. Non potevo permettere loro
di devastarmi il negozio. Avrebbero turbato il nostro feng shui.
Percy si appoggiò al bancone. Aveva tutta l’aria di stare per vomitare sul feng shui della dea. —
Quei mostri stanno andando a sud — disse a fatica. — A distruggere il nostro campo. Non poteva
fermarli?
— Oh, sono una convinta sostenitrice della non-violenza — replicò Iride. — Posso agire per
difendermi, ma non mi farò coinvolgere in altre aggressioni dell’Olimpo, grazie tante. Sto leggendo
molti libri interessanti sul buddismo e sul taoismo. Non ho ancora deciso quale preferisco ma…
— Ma… — Hazel era molto confusa. — Mi scusi, lei non è una dea greca?
Iride incrociò le braccia. — Non cercare di mettermi in una scatola, semidea! Io non mi definisco
in base al mio passato.
— Oh… ehm… okay — replicò Hazel. — Almeno potrebbe aiutare il nostro amico? Credo sia
malato.
Percy allungò il braccio sul bancone. Per un secondo, Frank ebbe paura che volesse un pasticcino.
— Può inviare un messaggio-Iride? — chiese il figlio di Nettuno.
Frank non era sicuro di avere capito bene. — Un messaggio-Iride?
— È… — Percy balbettò. — Non fa queste cose?
Iride studiò Percy più attentamente. — Interessante. Vieni dal Campo Giove eppure… Oh,
capisco. Giunone e i suoi giochetti, eh?
— Come dice? — domandò Hazel.
Iride lanciò un’occhiata alla sua assistente, Fiocco. Sembrò che avessero uno scambio muto. Poi
la dea tirò fuori una fialetta da dietro il bancone e spruzzò un olio al profumo di caprifoglio intorno
al volto di Percy. — Ecco qua, questo dovrebbe riequilibrare il tuo chakra. Quanto al messaggioIride… è un antico mezzo di comunicazione, usato dai Greci. I Romani non lo usavano mai…
preferivano sempre affidarsi ai loro sistemi stradali, alle aquile giganti e via dicendo. Ma sì, credo
che si possa fare… Fiocco, vuoi provare?
— Certo, capo!
Iride fece l’occhiolino a Frank. — Non ditelo agli altri dei, ma è Fiocco a occuparsi della
maggior parte dei miei messaggi, ormai. È bravissima, davvero, e io non ho il tempo di rispondere a
tutte le richieste personalmente. Manda in confusione il mio wa.
— Il suo wa? — ripeté Frank.
— Mmm… Fiocco, perché non porti Hazel e Percy sul retro? Potresti dare loro qualcosa da
mangiare mentre ti occupi dei messaggi. E quanto a Percy… sì, mal di memoria. Immagino che il
vecchio Polibote… be’, incontrarlo in uno stato di amnesia non può di certo giovare a un figlio di
Po… cioè, di Nettuno. Fiocco, dagli una tazza di tè verde con miele biologico e germe di grano, più
un po’ della mia polvere officinale numero cinque. Dovrebbe bastare.
Hazel aggrottò la fronte. — E Frank?
Iride si voltò a guardare il figlio di Marte. Inclinò la testa con fare interrogativo, proprio come
faceva la madre del ragazzo, come se Frank fosse la domanda più grande rimasta in sospeso nella
stanza. — Oh, non temere — rispose la dea. — Io e Frank abbiamo molto di cui parlare.
FRANK
Frank avrebbe preferito andare con gli amici, anche a costo di dover bere tè verde al germe di grano.
Ma Iride lo prese a braccetto e lo guidò a un tavolino da caffè posto davanti a un bovindo. Frank
posò la lancia a terra e si sedette di fronte alla dea. Fuori, nel buio, i mostri-serpente pattugliavano
senza tregua la collina, sputando fuoco e avvelenando l’erba.
— Frank, so come ti senti — esordì Iride. — Immagino che il bastone dalla punta bruciata che
porti in tasca diventi più pesante ogni giorno che passa.
Il ragazzo rimase senza fiato. Si portò istintivamente la mano al giubbotto. — Come fai a…?
— Te l’ho detto. So un sacco di cose. Sono stata la messaggera di Giunone per secoli. So perché
ti ha concesso un rinvio.
— Un rinvio? — Frank tirò fuori il pezzo di legno e lo liberò dal panno che l’avvolgeva. Per
quanto la lancia di Marte fosse ingombrante, quel legno lo era molto di più. Iride aveva ragione. Era
un peso che lo opprimeva.
— Giunone ti ha salvato per una ragione — continuò la dea. — Vuole usarti per il suo piano. Se
non fosse apparsa quel giorno lontano, quando eri bambino, e non avesse messo in guardia tua madre
su quel pezzo di legno, saresti già morto. Sei nato con troppi doni. Questo genere di potere tende a
consumare le vite mortali.
— Troppi doni? — Frank si sentì scaldare le orecchie dalla rabbia. — Io non ho nessun dono!
— Questo non è vero. — Iride fece un gesto con la mano, come per spannare il parabrezza
dell’auto, e comparve un arcobaleno in miniatura. — Pensaci.
Un’immagine scintillò all’interno dell’arco. Frank si rivide all’età di quattro anni, mentre correva
nel cortile a casa della nonna. Sua madre si sporgeva dalla finestra della soffitta, gesticolava e
gridava per attirare la sua attenzione. Frank non aveva il permesso di andare nel cortile da solo. Non
sapeva perché sua madre fosse in soffitta, ma sentì che gli diceva di restare vicino alla casa, di non
allontanarsi troppo. Però lui fece l’esatto contrario. Strillò contento e corse ai margini del bosco,
dove si ritrovò faccia a faccia con un grizzly.
Finché Frank non rivide la scena nell’arcobaleno, il ricordo era sempre stato molto nebuloso,
tanto che aveva pensato di essersi sognato tutto. Ma in quel momento riuscì a capire la portata
surreale di quell’esperienza. L’orso e il bambino si guardarono, ed era impossibile capire chi fosse
più impaurito. Poi la madre di Frank comparve al fianco del figlio. Era impensabile che fosse
arrivata fin lì dalla soffitta così in fretta; si mise tra l’orso e il bambino e disse a Frank di correre a
casa. Stavolta Frank obbedì; quando arrivò al portico e si voltò, vide la madre sbucare dal bosco.
L’orso non c’era più. Frank le chiese cosa fosse successo. Sua madre sorrise: «Mamma orsa voleva
solo delle indicazioni» rispose.
La scena nell’arcobaleno cambiò. Frank si rivide a sei anni, in braccio alla madre, anche se era
ormai troppo grande. Sua madre teneva i lunghi capelli neri legati in una coda e lo stringeva tra le
braccia. Indossava gli occhiali senza montatura che Frank cercava sempre di rubare e quel maglione
grigio un po’ infeltrito che profumava di cannella. Gli raccontava storie di eroi, fingendo che fossero
tutti imparentati con lui: uno era Xu Fu, che salpò alla ricerca dell’elisir di lunga vita. L’immagine
dell’arcobaleno era muta, ma il ragazzo ricordava le parole della madre: «Era il tuo bis-bis-bisbis…» e ricordava anche il modo in cui gli pungolava lo stomaco con un dito a ogni “bis”
pronunciato, sino a fargli venire la ridarella.
Poi c’era Sung Guo, detto anche Seneca Gracchus, che aveva combattuto contro dodici draghi
romani e sedici draghi cinesi nei deserti occidentali della Cina. «Era il drago più forte di tutti» disse
la donna al figlio. «Per questo riuscì a batterli!»
Frank non sapeva cosa significasse, ma era molto emozionante. E quando la madre cominciò a
pungolargli la pancia, lui si rotolò a terra per sfuggire al solletico.
«E poi c’è l’antenato più antico di cui siamo a conoscenza: era il principe di Pylos! Ercole si
batté contro di lui una volta. Fu uno scontro alla pari.»
«E vinse il principe di Pylos?» chiese Frank.
Sua madre rise, ma gli rispose con un’ombra di tristezza nella voce. «No, il nostro antenato perse.
Ma non fu facile per Ercole. Immagina di combattere contro uno sciame di api. Proprio così. Perfino
per Ercole fu un problema!»
Quel commento non aveva nessun senso per Frank, ora come allora. Il suo antenato era un
apicoltore?
Frank non ripensava a quelle storie da anni, ma gli stavano tornando alla mente con la stessa
chiarezza del volto di sua madre. Era doloroso rivederla. Lui avrebbe voluto tornare indietro nel
tempo, tornare di nuovo bambino e rifugiarsi sul suo grembo.
Nell’immagine dell’arcobaleno, il piccolo Frank chiese quali fossero le origini della loro
famiglia. C’erano così tanti eroi! Venivano da Pylos, da Roma, dalla Cina o dal Canada?
Sua madre sorrise, inclinando la testa come per riflettere sulla domanda. «Li-Jian» disse infine.
«La nostra famiglia viene da molti luoghi diversi, ma la nostra casa è Li-Jian. Ricordalo sempre,
Frank: tu hai un dono speciale. Puoi essere ciò che vuoi.»
L’arcobaleno si dissolse. Frank e Iride rimasero lì, soli.
— Non capisco. — Il ragazzo aveva la voce roca.
— Tua madre te l’ha spiegato — replicò la dea. — Tu puoi essere ciò che vuoi.
Sembrava proprio una di quelle stupidaggini che i genitori dicono per rafforzare l’autostima dei
figli: uno slogan trito e ritrito che sarebbe stato benissimo su una delle magliette di Iride, insieme a
LA DEA È VIVA! e LA MIA SECONDA AUTO È UN TAPPETO VOLANTE! Però, da come parlava la dea,
sembrava più una sfida.
Frank si premette la mano sulla tasca dei pantaloni, dove teneva la medaglia della madre.
L’argento era freddo come il ghiaccio. — Io non posso essere niente — insistette. — Non ho nessun
talento.
— Che cos’hai provato a fare, finora? — ribatté la dea. — Volevi essere un arciere, e sei
diventato molto bravo nel tiro con l’arco. Ma hai grattato solo la superficie. I tuoi amici, Hazel e
Percy, sono entrambi tesi tra due mondi: la Grecia e Roma, il passato e il presente. Ma tu arrivi ben
oltre. La tua famiglia è antica, il sangue di Pylos scorre nel tuo ramo materno, e sei figlio di Marte.
C’è poco da meravigliarsi che Giunone ti abbia scelto come uno dei suoi sette eroi. Lei vuole farti
combattere contro i giganti e contro Gea, ma rifletti: che cosa vuoi tu?
— Non ho scelta — replicò Frank. — Sono figlio di quello stupido dio della guerra. Devo
partecipare a questa missione e…
— Devo, devo, devo… — ripeté Iride. — Mai voglio. Una volta la pensavo anch’io così. Poi mi
sono stancata di essere la serva di tutti. Corri a prendere calici di vino per Giove. Consegna lettere a
Giunone. Invia messaggi su e giù per l’arcobaleno per chiunque abbia una dracma d’oro da spendere.
— Una… che?
— Lascia stare. Ma ho imparato a mollare. Ho avviato la mia azienda, e viaggio leggera. Anche tu
puoi mollare. Forse puoi sfuggire al destino. Un giorno quel pezzo di legno brucerà, sì. Prevedo che
lo stringerai in mano quando accadrà, e la tua vita avrà fine…
— Grazie — borbottò Frank.
— … ma questo non fa che rendere la tua vita ancora più preziosa! Non devi per forza essere ciò
che i tuoi genitori e tua nonna si aspettano da te. Non sei obbligato a eseguire gli ordini del dio della
guerra né quelli di Giunone. Fai ciò che vuoi fare tu, Frank! Trova una via nuova!
Frank ci rifletté. L’idea era eccitante: rifiutare gli dei, il suo destino, suo padre. Non voleva
essere figlio del dio della guerra. Per colpa della guerra aveva perso ciò che aveva di più caro: sua
madre. Lui non voleva essere un eroe. Marte non lo conosceva per niente, questo era chiaro. —
Perché mi stai dicendo queste cose? — domandò alla dea. — Vuoi che abbandoni questa eroica
impresa e lasci che il Campo Giove venga distrutto? I miei amici contano su di me.
Iride allargò le mani. — Non posso dirti che cosa fare, Frank. Ma fa’ quello che vuoi tu, non
quello che ti dicono gli altri. Il conformismo dove mi ha portata? Ho sprecato millenni a servire gli
altri, e non ho mai scoperto la mia vera identità. Qual è il mio animale sacro? Nessuno si è mai preso
la briga di assegnarmene uno. Dove sono i miei templi? Non me ne hanno mai costruito uno. Sapete
che vi dico? Va bene così! Ho trovato una nuova pace qui, alla cooperativa. Potresti restare con noi,
se ti va. Puoi diventare socio.
— Ma… ehm… che senso avrebbe, adesso?
— Il punto è che hai delle opzioni. Se continui con questa missione… che succederà se libererai
Thanatos? Sarà un bene per la tua famiglia? Per i tuoi amici?
Frank ricordò le parole della nonna, quando gli aveva detto di avere un appuntamento con la
morte. A volte lo mandava in bestia, sì, ma lei era l’unico componente della famiglia che gli era
rimasto, l’unica persona ancora in vita a volergli bene. Se Thanatos fosse rimasto in catene, forse non
l’avrebbe persa. E Hazel… in qualche modo era tornata dagli Inferi. Se la Morte l’avesse di nuovo
portata via, lui non l’avrebbe mai sopportato. Per non parlare del suo problema personale: secondo
Iride, sarebbe dovuto morire da piccolo. Tutto ciò che lo separava dalla morte era un bastone
bruciacchiato. Thanatos avrebbe preso anche lui?
Frank cercò di immaginarsi lì da Iride, con una delle sue magliette indosso, a vendere cristalli e
acchiappasogni ai viandanti semidivini e a lanciare disgustosi dolcetti senza glutine ai mostri di
passaggio. Nel frattempo, un esercito di immortali radeva al suolo il Campo Giove.
Ripensò alle parole di sua madre: «Puoi essere ciò che vuoi.»
“No!” si disse Frank. “Non posso essere egoista.” — Devo andare! — esclamò. — È mio dovere.
Iride sospirò. — Me l’aspettavo, ma dovevo tentare. Il compito che ti aspetta… be’, non lo
augurerei a nessuno, tantomeno a un bravo ragazzo come te. Se proprio devi andare, posso almeno
darti un consiglio? Ti servirà un aiuto per trovare Thanatos.
— Sai dove lo nascondono i giganti? — domandò Frank.
Iride scrutò pensierosa le campanelle che ondeggiavano sul soffitto. — No… L’Alaska si trova
oltre la sfera di controllo degli dei. Ma c’è qualcuno che credo lo sappia. Cerca il veggente Finea. È
cieco, ma può vedere il passato, il presente e il futuro. Sa molte cose. Ti dirà dov’è tenuto
prigioniero Thanatos.
— Finea… — ripeté Frank. — Non c’era una storia sul suo conto?
Iride annuì, con riluttanza. — Nei tempi andati, commise crimini orrendi. Usava il dono della
vista per scopi malvagi. Giove mandò le arpie a punirlo. Gli Argonauti, incluso il tuo antenato…
— Il principe di Pylos?
Iride esitò. — Sì, Frank. Anche se, per quanto riguarda il suo dono, la sua storia… dovrai
scoprirli da solo. Ora ti basti sapere che gli Argonauti scacciarono le arpie in cambio dell’aiuto di
Finea. È successo secoli fa, ma so che Finea è tornato nel mondo mortale. Lo troverete a Portland,
nell’Oregon, sulla strada verso il Nord. Ma devi promettermi una cosa. Se è ancora perseguitato
dalle arpie, non uccidetele, qualunque cosa lui vi dica. Ottenete il suo aiuto in qualche altro modo. Le
arpie non sono malvagie. Sono le mie sorelle.
— Le tue sorelle?
— Lo so, non sembro tanto vecchia… ma è così. — Iride fece un sorriso mesto. — Ah, Frank…
c’è un altro problema. Se sei davvero deciso ad andartene… dovrai sbarazzarti di quei basilischi
sulla collina.
— Vuoi dire i serpenti?
— Sì — confermò Iride. — “Basilisco” significa “piccola corona”, un nome grazioso per una
creatura tutt’altro che graziosa. Preferirei che non venissero uccisi. Dopotutto, sono esseri viventi.
Ma voi non potrete andarvene finché ci sono loro in circolazione. Se i tuoi amici provassero a
sconfiggerli… be’, prevedo brutte cose. Solo tu hai l’abilità di uccidere quei mostri.
— Ma come?
La dea posò lo sguardo a terra. Frank si accorse che guardava la lancia.
— Vorrei che ci fosse un altro modo — disse Iride. — Le donnole, per esempio. Sono micidiali
contro i basilischi.
— Le ho appena finite…
— Dovrai occupartene da solo, allora. Io non posso appoggiare la violenza. Ma, mentre sarai in
battaglia, mi occuperò dei tuoi amici. Spero che Fiocco abbia trovato le erbe officinali giuste.
L’ultima volta ci siamo sbagliate e… be’, non credo che quegli eroi volessero trasformarsi in
margherite. — La dea si alzò.
Sui suoi occhiali passò un lampo, e Frank si vide riflesso nelle lenti. Era serio e cupo, non
somigliava affatto al bambino che aveva rivisto nell’arcobaleno.
— Un ultimo consiglio, Frank. Sei destinato a morire con quel pezzo di legno in mano,
guardandolo bruciare. Ma forse se non lo tenessi tu… Se lo affidassi a qualcuno…
Frank strinse le dita intorno al pezzo di legno. — Ti stai offrendo tu?
— Oh, santi numi, no! — Iride rise con garbo. — Lo perderei, in questa confusione. Si
mischierebbe ai cristalli, o finirei col venderlo per sbaglio. No, pensavo a un amico semidivino.
Qualcuno vicino al tuo cuore.
Hazel, pensò subito Frank. Non c’era nessuno di cui si fidasse di più. Ma come poteva confessarle
il proprio segreto? Se avesse ammesso quella debolezza, rivelando che la sua vita dipendeva da un
bastone bruciacchiato… Hazel non lo avrebbe mai visto come un eroe. Non sarebbe mai stato per lei
il cavaliere nella scintillante armatura. E come poteva chiederle di portare quel peso per lui?
Riavvolse il pezzo di legno nel panno e lo infilò di nuovo nella tasca del giubbotto. — Grazie,
Iride.
La dea gli strinse forte la mano. — Non perdere la speranza, Frank. Gli arcobaleni significano
speranza. — E si allontanò, lasciandolo solo.
— Speranza — brontolò il ragazzo. — Preferirei avere un bel gruppetto di donnole. — Raccolse
la lancia donatagli da Marte e uscì ad affrontare i basilischi.
FRANK
Frank sentiva la mancanza dell’arco. Avrebbe voluto starsene lì fermo sul portico e colpire i serpenti
da lontano. Qualche freccia esplosiva ben piazzata, qualche cratere sulla collina, e problema risolto.
Purtroppo la faretra piena di frecce gli sarebbe servita a ben poco dal momento che non sapeva
come scoccarle. E poi non aveva idea di dove fossero i basilischi. Avevano smesso di sputare
fiamme non appena lui era uscito.
Scese dal portico e abbassò la lancia. Non gli piacevano i combattimenti ravvicinati. Era troppo
lento e troppo grosso. Se l’era cavata bene durante i ludi di guerra, ma stavolta era tutto reale. Non
c’erano aquile giganti pronte ad afferrarlo e trasportarlo in infermeria se avesse commesso un errore.
«Puoi essere ciò che vuoi.» La voce di sua madre gli riecheggiò nella mente.
“Fantastico!” pensò. “Voglio essere bravo con la lancia. E immune al veleno e al fuoco.”
Ma qualcosa gli diceva che il suo desiderio non era stato esaudito. Con quella lancia in pugno si
sentiva goffo tale e quale a prima.
Chiazze infuocate ardevano ancora sul fianco della collina. Il fumo acre bruciava nel naso di
Frank. L’erba appassita scricchiolava sotto i suoi passi.
Ripensò alle storie che la madre gli raccontava: generazioni di eroi che si erano battuti contro
Ercole e contro i draghi, avevano navigato in acque infestate di mostri… Frank non riusciva a
comprendere come lui potesse essere il frutto di una stirpe del genere, né come avesse fatto la sua
famiglia a migrare dalla Grecia all’impero romano e da lì fino alla Cina, ma qualche idea inquietante
cominciava a prendere forma. Per la prima volta iniziò a farsi delle domande su quel principe di
Pylos, sul bisnonno Shen Lun caduto in disgrazia al Campo Giove, e su quali potessero essere i
poteri della sua famiglia.
«Il dono non ha mai tenuto al sicuro la nostra famiglia» lo aveva messo in guardia la nonna.
Un pensiero rassicurante mentre te ne vai a caccia di demoniaci serpenti sputafiamme.
La notte era silenziosa, a parte il crepitio della sterpaglia in fiamme. Ogni volta che la brezza
faceva frusciare l’erba, Frank ripensava agli spiriti del grano che avevano catturato Hazel. Sperò che
fossero partiti per il Sud insieme a Polibote. Non gli servivano di certo altri problemi.
Continuò a scendere con molta cautela la collina, con gli occhi che gli bruciavano per il fumo.
Poi, a meno di una decina di metri di distanza, vide un’esplosione di fiamme.
Per un attimo pensò di scagliare la lancia. Idea stupida: sarebbe rimasto senza armi. Avanzò
allora in direzione del fuoco.
Rimpianse di non avere con sé le fialette con il sangue delle gorgoni. Le avevano lasciate sulla
barca. Chissà se quel sangue sarebbe stato un antidoto anche contro il veleno dei basilischi… Ma, se
anche avesse avuto le fialette con sé e fosse riuscito a scegliere quella giusta, dubitava che avrebbe
avuto il tempo di berla prima di ridursi in polvere come il suo arco.
Riemerse in una radura di erba bruciata e si ritrovò faccia a faccia con un basilisco.
Il serpente si erse sulla coda. Sibilò, spalancando il collare di aculei bianchi intorno alla testa.
“Piccola corona” ricordò Frank. Era quello il significato di “basilisco”. Aveva sempre pensato
che i basilischi fossero mostri simili a draghi, capaci di pietrificare la gente con lo sguardo. Ma, in
un certo senso, i basilischi reali erano ancora più terribili. Nonostante le dimensioni ridotte, erano un
concentrato di fuoco, veleno e cattiveria, e sarebbero stati molto più difficili da sconfiggere di una
grossa e goffa lucertola. Frank aveva già visto quanto fossero veloci.
Il mostro puntò i pallidi occhi gialli su di lui.
Perché non attaccava?
La lancia d’oro era fredda e pesante. La punta con il dente di drago sprofondò nel terreno quasi
agisse di volontà propria, come il bastone di un rabdomante alla ricerca dell’acqua.
— Smettila! — Frank cercò di staccare l’arma da terra. Ci mancava solo che la lancia
combattesse contro di lui. Poi udì l’erba frusciare ai suoi fianchi.
Gli altri due basilischi si affacciarono nella radura. Era un’imboscata.
FRANK
Frank agitò la lancia. — Indietro! — gridò con voce stridula. — Ho… ehm… dei poteri stupefacenti
e… un sacco di altra roba.
I basilischi sibilarono in triplice armonia. Forse ridevano.
La punta della lancia ormai era quasi troppo pesante da sollevare, come se l’adunco triangolo
d’avorio tendesse con tutto se stesso verso la terra. Poi qualcosa scattò in un angolino del cervello di
Frank: Marte aveva detto che la punta era un dente di drago. Non c’era una storia che parlava di denti
di drago piantati nel suolo? Qualcosa che aveva letto a lezione di mostri, giù al campo?
I basilischi lo circondarono, muovendosi con molta calma. Forse esitavano per via della lancia.
Forse non riuscivano a credere a quanto fosse stupido.
Sembrava una pazzia, ma Frank lasciò cadere la punta della lancia e la conficcò nel terreno. Crac!
Quando la tirò fuori, la punta non c’era più: spezzata a terra.
Splendido. Ora aveva solo un bastone d’oro.
Una piccola parte di lui – la parte più folle – provò l’impulso di tirare fuori il pezzo di legno. Se
proprio doveva morire, forse poteva innescare un incendio enorme e incenerire i basilischi, così
almeno i suoi amici sarebbero potuti scappare.
Ma prima che riuscisse a trovare il coraggio di farlo, il suolo tremò ai suoi piedi. Il terriccio
schizzò dappertutto, e una mano scheletrica artigliò l’aria. I basilischi arretrarono sibilando.
Sotto gli occhi inorriditi di Frank, uno scheletro umano sbucò dal terreno. A poco a poco si riempì
di carne, come se qualcuno gli riversasse gelatina sulle ossa, per poi ricoprirla di una pelle grigia,
semitrasparente. Poi dei vestiti spettrali lo avvolsero: una maglietta aderente, pantaloni mimetici e
anfibi. Ogni singolo particolare della creatura era grigio: vestiti grigi su pelle grigia e ossa grigie.
Lo scheletro si voltò verso Frank. Il teschio sorrise sotto il viso grigio e inespressivo.
Frank mugolò come un cucciolo. Gli tremavano così tanto le gambe che dovette appoggiarsi
all’asta della lancia. Poi capì: lo scheletro-guerriero stava aspettando, era in attesa di ordini. —
Uccidi i basilischi! — gridò Frank. — Non me!
Il guerriero entrò subito in azione. Afferrò il serpente più vicino e, anche se la sua pelle grigia
cominciò a fumare al contatto, strangolò il basilisco e ne gettò via il corpo inerte.
Gli altri due mostri sibilarono di rabbia. Uno si lanciò su Frank, che lo scacciò con il suo bastone.
L’altro ruttò una fiammata di fuoco direttamente in faccia allo scheletro. Il guerriero avanzò
imperterrito e gli schiacciò la testa sotto l’anfibio.
Frank si voltò verso l’ultimo basilisco, che se ne stava attorcigliato a osservarli ai margini della
radura. La lancia d’oro imperiale stava fumando, ma a differenza dell’arco non sembrava sgretolarsi
per il contatto con il mostro. Aveva un’estremità in fiamme, ma per il resto era intonsa.
Il basilisco fece la scelta più sensata: si diede alla fuga. Con un movimento fulmineo, lo scheletro
si tirò fuori qualcosa dalla maglietta e lo lanciò, inchiodando il mostro a terra.
Frank dapprima pensò che fosse un coltello; poi si rese conto che era una costola. Per fortuna
aveva lo stomaco vuoto. — Ma che… che schifo!
Lo scheletro raggiunse il basilisco, estrasse la costola e la usò per tagliare la testa della creatura,
che si dissolse in cenere. Poi decapitò anche le carcasse degli altri due mostri e disperse le ceneri a
calci.
Frank ripensò alle due gorgoni sul Tevere, al modo in cui il fiume si era portato via i loro resti
per impedire che si riformassero. — Ti stai assicurando che non si rifacciano vivi — disse. — O
almeno li stai rallentando.
Il guerriero-scheletro si mise sull’attenti. Il piede e la mano avvelenati dai basilischi erano quasi
svaniti. La testa era ancora in fiamme.
— Che… che cosa sei? — domandò Frank. E avrebbe voluto aggiungere: “Ti prego, non farmi del
male.”
Con il moncherino, lo scheletro fece il saluto militare. Poi cominciò a sgretolarsi, affondando di
nuovo nel terreno.
— Aspetta! — gridò Frank. — Non so nemmeno come devo chiamarti! Uomo Dente? Mucchietto
d’Ossa? Il Grigio?
Mentre il volto scompariva nel terreno, il guerriero sembrò sorridere all’ultimo nome, ma forse
era solo il ghigno del suo teschio. Un attimo dopo era svanito, lasciando Frank da solo con la lancia
spuntata.
— Il Grigio — mormorò il ragazzo. — Va bene… ma… — Esaminò la punta della lancia. Un
nuovo dente di drago stava già rispuntando sull’asta d’oro.
«Hai solo tre cariche a disposizione» aveva detto Marte «perciò usale saggiamente.»
Frank udì dei passi alle proprie spalle. Percy e Hazel corsero nella radura. Il figlio di Nettuno
sembrava sentirsi meglio, a parte il borsello da uomo della ALI.ST.AR., decisamente non il suo stile;
impugnava Vortice.
Hazel aveva sguainato la spada. — Stai bene? — chiese a Frank.
Percy si guardò intorno, muovendosi in cerchio alla ricerca di nemici. — Iride ci ha detto che eri
qui fuori, a combattere da solo contro i basilischi. Non riuscivamo a crederci, siamo corsi subito.
Cos’è successo?
— Non lo so — confessò Frank.
Hazel si accovacciò accanto al mucchio di terra in cui era scomparso Il Grigio. — Percepisco la
morte. O mio fratello è stato qui oppure… i basilischi sono morti?
Sbigottito, Percy guardò l’amico. — Li hai uccisi tutti?
Frank deglutì. Si sentiva già abbastanza strambo senza dover spiegare l’esistenza del suo nuovo
scagnozzo zombie.
«Tre cariche.» Gliene restavano due. Però aveva avvertito una certa malevolenza nello scheletro.
Non era un animale domestico; era una macchina assassina, a stento controllata dal potere di Marte.
Frank ebbe la sensazione che avrebbe eseguito gli ordini, sì, ma che se i suoi amici per sbaglio si
fossero trovati nella linea di tiro… oh, be’… pazienza. E se lui fosse stato un po’ lento a dargli
indicazioni, lo scheletro avrebbe cominciato a uccidere qualunque cosa gli si fosse parata davanti,
incluso il padrone.
Marte aveva detto che la lancia gli avrebbe concesso un po’ di respiro finché non avesse imparato
a usare i talenti di sua madre. E questo significava che avrebbe dovuto imparare a farlo, e alla svelta.
— Grazie mille, papà — brontolò tra i denti.
— Cosa? — domandò Hazel. — Frank, stai bene?
— Vi spiego tutto dopo. Ora dobbiamo andare a Portland, a trovare un veggente cieco.
PERCY
Percy si sentiva già il semidio più inetto della storia degli inetti. Il borsello era l’insulto finale.
Erano partiti dall’emporio in fretta e furia, perciò Iride forse non lo aveva inteso come una critica.
L’aveva riempito rapidamente di merendine vitaminizzate, sfoglie di frutta secca, manzo essiccato
macrobiotico e qualche cristallo portafortuna. Poi glielo aveva ficcato in mano: «Tieni, ne avrai
bisogno. Oh, ti sta proprio bene.»
Il borsello – no, scusate, la borsa per accessori da uomo – era tinto con i colori dell’arcobaleno,
aveva il simbolo della pace ricamato sopra con perline di legno e lo slogan ABBRACCIA IL MONDO
INTERO. Percy avrebbe preferito che dicesse: ABBRACCIA IL GABINETTO . Quel borsello gli sembrava
una conferma della propria enorme e incredibile inutilità. Mentre navigavano verso nord, lo sistemò
il più possibile lontano da sé. Peccato che la barca fosse piccola.
Non riusciva a credere a come fosse crollato quando gli amici avevano avuto bisogno di lui.
Innanzitutto, era stato così scemo da lasciarli soli per tornare in barca, e Hazel era stata rapita. Poi,
guardando l’esercito che marciava verso sud, aveva avuto una sorta di collasso nervoso.
Imbarazzante? Sì, ma non aveva potuto farci niente. Quando aveva visto i centauri e i ciclopi
malvagi, gli era sembrato tutto così sbagliato, così al rovescio, che si era sentito esplodere la testa. E
il gigante Polibote… quel gigante gli aveva dato la sensazione opposta a quella che provava
nell’oceano. L’energia lo aveva abbandonato, lasciandolo debole e febbricitante, come se gli si
stessero consumando gli organi interni.
La tisana curativa di Iride lo aveva aiutato a recuperare fisicamente, ma di testa non stava ancora
bene. Aveva udito storie di amputati che provavano dolori fantasma nel punto in cui prima avevano
le gambe o le braccia. Era così che si sentiva lui con la testa, come se gli facessero male i ricordi
che aveva perso.
Peggio ancora, più Percy andava verso nord, più i ricordi svanivano. Aveva cominciato a stare
meglio al Campo Giove, ricordando ogni tanto nomi e facce. Ma ormai perfino il viso di Annabeth si
stava offuscando. All’ ALI.ST.AR., quando aveva tentato di spedire un messaggio-Iride ad Annabeth,
Fiocco aveva scosso la testa, sconsolata.
«È come se tu stessi chiamando qualcuno, ma avessi dimenticato il numero» gli aveva spiegato.
«Oppure qualcuno sta disturbando la linea. Mi dispiace, caro. Non posso darti il collegamento.»
Percy aveva il terrore di dimenticare del tutto la faccia di Annabeth, una volta arrivato in Alaska.
Magari un giorno si sarebbe svegliato senza ricordare più neanche il suo nome. Eppure doveva
concentrarsi sulla missione. La vista dell’esercito nemico gli aveva mostrato cosa dovevano
affrontare.
Era mattino presto del 21 giugno. Dovevano arrivare in Alaska, trovare Thanatos, recuperare
l’emblema della legione e tornare al Campo Giove entro la sera del 24. Quattro giorni. Nel
frattempo, al nemico restavano solo poche centinaia di chilometri di marcia.
Percy guidava la barca attraverso le forti correnti al largo della California settentrionale. Tirava
un vento freddo ma piacevole, che gli spazzava via un po’ di confusione dalla testa. Ordinò alla
barca di andare il più veloce possibile, e la Pax avanzò verso nord con lo scafo che sferragliava.
Nel frattempo, Hazel e Frank si raccontavano quello che era successo all’emporio della dea.
Frank riferì loro di Finea, il veggente cieco di Portland, che secondo Iride poteva rivelare loro dove
trovare Thanatos. Preferì non parlare di come era riuscito a uccidere i basilischi, ma Percy ebbe la
sensazione che avesse qualcosa a che fare con la punta spezzata della lancia. Comunque fosse andata,
Frank sembrava avere più paura della lancia che dei basilischi.
Quando lui ebbe finito, Hazel gli raccontò del tempo che lei e Percy avevano passato con Fiocco.
— Allora questo messaggio-Iride ha funzionato? — chiese Frank.
Hazel lanciò un’occhiata di solidarietà a Percy, evitando di parlare del fatto che lui non era
riuscito a rintracciare Annabeth. — Mi sono messa in contatto con Reyna — disse. — Devi gettare
una moneta in un arcobaleno e declamare una formula magica, tipo: “Oh Iride, dea dell’arcobaleno,
accetta la mia offerta.” Solo che Fiocco l’ha modificata un po’. Ci ha dato – come l’ha chiamato? – il
suo numero diretto. Per cui ho dovuto dire: “Oh, Fiocco, fammi un favore, mostrami Reyna al Campo
Giove.” Mi sono sentita un po’ stupida, ma ha funzionato. L’immagine di Reyna è apparsa
nell’arcobaleno, come in una videochiamata. Era alle terme. Le ho fatto prendere un colpo.
— Avrei pagato per vederla — disse Frank. — Voglio dire… l’espressione che ha fatto. Non,
insomma, la vasca delle terme.
— Frank! — Hazel si sventolò la faccia come se le mancasse l’aria. Era un gesto all’antica,
carino però, in qualche modo. — Comunque, abbiamo raccontato a Reyna dell’esercito ma, come ha
detto Percy, sapeva già quasi tutto. La situazione non cambia. Lei sta facendo quello che può per
rinforzare le difese. A meno che non liberiamo la Morte e non torniamo con l’aquila…
— Il campo non resisterà contro quell’esercito — concluse Frank. — Non senza aiuto.
Ripresero a navigare in silenzio.
Percy continuò a pensare ai ciclopi e ai centauri. Pensò ad Annabeth, al satiro Grover, al sogno di
quella grande nave da guerra in costruzione. Ripensò alle parole di Reyna: “Da qualche posto sei
arrivato.”
Avrebbe voluto avere dei ricordi, chiedere aiuto. Il Campo Giove non doveva combattere da solo
contro i giganti. Dovevano esserci degli alleati da qualche parte.
Toccò le perle della collanina, la piastrina militare della probatio e l’anello d’argento che Reyna
gli aveva dato. Forse a Seattle avrebbe potuto parlare con Hylla. Magari lei avrebbe inviato degli
aiuti, sempre che non lo uccidesse a vista.
Dopo qualche altra ora di navigazione, Percy sentì che gli si chiudevano gli occhi. Aveva paura di
svenire per la stanchezza. Poi ebbe un colpo di fortuna. Un’orca affiorò vicino alla barca, e lui
attaccò discorso mentalmente.
Non era proprio come parlare, ma più o meno andò così: “Potresti darci un passaggio a nord? Il
più vicino possibile a Portland?”
“Mangio foche” replicò l’orca. “Voi siete foche?”
“No” ammise Percy. “Però ho un borsello pieno di manzo essiccato macrobiotico.”
L’orca rabbrividì. “Se mi prometti di non darmelo, vi porterò a nord.”
“Affare fatto.”
Nel giro di pochi minuti, Percy aveva già costruito un’imbracatura di corda e l’aveva legata alla
parte superiore del corpo dell’animale. Grazie all’orca a vapore cominciarono a sfrecciare verso
nord, e su insistenza di Hazel e Frank, Percy si concesse un pisolino.
Fece dei sogni più sconclusionati e spaventosi che mai.
Si immaginò sul Monte Tamalpais, a nord di San Francisco, a combattere alla vecchia fortezza dei
Titani. Non aveva nessun senso. Quando i Titani avevano attaccato, lui non era con i Romani, ma nel
sogno vedeva tutto con chiarezza: Annabeth e altre due ragazze che lottavano al suo fianco, contro un
titano con l’armatura. Una delle ragazze moriva in battaglia. Inginocchiato accanto a lei, Percy
restava a guardarla mentre si dissolveva tra le stelle.
Poi vide la grande nave da guerra nel bacino di carenaggio. La polena di bronzo a forma di testa
di drago scintillava nella luce del mattino. Le sartie e gli armamenti erano perfetti, ma c’era qualcosa
che non andava. Un portello sulla tolda era aperto e del fumo fuoriusciva da una specie di motore. Un
ragazzo con i capelli ricci e neri tirava colpi sul motore con una chiave inglese, imprecando. Altri
due semidei gli stavano accovacciati accanto, osservando preoccupati la scena. Uno era un ragazzo
biondo con i capelli corti, l’altra una ragazza con una lunga chioma scura.
— Vi rendete conto che è il solstizio? — diceva la ragazza. — Dovremmo partire oggi.
— Lo so! — Il meccanico dai capelli ricci diede qualche altra botta sul motore. — Potrebbero
essere i razzi effervescenti, potrebbe essere il samoflangio. Oppure Gea che fa di nuovo la furba con
noi. Non lo so.
— Quanto ci vuole? — chiedeva il biondino.
— Due, tre giorni?
— Potrebbero non avere tutto questo tempo — li avvertiva la ragazza.
Qualcosa diceva a Percy che la ragazza si riferiva al Campo Giove. Poi la scena cambiò di nuovo.
Vide un ragazzo che passeggiava con il cane sulle colline gialle della California. Man mano che
l’immagine diventava più nitida, Percy si accorgeva che non si trattava di un ragazzo. Era un ciclope
con i jeans strappati e una camicia di flanella. Il cane era un ammasso dinoccolato di peli neri,
grosso quanto un rinoceronte. Il ciclope portava un’enorme clava su una spalla, ma Percy non lo
percepiva come un nemico. Il gigantesco essere continuava a gridare il suo nome, chiamandolo…
fratello?
— L’odore è sempre più lontano — disse il ciclope al cane. — Perché si allontana?
— Bau! — rispose l’animale, e il sogno di Percy cambiò di nuovo.
Vide una catena di montagne innevate, così alte da bucare le nuvole.
Il volto addormentato di Gea apparve tra le ombre delle rocce. “Una pedina così preziosa” esordì
la dea. “Non temere, Percy Jackson. Vieni al Nord. I tuoi amici moriranno, è vero. Ma per il
momento ti risparmierò. Ho grandi progetti per te.”
In una valle tra le montagne si estendeva un enorme campo di ghiaccio, la cui estremità
precipitava in mare centinaia di metri più in basso, lasciando piovere lastre di ghiaccio nell’acqua.
Sopra c’era l’accampamento di una legione: bastioni, fossati, torri, alloggi militari, identico al
Campo Giove, ma grande tre volte tanto. Fuori dai Principia, una sagoma con vesti scure era
incatenata al ghiaccio. Nella visione, Percy gli passò davanti ed entrò nel quartier generale. Lì,
nell’oscurità, sedeva un gigante perfino più grande di Polibote, con la pelle d’oro scintillante.
Esposti alle sue spalle c’erano i vessilli laceri e ghiacciati di una legione romana, inclusa una grossa
aquila d’oro ad ali spiegate.
“Ti aspettiamo” tuonò la voce del gigante. “Mentre cerchi a tastoni la strada verso nord, tentando
di trovarmi, i miei eserciti distruggeranno i tuoi preziosi campi: prima i Romani, poi gli altri. Non
puoi vincere, piccolo semidio.”
Percy si svegliò di soprassalto nella luce grigia e fredda del mattino, con la pioggia che gli
cadeva sul viso.
— Pensavo di essere io quella col sonno pesante — disse Hazel. — Benvenuto a Portland.
Il figlio di Nettuno si mise a sedere e sbatté le palpebre. La scena intorno a lui era talmente
diversa dal sogno da fargli dubitare di quale fosse la realtà. La Pax scendeva lungo un fiume nero
come la pece, in mezzo a una città. Nuvole basse e pesanti si estendevano sopra di loro. La pioggia
era così fredda e leggera da sembrare sospesa nell’aria. A sinistra c’erano depositi industriali e
binari ferroviari. A destra, il piccolo centro della città: un gruppetto di grattacieli dall’aria quasi
accogliente, tra le rive del fiume e una serie di colline brumose e fitte di boschi.
Percy si stropicciò gli occhi, per scacciare via gli ultimi residui del sonno. — Come abbiamo
fatto ad arrivare qui?
Frank gli scoccò un’occhiata come a dire: “Non ci crederai mai.” — L’orca ci ha portati fino al
fiume Columbia. Poi ha passato l’imbracatura a una coppia di storioni di tre metri e mezzo.
Chissà perché a Percy sembrò che Frank avesse detto “storni”. Ebbe questa strana immagine di
una coppia di passeri giganteschi che trainava la barca. Poi capì che Frank aveva detto “storioni”, i
pesci. Fu felice di non aver fatto commenti: sarebbe stato piuttosto imbarazzante, per un figlio del dio
del mare.
— Gli storioni ci hanno trainato a lungo — continuò Frank. — Io e Hazel abbiamo dormito a
turno. Abbiamo imboccato questo fiume, che si chiama…
— Willamette — disse Hazel.
— Esatto — confermò Frank. — Poi è come se la barca avesse preso il sopravvento e ci avesse
portato qui da sola. Dormito bene?
Mentre la Pax scivolava verso sud, Percy raccontò i propri sogni. Tentò di concentrarsi sugli
aspetti positivi: una nave da guerra sarebbe forse arrivata in soccorso del Campo Giove. Un ciclope
amichevole e un cane gigantesco lo stavano cercando. Non accennò a quello che aveva detto Gea: «I
tuoi amici moriranno.»
— Dunque Alcione si trova su un ghiacciaio. — Nel sentire la descrizione della fortezza romana
sul ghiaccio, Hazel aveva avvertito un nodo allo stomaco. — Questo però non restringe molto il
campo. In Alaska ce ne sono centinaia.
Percy annuì. — Forse Finea saprà dirci qual è.
La barca attraccò a un pontile. I tre semidei fissarono i grattacieli della piovigginosa Portland.
Frank si strofinò i capelli a spazzola, per togliersi l’acqua di dosso. — E adesso cerchiamo un
cieco sotto la pioggia — disse. — Evviva!
PERCY
Non fu difficile come avevano pensato. Le urla e il tosaerba furono un buon aiuto.
I ragazzi si erano portati dietro dei giubbotti leggeri antigelo, così si infagottarono per ripararsi
dalla pioggia fredda e attraversarono qualche isolato lungo strade perlopiù deserte. Stavolta Percy
era stato furbo e aveva preso quasi tutte le provviste dalla barca. Si era perfino infilato il manzo
macrobiotico nella tasca del giubbotto, nel caso avesse dovuto minacciare altre orche.
Videro qualche bicicletta in giro e alcuni senzatetto raggomitolati davanti ai portoni, ma la
maggioranza degli abitanti di Portland sembrava chiusa in casa.
Passeggiando lungo Glisan Street, Percy guardò con rimpianto la gente nei bar che si gustava caffè
e pasticcini. Stava per proporre di fermarsi a fare colazione quando lungo la strada udì una voce che
gridava: — Ah, prendete questo! Stupide galline! — seguita dalla sgasata di un piccolo motore e da
tanti schiamazzi.
Percy lanciò un’occhiata ai suoi amici. — Secondo voi…?
— È probabile — concordò Frank.
Corsero nella direzione da cui proveniva il chiasso.
In fondo all’isolato, trovarono un grande parcheggio con i marciapiedi costeggiati da alberi e file
di furgoncini che vendevano cibo sui quattro i lati. Percy aveva già visto furgoncini simili, ma mai
così tanti tutti insieme. Alcuni erano semplici scatole di metallo bianco montate su ruote, con tende
da sole e banconi all’esterno. Altri erano dipinti di blu, di viola o a pallini, e avevano grandi
bandiere sul davanti, lavagne colorate con il menu e tavoli tipo quelli dei self-service, lungo i
marciapiedi. Uno reclamizzava una ricetta di tacos coreano-brasiliani, che aveva tutta l’aria di
essere una sorta di cucina radioattiva top-secret. Un altro proponeva spiedini di sushi. Un altro
ancora vendeva panini fritti farciti di gelato. Il profumo nell’aria era fantastico. Decine di cucine
diverse tutte insieme.
Lo stomaco di Percy gorgogliò. Molti dei furgoncini erano aperti, ma non c’era quasi nessuno in
circolazione. Potevano prendere tutto quello che volevano! Panini fritti con il gelato? Oh, che cavolo,
erano molto più appetitosi del germe di grano!
Purtroppo, cucina a parte, stava succedendo ben altro. In mezzo al parcheggio, dietro i furgoncini,
un vecchio in vestaglia correva con un tosaerba a filo in mano, urlando contro uno stormo di pennute
che cercavano di rubare il cibo da un tavolo da picnic.
— Arpie — disse Hazel. — Significa che…
— Quello è Finea — concluse Frank.
Attraversarono di corsa la strada e si infilarono tra il camioncino coreano-brasiliano e il cinese
che vendeva involtini primavera in salsa messicana.
Il retro dei furgoncini non era minimamente appetitoso come il davanti. Straripava di buste di
plastica, pattumiere piene fino all’orlo e fili stendipanni con sopra grembiuli e asciugamani. Il
parcheggio non era altro che un quadrato di asfalto crepato e venato di erbacce. Nel mezzo c’era un
tavolo da picnic con il cibo dei vari camioncini ammucchiato sopra.
L’uomo in vestaglia era vecchio e grasso. Era quasi calvo, con cicatrici sulla fronte e una chierica
di stopposi capelli bianchi. Con la vestaglia macchiata di ketchup, continuava a inciampare correndo
con un paio di pantofole di peluche rosa a forma di coniglio ai piedi, mentre brandiva l’attrezzo a
motore contro una mezza dozzina di arpie che aleggiavano sopra il tavolo da picnic. Era palesemente
cieco, con gli occhi di un bianco lattiginoso. Mancava le arpie di un bel po’, ma era piuttosto bravo
ad allontanarle. — Andate via, galline schifose! — urlò.
Percy non sapeva perché, ma aveva la vaga sensazione che le arpie di norma dovessero essere
grassottelle. Quelle invece erano ridotte alla fame. I volti umani avevano occhi incavati e guance
infossate. Sui loro corpi erano appena spuntate le piume nuove, e le ali terminavano con minuscole
zampe rinsecchite. Come vestiti indossavano sacchi di tela logora. Piombando sul cibo, sembravano
più disperate che affamate. A Percy fecero pena.
WHIRRRR! Il vecchio brandì il tosaerba e scorticò l’ala di un’arpia, che gridò per il dolore e
volò lontano seminando piume gialle tutt’intorno.
Un’arpia volteggiava più in alto delle altre. Sembrava più giovane e piccola delle compagne e
aveva le piume di un rosso acceso. Cercò con cura un varco e, non appena il vecchio si girò di
spalle, si avventò sul tavolo. Afferrò con gli artigli un burrito, ma, prima che riuscisse a scappare, il
cieco agitò il tosaerba, colpendola con forza sulla schiena. Percy trasalì. L’arpia gridò, lasciò cadere
il bottino e volò via.
— Ehi, basta! — urlò Percy.
Le arpie gettarono uno sguardo ai tre semidei e si librarono subito in volo. Quasi tutte andarono ad
appollaiarsi sugli alberi intorno alla piazza, fissando avvilite il tavolo da picnic. L’arpia dalle piume
rosse svolazzò titubante lungo Glisan Street, scomparendo dalla visuale.
— Ah! — urlò trionfante il vecchio cieco, spegnendo il motore del tosaerba. Fece un sorriso
vacuo in direzione di Percy. — Grazie, miei cari sconosciuti. Apprezzo molto il vostro aiuto.
Percy soffocò la rabbia. Non aveva avuto intenzione di aiutare il vecchio, ma si ricordò che erano
lì perché avevano bisogno di informazioni. — Ehm… si figuri. — Si avvicinò al cieco, tenendo
d’occhio il tosaerba. — Io sono Percy Jackson. Lei è…?
— Semidei! — esclamò il vecchio. — Riesco ancora a riconoscere l’odore.
Hazel corrugò la fronte. — Puzziamo così tanto?
Il vecchio rise. — Certo che no, mia cara. Ma sapessi quanto mi si sono acuiti gli altri sensi da
quando sono diventato cieco. Mi chiamo Finea. E tu… aspetta, non dirmelo. — Tese le mani verso il
viso di Percy, e gli infilò involontariamente le dita negli occhi.
— Ahi! — si lamentò lui.
— Figlio di Nettuno! — esclamò Finea. — Mi era sembrato di sentire il profumo dell’oceano,
Percy Jackson. Anch’io sono figlio di Nettuno, sai.
— Eh… sì. Okay. — Percy si stropicciò gli occhi. Era proprio da lui ritrovarsi quel vecchio
sudicione come parente. Si augurava che i figli di Nettuno non condividessero mai lo stesso destino.
All’inizio, cominci con l’andartene in giro con il borsello. E, in men che non si dica, ti ritrovi a
correre in vestaglia e pantofole di peluche rosa, inseguendo con il tosaerba qualche povera gallina.
Finea si voltò verso Hazel. — E qui… caspita, il profumo dell’oro e delle profondità della terra.
Hazel Levesque, figlia di Plutone. E accanto a te… il figlio di Marte. Ma la tua storia non finisce qui,
Frank Zhang…
— Sangue antico — borbottò Frank. — Principe di Pylos, bla bla bla…
— Periclimeno, esatto! Era proprio una brava persona. Adoravo gli Argonauti!
Frank rimase a bocca aperta. — Aspetti… Perry chi?
Finea fece un gran sorriso. — Non preoccuparti. So tutto della tua famiglia. La storia del tuo
bisnonno? In realtà non fu lui a distruggere il campo. Però, che bel gruppetto interessante! Avete
fame?
Frank ebbe la sensazione di essere stato investito da un camion, ma il veggente aveva già
cambiato discorso. Finea agitò la mano verso il tavolo da picnic. Sugli alberi lì vicino, le arpie
strillavano sconsolate.
Sebbene fosse affamato, Percy non sopportava l’idea di mettersi a mangiare con quelle poverette
che stavano lì a guardarlo. — Senta, sono un po’ confuso — disse. — Ci servono delle informazioni.
Ci è stato detto…
— … che erano le arpie a tenere il cibo lontano da me e che, se voi aiutate me, io aiuterò voi —
concluse Finea.
— Più o meno — ammise Percy.
Il veggente scoppiò a ridere. — È vecchia, questa. Ho l’aria di uno a cui tocca saltare i pasti? —
Si accarezzò la pancia, che era grossa come un palla da canestro troppo gonfia.
— Mmm… no.
Finea agitò il tosaerba, facendo un movimento ampio; i ragazzi si scansarono tutti e tre. — La
situazione è cambiata, amici miei! Quando ricevetti il dono della profezia, secoli fa, Giove mi
maledisse, è vero. Mandò le arpie a rubarmi il cibo. Insomma, ero un po’ un chiacchierone.
Spifferavo troppi segreti che gli dei volevano mantenere tali. — Il veggente si girò verso Hazel. —
Per esempio, tu dovresti essere morta. E tu… — Si rivolse a Frank: — La tua vita dipende da un
pezzo di legno bruciato.
Percy corrugò la fronte. — Ma che sta dicendo?
Hazel sbatté le palpebre, come se le avessero tirato un ceffone. Frank sembrava fosse stato
investito di nuovo dallo stesso camion di prima, tornato indietro apposta.
— E tu… — Finea si voltò verso Percy. — Be’, tu non sai più neppure chi sei! Potrei dirtelo,
ovviamente, ma… ah! Che divertimento sarebbe? È stata Brigid O’Shaughnessy a sparare a Miles
Archer ne Il falcone maltese. E Darth Fener è realmente il padre di Luke. E la squadra vincitrice del
prossimo campionato di football sarà…
— Concetto afferrato! — bofonchiò Frank.
Hazel mise mano alla spada, come se avesse la tentazione di dare al vecchio una botta in testa con
l’elsa. — Quindi lei parlava troppo e gli dei l’hanno maledetta? Come mai adesso la maledizione
non funziona più?
— Oh, funziona ancora. — Finea inarcò le folte sopracciglia come per dire: “Ci credereste?” —
Ho dovuto stringere un patto con gli Argonauti. A loro servivano informazioni, capite. Se avessero
ucciso le arpie, io li avrei aiutati. Be’, hanno cacciato via quelle perfide creature, ma Iride non ha
permesso che le ammazzassero. Che oltraggio! Per cui stavolta, quando la mia protettrice mi ha
riportato in vita…
— La sua protettrice? — chiese Frank.
Finea gli rivolse un sorriso malevolo. — Ma che diamine! Gea, ovviamente. Chi credete sia stato
ad aprire le Porte della Morte? La tua ragazza, qui, lo capisce. Gea è anche la tua protettrice, no?
— Non sono la sua… Io non… — Hazel sguainò la spada. — Gea non è la mia protettrice!
Finea parve divertito. Pur avendo sentito sguainare la spada, non era preoccupato. — Bene, se
vuoi comportarti in modo nobile e restare fedele alla parte perdente, sono affari tuoi. Ma Gea si sta
risvegliando. Ha già riscritto le regole della vita e della morte. Io sono di nuovo vivo, e in cambio di
un piccolo aiuto – una profezia qua, una profezia là – esaudisco il mio desiderio più profondo. Sono
cambiate le carte in tavola, per così dire. Adesso posso mangiare tutto quello che voglio, dalla
mattina alla sera, e le arpie devono stare a guardarmi, morendo di fame. — Il vecchio diede una
sgasata al tosaerba, e le arpie gemettero sugli alberi. — Anche loro hanno una maledizione: possono
mangiare solo il cibo sul mio tavolo e non possono lasciare Portland. Dato che le Porte della Morte
sono aperte, non possono neanche morire. È meraviglioso!
— Meraviglioso? — protestò Frank. — Sono creature viventi. Perché è così spregevole con loro?
— Sono dei mostri! — ribatté Finea. — Spregevole, io? Quei demoni pennuti mi tormentano da
anni!
— Ma era loro dovere — intervenne Percy, tentando di controllarsi. — Giove in persona glielo
ha ordinato.
— Oh, sono arrabbiatissimo anche con Giove, se è per questo. — Finea annuì. — A tempo debito,
Gea si assicurerà che gli dei siano puniti a dovere. Hanno fatto un lavoro tremendo, governando il
mondo. Ma, per adesso, mi godo Portland. I mortali non si accorgono di me. Credono che io sia un
vecchio pazzo che scaccia i piccioni.
Hazel si avvicinò al veggente. — È orribile! I Campi della Pena sarebbero il posto giusto per lei.
Finea sogghignò. — Da morto a morto, eh, ragazzina? Fossi in te, starei zitta. È cominciato tutto
per colpa tua! Se non fosse stato per te, Alcione non sarebbe vivo.
Hazel barcollò.
— Hazel? — Frank sgranò gli occhi. — Di cosa sta parlando?
— Ah! Lo scoprirai presto, Frank Zhang. Poi vedremo se sarai ancora innamorato di lei — disse
il veggente. — Ma non siete qui per questo, giusto? Volete trovare Thanatos. È tenuto prigioniero nel
covo di Alcione. Posso dirvi dov’è, certo. Ma dovrete farmi un favore.
— Se lo scordi! — replicò brusca Hazel. — Lei lavora per il nemico. Dovremmo rispedirla negli
Inferi.
— Tentate pure. — Finea sorrise. — Ma dubito che rimarrei morto a lungo. Vedete, Gea mi ha
mostrato quanto è semplice tornare. E, con Thanatos incatenato, nessuno mi può tenere a freno. E poi,
se mi uccidete, non potrò svelarvi i miei segreti.
Percy ebbe la tentazione di permettere a Hazel di usare la spada. A dire il vero, avrebbe voluto
strangolare il vecchio con le proprie mani. “Campo Giove” si disse. “Salvare il campo è più
importante.” Si ricordò di Alcione che lo tormentava in sogno. Se sprecavano tempo a cercare il
covo del gigante in giro per l’Alaska, gli eserciti di Gea avrebbero distrutto i Romani… e gli altri
suoi amici, ovunque fossero. Strinse i denti. — Qual è il favore?
Finea si leccò avidamente le labbra. — C’è un’arpia più veloce delle altre.
— Quella rossa, immagino.
— Sono cieco. I colori non li distinguo! — brontolò il vecchio. — In ogni modo, è l’unica con cui
ho difficoltà. È scaltra, lei. Fa sempre tutto da sola, non si appollaia mai insieme alle altre. Queste
me le ha fatte lei. — Indicò le cicatrici sulla fronte. — Catturate quell’arpia. Portatemela! Voglio
legarla dove posso tenerla d’occhio… si fa per dire. Le arpie detestano essere legate: provoca loro
una sofferenza estrema. Sì, così mi divertirò. Magari le darò anche da mangiare, affinché duri di più.
Percy lanciò un’occhiata agli amici. In silenzio, i ragazzi strinsero un patto: non avrebbero mai
aiutato quel vecchio viscido. D’altro canto, dovevano ottenere quelle informazioni. Serviva un piano
B.
— Oh, andate pure a confabulare tra voi — aggiunse Finea, in tono noncurante. — Non mi
importa. Ricordate però che, senza il mio aiuto, la vostra missione fallirà. E tutti quelli che amate
moriranno. Adesso, fuori dai piedi! E portatemi l’arpia!
PERCY
— Ci servirà un po’ di cibo. — Percy superò il vecchio e afferrò della roba dal tavolo da picnic: una
ciotola di noodles thailandesi con salsa al formaggio e un dolce a cilindro, che era una via di mezzo
tra un burrito e una brioche alla cannella. E, prima di perdere il controllo e schiacciare il burrito in
faccia a Finea, aggiunse: — Andiamo, ragazzi. — E li condusse fuori dal parcheggio.
Si fermarono dall’altra parte della strada. Percy trasse un respiro profondo, tentando di calmarsi.
La pioggia era diventata una pioggerella poco convinta. La nebbia fredda regalava una sensazione
piacevole sulla pelle.
— Quell’uomo… — Hazel diede una manata al fianco di una panchina della fermata dell’autobus.
— Deve morire. Di nuovo.
Sotto la pioggia non si vedeva bene, ma Hazel sembrava stesse soffocando le lacrime. Aveva i
lunghi capelli ricci appiccicati ai lati del viso. Con la luce grigia, i suoi occhi d’oro sembravano
color stagno.
Percy ripensò alla sicurezza con cui Hazel aveva agito il giorno del loro primo incontro,
prendendo il controllo della situazione con le gorgoni e traendolo in salvo. Lo aveva consolato
all’altare di Nettuno e lo aveva fatto sentire bene accetto al campo.
In quel momento avrebbe voluto ricambiare il favore, ma non sapeva come. Hazel sembrava
persa, malconcia e molto depressa.
Non era rimasto sorpreso che fosse tornata dagli Inferi. Lo sospettava già da un po’, per come
evitava di parlare del proprio passato, per come Nico Di Angelo era stato così riservato e cauto. Ma
questo non cambiava l’opinione che aveva di lei. Hazel sembrava… be’, viva, come una normale
brava ragazza che si meritava di crescere e avere un futuro. Non era uno spirito malefico come Finea.
— Lo prenderemo — le promise Percy. — Tu non sei come lui, Hazel, per niente. Non mi
importa quello che dice.
Lei scosse la testa. — Non conosci tutta la storia. Avrebbero dovuto spedirmi ai Campi della
Pena. Sono… cattiva come…
— No! — Frank strinse i pugni. Si guardò intorno come per cercare qualcuno che non fosse
d’accordo, qualche nemico da colpire per amore di Hazel. — Lei è una brava persona! — gridò in
mezzo alla strada.
Alcune arpie gracchiarono sugli alberi, ma nessun altro parve farci caso.
Hazel fissò il figlio di Marte. Con esitazione allungò una mano verso di lui, come se volesse
stringergli la sua, ma avesse timore di vederlo svanire. — Frank… io non…
Purtroppo Frank era assorto nei propri pensieri. Si sfilò la lancia dalla schiena e la strinse con
ansia. — Potrei minacciare il vecchio — suggerì. — Potrei spaventarlo…
— Frank, va tutto bene — disse Percy. — Teniamolo come piano di riserva, ma non credo che
Finea si convinca a collaborare con noi per paura. E poi, puoi usare la lancia solo altre due volte,
giusto?
Frank guardò torvo la punta di dente di drago, che si era completamente riformata durante la notte.
— Credo di sì…
Percy non aveva capito cos’avesse voluto dire il veggente sulla storia della famiglia Zhang: il
bisnonno che aveva distrutto il campo, gli antenati Argonauti e la frase su quel pezzo di legno
bruciato da cui dipendeva la vita di Frank. Ma evidentemente l’amico ne era rimasto scosso. Decise
di non chiedere spiegazioni. Non voleva vedere scoppiare in lacrime un ragazzone come lui,
soprattutto davanti a Hazel.
— Ho un’idea. — Percy indicò in fondo alla strada. — L’arpia dalle piume rosse è andata di là.
Vediamo se la convinciamo a parlare con noi.
Hazel guardò il cibo che lui aveva in mano. — Vuoi usarlo come esca?
— Più come un’offerta di pace — rispose Percy. — Andiamo. Stiamo attenti però a non farci
rubare questa roba dalle altre arpie, okay? — Scoprì i noodles thailandesi e scartò il burrito alla
cannella. Dolci aromi si diffusero nell’aria.
Si incamminarono lungo la strada, Hazel e Frank ad armi sguainate. Le arpie volarono dietro di
loro, seguendo il profumo di cibo e appollaiandosi sugli alberi, le cassette della posta, le aste delle
bandiere.
Percy si domandò cosa vedessero i mortali attraverso la Foschia. Forse credevano che le arpie
fossero piccioni e le armi bastoni da lacrosse; o che i noodles thailandesi al formaggio fossero così
buoni da meritarsi una scorta armata. Si teneva il cibo ben stretto. Aveva notato con quanta velocità
le arpie afferrassero gli oggetti. Non voleva perdere quell’offerta di pace prima di aver trovato
l’arpia dalle piume rosse.
Alla fine la individuò che volteggiava sopra una striscia di parco che si estendeva per diversi
isolati tra file di vecchi palazzi in pietra. I sentieri si snodavano sotto grandi aceri e olmi, passando
davanti a sculture, cortili da gioco e panchine ombreggiate. Quel posto rammentava a Percy… un
altro parco. Nella propria città natale? Non se lo ricordava, ma lo assalì un attacco di nostalgia.
Attraversarono la strada, trovarono una panchina e si sedettero accanto a una grande scultura in
bronzo di un elefante.
— Sembra Annibale — disse Hazel.
— Peccato che sia cinese — commentò Frank. — Mia nonna ne ha una uguale. — Trasalì. —
Insomma, la sua non è alta tre metri. Ma la nonna importa oggetti… dalla Cina. Noi siamo cinesi. —
Guardò Hazel e Percy, che fecero di tutto per non scoppiare a ridere. — Okay… ora posso morire
per l’imbarazzo?
— Non preoccuparti — replicò Percy. — Vediamo se riusciamo a stringere amicizia con l’arpia.
— Sollevò i noodles thailandesi, sventolando l’aroma verso l’alto: peperoni alle spezie e formaggio
filante.
L’arpia rossa volteggiò più in basso.
— Non ti faremo del male — disse il figlio di Nettuno. — Vogliamo solo parlare. Noodles
thailandesi in cambio della possibilità di parlarti, okay?
L’arpia piombò giù come un lampo di luce rossa, atterrando sulla statua dell’elefante. Era
spaventosamente magra. Le zampe sembravano stecchini ricoperti di piume. Di faccia sarebbe stata
carina, se non avesse avuto le guance incavate. Si muoveva a scatti convulsi, con gli occhi marrone
scuro che guizzavano senza tregua; le dita ghermivano nervosamente la livrea, i lobi delle orecchie,
le piume rosse irsute. — Formaggio — bofonchiò, guardando di traverso. — A Ella non piace il
formaggio.
Percy esitò. — Ti chiami Ella?
— Ella. Arpia. Aella. Latino. A Ella non piace il formaggio — disse senza riprendere fiato. Con
le mani afferrava i capelli, il vestito di tela da sacchi, le gocce di pioggia, qualsiasi cosa si
muovesse. In un baleno l’arpia si lanciò, agguantò il burrito alla cannella e riapparve di nuovo in
cima all’elefante.
— Santi numi, com’è veloce! — commentò Hazel.
— E strafatta di caffeina — aggiunse Frank.
Ella annusò il burrito. Ne mangiucchiò il bordo e fu percorsa da un brivido in tutto il corpo,
gracchiando come se stesse per morire. — La cannella fa bene — dichiarò. — Fa bene alle arpie.
Slurp!
Si mise a mangiare, ma le arpie più grandi scesero in picchiata. Prima che Percy riuscisse a
reagire, cominciarono a colpire Ella con le ali, cercando di strapparle il burrito.
— Nnnnoooo! — Ella tentò di nascondersi sotto le ali, mentre le sorelle si coalizzavano contro di
lei, graffiandola con gli artigli. — N-no — balbettò. — N-no!
— Basta! — gridò Percy. E con i suoi amici si precipitò ad aiutare Ella, ma era troppo tardi. Una
grossa arpia gialla afferrò il burrito, e l’intero stormo si disperse, lasciando Ella rannicchiata a
tremare sopra l’elefante.
Hazel le sfiorò un piede. — Mi dispiace tanto. Stai bene?
Ella sporse la testa da sotto le ali. Tremava ancora.
Percy riuscì a vedere la ferita sulla schiena, dove Finea l’aveva colpita con il tosaerba.
L’arpia si becchettò le piume, tirandone fuori dei ciuffi. — P-piccola Ella — balbettò stizzita. —
D-debole Ella. Niente cannella per me. Solo formaggio.
Frank lanciò un’occhiata torva dall’altra parte della strada: appollaiate su un acero, le altre arpie
facevano a pezzi il burrito. — Ti troveremo qualcos’altro — le promise.
Percy posò i noodles thailandesi. Si accorse che Ella era diversa, anche come arpia. E, dopo aver
visto com’era stata aggredita, era sicuro di una cosa: indipendentemente da tutto, lui l’avrebbe
aiutata. — Ella, vogliamo essere tuoi amici. Possiamo prenderti altro cibo, ma…
— Amici… Friends — disse l’arpia. — Dieci stagioni. Dal 1994 al 2004. — Lanciò un’occhiata
di traverso a Percy, poi guardò per aria e cominciò a recitare rivolta alle nubi. — Un mezzosangue
degli dei maggiori compirà sedici anni, seppur fra guai e dolori… Sedici. Tu hai sedici anni.
Pagina sedici. L’arte della cucina francese. “Ingredienti: pancetta, burro…”
A Percy fischiarono le orecchie. Gli girava la testa, come se si fosse tuffato a trenta metri
sott’acqua e fosse appena riemerso. — Ella… che cos’hai detto?
— Pancetta. — L’arpia afferrò una goccia di pioggia per aria. — Burro.
— No, prima. Quei versi… io li conosco.
Accanto a lui, Hazel fu scossa da un brivido. — Mi sembrano familiari, tipo… non so, tipo una
profezia. Forse è una cosa che ha sentito dire da Finea, no?
Udendo il nome di Finea, Ella gracchiò terrorizzata e volò via.
— Aspetta! — gridò Hazel. — Non volevo dire… Oh, dei, come sono stupida!
— Tranquilla. — Frank indicò l’arpia. — Guarda.
Ella non si muoveva veloce come prima. Svolazzò verso la cima di un palazzo di mattoni rossi a
tre piani e, sgambettando, corse a nascondersi sopra il tetto. Una piuma rossa cadde volteggiando in
strada.
— Credi che sia il suo nido? — Frank socchiuse gli occhi per leggere l’insegna sul palazzo. —
Biblioteca comunale di Multnomah?
Percy annuì. — Vediamo se è aperta.
Attraversarono di corsa la strada ed entrarono nell’atrio.
Una biblioteca non era certo il luogo preferito di Percy. Dislessico com’era, aveva già abbastanza
difficoltà a leggere i cartelli. Un intero edificio pieno di libri? Per lui era divertente quanto la tortura
cinese della goccia o l’estrazione di un dente. Mentre correvano nell’atrio, immaginò che la
biblioteca sarebbe piaciuta ad Annabeth. Era spaziosa, bene illuminata e dotata di grandi finestre a
volta. Libri e architettura erano senz’altro la sua… Si fermò di colpo.
— Percy? — chiese Frank. — Cosa c’è?
Il figlio di Nettuno tentò con tutto se stesso di concentrarsi. Da dove gli arrivavano quei pensieri?
Architettura, libri… Una volta Annabeth lo aveva portato in biblioteca, quando erano tornati a casa
a… a… Il ricordo svanì. Percy batté il pugno su uno scaffale.
— Percy? — disse Hazel, con dolcezza.
Lui era così arrabbiato, così frustrato dal fatto di non avere più ricordi che avrebbe voluto
mollare un pugno su un altro scaffale, ma le facce preoccupate dei suoi amici lo riportarono al
presente. — Tutto… tutto a posto — mentì. — Mi è girata per un attimo la testa. Vediamo di capire
come arrivare sul tetto.
Ci misero un po’, ma alla fine trovarono un pozzo delle scale che portava sul tetto. Qualcuno
aveva lasciato socchiusa la porta, mettendoci una copia di Guerra e pace.
Fuori, Ella era accoccolata in un nido di libri sotto un riparo improvvisato di cartone.
Percy e i suoi amici si avvicinarono lentamente, cercando di non impaurirla.
L’arpia non prestò loro alcuna attenzione. Si stuzzicava le piume borbottando sottovoce, come se
provasse le battute di una commedia.
Percy arrivò a un metro e mezzo da lei e si inginocchiò. — Ciao. Ci dispiace di averti spaventato.
Senti, non ho molto cibo, ma… — Tirò fuori di tasca un po’ di manzo essiccato macrobiotico.
Ella si lanciò e lo afferrò subito. Tornò a rannicchiarsi nel nido, annusò la carne e la gettò via,
sospirando. — Non del suo tavolo. Ella non può mangiare. Triste. Manzo essiccato farebbe bene alle
arpie.
— Non capisco… Ah! — Percy aggrottò la fronte. — Fa parte della maledizione. Puoi mangiare
solo il cibo di Finea.
— Ci dev’essere un modo — intervenne Hazel.
— Fotosintesi — bofonchiò Ella. — “Nome. Biologia. Sintesi di materiali organici complessi.”
Era il tempo migliore, era il tempo peggiore. Era l’età della saggezza, era l’età della follia…
— Che sta dicendo? — sussurrò Frank.
Percy fissò il mucchio di libri intorno a Ella. Sembravano tutti vecchi e ammuffiti. Alcuni avevano
il prezzo scritto a pennarello sulla copertina, come se la biblioteca li avessi messi in svendita per
liberarsene. — Cita dei libri — intuì il semidio.
— L’almanacco del contadino del 1965 — spiegò Ella. — Diventare allevatori, 26 gennaio.
— Ella, hai letto tutti questi libri? — chiese Percy.
L’arpia sbatté le palpebre. — Anche altri. Altri al piano di sotto. Parole. Le parole placano Ella.
Parole, parole, parole.
Percy raccolse un libro a caso: una copia malridotta di Storia dell’ippica. — Ella, ti ricordi il…
mmm… il terzo paragrafo a pagina sessantadue?
— Secretariat, dato tre a due nel Kentucky Derby del 1973 — rispose subito Ella. — Finì in un
minuto e 59 secondi, stabilendo il record di pista tuttora imbattuto.
Percy chiuse il libro. Gli tremavano le mani. — Parola per parola.
— Incredibile! — esclamò Hazel.
— È una gallina geniale — concordò Frank.
Percy si sentì a disagio. Iniziò a farsi un’idea inquietante del motivo per cui Finea voleva
catturare Ella: non era certo perché l’arpia gli aveva graffiato la fronte. Percy ricordava il verso che
Ella aveva recitato: Un mezzosangue degli dei maggiori. Era sicuro che si riferisse a lui. —
Troveremo un modo per spezzare la maledizione, Ella. Ti piacerebbe?
— It’s Impossible — replicò lei. — Canzone registrata da Perry Como nel 1970.
— Niente è impossibile — ribatté Percy. — Adesso, ascoltami, pronuncerò il suo nome. Non devi
scappare. Ti libereremo dalla maledizione. Dobbiamo solo trovare un modo per sconfiggere…
Finea.
Si aspettava che lei schizzasse via, ma Ella si limitò a scuotere energicamente la testa. — N-no!
Finea no! Ella è veloce. Troppo veloce per lui. Ma lui vuole incatenare Ella. Finea fa del male a
Ella. — Cercò di toccarsi la ferita sulla schiena.
— Frank, hai portato qualcosa del pronto soccorso? — chiese Percy.
— Certo! — Il figlio di Marte tirò fuori un thermos pieno di nettare e ne spiegò le proprietà
curative a Ella.
Quando le si avvicinò, l’arpia si ritrasse mettendosi a gridare. Poi ci provò Hazel, ed Ella le
lasciò versare un po’ di nettare sulla schiena. La ferita cominciò a cicatrizzarsi.
La ragazza sorrise. — Visto? Così va meglio.
— Finea è cattivo — insistette Ella. — E anche i tosaerba. E il formaggio.
— Nel modo più assoluto — concordò Percy. — Non gli permetteremo di farti ancora del male.
Dobbiamo trovare un trucco per ingannarlo, però. Voi arpie lo conoscete sicuramente meglio di
chiunque altro.
— N-no — rispose Ella. — I trucchi sono per i bambini. Cinquanta trucchi per addestrare il
vostro cane, di Sophie Collins. Telefonare al sei-tre-sei…
— Okay, Ella — disse Hazel, con voce suadente, come se stesse cercando di ammansire un
cavallo. — Ma Finea un punto debole ce l’avrà, no?
— È cieco. Cieco.
Frank strabuzzò gli occhi, però Hazel continuò paziente. — Giusto. E poi?
— Probabilità — disse l’arpia. — I giochi di probabilità. Due a uno. Puntate rischiose. Vedere o
passare?
Percy riprese coraggio. — Intendi dire che scommette?
— Finea v-vede grandi cose. Profezie. Destini. Cose degli dei. Non cose piccole. Caso.
Appassionante. E poi è cieco.
Frank si massaggiò il mento. — Ci state capendo qualcosa?
Percy osservò l’arpia becchettarsi il vestito di tela da sacchi. Gli dispiaceva moltissimo per lei,
ma cominciava anche ad accorgersi di quanto fosse intelligente. — Credo di avere capito — disse.
— Finea prevede il futuro. Conosce tonnellate di eventi importanti, ma non riesce a prevedere le
piccolezze. Per questo il gioco d’azzardo lo appassiona. Se riusciamo a convincerlo a fare una
scommessa…
Hazel annuì. — Del tipo che, se perde, deve dirci dov’è Thanatos? Ma cosa possiamo puntare? A
che tipo di gioco giochiamo?
— Uno semplice, con puntate alte — rispose Percy. — Tipo un gioco a due opzioni. Con una si
vive, con l’altra si muore. E il premio dev’essere una cosa che Finea desidera… insomma, a parte
Ella. Lei è fuori discussione.
— La vista — bofonchiò Ella. — La vista fa bene ai ciechi. Guarire… no, no. Gea non lo guarirà.
Gea vuole Finea cieco, dipendente da lei. Sì, sì.
Frank e Percy si scambiarono un’occhiata eloquente. — Il sangue delle gorgoni — dissero
all’unisono.
— Che cosa? — domandò Hazel.
Frank tirò fuori le due fialette di terracotta che aveva recuperato nel Piccolo Tevere. — Ella, sei
un genio! — esclamò. — Se non moriamo.
— Non preoccuparti — replicò Percy — Ho un piano.
PERCY
Il vecchio era nel punto esatto in cui lo avevano lasciato, in mezzo al parcheggio con i furgoncini.
Seduto sulla sua panca da picnic, con le pantofole a forma di coniglio appoggiate sopra, mangiava un
piatto di untuoso kebab. Accanto a sé aveva il tosaerba. La vestaglia era macchiata di salsa barbecue.
— Bentornati! — gridò, allegro. — Sento il frullio nervoso di piccole ali. Avete portato la mia
arpia?
— È qui — rispose Percy. — Ma non è sua.
Finea si leccò via l’unto dalle dita, fissando i suoi occhi lattiginosi su un punto poco sopra la testa
di Percy. — Allora? Siete venuti per uccidermi? Nel caso, buona fortuna per il successo della vostra
eroica impresa.
— Sono venuto per una scommessa.
Il vecchio contrasse le labbra, appoggiò il kebab e si sporse verso Percy. — Una scommessa?
Molto interessante. Informazioni in cambio dell’arpia? Chi vince prende tutto?
— No — disse Percy. — L’arpia non rientra nel piano.
Finea scoppiò a ridere. — Sul serio? Forse non capisci quanto vale.
— È una creatura vivente — commentò Percy. — Non è in vendita.
— Oh, per favore! Vieni dal campo romano, no? Roma si fondava sulla schiavitù. Non essere
arrogante con me. E poi non è neppure umana. È un mostro. Uno spirito del vento. Una tirapiedi di
Giove.
Ella gracchiò. Portarla nel parcheggio era stata un’ardua impresa, ma adesso cominciava a tirarsi
indietro, bofonchiando: — “Giove. Idrogeno ed elio. Sessantatré satelliti.” Nessun tirapiedi. No, no.
Hazel le mise un braccio sulle ali. Sembrava l’unica che potesse sfiorarla senza provocare urli e
contorcimenti.
Frank era al fianco di Percy, con la lancia pronta, come se il vecchio potesse attaccarli.
Il figlio di Nettuno tirò fuori le fialette di terracotta. — Ho una scommessa diversa. Abbiamo due
boccette di sangue delle gorgoni. Una uccide. L’altra guarisce. Sono uguali identiche. Neanche noi
riusciamo a distinguerle. Se sceglie quella giusta, potrebbe guarire dalla cecità.
Finea tese le mani, con impazienza. — Fatemele toccare. Fatemele annusare.
— Senza fretta — replicò Percy. — Prima dobbiamo pattuire le condizioni.
— Le condizioni… — Finea faceva respiri poco profondi.
Percy intuì che aveva una gran voglia di accettare la proposta.
— Profezia e vista. Sarei inarrestabile. Potrei essere il padrone della città. Costruirei qui il mio
palazzo, circondato da furgoncini di cibo. Potrei catturare l’arpia con le mie mani!
— N-no — balbettò Ella, nervosa. — No, no, no.
Scoppiare in una perfida risata con un paio di pantofole a forma di coniglio ai piedi non è impresa
facile, ma Finea fece del proprio meglio. — Perfetto, semidio. Quali sono le tue condizioni?
— Deve scegliere una fiala — disse Percy. — Senza stapparla, né annusarla prima.
— Non è giusto. Io sono cieco.
— E io non ho il suo odorato — ribatté Percy. — Può tenere in mano le boccette. Giuro sullo
Stige che sono identiche. Contengono esattamente quello che le ho detto: una sangue di gorgone
estratto dal fianco sinistro del mostro, l’altra dal fianco destro. Giuro che nessuno di noi sa quale sia
quella giusta. — Percy si voltò verso Hazel. — Ehm… sei tu la nostra esperta in materia di Inferi.
Con tutte queste cose strane che succedono con la morte, un giuramento sullo Stige è sempre
vincolante?
— Sì — rispose Hazel, senza esitazione. — Infrangere un voto del genere… be’, non farlo.
Esistono cose peggiori della morte.
Finea si accarezzò la barba. — Per cui io scelgo la fiala. Tu berrai l’altra. Giuriamo di bere nello
stesso preciso momento.
— Esatto — disse Percy.
— Chi perde muore, è ovvio — riprese Finea. — Un veleno simile probabilmente impedirebbe
anche a me di tornare in vita… per molto tempo, almeno. La mia essenza verrebbe dispersa e
degradata, per cui sto rischiando parecchio.
— Ma, se vince, avrà tutto — suggerì Percy. — Se muoio io, i miei amici giurano di lasciarla in
pace e di non vendicarsi. Lei riavrà la vista, cosa che neppure Gea potrà mai restituirle.
L’espressione del vecchio si inasprì. Percy capì di aver toccato un nervo scoperto. Finea voleva
vedere. Malgrado tutto quello che Gea gli aveva dato, il veggente era offeso di essere tenuto
nell’oscurità.
— Se dovessi perdere, morirò e non potrò darvi informazioni — disse il vecchio. — Che
vantaggio ne avrete?
Percy fu contento di averne parlato a fondo con gli amici: era stato Frank a suggerire la risposta.
— Lei scrive in anticipo il luogo in cui si trova il covo di Alcione. Lo tiene per sé, ma giura sullo
Stige di essere preciso e accurato. Deve anche giurare che, se perde e muore, le arpie saranno
liberate dalla maledizione.
— La posta in gioco è alta — bofonchiò Finea. — Sfidi la morte, Percy Jackson. Non sarebbe più
semplice consegnarmi l’arpia?
— Non rientra fra le opzioni possibili.
Finea sorrise. — Per cui cominci a capire quanto vale. Non appena avrò riacquistato la vista, la
catturerò io stesso, sai. Chiunque abbia il controllo su quell’arpia… be’, io ero re, un tempo. Con
questa scommessa, potrei tornare a esserlo.
— Corre troppo — commentò Percy. — Affare fatto?
Finea si diede dei colpetti sul naso, con aria pensierosa. — Non posso prevedere il risultato. Che
cosa fastidiosa. Una scommessa del tutto inaspettata… rende il futuro poco chiaro. Ma posso dirti
questo, Percy Jackson… un consiglio disinteressato. Se oggi sopravvivrai, non ti piacerà il futuro che
ti attende. A breve ci sarà un grande sacrificio da compiere, e tu non avrai il coraggio di farlo. La
pagherai cara. Il mondo la pagherà cara. Sarebbe più semplice se tu scegliessi il veleno.
Percy aveva un sapore amaro in bocca come il tè verde di Iride. Gli sarebbe piaciuto pensare che
il vecchio stesse solo cercando di spaventarlo, ma qualcosa gli diceva che la sua predizione era
vera. Ripensò all’avvertimento di Giunone, quando lui aveva scelto di andare al Campo Giove.
“Proverai dolore, sofferenza e smarrimento oltre ogni limite. Ma forse avrai la possibilità di salvare
i tuoi vecchi amici e la tua famiglia, e di riavere la tua vita di prima.”
Sugli alberi intorno al parcheggio, le arpie si erano riunite a guardare la scena, come se
percepissero quale fosse la posta in gioco.
Frank e Hazel osservarono preoccupati la faccia di Percy: aveva garantito loro che le probabilità
in suo favore erano più del cinquanta per cento. Aveva un piano. Naturalmente il piano avrebbe
potuto ritorcersi contro di lui. Le sue possibilità di sopravvivenza erano il cento per cento… oppure
zero. A questo, però, non aveva accennato.
— Affare fatto? — domandò di nuovo il figlio di Nettuno.
Finea sorrise. — Giuro sullo Stige di rispettare le condizioni da te enunciate. Frank Zhang, sei un
discendente degli Argonauti. Mi fido della tua parola. Se vinco io, tu e la tua amica Hazel giurate di
lasciarmi in pace e di non cercare vendetta?
Percy pensò che Frank stesse stringendo così forte la lancia d’oro da rischiare di spezzarla.
Alla fine il figlio di Marte riuscì a bofonchiare: — Lo giuro sullo Stige.
— Lo giuro anch’io — aggiunse Hazel.
— Giurate — borbottò Ella. — Non giurate sulla luna, la mutevole luna.
Finea rise. — In tal caso, trovatemi qualcosa con cui scrivere. Cominciamo!
Il veggente scrisse qualcosa su un tovagliolo di carta, che poi infilò nella tasca della vestaglia. —
Giuro che è il luogo in cui si trova il covo di Alcione. Ma non vivrai abbastanza a lungo da leggerlo.
Percy sguainò la spada e spazzò via tutto il cibo dal tavolo da picnic. Si sedette da una parte,
Finea dall’altra.
Il vecchio allungò le mani. — Fammi toccare le fiale.
Percy guardò le colline in lontananza. Immaginò il viso ombroso di una donna che dormiva.
Diresse i propri pensieri nel terreno sotto di lui e sperò che la dea lo ascoltasse. “E va bene, Gea,
voglio vedere il tuo bluff. Hai detto che sono una pedina preziosa. Ha detto di avere grandi progetti
per me e che mi risparmierai finché non arriverò al Nord. Chi è più prezioso per te, io o questo
vecchio? Uno di noi due sta per morire.”
Finea strinse le dita, con un movimento rapace. — Stai perdendo il coraggio, Percy Jackson? Dai
qua.
Il semidio gli passò le fiale.
Il vecchio confrontò il peso. Passò le dita sulle superfici di terracotta. Poi posò entrambe le
boccette sul tavolo e con delicatezza appoggiò una mano su ognuna di esse. La terra fu scossa da un
tremito, un lieve terremoto, ma abbastanza forte da far battere i denti a Percy. Ella gracchiò nervosa.
La fiala sulla sinistra sembrò tremare un po’ di più di quella sulla destra.
Finea sorrise con aria malvagia. Strinse le dita intorno alla fiala di sinistra. — Sei stato uno
sciocco, Percy Jackson. Io scelgo questa. E adesso beviamo.
Percy prese la fiala sulla destra.
Il veggente sollevò la fiala. — Un brindisi ai figli di Nettuno.
Entrambi stapparono le boccette e bevvero.
Un istante dopo, Percy si piegò in due, con la gola in fiamme, un sapore di benzina in bocca.
— Oh, dei! — esclamò Hazel alle sue spalle.
— No! — strillò Ella. — No, no, no!
La vista di Percy si annebbiò. Riusciva a vedere Finea seduto dritto che sorrideva trionfante,
sbattendo gli occhi in trepidazione.
— Sì — gridò il veggente. — Da un momento all’altro, recuperò la vista!
“Ho fatto la scelta sbagliata” si disse Percy. Era stato stupido a correre un rischio del genere. Era
come se schegge di vetro gli penetrassero prima nello stomaco e poi nell’intestino.
— Percy! — Frank lo afferrò per le spalle. — Percy, non puoi morire.
Percy ansimava… e all’improvviso la vista gli si schiarì.
In quello stesso istante, Finea si piegò in due, come se avesse preso un pugno. — Non… non puoi!
— gemette il vecchio. — Gea, non puoi… — Si rimise in piedi, a fatica, e inciampò lontano dal
tavolo, stringendosi lo stomaco in mano. — Sono troppo prezioso! — Gli uscì del vapore dalla
bocca. Un vapore giallo nauseabondo si levò dalle orecchie, dalla barba, dagli occhi ciechi. — Non
è giusto! — gridò Finea. — Mi avete ingannato! — Tentò di prendere il tovagliolo dalla tasca della
vestaglia, ma le mani gli si disintegrarono, trasformando le dita in sabbia.
Percy si alzò, barcollando. Non si sentiva guarito da niente in particolare. La memoria non gli era
tornata per magia, ma il dolore era svanito. — Nessuno ti ha ingannato — disse. — Hai fatto la tua
scelta liberamente, e ti obbligo a rispettare il giuramento.
Il veggente si lamentò, agonizzante. Cominciò a girare in tondo, esalando vapore e disintegrandosi
lentamente finché di lui non rimase altro che una vecchia vestaglia macchiata e un paio di pantofole a
forma di coniglio.
— Questo è il bottino di guerra più disgustoso di tutti i tempi — commentò Frank.
Percy sentì nella sua testa una voce di donna: “Una scommessa, Percy Jackson.” Era un sussurro
pacato, con un pizzico di ammirazione sofferta. “Mi hai costretto a scegliere, e tu sei più importante
per i miei progetti del vecchio veggente, ma non sfidare la sorte. Quando arriverà la tua ora, ti
assicuro che la tua morte sarà molto più straziante di quella provocata dal sangue della gorgone.”
Con la spada, Hazel punzecchiò la vestaglia. Non c’era niente sotto: nessuna traccia di Finea che
tentava di riformarsi. Guardò Percy, sbigottita. — È stato il gesto più coraggioso che abbia visto in
vita mia. Oppure il più stupido.
Frank scosse la testa, incredulo. — Percy, come facevi a saperlo? Eri così sicuro che Finea
avrebbe scelto il veleno…
— Gea vuole che io arrivi in Alaska — rispose Percy. — È convinta… non lo so di preciso. È
convinta di potermi usare per un suo progetto. Ha influenzato Finea, facendogli scegliere la fiala
sbagliata.
Frank fissò i resti del vecchio, sconcertato. — Gea che uccide un suo servo al posto tuo? È su
questo che stavi scommettendo?
— Progetti — borbottò Ella. — Progetti e intrighi. La signora della terra. Grandi progetti per
Percy. Manzo essiccato macrobiotico per Ella.
Percy le diede tutta la busta di manzo, e l’arpia gracchiò di gioia. — No, no, no — borbottò Ella,
quasi cantando. — Finea, no. Cibo e parole per Ella, sì.
Percy si accovacciò accanto alla vestaglia e tirò fuori di tasca il biglietto del vecchio. C’era
scritto: “GHIACCIAIO DI HUBBARD”. Tutto quel rischio enorme per tre sole parole. Passò il biglietto a
Hazel.
— So dov’è — disse la ragazza. — È molto famoso. Ma abbiamo molta, moltissima strada da
fare.
Sugli alberi intorno al parcheggio, finalmente le altre arpie si erano riprese dallo spavento.
Gracchiando soddisfatte, volarono verso i furgoncini di cibo più vicini, si tuffarono attraverso le
finestre di servizio e razziarono le cucine. I cuochi urlavano in tante lingue diverse. I furgoncini
vacillavano avanti e indietro. Piume e scatole di cibo volavano ovunque.
— Sarà bene tornare alla barca — propose Percy. — Non abbiamo più tempo.
HAZEL
Ancora prima di salire in barca, Hazel aveva la nausea.
Continuava a pensare a Finea con il vapore che gli usciva dagli occhi e le mani che si
polverizzavano. Percy le aveva assicurato che lei non era come il vecchio. Ma non era vero: aveva
fatto cose ben peggiori che tormentare le arpie.
«È cominciato tutto per colpa tua!» aveva detto Finea. «Se non fosse stato per te, Alcione non
sarebbe vivo!»
Mentre la barca navigava spedita lungo il fiume Columbia, Hazel cercò di non pensarci. Aiutò
Ella a preparare un nido con vecchi libri e riviste recuperati nel contenitore della raccolta
differenziata della biblioteca.
In realtà, i ragazzi non avevano programmato di portarla con loro, ma Ella si era comportata come
se la cosa fosse decisa.
— Amici… Friends — borbottò. — Dieci edizioni. Dal 1994 al 2004. Amici sciolgono Finea e
danno carne essiccata a Ella. Ella va con amici.
Ora se ne stava appollaiata comodamente a poppa, a smangiucchiare pezzetti di carne e recitare
brani a caso di Charles Dickens e di Cinquanta trucchi per addestrare il vostro cane.
Percy era inginocchiato a prua e li conduceva verso l’oceano con i suoi strani poteri sull’acqua.
Hazel era seduta accanto a Frank sulla panchina al centro, le spalle che si sfioravano, e quel
semplice contatto la faceva sentire agitata come un’arpia.
Ripensò a quando Frank l’aveva difesa gridando: «Lei è una brava persona!» come se fosse
pronto a sfidare chiunque lo avesse negato. Ripensò a quando lo aveva visto sul fianco della collina
a Mendocino, in una radura di erba avvelenata, con le ceneri di tre basilischi ai piedi.
Una settimana prima, se qualcuno avesse suggerito che era figlio di Marte, Hazel sarebbe
scoppiata a ridere. Frank era troppo dolce e gentile. Lei si era sempre sentita protettiva nei suoi
confronti per come era goffo e bravo a cacciarsi nei guai.
Da quando avevano lasciato il campo, lo vedeva con occhi diversi. Frank era più coraggioso di
quanto si fosse mai resa conto. Era lui a occuparsi di lei. E Hazel doveva ammettere che era un
cambiamento piuttosto piacevole.
Il fiume sfociò nell’oceano. La Pax si diresse verso nord.
Mentre navigavano, Frank la teneva su di morale raccontandole barzellette sceme. Perché il
Minotauro ha attraversato la strada? Quanti fauni ci vogliono per cambiare una lampadina? Ogni
tanto indicava degli edifici lungo la costa che gli ricordavano dei posti di Vancouver.
Il cielo cominciò a farsi scuro, il mare divenne dello stesso color ruggine delle ali di Ella. Il 21 di
giugno stava per finire. La Festa della Fortuna sarebbe cominciata la sera del 24: mancavano
settantadue ore.
Finalmente Frank tirò fuori un po’ di cibo dallo zaino – bibite e muffin che aveva trovato sul
tavolo di Finea – e li offrì. — Va tutto bene, Hazel — disse piano. — Mia madre diceva sempre che
non si dovrebbe portare un peso sulle spalle da soli. Ma, se non ti va di parlarne, non c’è problema.
Hazel trasse un respiro tremante. Aveva paura di parlare, e non solo perché era imbarazzata. Non
voleva perdere coscienza e scivolare nel passato. — Avevi ragione quando hai intuito che venivo
dagli Inferi — esordì. — Sono… sono una fuggiasca. Non dovrei essere viva.
Fu come se si fosse rotta una diga. La storia sgorgò come un fiume. Hazel spiegò come sua madre
avesse evocato Plutone e si fosse innamorata di lui. Spiegò il desiderio espresso da Marie Levesque
di possedere tutte le ricchezze della terra, e come questo si fosse trasformato nella maledizione della
figlia. Raccontò della sua vita a New Orleans. Raccontò tutto tranne che di Sammy; guardando Frank,
proprio non ci riusciva.
Raccontò della Voce, e di come Gea avesse lentamente preso possesso della mente di Marie
Levesque. Spiegò come si erano trasferite in Alaska, come lei avesse contribuito a far sorgere il
gigante Alcione e com’era morta, affondando l’isola nella Resurrection Bay.
Sapeva che Percy ed Ella la ascoltavano, ma lei parlava soprattutto a Frank. Concluso il racconto,
aveva paura di guardarlo. Si aspettava che si allontanasse da lei, che l’accusasse di essere un
mostro.
Invece Frank le prese una mano. — Ti sei sacrificata per impedire che il gigante si svegliasse. Io
non potrei mai essere così coraggioso.
Hazel sentì il cuore batterle forte. — Non è stato coraggio. Ho lasciato morire mia madre. Ho
collaborato con Gea per troppo tempo. L’ho fatta quasi vincere.
— Hazel, ti sei opposta a una dea, da sola — intervenne Percy. — Hai fatto bene a… — La sua
voce si spense, come per un improvviso pensiero sgradevole. — Che cos’è successo negli Inferi…
insomma, dopo che sei morta? Saresti dovuta andare nell’Elisio. Ma se Nico ti ha riportato
indietro…
— Non sono andata nell’Elisio. — Hazel aveva la bocca secca come sabbia. — Per favore, non
chiedermi di…
Ma ormai era troppo tardi. Ripensò alla discesa nell’oscurità, all’arrivo sulle rive dello Stige, e
la coscienza cominciò a scivolarle via.
— Hazel? — disse Frank.
— Scivolare via. Slip Sliding Away — canticchiò Ella. — Quinto posto nella classifica dei
singoli in America. Paul Simon. Frank, vai con lei. Simon dice: «Frank vai con lei.»
Hazel non aveva idea di cosa Ella stesse dicendo, ma la vista le si oscurò mentre era mano nella
mano con Frank.
Si ritrovò di nuovo negli Inferi, ma stavolta lui era al suo fianco.
Erano sulla barca di Caronte e stavano attraversando lo Stige. Molti detriti turbinavano nell’acqua
scura: un palloncino di compleanno sgonfio, un ciuccio, una coppia di sposini in plastica da una torta
di nozze… tutte reliquie di vite umane stroncate.
— Do… dove siamo? — Frank era accanto a Hazel e scintillava di uno spettrale bagliore
violaceo, come se fosse un Lare.
— È il mio passato. — Hazel si sentiva stranamente calma. — È solo un’eco. Non preoccuparti.
Il nocchiero si girò, sorridendo. Per un attimo sembrò un bell’uomo africano con un costoso
completo di seta indosso, ma l’attimo dopo era uno scheletro con un mantello nero. — Certo che non
devi preoccuparti — disse. Poi si rivolse a Hazel: — Te l’ho detto che ti avrei portato dall’altra
parte, no? Non importa se non hai un soldo. Non sarebbe corretto lasciare la figlia di Plutone sulla
riva sbagliata del fiume.
La barca scivolò su una spiaggia scura. Hazel condusse Frank alle porte nere dell’Erebo. Al loro
arrivo, gli spiriti aprirono un varco, percependo che la ragazza era figlia di Plutone. Cerbero, il cane
gigante a tre teste, ringhiò nell’oscurità, ma li lasciò passare.
Superate le porte, i ragazzi entrarono in un grande padiglione e si trovarono davanti lo scanno dei
giudici. Tre figure con un mantello nero e una maschera d’oro abbassarono lo sguardo su Hazel,
fissandola intensamente.
Frank mugolò. — Chi…?
— Decideranno il mio destino — disse Hazel. — Guarda.
Proprio come allora, i giudici non le fecero nessuna domanda. Semplicemente le lessero la mente,
estraendole dalla testa i pensieri ed esaminandoli come un album di vecchie foto.
— Ha ostacolato Gea — esordì il primo giudice. — Ha impedito che Alcione si destasse.
— Ma è stata lei a far sorgere il gigante per prima — ribatté il secondo giudice. — È colpevole
di codardia, di debolezza.
— È giovane — intervenne il terzo giudice. — C’era la vita di sua madre in gioco.
— Mia madre… — Hazel trovò il coraggio di parlare. — Dov’è adesso? Qual è il suo destino?
I giudici la osservarono, irrigidendo le maschere d’oro in un sorriso raccapricciante. — Tua
madre…
L’immagine di Marie Levesque scintillò sopra la testa dei giudici. Era pietrificata nell’istante in
cui abbracciava Hazel, durante il crollo, con gli occhi stretti.
— Domanda interessante — riprese il secondo giudice. — La ripartizione della colpa.
— Sì. — Il primo giudice annuì. — La figlia è morta per una nobile causa. Ha impedito molte
morti ritardando la rinascita del gigante. Ha avuto il coraggio di opporsi alla potenza di Gea.
— Ma si è mossa troppo tardi — commentò il terzo giudice. — La sua colpa è aver favorito e
appoggiato un nemico degli dei.
— È stata la madre a influenzarla — ribatté il primo giudice. — La figlia sarà assegnata
all’Elisio. Pena eterna per Marie Levesque.
— No! — gridò Hazel. — No, vi prego! Non è giusto.
I giudici inclinarono la testa in contemporanea.
“Le maschere d’oro” pensò Hazel. “L’oro è sempre stato una maledizione per me.” Si domandò se
fosse l’oro ad avvelenare in qualche modo i pensieri dei giudici, impedendo loro di sottoporla a un
processo equo.
— Stai attenta, Hazel Levesque — l’ammonì il primo giudice. — Vorresti assumertene la piena
responsabilità? Potresti attribuire questa colpa all’anima di tua madre. Sarebbe ragionevole. Tu eri
destinata a grandi cose. Tua madre ha deviato il corso della tua vita. Guarda come avrebbe potuto
essere…
Un’altra immagine apparve sopra i giudici. Hazel si vide bambina, sorridente, con le mani coperte
di colori da pittura. L’immagine invecchiò. Hazel si vide un po’ più grande, con i capelli più lunghi,
gli occhi più tristi. Si vide nel giorno del tredicesimo compleanno galoppare per i prati sul cavallo
preso in prestito. Sammy le correva dietro ridendo: “Da cosa stai scappando? Non sono così brutto,
vero?” Hazel si vide in Alaska arrancare sulla Terza Strada fra la neve e il buio, tornando a casa da
scuola.
L’immagine invecchiò ancora. Hazel si vide a vent’anni. Assomigliava tantissimo a sua madre,
con i capelli raccolti in uno chignon di trecce, gli occhi dorati che scintillavano divertiti. Indossava
un abito bianco, forse da sposa. Sulle labbra aveva un sorriso così caldo che d’istinto capì di stare
guardando qualcuno di speciale… qualcuno che amava.
La visione non l’amareggiò. Non si domandò neppure chi fosse lo sposo. Piuttosto pensò: “Ecco
come sarebbe potuta diventare mia madre se si fosse liberata della propria rabbia, se Gea non
l’avesse abbindolata.”
— Hai perduto questa vita — si limitò a dire il primo giudice. — Circostanze speciali. Elisio per
te. Campi della Pena per tua madre.
— No — disse Hazel. — No, non è stata tutta colpa sua. È stata tratta in inganno. Lei mi voleva
bene. Alla fine ha tentato di proteggermi.
— Hazel? — sussurrò Frank. — Cosa stai facendo?
Lei gli strinse la mano per zittirlo. I giudici non gli prestarono alcuna attenzione.
Alla fine, il secondo giudice sospirò. — Nessuna risoluzione. Né abbastanza bene. Né abbastanza
male.
— La colpa va ripartita — concordò il terzo giudice. — Entrambe le anime saranno consegnate
alle Praterie degli Asfodeli. Mi dispiace, Hazel Levesque. Avresti potuto essere un’eroina.
Hazel attraversò il padiglione e si incamminò su campi gialli che si estendevano all’infinito.
Accompagnò Frank in un boschetto di pioppi neri, passando in mezzo a una folla di spiriti.
— Hai rinunciato all’Elisio per non far soffrire tua madre? — chiese Frank, sbalordito.
— Non meritava i Campi della Pena.
— Ma adesso cosa succede?
— Niente. Niente… per tutta l’eternità.
Vagarono senza meta. Gli spiriti intorno a loro chiacchieravano senza sosta: erano anime perse e
confuse che non ricordavano il proprio passato e neppure il proprio nome.
Hazel invece ricordava tutto. Forse dipendeva dal fatto che era figlia di Plutone, ma lei non
dimenticava mai chi era né perché si trovava lì.
— I ricordi hanno reso più difficile la mia vita nell’oltretomba — spiegò a Frank, che continuava
a vagare accanto a lei come un Lare dai contorni violacei. — Tantissime volte ho tentato di andare al
palazzo di mio padre… — Indicò un grosso castello nero in lontananza. — Non ci sono mai riuscita.
Non posso lasciare le Praterie degli Asfodeli.
— Hai più visto tua madre?
Hazel scosse la testa. — Non mi riconoscerebbe, se pure la trovassi. Questi spiriti… è come un
sogno eterno per loro, uno stato di trance infinita. È stato il massimo che ho potuto fare per lei.
Il tempo non significava niente, ma dopo quella che sembrava un’eternità Hazel e Frank si
sedettero sotto un pioppo nero ad ascoltare le urla che provenivano dai Campi della Pena. In
lontananza, sotto la luce artificiale dell’Elisio, le Isole dei Beati brillavano come smeraldi in un lago
blu scintillante. Bianche vele solcavano le acque, e le anime dei grandi eroi si crogiolavano in eterna
beatitudine sulle spiagge.
— Non meritavi le Praterie degli Asfodeli — protestò Frank. — Dovresti essere tra gli eroi.
— È solo un’eco, questo — disse Hazel. — Ci sveglieremo, Frank. Anche se sembra un’eternità.
— Non è questo il punto! — protestò di nuovo Frank. — Ti hanno stroncato la vita. Da grande
saresti diventata una donna splendida. Avresti… — Il viso di Frank si tinse di una tonalità più cupa.
— Avresti dovuto sposarti — continuò piano. — Avresti avuto una bella vita. Hai perso tutto.
Hazel soffocò un singhiozzo. Non era stato così difficile la prima volta, quando era sola. Avere
Frank al suo fianco la rendeva molto più triste. Ma era decisa a non arrabbiarsi per il destino che le
era toccato.
Ripensò all’immagine di se stessa da adulta, sorridente e innamorata. Sapeva che non ci sarebbe
voluta molta amarezza per inasprirle il viso e farla assomigliare perfettamente a Marie Levesque.
«Mi merito di meglio» diceva sempre sua madre. Hazel non poteva permettersi di pensarla così.
— Mi dispiace, Frank. Credo che tua madre si sbagliasse — disse la ragazza. — Non sempre
condividere un problema lo rende più facile da sopportare.
— Invece sì. — Frank infilò una mano nella tasca del giubbotto. — In effetti… dato che abbiamo
davanti l’eternità per parlare, c’è una cosa che vorrei dirti. — Tirò fuori un involto di stoffa, grande
quasi come un paio di occhiali.
Quando lui lo aprì, Hazel vide un pezzo di legno mezzo bruciato che scintillava di luce violacea.
Corrugò la fronte. — Che cos’è…? — Poi la verità la colpì, fredda e dura come una raffica di vento
invernale. — Finea ha detto che la tua vita dipende da un pezzo di legno bruciato…
— È vero — disse Frank. — Questa è la mia linea della vita, letteralmente. — Le raccontò di
come Giunone fosse apparsa quando lui era piccolo, di come sua nonna avesse strappato quel pezzo
di legno dal camino. — Nonna ha detto che ho delle doti… dei talenti che abbiamo ereditato da un
nostro antenato, l’argonauta. E poi c’è il fatto che mio padre è Marte… — Il ragazzo scrollò le
spalle. — Pare che io sia troppo potente, o qualcosa del genere. È per questo che la mia vita può
bruciarsi con tanta facilità. Iride ha detto che sarei morto tenendo questo pezzo di legno in mano e
guardandolo incenerire. — Si rigirò il legno tra le dita. Perfino sotto quella forma spettrale, Frank
sembrava un ragazzo grande e robusto.
Hazel immaginò che da adulto sarebbe diventato forte e sano come un pesce. Non riusciva a
credere che la sua vita dipendesse da una cosa piccola come un pezzo di legno. — Frank, come fai a
portartelo dietro? Non hai una paura tremenda che gli accada qualcosa?
— È per questo che te lo dico. — Le porse il pezzo di legno. — So che è una richiesta enorme, ma
lo terresti tu per me?
Hazel si sentì girare la testa. Fino ad allora aveva accettato la presenza di Frank nella sua perdita
di coscienza, nel suo blackout. Lo aveva condotto con sé, mentre riviveva il passato, perché le era
sembrato giusto mostrargli la verità. In quel momento però si chiese se lui stesse davvero vivendo
quell’esperienza con lei, o se era un frutto della sua immaginazione. Perché avrebbe dovuto affidarle
la propria vita?
— Frank, tu sai chi sono. Sono figlia di Plutone. Tutto quello che tocco va storto. Perché dovresti
fidarti di me?
— Sei la mia migliore amica. — Le mise in mano il pezzo di legno. — Mi fido più di te che di
chiunque altro.
Hazel voleva dirgli che stava commettendo un errore. Voleva restituirglielo. Ma, prima che
riuscisse a dire qualcosa, un’ombra calò su di loro.
— È arrivato il nostro passaggio — intuì Frank.
Hazel si era quasi dimenticata di stare rivivendo il passato.
Nico Di Angelo si stagliava sopra di lei, con un soprabito nero e la spada di ferro dello Stige su
un fianco. Non notò Frank, ma fissò Hazel negli occhi come se vi leggesse tutta la sua vita. — Tu sei
diversa. Sei una figlia di Plutone. Hai memoria del passato.
— Sì — disse Hazel. — E tu sei vivo.
Nico la scrutò come se stesse leggendo un menu per decidere se ordinare o meno. — Sono Nico
Di Angelo. Sono venuto a cercare mia sorella. Thanatos è sparito, per cui ho pensato… ho pensato
che forse potevo riportarla indietro senza che nessuno se ne accorgesse.
— Riportarla in vita? — chiese Hazel. — È possibile?
— In teoria sì. — Nico sospirò. — Ma lei se n’è andata. Ha preferito rinascere in una nuova vita.
Sono arrivato troppo tardi.
— Mi dispiace.
Nico allungò una mano. — Anche tu sei mia sorella: ti meriti un’altra possibilità. Seguimi.
HAZEL
— Hazel… — Percy la scrollò per una spalla. — Svegliati. Siamo a Seattle.
La ragazza si tirò su a sedere, intontita, socchiudendo gli occhi al sole del mattino. — Frank?
Il figlio di Marte si stropicciò gli occhi, farfugliando: — Siamo appena… sono appena…?
— Siete svenuti entrambi — disse Percy. — Non so perché, ma Ella mi ha detto di non
preoccuparmi. Ha detto che stavate… condividendo?
— Condividendo — ripeté Ella. Era accoccolata a poppa e si lisciava con i denti le piume delle
ali: sotto il profilo dell’igiene personale, non era il massimo. Sputò un batuffolo di piume rosse. —
Condividere è bello. Basta blackout. Il più grande blackout d’America, 14 agosto 2003. Hazel ha
condiviso. Basta blackout.
Percy si grattò la testa. — Sì… abbiamo avuto conversazioni del genere tutta la notte. Ancora non
ho capito di che cosa sta parlando.
Hazel premette una mano contro la tasca del giubbotto. Sentì il pezzo di legno, avvolto nella
stoffa. Poi guardò Frank. — Eri davvero lì con me.
Lui annuì. Non disse niente, ma la sua espressione era chiara. Pensava sul serio ciò che le aveva
detto. Voleva che Hazel custodisse il suo pezzo di legno.
Lei non sapeva se esserne onorata o impaurita. Nessuno le aveva mai affidato una cosa tanto
importante.
— Un momento… — disse Percy. — Voi due avete condiviso una perdita di coscienza? D’ora in
avanti sverrete sempre insieme?
— No — intervenne Ella. — No, no, no. Basta blackout. Altri libri per Ella. Libri a Seattle.
Hazel fissò la distesa d’acqua. Stavano attraversando una grande baia, diretti verso un grappolo di
edifici nel centro della città. I quartieri si estendevano su una serie di colline. Dalla più alta si
levava uno strano grattacielo bianco con un disco in cima, tipo una navicella spaziale di uno dei
vecchi film di Flash Gordon che tanto piacevano a Sammy.
“Basta blackout?” pensò Hazel. Dopo averli sopportati così a lungo, le sembrava troppo bello per
essere vero. Ma come faceva Ella a sapere che erano spariti? Eppure, in effetti, lei si sentiva
diversa… più con i piedi per terra, come se non tentasse più di vivere in due periodi temporali
diversi. Tutti i muscoli del corpo cominciarono a rilassarsi. Si sentiva come se finalmente si fosse
tolta un giubbotto di piombo che indossava da mesi. In qualche modo, il fatto che Frank fosse stato al
suo fianco durante quel “viaggio” le era servito. Aveva rivissuto tutto il passato, arrivando fino al
presente. Ormai l’unica cosa di cui doveva preoccuparsi era il futuro, sempre che ne avesse uno.
Percy diresse la barca verso la zona portuale, nel centro della città.
Man mano che si avvicinavano, Ella graffiava stizzita il nido di libri.
Anche Hazel cominciò a sentirsi nervosa. Non sapeva bene perché. Era una giornata di sole e
Seattle sembrava un bel posto, con insenature e ponti, isole ricoperte di alberi che punteggiavano la
baia e montagne con le cime innevate che si ergevano in lontananza. Eppure aveva la sensazione di
essere osservata. — Ehm… perché ci fermiamo qui? — chiese.
Percy mostrò agli amici l’anello d’argento della sua collana. — Reyna ha una sorella qui. Mi ha
chiesto di trovarla e di mostrarle questo.
— Reyna ha una sorella? — domandò Frank, come se l’idea lo terrorizzasse.
Percy annuì. — A quanto pare, Reyna è convinta che sua sorella possa inviare degli aiuti al
campo.
— Amazzoni… — borbottò Ella. — La terra delle amazzoni. Mmm… Ella invece cercherà una
biblioteca. Non le piacciono le amazzoni. Crudeli. Scudi. Spade. Punte. Ahi!
Frank allungò una mano per prendere la lancia. — Amazzoni? Cioè… guerriere?
— Avrebbe senso — disse Hazel. — Se la sorella di Reyna è anche lei figlia di Bellona, capisco
perché si sia unita alle amazzoni. Ma… qui per noi è sicuro?
— No, no, no — disse Ella. — Prendere libri piuttosto. Niente amazzoni.
— Dobbiamo tentare — dichiarò Percy. — L’ho promesso a Reyna. E poi la Pax non è messa
troppo bene. L’ho forzata parecchio.
Hazel guardò in basso e sgranò gli occhi: dell’acqua filtrava fra le assi di legno.
Percy annuì. — Dobbiamo ripararla o trovare una barca nuova. Ormai praticamente la tengo in
piedi con la forza di volontà. Ella, hai idea di dove possiamo trovare le amazzoni?
— Ehm… non è che uccidono gli uomini a vista, vero? — domandò Frank, inquieto.
Ella lanciò un’occhiata verso il porto, a poche centinaia di metri di distanza da lì. — Ella
ritroverà amici dopo. Ella vola via adesso. — E così fece.
— Bene… — Frank afferrò per aria una piuma rossa. — Incoraggiante.
Ormeggiarono al molo. Fecero appena in tempo a scaricare le provviste dalla barca, prima che la
Pax fosse scossa da un tremito e crollasse a pezzi. Affondò quasi tutta, e a galleggiare tra le onde
rimasero solo un’asse con un occhio dipinto e un’altra con la lettera P.
— Mi sa che non possiamo più ripararla — disse Hazel. — E adesso?
Percy fissò le ripide colline nel centro di Seattle. — Speriamo che le amazzoni ci aiutino.
Esplorarono la città per ore. In un negozio di dolciumi trovarono del fantastico cioccolato al
caramello salato. Bevvero un caffè talmente forte che Hazel ebbe la sensazione di avere un gong
vibrante al posto della testa. Si fermarono in un bar lungo la strada e mangiarono ottimi panini farciti
con salmone alla griglia. Per un attimo videro anche Ella che sfrecciava tra i grattacieli stringendo un
grosso libro in ogni zampa. Ma di amazzoni nessuna traccia. Neppure per un istante Hazel si
dimenticò che il tempo passava inesorabilmente. Era il 22 giugno ormai, e l’Alaska era ancora molto
lontana.
Alla fine si ritrovarono in una zona a sud del centro, in una piazza circondata da edifici più
piccoli di vetro e mattoni.
Hazel cominciò ad avere i nervi tesi. Si guardò intorno, sicura di essere osservata. — Là — disse.
Sul palazzo alla loro sinistra c’era una sola parola incisa sulle porte a vetro: AMAZON.
— Ehm… no, Hazel — disse Frank. — È una cosa moderna. Un’azienda che vende roba su
Internet. Non c’entra niente con le amazzoni.
— A meno che… — Percy attraversò la soglia.
Quel posto dava una brutta sensazione a Hazel, che tuttavia insieme a Frank seguì comunque
Percy.
L’atrio sembrava un grosso acquario vuoto: pareti di vetro, pavimento nero lucido, qualche pianta
e quasi nient’altro. Contro la parete nera c’era una scala di pietra altrettanto nera che portava in alto
e in basso. Al centro della sala c’era una giovane donna con un completo pantalone nero, lunghi
capelli rosso Tiziano e un auricolare da guardia di sicurezza. Sul suo badge c’era scritto: KINZIE.
Aveva un sorriso piuttosto cordiale, ma i suoi occhi ricordavano a Hazel i poliziotti di New Orleans
che facevano la ronda di notte nel Quartiere Francese. Sembrava sempre che ti guardassero dentro,
come se cercassero di capire chi avrebbe potuto aggredirli.
Kinzie fece un cenno del capo a Hazel, ignorando i ragazzi. — Posso aiutarti?
— Ehm… spero di sì. Stiamo cercando le amazzoni.
Kinzie scoccò prima un’occhiata alla spada di Hazel poi alla lancia di Frank, anche se nessuna
delle due avrebbe dovuto essere visibile nella Foschia. — Questa è la sede centrale delle amazzoni
— disse, cauta. — Avevi un appuntamento con una in particolare o…?
— Hylla — la interruppe Percy. — Stiamo cercando una ragazza che si chiama…
Kinzie si mosse così alla svelta che per poco Hazel non riuscì a seguirla con lo sguardo. Sferrò un
calcio nel torace a Frank, scaraventandolo dall’altra parte dell’atrio; poi dal nulla tirò fuori una
spada, mandò Percy a gambe levate con il piatto della lama e gli premette la punta sotto il mento.
Troppo tardi Hazel mise mano alla spada. Una decina di altre ragazze vestite di nero si riversò
sulle scale, spada in pugno, e la circondarono.
Kinzie guardò Percy con occhio torvo. — Regola numero uno: i maschi non parlano senza
permesso. Regola numero due: entrare abusivamente nel nostro territorio è punibile con la morte.
Incontrerete la regina Hylla, va bene. Sarà lei a decidere il vostro destino.
Le amazzoni confiscarono le armi ai tre ragazzi e li condussero lungo così tante rampe di scale che
Hazel perse il conto. Alla fine sbucarono in una caverna talmente grande da ospitare dieci licei, con i
campi sportivi e tutto il resto. Spartane lampade al neon scintillavano sul soffitto in pietra. Nastri
trasportatori si snodavano lungo la sala come scivoli d’acqua, distribuendo scatole in ogni direzione.
Corridoi di scaffali metallici si estendevano all’infinito, stracolmi di casse fino in cima. Le gru
ronzavano, i bracci robotici turbinavano, piegando scatole di cartone, impacchettando colli e
togliendo e mettendo oggetti sui nastri. Alcuni degli scaffali erano talmente alti da essere accessibili
solo mediante scale o ponteggi che correvano lungo il soffitto come impalcature teatrali.
Hazel ripensò ai cinegiornali che aveva visto da bambina. L’avevano sempre colpita le immagini
delle fabbriche che costruivano aeroplani e armamenti per lo sforzo bellico: migliaia di armi di
qualsiasi tipo uscivano ogni giorno dalla catena di montaggio, ma era niente al confronto dello
spettacolo a cui stava assistendo. Tutto il lavoro veniva svolto da computer e robot. Gli unici esseri
umani che Hazel riuscì a vedere erano alcune donne della sicurezza che perlustravano i ponteggi e
uomini in tuta arancione, tipo uniforme da carcerato, che guidavano i carrelli elevatori nei corridoi
per consegnare altri bancali di scatole. Gli uomini indossavano un collare di ferro al collo.
— Avete degli schiavi? — Hazel sapeva che poteva essere pericoloso parlare, ma era talmente
indignata da non riuscire a trattenersi.
— Gli uomini? — sbuffò Kinzie. — Non sono schiavi. Hanno solo capito qual è il loro posto.
Adesso, muoviti.
Camminarono così tanto che a Hazel cominciarono a fare male i piedi. Pensò che stessero per
arrivare alla fine del magazzino, quando Kinzie aprì una lunga serie di doppie porte e li condusse in
un’altra caverna grossa come la prima.
— Gli Inferi non sono così grandi — disse la figlia di Plutone. Probabilmente non era vero, ma i
suoi piedi ne erano convinti.
Kinzie sorrise, soddisfatta. — Ti piace la nostra sede operativa? Sì, abbiamo un sistema di
distribuzione mondiale. Ci sono voluti tanti anni, e gran parte del nostro patrimonio per costruirla.
Adesso, finalmente, ci guadagniamo. I mortali non si accorgono di finanziare il regno delle amazzoni.
Ben presto, saremo più ricche di qualsiasi nazione di umani. Poi, quando i deboli mortali
dipenderanno da noi in tutto e per tutto, comincerà la rivoluzione!
— Che volete fare? — bofonchiò Frank. — Eliminare le spedizioni gratuite?
Una guardia lo colpì sulla pancia con l’elsa della spada.
Percy tentò di aiutare l’amico, ma altre due guardie lo spinsero indietro in punta di spada.
— Dovrete imparare il rispetto — disse Kinzie. — Sono i maschi come voi che hanno rovinato il
mondo dei mortali. L’unica società armoniosa è gestita da donne. Siamo più forti, più sagge…
— Più umili — suggerì Percy.
Le guardie tentarono di colpirlo, ma lui si scansò.
— Smettetela! — intervenne Hazel. Strano a dirsi, le guardie l’ascoltarono. — Sarà Hylla a
giudicarci, giusto? Quindi portateci da lei. Stiamo perdendo tempo.
Kinzie annuì. — Forse hai ragione tu. Abbiamo questioni più importanti da risolvere. E il
tempo… il tempo è senz’altro un problema.
— In che senso? — chiese Hazel.
Una guardia grugnì. — Potremmo portarli subito da Otrera. Potremmo guadagnarci la sua
benevolenza in questo modo.
— No! — ringhiò Kinzie. — Preferirei mettermi un collare di ferro e guidare un carrello
elevatore. La regina è Hylla.
— Fino a stasera — borbottò un’altra guardia.
Kinzie impugnò la spada. Per un attimo Hazel pensò che le amazzoni stessero per scontrarsi, ma
Kinzie riuscì a tenere la rabbia sotto controllo. — Basta — disse. — Andiamo!
Attraversarono una corsia piena di carrelli elevatori in movimento, si fecero largo in un labirinto
di nastri trasportatori e si infilarono sotto una fila di bracci robotici che impacchettavano scatole.
Quasi tutta la merce sembrava roba piuttosto normale: libri, prodotti elettronici, pannolini… Ma
contro una parete era addossato un carro da guerra con un grosso codice a barre su un fianco. Appeso
al giogo c’era un cartello con la scritta: DISPONIBILITÀ: ULTIMO RIMASTO. ORDINA SUBITO (ULTERIORI IN
ARRIVO).
Finalmente entrarono in una caverna più piccola, una via di mezzo tra una zona di carico e una
sala del trono. Le pareti erano rivestite da scaffalature metalliche a sei ripiani, decorate da vessilli di
guerra, scudi dipinti e teste impagliate di draghi, idre, leoni giganti e cinghiali. A guardia di entrambi
i lati c’erano decine di carrelli elevatori adibiti alla guerra. Ciascuno era guidato da un maschio con
il collare di ferro, ma sulla piattaforma posteriore c’era una guerriera che azionava una balestra
gigante. I denti di ogni carrello elevatore erano stati affilati e trasformati in enormi lame di spada.
Gli scaffali erano pieni di gabbie con dentro animali vivi. Hazel non riusciva a credere ai propri
occhi: enormi cani mastino, aquile giganti, un ibrido tra un leone e un’aquila – un grifone,
probabilmente – e una formica rossa grande quanto un’utilitaria.
Hazel guardò raccapricciata un carrello elevatore sfrecciare nella sala, sollevare una gabbia con
uno splendido pegaso bianco e schizzare via mentre il cavallo nitriva per protesta. — Che cosa fate a
quel povero animale? — domandò.
— Il pegaso? — Kinzie corrugò la fronte. — Se la caverà. Di certo l’ha ordinato qualcuno. La
spedizione e i costi di consegna sono notevoli, ma…
— Si può comprare un pegaso on-line? — chiese Percy.
Kinzie lo guardò in cagnesco. — Tu ovviamente no, maschio. Ma le amazzoni sì. Abbiamo
seguaci in tutto il mondo. Hanno bisogno di rifornimenti.
Alla fine del magazzino c’era una pedana costruita con bancali di libri; c’erano pile di romanzi sui
vampiri, pareti piene di thriller di James Patterson e un trono fatto con un migliaio di copie di un
volume che si intitolava Cinque tipi di donne molto aggressive.
In fondo alle scale, varie amazzoni in mimetica stavano avendo una discussione accesa, mentre
una giovane donna – la regina Hylla, suppose Hazel – le osservava e ascoltava stando seduta sul
trono.
Hylla aveva una ventina d’anni, era magra e sinuosa come una tigre. Indossava una tuta di pelle
nera e stivali dello stesso colore. Non aveva la corona, ma intorno alla vita portava una strana
cintura fatta di maglie d’oro concatenate in un motivo tipo labirinto. Hazel non riusciva a credere a
quanto somigliasse a Reyna: aveva qualche anno in più, forse, ma aveva gli stessi capelli lunghi neri,
gli stessi occhi scuri e la stessa espressione dura, come se cercasse di decidere quale delle amazzoni
davanti a lei meritasse la morte.
Kinzie lanciò una rapida occhiata alle guerriere che litigavano e grugnì disgustata. — Le agenti di
Otrera diffondono le loro menzogne.
— Come dici? — chiese Frank.
Hazel si fermò di colpo, facendo inciampare le guardie dietro di lei. A pochi passi dal trono della
regina, due amazzoni sorvegliavano una gabbia. Dentro c’era uno splendido cavallo, non di quelli
alati, ma un maestoso e possente stallone con il manto color miele e la criniera nera. L’animale puntò
gli occhi su Hazel, e lei ebbe la netta sensazione che fosse spazientito, come se pensasse: “Era ora
che tu arrivassi.”
— È lui — sussurrò la figlia di Plutone.
— Lui chi? — chiese Percy.
Kinzie aggrottò la fronte ma, quando seguì lo sguardo di Hazel, la sua espressione si addolcì. —
Ah, sì. Bello, vero?
Hazel sbatté le palpebre per assicurarsi di non avere le allucinazioni. Era lo stesso cavallo che
aveva rincorso in Alaska. Ne era sicura… ma era impossibile. Nessun cavallo vive tanto a lungo. —
È…? — Riuscì a malapena a controllare la voce. — È in vendita?
Tutte le guardie si misero a ridere.
— Lui è Arion — le spiegò Kinzie in tono paziente, come se capisse il fascino che Hazel subiva.
— È un tesoro reale delle amazzoni: può reclamarlo solo la nostra guerriera più coraggiosa, se credi
alla profezia.
— Quale profezia?
L’espressione di Kinzie si fece offesa. — Non importa. Ma no, non è in vendita.
— Allora perché è in gabbia?
Kinzie fece una smorfia. — Perché… ha un caratteraccio.
E proprio in quel momento il cavallo sbatté la testa contro la porta della gabbia. Le sbarre di
metallo fremettero, e le guardie si ritrassero nervose.
Hazel voleva liberare quel cavallo. Lo desiderava più di ogni altra cosa avesse mai desiderato in
vita sua. Ma Percy, Frank e una decina di guerriere la stavano fissando, per cui tentò di mascherare le
proprie emozioni. — Era solo una domanda — riuscì a dire. — Andiamo dalla regina.
La discussione in cima alla sala era diventata più accanita.
Finalmente la regina notò il gruppo di Hazel che si avvicinava e sbottò: — Basta!
Le amazzoni tacquero all’istante.
La regina fece cenno alle contendenti di andarsene e a Kinzie di avvicinarsi.
Kinzie sospinse Hazel e i suoi amici verso il trono. — Mia regina, questi semidei…
La regina si alzò di scatto. — Tu! — Fissò Percy Jackson con rabbia omicida.
Percy borbottò qualcosa in greco antico – Hazel era piuttosto sicura che le suore di Sant’Agnese
non lo avrebbero apprezzato molto – poi disse: — Cartellina. Terme. Pirati.
Hazel non ne capì il senso, ma la regina annuì.
Hylla scese dal trono di best-seller ed estrasse un pugnale dalla cintura. — Sei stato
incredibilmente sciocco a venire qui. Hai distrutto la mia casa. Hai trasformato me e mia sorella in
esuli e prigioniere.
— Percy, di che cosa sta parlando questa donna spaventosa con il pugnale? — chiese Frank.
— Dell’isola di Circe — rispose il figlio di Nettuno. — Me lo sono appena ricordato. Forse il
sangue della gorgone sta cominciando a guarirmi la memoria. Il Mare dei Mostri. Hylla… ci ha
accolto al porto, ci ha portato dal suo capo. Hylla lavorava per la maga.
— Mi stai dicendo che hai sofferto di amnesia? — La regina sorrise. — Sai, potrei anche crederti.
Altrimenti perché mai saresti stato così stupido da venire qui?
— Siamo venuti in pace — insistette Hazel. — Che cos’ha fatto?
— In pace? — La regina inarcò le sopracciglia e guardò Hazel. — Che cos’ha fatto? Questo
maschio ha distrutto la scuola di magia di Circe.
— Circe mi aveva trasformato in un porcellino d’India — protestò Percy.
— Niente scuse! — ribatté Hylla. — Circe era una datrice di lavoro saggia e generosa. Mi dava
vitto e alloggio, una buona assistenza sanitaria, dentista, cuccioli di leopardo, pozioni gratuite…
tutto! E tu, con la tua amica, quella biondina…
— Annabeth! — Percy si batté la fronte, come se volesse far affiorare più velocemente i ricordi.
— Ma certo! Ero là con Annabeth.
— Hai liberato i nostri prigionieri: Barbanera e i suoi pirati. — Hylla si girò verso Hazel. — Sei
mai stata rapita dai pirati? Non è affatto divertente. Hanno incendiato le nostre terme, radendole al
suolo. Io e mia sorella siamo state loro prigioniere per mesi. Per fortuna siamo figlie di Bellona.
Abbiamo imparato alla svelta a combattere. Altrimenti… — La regina rabbrividì. — Be’, i pirati
hanno iniziato a rispettarci. Alla fine ci siamo trasferite in California, dove… — Esitò, come se
fosse un ricordo doloroso. — Dove io e mia sorella ci siamo separate. — Hylla avanzò verso Percy,
finché non si ritrovarono naso contro naso. Gli puntò il pugnale sotto il mento. — Sono
sopravvissuta, e ho avuto successo: sono diventata la regina delle amazzoni. Per cui forse dovrei
ringraziarti.
— Non c’è di che — replicò Percy.
La regina affondò un po’ il pugnale. — Ma no. Credo che ti ucciderò.
— Aspetta! — gridò Hazel. — È stata Reyna a chiederci di venire qui da te. Guarda l’anello sulla
collana di Percy.
Hylla corrugò la fronte. Abbassò il pugnale sulla collana, finché la punta non andò a posarsi
sull’anello d’argento. Sbiancò in viso. — Voglio una spiegazione. — Lanciò un’occhiata truce a
Hazel. — E sbrigati!
Hazel ci provò. Descrisse il Campo Giove. Raccontò alle amazzoni che Reyna era il loro pretore,
che un esercito di mostri marciava verso sud e che la loro missione era andare in Alaska per liberare
Thanatos.
Nel frattempo, un altro gruppo di amazzoni era entrato nella sala. Una era più alta e più vecchia di
tutte, aveva trecce d’argento e vesti di seta come una matrona dell’antica Roma. Il resto delle
amazzoni le fece largo, trattandola con un rispetto tale che Hazel si domandò se non fosse la madre di
Hylla, fin quando non notò come la regina e l’altra donna si guardassero in cagnesco.
— Ci serve il tuo aiuto — disse la figlia di Plutone, concludendo il racconto. — A Reyna serve il
tuo aiuto.
Hylla afferrò il nastro di cuoio di Percy e glielo strappò dal collo, con le perline, l’anello, la
piastrina della probatio. — Reyna… che sciocca…
— Bene! — la interruppe la nuova venuta. — Ai Romani serve il nostro aiuto? — Scoppiò a
ridere, e le amazzoni intorno a lei si unirono alla risata. — Quante volte abbiamo combattuto contro i
Romani alla mia epoca? Quante volte hanno ucciso le nostre sorelle in battaglia? Quando ero
regina…
— Otrera, sei qui come ospite — la interruppe Hylla. — Non sei più la regina.
La donna allargò le mani e fece un inchino beffardo. — Come dici tu… almeno fino a stasera. Ma
io dico la verità, regina Hylla. — Pronunciò il titolo in tono di scherno. — È stata la Madre Terra in
persona a riportarmi indietro! Reco notizie di una nuova guerra. Perché noi amazzoni dovremmo
seguire Giove, quello sciocco re dell’Olimpo, se possiamo seguire una regina? Quando prenderò io
il comando…
— Se lo prenderai — ribatté Hylla. — Per il momento, sono io la regina. La mia parola è legge.
Otrera guardò le amazzoni lì riunite, che erano rimaste immobili come se si trovassero in una
fossa con due tigri feroci. — Siamo diventate deboli a tal punto da ascoltare i semidei maschi?
Risparmierai la vita a questo figlio di Nettuno, anche se in passato ha distrutto la tua patria, Hylla?
Magari gli lascerai distruggere anche la tua nuova patria!
Hazel trattenne il fiato.
Le amazzoni spostarono lo sguardo avanti e indietro da Hylla a Otrera, cercando un segno di
cedimento.
— Emetterò la sentenza dopo aver esaminato tutti i fatti — riprese Hylla, in tono gelido. — È così
che governo io: con la ragione, non con la paura. Innanzitutto parlerò con lei. — Puntò un dito verso
Hazel. — È mio dovere ascoltare quello che una guerriera ha da dire, prima di condannare a morte
lei o i suoi alleati. È questo lo stile delle amazzoni. Oppure gli anni che hai trascorso negli Inferi ti
hanno offuscato la memoria, Otrera?
La donna sogghignò, ma non cercò di ribattere.
Hylla si girò verso Kinzie. — Porta questi maschi in prigione. Voi altre, uscite dalla sala.
Otrera sollevò una mano verso la folla. — Come la nostra regina comanda. Ma chi di voi
desidera saperne di più di Gea e del nostro glorioso futuro con lei, venga con me!
Circa la metà delle amazzoni la seguì fuori dalla sala.
Kinzie sbuffò, disgustata. Poi, insieme alle sue guardie, trascinò via Percy e Frank.
Hylla e Hazel si ritrovarono da sole, eccezion fatta per le guardie personali della regina. Ma, a un
cenno di Hylla, anche loro si allontanarono per non trovarsi a portata d’orecchio.
La regina si girò verso Hazel. La sua rabbia era svanita, e Hazel colse la disperazione nei suoi
occhi. Sembrava uno degli animali in gabbia su un nastro trasportatore. — Dobbiamo parlare —
disse Hylla. — Non abbiamo molto tempo. Entro mezzanotte, molto probabilmente sarò morta.
HAZEL
Hazel prese in considerazione l’idea di tentare la fuga. Non si fidava della regina Hylla, e certamente
non si fidava neppure dell’altra donna, Otrera. Erano rimaste solo tre guardie nella sala. Tutte si
tenevano a debita distanza.
L’unica arma a disposizione di Hylla era un pugnale. A quella profondità sottoterra, Hazel
avrebbe potuto scatenare un terremoto nella sala del trono, oppure evocare un bel mucchio di oro e
pietre preziose. Se fosse riuscita a creare un diversivo, forse avrebbe potuto fuggire e trovare i suoi
amici.
Purtroppo, però, aveva visto le amazzoni combattere. Anche se la regina aveva solo un pugnale,
Hazel sospettava che sapesse usarlo molto bene. Lei invece era stata disarmata. Non l’avevano
perquisita, quindi per fortuna non le avevano portato via il pezzo di legno di Frank dalla tasca del
giubbotto, ma la sua spada era scomparsa.
La regina sembrava leggerle nel pensiero. — Lascia perdere la fuga. Ovviamente, ti
rispetteremmo se ci provassi. Ma dovremmo ucciderti.
— Grazie per il consiglio.
Hylla scrollò le spalle. — È il minimo. Credo che siate venuti in pace. Credo che vi abbia
davvero mandati Reyna.
— Ma non ci aiuterai?
La regina osservò la collana che aveva strappato a Percy. — È complicato — disse. — Le
amazzoni hanno sempre avuto un rapporto difficile con gli altri semidei, soprattutto con i maschi.
Abbiamo combattuto al fianco di re Priamo nella guerra di Troia, ma Achille ha ucciso la nostra
regina, Pentesilea. Anni prima, Ercole aveva rubato alla regina Ippolita la cintura che indosso io ora;
ci abbiamo messo secoli a recuperarla. Tanto tempo fa, alla nascita del regno delle amazzoni, un eroe
di nome Bellerofonte uccise la nostra prima regina, Otrera.
— Intendi dire la donna…?
— … che se n’è appena andata, sì. Otrera, figlia di Ares.
— Di Marte?
L’espressione di Hylla si fece arcigna. — No, senz’altro di Ares. Otrera ha vissuto molto tempo
prima della fondazione di Roma, in un’epoca in cui tutti i semidei erano greci. Purtroppo alcune delle
nostre guerriere preferiscono ancora i vecchi sistemi. I figli di Ares… sono sempre i peggiori.
— I vecchi sistemi… — Hazel aveva sentito alcuni pettegolezzi sui semidei greci. Ottaviano
credeva che esistessero davvero e che stessero tramando in segreto contro Roma. Lei però non ci
aveva mai creduto, neppure quando Percy era comparso al campo. Non le era sembrato un greco
malvagio e intrigante. — Vuoi dire che le amazzoni sono un misto… che sono greche e romane?
Hylla continuò a osservare la collana, le perle di creta, la piastrina della probatio. Fece scivolare
l’anello d’argento di Reyna dalla cordicella e se lo infilò al dito. — Immagino che non ve lo
insegnino al Campo Giove. Gli dei hanno molti aspetti: Marte, Ares. Plutone, Ade… Essendo
immortali tendono ad accumulare più personalità. Sono greci, romani, americani… una combinazione
di tutte le culture che hanno influenzato il mondo nel corso dei secoli. Capisci?
— Non… non ne sono sicura. Tutte le amazzoni sono semidee?
La regina allargò le mani. — Tutte abbiamo un po’ di sangue immortale, ma molte delle mie
guerriere discendono da semidei. Alcune sono amazzoni da tantissime generazioni. Altre sono figlie
di divinità minori. Kinzie, che vi ha portati qui, è figlia di una ninfa. Ah… eccola.
La ragazza con i capelli rossi si avvicinò alla regina e si inchinò. — I prigionieri sono al sicuro in
carcere. Ma…
— Sì?
Kinzie deglutì, imbarazzata. — Otrera ha fatto in modo di avere le sue seguaci a guardia delle
celle. Mi dispiace, mia regina.
Hylla fece una smorfia. — Non importa. Rimani con noi, Kinzie. Stiamo parlando della nostra…
ehm… situazione.
— Gea ha riportato Otrera indietro dalla morte per scatenare una guerra civile tra le amazzoni? —
chiese Hazel.
La regina sospirò. — Se questo era il suo piano, sta funzionando. Otrera è una leggenda per noi.
Vuole riconquistare il trono e condurci in guerra contro i Romani. Molte delle mie sorelle la
seguiranno.
— Non tutte — bofonchiò Kinzie.
— Ma Otrera è uno spirito! — obiettò Hazel. — Non è neanche…
— Vera? — La regina scrutò Hazel. — Ho lavorato con la maga Circe per tanti anni. Riconosco
un’anima rediviva quando ne vedo una. Quando sei morta tu, Hazel? Negli anni Venti? Trenta?
— Nel 1942. Ma… ma non è stata Gea a riportarmi indietro. Io sono qui per fermarla. È la mia
seconda occasione.
— La seconda occasione… — Hylla fissò le file di carrelli elevatori da guerra. — Io ne so
qualcosa. Quel ragazzo, Percy Jackson, ha distrutto la mia vecchia vita. Non mi avresti riconosciuto
allora. Ero tutta vestitini e trucco. Ero una magnifica segretaria, un’insopportabile Barbie.
Kinzie fece il segno di un artiglio a tre dita sopra il cuore, tipo i gesti vudù che la madre di Hazel
eseguiva per respingere il malocchio.
— L’isola di Circe era un luogo sicuro per me e Reyna — continuò la sovrana. — Eravamo figlie
della dea della guerra, Bellona. Volevo proteggere Reyna da tutta quella violenza. Poi Percy Jackson
ha sguinzagliato i pirati. Ci hanno rapito, ma io e Reyna abbiamo temprato l’animo e il corpo.
Abbiamo scoperto che ce la cavavamo bene con le armi. Negli ultimi quattro anni ho desiderato
uccidere Percy Jackson per tutto quello che ci ha costrette a sopportare.
— Ma Reyna è diventata pretore del Campo Giove — osservò Hazel. — Tu sei diventata regina
delle amazzoni. Forse era questo il vostro destino.
Hylla fece scorrere la collana tra le dita. — Forse non sarò regina ancora a lungo.
— Non sarà Otrera a trionfare! — insistette Kinzie.
— Accadrà quello che vorranno le Parche — replicò Hylla, senza entusiasmo. — Sai, Hazel,
Otrera mi ha sfidato a duello. Ogni amazzone ha questo diritto. A mezzanotte, combatteremo per il
trono.
— Ma… ma tu sei brava, giusto? — chiese la figlia di Plutone.
Hylla abbozzò un sorriso. — Brava, sì… ma Otrera è la fondatrice delle amazzoni.
— È molto più vecchia — replicò Hazel. — Forse è fuori allenamento, visto che è stata morta per
tanto tempo.
— Spero che tu abbia ragione. Sarà una battaglia all’ultimo sangue.
Hazel ripensò a quello che Finea aveva detto a Portland, alla “scorciatoia” che lui aveva preso
per tornare dalla morte, grazie a Gea. Ripensò a come le gorgoni avessero tentato di riformarsi nel
Tevere. — Anche se la ucciderai, Otrera tornerà indietro — disse. — Finché Thanatos è incatenato,
non morirà definitivamente.
— Sì, Otrera ci ha già detto che non può morire — replicò Hylla. — Quindi, anche se riuscissi a
sconfiggerla stanotte, lei semplicemente tornerebbe e mi sfiderebbe di nuovo domani. Non c’è una
legge che vieti di sfidare la regina più volte. Può continuare a combattere contro di me ogni notte,
finché non mi distruggerà. Non posso vincere.
Hazel fissò il trono. Immaginò Otrera seduta lì, con le sue belle vesti e i suoi capelli d’argento,
mentre ordinava alle guerriere di attaccare Roma. Immaginò la voce di Gea che riempiva la
caverna… — Ci dev’essere un sistema — disse. — Le amazzoni non hanno… poteri speciali?
— Non più degli altri semidei. Possiamo morire, come qualsiasi mortale — rispose Hylla. —
Esiste un gruppo di arciere che seguono la dea Artemide. Spesso vengono scambiate per amazzoni,
ma le Cacciatrici di Artemide hanno rinunciato alla compagnia degli uomini in cambio di una vita
pressoché eterna. Noi amazzoni… preferiremmo vivere la vita sino in fondo. Amiamo, combattiamo,
moriamo.
— Credevo che odiaste gli uomini.
Hylla e Kinzie scoppiarono a ridere.
— Odiamo gli uomini? No, no, gli uomini ci piacciono. Vogliamo solo far capire loro chi
comanda — dichiarò la regina. — Ma non è questo il punto. Se potessi, radunerei le nostre truppe e
correrei in aiuto di mia sorella. Purtroppo ho scarso potere. Quando verrò uccisa in combattimento –
ed è solo questione di tempo – Otrera diventerà regina. Marcerà verso il Campo Giove con tutte le
guerriere, ma non andrà in aiuto di mia sorella: si unirà all’esercito del gigante.
— Dobbiamo fermarla — disse Hazel. — Io e i miei amici abbiamo ucciso Finea, uno dei servi di
Gea a Portland. Potremmo darvi una mano!
Hylla scosse la testa. — Non potete interferire. Come regina, devo combattere le mie battaglie in
prima persona. E poi i tuoi amici sono in prigione. Se li lasciassi andare, apparirei debole. O vi
giustizio io tutti e tre per intrusione, oppure lo farà Otrera non appena diventerà regina.
Hazel ebbe un tuffo al cuore. — Per cui immagino che siamo entrambe morte. Io per la seconda
volta.
In un angolo della gabbia, Arion nitrì rabbiosamente. Si impennò e sbatté gli zoccoli contro le
sbarre.
— Sembra che il cavallo percepisca la tua disperazione — disse la regina. — Interessante. Lui è
immortale, sai… è figlio di Nettuno e di Cerere.
Hazel sbatté le palpebre. — Due divinità hanno avuto per figlio un cavallo?
— È una lunga storia. È il cavallo più veloce del mondo — disse Hylla. — Pegaso è più famoso,
per via delle ali, ma Arion corre come il vento per terra e per mare. Nessuna creatura è più veloce di
lui. Ci sono voluti anni per catturarlo; è uno dei nostri bottini più preziosi. Ma non ci è servito a
niente. Non permette a nessuno di cavalcarlo. Credo che detesti le amazzoni. E costa tanto
mantenerlo. Mangia di tutto, ma preferisce l’oro.
Hazel sentì un formicolio alla nuca. — Mangia l’oro? — Ripensò al cavallo che la inseguiva tanti
anni prima, in Alaska. In effetti, le era sembrato che mangiasse le pepite d’oro che comparivano sulle
sue tracce. Si inginocchiò e premette la mano contro il pavimento. La pietra si incrinò all’istante. Un
pezzo di oro grezzo grande come una susina spuntò dalla terra.
Hylla e Kinzie la fissarono a occhi sgranati. — Come hai fatto…?
Hazel si avvicinò alla gabbia dello stallone e infilò le mani tra le sbarre.
— Hazel, stai attenta! — gridò la regina.
Arion pian piano mangiò l’oro dalla mano di Hazel.
— Incredibile — mormorò Kinzie. — L’ultima di noi che ci ha provato…
— … adesso ha un braccio di metallo — concluse la regina. Osservò la figlia di Plutone con
nuovo interesse, come se stesse decidendo se dire qualcos’altro oppure no. — Hazel… abbiamo
trascorso anni a dare la caccia a questo cavallo. È stato predetto che un giorno la guerriera più
coraggiosa lo avrebbe dominato e condotto alla vittoria, inaugurando una nuova era di prosperità per
le amazzoni. Eppure nessuna di noi può toccarlo, né tantomeno controllarlo. Anche Otrera ha
provato, senza riuscirci. Altre due sono morte tentando di cavalcarlo.
Hazel probabilmente avrebbe dovuto preoccuparsi, ma non riusciva a immaginare che quello
splendido cavallo potesse farle del male. Infilò di nuovo le mani tra le sbarre e accarezzò il muso di
Arion.
Lui le strofinò il naso sul braccio, borbottando soddisfatto, come se chiedesse: “Altro oro?
Slurp!”
— Ti darei ancora da mangiare, Arion. — Hazel lanciò un’occhiata tagliente alla regina. — Ma
credo che mi aspetti un’esecuzione capitale.
Hylla spostava lo sguardo da Hazel al cavallo, sbalordita. — Incredibile…
— La profezia — disse Kinzie. — Forse…
Hazel riuscì quasi a vedere girare le rotelle nella testa della regina, che stava riflettendo su quella
svolta inaspettata.
— Hai coraggio, Hazel Levesque. E, a quanto pare, Arion ha scelto te. Kinzie?
— Sì, mia regina?
— Hai detto che le seguaci di Otrera sorvegliano le celle?
Kinzie annuì. — Avrei dovuto prevederlo. Mi dispiace…
— No, nessun problema. — Gli occhi di Hylla scintillavano, come faceva Annibale l’elefante
quando lo sguinzagliavano per distruggere una fortezza. — Sarebbe imbarazzante per Otrera se le sue
seguaci non compissero il loro dovere… se, per esempio, fossero sopraffatte da un intruso e ci fosse
un’evasione.
Kinzie cominciò a sorridere. — Sì, mia regina. Molto imbarazzante.
— È ovvio che nessuna delle mie guardie ne saprebbe niente — proseguì Hylla. — Kinzie, tu di
certo non favoriresti un’evasione.
— Nemmeno per sogno!
— Noi non potremmo aiutarti, Hazel. — La regina inarcò le sopracciglia. — Ma se tu, in qualche
modo, sopraffacessi le guardie e liberassi i tuoi amici… se, per esempio, prendessi un tesserino di
riconoscimento da una delle guardie…
— Abilitata per l’acquisto con un solo clic… — aggiunse Kinzie. — E capace di aprire le celle
della prigione con un solo clic.
— Se, gli dei non vogliano, dovesse accadere una cosa simile, troverai le armi e le provviste dei
tuoi amici nella postazione della guardia accanto alle celle — continuò la regina. — E chissà? Se tu
riuscissi a tornare nella sala del trono, mentre io sono andata a prepararmi per il duello… be’, come
ho già accennato, Arion è un cavallo velocissimo. Sarebbe un peccato che venisse rubato e utilizzato
per un’evasione.
A Hazel sembrò di essere stata inserita in una presa della corrente. Una scarica elettrica le inondò
il corpo. Arion… poteva essere suo. Doveva solo liberare i suoi amici e aprirsi faticosamente un
varco tra un intero popolo di guerriere molto ben addestrate.
— Regina Hylla… non sono granché come combattente — disse la figlia di Plutone.
— Oh, ci sono tanti tipi di combattimento, e ho la sensazione che tu sia piena di risorse, Hazel. Se
la profezia è corretta, sarai tu ad aiutare le amazzoni a raggiungere la prosperità. Se riuscirete nella
vostra eroica impresa e libererete Thanatos, per esempio…
— Otrera non tornerà più in vita, una volta uccisa — concluse Hazel. — Dovresti semplicemente
sconfiggerla… ehm, tutte le sere, finché noi non avremo successo.
La regina annuì. — A quanto pare, compiti impossibili attendono entrambe.
— Ma tu hai fiducia in me — disse Hazel. — E io in te. Vincerai, tutte le volte che sarà
necessario.
Hylla tirò fuori la collana di Percy e la allungò a Hazel. — Spero che tu abbia ragione. Ma prima
farete, meglio sarà.
Hazel infilò la collana in tasca. Strinse la mano alla regina, domandandosi se fosse davvero
possibile fare amicizia così in fretta, soprattutto con una persona che per poco non l’aveva spedita in
prigione.
— Questa conversazione non è mai avvenuta — disse Hylla a Kinzie. — Conduci la nostra
prigioniera alle celle e consegnala alle guardie di Otrera. E assicurati di andartene prima che
succeda qualcosa di sgradevole. Non voglio che le mie fedeli seguaci siano ritenute responsabili di
un’evasione. — La regina sorrise con aria scaltra.
Per la prima volta Hazel fu gelosa di Reyna: avrebbe desiderato anche lei una sorella così.
— Addio, Hazel Levesque — concluse Hylla. — Se stanotte moriremo entrambe … be’, sono
felice di averti conosciuta.
HAZEL
Il carcere delle amazzoni si trovava in cima a un corridoio di stoccaggio, a dieci metri da terra.
Kinzie condusse Hazel su per tre rampe di scale e lungo una passerella di metallo, le legò
blandamente le mani dietro la schiena e la spinse facendola passare davanti a varie casse di gioielli.
Una trentina di metri più avanti, sotto la luce fredda dei neon, c’era una serie di gabbie in fil di
ferro appese a dei cavi. Percy e Frank si trovavano in due delle gabbie e parlottavano tra loro. Lì
accanto, sulla passerella, tre guardie dall’aria annoiata fissavano le tavolette nere che avevano in
mano, come se stessero leggendo.
Hazel si disse che le tavolette erano troppo piccole per essere dei libri. Poi le venne in mente che
potevano essere una specie di minuscoli – come li chiamavano gli uomini moderni? – computer
portatili. Tecnologia segreta delle amazzoni, probabilmente. Trovò l’idea inquietante quasi quanto
quella dei carrelli elevatori da guerra al piano inferiore.
— Muoviti, bella — ordinò Kinzie, a voce abbastanza alta da farsi sentire dalle guardie. Con la
spada, pungolò sulla schiena la prigioniera.
Hazel camminava il più lentamente possibile, ma aveva il cervello in fermento. Doveva
escogitare un piano di salvataggio geniale. Kinzie aveva fatto in modo che lei riuscisse a rompere le
catene senza problemi, ma sarebbe stata comunque a mani nude contro tre guerriere bene addestrate,
e doveva agire prima che la infilassero in una gabbia.
Passò davanti a un bancale di casse con la scritta ANELLI DI TOPAZIO BLU A 24 CARATI e poi davanti
a un’altra con la dicitura BRACCIALETTI DELL’AMICIZIA, IN ARGENTO . Un display elettronico accanto ai
braccialetti diceva: CHI HA ACQUISTATO QUESTO ARTICOLO, HA ACQUISTATO ANCHE LAMPADA SOLARE
CON GNOMO DA GIARDINO E LANCIA FIAMMEGGIANTE DELLA MORTE. ACQUISTANDOLE TUTTE E TRE, AVRETE
UNO SCONTO DEL 12% .
Hazel si bloccò. “Dei dell’Olimpo, che stupida!” si disse.
Argento, topazio… Mandò i suoi sensi alla ricerca di metalli preziosi, e per poco non le scoppiò
il cervello per il risultato. Si trovava accanto a una montagna di gioielli alta sei piani. Ma davanti a
lei, da lì fino alle guardie, c’erano solo gabbie.
— Che c’è? — sibilò Kinzie. — Continua a camminare! Si insospettiranno.
— Falle venire qui — borbottò Hazel, girando la testa.
— Perché…?
— Ti prego.
Le guardie aggrottarono la fronte, voltandosi verso di loro.
— Che cosa state a guardare? — urlò Kinzie. — Ecco la terza prigioniera. Venite a prendervela.
— Perché non puoi fare altri trenta passi, Kinzie? — replicò una delle guardie.
— Ehm, perché…
— Bleah! — Hazel si gettò in ginocchio, tentando di simulare il più possibile un’espressione da
mal di mare. — Ho la nausea! Non ce la faccio… a camminare. Le amazzoni… troppa… paura.
— Siamo alle solite — disse Kinzie alle guardie. — Ora, avete intenzione di venire a prendere la
prigioniera o devo dire alla regina Hylla che non compiete il vostro dovere?
La guardia più vicina alzò gli occhi al cielo e si mosse.
Hazel aveva sperato che la seguissero anche le altre due, ma se ne sarebbe preoccupata dopo.
La guardia l’afferrò per un braccio. — Bene. Prenderò io in custodia la prigioniera. Ma, se fossi
in te, Kinzie, non mi preoccuperei di Hylla. Non sarà regina ancora per molto.
— Lo vedremo, Doris. — Kinzie si girò e andò via.
Hazel aspettò finché non sentì l’eco dei suoi passi allontanarsi lungo la passerella.
Doris strattonò la prigioniera. — Allora? Muoviti.
Hazel si concentrò sulla parete di gioielli accanto: quaranta grosse casse di braccialetti d’argento.
— Non… non mi sento molto bene.
— Non provare a vomitarmi addosso — ringhiò Doris.
Tentò di farla alzare a forza, ma Hazel si accasciò come un bambino che fa i capricci in un
negozio. Accanto a lei, le scatole cominciarono a tremare.
— Lulù? — gridò Doris a una delle compagne. — Dammi una mano con questa mocciosa!
“Amazzoni che si chiamano Doris e Lulù?” pensò Hazel. “Oh, be’…”
La seconda guardia si avvicinò lentamente.
Hazel decise che era il momento migliore. Prima che la tirassero in piedi, urlò: — Ooooh! — e si
appiattì lungo il margine della passerella.
Doris cominciò a dire: — Oh, ma fammi il pia…
L’intero bancale di gioielli esplose con un rumore simile a quello di migliaia di slot-machine che
centrano il jackpot. Un’ondata di braccialetti dell’amicizia si riversò sulla passerella, scaraventando
Doris e Lulù proprio oltre il parapetto.
Avrebbero rischiato di ammazzarsi cadendo, ma Hazel non era così cattiva. Chiamò a raccolta
qualche centinaia di braccialetti, che balzarono sulle guardie e andarono a serrarsi intorno alle loro
caviglie, lasciandole appese a testa in giù, a urlare come due bambine.
Hazel si girò verso la terza guardia e spezzò le catene, che erano robuste più o meno quanto la
carta igienica. Poi raccolse una lancia da terra. Era una frana con quel tipo di arma, ma sperava che
l’avversaria non se ne accorgesse. — Devo ucciderti da qui? — ringhiò. — O vuoi che ti raggiunga?
Quella si girò e fuggì via.
Hazel urlò in direzione di Doris e Lulù. — I vostri tesserini di riconoscimento… Passatemeli, a
meno che non vogliate che sciolga i braccialetti dell’amicizia e vi lasci cadere! — Quattro secondi e
mezzo dopo, si ritrovò in mano due tesserini. Si precipitò alle gabbie e ne passò uno. La porta si aprì
di colpo.
Frank la fissò esterrefatto. — Hazel, sei stata… incredibile!
Percy annuì. — Devo ricordarmi di stare alla larga dai gioielli…
— Per questa puoi fare un’eccezione. — Hazel gli gettò la sua collana. — Le nostre armi e le
provviste sono in fondo alla passerella. Dobbiamo sbrigarci. Tra poco…
Gli allarmi scattarono in tutta la caverna.
— Ecco, intendevo proprio questo. Andiamo!
La prima parte della fuga fu semplice. Recuperarono le loro cose senza problemi e cominciarono a
scendere giù dalla scala. Ogni volta che le amazzoni si accalcavano sotto di loro, chiedendo la resa,
Hazel faceva esplodere una cassa di gioielli, seppellendo le avversarie sotto cascate d’oro e
d’argento. Arrivati in fondo alla scala, si trovarono davanti una scena tipo apocalisse da Mardi
Gras: c’erano amazzoni intrappolate fino al collo in collane di perline, altre a testa in giù sotto una
montagna di orecchini di ametista, più un carrello elevatore da guerra sepolto sotto un mucchio di
braccialetti d’argento con i ciondoli.
— Hazel Levesque, sei… sei pazzesca! — esclamò Frank.
Lei avrebbe tanto voluto baciarlo lì su due piedi, ma non avevano tempo. Tornarono di corsa
verso la sala del trono.
Si imbatterono in un’amazzone che doveva essere fedele a Hylla. Non appena vide i fuggiaschi, si
girò come se fossero invisibili.
Percy cominciò a chiedere: — Che cavolo…?
— Alcune di loro vogliono farci evadere — disse Hazel. — Te lo spiego dopo.
La seconda amazzone che incontrarono non fu altrettanto cordiale. Con indosso l’armatura
completa, bloccava l’ingresso alla sala del trono. Brandì la lancia alla velocità della luce, ma
stavolta Percy non si fece trovare impreparato. Sguainò Vortice e si lanciò in battaglia. Quando
l’avversaria tentò di colpirlo, lui si scansò, mozzò l’asta della lancia con la spada e le sbatté l’elsa
sull’elmo.
La guardia si accasciò a terra.
— Marte onnipotente! — esclamò Frank. — Come hai…? Non era certo una tecnica romana!
Percy sorrise. — Il graecus sa il fatto suo, amico mio. Prego, dopo di te.
Si precipitarono nella sala del trono. Come promesso, Hylla e le sue guardie se n’erano andate.
Hazel corse verso la gabbia di Arion e strisciò il tesserino di riconoscimento nella serratura.
Lo stallone uscì subito, impennandosi trionfante.
Percy e Frank si fecero subito indietro.
— Ehm… è mansueto? — chiese Frank.
Il cavallo nitrì, furioso.
— Credo di no — suppose Percy. — Ha appena detto: “Ti calpesterò a morte, sciocco cucciolo
d’uomo cino-canadese.”
— Cucciolo d’uomo? — farfugliò Frank.
— Parli il cavallese? — domandò Hazel.
— Parlare con i cavalli è una caratteristica di Poseidone — spiegò Percy. — Cioè… di Nettuno.
— Allora tu e Arion dovreste andare d’accordo — replicò Hazel. — Anche lui è figlio di
Nettuno.
Percy sbiancò.
Se non fossero stati in una situazione tanto brutta, l’espressione di Percy l’avrebbe fatta ridere. —
In ogni caso, è veloce. Ci può portare fuori di qui.
Frank non sembrò entusiasta. — Non ci stiamo tutti e tre su un cavallo solo, no? Cadremo oppure
lo rallenteremo o…
Arion nitrì di nuovo.
— Ahi! — Percy sorrise. — Frank, il cavallo dice che sei un… no, meglio se non lo traduco.
Comunque, ha detto pure che c’è un carro nel magazzino e che lui lo trainerebbe volentieri.
— Eccoli! — gridò qualcuno dal fondo della sala del trono.
Una decina di amazzoni si lanciarono alla carica, seguite da uomini in tuta arancione. Non appena
videro Arion, indietreggiarono rapidamente e si diressero ai carrelli elevatori da guerra.
— Il carro… Sì, mi ricordo di averlo visto. — Hazel balzò in groppa ad Arion, sorridendo. —
Seguitemi, ragazzi! — Entrò al galoppo nella caverna più grande e disperse una folla di maschi.
Percy mise fuori combattimento un’amazzone. Con la lancia, Frank ne mandò altre due a gambe
all’aria.
Hazel percepiva quanto Arion avesse voglia di correre: voleva andare a tutta velocità, ma gli
serviva più spazio. Dovevano arrivare fuori. Incrociò una pattuglia di amazzoni, che si dispersero
terrorizzate alla vista del cavallo. Una volta tanto, la spatha di Hazel sembrava della lunghezza
giusta. La brandì contro tutte quelle che le capitavano a tiro. Nessuna osò sfidarla.
Percy e Frank correvano dietro di lei. Finalmente raggiunsero il carro. Arion si fermò accanto al
giogo, e Percy si mise al lavoro per sistemare redini e finimenti.
— È una cosa che hai già fatto, vero? — chiese Frank.
Percy non ebbe bisogno di rispondere. Le sue mani si muovevano veloci, e in un batter d’occhio il
carro fu pronto. Poi saltò a bordo, urlando: — Frank, svelto! Hazel, vai!
Un grido di battaglia si levò alle loro spalle. Un intero esercito di amazzoni si precipitò nel
magazzino.
Otrera in persona era a cavalcioni su un carrello elevatore da guerra, con i capelli d’argento che
fluttuavano mentre ruotava la balestra verso il carro. — Fermateli! — gridò.
Hazel spronò Arion. Attraversarono la caverna a tutta velocità, serpeggiando tra bancali e carrelli
elevatori. Furono sfiorati da più di una freccia. Qualcosa esplose alle loro spalle.
— Le scale! — gridò Frank. — Non c’è possibilità che questo cavallo traini il carro su così tante
rampe di… Oh, santi numi!
Per loro fortuna, le scale erano abbastanza ampie, e Arion non dovette nemmeno rallentare. Si
slanciò sugli scalini, con il carro che gli sferragliava dietro.
Hazel si voltò diverse volte per assicurarsi che Frank e Percy non fossero caduti. Poveri ragazzi,
avevano le nocche sbiancate per quanto si aggrappavano forte al carro e battevano i denti come
teschi di Halloween caricati a molla.
Finalmente raggiunsero l’atrio. Arion irruppe nella piazza e disperse un gruppo di signori in
giacca e cravatta.
Hazel percepì la tensione nel costato del cavallo. L’aria fresca gli aveva fatto venire una gran
voglia di correre, ma lei tirò le redini. — Ella? — gridò verso il cielo. — Dove sei? Dobbiamo
andare! — Per un attimo ebbe una paura tremenda che l’arpia fosse troppo lontana per sentirla.
Poteva essersi persa, o essere stata catturata dalle amazzoni.
Alle loro spalle un carrello elevatore da guerra sferragliò lungo le scale e si precipitò rombando
nell’atrio, seguito da uno stuolo di amazzoni.
— Arrendetevi! — urlò Otrera.
Il carrello elevatore sollevò i rebbi affilati.
— Ella! — gridò Hazel, disperata.
Come un lampo di piume rosse, l’arpia atterrò sul carro. — Ella è qui. Amazzoni aguzze. Via
subito.
— Tenetevi stretti! — li avvisò Hazel, poi si sporse in avanti e disse: — Arion, corri.
Il mondo sembrò allungarsi. La luce del sole si piegò intorno a loro. Arion sfrecciò via dalle
amazzoni e si catapultò nel centro di Seattle. Hazel vide una colonna di fumo dove gli zoccoli di
Arion sfioravano terra. Il cavallo si lanciò rombando verso il porto, saltando sopra le auto e
sfrecciando a tutta birra agli incroci.
Hazel urlò con tutto il fiato che aveva in gola, ma era un urlo di gioia. Per la prima volta nella sua
vita – nelle sue due vite – si sentiva assolutamente inarrestabile.
Arion raggiunse il mare e balzò subito giù dal molo.
A Hazel si tapparono le orecchie. Sentì un rombo, e dopo qualche istante capì che si trattava di un
boato sonico.
Arion sfrecciò verso lo stretto di Puget, con l’acqua che si trasformava in vapore sulla sua scia,
mentre lo skyline di Seattle si allontanava alle loro spalle.
FRANK
Quando si staccarono le ruote, Frank tirò un sospiro di sollievo. Aveva già vomitato due volte sul
carro, e non era molto divertente farlo alla velocità del suono. Nella sua folle corsa il cavallo
sembrava piegare il tempo e lo spazio, annebbiando il paesaggio e dando a Frank la sensazione di
avere appena bevuto quattro litri di latte intero senza prendere la medicina per l’intolleranza al
lattosio.
Ella non semplificava certo la situazione. Continuava a borbottare: — Milleduecento chilometri
all’ora. Milletrecento. Milletrecentocinque. Veloce. Molto veloce.
Il cavallo correva verso nord lungo lo stretto di Puget, sfrecciando davanti a isole, barche di
pescatori e piccoli branchi di balene sbigottite. Il paesaggio davanti a loro aveva cominciato a farsi
familiare: Crescent Beach, Boundary Bay… Frank c’era stato in barca a vela, durante una gita
scolastica. Erano arrivati fino in Canada.
Il cavallo era passato come un razzo sulla terraferma. Aveva preso la Highway 99 in direzione
nord, correndo così veloce che le auto al confronto sembravano ferme. Alla fine, mentre stavano per
entrare a Vancouver, le ruote del carro avevano iniziato a fumare.
— Hazel! — aveva gridato Frank. — Andiamo a pezzi!
Hazel aveva capito e tirato le redini. Il cavallo non ne era sembrato felice, ma aveva rallentato a
velocità subsonica mentre sfrecciavano lungo le strade della città. Attraversato l’Ironworkers Bridge
e arrivati nella zona nord di Vancouver, il carro aveva cominciato a sferragliare in modo sinistro.
Alla fine Arion si era fermato in cima a una collina alberata. Aveva sbuffato soddisfatto, come per
dire: “Ecco come corriamo noi, sciocchi.”
Il carro fumante crollò, facendo cadere Percy, Frank ed Ella sulla terra umida e muschiosa. Frank
si rimise in piedi a fatica; sbattendo le palpebre, tentò di scacciare dagli occhi i pallini gialli. Con un
gemito, Percy cominciò a sganciare Arion dal carro ormai distrutto.
Ella svolazzava in cerchi vorticosi, sbattendo contro gli alberi e borbottando: — Albero. Albero.
Albero.
Solo Hazel sembrava uscita indenne dalla cavalcata. Sorridendo contenta, smontò dal cavallo. —
Che divertimento!
— Sì. — Frank soffocò la nausea. — Un gran divertimento.
Arion nitrì.
— Dice che deve mangiare — tradusse Percy. — Non mi meraviglia. Avrà bruciato sei milioni di
calorie.
Hazel osservò il terreno sotto i suoi piedi e corrugò la fronte. — Non sento la presenza di oro qui
vicino… Non preoccuparti, Arion, te ne troverò un po’. Nel frattempo, perché non vai a brucare? Ci
vediamo a…
Il cavallo schizzò via, lasciando una scia di vapore dietro di sé.
Hazel aggrottò la fronte. — Secondo voi, tornerà?
— Non lo so — rispose Percy. — Sembra un po’… spiritato.
Frank sperava quasi che il cavallo se ne stesse alla larga. Non lo disse, ovviamente. Vedeva che
Hazel era angosciata all’idea di perdere il nuovo amico. Ma Arion gli faceva paura, ed era sicuro
che l’animale lo avesse capito.
Hazel e Percy cominciarono a recuperare le provviste dai rottami del carro. C’erano scatole di
vari prodotti di Amazon sul davanti, ed Ella gridò di gioia non appena trovò un carico di libri.
Afferrò una copia di Gli uccelli del Nord America, volò verso il ramo più vicino e cominciò a
sfogliare le pagine, raspando così velocemente che non si capiva se stesse leggendo il libro o
stracciandolo.
Frank si appoggiò a un albero, tentando di controllare le vertigini. Non si era ancora ripreso dalla
prigionia nel regno delle amazzoni: era stato scaraventato con un calcio dall’altra parte dell’atrio,
disarmato, ingabbiato e poi insultato da un cavallo narcisista che gli aveva dato del “cucciolo
d’uomo”. Il che non aveva certo alimentato la sua autostima.
Ma, anche prima che succedesse tutto ciò, la visione che aveva condiviso con Hazel lo aveva
scosso. Si sentiva più vicino a lei adesso. Sapeva di aver fatto la cosa giusta a darle il pezzo di
legno. Si era tolto dalle spalle un peso enorme.
D’altro canto, aveva visto gli Inferi con i suoi occhi. Aveva compreso cosa significava starsene
seduti per l’eternità senza fare niente, salvo rimpiangere i propri errori. Aveva guardato le
raccapriccianti maschere d’oro dei giudici dei morti e aveva capito che prima o poi pure lui si
sarebbe trovato davanti a loro, magari molto presto.
Frank aveva sempre sognato di rivedere sua madre, una volta morto. Ma forse non era possibile
per i semidei. Hazel aveva trascorso una settantina d’anni nelle Praterie degli Asfodeli senza avere
mai rincontrato Marie Levesque. Frank sperava di poter rivedere la propria madre nell’Elisio. Ma se
non c’era riuscita Hazel – che aveva dato la vita per fermare Gea, e si era assunta la responsabilità
delle proprie azioni per evitare alla madre i Campi della Pena – lui che possibilità aveva? Non
aveva mai compiuto un gesto tanto eroico.
Si raddrizzò e si guardò intorno, cercando di orientarsi.
A sud, dietro il porto, lo skyline della città scintillava di rosso alla luce del tramonto. A nord, le
colline e i boschi del Lynn Canyon Park si snodavano nella periferia nord di Vancouver prima di
cedere il passo alle terre selvagge.
Frank aveva passato anni a esplorare quel parco. Individuò un’ansa nel fiume che gli sembrava
familiare. Riconobbe un pino morto squarciato da un fulmine in una radura lì vicino. Conosceva
quella collina. — Sono praticamente a casa — disse. — Mia nonna abita proprio là dietro.
Hazel socchiuse gli occhi. — Quant’è lontano?
— Oltre il fiume, attraverso il bosco.
Hazel intrecciò le mani in un gesto di supplica. — Frank, ti prego, dimmi che ci lascerà passare lì
la notte. So che la scadenza è vicina, ma dobbiamo riposarci. E Arion ci ha fatto risparmiare un po’
di tempo. Magari potremmo mangiare un pasto come si deve, no?
— E farci una doccia calda? — aggiunse Percy. — E dormire in un letto vero, con vere lenzuola e
un vero cuscino?
Frank tentò di prevedere la reazione della nonna se si fosse presentato con due amici armati fino
ai denti e un’arpia. Era cambiato tutto dal giorno del funerale, da quella mattina in cui i lupi lo
avevano portato a sud. Si era arrabbiato tanto quando era dovuto andare via. Non riusciva proprio a
immaginare di poter tornare lì come se niente fosse.
Eppure… erano tutti stanchi morti. Avevano viaggiato per più di due giorni senza mangiare né
dormire in modo decente. La nonna poteva rifocillarli. E forse poteva rispondere a qualche domanda
che covava in un angolino della mente di Frank… un sospetto crescente sul dono di famiglia.
— E va bene — decise infine. — Andiamo a trovare la nonna.
Frank era così distratto che sarebbe finito dritto nell’accampamento di orchi. Per fortuna, Percy lo
tirò indietro.
Si accovacciarono accanto a Hazel ed Ella, dietro un tronco caduto, e scrutarono la radura.
— Male — borbottò Ella. — Fanno male alle arpie.
Era buio ormai. Intorno a un falò c’era una mezza dozzina di umanoidi con i capelli ispidi. In piedi
probabilmente sarebbero stati alti più di un metro e ottanta – minuscoli in confronto al gigante
Polibote o ai ciclopi – il che però non li rendeva meno spaventosi. Indossavano solo dei pantaloncini
da surf. Avevano la pelle bruciata dal sole, ricoperta di tatuaggi di draghi, cuori e donne in bikini.
Appeso a uno spiedo sul fuoco, c’era un animale scuoiato, forse un cinghiale, da cui gli orchi
strappavano con gli artigli pezzi di carne, ridendo e chiacchierando mentre mangiavano sfoderando
zanne aguzze. Accanto agli orchi c’erano diverse borse a rete riempite di sfere di bronzo, tipo palle
di cannone. Le sfere dovevano essere calde, perché emettevano vapore nell’aria fresca della sera.
A duecento metri dalla radura, le luci di casa Zhang scintillavano in mezzo agli alberi. “È
vicinissima” pensò Frank. Si domandò se avrebbero potuto sgattaiolare fin là aggirando i mostri, ma
guardando sia a destra sia a sinistra, vide altri fuochi da campo in entrambe le direzioni, come se gli
orchi avessero circondato la proprietà. Conficcò le dita nella corteccia dell’albero. La nonna poteva
essere da sola in casa, intrappolata là, si disse. — Chi sono questi tizi? — sussurrò.
— Canadesi — rispose Percy.
— Come dici? — replicò Frank, aggrottando la fronte.
— Ehm… senza offesa — proseguì Percy. — È così che li ha chiamati Annabeth quando ci ho
combattuto l’ultima volta. Mi ha spiegato che vivono al nord, in Canada.
— Sì, be’… siamo in Canada, e io sono canadese — bofonchiò Frank. — Ma non avevo mai visto
questi cosi.
Ella si strappò una piuma da un’ala e se la rigirò tra le dita. — Lestrigoni — disse. — Cannibali.
Giganti del Nord. Leggenda dei Sasquatch. Sì, sì. Non sono uccelli. Non sono uccelli del Nord
America.
— Ecco come si chiamano — concordò Percy. — Lestri… ehm, proprio come ha detto Ella.
Frank lanciò un’occhiata torva agli esseri nella radura. — In effetti, potrebbero essere scambiati
per Sasquatch. Forse è da qui che viene la leggenda. Ella, sei proprio brava.
— Ella è brava — concordò l’arpia. E timidamente gli offrì la piuma.
— Oh… grazie. — Frank infilò la piuma in tasca, poi notò che Hazel lo guardava di traverso. —
Che c’è?
— Niente. — Hazel si rivolse a Percy: — Mi pare che ti stia tornando la memoria. Ti ricordi
come li hai sconfitti?
— Un po’ — rispose Percy. — È ancora poco chiaro. Credo che mi abbia aiutato qualcuno. Li
abbiamo uccisi con il bronzo celeste, ma questo è accaduto prima che… lo sai.
— Prima che Thanatos fosse rapito — concluse Hazel. — Per cui adesso forse non morirebbero
neppure.
Percy annuì. — Quelle palle di cannone… Mi sembra che ne abbiamo usata qualcuna contro i
giganti. Prendono fuoco ed esplodono.
Frank infilò una mano nella tasca del giubbotto. Poi ricordò di aver dato il suo pezzo di legno a
Hazel. — Se provochiamo un’esplosione, arriveranno di corsa gli orchi dagli altri campi. Credo che
abbiano circondato la casa, e questo significa che ci potrebbero essere cinquanta o sessanta orchi nei
boschi.
— Allora è una trappola — disse Hazel, preoccupata. — E tua nonna? Dobbiamo aiutarla.
A Frank salì un groppo in gola. Mai e poi mai avrebbe pensato che la nonna avrebbe avuto
bisogno di essere salvata, ma cominciava a vedersi passare davanti agli occhi scene di
combattimento, come ai ludi di guerra, al campo. — Dobbiamo escogitare un diversivo — decise. —
Se riusciamo ad attirare questo gruppo di orchi nel bosco, magari possiamo intrufolarci senza
allertare gli altri.
— Vorrei che Arion fosse qui — disse Hazel. — Convincerei gli orchi a inseguirmi.
Frank si sfilò la lancia dalle spalle. — Ho un’altra idea. — Non avrebbe voluto farlo. L’idea di
evocare il Grigio lo spaventava ancora di più del cavallo di Hazel. Ma non vedeva alternative.
— Frank, non puoi andare là alla carica — obiettò Hazel. — Sarebbe un suicidio!
— Non vado alla carica — replicò lui. — Ho un… amico. Però, per favore, non urlate… okay?
— Conficcò la lancia nel terreno, e la punta si spezzò.
— Ops! — commentò Ella. — Niente più punta della lancia. No, no.
La terrà tremò. La mano scheletrica del Grigio squarciò la superficie.
Percy cercò subito la spada, mentre Hazel faceva un verso stile gatto a cui è andato per traverso
un batuffolo di pelo. Ella scomparve e si materializzò di nuovo in cima all’albero più vicino.
— Non c’è problema — assicurò Frank. — È sotto controllo!
Il Grigio strisciò fuori dalla terra. Non mostrava tracce dei danni riportati nello scontro con i
basilischi. Era come nuovo, con la mimetica, gli scarponi da combattimento e la pelle grigia
traslucida che gli ricopriva le ossa, tipo gelatina fosforescente. Puntò gli occhi spettrali su Frank, in
attesa di ordini.
— Frank, è uno spartus! — esclamò Percy. — Un guerriero-scheletro. Sono malvagi. Sono
assassini. Sono…
— Lo so — replicò Frank, amareggiato. — Ma è un dono di Marte. Adesso è tutto quello che ho.
Okay, Grigio. Ecco gli ordini: attacca quel gruppo di orchi. Portali verso ovest in modo da creare un
diversivo, così noi…
Purtroppo il Grigio perse interesse dopo la parola “orchi”. Forse capiva solo frasi semplici. E
partì alla carica, lanciandosi verso il fuoco da campo degli orchi.
— Aspetta! — urlò Frank, ma ormai era troppo tardi.
Il Grigio si estrasse due costole dalla camicia, corse intorno al falò e colpì gli orchi alle spalle a
una velocità tale da non dar loro neppure il tempo di gridare. Sei lestrigoni caddero come un cerchio
di tessere di domino e si polverizzarono.
Il Grigio poi fece il giro del falò, sferrando calci contro le ceneri per disintegrarle, mentre gli
orchi tentavano di riformarsi. Quando pensò che non sarebbero tornati, si mise sull’attenti, fece un
rapido saluto militare in direzione di Frank e sprofondò fra i detriti della foresta.
Percy fissò Frank. — Come…?
— Niente più lestrigoni. — Ella volò giù e atterrò accanto a loro. — Sei meno sei fa zero. Le
lance funzionano bene per le sottrazioni, sì.
Hazel guardò l’amico come se si fosse trasformato lui stesso in uno scheletro-zombie.
Frank ebbe una stretta al cuore, ma non poteva biasimarla. I figli di Marte erano intrisi di
violenza. Non per niente il simbolo di Marte era una lancia insanguinata. Perché Hazel non avrebbe
dovuto esserne inorridita?
Guardò con occhio torvo la punta spezzata della lancia. Avrebbe voluto avere qualsiasi altro
padre tranne Marte. — Andiamo — disse. — Mia nonna potrebbe essere nei guai.
FRANK
Si fermarono di fronte alla veranda. Come Frank aveva temuto, un ampio anello di fuochi da campo
brillava nei boschi, circondando la tenuta, anche se la casa in sé sembrava intatta.
Le campanelline della nonna tintinnavano nella brezza notturna. La sua poltrona di vimini era
rimasta vuota, rivolta verso la strada. Le luci scintillavano alle finestre del piano inferiore, ma Frank
decise di non suonare il campanello. Non sapeva se era troppo tardi, se la nonna dormiva già e
neppure se era in casa. Controllò invece la statua dell’elefante nell’angolo, un minuscolo duplicato di
quella di Portland: la chiave di scorta era infilata ancora sotto una zampa. Esitò davanti alla porta.
— Che c’è? — domandò Percy.
Frank ripensò alla mattina in cui aveva aperto quella stessa porta all’ufficiale militare che gli
aveva detto di sua madre. Ripensò a quando aveva sceso quegli scalini per andare al funerale,
infilando per la prima volta il pezzo di legno nel giubbotto. Ripensò a quando era rimasto lì a
guardare i lupi che uscivano dai boschi, gli sgherri di Lupa, che lo avrebbero condotto al Campo
Giove. Sembrava tanto tempo prima, invece era passato solo un mese e mezzo.
Era di nuovo lì. La nonna lo avrebbe abbracciato? Gli avrebbe detto: “Frank, ringraziando gli dei
sei qui! Sono circondata da mostri!” Era più probabile che lo rimproverasse oppure che li
scambiasse per intrusi e li scacciasse a padellate.
— Frank? — chiese Hazel.
— Ella è nervosa — borbottò l’arpia, stando appollaiata sulla ringhiera. — L’elefante…
l’elefante guarda Ella.
— Andrà tutto bene. — A Frank tremava così tanto la mano che riuscì a malapena a infilare la
chiave nella toppa. — Rimaniamo uniti.
Dentro, la casa sapeva di chiuso e di muffa. Di solito l’aria era profumata di incenso al
gelsomino, ma ora tutti i diffusori erano vuoti.
I ragazzi controllarono il salotto, la sala da pranzo, la cucina. Il lavello era stracolmo di piatti
sporchi: strano. La cameriera della nonna veniva tutti i giorni… A meno che i mostri non l’avessero
fatta scappare per lo spavento, si disse Frank, o non l’avessero mangiata a pranzo. Ella aveva detto
che i lestrigoni erano cannibali.
Ma scacciò quel pensiero. I mostri ignorano i comuni mortali. Di solito, almeno.
Nella stanza di ricevimento, statue di Budda e taoisti immortali sorridevano ai ragazzi come
clown psicopatici. Frank ripensò a Iride, la dea dell’arcobaleno, che si era dilettata di buddismo e
taoismo. Immaginò che una sola visita in quella vecchia casa raccapricciante le avrebbe fatto passare
la voglia.
I grandi vasi in porcellana erano pieni di ragnatele. Anche questo era strano. La nonna insisteva
sempre affinché la collezione di porcellane fosse spolverata regolarmente. Guardando i vasi, Frank
si sentì in colpa per averne distrutti così tanti il giorno del funerale. Ormai gli sembrava una cosa
stupida essersi arrabbiato con la nonna quando c’erano tanti altri con cui avrebbe dovuto
prendersela: Giunone, Gea, i giganti, Marte… soprattutto Marte, suo padre.
Il caminetto era buio e freddo.
Hazel si portò le braccia al petto, come per impedire che il pezzo di legno saltasse nel camino. —
È questo…?
— Sì — disse Frank. — È questo.
— Cosa? — domandò Percy.
L’espressione comprensiva di Hazel fece sentire Frank ancora peggio. Ripensò a com’era
terrorizzata e disgustata quando lui aveva evocato il Grigio. — Il camino — disse a Percy. Risposta
tremendamente ovvia. — Muoviamoci. Controlliamo il piano di sopra.
Gli scalini cigolarono sotto i loro piedi. La vecchia stanza di Frank era rimasta uguale. Nessuna
delle sue cose era stata toccata: l’arco e la faretra di scorta (avrebbe dovuto prenderli dopo), i premi
di ortografia che aveva vinto a scuola (sì, probabilmente era l’unico semidio al mondo non dislessico
e campione di ortografia, come se non fosse già abbastanza strano di suo). E poi le foto della madre:
con il giubbotto antiproiettile e l’elmetto, seduta su una Jeep nella provincia di Kandahar; con la
divisa da coach, la stagione in cui aveva allenato la squadra di calcio di Frank; con l’alta uniforme,
le mani appoggiate sulle spalle di Frank, la volta in cui era andata a scuola insieme a lui per il career
day.
— Tua madre? — chiese Hazel, con gentilezza. — È molto bella.
Frank non riuscì a rispondere. Si sentiva un po’ in imbarazzo: un ragazzo di sedici anni con un
mucchio di foto della madre. Quanto era patetico? Ma soprattutto si sentiva triste. Era passato un
mese e mezzo dall’ultima volta che era stato lì. Per certi versi sembrava un’eternità. Tuttavia, quando
guardò il viso sorridente della madre nelle fotografie, il dolore per averla persa era forte come il
primo giorno.
Controllarono le altre stanze. Le due nel mezzo erano vuote. Una luce fioca baluginava da sotto
l’ultima porta: la camera della nonna.
Frank bussò piano. Nessuna risposta. Aprì. La nonna era distesa a letto, con l’aria smunta e
fragile, i capelli bianchi sparsi intorno al viso come una corona di basilisco. Sul comodino c’era una
candela accesa. Al capezzale della nonna era seduto un omone con indosso la tenuta da lavoro
dell’esercito canadese; nonostante il buio, portava occhiali da sole scuri con una luce rosso sangue
che scintillava dietro le lenti.
— Marte… — disse Frank.
Il dio sollevò lo sguardo, impassibile. — Ehi, ragazzo. Entra. Di’ ai tuoi amici di levarsi di torno.
— Frank? — sussurrò Hazel. — Che c’è? Tua nonna… sta bene?
Frank lanciò un’occhiata agli amici. — Non lo vedete?
— Chi? — Percy impugnò la spada. — Dove?
Il dio della guerra ridacchiò. — No, non possono vedermi. Ho pensato che fosse meglio così
stavolta. Solo una conversazione privata… tra padre e figlio, giusto?
Frank strinse i pugni. Contò fino a dieci prima di aprire bocca. — Ragazzi, non… non è niente.
Sentite, perché non prendete le camere nel mezzo?
— Tetto — disse Ella. — I tetti vanno bene per le arpie.
— Certo — commentò Frank, stordito. — Forse c’è qualcosa da mangiare in cucina. Mi dareste
qualche minuto da solo con mia nonna? Credo che lei… — La voce gli si spezzò. Non sapeva se
piangere, urlare o tirare un pugno a Marte sugli occhiali… forse tutt’e tre le cose.
Hazel gli appoggiò una mano su un braccio. — Certo, Frank. Andiamo, Ella, Percy…
Frank rimase ad aspettare finché non sentì allontanarsi i passi dei suoi amici. Poi entrò nella
camera e chiuse la porta. — Sei davvero tu? — chiese a Marte. — Non è un trucco, un’illusione?
Il dio scosse la testa. — Preferiresti che non fossi io?
— Sì — ammise Frank.
Marte scrollò le spalle. — Non ti biasimo. Nessuno vede con favore la guerra… se è una persona
intelligente. Ma la guerra riesce a scovare tutti, prima o poi. È inevitabile.
— Che stupidaggine! — ribatté Frank. — La guerra non è inevitabile. Le persone muoiono a causa
sua. E…
— … ti ha portato via tua madre — concluse Marte.
Frank avrebbe voluto tirargli un ceffone per togliergli dalla faccia quell’aria pacata, ma forse era
proprio l’aura del padre a farlo diventare aggressivo. Guardò la nonna, che dormiva in pace.
Avrebbe voluto che si svegliasse. Se c’era qualcuno in grado di tenere testa al dio della guerra,
quella era la nonna.
— È pronta a morire — riprese Marte. — È pronta da settimane, ma ha tenuto duro per te.
— Per me? — Frank era così turbato che quasi dimenticò di essere arrabbiato. — Perché? Come
faceva a sapere che sarei tornato? Non lo sapevo neanch’io!
— Ma i lestrigoni là fuori lo sapevano — ribatté Marte. — Suppongo che gliel’abbia detto una
certa dea.
Frank sbatté le palpebre. — Giunone?
Il dio della guerra rise così forte da far sbatacchiare la finestra, ma la nonna non si mosse di un
millimetro. — Giunone? Questa è bella, ragazzo. Giunone no di certo! Tu sei la sua arma segreta.
Non ti tradirebbe. No, intendevo Gea. Ovviamente lei non ti perde di vista. Credo che tu la preoccupi
più di Percy, di Jason o di qualunque altro dei sette.
Frank ebbe la sensazione che la stanza si stesse inclinando. Avrebbe voluto che ci fosse un’altra
sedia per mettersi a sedere. — I sette… intendi l’antica profezia, le Porte della Morte? Io sono uno
dei sette? E Jason e…?
— Sì, sì. — Marte agitò una mano, spazientito. — Forza, ragazzo. Dovresti essere un bravo
stratega. Pensaci bene! Ovviamente anche i tuoi amici vengono preparati per questa impresa, sempre
che torniate vivi dall’Alaska. Giunone mira a riunire Greci e Romani per mandarli insieme a
combattere contro i giganti. Crede che sia l’unico modo per fermare Gea. — Marte scrollò le spalle,
evidentemente poco convinto del piano. — Comunque, Gea non vuole che tu sia uno dei sette. Percy
Jackson… crede di poterlo controllare. Tutti gli altri hanno debolezze che lei è in grado di sfruttare.
Ma tu… tu la preoccupi. Ti ucciderebbe subito. È per questo che ha evocato i lestrigoni. Sono qui da
giorni, in attesa.
Frank scosse la testa. Marte gli stava giocando un brutto tiro? Non riusciva a credere che una dea
si preoccupasse di lui, soprattutto quando c’era qualcuno come Percy Jackson di cui preoccuparsi. —
Nessuna debolezza? — disse. — Non ho nient’altro che debolezze. La mia vita dipende da un pezzo
di legno!
Marte fece un gran sorriso. — Ti sottovaluti. In ogni caso, Gea ha convinto i lestrigoni che
saranno loro a ereditare il dono di famiglia, se mangiano l’ultimo degli Zhang, che saresti tu. Se sia
vero o no, non ne ho idea. Ma i lestrigoni non vedono l’ora di provare.
A Frank si chiuse lo stomaco. Il Grigio aveva ucciso sei orchi ma, a giudicare dai falò intorno alla
tenuta, ce n’erano ancora decine, in attesa di papparsi tutti loro a colazione. — Sto per vomitare…
— No. — Marte schioccò le dita, e a Frank scomparve la nausea. — Panico da battaglia. Capita a
tutti.
— Ma la nonna…
— Sì, ti ha aspettato per parlarti. Gli orchi l’hanno lasciata in pace, per ora. Lei è l’esca, capisci?
Adesso che tu sei qui, immagino che abbiano già annusato la tua presenza. Attaccheranno domani
mattina.
— Tiraci fuori da questo posto, allora! — replicò Frank. — Schiocca le dita e fai saltare in aria i
cannibali.
— Ah! Sarebbe divertente. Ma non combatto le battaglie dei miei figli al posto loro. Le Parche
hanno idee chiare sui compiti che spettano agli dei e su quelli che spettano ai mortali. È la tua
impresa eroica, ragazzo. E, nel caso non l’avessi ancora capito, non potrai utilizzare la lancia per
ventiquattr’ore, per cui spero che tu abbia imparato a usare il dono di famiglia. Altrimenti i cannibali
ti mangeranno a colazione.
Il dono di famiglia.
Frank avrebbe voluto parlarne con la nonna, ma ormai non aveva nessun altro a cui rivolgersi
tranne Marte. Guardò il dio della guerra, che sorrideva senza la minima partecipazione. —
Periclimeno. — Frank scandì la parola con cura, come se partecipasse a una gara di ortografia. —
Era un mio antenato, un principe greco, un argonauta. È morto combattendo contro Ercole.
Marte fece un gesto con la mano come per dire: “Va’ avanti.”
— Aveva un dono che lo aiutava in battaglia — continuò Frank. — Una sorta di dono degli dei.
Mia madre diceva che combatteva come uno sciame di api.
Marte rise. — Verissimo. Che altro?
— Per qualche motivo, la famiglia si trasferì in Cina. Credo che, all’epoca dell’impero romano,
uno dei discendenti di Periclimeno facesse parte di una legione. Mamma parlava di un tizio di nome
Seneca Gracchus, che aveva anche un nome cinese, Sung Guo. Credo… be’, questa è la parte che non
conosco, ma Reyna diceva sempre che c’erano tante legioni perdute. La Dodicesima trovò Campo
Giove. Forse ce n’era un’altra scomparsa in Oriente.
Marte batté le mani, senza fare rumore. — Non male, ragazzo. Hai mai sentito parlare della
battaglia di Carre? Un’immane catastrofe per i Romani. Combatterono contro i Parti, sul confine
orientale dell’impero. Morirono quindicimila Romani. Altri diecimila furono fatti prigionieri.
— E uno dei prigionieri era il mio antenato, Seneca Gracchus?
— Proprio così. I Parti si servirono dei legionari prigionieri, perché erano piuttosto bravi a
combattere. Ma poi la Partia fu invasa di nuovo, sull’altra frontiera…
— Dai cinesi — suppose Frank. — E i prigionieri romani furono catturati un’altra volta.
— Sì. Un po’ imbarazzante, vero? In ogni caso, fu così che una legione romana arrivò in Cina. Nel
corso del tempo, i Romani si insediarono là e costruirono una nuova città chiamata…
— Li-Jian — disse Frank. — Mia madre diceva che era la patria dei nostri antenati. Li-Jian.
Legione.
Marte sembrò soddisfatto. — Ci stai arrivando. E il vecchio Seneca Gracchus… era lui che aveva
il dono di famiglia.
— La mamma diceva che combatteva contro i draghi. Diceva che era… che era il drago più
potente di tutti.
— Era bravo — ammise Marte. — Non abbastanza da evitare la disfatta della legione, ma era
bravo. Si stabilì in Cina, passò il dono ai figli, e così via. Alla fine la tua famiglia emigrò nel Nord
America e si impelagò con il Campo Giove.
— Chiudendo il cerchio — concluse Frank. — Giunone ha detto che io avrei chiuso il cerchio
della mia famiglia.
— Staremo a vedere. — Marte guardò la nonna e annuì. — Avrebbe voluto dirti tutto lei, ma ho
pensato di affrontare io una parte della questione, visto che alla poveretta non è rimasta molta forza.
Allora, hai capito qual è il tuo dono?
Frank esitò. Aveva un’idea, ma gli sembrava folle, ancora più folle di una famiglia che dalla
Grecia si trasferiva prima a Roma, poi in Cina e infine in Canada. Non voleva dirlo ad alta voce.
Non voleva sbagliare e farsi ridere dietro da Marte. — Credo… credo di sì. Ma contro un esercito di
orchi come quelli…
— Sì, sarà dura. — Marte si alzò e si stiracchiò. — Quando tua nonna si sveglierà, domattina, ti
darà un aiuto. Poi immagino che morirà.
— Che cosa? Ma io devo salvarla! Non può abbandonarmi così.
— Ha vissuto una vita piena — replicò Marte. — È pronta per andare oltre. Non essere egoista.
— Egoista?
— La vecchia è rimasta così a lungo solo per senso del dovere. Anche tua madre era così. È per
questo che l’amavo. Metteva il proprio dovere al primo posto, sempre. Anche prima della propria
vita.
— E prima del proprio unico figlio.
Marte si tolse gli occhiali da sole. Al posto delle orbite aveva sfere di fuoco in miniatura che
ribollivano come esplosioni nucleari. — L’autocommiserazione non serve, ragazzo. Non è da te.
Anche a prescindere dal dono di famiglia, tua madre ti ha trasmesso i suoi pregi maggiori: il
coraggio, la lealtà, l’intelligenza. Adesso devi decidere come usarli. Domattina ascolta tua nonna.
Segui il suo consiglio. Puoi ancora liberare Thanatos e salvare il campo.
— E lasciare la nonna qui a morire.
— La vita è preziosa solo perché ha una fine, ragazzo. Lasciatelo dire da un dio. Voi mortali non
sapete quanto siete fortunati.
— Sì — bofonchiò Frank. — Davvero fortunati.
Marte non poté trattenere una risata, metallica, dura. — Tua madre mi diceva sempre questo
proverbio cinese: «Mangia amaro…»
— Mangia amaro e assaporerai il dolce. — Frank annuì. — Odio questo proverbio.
— Ma è vero. Come dicono oggi? Senza fatica non si ottiene nulla. Stesso identico concetto. Se
scegli di fare le cose più semplici, pacifiche, tranquille, spesso alla fine va tutto a rotoli. Ma se
imbocchi la strada difficile… ah, è così che poi ottieni dolci ricompense. Dovere. Sacrificio. Sono
parole importanti.
Frank era talmente disgustato da non riuscire a parlare. Era davvero quello suo padre?
Certo, capiva che sua madre era stata un’eroina, aveva salvato tante vite ed era stata molto
coraggiosa. Ma lo aveva lasciato solo. Non era giusto.
— Prima di andarmene, un’ultima cosa — disse Marte. — Hai detto di essere debole. Non è vero.
Vuoi sapere perché Giunone ti ha risparmiato, Frank? Perché quel pezzo di legno non è ancora
bruciato? Perché hai un ruolo da svolgere. Tu credi di non essere bravo come gli altri. Credi che
Percy Jackson sia migliore di te.
— È vero — bofonchiò Frank. — Ha combattuto contro di te e ha vinto.
Marte scrollò le spalle. — Forse è così. Ma ogni eroe ha un difetto che gli è fatale. Quello di
Percy Jackson? È troppo fedele ai suoi amici. Non riesce ad abbandonarli, per nessun motivo. Gli è
stato detto, anni fa. E un giorno, tra poco, dovrà affrontare un sacrificio che non riuscirà a compiere.
Senza di te, Frank, senza il tuo senso del dovere, Percy Jackson fallirà. La guerra andrà male, e Gea
distruggerà il nostro mondo.
Frank scosse la testa. Non voleva sentirselo dire.
— La guerra è un dovere — riprese Marte. — L’unica scelta reale è se lo accetti, e per cosa
combatti. Il retaggio di Roma è in serio pericolo. Tremila anni di civiltà e leggi, gli dei, le tradizioni,
la cultura che hanno forgiato il mondo in cui vivi… andrà tutto in rovina, Frank, a meno che tu non
vinca. Credo che sia una cosa per cui vale la pena lottare. Pensaci.
— Qual è il mio? — chiese Frank.
Marte inarcò un sopracciglio. — Il tuo cosa?
— Difetto fatale. Hai detto che tutti gli eroi ne hanno uno.
Il dio sorrise. — Devi trovare la risposta da solo, ma finalmente stai facendo le domande giuste.
Adesso, dormi un po’. Devi riposare. — Marte agitò una mano.
Frank si sentì gli occhi pesanti. Crollò, e il mondo divenne scuro.
— Frank — disse una voce familiare, in tono duro e impaziente.
Il ragazzo sbatté le palpebre. La luce del sole inondava la stanza.
— Frank, alzati. Anche se mi piacerebbe tanto darti un ceffone sulla ridicola faccia che ti ritrovi,
non sono nelle condizioni di venire fin lì.
— Nonna? — Frank la mise a fuoco e vide che lo guardava dal letto. Lui era sdraiato
scompostamente per terra. Qualcuno gli aveva messo una coperta addosso durante la notte e un
cuscino sotto la testa, ma non aveva idea di cosa fosse accaduto.
— Sì, mio piccolo bue sciocco. — La nonna era ancora debole e spaventosamente pallida, ma la
sua voce d’acciaio era quella di sempre. — Adesso, alzati. Gli orchi hanno circondato la casa.
Dobbiamo parlare di tante cose, se tu e i tuoi amici volete uscire vivi di qui.
FRANK
Un’occhiata fuori dalla finestra, e Frank capì di essere nei guai.
Ai bordi del prato, i lestrigoni stavano accatastando palle di cannone. La loro pelle scintillava di
rosso. I capelli ispidi, i tatuaggi e gli artigli non erano affatto migliorati alla luce del mattino.
Alcuni reggevano clave o lance. Qualche orco confuso portava tavole da surf, come se si fosse
presentato alla festa sbagliata. Erano tutti di ottimo umore: si scambiavano il cinque, si legavano
bavagli di plastica al collo, preparavano forchette e coltelli. Un orco aveva acceso un barbecue
portatile e ballava con un grembiule con la scritta BACIA IL CUOCO.
La scena sarebbe stata quasi divertente, peccato che Frank sapesse di essere lui il piatto forte.
— Ho spedito i tuoi amici in soffitta — disse la nonna. — Puoi raggiungerli quando avremo finito.
— In soffitta? — Frank si girò. — Mi hai sempre detto che non potevo entrarci.
— Perché ci teniamo le armi, sciocco. Credi sia la prima volta che i mostri attaccano la nostra
famiglia?
— Armi — bofonchiò Frank. — Giusto. Non ho mai toccato un’arma prima d’ora.
La nonna allargò le narici. — Sarebbe sarcasmo questo, Frank Zhang?
— Sì, nonna.
— Bene. Può esserci ancora speranza per te. Adesso, siediti. Devi mangiare. — L’anziana donna
agitò una mano verso il comodino, dove qualcuno aveva lasciato un bicchiere di succo d’arancia e un
piatto di uova in camicia e pancetta con dei toast: la colazione preferita di Frank.
Nonostante tutti i suoi guai, Frank all’improvviso sentì di avere fame. Guardò la nonna,
sbalordito. — Hai…?
— Preparato la tua colazione? Per la scimmia di Budda, certo che no! E non è stata neppure la
servitù. È troppo pericoloso qui, per loro. No, te l’ha preparata Hazel, la tua ragazza. E stanotte ti ha
portato una coperta e un cuscino. E ha preso dei vestiti puliti in camera tua. A proposito, dovresti
fare una doccia. Puzzi di crine bruciato di cavallo.
Frank aprì e richiuse la bocca, come un pesce. Non riusciva a tirare fuori la voce. Hazel aveva
fatto tutto questo per lui? Era convintissimo di aver bruciato ogni possibilità di successo con lei, la
sera prima, quando aveva evocato il Grigio. — Hazel… ehm… non è…?
— Non è la tua ragazza? — intuì la nonna. — Be’, dovrebbe esserlo, sciocco. Non lasciartela
scappare. Hai bisogno di avere accanto donne forti, nel caso non te ne fossi accorto. E adesso
passiamo agli affari. — Mentre Frank mangiava, lei gli fece una sorta di briefing militare. Alla luce
del sole, aveva la pelle così diafana che le vene sembravano luminose. Respirando faceva un rumore
tipo il crepitio di un sacchetto di plastica che si gonfi e si sgonfi a ripetizione, ma parlava in tono
deciso e chiaro. Raccontò che gli orchi circondavano la casa da tre giorni, in attesa che Frank si
facesse vivo. — Vogliono cucinarti e mangiarti — disse disgustata. — Il che è ridicolo. Avresti un
sapore orribile.
— Grazie, nonna.
Lei annuì. — Lo ammetto, mi ha fatto piuttosto piacere quando hanno detto che saresti tornato.
Sono contenta di vederti un’ultima volta, anche se hai i vestiti sporchi e i capelli troppo lunghi. È
così che rappresenti la tua famiglia?
— Sono stato un po’ impegnato, nonna.
— Non ci sono scuse per la sciatteria. Comunque, i tuoi amici hanno dormito e mangiato; ora
stanno facendo il punto sulle armi che ci sono in soffitta. Gli ho detto che li avresti raggiunti entro
breve, ma ci sono troppi orchi da respingere. Dobbiamo parlare del vostro piano di fuga. Guarda nel
mio comodino.
Frank aprì il cassetto e tirò fuori una busta sigillata.
— Ti ricordi il campo di aviazione in fondo al parco? — domandò la nonna. — Riusciresti a
ritrovarlo?
Frank annuì. Il campo si trovava a circa cinque chilometri a nord, lungo la strada principale che
attraversava il canyon. A volte la nonna ce lo aveva portato, quando doveva noleggiare un aereo per
fare arrivare carichi speciali dalla Cina.
— C’è un pilota là pronto a partire senza preavviso — continuò la donna. — È un vecchio amico
di famiglia. In quella busta c’è una lettera per lui, in cui gli chiedo di portarvi al Nord.
— Ma…
— Non discutere, ragazzo! Marte è stato qui negli ultimi giorni, a farmi compagnia. Mi ha parlato
della vostra missione: trovare Thanatos in Alaska e liberarlo. Fa’ il tuo dovere.
— Ma tu morirai, se ci riuscirò. Non ti rivedrò mai più.
— È vero, ma io morirei comunque. Sono vecchia. Credevo di averlo già chiarito. Ora, il tuo
pretore ti ha dato delle lettere di presentazione?
— Ehm… sì, ma…
— Bene. Mostra anche queste al pilota. È un veterano della legione. Nel caso abbia qualche
dubbio o gli manchi il coraggio, con queste credenziali è moralmente obbligato ad aiutarti in ogni
modo possibile. L’unica cosa che dovete fare è raggiungere il campo di aviazione.
La casa rimbombò. Fuori, una palla di fuoco esplose a mezz’aria, illuminando tutta la stanza.
— Gli orchi si stanno innervosendo. Dobbiamo sbrigarci — disse la nonna. — A proposito dei
tuoi poteri, spero che tu li abbi scoperti.
— Ehm…
La nonna borbottò una raffica di imprecazioni in mandarino. — Santi numi tutelari, ragazzo! Non
hai imparato nulla?
— Sì! — Balbettando, Frank tirò fuori i particolari della chiacchierata della sera prima con
Marte, ma davanti alla nonna gli si impastava la lingua. — Il dono di Periclimeno… Credo che fosse
figlio di Poseidone, insomma di Nettuno, insomma… — Frank allargò le mani. — Del dio del mare.
La nonna annuì. — Era il nipote di Poseidone, ma va bene lo stesso. Come ha fatto la tua mente
brillante ad arrivarci?
— Un veggente a Portland… ha detto qualcosa sul mio bisnonno, Shen Lun. Ha detto che gli era
stata attribuita la colpa del terremoto che ha distrutto San Francisco nel 1906 e la vecchia sede del
Campo Giove.
— Va’ avanti.
— Al campo, dicevano che era stato un discendente di Nettuno a provocare la catastrofe. Nettuno
è il dio dei terremoti. Ma… non credo che il mio bisnonno l’abbia fatto sul serio. Provocare
terremoti non è il nostro dono.
— No — concordò la nonna. — Ma è vero, la colpa fu data a lui. Era malvisto, in quanto
discendente di Nettuno. Era malvisto perché il suo vero dono era ben più strano dell’abilità di
scatenare terremoti. Ed era malvisto perché era cinese. Prima di lui, mai nessun ragazzo cinese aveva
rivendicato ascendenze romane. Una verità scomoda… ma non si può negarla. Fu accusato
ingiustamente e costretto ad andarsene per la vergogna.
— Allora… se non aveva fatto niente di male, perché mi hai detto di scusarmi per lui?
Alla nonna avvamparono le guance. — Perché è meglio scusarsi per qualcosa che non si è fatto,
piuttosto che morire! Non sapevo se al campo ti avrebbero ritenuto colpevole. Non sapevo se il
pregiudizio dei Romani si fosse attenuato.
Frank trangugiò la colazione. A volte lo avevano preso in giro, a scuola e per strada, ma non
molto, e mai al Campo Giove. Nessuno al Campo, neanche una volta, lo aveva deriso perché era
asiatico. Non gliene importava niente a nessuno. Lo prendevano in giro soltanto perché era goffo e
lento. Non riusciva neanche a immaginare quanto dovesse essere stato difficile per il bisnonno essere
accusato di aver distrutto l’intero campo ed essere espulso dalla legione per qualcosa che non aveva
commesso.
— E il nostro vero dono? — domandò la nonna. — Hai almeno capito qual è?
A Frank passarono per la testa le vecchie storie che la madre gli raccontava. «Combatteva come
uno sciame di api. Era il drago più potente di tutti.» Si ricordò di quando la madre era apparsa
accanto a lui in giardino come se fosse volata giù dalla soffitta. Si ricordò di lei mentre usciva dai
boschi, dicendo che aveva dato indicazioni a una mamma di orso grigio.
— «Puoi essere ciò che vuoi» — disse Frank. — È la frase che mi diceva sempre la mamma.
La nonna sbuffò. — Finalmente si accende una lucina nella tua povera zucca. Sì, Fai Zhang. Tua
madre non stava cercando solo di incoraggiarti. Ti stava dicendo la pura e semplice verità.
Letteralmente.
— Ma… — Un’altra esplosione scosse la casa. L’intonaco cominciò a cadere dal soffitto come
neve. Frank era così frastornato che quasi non se ne accorse. — Qualsiasi cosa?
— Entro limiti ragionevoli — precisò la nonna. — Esseri viventi. Conoscere bene la creatura
aiuta. Aiuta anche trovarsi in una situazione di vita o di morte, come in combattimento. Perché sei
così sorpreso? Hai sempre detto di non sentirti a tuo agio nel tuo corpo. Tutti noi proviamo la stessa
cosa, tutti quelli che hanno il sangue di Pylos. Questo dono è stato elargito solo una volta a una
famiglia mortale. Siamo unici tra i semidei. Poseidone si doveva sentire particolarmente generoso
quando ha benedetto il nostro antenato, o particolarmente dispettoso. Questo dono si è spesso
rivelato una maledizione. Non ha salvato tua madre…
Fuori, si levò un’acclamazione tra gli orchi. Qualcuno urlava: — Zhang! Zhang!
— Devi andare, sciocco — disse la nonna. — Il tempo a nostra disposizione è terminato.
— Ma… non so come utilizzare il mio potere. Non ho mai… non posso…
— Invece puoi. O non sopravvivrai per compiere il tuo destino — ribatté la nonna. — Non mi
piace questa Profezia dei Sette di cui Marte mi ha parlato. Sette è un numero sfortunato in Cina… un
numero fantasma. Ma non possiamo farci niente. Adesso, vai! Domani sera è la Festa della Fortuna.
Non hai tempo da perdere. Non preoccuparti per me. Morirò alla mia ora, a modo mio. Non ho
nessuna intenzione di farmi divorare da quei ridicoli orchi. Vai!
Arrivato alla porta, Frank si girò. Gli sembrò che il cuore gli venisse compresso in uno
spremiagrumi, ma si inchinò in modo formale. — Grazie, nonna. Ti renderò fiera di me.
Lei borbottò qualcosa sottovoce.
Frank ebbe quasi la sensazione che avesse detto: “L’hai già fatto.” La fissò, attonito, ma
l’espressione della nonna si inasprì subito.
— Smettila di guardarmi a bocca spalancata, ragazzo. Vai a farti una doccia e a vestirti! E
pettinati! È l’ultima immagine che ho di te, e ti mostri tutto arruffato?
Frank si lisciò i capelli con una mano e si inchinò di nuovo.
Lei guardò fuori dalla finestra, come se stesse pensando alla tremenda sgridata che avrebbe fatto
agli orchi non appena le avessero invaso la casa.
Fu l’ultima immagine che Frank ebbe della nonna.
FRANK
Frank fece una doccia rapidissima, si infilò i vestiti che Hazel gli aveva preparato – una camicia
verde oliva e un paio di pantaloni beige, sul serio? – afferrò l’arco e la faretra di scorta e salì le
scale.
La soffitta era piena di armamenti. La sua famiglia aveva raccolto una tale quantità di armi antiche
da rifornire un esercito. Scudi, lance, faretre erano appese lungo una parete, quasi tante quante
nell’armeria del Campo Giove. Alla finestra in fondo c’era una balista montata, carica e pronta per
l’uso. Alla finestra sul davanti c’era un oggetto che assomigliava a una mitragliatrice con una serie di
canne.
— Lanciarazzi? — si domandò Frank ad alta voce.
— No, no — disse una voce in un angolo. — Patate. A Ella non piacciono le patate.
L’arpia si era costruita un nido tra due vecchi bauli. Era seduta su una pila di pergamene cinesi e
ne leggeva sette o otto per volta.
— Ella, dove sono gli altri?
— Tetto. — L’arpia lanciò un’occhiata verso l’alto e si rimise a leggere, tirandosi le piume e
sfogliando le pagine alternativamente. — Tetto. Osservazione degli orchi. A Ella non piacciono gli
orchi. Patate.
— Patate? — Frank non capì finché non girò la mitragliatrice. Le sue otto canne erano caricate a
patate. Alla base della mitragliatrice c’era un cesto pieno di munizioni commestibili.
Guardò fuori dalla finestra, la stessa finestra da cui lo aveva guardato sua madre il giorno in cui
lui aveva incontrato l’orso. Giù in giardino gli orchi giravano in tondo, spingendosi l’un l’altro,
gridando di tanto in tanto in direzione della casa e lanciando palle di cannone che esplodevano a
mezz’aria.
— Loro hanno le palle di cannone. E noi una mitragliatrice a patate.
— Amido — mormorò Ella, pensierosa. — L’amido fa male agli orchi.
La casa fu scossa da un’altra esplosione.
Frank doveva raggiungere il tetto per vedere come se la cavavano Percy e Hazel, ma gli
dispiaceva lasciare da sola l’arpia. Si inginocchiò accanto a lei, stando attento a non avvicinarsi
troppo. — Ella, è pericoloso qui con gli orchi. Voleremo in Alaska, tra poco. Vuoi venire con noi?
Ella si contrasse, tutta agitata. — Alaska. Un milione settecentodiciassettemila
ottocentocinquantaquattro chilometri quadrati. Mammifero più diffuso: alce. — All’improvviso
passò al latino, che Frank capiva a malapena grazie ai corsi seguiti al Campo Giove: Al di là degli
dei, a settentrione, sta la corona della legione. Cadendo dal ghiaccio, il figlio di Nettuno
affogherà… — L’arpia si fermò e si grattò le piume rosse arruffate. — Mmm… bruciato. Il resto è
bruciato.
Frank respirava a fatica. — Ella, era… era una profezia? Dove l’hai letta?
— Alce — disse Ella, quasi assaporando la parola. — Alce. Alce. Alce.
La casa tremò di nuovo. Dal soffitto piovvero un po’ di calcinacci.
Fuori, un orco mugghiò: — Frank Zhang, fatti vedere!
— No — disse Ella. — Frank non deve. No.
— Tu… tu rimani qui, okay? Devo andare ad aiutare Hazel e Percy. — Frank tirò giù la scala che
portava sul tetto.
— Ciao — disse Percy, cupo. — Bella giornata, eh? — Indossava gli stessi vestiti del giorno prima
– jeans, maglietta viola e giubbotto termico – ma erano freschi di bucato. In una mano aveva Vortice,
nell’altra una canna per innaffiare.
Come mai ci fosse una canna sul tetto Frank non lo sapeva ma, ogni volta che i giganti lanciavano
in alto una palla di cannone, Percy evocava una possente carica di acqua e faceva esplodere la sfera
a mezz’aria. Tutt’a un tratto a Frank tornò in mente: anche la sua famiglia discendeva da Poseidone.
La nonna aveva detto che la loro casa era già stata attaccata. Forse avevano portato la canna lassù
proprio per quel motivo.
Hazel faceva la ronda sulla terrazza, che si estendeva tra i due timpani della soffitta. Era così
bella che, nel guardarla, Frank sentì un dolore al petto. Indossava un paio di jeans, un giubbotto color
crema e una camicia bianca che le metteva in risalto la calda tonalità della pelle. I capelli ricci le
ricadevano sulle spalle. Quando lei gli si avvicinò, Frank sentì il profumo dello shampoo al
gelsomino.
Con la spada in pugno, Hazel guardò Frank con occhi preoccupati. — Tutto a posto? — chiese. —
Perché sorridi?
— Ehm… niente — riuscì a risponderle. — Grazie per la colazione. E per i vestiti. E… di non
odiarmi.
La ragazza era sconcertata. — Perché dovrei odiarti?
Frank avvampò. Sarebbe stato meglio se avesse tenuto la bocca chiusa, ma ormai era troppo tardi.
Ripensò alle parole della nonna: «Non lasciartela scappare. Hai bisogno di avere accanto donne
forti.» — È… è per ieri sera — balbettò. — Quando ho evocato lo scheletro. Ho pensato… ho
pensato che tu pensassi… che ero disgustoso… o roba del genere.
Hazel inarcò le sopracciglia. Scosse la testa, sbigottita. — Frank, forse ero sorpresa. Forse avevo
paura di quel coso. Ma disgustata? Il modo in cui gli davi ordini, la sicurezza che avevi… della
serie: “Oh, a proposito, ragazzi, ho questo potentissimo spartus da usare.” Non riuscivo a crederci.
Non ero disgustata, Frank. Ero colpita.
Frank non era sicuro di avere capito bene. — Eri… eri colpita… da me?
Percy sorrise. — Amico, sei stato fantastico.
— Sinceramente? — chiese Frank.
— Sinceramente — lo rassicurò Hazel. — Adesso però abbiamo altri problemi di cui
preoccuparci. Okay? — Fece un gesto verso l’esercito di orchi che, diventati sempre più audaci, si
trascinavano passo dopo passo verso la casa.
Percy preparò la canna da giardino. — Ho ancora un altro asso nella manica. Il vostro prato è
dotato di un sistema d’irrigazione. Posso farlo saltare e creare un po’ di casino laggiù, ma in questo
modo salterà la pressione dell’acqua. Niente pressione, niente canna, e quelle palle di cannone
andranno a schiantarsi dritte sulla casa.
I complimenti di Hazel ronzavano ancora nelle orecchie di Frank, che faceva fatica a concentrarsi.
Decine di orchi erano accampati sul prato in attesa di farlo a pezzi, e lui riusciva a malapena a
trattenere un sorriso.
Hazel non lo odiava. Era colpita da lui.
Frank si sforzò di ritrovare la concentrazione. Ripensò a quello che gli aveva detto la nonna sulla
natura del dono e di come dovesse abbandonarla lì a morire. Ripensò alle parole di Marte: «Hai un
ruolo da svolgere.»
Frank non riusciva a credere di essere l’arma segreta di Giunone, né che la famosa Profezia dei
Sette dipendesse da lui. Ma Hazel e Percy contavano su di lui. Doveva fare del proprio meglio.
Pensò alla mezza profezia che Ella aveva recitato in soffitta, sul figlio di Nettuno che affogava.
«… cominci a capire quanto vale» aveva detto Finea a Portland. Il vecchio cieco aveva pensato
che, controllando Ella, sarebbe diventato re.
A Frank frullavano per la testa tutte le tessere di quel puzzle. Aveva la sensazione che, una volta
messe insieme, avrebbero formato un quadro che non gli sarebbe piaciuto tanto. — Ragazzi, ho un
piano di fuga. — Raccontò agli amici dell’aereo che li aspettava al campo di aviazione, e della
lettera di sua nonna per il pilota. — È un veterano della legione. Ci aiuterà.
— Ma Arion non è tornato — replicò Hazel. — E tua nonna? Non possiamo abbandonarla qui.
Frank soffocò un singhiozzo. — Forse… forse Arion ci troverà. Quanto a mia nonna… è stata
molto chiara. Ha detto che se la sarebbe cavata. — Non era proprio la verità, ma fu il massimo che
Frank riuscì ad ammettere.
— C’è un altro problema — intervenne Percy. — Non sono a mio agio con i viaggi aerei. Sono
pericolosi per i figli di Nettuno.
— Dovrai rischiare… e io pure — disse Frank. — A proposito, siamo parenti.
Percy quasi precipitò dal tetto per la sorpresa.
Frank raccontò agli amici una versione telegrafica della storia. — Periclimeno. Antenato da parte
di mia madre. Argonauta. Nipote di Poseidone.
Hazel rimase a bocca aperta. — Sei un… un discendente di Nettuno? Frank, è…
— Folle? Sì. E c’è un dono che circola nella mia famiglia, a quanto pare. Ma non so come usarlo.
Se non riesco a capire come…
I lestrigoni levarono un altro enorme grido di esultanza. Frank si accorse che lo fissavano e
indicavano, agitando le braccia e ridendo tra loro. Avevano individuato la loro colazione. — Zhang!
— urlavano. — Zhang! Zhang!
Hazel si avvicinò a Frank. — Continuano a gridare il tuo nome. Perché?
— Lasciamo perdere — rispose Frank. — Sentite, dobbiamo proteggere Ella, dobbiamo portarla
con noi.
— Certo. Quella povera creatura ha bisogno del nostro aiuto.
— No. Cioè sì, ma non è solo per questo — replicò Frank. — Ha recitato una profezia, prima.
Credo… credo che si riferisse a questa missione. — Non voleva dare a Percy la brutta notizia, su un
figlio di Nettuno che affogava, ma ripeté i versi.
Percy serrò la mandibola. — Non so come possa affogare un figlio di Nettuno. Io respiro
sott’acqua. Ma la corona della legione…
— Dev’essere l’aquila — intervenne Hazel.
Percy annuì. — Ella aveva già recitato una cosa del genere, a Portland… un verso dell’antica
Grande Profezia.
— Che cos’è? — domandò Frank.
— Te lo spiego dopo. — Percy girò la canna da giardino e colpì un’altra palla di cannone, che
esplose formando una sfera di fuoco arancione.
Gli orchi batterono le mani soddisfatti e gridarono: — Bello! Bello!
— Il punto è che Ella ricorda tutto quello che legge — continuò Frank. — Ha detto qualcosa a
proposito di una pagina bruciata, come se avesse letto un testo di profezie rovinato.
Hazel sgranò gli occhi. — Libri di profezie bruciati? Forse… ma è impossibile!
— I libri che Ottaviano cercava, giù al campo? — suppose Percy.
Hazel annuì. — I Libri Sibillini, che illustravano le sorti di Roma. Se Ella è riuscita in qualche
modo a leggerne una copia e a memorizzarla…
— Allora è l’arpia più preziosa del mondo — concluse Frank. — Non c’è da meravigliarsi che
Finea volesse catturarla.
— Frank Zhang! — gridò un orco. Era più grosso degli altri, indossava un mantello di leone come
un vessillifero romano e un bavaglio di plastica con sopra un’aragosta. — Scendi, figlio di Marte! È
da tanto che ti aspettiamo. Vieni, sarai il nostro ospite d’onore.
Hazel afferrò l’amico per un braccio. — Come mai ho la sensazione che “ospite d’onore”
significhi “cena”?
Frank avrebbe voluto che Marte fosse ancora lì. Gli avrebbe fatto proprio comodo qualcuno che
schioccasse le dita e gli facesse passare il panico da battaglia. “Hazel ha fiducia in me” pensò.
“Posso farcela.” Guardò Percy. — Sai guidare?
— Certo. Perché?
— In garage c’è la macchina della nonna. È una vecchia Cadillac, enorme, tipo un carro armato.
Se riesci a farla partire…
— Dobbiamo ancora sfondare una schiera di orchi — precisò Hazel.
— Il sistema di irrigazione — ricordò Percy. — E se lo usassimo come diversivo?
— Sì — approvò Frank. — Vi farò guadagnare più tempo possibile. Prendete Ella e salite in
macchina. Cercherò di raggiungervi in garage, ma non aspettatemi.
Percy corrugò la fronte. — Frank…
— Dacci una risposta, Frank Zhang! — sbraitò l’orco. — Scendi giù, e risparmieremo gli altri… i
tuoi amici, la tua povera nonnina. Vogliamo solo te!
— Mentono — disse Percy.
— Sì, è ovvio — concordò Frank. — Andate!
Hazel e Percy corsero verso la scala.
Frank tentò di controllare i battiti del cuore. Sorrise e gridò: — Ehi, laggiù! Chi di voi ha fame?
Gli orchi esultarono, mentre lui li salutava come se fosse una rockstar.
Tentò di evocare il dono di famiglia. Si immaginò come un drago sputafuoco. Si sforzò, strinse i
pugni e si concentrò sui draghi a tal punto che la fronte gli si imperlò di sudore. Voleva piombare sul
nemico e distruggerlo. Sarebbe stato davvero forte. Ma non accadde niente. Non aveva la minima
idea di come fare a trasformarsi. Non aveva mai visto un drago vero e proprio. Per un attimo gli
prese il panico e si domandò se sua nonna non gli avesse giocato uno scherzetto. “Forse non ho
capito bene cos’è il dono. Forse sono l’unico della sua famiglia a non averlo ereditato.”
Gli orchi cominciarono a innervosirsi. Le urla di acclamazione si trasformarono in fischi di
sberleffo. Alcuni lestrigoni sollevarono le palle di cannone.
— Aspettate! — gridò Frank. — Non mi vorrete mica carbonizzare, giusto? Non avrei un buon
sapore.
— Scendi giù! — urlarono gli orchi. — Abbiamo fame!
Era il momento di passare al piano B. Frank avrebbe tanto voluto averne uno. — Mi promettete di
risparmiare i miei amici? Me lo giurate sullo Stige?
Gli orchi scoppiarono a ridere. Uno di loro lanciò una palla di cannone, che si inarcò sopra la
testa del ragazzo e disintegrò il comignolo.
Per miracolo, Frank non fu colpito neppure da una scheggia. — Lo prendo come un no —
bofonchiò. Poi urlò: — E va bene, avete vinto voi. Scendo subito. Aspettatemi.
Gli orchi esultarono, ma il capo con il mantello di leone aggrottò le ciglia, sospettoso.
Frank non aveva molto tempo. Scese dalla scala che portava in soffitta. Ella era sparita, e lui
sperò che fosse un buon segno: magari erano riusciti a portarla alla Cadillac. Afferrò un’altra faretra
con l’etichetta VARIETÀ ASSORTITE scritta in stampatello da sua madre. Quindi corse alla
mitragliatrice. Roteò la canna, puntò il capo degli orchi e premette il grilletto. Otto patate ad alta
potenza colpirono il gigante sul petto, catapultandolo all’indietro con una forza tale da scaraventarlo
contro una pila di palle di cannone, che esplosero all’istante, formando un cratere fumante per terra.
Dunque l’amido faceva davvero male agli orchi.
Mentre gli altri mostri correvano in giro storditi, Frank prese l’arco e scagliò contro di loro una
gragnola di frecce. Alcuni dardi esplosero all’impatto, altri si scheggiarono come pallettoni,
formando nuovi tatuaggi dolorosi sul corpo degli orchi.
Purtroppo si ripresero alla svelta. Ricominciarono a scagliare palle di cannone, l’una dopo
l’altra. Tutta la casa iniziò a scricchiolare per la forza d’urto.
Frank corse verso le scale. La soffitta si disintegrò alle sue spalle. Fumo e fiamme invasero il
corridoio del secondo piano. — Nonna! — gridò, ma il caldo era così intenso da non permettergli di
raggiungere la sua camera. Si precipitò al pianoterra, aggrappandosi al corrimano mentre la casa
tremava e grossi pezzi di intonaco si staccavano dal soffitto.
La base delle scale era un cratere pieno di fumo. Frank saltò dall’altra parte e, barcollando,
attraversò la cucina. Soffocando per la cenere e la fuliggine, si fiondò in garage. I fari della Cadillac
erano accesi. Il motore era partito e la saracinesca si stava sollevando.
— Sali! — gridò Percy.
Frank si tuffò sul sedile posteriore, accanto a Hazel.
Ella era raggomitolata davanti, con la testa nascosta sotto le ali, e borbottava: — Accidenti!
Accidenti! Accidenti!
Percy diede gas. L’auto schizzò fuori dal garage prima che la saracinesca fosse del tutto sollevata,
aprendo uno squarcio a forma di Cadillac.
Gli orchi si misero a correre per fermarli, ma Percy urlò con tutto il fiato che aveva in gola,
facendo esplodere il sistema di irrigazione. Un centinaio di geyser schizzarono in aria insieme a zolle
di terra, pezzi di tubo e bocchette pesantissime.
La Cadillac andava a una sessantina di chilometri all’ora quando colpì il primo orco, che si
disintegrò nell’urto. Prima che gli altri mostri si riprendessero dallo sconcerto, l’auto aveva già
percorso quasi un chilometro. Palle di cannone fiammeggianti scoppiavano tutt’intorno.
Frank lanciò un’occhiata dietro di sé e vide la casa di famiglia in fiamme, le pareti che crollavano
e il fumo che si levava a ondate verso il cielo. Scorse una grossa macchia nera – forse una poiana –
volteggiare verso l’alto. Forse era la propria immaginazione, ma gli sembrò che fosse volata dalla
finestra del secondo piano. — Nonna? — mormorò. Gli sembrava impossibile, ma lei aveva
promesso che se ne sarebbe andata a modo suo, non per mano degli orchi. Frank sperò che avesse
ragione, e le rivolse un saluto commosso.
Attraversarono in macchina i boschi e si diressero a nord.
— Quant’è lontano l’aereo? — chiese Percy.
— Cinque chilometri, più o meno. Non puoi sbagliare — rispose Frank.
Dietro di loro, altre esplosioni squarciarono la foresta. Il fumo ribolliva in cielo.
— A che velocità corrono i lestrigoni? — domandò Hazel.
— Speriamo di non doverlo scoprire — rispose Percy.
Davanti a loro comparve il cancello del campo di aviazione. Un jet privato oziava sulla pista. La
scaletta era abbassata.
La Cadillac prese una buca e si sollevò per aria, sballottando i passeggeri. Quando le ruote
ritoccarono terra, Percy schiacciò il freno, e l’auto, sbandando, si fermò appena varcato il cancello.
Frank impugnò l’arco. — Andate all’aereo! Stanno arrivando!
I lestrigoni li stavano raggiungendo a velocità allarmante. La prima schiera comparve
all’improvviso dal bosco e si precipitò a rotta di collo verso il campo di aviazione. Meno
cinquecento metri, meno quattrocento…
Percy e Hazel riuscirono a tirare fuori Ella dalla Cadillac ma, non appena vide l’aeroplano,
l’arpia cominciò a strillare.
— No… no! — gridò. — Volo con ali! Nie… niente aerei.
— Andrà tutto bene — le promise Hazel. — Ti proteggeremo noi!
Ella emise un gemito orribile, straziante, come se qualcuno la stesse bruciando viva.
— Cosa facciamo? — chiese Percy. — Non possiamo costringerla.
— No — concordò Frank. Gli orchi erano a meno di trecento metri di distanza.
— È troppo preziosa per lasciarla qui — intervenne Hazel. Poi trasalì alle sue stesse parole. —
Oh, santi numi! Mi dispiace, Ella. Sembro cattiva come Finea. Sei un essere vivente, non un tesoro.
— Niente aerei. Nie… niente aerei. — Ella era in iperventilazione.
Gli orchi erano ormai quasi arrivati.
Percy si illuminò all’improvviso. — Ho un’idea. Ella, riesci a nasconderti nel bosco? Saresti al
riparo dagli orchi?
— Nascosta — concordò Ella. — Al riparo. Nascondersi va bene per le arpie. Ella è sveglia. E
piccola. E rapida.
— Va bene — disse Percy. — Rimani in zona. Posso mandare un amico a prenderti per portarti al
Campo Giove.
Frank incoccò una freccia. — Un amico?
Percy fece un gesto con la mano, come a dire: “Te lo spiego dopo.” — Ella, ti piacerebbe che il
mio amico ti portasse al Campo Giove e ti mostrasse la nostra casa?
— Campo — borbottò Ella. E poi in latino: — La figlia della saggezza da sola camminerà, il
marchio di Atena su Roma brucerà.
— Ehm… giusto. — Percy annuì. — Sembra una cosa importante, ma possiamo parlarne dopo.
Sarai al sicuro al campo. Ci sono tutti i libri e il cibo che vuoi.
— Niente aerei — insistette Ella.
— Niente aerei — le confermò Percy.
— Ella ora si nasconde. — In un attimo non era più lì, una scia rossa che svaniva nel bosco.
— Mi mancherà — disse Hazel.
— La rivedremo — le promise Percy, ma si accigliò inquieto, come se quell’ultimo pezzo di
profezia – quello su Atena – lo avesse turbato davvero.
Un’esplosione fece saltare per aria il cancello del campo di aviazione.
Frank lanciò la lettera della nonna a Percy. — Dalla al pilota! Dagli anche la lettera di Reyna!
Dobbiamo decollare subito!
Percy annuì e si precipitò verso l’aereo, seguito da Hazel.
Frank si riparò dietro la Cadillac e cominciò a tirare contro gli orchi. Scagliò una freccia a forma
di tulipano. Proprio come aveva sperato, era un’idra. Le corde cominciarono a sferrare colpi come
tentacoli di piovra, e tutta la prima fila di orchi cadde di faccia sprofondando nella terra.
Frank sentì i motori dell’aereo andare su di giri. Lanciò altre tre frecce il più velocemente
possibile, facendo esplodere enormi crateri tra le fila degli orchi. I sopravvissuti erano a meno di un
centinaio di metri di distanza, e qualcuno dei più svegli si fermò, capendo di essere ormai sotto tiro.
— Frank! — strillò Hazel. — Vieni!
Una palla di cannone infuocata partì diretta verso di loro, disegnando un arco lento. Frank capì
subito che avrebbe colpito l’aeroplano. Incoccò una freccia. “Posso farcela” pensò. E tirò. Intercettò
il proiettile a mezz’aria, facendo esplodere una gigantesca palla di fuoco.
Ma c’erano altre due palle di cannone in arrivo. Frank si mise a correre. Dietro di lui, la Cadillac
esplose in un gran fracasso. Frank si fiondò sull’aereo, proprio mentre la scaletta cominciava ad
alzarsi.
Il pilota doveva aver capito perfettamente la situazione. Non ci fu nessun annuncio di sicurezza,
nessun drink di benvenuto prima del decollo, nessuna attesa di autorizzazione. L’aereo sfrecciò lungo
la pista. Un’altra esplosione sventrò l’asfalto alle loro spalle, ma erano già decollati.
Frank guardò giù e vide il campo di aviazione costellato di crateri, come un pezzo di emmental in
fiamme. Diverse zone del Lynn Canyon Park erano andate a fuoco. Qualche chilometro più a sud, un
rogo di fiamme e fumo nero era tutto ciò che rimaneva di casa Zhang.
E tanti saluti ai sogni di gloria. Frank non era riuscito a salvare la nonna. Non era riuscito a usare
i propri poteri. Non era riuscito a salvare neppure Ella. Quando Vancouver scomparve tra le nuvole,
il figlio di Marte nascose la testa tra le mani e scoppiò in lacrime.
L’aereo virò a sinistra.
Nell’interfono, la voce del pilota disse: — Senatus Populusque Romanus, amici miei. Benvenuti
a bordo. Prossima fermata: Anchorage, Alaska.
PERCY
Aeroplani o cannibali? Che domande.
Percy avrebbe preferito guidare la Cadillac di nonna Zhang fino in Alaska inseguito da orchi e
palle infuocate piuttosto che starsene seduto lì, in quel jet di lusso.
Non era la prima volta che volava. I dettagli erano confusi, ma ricordava un pegaso di nome
Blackjack. Aveva perfino viaggiato in aereo un paio di volte. Ma un figlio di Nettuno – o di
Poseidone che fosse – non apparteneva all’aria. Ogni volta che l’aereo incontrava una turbolenza, il
cuore di Percy accelerava, con la certezza che Giove stesse dando loro una bella scrollata.
Cercò di concentrarsi sui discorsi di Frank e Hazel. Lei lo stava rassicurando, dicendogli che
aveva fatto tutto il possibile per sua nonna. Frank li aveva salvati dai lestrigoni e li aveva fatti uscire
da Vancouver. Era stato incredibilmente coraggioso.
Il figlio di Marte teneva la testa bassa come se si vergognasse di avere pianto, ma Percy non lo
biasimava. Povero ragazzo, aveva appena perso la nonna e visto la propria casa andare in fiamme.
Per quanto lo riguardava, versare qualche lacrima per una cosa del genere non ti rendeva meno uomo,
tanto più se avevi appena sconfitto un esercito di orchi che volevano mangiarti a colazione.
Percy non riusciva ancora a farsi una ragione del fatto che Frank fosse un suo lontano parente. Era
il suo… cosa? Bis-bis-mille-volte-bis-nipote? Era un concetto troppo assurdo per definirlo a parole.
Frank si rifiutava di spiegare che cosa fosse di preciso il suo “dono di famiglia” ma, mentre
volavano verso nord, raccontò loro della conversazione avuta con Marte la sera prima. Parlò anche
della profezia che Giunone aveva pronunciato quando lui era piccolo, di come la sua vita fosse legata
a un pezzo di legno, e rivelò a Percy che aveva chiesto a Hazel di custodirlo per lui.
Una parte di tutto ciò, il figlio di Nettuno l’aveva già intuita. Hazel e Frank avevano senza dubbio
condiviso un’esperienza pazzesca quando avevano perso conoscenza insieme, e Percy aveva capito
che avevano stretto un patto di qualche tipo. Questo spiegava anche perché, per abitudine, ogni tanto
Frank continuasse a tastarsi la tasca del giubbotto, e perché il fuoco lo innervosisse tanto. Tuttavia
Percy non riusciva a immaginare quanto coraggio gli ci fosse voluto per imbarcarsi in quella
missione sapendo che sarebbe bastata una sola, piccola fiammella a spegnere la sua vita.
— Frank, sono fiero di essere tuo parente.
Le orecchie del figlio di Marte divennero subito rosse. Con la testa china, il taglio militare dei
suoi capelli disegnava una freccia nera e affilata che puntava verso il basso. — Giunone ha un piano
per noi, qualcosa che riguarda la Profezia dei Sette.
— Sì — borbottò Percy. — Già la detestavo come Era. Come Giunone la detesto ancora di più.
Hazel raccolse le gambe sul sedile. Con i suoi luminosi occhi dorati studiò Percy, e lui si chiese
come facesse a restare così calma. Era la più piccola dei tre, ma era lei a tenerli uniti e a confortarli
sempre. Ora stavano volando verso l’Alaska, il luogo in cui era già morta una volta. Avrebbero
cercato di liberare Thanatos, che forse l’avrebbe riportata negli Inferi. Eppure non mostrava la
minima paura. Percy si sentì sciocco per il suo terrore degli aeroplani.
— Tu sei figlio di Poseidone, giusto? — gli chiese lei. — Perciò sei un semidio greco.
Percy strinse forte la propria collana di cuoio. — Ho cominciato a ricordare a Portland, dopo il
sangue della gorgone. E da lì ha cominciato a tornarmi tutto in mente. Esiste un altro campo: il
Campo Mezzosangue. — Si sentiva scaldare il cuore solo a pronunciarne il nome. Fu inondato da bei
ricordi: il profumo dei campi di fragole al sole caldo dell’estate, i fuochi d’artificio che
illuminavano la spiaggia per la festa del 4 Luglio, i satiri che suonavano il flauto intorno al fuoco, e
un bacio sul fondo del lago delle canoe.
Hazel e Frank lo fissavano come se all’improvviso avesse iniziato a parlare in un’altra lingua.
— Un altro campo — ripeté la ragazza. — Un campo greco? Santi numi, se Ottaviano lo
scoprisse…
— Dichiarerebbe guerra — concluse Frank. — È sempre stato certo che ci fossero dei semidei
greci in circolazione, a complottare contro di noi. Pensava che Percy fosse una spia.
— È per questo che Giunone mi ha mandato — disse Percy. — Ehm… cioè, non per fare la spia.
Penso che sia stato una specie di scambio. Il vostro amico Jason… credo che sia stato mandato nel
mio campo. In sogno, ho visto un semidio che potrebbe essere lui. Lavorava con altri semidei a una
nave da guerra volante. Credo che stiano venendo al Campo Giove per aiutarci.
Frank tamburellò nervoso le dita sullo schienale del sedile. — Marte ha detto che Giunone vuole
unire i Greci e i Romani per combattere contro Gea. Ma, cavoli… tra Greci e Romani non scorre
buon sangue da… da moltissimo tempo.
Hazel trasse un respiro profondo. — Probabilmente è per questo che gli dei ci hanno tenuto
separati così a lungo. Se una nave da guerra greca comparisse nel cielo del Campo Giove, e se Reyna
non sapesse che ha intenzioni amichevoli…
— Dobbiamo stare attenti a come glielo spiegheremo, al ritorno.
— Se ci sarà, un ritorno — precisò Frank.
Percy annuì, con riluttanza. — Mi fido di voi, ragazzi. E spero che voi vi fidiate di me… Mi
sento… be’, mi sento vicino a voi quanto ai miei vecchi amici al Campo Mezzosangue. Ma con gli
altri semidei, in entrambi i campi… nasceranno molti sospetti.
Hazel fece una cosa che lo colse totalmente alla sprovvista. Si sporse in avanti e gli diede un
bacio su una guancia. Come una sorella, chiaro. Ma gli sorrise con un affetto tale che Percy si sentì
scaldare fino al midollo.
— Certo che ci fidiamo di te — disse la ragazza. — Ora siamo una famiglia. Vero, Frank?
— Certo — confermò lui. — Dai un bacio anche a me?
Hazel fece una risatina nervosa. — Comunque, ora che facciamo?
Percy trasse un respiro profondo. Il tempo correva in fretta. Erano già quasi a metà giornata del 23
giugno, e il giorno dopo era la Festa della Fortuna. — Devo contattare qualcuno… per mantenere la
promessa fatta a Ella.
— Come? — chiese Frank. — Con uno di quei messaggi Iride?
Percy scosse la testa. — Il sistema è ancora fuori uso. Ci ho provato ieri sera, da casa di tua
nonna. Niente da fare. Forse è perché i miei ricordi sono ancora confusi. Oppure gli dei non
permettono la connessione. Spero di contattare il mio amico in sogno. — Un altro scossone di
turbolenza lo fece aggrappare al sedile. Sotto di loro, montagne incappucciate di neve svettavano da
una coltre di nuvole. — Non so se riuscirò a dormire, ma devo provarci. Non possiamo lasciare Ella
da sola con quegli orchi in circolazione.
— Giusto — disse Frank. — Abbiamo ancora diverse ore di volo. Prenditi il divano, amico.
Percy annuì. Si sentiva fortunato ad avere Hazel e Frank che vegliavano per lui. Quello che aveva
detto era vero: si fidava di loro. In quell’assurda, terrificante, orribile esperienza di perdere la
memoria e vedersi strappare il proprio passato, Hazel e Frank erano due fari di luce. Si allungò sul
divano, chiuse gli occhi e sognò di precipitare da una montagna di ghiaccio incontro a un mare
gelido.
Il sogno cambiò. Era di nuovo a Vancouver, di fronte alle macerie di casa Zhang. I lestrigoni se
n’erano andati. La villa era ridotta a uno scheletro bruciato. Una squadra di pompieri stava riponendo
le attrezzature e si preparava a partire. Il prato sembrava un’area di guerra, pieno di crateri e trincee
scavate dai tubi di irrigazione esplosi.
Ai margini della foresta, un gigantesco cane nero balzava qua e là, fiutando gli alberi. I pompieri
lo ignorarono completamente.
Inginocchiato accanto a uno dei crateri c’era un ciclope, vestito con un paio di jeans, gli anfibi e
una camicia di flanella, tutto di taglia XXXL. I capelli castani e spettinati erano sporchi di pioggia e
fango. Quando alzò la testa, il suo grande occhio castano era rosso di lacrime. — Vicino! — gemette.
— Vicino! Sparito…
Percy si sentì spezzare il cuore sentendo il dolore e la preoccupazione in quella voce, ma sapeva
di avere solo pochi secondi per parlare. La visione stava già cominciando ad appannarsi ai bordi. Se
l’Alaska era la terra oltre gli dei, intuiva che più si avventuravano verso nord più sarebbe diventato
difficile comunicare con gli amici, perfino in sogno. — Tyson! — chiamò.
Il ciclope si guardò freneticamente intorno. — Percy? Fratello?
— Tyson, sto bene. Sono qui… be’, non proprio.
Tyson afferrò l’aria, come per acchiappare le farfalle. — Non ti vedo! Dove sei fratello?
— Tyson, sono in aereo, sto andando in Alaska. Sto bene. Tornerò. Tu trova Ella. È un’arpia con
le piume rosse. È nascosta nel bosco intorno alla casa.
— Un’arpia rossa?
— Sì! Proteggila, okay? È amica mia. Riportala in California. C’è un campo di semidei sulle
colline di Oakland, il Campo Giove. Aspettami sopra il Caldecott Tunnel.
— Colline di Oakland… California… Caldecott Tunnel. — Il ciclope gridò al cane: — Signora
O’Leary! Dobbiamo trovare un’arpia!
— Bau! — rispose il cane.
— Mio fratello sta bene? Mio fratello torna? — Il volto di Tyson cominciò a dissolversi. — A
Tyson manca Percy!
— Anche tu mi manchi. — Percy si sforzò di tenere la voce ferma. — Ci vediamo presto. Sta’
attento! C’è un esercito capeggiato da un gigante in marcia verso sud. Di’ ad Annabeth che…
Il sogno cambiò.
Percy si ritrovò sulle colline a nord del Campo Giove, a scrutare Nuova Roma in lontananza. Al
forte della legione, i corni suonavano. I ragazzi si stavano radunando. L’esercito del gigante era
schierato alla destra e alla sinistra di Percy: centauri con le corna taurine, Gegenees a sei braccia e
ciclopi malvagi con le armature fatte di metallo di scarto.
La torre d’assedio dei ciclopi gettava un’ombra ai piedi di Polibote, che scrutava con un ghigno il
campo romano. Camminava con impazienza avanti e indietro; i serpenti piovevano dai dread verdi e
le possenti gambe di drago abbattevano gli alberelli che intralciavano il suo cammino. Sull’armatura
blu-verde, i volti ornamentali dei mostri affamati sembravano strizzare gli occhi nell’ombra. — Sì —
ridacchiò, piantando a terra il tridente. — Suonate i vostri piccoli corni, Romani. Sono venuto a
distruggervi! Steno!
La gorgone sbucò sollecita dai cespugli. La sua chioma di vipere verde acido e il grembiule
dell’ipermercato cozzavano terribilmente con i colori del gigante. — Sì, padrone! — rispose. —
Desidera un bel Cucciolotto Piccante?
— Un… cucciolo?
— Oh, non sono cuccioli veri. Sono dei salsicciotti piccanti in offerta questa settimana…
— Bah! Lasciamo perdere… Le nostre forze sono pronte per l’attacco?
— Oh… — Steno arretrò alla svelta per non farsi schiacciare dal piede di Polibote. — Quasi…
oh, immenso. Mamma Cinghia e la metà dei ciclopi si sono fermati a Napa. Per il giro delle cantine,
mi pare… Hanno promesso di raggiungerci entro domani sera.
— Cosa? — Il gigante si guardò intorno, come se si accorgesse solo ora che una piccola porzione
del suo esercito era assente. — Quella ciclope mi farà venire l’ulcera, prima o poi. Il giro delle
cantine?
— Credo che servano anche degli assaggini — chiarì Steno, sollecita. — Certo, all’ipermercato
abbiamo offerte migliori, ma…
— Ciclopi! — Infuriato, Polibote sradicò una quercia dal terreno e la scaraventò nella valle. —
Quando avrò distrutto Nettuno e conquistato gli oceani, rinegozierò il contratto di lavoro dei ciclopi.
Mamma Cinghia imparerà a stare al suo posto! Ora, che notizie abbiamo dal Nord?
— I semidei sono partiti per l’Alaska — rispose Steno. — Stanno volando dritti verso la morte.
La loro morte, cioè, non Thanatos. Anche se suppongo che stiano volando anche verso di lui.
Polibote ringhiò. — Alcione farà meglio a risparmiare il figlio di Nettuno, come ha promesso.
Voglio vederlo incatenato ai miei piedi, per ucciderlo quando i tempi saranno maturi. Il suo sangue
bagnerà le pietre del Monte Olimpo e desterà la Madre Terra! Notizie delle amazzoni?
— Tutto tace — rispose Steno. — Non sappiamo ancora chi abbia vinto nel duello di ieri notte,
ma è solo questione di tempo, Otrera vincerà e verrà ad aiutarci.
— Mmm… — Polibote si grattò via qualche vipera dai capelli. — Tanto vale aspettare, allora.
Domani, al tramonto, sarà la Festa della Fortuna. E cominceremo l’invasione… amazzoni o meno.
Nel frattempo, datevi da fare! Ci accamperemo quassù in alto.
— Sì… oh, immenso! — Steno annunciò alle truppe: — Cucciolotti Piccanti per tutti!
I mostri esultarono.
Polibote allargò le mani di fronte a sé, inquadrando la valle come per scattare una foto
panoramica. — Sì, suonate i vostri piccoli corni, semidei. Presto il retaggio di Roma sarà distrutto
una volta per tutte!
Il sogno si affievolì e si spense.
Percy si svegliò di soprassalto. L’aereo stava cominciando a scendere di quota.
Hazel gli posò una mano sulla spalla. — Riposato bene?
Il figlio di Nettuno si mise a sedere, un po’ intontito. — Per quanto tempo ho…?
— Qualche ora — rispose Frank. Era in piedi nel corridoio e stava riponendo la lancia e l’arco
nella borsa da sci. — Siamo quasi arrivati.
Percy guardò fuori dal finestrino: un piccolo squarcio di mare scintillò tra le montagne innevate.
In lontananza, una città si stagliava come scolpita nella natura selvaggia, circondata da rigogliose
foreste da un lato e da spiagge nere e ghiacciate dall’altro.
— Benvenuti in Alaska! — esclamò Hazel. — Siamo oltre ogni possibilità di aiuto da parte degli
dei.
PERCY
Il pilota disse che l’aeroplano non poteva aspettarli, ma la cosa non turbò Percy. Se fossero arrivati
vivi e vegeti all’indomani, sperava di riuscire a trovare un mezzo di trasporto diverso per tornare a
casa… tutto, meno che un aeroplano.
Avrebbe dovuto sentirsi depresso. Era bloccato in Alaska, nel territorio del gigante, senza nessuna
possibilità di contatto con i vecchi amici, proprio ora che gli stava tornando la memoria. Aveva visto
un’immagine dell’esercito di Polibote pronto a invadere il Campo Giove. Aveva saputo che i giganti
progettavano di usarlo come una sorta di sacrificio umano per risvegliare Gea. In più, la sera
dell’indomani sarebbe stata la Festa della Fortuna. Insieme a Frank e Hazel, aveva una missione
impossibile da portare a termine. Nella migliore delle ipotesi, avrebbero liberato la Morte, che forse
si sarebbe portata i suoi due amici negli Inferi. Insomma, c’era poco da stare allegri.
Eppure Percy si sentiva stranamente rinvigorito. Il sogno di Tyson gli aveva risollevato il morale.
Ricordava Tyson, suo fratello. Avevano combattuto insieme, festeggiato vittorie, condiviso bei
momenti al Campo Mezzosangue. Ricordava da dove veniva, e questo gli permetteva di affrontare la
missione con una nuova determinazione alla vittoria. Combatteva per due campi, adesso, per due
famiglie.
Giunone gli aveva rubato la memoria e lo aveva mandato al Campo Giove per una ragione.
Adesso lo capiva. Avrebbe ancora voluto prendere a pugni il suo bel faccino divino, ma almeno
aveva afferrato la logica di quella decisione. Se i due campi fossero stati in grado di collaborare,
avrebbero avuto una possibilità di fermare il nemico comune. Divisi, il destino di entrambi era
segnato.
C’erano poi altre ragioni per le quali Percy voleva salvare il Campo Giove. Ragioni che non
osava nemmeno formulare a parole… non per il momento, almeno. A un tratto, vedeva per sé e per
Annabeth un futuro che prima non aveva mai neanche immaginato.
Mentre prendevano un taxi per il centro di Anchorage, raccontò i suoi sogni agli altri, che si
mostrarono preoccupati ma non sorpresi quando ebbero notizia dell’esercito del gigante così vicino
al campo.
Frank invece per poco non si strozzò quando seppe di Tyson. — Hai un fratellastro ciclope?
— Certo — confermò Percy. — E questo vuol dire che è anche il tuo bis-bis-bis…
— Ti prego. — Frank si tappò le orecchie.
— Spero che riesca a portare Ella al campo — osservò Hazel. — Sono preoccupata per lei.
Percy annuì. Stava ancora pensando ai versi della profezia riguardo al figlio di Nettuno che affoga
e al marchio di Atena che brucia su Roma. Non era sicuro del significato della prima parte, ma stava
cominciando ad avere un’idea sul senso della seconda. Cercò di accantonare la domanda. Prima
doveva sopravvivere a quella missione.
Il taxi imboccò la Highway 1, che a Percy sembrò piuttosto piccola per un’autostrada, e proseguì
in direzione nord, verso il centro. Era il tardo pomeriggio, ma il sole era ancora alto nel cielo.
— Non riesco a credere a quanto sia cresciuto questo posto — mormorò Hazel.
Il tassista sorrise nello specchietto retrovisore. — Non viene qui da molto, signorina?
— Da una settantina d’anni — rispose Hazel.
L’uomo chiuse il vetro divisorio e continuò a guidare in silenzio.
Secondo Hazel, quasi nessuno degli edifici presenti era lo stesso di prima, ma indicò alcuni tratti
del paesaggio: le vaste foreste che circondavano la città, le acque fredde e grigie del Cook Inlet che
ne tracciavano il confine settentrionale, i monti Chugach che sorgevano grigi e azzurrini in
lontananza, con le vette innevate perfino a giugno.
Percy non aveva mai respirato un’aria così pulita. La città in sé aveva un’aria vissuta, logorata
dalle intemperie, con i negozi chiusi, le macchine arrugginite e i condomini scoloriti che
costeggiavano la strada, eppure era bellissima. Laghi e grandi tratti di bosco si insinuavano nei
quartieri abitati. Il cielo artico era una stupefacente combinazione di turchese e oro.
Poi c’erano i giganti. Decine di uomini azzurri, alti quasi dieci metri, con i capelli di ghiaccio
grigio, che attraversavano le foreste, pescavano nella baia e camminavano sulle montagne. I mortali
non sembravano notarli. Il taxi passò a pochi metri da uno di loro, seduto sulla riva del lago a lavarsi
i piedi, ma il tassista non si scompose per niente.
— Ehm… — Frank indicò il tizio azzurro.
— Iperborei — disse Percy, stupito di ricordarsi quel nome. — Giganti del Nord. Ne ho
combattuti un po’ quando Crono ha invaso Manhattan.
— Aspetta… — replicò Frank. — Quando chi ha fatto cosa?
— È una lunga storia. Ma questi sembrano… non lo so, tranquilli.
— Di solito lo sono — confermò Hazel. — Me li ricordo. Sono dappertutto in Alaska, come gli
orsi.
— Orsi? — ripeté Frank, nervoso.
— I giganti sono invisibili agli occhi dei mortali — continuò Hazel. — Non mi hanno mai
disturbato, anche se una volta uno per poco non mi ha calpestato.
Be’, quello era senz’altro strano agli occhi di Percy, ma mentre il taxi proseguiva la sua corsa
nessuno dei giganti prestò loro attenzione. Ne incontrarono uno fermo all’incrocio di Northern Lights
Road, con le gambe divaricate, e ci passarono in mezzo. L’iperboreo stava cullando tra le braccia un
totem dei nativi americani avvolto in pellicce, canticchiando come si fa con un neonato. Se non fosse
stato grosso quanto un palazzo, avrebbe perfino fatto tenerezza.
Il taxi attraversò il centro della città, superando negozi di souvenir che pubblicizzavano pellicce,
arte dei nativi americani e oro. Percy sperò che Hazel non si agitasse, facendo esplodere le
gioiellerie.
Quando il tassista svoltò verso la costa, Hazel bussò sul vetro divisorio. — Qui va bene. Ci fa
scendere?
Pagarono la corsa e scesero nella Quarta Strada. In confronto a Vancouver, il centro di Anchorage
era minuscolo – somigliava più a un campus universitario che a una città – ma Hazel era lo stesso
sbigottita.
— È enorme! — esclamò. — Lì… lì c’era il Gitchell Hotel. Dove io e mamma abbiamo
alloggiato la prima settimana. E hanno spostato il municipio. Prima era là. — Li accompagnò in giro,
con aria stordita.
Non avevano un vero e proprio piano, a parte quello di trovare la via più veloce possibile per il
ghiacciaio di Hubbard, ma Percy fiutò un profumino di cucina nelle vicinanze – salsicce, forse? – e si
rese conto di non toccare cibo dalla colazione a casa di nonna Zhang. — Cibo! — esclamò. —
Andiamo.
Trovarono un caffè che dava sul mare. Era pieno di gente, ma riuscirono ad accaparrarsi un tavolo
vicino alla vetrina e studiarono il menu.
— Servono la colazione ventiquattr’ore su ventiquattro! — gridò Frank, contento.
— Ma è… ora di cena — osservò Percy, anche se non si capiva guardando fuori. Il sole era così
alto che avrebbe potuto essere mezzogiorno.
— Adoro la colazione — continuò Frank. — Non mangerei altro, se potessi. Anche se… sono
sicuro che qui non la preparano bene come Hazel.
La ragazza gli mollò una gomitata, ma sorrideva contenta.
Percy era felice di vederli in quel modo: quei due dovevano decisamente mettersi insieme. Ma
non poté fare a meno di rattristarsi un poco, perché la scena lo fece pensare ad Annabeth. Chissà se
sarebbe vissuto tanto da rivederla…
“Pensa positivo” si disse. — Sai una cosa? La colazione va benissimo pure per me.
Ordinarono tutti un grande vassoio di uova, frittelle e salsicce di renna, anche se Frank era un po’
perplesso sulle salsicce. — Questa potrebbe essere Rudolph, la renna di Natale…
— Ho così fame che sarei disposto a mangiarmi tutte le renne di Babbo Natale al completo —
replicò il figlio di Nettuno.
Il cibo era ottimo. Percy non aveva mai visto nessuno mangiare alla velocità di Frank. La renna
non aveva scampo.
Tra un morso e l’altro di frittella ai mirtilli, Hazel disegnò una curva frastagliata con una X sul
tovagliolo. — Ecco cosa penso. Noi siamo qui. — Picchiò il dito sulla X. — Anchorage.
— Sembra la faccia di un gabbiano — commentò Percy. — E noi siamo l’occhio.
Hazel gli scoccò un’occhiataccia. — È una mappa, Percy. Anchorage è in cima a questa sorta di
mezzaluna di oceano, Cook Inlet. C’è una grande penisola di terra sotto di noi, e la città in cui
abitavo, Seward, si trova in fondo alla penisola, qui. — Disegnò un’altra X alla base della gola del
gabbiano. — È la città più vicina al ghiacciaio di Hubbard. Potremmo arrivarci per mare, ma ci
metteremmo una vita. Non abbiamo tutto questo tempo.
Frank spazzolò gli ultimi resti delle salsicce. — Ma viaggiare via terra è pericoloso — osservò.
— Terra significa Gea.
Hazel annuì. — Non credo che abbiamo molta scelta, però. Avremmo potuto chiedere al nostro
pilota di portarci fin là, ma non so… forse l’aereo era troppo grande per il piccolo aeroporto di
Seward. E se prendessimo un altro volo?
— Basta aerei — intervenne Percy. — Vi prego.
Hazel sollevò la mano, in un gesto conciliante. — Non c’è problema. C’è un treno che va da qui a
Seward. Potremmo prenderne uno stasera. Ci mette solo un paio d’ore. — Disegnò una linea
tratteggiata fra le due X.
— Hai tagliato la testa al gabbiano — notò Percy.
Hazel sospirò. — È la linea del percorso. Guardate, rispetto a Seward, il ghiacciaio di Hubbard è
quaggiù da qualche parte. — Picchiettò con il dito l’angolo in basso a destra del tovagliolo. — È qui
che si trova Alcione.
— Ma non sei sicura della distanza? — chiese Frank.
Hazel si accigliò e scosse la testa. — Però sono sicura che è accessibile solo via nave o via
aereo.
— Nave — disse subito Percy.
— Bene — concordò lei. — In ogni caso, non dovrebbe essere troppo lontano da Seward, sempre
che riusciamo ad arrivare fin là sani e salvi.
Percy lasciò vagare lo sguardo fuori dalla vetrina. C’era così tanto da fare, e restavano solo
ventiquattr’ore. L’indomani, a quella stessa ora, sarebbe cominciata la Festa della Fortuna. A meno
che non avessero liberato Thanatos e non fossero tornati al campo, l’esercito del gigante si sarebbe
riversato nella valle. I Romani sarebbero stati la portata principale della cena di un mostro.
Dall’altra parte della strada, una spiaggia di sabbia nera e gelata conduceva fino al mare, che era
liscio come acciaio. L’oceano lì era diverso, sempre potente ma gelido, lento, primordiale. Nessun
dio controllava l’acqua, o almeno nessun dio che Percy conoscesse. Nettuno non avrebbe potuto
proteggerlo. E i suoi poteri? Sarebbe stato in grado di manipolare l’acqua e respirare sotto la sua
superficie?
Un gigante iperboreo attraversò con il suo passo pesante la strada. Nel locale, nessuno ci fece
caso. Il gigante si addentrò nella baia, incrinando il ghiaccio sotto i sandali, e infilò le mani
nell’acqua. Tirò fuori un’orca stretta nel pugno. Ma a quanto pareva non ne fu soddisfatto, perché la
gettò di nuovo in mare e continuò ad avanzare.
— Ottima colazione! — esclamò Frank. — Chi è pronto per un bel viaggio in treno?
La stazione non era lontana. Fecero appena in tempo a comprare i biglietti per l’ultimo treno diretto a
sud.
Mentre i suoi amici salivano a bordo, Percy annunciò: — Vi raggiungo tra un secondo — e rientrò
di corsa in stazione. Si fece cambiare qualche banconota in spiccioli e si piazzò di fronte al telefono
pubblico.
Non ne aveva mai usato uno, prima di allora. Per lui erano strani oggetti d’antiquariato, come il
giradischi di sua madre o le cassette di Frank Sinatra del suo insegnante Chirone. Non sapeva quante
monete fossero necessarie, né se sarebbe riuscito a inoltrare la chiamata, ammesso che il numero che
ricordava fosse giusto.
Sally Jackson, pensò. Così si chiamava sua madre.
E aveva un patrigno… Paul.
Cosa pensavano che gli fosse successo? Forse gli avevano già fatto il funerale. Secondo i suoi
calcoli approssimativi, aveva perso sette mesi di vita. Certo, per la maggior parte sarebbero stati
mesi di anno scolastico, però… non era per niente bello.
Sollevò la cornetta e digitò il numero di New York, l’appartamento di sua madre.
La segreteria telefonica. Avrebbe dovuto immaginarlo. Come minimo a New York era mezzanotte.
Sentire la voce di Paul nella registrazione gli fece stringere lo stomaco così forte che riuscì a
malapena a parlare. — Mamma! — esclamò. — Ehi, sono vivo. Era mi ha fatto dormire per un po’, e
poi mi ha portato via la memoria e… — Gli mancò la voce. Come poteva spiegarle tutto? —
Comunque, sto bene. Mi dispiace. Sono via per una missione… — Trasalì. Non avrebbe dovuto
dirlo. Sua madre sapeva tutto delle imprese eroiche, e ora si sarebbe preoccupata. — Tornerò a casa.
Promesso. Ti voglio bene. — Abbassò la cornetta. Fissò il telefono, sperando che squillasse. Poi
sentì il fischio del treno.
Il capotreno gridò: — Tutti a bordo!
Percy corse. Arrivò appena in tempo per salire i gradini prima che li ritirassero, quindi raggiunse
il secondo piano della carrozza e si sedette al proprio posto.
Hazel si accigliò. — Stai bene?
— Sì — rispose lui. — Ho fatto solo… una telefonata.
I ragazzi sembrarono capire. Non chiesero particolari.
Poco dopo correvano verso sud, osservando il paesaggio dal finestrino. Percy cercò di pensare
alla loro eroica impresa, ma con il suo disturbo da deficit dell’attenzione il treno non era il posto
migliore per concentrarsi.
Fuori succedevano cose troppo interessanti. C’erano aquile dalla testa bianca che volteggiavano
nel cielo. Il treno attraversava ponti e scogliere dove cascate glaciali precipitavano lungo metri e
metri di roccia. Superarono foreste sepolte dalla neve, cannoni da artiglieria – per provocare piccole
valanghe e prevenire quelle incontrollate, spiegò Hazel – e laghi così limpidi che riflettevano le
montagne come specchi, tanto che il mondo sembrava capovolto.
Orsi bruni attraversavano goffamente i campi. Giganti iperborei continuavano ad apparire nei
posti più impensati. Uno se ne stava disteso comodamente in un laghetto, come in una vasca
idromassaggio. Un altro usava un pino come stuzzicadenti. Un terzo sedeva su un gran cumulo di neve
e giocava con due alci vive, come fossero pupazzetti. Il treno era pieno di turisti con la bocca aperta
e la macchina fotografica pronta, e a Percy dispiacque che non potessero vedere i giganti. Si stavano
perdendo delle grandi foto.
Nel frattempo, Frank studiava una mappa dell’Alaska che aveva trovato nella tasca del sedile.
Localizzò il ghiacciaio di Hubbard, che sembrava a una distanza scoraggiante da Seward. Continuava
a far scorrere il dito lungo la costa, aggrottando la fronte per la concentrazione.
— A cosa stai pensando? — chiese Percy.
— Solo… alle possibilità.
Percy non sapeva a cosa si riferisse, ma lasciò perdere. Dopo un’oretta, cominciò a rilassarsi.
Comprarono della cioccolata calda nel vagone ristorante. I sedili erano caldi e comodi, e lui pensò
di fare un sonnellino.
Poi un’ombra passò su nel cielo. I turisti mormorarono eccitati e cominciarono a scattare
fotografie.
— Un’aquila! — strillò uno.
— Un’aquila? — fece eco un altro.
— Un’aquila enorme! — esclamò un terzo.
— Quella non è un’aquila — disse Frank.
Percy sollevò lo sguardo appena in tempo per vedere una creatura fare un altro affondo. Era
decisamente più grande di un’aquila, con il corpo lucido e nero grande quanto un labrador, e
un’apertura alare di almeno tre metri.
— Ce n’è un’altra! — indicò Frank. — Guarda là. Tre, quattro… E va bene, siamo nei guai.
Le creature volavano in cerchio sopra il treno come avvoltoi, per la felicità dei turisti.
Percy invece non era felice. I mostri avevano occhi rossi e baluginanti, becchi affilati e artigli
micidiali. Si cercò la penna in tasca. — Questi cosi hanno un’aria familiare…
— Seattle — disse Hazel. — Le amazzoni ne tenevano uno in gabbia. Sono…
Poi tutta una serie di cose accadde in un colpo solo. I freni di emergenza stridettero,
scaraventandoli in avanti. I turisti strillarono e caddero nel corridoio. I mostri piombarono giù,
infransero il soffitto di vetro della carrozza, e il treno si rovesciò deragliando.
PERCY
Percy si sentì all’improvviso senza peso.
Non vide più nulla. Zampe artigliate lo afferrarono per le braccia e lo sollevarono in aria. Sotto di
lui, le ruote del treno stridevano e il metallo si schiantava. Vetri infranti. Turisti che urlavano.
Quando gli si schiarì la vista, guardò la bestia che lo trasportava. Aveva il corpo di una pantera –
lucido, snello, nero e felino – con le ali e la testa di un’aquila. Gli occhi brillavano di una luce rosso
sangue.
Percy cercò di divincolarsi, ma le zampe anteriori del mostro gli serravano le braccia come morse
d’acciaio. Non riusciva a liberarsi né a raggiungere la spada. Si levavano sempre più in alto nel
vento gelido. Percy non aveva idea di dove il mostro lo stesse portando, ma era abbastanza certo che,
ovunque fosse, non gli sarebbe affatto piaciuto.
Urlò per la frustrazione, poi qualcosa fischiò vicino al suo orecchio. Una freccia spuntò sul collo
del mostro. La creatura stridette e mollò la presa.
Percy piombò giù, precipitò tra i rami degli alberi e atterrò con un tonfo sulla neve. Con un
gemito, alzò lo sguardo e scrutò l’enorme pino che aveva appena devastato.
Riuscì a rimettersi in piedi. Non sembrava esserci nulla di rotto. Frank era alla sua sinistra, e
abbatteva a suon di frecce le creature. Hazel gli copriva le spalle, sferrando colpi di spada a ogni
mostro che tentava di avvicinarsi, ma ce n’erano troppi, almeno una decina.
Percy sguainò Vortice. Mozzò l’ala di un mostro e lo scaraventò contro un albero, poi ne trafisse
un altro, che esplose in una nube di polvere. Ma tutte le creature sconfitte cominciavano subito a
riformarsi. — Che sono questi cosi? — gridò.
— Grifoni! — rispose Hazel. — Dobbiamo allontanarli dal treno!
Percy capì cosa intendeva. Le carrozze del treno erano capovolte, e i tetti erano infranti. I turisti
vagavano in giro scioccati. Percy non vide feriti gravi, ma i grifoni si scagliavano contro tutto ciò che
si muoveva. L’unica cosa che impediva loro di avventarsi sui mortali era un guerriero grigio e
luminescente in tuta mimetica: lo spartus di Frank.
Percy si voltò e vide che la lancia di Frank era sparita. — Hai usato l’ultima carica?
— Sì. — Frank abbatté un altro grifone nel cielo. — Dovevo aiutare i mortali. La lancia si è
appena dissolta.
Percy annuì. In parte era sollevato: non gli piaceva lo scheletro-guerriero. In parte però era anche
deluso, perché avevano un’arma in meno a disposizione. Ma non biasimava Frank: aveva fatto la
cosa giusta.
— Spostiamo la battaglia! — suggerì il figlio di Nettuno. — Allontaniamoci dai binari!
Avanzarono a fatica nella neve, colpendo e abbattendo grifoni che si riformavano dalla polvere
ogni volta che venivano uccisi.
Percy non aveva esperienza con i grifoni. Se li era sempre immaginati come grandi e nobili
animali, come leoni con le ali, ma quelle belve gli ricordavano più un branco di cacciatori micidiali,
simili a iene volanti.
A una cinquantina di metri dai binari, gli alberi cedevano il passo a una palude. Il terreno era così
spugnoso e ghiacciato che Percy ebbe la sensazione di correre sopra uno strato di plastica con le
bolle. Frank stava finendo le frecce, Hazel aveva il fiatone. Lui stesso stava rallentando la potenza
dei colpi. Si rese conto che erano ancora vivi solo perché i grifoni non stavano cercando di ucciderli.
Volevano solo prenderli e portarli da qualche altra parte. Forse ai loro nidi, pensò.
Poi inciampò su qualcosa nell’erba alta: un cerchio di metallo arrugginito grande quanto la ruota
di un trattore. Era un enorme nido d’uccello – il nido di un grifone – e il fondo era ingombro di
vecchi gioielli, un pugnale d’oro imperiale, il distintivo sbeccato di un centurione e due uova grandi
quanto zucche che sembravano d’oro massiccio.
Percy saltò nel nido e premette la spada contro un uovo. — Indietro, o lo spezzerò con la spada!
I grifoni starnazzarono infuriati. Ronzarono intorno al nido facendo schioccare i becchi, ma non
attaccarono. Hazel e Frank erano schiena contro schiena con Percy.
— I grifoni raccolgono l’oro — disse Hazel. — Ne vanno pazzi. Guardate… laggiù ci sono altri
nidi.
Frank incoccò l’ultima freccia. — Se questi sono i loro nidi, dove stavano cercando di portare
Percy? Quel mostro stava volando via.
Percy aveva ancora le braccia doloranti nei punti in cui la bestia lo aveva stretto. — Da Alcione
— intuì. — Forse lavorano per lui. Sono abbastanza intelligenti da obbedire agli ordini?
— Non lo so — rispose Hazel. — Non ho mai dovuto combatterli quando ero qui. Ho soltanto
letto qualcosa su di loro al campo.
— Punti deboli? — chiese Frank. — Ti prego, dimmi che hanno dei punti deboli.
Hazel aggrottò la fronte. — I cavalli. Odiano i cavalli… sono nemici naturali o qualcosa del
genere. Quanto vorrei che Arion fosse qui!
I grifoni stridettero. Roteavano infuriati intorno al nido, con gli occhi rossi come il fuoco.
— Ragazzi, ci sono dei resti di una legione in questo nido — disse Frank.
Percy annuì. — Lo so.
— Ciò significa che altri semidei sono morti qui o…
— Frank, andrà tutto bene — promise Percy.
Uno dei grifoni si tuffò in picchiata. Percy sollevò la spada, pronto a conficcarla nell’uovo. Il
mostro sterzò, ma gli altri grifoni cominciavano a perdere la pazienza. Percy sapeva che non sarebbe
riuscito a sostenere lo stallo ancora per molto. Scrutò i campi intorno, cercando disperatamente di
formulare un piano. A mezzo chilometro di distanza, un gigante iperboreo se ne stava seduto nel
pantano, togliendosi il fango dalle dita dei piedi con il tronco di un albero spezzato.
— Ho un’idea — annunciò d’un tratto il figlio di Nettuno. — Hazel… pensi di poter usare tutto
l’oro che c’è in questi nidi per creare un diversivo?
— Credo di sì.
— Solo per darci un minimo di vantaggio. Quando dico: “Via”, correte verso quel gigante.
Frank lo guardò a bocca aperta. — Vuoi che corriamo verso un gigante?
— Fidatevi di me — confermò Percy. — Pronti? Via!
Hazel fece scattare la mano in avanti. Da una dozzina di nidi sparsi per la palude, vari oggetti
d’oro schizzarono in aria: gioielli, armi, monete, pepite e, soprattutto, uova di grifone. I mostri
stridettero e volarono ad agguantare le uova, impazzendo per salvarle.
Il gigante non aveva ancora notato la confusione. Si stava ispezionando le dita dei piedi per
vedere se c’era ancora del fango, con il volto tranquillo e sonnolento, i baffi bianchi che
scintillavano di cristalli di ghiaccio. Intorno al collo portava una collana di oggetti pescati chissà
dove: lattine vuote, sportelli di auto, corna d’alce, attrezzatura da campeggio, perfino la tazza di un
gabinetto. Aveva dato una bella ripulita ai boschi.
Percy non avrebbe mai voluto disturbarlo, soprattutto perché questo avrebbe significato trovare
riparo sotto le sue cosce, ma non avevano molta scelta.
— Sotto! — disse agli amici. — Rannicchiatevi sotto!
Si infilarono carponi tra le enormi gambe azzurre e si appiattirono nel fango, avvicinandosi il più
possibile al perizoma del gigante. Percy cercò di respirare solo con la bocca, ma il posto non era
decisamente il più piacevole dei nascondigli.
— Qual è il piano? — sibilò Frank. — Farsi spiaccicare da un sederone blu?
— State giù — replicò Percy. — Muovetevi solo se siete costretti.
I grifoni arrivarono in un’ondata di ali, artigli e becchi furiosi, accalcandosi intorno al gigante e
cercando di infilarsi sotto le sue gambe.
Il gigante grugnì sorpreso. Si mosse. Percy dovette scansarsi rotolando per non farsi schiacciare.
L’iperboreo grugnì, un po’ più irritato. Scacciò i grifoni a manate, ma quelli starnazzarono indignati e
cominciarono a beccarlo sulle gambe e sulle mani.
— Gra? — mugghiò il gigante. — Graaaa! — Trasse un respiro profondo e soffiò un’ondata di
aria fredda. Perfino sotto la protezione delle sue gambe, Percy percepì l’improvviso calo di
temperatura. Le strida dei grifoni si fermarono bruscamente, rimpiazzati dal tud, tud, tud di oggetti
pesanti che cadevano a terra.
— Venite — disse Percy agli amici. — Ma fate piano, attenti.
Svicolarono via da sotto il gigante. Tutt’intorno, gli alberi erano rivestiti da una patina di gelo. Un
grande tratto della palude era coperto di neve fresca. I grifoni congelati sbucavano dal terreno come
bastoncini di ghiaccioli piumati, con le ali ancora spalancate, i becchi aperti, gli occhi sgranati dalla
sorpresa.
Percy e i suoi amici corsero via, cercando di tenersi alla larga dallo sguardo del gigante, ma
l’iperboreo era troppo occupato per badare a loro. Stava cercando di capire come infilarsi un grifone
congelato nella collana.
— Percy… — Hazel si asciugò le chiazze di fango e ghiaccio dal viso. — Come sapevi che il
gigante era capace di fare una cosa del genere?
— Una volta, per poco non è capitato anche a me — rispose lui. — Ma è meglio che ci
sbrighiamo. I grifoni non resteranno congelati per sempre.
PERCY
Camminarono via terra per circa un’ora, con i binari del treno in vista, ma tenendosi il più possibile
al riparo degli alberi. Una volta udirono un elicottero che volava in direzione dell’incidente
ferroviario. Due volte udirono invece le strida dei grifoni, ma sembravano molto lontane.
Doveva essere più o meno mezzanotte quando il sole finalmente tramontò. Il bosco si fece freddo.
Le stelle erano così fitte che Percy fu tentato di fermarsi ad ammirarle a bocca aperta. Poi cominciò
l’aurora boreale. Sembravano le fiammelle della stufa a gas di sua madre, pensò Percy, quando le
teneva al minimo: onde azzurrine e spettrali che si increspavano muovendosi avanti e indietro.
— Stupefacente! — commentò Frank.
— Ci sono degli orsi — disse Hazel, tendendo il braccio per indicare un paio di orsi bruni che
avanzavano con tutta calma a poche centinaia di metri di distanza, con le pellicce che scintillavano
sotto le stelle. — Non ci daranno fastidio, però è meglio fare un giro più largo.
Percy e Frank non ebbero nulla da obiettare.
Mentre continuavano a camminare, Percy ripensò a tutti i posti assurdi in cui era stato. Nessuno di
quei posti lo aveva mai lasciato senza parole come l’Alaska. Ora capiva perché fosse una terra oltre
gli dei. Ogni cosa lì era aspra e indomita. Non c’erano regole, profezie, destini… solo la natura
selvaggia e un manipolo di animali e di mostri. I mortali e i semidei venivano lì a loro rischio e
pericolo.
Percy si chiese se non fosse quello che Gea voleva: che tutto il mondo diventasse così. Forse non
sarebbe stato poi tanto male.
Ma liquidò subito quel pensiero. Gea non era una dea gentile. Percy aveva udito i suoi piani. Non
era la Madre Terra di cui si leggeva nelle fiabe. Era vendicativa e violenta. Se si fosse mai svegliata
completamente, avrebbe distrutto la civiltà umana.
Dopo un altro paio di ore, si imbatterono in un piccolo villaggio che sorgeva tra i binari e una
strada a due corsie. Il cartello ai margini della città diceva: BENVENUTI AD ALCIGRASSI . E accanto al
cancello c’era un alce in carne e ossa. Per un secondo, Percy pensò quasi che fosse una specie di
statua pubblicitaria. Poi l’animale si tuffò con quattro salti nel bosco.
Superarono un paio di case, un ufficio postale e alcune roulotte. Tutto era chiuso e spento.
All’uscita della città c’era un emporio con un tavolo da picnic e una vecchia pompa di benzina
arrugginita sul davanti.
Il negozio aveva un cartello dipinto a mano con su scritto DISTRIBUTORE DI ALCIGRASSI.
— Assurdo — commentò Frank.
Senza neanche bisogno di parlare, i ragazzi crollarono a sedere intorno al tavolo da picnic. Percy
si sentiva i piedi come due blocchi di ghiaccio molto doloranti. Hazel si mise la testa tra le mani e si
addormentò di botto, russando. Frank tirò fuori le ultime lattine e qualche barretta energetica presa in
treno e le divise con Percy.
Mangiarono in silenzio, guardando le stelle, finché Frank non disse: — Dicevi sul serio, prima?
Percy si voltò a guardarlo. — Riguardo a cosa?
Alla luce delle stelle, il volto di Frank avrebbe potuto essere di alabastro, come un’antica statua
romana. — Quando hai detto che… sei fiero che siamo parenti.
Percy tamburellò la sua barretta sul ripiano del tavolo. — Be’, vediamo. Hai fatto fuori tre
basilischi tutto da solo, mentre io me ne stavo a sorseggiare tè verde al germe di grano. Hai sconfitto
un esercito di lestrigoni per permettere al nostro aereo di decollare a Vancouver. Mi hai salvato la
vita abbattendo quel grifone. E hai sacrificato l’ultima carica della tua lancia magica per aiutare dei
mortali indifesi. Sei senza ombra di dubbio il figlio del dio della guerra più simpatico che abbia mai
conosciuto… diciamo pure l’unico. Perciò cosa credi?
Frank alzò lo sguardo sull’aurora boreale, che cuoceva ancora a fuoco basso tra le stelle. — È
solo che… dovrei essere il capo della missione, il centurione e via dicendo. E invece mi sento come
se siate voi a dover trascinare me.
— Non è vero — ribatté Percy.
— Dovrei avere questi famigerati poteri che non ho capito come usare — continuò Frank,
amareggiato. — Ora non ho più la lancia e ho quasi finito le frecce. E… ho paura.
— Sarei preoccupato se non ce l’avessi — disse Percy. — Abbiamo tutti paura.
— Ma la Festa della Fortuna è… — Frank ci rifletté. — È mezzanotte passata, giusto? La festa
comincia stasera al tramonto. E noi dobbiamo trovare il modo di arrivare al ghiacciaio di Hubbard,
sconfiggere un gigante imbattibile nel suo territorio e tornare al Campo Giove prima che venga
sopraffatto… il tutto in meno di diciotto ore.
— E quando avremo liberato Thanatos, forse reclamerà la tua vita — aggiunse Percy. — E quella
di Hazel. Credimi, ci ho pensato anch’io.
Frank scrutò Hazel, che russava ancora sommessamente, con il viso sepolto sotto una massa di
ricci castani. — È la mia migliore amica — disse. — Ho perso mia madre, mia nonna… non posso
perdere anche lei.
Percy ripensò alla propria vecchia vita: la madre, la casa a New York, il Campo Mezzosangue,
Annabeth… Aveva perso tutto per sette mesi. Perfino in quel momento, con la memoria ritrovata…
non era mai stato così lontano da casa. Era andato e tornato dagli Inferi. Aveva affrontato la morte
decine di volte. Ma seduto a quel tavolo da picnic, a migliaia di chilometri da casa, oltre la sfera di
influenza dell’Olimpo, non si era mai sentito così solo. Per fortuna c’erano Hazel e Frank, si disse.
— Non ho intenzione di perdere nessuno di voi due. Non lo permetterò — promise. — E Frank, tu sei
un capo. Hazel ti direbbe la stessa cosa. Abbiamo bisogno di te.
Il figlio di Marte chinò la testa. Sembrava perso nei propri pensieri. Alla fine si addormentò.
Cominciò a russare all’unisono con Hazel.
Percy sospirò. — Un altro magnifico discorso — si disse. — Dormi bene, Frank. Ci aspetta una
grande giornata.
All’alba, l’emporio aprì. Il proprietario fu un po’ sorpreso di trovare tre adolescenti addormentati
sul suo tavolo da picnic, ma quando Percy gli spiegò che erano finiti lì dopo l’incidente ferroviario
della sera prima, si disse dispiaciuto e offrì loro la colazione. Poi chiamò un suo amico, un inuit che
aveva una capanna vicino a Seward, e ben presto erano di nuovo in strada, a bordo di un furgoncino
scassato che doveva essere nuovo all’epoca in cui Hazel era nata.
Hazel e Frank sedevano dietro. Percy viaggiava davanti in compagnia del vecchio incartapecorito
che puzzava di salmone affumicato. L’uomo gli raccontò le storie dell’Orso e del Corvo, le divinità
inuit, e Percy si augurò soltanto di non incontrarli. Aveva già abbastanza nemici.
A pochi chilometri da Seward, il furgoncino si fermò per un guasto. Il proprietario non ne fu
sorpreso, come se la cosa gli capitasse diverse volte al giorno. Disse che potevano aspettare che lui
aggiustasse il motore; tuttavia, dato che la città ormai era vicina, i ragazzi decisero di proseguire a
piedi.
A metà mattinata, valicarono un dosso della strada e videro una piccola baia contornata di
montagne. La città era una sottile mezzaluna sulla destra della costa, con i pontili che si allungavano
nell’acqua e una nave da crociera nel porto.
Percy rabbrividì. Aveva avuto brutte esperienze con le navi da crociera.
— Seward — mormorò Hazel. Non sembrava molto felice di rivedere la vecchia casa.
Avevano già perso un sacco di tempo, e a Percy non piaceva la velocità a cui il sole stava
sorgendo. La strada segnava il contorno della collina, ma tagliare per i campi sembrava la via più
veloce. Abbandonò la strada e disse: — Andiamo.
Il suolo era viscido, ma lui non ci fece molto caso finché Hazel non gridò: — Percy, no!
Il figlio di Nettuno si infilò dritto dentro il terreno. Affondò come un sasso finché la terra non si
chiuse sopra la sua testa, e lo inghiottì.
HAZEL
— Il tuo arco! — gridò Hazel.
Frank non fece domande. Mollò lo zaino a terra e si sfilò l’arco dalla spalla.
Hazel aveva il cuore a mille. Non ripensava a quel terreno paludoso – il muskeg – da prima della
sua morte. In quel momento, troppo tardi, ricordò i severi avvertimenti che la gente del posto le
aveva dato. Il limo e le piante decomposte della palude formavano una superficie che sembrava
solida in tutto e per tutto, ma che in realtà era perfino peggio delle sabbie mobili. Si poteva
sprofondare per oltre sei metri ed era impossibile uscirne.
Cercò di non pensare a cosa sarebbe successo se fosse stato più profondo della lunghezza
dell’arco. — Tienilo a un’estremità — ordinò a Frank. — E non lasciare mai la presa. — Lei afferrò
l’altro capo, trasse un bel respiro e saltò nella palude. La terra si richiuse sopra la sua testa.
In un attimo, Hazel si ritrovò bloccata in un ricordo. “Ora no!” avrebbe avuto voglia di gridare.
“Ella aveva detto che avevo chiuso con i blackout!”
“Oh, ma mia cara” replicò la voce di Gea. “Questo non è uno dei tuoi blackout. Questo è un mio
regalo.”
Hazel era di nuovo a New Orleans. Lei e sua madre erano sedute in un parco vicino al loro
appartamento, stavano facendo colazione sull’erba. Ricordava quel giorno. Aveva sette anni. Regina
Marie aveva appena venduto la sua prima pietra preziosa: un piccolo diamante. Nessuna delle due si
era ancora resa conto della maledizione di Hazel.
Regina Marie era di ottimo umore. Aveva acquistato succo d’arancia per la figlia e champagne
per sé, e dei bignè di cioccolato e zucchero a velo. Aveva perfino comprato a Hazel una nuova
scatola di matite colorate e un album da disegno. Sedevano vicine, Regina Marie canticchiava allegra
mentre Hazel disegnava.
Il Quartiere Francese si svegliò intorno a loro, pronto per il Mardi Gras. Le jazz band si davano
da fare con le prove. I carri venivano decorati con fiori freschi. I bambini si inseguivano ridendo,
carichi di così tante collane colorate da muoversi a fatica. L’alba tingeva il cielo di riflessi d’oro
rosso, e l’aria umida e calda profumava di rose e di magnolie.
Era stato il mattino più felice della vita di Hazel.
— Potresti restare qui. — Regina Marie sorrise, ma i suoi occhi erano bianchi e vuoti. La voce
era quella di Gea.
— È tutto finto — disse Hazel. Cercò di alzarsi, ma l’erba soffice del prato la faceva sentire pigra
e assonnata. Il profumo del pane fresco e del cioccolato fuso era inebriante. Era il mattino del Mardi
Gras, e il mondo sembrava pieno di possibilità. Hazel riusciva quasi a credere di avere un futuro
brillante.
— Che cos’è reale? — ribatté Gea, parlando col volto di sua madre. — La tua seconda vita è
reale, Hazel? Dovresti essere morta. Stai affondando in una palude, stai soffocando… è reale,
questo?
— Lasciami aiutare il mio amico! — Hazel cercò di costringersi a tornare alla realtà. Riusciva a
immaginare la propria mano stretta all’estremità dell’arco, ma anche questo stava cominciando ad
appannarsi. Stava allentando la presa. Il profumo delle rose e delle magnolie soggiogava tutto.
Regina Marie le offrì un bignè.
“No” pensò Hazel. “Questa non è mia madre. È Gea che sta cercando di ingannarmi.”
— Tu vuoi riavere la tua vita — disse Gea. — E io posso ridartela. Questo momento può durare
per anni. Puoi crescere a New Orleans, e tua madre ti adorerà. Non dovrai mai affrontare il peso
della tua maledizione. Potrai stare con Sammy…
— È un’illusione! — esclamò Hazel, soffocando per il profumo dolciastro e intenso dei fiori.
— Tu sei un’illusione, Hazel Levesque. Sei stata riportata in vita solo perché gli dei hanno un
compito per te. Anch’io avrei potuto usarti, ma l’ha fatto Nico al posto mio, e ti ha mentito. Dovresti
essere felice che io lo abbia catturato.
— Catturato? — Hazel si sentì assalire dal panico.
Gea sorrise, sorseggiando il suo champagne. — Il ragazzo non avrebbe mai dovuto mettersi a
cercare le Porte. Ma non importa, la cosa non ti riguarda. Quando avrai liberato Thanatos, tornerai a
marcire negli Inferi per l’eternità. Frank e Percy non lo impediranno. Dei veri amici ti chiederebbero
mai di rinunciare alla tua vita? Dimmi chi è che mente, ora, e chi dice la verità.
Hazel cominciò a piangere. Si sentì invadere dall’amarezza. Aveva perso la vita già una volta.
Non voleva morire di nuovo.
— Esatto — confermò Gea, con voce melliflua. — Eri destinata a sposare Sammy. Sai che cosa
gli è successo dopo che sei morta in Alaska? È cresciuto e si è trasferito in Texas. Si è sposato e ha
messo su famiglia. Ma non ti ha mai dimenticato. Si è sempre chiesto che fine avessi fatto. È morto –
un attacco di cuore – negli anni Sessanta. Il pensiero della vita che avreste potuto avere insieme l’ha
sempre tormentato.
— Basta! — gridò Hazel. — Sei stata tu a portarmela via!
— E ora puoi riaverla — ribatté Gea. — Sei stretta nel mio abbraccio, Hazel. Morirai comunque.
Se ti arrendi, almeno posso fare in modo che sia piacevole. Dimentica Percy Jackson. Non puoi
salvarlo, appartiene a me; lo terrò al sicuro nella terra finché non sarò pronta a usarlo. Tu potrai
avere una vita intera nei tuoi ultimi istanti… potrai crescere, sposare Sammy. Non devi fare altro che
lasciarti andare.
Hazel strinse la presa sull’arco. Qualcosa l’afferrò per le caviglie, ma lei non si spaventò. Sapeva
che era Percy, che stava soffocando e si aggrappava disperatamente alla vita. Hazel scoccò alla dea
un’occhiata fulminante. — Non collaborerò mai con te! Lasciaci andare!
Il volto di Regina Marie scomparve. Il mattino di New Orleans si dissolse nell’oscurità.
Hazel stava annegando nel fango, con una mano sull’arco, le mani di Percy intorno alle caviglie,
giù, giù, nelle tenebre. Agitò più che poteva l’estremità dell’arco. Frank la tirò su con forza tale da
slogarle quasi il braccio.
Quando aprì gli occhi, Hazel era distesa nell’erba, coperta di melma. Percy giaceva scomposto ai
suoi piedi, tossiva e sputava fango.
Frank aleggiava sopra di loro, urlando: — Oh, dei! Oh, dei! — Tirò fuori dei vestiti puliti dallo
zaino e cominciò a strofinare la faccia di Hazel, ma con scarsi risultati. Allontanò Percy di peso
dalla palude. — Siete rimasti là sotto per un’eternità! — gridò. — Non pensavo che… oh, dei, non
fatemi mai più una cosa del genere! — Strinse Hazel in un grande abbraccio.
— Non… respiro — mormorò lei, senza fiato.
— Scusa! — Frank riprese a pulirli. Alla fine riuscì a trascinarli sul ciglio della strada, dove si
sedettero a rabbrividire e sputare fango.
Hazel non si sentiva più le mani, forse per il freddo o per lo shock, non lo sapeva. Riuscì
comunque a spiegare la faccenda del muskeg e a raccontare la visione che aveva avuto mentre era
sotto. Tralasciò la parte di Sammy – le faceva ancora troppo male per parlarne ad alta voce – ma gli
raccontò dell’offerta di Gea di una vita falsa e della sua dichiarazione di avere catturato Nico. Non
poteva tenerselo per sé, o la disperazione l’avrebbe sopraffatta.
— Mi… mi hai salvato, Hazel. — Percy si strofinò le spalle. Aveva le labbra blu. — Scopriremo
cos’è successo a Nico, te lo prometto.
Hazel socchiuse gli occhi al sole, ora alto nel cielo. Il calore era una bella sensazione, ma non
servì a farla smettere di tremare. — Non vi sembra che Gea ci abbia lasciati andare troppo
facilmente?
Percy si staccò un pezzo di fango dai capelli. — Forse vuole ancora usarci come pedine. Magari
ha detto quelle cose solo per confonderti.
— Sapeva cosa dire — concordò Hazel. — Sa come prendermi.
Frank le mise il giubbotto sulle spalle. — Questa è la vita reale. Lo sai, vero? Non ti lasceremo
morire di nuovo.
Hazel non volle controbattere, ma si chiese come Frank avrebbe potuto fermare la Morte. Si portò
una mano sulla tasca del giubbotto, dove il pezzo di legno mezzo bruciato era ancora sano e salvo nel
suo involto. Si domandò cosa sarebbe successo se fosse rimasta bloccata nel fango per sempre. Forse
così si sarebbe salvato. Il fuoco non avrebbe mai potuto avvicinarsi al legno, là sotto.
Avrebbe compiuto qualunque sacrificio per tenere Frank al sicuro. Forse non se n’era mai resa
conto con tanta forza come in quel momento, ma lui le aveva affidato la propria vita. Credeva in lei.
E lei non sopportava neppure l’idea che qualcosa potesse fargli del male.
Guardò il sole alto… Il tempo a loro disposizione stava scadendo. Pensò a Hylla, la regina delle
amazzoni. Il duello con Otrera era durato per due notti di fila, ormai, ammesso che fosse ancora viva.
Contava su di lei, sulla liberazione di Thanatos.
Hazel riuscì a rimettersi in piedi. Il vento che soffiava dalla Resurrection Bay era freddo come lo
ricordava. — Dobbiamo andare. Stiamo perdendo tempo.
Percy seguì con lo sguardo la strada. Le labbra gli stavano tornando del colore normale. — Ci
sarà un albergo dove possiamo andare a darci una ripulita? Un posto in cui accettano la gente coperta
di fango…
— Non lo so — ammise Hazel. Guardò la città in lontananza senza riuscire a credere a quanto
fosse cresciuta dal 1942. Il porto principale si era spostato verso est con l’espansione del centro
urbano. La maggior parte degli edifici era nuova, ma la griglia di strade del centro aveva ancora
un’aria familiare. Pensò di riconoscere alcuni magazzini lungo la costa. — Forse so qual è il posto
giusto.
HAZEL
Appena arrivarono in città, Hazel seguì lo stesso tragitto che aveva fatto settant’anni prima, l’ultima
notte della sua vita, quando era tornata a casa dalle colline e non aveva trovato sua madre.
Condusse gli amici lungo la Terza Avenue. La stazione dei treni era sempre là. L’edificio bianco a
due piani del Seward Hotel ospitava ancora l’albergo, anche se era grande il doppio. Valutarono se
fermarsi, ma Hazel pensò che non fosse una buona idea presentarsi nell’atrio coperti di fango, e poi
dubitava che avrebbero dato una stanza a tre minorenni.
Si diressero verso la costa. Hazel non riusciva a crederci, ma la sua vecchia casa c’era ancora,
sospesa sull’oceano, sui piloni incrostati di molluschi. Il tetto sembrava sul punto di cedere. I muri
erano pieni di buchi, come fori di proiettile. La porta era sbarrata con delle assi, e un cartello dipinto
a mano diceva: STANZE – MAGAZZINO – DISPONIBILI.
— Andiamo — disse la ragazza.
— Ehm… sicura che sia stabile? — chiese Frank.
Hazel trovò una finestra aperta e si arrampicò dentro; gli altri la seguirono. La stanza non veniva
usata da molto tempo. Camminando sollevarono la polvere, che roteò nei raggi di luce provenienti
dai fori di proiettile. Scatoloni ammuffiti erano impilati lungo le pareti. Sulle etichette scolorite c’era
scritto: BIGLIETTI D’AUGURI ASSORTITI . Il motivo per cui centinaia di scatoloni di biglietti d’auguri
fossero finiti a marcire in un magazzino in Alaska per Hazel era un mistero, ma le sembrò uno
scherzo crudele: come se quei biglietti fossero per tutte le feste che non era mai riuscita a celebrare:
decenni di Natali, Pasque, compleanni, giorni di San Valentino…
— Almeno, qui dentro fa più caldo — disse Frank. — Non credo ci sia l’acqua corrente. Però
forse posso andare a comprare qualcosa, non sono infangato quanto voi. Potrei procurarvi dei vestiti.
Hazel quasi non lo sentì. Si arrampicò su una pila di scatoloni nell’angolo che un tempo era stato
la sua camera. Addossato alla parete c’era un vecchio cartello: FORNITURE PER CERCATORI D’ORO .
Pensò che dietro ci fosse soltanto un muro spoglio, ma, quando lo spostò, la maggior parte delle sue
foto e dei suoi disegni era ancora là. Il cartello probabilmente li aveva protetti dalla luce e dagli
elementi. Non sembravano invecchiati. I disegni di New Orleans con le matite colorate parevano così
infantili. Davvero li aveva fatti lei? Sua madre la guardava da una fotografia, sorridendo di fronte
all’insegna della sua attività: GRIS-GRIS DI REGINA MARIE – SI VENDONO AMULETI, SI PREDICE LA SORTE.
Accanto a quella c’era una foto di Sammy durante il carnevale. Un attimo fermo nel tempo, lui con
il suo largo sorriso, i capelli ricci e neri e quegli occhi stupendi. Se Gea diceva la verità, Sammy era
morto da più di quarant’anni. Era vero che aveva continuato sempre a pensare a lei? O aveva
dimenticato la strana ragazza con cui andava a cavalcare, quella con cui aveva condiviso un solo
bacio e un pasticcino e che poi era scomparsa per sempre?
Frank avvicinò le dita alla foto. — Chi…? — Poi si accorse che lei stava piangendo e soffocò la
domanda. — Scusami, Hazel. Dev’essere molto difficile per te. Vuoi stare un po’ da…?
— No — lo interruppe lei, con voce roca. — No, va tutto bene.
— Quella è tua madre? — Percy indicò la foto di Regina Marie. — Ti somiglia. È molto bella. —
Poi studiò la foto di Sammy. — Lui chi è?
Hazel non capiva perché Percy avesse quella strana espressione. — Lui è… Sammy. È… ehm…
era un mio amico di New Orleans. — Si sforzò di non guardare Frank.
— L’ho già visto — disse Percy.
— Impossibile — replicò lei. — Quella foto è del 1941. Probabilmente è… morto, ormai.
Percy aggrottò la fronte. — Eppure… — Scosse la testa, come se il pensiero lo turbasse troppo.
Frank si schiarì la voce. — Sentite, siamo passati davanti a un negozio, nell’ultimo quartiere.
Abbiamo ancora un po’ di soldi. Forse dovrei andare a prendervi qualcosa da mangiare, dei vestiti
e… non so… un centinaio di pacchetti di salviette umidificate?
Hazel rimise il cartello sopra i suoi ricordi. Si sentiva in colpa a guardare quella vecchia foto di
Sammy, con Frank che era così dolce e servizievole. Non le faceva affatto bene pensare alla sua
vecchia vita. — Sarebbe fantastico — disse. — Sei il migliore, Frank.
Le assi del pavimento cigolarono sotto i piedi del figlio di Marte. — Be’… diciamo che sono
l’unico a non essere coperto di fango dalla testa ai piedi. Torno subito.
Quando se ne fu andato, Percy e Hazel si sistemarono alla meglio. Si tolsero i giubbotti e
cercarono di grattarsi via il fango. Trovarono delle vecchie coperte in una cassa e le usarono per
pulirsi. Scoprirono che gli scatoloni di biglietti d’auguri erano degli ottimi materassi, disposti nel
modo giusto.
Percy posò a terra la spada, che brillava con il suo lieve bagliore di bronzo. Poi si distese su un
letto di “Buon Natale 1982”. — Grazie per avermi salvato. Avrei dovuto dirtelo prima.
Hazel si strinse nelle spalle. — Tu avresti fatto lo stesso per me.
— Sì — confermò lui. — Ma, quando ero giù nel fango, ho ripensato al verso della profezia di
Ella, quello sul figlio di Nettuno che affoga. E ho pensato: “Ecco cosa voleva dire. Sto affogando
nella terra.” Mi sentivo spacciato.
Gli tremava la voce come quel primo giorno al Campo Giove, quando Hazel gli aveva mostrato il
tempio di Nettuno. All’epoca lei si era chiesta se Percy fosse la risposta ai suoi problemi, il
discendente di Nettuno che un giorno l’avrebbe liberata dalla maledizione, come Plutone aveva
promesso. Percy era sembrato così autorevole e potente, un vero eroe.
Ma ormai Hazel sapeva che pure Frank era un discendente di Nettuno. E, anche se non sembrava
l’eroe più strabiliante del mondo, le aveva affidato la propria vita. Faceva l’impossibile per
proteggerla. Perfino la sua goffaggine le era cara.
Non si era mai sentita più confusa e, considerato che era confusa da una vita, non era poco. —
Percy, forse quella profezia non era completa — disse. — Frank pensa che Ella stesse ricordando
una pagina bruciata. Forse sarai tu a far affogare qualcun altro.
— Lo credi davvero?
Hazel si sentì strana a rincuorarlo. Era più grande di lei, e così autorevole. Ma annuì sicura. —
Tornerai a casa, ci riuscirai. Rivedrai la tua ragazza, Annabeth.
— Anche tu ce la farai, Hazel — insistette lui. — Non permetteremo che ti succeda nulla. Sei
troppo preziosa per me, per il campo, e soprattutto per Frank.
Hazel raccolse un vecchio biglietto di San Valentino. Il cartoncino bianco, leggerissimo, le si si
sgretolò tra le mani. — Io non appartengo a questo secolo. Nico mi ha riportata in vita solo perché
potessi correggere i miei errori e magari guadagnarmi l’Elisio.
— Ma c’è molto altro nel tuo destino — ribatté Percy. — Dobbiamo combattere insieme contro
Gea. Avrò bisogno di averti al mio fianco ancora per molto, non solo oggi. E Frank… lo sai
benissimo che è pazzo di te. Vale la pena combattere per questa vita, Hazel.
Lei chiuse gli occhi. — Ti prego, non darmi false speranze. Io non posso…
All’improvviso la finestra si aprì con un cigolio ed entrò Frank, con due borse della spesa. —
Vittoria! — Mostrò i suoi trofei. In un negozio di caccia, si era procurato una nuova faretra piena di
frecce, alcune razioni di cibo e un rotolo di corda. — Per la prossima volta che capitiamo in una
palude — disse, sorridendo. Al negozio di souvenir invece aveva comprato tre cambi di vestiti,
asciugamani, sapone, alcune bottiglie d’acqua e un enorme pacco di salviette umidificate.
Non era precisamente una doccia calda, ma Hazel si infilò dietro una pila di scatoloni e si diede
una ripulita. Poco dopo si sentì molto meglio. “Questo è il tuo ultimo giorno” rammentò a se stessa.
“Non ti viziare troppo.”
La Festa della Fortuna – qualunque fosse stata la sorte di quel giorno, buona o cattiva – avrebbe
segnato tutto l’anno a venire. In un modo o nell’altro, la loro eroica impresa sarebbe finita quella
sera.
Hazel infilò il pezzo di legno nella tasca del giubbotto nuovo. In qualche modo, doveva
assicurarsi che fosse al sicuro, qualsiasi cosa fosse accaduta a lei. Poteva sopportare la propria
morte fintantoché gli amici sopravvivevano. — Allora, andiamo a cercare una barca per raggiungere
il ghiacciaio di Hubbard! — Cercò di assumere un tono deciso, ma non era facile. Quanto avrebbe
voluto che Arion fosse ancora con lei! Avrebbe di gran lunga preferito lanciarsi in battaglia in
groppa a quel bellissimo cavallo. Da quando erano partiti da Vancouver continuava a chiamarlo col
pensiero, sperando che la sentisse e riuscisse a trovarla… ma era solo un pio desiderio.
Frank si accarezzò la pancia. — Se dobbiamo affrontare una battaglia mortale, prima voglio
pranzare. Ho trovato un posto perfetto.
Il figlio di Marte li portò in un centro commerciale vicino al molo, dove un vecchio vagone
ferroviario era stato convertito in tavola calda.
Hazel non aveva ricordi di quel posto negli anni Quaranta, ma la roba da mangiare aveva un
profumo fantastico. Mentre Frank e Percy ordinavano, lei andò a informarsi ai pontili. Tornò molto
abbattuta. Nemmeno i cheeseburger e le patatine servirono a tirarle su il morale. — Siamo nei guai
— annunciò. — Ho cercato di procurarmi una barca. Ma… ho fatto male i conti.
— Non ci sono barche? — chiese Frank.
— Oh, le barche ci sono, sì. Ma il ghiacciaio è più lontano di quanto pensassi. Anche alla
massima velocità, non riusciremmo ad arrivare prima di domani mattina.
Percy impallidì. — Forse potrei farla andare più veloce?
— Anche se tu ci riuscissi, da quanto mi hanno detto i marinai, questo braccio di mare è molto
pericoloso: ci sono iceberg, labirinti di canali da navigare. Bisogna conoscere molto bene la rotta.
— Un aereo, allora? — propose Frank.
Hazel scosse la testa. — Mi hanno detto che possiamo provarci, ma l’aeroporto qui è molto
piccolo. I voli vanno noleggiati con due, tre settimane di anticipo.
Dopo quell’ultima informazione mangiarono in silenzio. Il cheeseburger era ottimo, ma Hazel non
riuscì a concentrarsi sul cibo. Aveva preso sì e no tre bocconi quando un corvo si appostò sul palo
del telefono e si mise a gracchiare verso di loro.
Hazel rabbrividì. Temeva che le rivolgesse di nuovo la parola come l’altro corvo, tanti anni
prima: «Ultima notte. Stanotte.» Si chiese se i corvi comparissero sempre ai figli di Plutone prima
della loro morte. Sperò che Nico fosse ancora vivo, e che Gea le avesse solo mentito per turbarla.
Ma aveva la brutta sensazione che la dea stesse dicendo la verità.
Fissò il cheeseburger, mesta.
All’improvviso, il gracchiare del corvo si trasformò in uno strido soffocato.
Frank si alzò così di scatto che per poco non rovesciò il tavolo da picnic. Percy estrasse la spada.
Hazel seguì la direzione del loro sguardo. Appollaiato sul palo dove fino a un attimo prima c’era
il corvo, un brutto grifone, enorme, li guardava con occhi maligni. Ruttò, e piume di corvo gli
volarono fuori dal becco.
Hazel si alzò e sguainò la spatha.
Frank incoccò una freccia. Prese la mira, ma il grifone stridette così forte che il suono riecheggiò
sulle montagne. Il ragazzo trasalì, e mancò il colpo.
— Credo che abbia chiamato rinforzi — disse Percy. — Dobbiamo andarcene di qui.
Senza un piano preciso, corsero verso il molo. Il grifone si tuffò al loro inseguimento. Percy
cercava di scacciarlo con la spada, ma il mostro deviava sempre fuori dalla sua portata.
Imboccarono i gradini del primo pontile e corsero fino al bordo. Il grifone li inseguì con gli artigli
sguainati, pronto ad afferrare la preda.
Hazel sollevò la spada, ma un muro di acqua gelata investì il mostro e lo trascinò via nella baia.
Starnazzando e sbattendo le ali, il grifone riuscì ad arrampicarsi sul pontile, dove si scrollò la
pelliccia come un cane bagnato.
— Bel colpo, Percy — esclamò Frank.
— Non ero sicuro di riuscirci qui in Alaska — replicò lui. — Ma ci sono brutte notizie. Guardate
laggiù!
A poco più di un chilometro di distanza, sopra le montagne, turbinava una nuvola nera: un intero
stormo di grifoni, a decine. Non sarebbero mai riusciti a sconfiggerli tutti, e non esisteva barca
capace di portarli via abbastanza in fretta.
Frank incoccò un’altra freccia. — Non me ne vado senza combattere.
Percy sollevò Vortice. — Ben detto.
All’improvviso Hazel udì un suono in lontananza, come il nitrito di un cavallo. Forse era solo la
sua immaginazione, ma comunque gridò come una disperata: — Arion! Quaggiù!
Un turbine sfocato di colore bruno percorse la strada e arrivò sul pontile in un istante. La stallone
si materializzò proprio alla destra del grifone e atterrò con gli zoccoli anteriori sul mostro,
riducendolo in polvere.
Hazel non era mai stata così felice in vita sua. — Bravo cavallo! Bravissimo!
Frank indietreggiò per lo spavento e per poco non cadde in acqua. — Ma come ha…?
— Mi ha seguito! — Hazel era raggiante. — Perché è il cavallo migliore del mondo! Tutti in
groppa, forza!
— Tutti e tre? — replicò Percy. — Dici che ce la fa?
Arion nitrì indignato.
— E va bene, non c’è bisogno di essere scortesi — disse il figlio di Nettuno.
Salirono in groppa, Hazel davanti, Frank e Percy in equilibrio precario alle sue spalle. Frank le
mise le braccia intorno alla vita, e Hazel pensò che se quello doveva essere il suo ultimo giorno sulla
terra… be’, non era un brutto modo di andarsene.
— Corri Arion! — gridò la ragazza. — Al ghiacciaio di Hubbard!
Il cavallo si lanciò come un razzo sul mare, con gli zoccoli che tramutavano in vapore la
superficie dell’acqua.
HAZEL
Cavalcando Arion, Hazel si sentiva potente, inarrestabile, con il controllo più assoluto: la
combinazione perfetta tra un cavallo e un essere umano. Si chiese se non fosse così che si sentivano i
centauri.
A Seward, i marinai le avevano spiegato che il ghiacciaio di Hubbard distava trenta miglia
nautiche, e che era un viaggio difficile e pericoloso, ma Arion non ebbe il minimo problema. Correva
sul pelo dell’acqua alla velocità della luce, riscaldando l’aria intorno tanto che Hazel non soffrì
neppure il freddo. A piedi, non si sarebbe mai sentita così audace; a cavallo, non vedeva l’ora di
combattere.
Frank e Percy non sembravano altrettanto felici. Quando Hazel si lanciò un’occhiata alle spalle,
vide che avevano i denti stretti e le pupille fuori dalle orbite. Le guance di Frank tremavano per
effetto della velocità. Percy era seduto in fondo e si reggeva forte, cercando disperatamente di non
scivolare giù dalla groppa. Hazel sperò che non cadesse; per come Arion sfrecciava, lei non avrebbe
notato la scomparsa dell’amico per almeno cinquanta chilometri.
Superarono stretti gelati, fiordi azzurri, scogliere con cascate che si riversavano nel mare. Arion
scavalcò con un balzo una megattera appena emersa in superficie e continuò a galoppare,
spaventando un branco di foche su un iceberg.
Una manciata di minuti, e si ritrovarono a sfrecciare in una baia stretta. L’acqua assunse la
consistenza di una densa granita sciroppata. Arion si fermò su una lastra di ghiaccio turchese.
A poco più di cinquecento metri di distanza si ergeva il ghiacciaio di Hubbard. Perfino Hazel, che
aveva già visto altri ghiacciai, fece fatica a metabolizzare quello che avevano di fronte. Montagne
dalle cime innevate si estendevano in entrambe le direzioni, circondate da nuvole sui fianchi, come
morbide cinture. In un’immensa vallata tra due dei picchi più alti, una parete scoscesa di ghiaccio si
innalzava dal mare, riempiendo l’intera forra. Il ghiacciaio era azzurro e bianco con striature nere,
come il bordo di neve sporca lasciato su un marciapiede dopo il passaggio dello spazzaneve, solo
che era grande quattro milioni di volte tanto.
Non appena Arion si fermò, Hazel sentì la temperatura precipitare. Tutto quel ghiaccio emanava
ondate di freddo, trasformando la baia nel congelatore più grande del mondo. La cosa più surreale e
inquietante di tutte era un vago rumore di tuono che scivolava sull’acqua.
— Che cos’è? — Frank lanciò uno sguardo alle nuvole sopra il ghiacciaio. — Un temporale?
— No — rispose Hazel. — È il ghiaccio che si spacca e si muove. Milioni di tonnellate di
ghiaccio.
— Vuoi dire che questo affare si sta rompendo?
Per tutta risposta, una lastra di ghiaccio si staccò silenziosamente dal fianco del ghiacciaio e si
schiantò in mare, spruzzando in aria acqua e schegge gelate, molto in alto. Un millesimo di secondo
dopo, il suono li raggiunse: un potentissimo BUM!… violento quasi quanto lo schianto di Arion che
abbatteva la barriera del suono.
— Non possiamo avvicinarci a quell’affare! — esclamò Frank.
— Dobbiamo — replicò Percy. — Il gigante è lassù in cima.
Arion nitrì piano.
— Cavoli, Hazel… di’ al tuo cavallo di moderare il linguaggio — disse il figlio di Nettuno.
Hazel si sforzò di non ridere. — Che cos’ha detto?
— Parolacce escluse? Ha detto che può portarci in cima.
Frank fece una faccia incredula. — Pensavo che non sapesse volare!
Stavolta Arion nitrì con una tale furia che perfino Hazel intuì che stava imprecando.
— Mi hanno sospeso per molto meno — osservò Percy, sorridendo. — Hazel, Arion giura che
vedrai quello di cui è capace non appena gli darai l’ordine.
— Ehm… okay, allora… Tenetevi forte, ragazzi — replicò Hazel, un po’ nervosa. — Arion, vai!
Il cavallo si lanciò in avanti come un missile in fuga, sfrecciando diritto sopra la poltiglia gelata
come se volesse sfidare quella montagna di ghiaccio a una prova di coraggio.
L’aria si raffreddò. Il rumore del ghiaccio che si spaccava si fece più forte. Più Arion si
avvicinava, più il ghiacciaio si stagliava immenso e minaccioso, e Hazel aveva le vertigini soltanto
per lo sforzo di guardarlo. Il fianco era percorso di crepacci e grotte, irto di creste frastagliate come
lame di asce. Perdeva continuamente pezzi, alcuni non più grandi di palle di neve, altri delle
dimensioni di una casa.
Quando furono a una cinquantina di metri dalla base, un rombo di tuono fece tremare le ossa di
Hazel, e una coltre di ghiaccio capace di seppellire l’intero Campo Giove si staccò e cadde verso di
loro.
— Attenti! — urlò Frank, cosa che a Hazel sembrò piuttosto inutile.
Arion l’aveva preceduto. Con un ulteriore slancio di velocità, avanzò schivando i detriti, balzando
sui pezzi di ghiaccio e arrampicandosi lungo la parete del ghiacciaio.
Percy e Frank imprecarono e si tennero più forte che potevano, mentre Hazel avvolgeva le braccia
intorno al collo di Arion. In qualche modo, riuscirono a non cadere mentre il cavallo scalava la
scogliera, saltando di appiglio in appiglio con una velocità e un’agilità incredibili. Era come
precipitare giù da una montagna, ma in senso inverso.
Poi all’improvviso finì. Arion si ergeva immobile e fiero in cima a un crinale di ghiaccio che si
stagliava sul vuoto. Il mare era a cento metri di distanza, ai loro piedi.
Arion nitrì una sfida che riecheggiò per tutte le montagne. Percy non la tradusse, ma Hazel era
piuttosto certa che avesse appena gridato a qualunque altro cavallo presente nella baia: “Provate a
battermi, pivelli!” Poi Arion si voltò e corse verso la terraferma sulla cima del ghiacciaio,
scavalcando un baratro di quindici metri.
— Laggiù! — indicò Percy.
Il cavallo si fermò. Dinanzi a loro si ergeva un campo romano simile a una gigantesca e spettrale
replica del Campo Giove. Le trincee erano irte di picche di ghiaccio. I bastioni fatti di mattoni di
neve erano di un candore accecante. Appesi alle torri di guardia, stendardi di stoffa azzurra e gelata
scintillavano al sole dell’artico.
Non c’erano segni di vita. I cancelli d’ingresso erano spalancati. Nessuna sentinella pattugliava le
mura. Eppure Hazel aveva lo stomaco stretto. Ricordava la grotta nella Resurrection Bay, dove
aveva lavorato per risvegliare Alcione, con quella sensazione opprimente di malvagità e il bum,
bum, bum costante, come il battito del cuore di Gea. Quel posto era simile, lo sentiva, come se la
terra stesse cercando di svegliarsi e consumare tutto, come se le montagne intorno volessero
schiacciarli e ridurre l’intero ghiacciaio in pezzi.
Arion fece qualche passo al trotto, ombroso.
— Frank, che ne dici se da qui in avanti andiamo a piedi? — suggerì Percy.
Il figlio di Marte tirò un sospiro di sollievo. — Pensavo che non me lo avresti mai chiesto.
Smontarono e si mossero un po’ intorno, esitanti. Il ghiaccio sembrava stabile, coperto di un lieve
strato di neve che lo rendeva meno scivoloso.
Hazel ordinò ad Arion di avanzare. Percy e Frank camminavano al suo fianco, spada e arco alla
mano. Si avvicinarono ai cancelli senza incontrare ostacoli. Hazel era addestrata a individuare
fossati, tagliole, lacci nascosti e ogni altro genere di trappola che le legioni romane avevano
incontrato per secoli in territorio nemico, ma non vide nulla tranne gli stendardi semicongelati che
crepitavano al vento.
Riusciva a seguire con lo sguardo tutta la Via Praetoria. All’incrocio, di fronte ai Principia fatti
di mattoni di neve, si ergeva una figura alta, avvolta in vesti scure, stretta in catene di ghiaccio. —
Thanatos… — mormorò. Sentì che la propria anima veniva richiamata in avanti, attratta dalla Morte
come cenere da un aspirapolvere. Non vide più nulla. Rischiò quasi di cadere da Arion, ma Frank la
prese in tempo e la spinse su.
— Ci siamo noi — promise il figlio di Marte. — Nessuno ti porterà via.
Hazel si aggrappò alla sua mano. Non voleva mollare. Frank era così solido, così rassicurante, ma
non poteva proteggerla dalla Morte. Anche la sua vita era fragile, come un pezzo di legno bruciato.
— Sto bene — mentì.
Percy si guardava intorno, inquieto. — Niente difese? Nessun gigante? Dev’essere una trappola.
— È ovvio — concordò Frank. — Ma non credo che abbiamo scelta.
Prima che potesse cambiare idea, Hazel ordinò ad Arion di attraversare i cancelli.
La disposizione del campo era così familiare – gli alloggi delle coorti, le terme, l’armeria – una
copia esatta del Campo Giove, solo grande tre volte tanto. Perfino a cavallo, Hazel si sentiva
minuscola e insignificante, come se stessero attraversando una città modello costruita dagli dei.
Si fermarono a tre metri dalla figura vestita di scuro.
Hazel avvertì l’urgenza fortissima di concludere la missione. Sapeva di essere più in pericolo di
quando aveva combattuto contro le amazzoni o scacciato i grifoni o scalato il ghiacciaio sulla groppa
di Arion. D’istinto, sapeva che sarebbe bastato un solo tocco di Thanatos e sarebbe morta. Ma aveva
anche la sensazione che, se non avesse portato a termine quell’impresa eroica, se non avesse
affrontato il suo destino con coraggio, sarebbe morta comunque, ma da fallita e codarda. I giudici
degli Inferi non le avrebbero mostrato clemenza una seconda volta.
Arion si muoveva avanti e indietro, percependo la sua inquietudine.
— Ehm… salve! — Hazel si costrinse a parlare. — Lei è il signor Thanatos?
La figura incappucciata sollevò la testa.
E, in un istante, tutto il campo prese vita. Figure in armatura romana emersero dagli alloggi, dai
Principia, dall’armeria e dalla mensa, solo che non erano umani. Erano ombre, gli spettri loquaci
con i quali Hazel era vissuta per decenni nelle Praterie degli Asfodeli. I loro corpi erano poco più
che soffi di vapore nero, eppure riuscivano a tenere insieme intere armature, con tanto di schinieri ed
elmi. Spade ricoperte di gelo pendevano alle cinture. Pila e scudi scheggiati fluttuavano nelle loro
mani di fumo. I pennacchi sugli elmi dei centurioni erano gelati e sgualciti. La maggior parte delle
ombre era a piedi, ma due soldati proruppero dalle stalle con una biga d’oro trainata da stalloni neri
e spettrali.
Quando Arion vide quei cavalli, batté gli zoccoli a terra.
Frank strinse forte il suo arco. — Ecco la trappola!
HAZEL
I fantasmi formarono i ranghi e accerchiarono i tre semidei. Erano un centinaio in tutto, non un’intera
legione, ma più di una coorte. Alcuni portavano gli stendardi stracciati con lo stemma del fulmine
della Quinta Coorte, Dodicesima Legione: la spedizione fallita di Michael Varus negli anni Ottanta.
Altri avevano stendardi e insegne che Hazel non riconosceva, come se fossero morti in epoche
diverse, nel corso di imprese differenti… forse non appartenevano neppure al Campo Giove.
Per la maggior parte erano equipaggiati con armi d’oro imperiale, più di quante ne possedesse
l’intera Dodicesima Legione. Hazel percepiva la potenza di tutto quell’oro che ronzava nell’aria: era
perfino più spaventosa del cupo crepitio del ghiacciaio. Si chiese se non avrebbe potuto usare il
proprio potere per controllare l’oro e disarmare i fantasmi, ma aveva paura di provare. L’oro
imperiale non era un qualsiasi metallo prezioso, era mortale tanto per i semidei quanto per i mostri.
Provare a controllarne tanto e tutto in una volta sarebbe stato come provare a controllare il plutonio
in un reattore nucleare. Se avesse fallito, avrebbe rischiato di cancellare il ghiacciaio di Hubbard
dalla mappa geografica per sempre e di uccidere i suoi amici.
— Thanatos! — Hazel si rivolse alla figura vestita di nero. — Siamo qui per salvati. Se controlli
queste ombre, devi dire loro che… — Ma le mancò la voce.
Il cappuccio si abbassò, le vesti caddero a terra e il dio spalancò le ali, restando con una
semplice tunica nera senza maniche allacciata in vita. Era l’uomo più bello che Hazel avesse mai
visto. La sua pelle era dello stesso colore del teak, scura e luccicante come il vecchio tavolino
divinatorio di Regina Marie. Gli occhi erano color miele dorato, come quelli di Hazel. Era asciutto e
muscoloso, con un volto regale e lunghi capelli neri che fluivano sulle spalle. Le ali scintillavano di
sfumature blu, nere e violette.
Hazel si ricordò di respirare. — Oh… — esclamò con un filo di voce.
“Bello” era la parola giusta per definire Thanatos. Non “attraente” o “sexy”, niente del genere.
Era bello della bellezza degli angeli, senza tempo, perfetta, remota.
I polsi del dio erano stretti in manette di ghiaccio, collegate a catene che si conficcavano
direttamente a terra. I piedi erano nudi, anch’essi ammanettati alle caviglie e incatenati a terra.
— È Cupido — osservò Frank.
— Un Cupido molto palestrato — concordò Percy.
— Grazie per il complimento — disse Thanatos. La voce era degna della sua bellezza: profonda e
melodiosa. — Mi scambiano spesso per il dio dell’amore. La Morte e l’Amore hanno più cose in
comune di quanto si immagini. Ma io sono la Morte. Ve lo assicuro.
Hazel non ne dubitava. Aveva la sensazione di essere fatta di cenere, e di potersi sgretolare da un
momento all’altro, per poi essere risucchiata via. Forse Thanatos non aveva neanche bisogno di
toccarla. Bastava che le dicesse: “Muori.” E lei sarebbe crollata all’istante, l’anima pronta a
obbedire a quella bellissima voce e a quegli occhi gentili.
— Noi… noi siamo qui per salvarti — riuscì a dire. — Dov’è Alcione?
— Salvarmi? — Thanatos socchiuse gli occhi. — Comprendi bene le tue parole, Hazel Levesque?
Ne comprendi le conseguenze?
Percy fece un passo avanti. — Stiamo perdendo tempo.
E diede un colpo potente alle catene del dio. Il bronzo celeste risuonò contro il ghiaccio, ma
Vortice rimase incollata alla catena. Il gelo cominciò a diffondersi lungo la lama. Percy cercò di
staccarla con tutte le forze, e Frank corse ad aiutarlo. Insieme, riuscirono a liberare Vortice prima
che il gelo arrivasse alle mani.
— Non funzionerà — disse Thanatos. — Quanto al gigante, è vicino. Queste ombre non
appartengono a me. Sono sue. — Gli occhi del dio scrutarono le ombre.
Gli spettri si agitarono, come se un vento artico facesse tremare i ranghi.
— Allora come ne usciamo? — domandò Hazel.
— Figlia di Plutone, progenie del mio signore, tu più di tutti non dovresti desiderare il mio
rilascio.
— Pensi davvero che non lo sappia? — Hazel si sentiva bruciare gli occhi, ma aveva chiuso con
la paura. Era stata una bambina spaventata settant’anni prima, e aveva perso la madre perché aveva
agito troppo tardi. Ormai era un soldato di Roma. Non avrebbe fallito di nuovo. Non aveva nessuna
intenzione di deludere gli amici. — Ascolta, Morte… — Estrasse la spada da cavalleria, e Arion si
impennò in un gesto di sfida. — Non sono tornata dagli Inferi e non ho fatto tutta questa lunghissima
strada per sentirmi dire che sono una stupida a liberarti. Se morirò, morirò. Combatterò contro questo
esercito, se devo. Dicci solo come spezzare le tue catene.
Thanatos la studiò per qualche istante. — Interessante. Comprendi, vero, che queste anime un
tempo erano semidei proprio come te? Combattevano per Roma. E morirono senza completare le loro
eroiche imprese. Come te, furono mandati nella Prateria degli Asfodeli. Ora Gea ha promesso loro
una seconda vita se oggi combatteranno per lei. Naturalmente, se mi libererai e li sconfiggerai,
dovranno tornare negli Inferi a cui appartengono. Accusati di tradimento verso gli dei, affronteranno
la punizione eterna. Non sono diversi da te, Hazel Levesque. Sei sicura di volermi liberare e dannare
queste anime per sempre?
Frank serrò i pugni. — Non è giusto! Vuoi essere liberato o no?
— Giusto… — ripeté Thanatos, in tono pensoso. — Ti stupirebbe sapere quante volte ho sentito
questa parola, Frank Zhang, e quanto sia insignificante. È giusto che la tua vita bruci in così poco
tempo e con tanto ardore? Fu giusto quando accompagnai tua madre negli Inferi?
Frank barcollò come se avesse ricevuto un pugno.
— No — continuò il dio mestamente. — Non fu giusto. E tuttavia era la sua ora. Non c’è nessuna
giustizia nella morte. Se mi libererete, farò il mio dovere. Ma queste ombre cercheranno di fermarvi.
— Quindi, se ti lasciamo andare, verremo assaliti da un mucchio di tizi fatti di vapore nero armati
di spade d’oro — riassunse Percy — Va bene. Come spezziamo le catene?
Thanatos sorrise. — Solo il fuoco della vita può sciogliere le catene della morte.
— Niente indovinelli, per favore — lo incalzò Percy.
Frank liberò un respiro tremante. — Non è un indovinello.
— Frank, no! — esclamò Hazel. — Dev’esserci un altro modo.
Una risata tonante riecheggiò per tutto il ghiacciaio. Una voce cupa e profonda disse: — Amici
miei… Vi ho aspettato tanto!
Davanti ai cancelli spalancati c’era Alcione. Era perfino più grande di Polibote. Aveva la pelle
dorata e metallica, un’armatura in maglia di platino e uno scettro di ferro spesso quanto un totem dei
nativi americani. Quando fece il proprio ingresso nel campo, il ghiaccio rimbombò sotto il peso delle
gambe di drago rosso ruggine. Tra i capelli rossi e intrecciati brillavano pietre preziose.
Hazel non lo aveva mai visto nella sua forma compiuta, ma lo conosceva meglio dei propri
genitori. Era stata lei a farlo. Per mesi, aveva fatto sorgere oro e gemme dalla terra per creare quel
mostro. Conosceva i diamanti che aveva usato per il cuore. Conosceva il petrolio che scorreva nelle
sue vene al posto del sangue. E più di ogni altra cosa voleva distruggerlo.
Alcione si avvicinò, sorridendole con denti d’argento massiccio. — Ah, Hazel Levesque, quanto
mi sei costata! — esclamò. — Se non fosse stato per te, sarei risorto già da decenni, e questo mondo
apparterrebbe da tempo a Gea. Ma non importa! — Il gigante allargò le mani, mostrando i ranghi dei
soldati spettrali. — Benvenuto, Percy Jackson! Benvenuto, Frank Zhang! Io sono Alcione, il flagello
di Plutone, il nuovo signore della Morte. E questa è la vostra nuova legione.
FRANK
«Non c’è nessuna giustizia nella morte.» Queste parole continuavano a risuonare nella testa di Frank.
Il gigante d’oro non lo spaventava. L’esercito di ombre non lo spaventava. Ma il pensiero di
liberare Thanatos gli faceva venire voglia di rannicchiarsi in posizione fetale. Quel dio si era preso
sua madre.
Frank aveva capito cosa doveva fare per spezzare quelle catene. Marte lo aveva avvertito. Gli
aveva spiegato perché aveva amato tanto Emily Zhang: «Metteva il proprio dovere al primo posto,
sempre. Anche prima della propria vita.»
Adesso era il turno di Frank.
La medaglia d’onore di sua madre gli sembrò all’improvviso calda, in tasca. Finalmente
comprendeva la sua scelta: salvare i compagni a costo della vita. Capì quello che Marte aveva
cercato di dirgli. «Dovere. Sacrificio. Sono parole importanti.»
Nel petto di Frank, il duro nodo di rabbia e risentimento – il grumo di dolore che si portava dietro
fin dal funerale – finalmente cominciò a sciogliersi. Ora comprendeva perché sua madre non aveva
mai fatto ritorno. C’erano delle cose per cui valeva la pena morire.
— Hazel… — Cercò di mantenere la voce ferma. — Il pacchetto che conservi per me… Ne ho
bisogno.
La ragazza lo guardò sgomenta. Seduta sulla groppa di Arion sembrava una regina, potente e
bellissima, con i capelli lunghi sulle spalle e una corona di vapore gelido intorno alla testa. — Frank,
no. Dev’esserci un altro modo.
— Ti prego. So che cosa sto facendo.
Thanatos sorrise e sollevò i polsi ammanettati. — Hai ragione, Frank Zhang. Si devono fare dei
sacrifici.
Perfetto. Se la Morte approvava il suo piano, Frank era piuttosto sicuro che l’esito non gli sarebbe
piaciuto.
Alcione si fece avanti, facendo tremare il terreno con le enormi zampe da rettile. — Di quale
pacchetto stai parlando, Frank Zhang? Mi hai portato un regalo?
— Niente che ti riguardi — replicò Frank. — A parte una bella quantità di botte.
Il gigante scoppiò in una risata profonda. — Così parla un figlio di Marte! Peccato che dovrò
ucciderti. E questo, invece… santi numi, non vedevo l’ora di conoscere il famoso Percy Jackson! —
Alcione allargò la bocca in un ghigno. Con quei denti d’argento, sembrava la griglia di un radiatore.
— Ho seguito i tuoi progressi, figlio di Nettuno. La tua battaglia contro Crono? Bravo. Gea ti odia
più di tutti… a parte forse quel novellino di Jason Grace. Mi dispiace di non poterti uccidere subito,
ma mio fratello Polibote vuole tenerti come proprio giocattolino personale. Pensa che sarà uno
spasso, quando distruggerà Nettuno, avere il suo figlio preferito al guinzaglio. Ma anche Gea ha dei
progetti per te.
— Sono davvero lusingato. — Percy sollevò Vortice. — Ma, per dirla tutta, sono figlio di
Poseidone. E vengo dal Campo Mezzosangue.
I fantasmi si agitarono. Alcuni sguainarono la spada e issarono gli scudi.
Alcione sollevò una mano, ordinando loro di attendere. — Greco, romano, non importa — replicò
sorridendo. — Schiacceremo sotto i piedi entrambi i campi. I Titani non pensavano abbastanza in
grande. Progettavano di distruggere gli dei nella loro nuova casa in America. Noi giganti abbiamo
ben altro in mente! Per eliminare l’erba cattiva, bisogna estirparla alla radice. In questo stesso
istante, mentre le mie forze distruggono il vostro insulso campo romano, mio fratello Porfirio si sta
preparando alla vera battaglia nelle antiche terre. Distruggeremo gli dei alla fonte!
I fantasmi batterono le spade contro gli scudi. Il chiasso risuonò per tutte le montagne.
— Alla fonte? — ripeté Frank. — Cioè… la Grecia?
Alcione ridacchiò. — Non ti preoccupare, figlio di Marte. Non vivrai abbastanza per vedere la
nostra vittoria definitiva. Io prenderò il posto di Plutone come Signore degli Inferi. Ho già la Morte
sotto la mia custodia. Con Hazel Levesque al mio servizio, avrò a disposizione anche tutte le
ricchezze della terra!
Hazel strinse forte la spatha. — Io non servo nessuno.
— Oh, però sei stata tu a darmi la vita! — replicò Alcione. — È vero, speravamo di risvegliare
Gea durante la Seconda guerra mondiale. Sarebbe stato magnifico. Ma non è che il mondo sia in
forma molto migliore, adesso. Ben presto la vostra civiltà sarà spazzata via. Le Porte della Morte
resteranno aperte. Quelli che ci serviranno non periranno mai. Vivi o morti, voi tre vi unirete al mio
esercito.
Percy scosse la testa. — La vedo dura. Mi sa che sarai sconfitto.
— Aspetta! — Hazel indirizzò Arion verso il gigante. — Sono stata io a far risorgere questo
mostro dalla terra. Sono la figlia di Plutone. Tocca a me ucciderlo.
— Ah, piccola Hazel… — Alcione conficcò il proprio scettro nel ghiaccio. Le gemme tra i suoi
capelli scintillarono. — Sei sicura di non volerti unire a noi di tua spontanea volontà? Ci saresti
molto… preziosa. Perché morire di nuovo?
Gli occhi della ragazza lampeggiavano di rabbia. Hazel posò lo sguardo su Frank e tirò fuori
l’involto con il pezzo di legno dal giubbotto. — Sei sicuro?
— Sì — confermò lui.
La figlia di Plutone storse la bocca in una smorfia. — Anche tu sei il mio migliore amico, Frank.
Avrei dovuto dirtelo prima. — Gli lanciò il pezzo di legno. — Fai quello che devi fare. E Percy… tu
puoi proteggerlo?
Il figlio di Poseidone scrutò le schiere di legionari spettrali. — Contro un esercito così piccolo?
Certo, nessun problema.
— Allora a lui ci penso io — concluse Hazel. E attaccò il gigante.
FRANK
Frank liberò il pezzo legno dal panno e si inginocchiò ai piedi di Thanatos. Era consapevole di Percy
che gli copriva le spalle sferrando colpi di spada e gridando in tono di sfida sotto l’assalto dei
fantasmi. Udì il gigante urlare e Arion nitrire infuriato, ma non osò voltarsi. Con le mani tremanti,
accostò il pezzo di legno alla catena della gamba destra di Thanatos. Si concentrò sul pensiero delle
fiamme, e il legno prese subito fuoco.
Frank sentì un calore terribile avvolgergli tutto il corpo. Il metallo gelido cominciò a sciogliersi,
con una fiamma così luminosa da risultare più accecante del ghiaccio.
— Bene — disse Thanatos. — Molto bene, Frank Zhang.
Frank aveva sentito parlare della gente che vedeva la propria vita passare come un lampo, e in
quel momento era lui a sperimentarlo in prima persona.
Vide sua madre il giorno in cui era partita per l’Afghanistan. Sorrideva e lo abbracciava. Lui
cercava di inspirare il suo profumo di gelsomino, per non dimenticarlo mai. «Sarò sempre fiera di te,
Frank» gli diceva. «Un giorno, viaggerai perfino più lontano di me. Chiuderai il cerchio della nostra
famiglia. Tra molti, moltissimi anni, i nostri discendenti racconteranno le storie dell’eroe Frank
Zhang, il loro bis-bis-bis…» e lo pungolò nella pancia in ricordo dei vecchi tempi. Sarebbe stato
l’ultimo sorriso di Frank per mesi interi.
Si rivide sulla panchina del tavolo da picnic di Alcigrassi, a guardare le stelle e l’aurora boreale
con Hazel che russava piano al suo fianco, e Percy che gli diceva: «Frank, tu sei un capo… Abbiamo
bisogno di te.»
Vide Percy scomparire nella palude, e Hazel che si tuffava dietro di lui. Frank ricordò quanto si
era sentito solo mentre stava aggrappato all’estremità dell’arco, quanto si era sentito impotente.
Aveva supplicato gli dei dell’Olimpo – perfino Marte – di aiutare i propri amici, ma sapeva che
erano oltre la portata degli dei.
Con un suono metallico, la prima catena si ruppe. Subito Frank conficcò il tizzone ardente sulla
catena dell’altra gamba.
Arrischiò un’occhiata alle proprie spalle.
Percy combatteva come un tornado. In effetti… era un tornado. Un uragano in miniatura fatto di
acqua e vapore di ghiaccio gli roteava intorno mentre si faceva largo tra i nemici, abbattendo spettri
di soldati romani, deviando frecce e lance. Da quando aveva anche quel potere?
Si spostava tra le linee nemiche e, anche se così sembrava averlo lasciato senza difese, gli spettri
erano tutti concentrati su di lui. Frank non capiva perché, poi comprese l’obiettivo di Percy. Uno
degli spettri di vapore nero indossava il mantello di pelle di leone dei vessilliferi e sosteneva
un’asta con un’aquila d’oro, le ali incrostate di ghiaccioli: l’emblema della legione.
Sotto lo sguardo di Frank, Percy si aprì un varco in una linea di legionari, sparpagliando scudi con
il proprio ciclone personale. Abbatté il vessillifero e afferrò l’aquila. — La volete? — urlò ai
fantasmi. — Venite a prenderla!
Percy si allontanò, tirandoseli tutti dietro, e Frank non poté fare a meno di stupirsi per
quell’audace strategia. Per quanto quegli spiriti volessero che Thanatos restasse incatenato, erano pur
sempre spiriti romani. Avevano la mente confusa, come gli spettri che Frank aveva visto nella
Prateria degli Asfodeli, ma una cosa la ricordavano chiaramente: dovevano proteggere l’aquila della
legione.
Tuttavia Percy non poteva respingerli per sempre. Erano troppi. Mantenere in vita un tornado
come quello doveva essere difficile. Nonostante il freddo, il figlio di Poseidone aveva il volto
imperlato di sudore.
Frank cercò Hazel: non riusciva a scorgere né lei né il gigante. Spostò il fuoco sulle manette che
imprigionavano la mano destra del dio. Il legno ormai era consumato quasi per metà. Frank cominciò
a rabbrividire. Altre immagini gli lampeggiarono nella mente. Vide Marte seduto al capezzale di sua
nonna, che lo guardava con un’esplosione nucleare negli occhi: «Tu sei l’arma segreta di Giunone…
hai capito qual è il tuo dono?»
Udì la voce di sua madre che gli diceva: «Puoi essere ciò che vuoi.»
Poi rivide il volto severo della nonna, la pelle sottile come carta di riso, i capelli bianchi sparsi
sul cuscino. «Sì, Fai Zhang. Tua madre non stava cercando solo di incoraggiarti. Ti stava dicendo la
pura e semplice verità. Letteralmente.» Pensò all’orso grizzly che sua madre aveva intercettato ai
margini del bosco. Pensò al grande uccello nero che volteggiava sopra le fiamme della villa di
famiglia.
La terza catena si spezzò.
Frank conficcò il tizzone nell’ultima manetta. Il suo corpo era tormentato dal dolore. Macchie
gialle gli danzavano davanti agli occhi.
Vide Percy in fondo alla Via Principalis, che respingeva l’esercito di fantasmi. Aveva capovolto
la biga e distrutto diversi edifici, ma ogni volta che scaraventava in aria un’ondata di nemici, gli
spettri non facevano altro che rialzarsi e attaccare di nuovo. Appena Percy ne abbatteva uno con la
spada, il fantasma si riformava all’istante. Ormai non poteva arretrare più di così. Alle sue spalle
c’era l’ingresso laterale del campo e, superato quello, a poco più di cinque metri di distanza c’era il
margine del ghiacciaio.
Quanto a Hazel, lei e Alcione erano riusciti a distruggere gran parte degli alloggi nel loro duello.
In quel momento combattevano tra le rovine nei pressi dei cancelli. Arion stava giocando una
pericolosa partita ad acchiapparella, correndo intorno al gigante mentre Alcione cercava di colpirli
con lo scettro, abbattendo muri e spalancando squarci enormi nel ghiaccio. Il cavallo era vivo solo
grazie all’incredibile velocità.
Alla fine l’ultima catena della Morte si spezzò.
Con un urlo disperato, Frank conficcò il tizzone in un mucchio di neve ed estinse le fiamme. Il
dolore scomparve. E lui era ancora vivo. Ma, quando estrasse il pezzo di legno dalla neve, vide che
ne era rimasto solo un mozzicone, più piccolo di un bastoncino di caramella.
Thanatos sollevò le braccia. — Libero! — esclamò soddisfatto.
— Fantastico. — Frank strizzò le palpebre per scacciare i puntini bianchi che gli danzavano
davanti agli occhi. — Allora fa’ qualcosa!
Thanatos gli sorrise. — Fare qualcosa? Certo. Starò a guardare. Quelli che moriranno in questa
battaglia resteranno morti.
— Grazie — borbottò Frank, facendosi scivolare il pezzetto di legno nel giubbotto. — Ci sei di
grande aiuto.
— Prego — rispose il dio, affabile.
— Percy! — urlò Frank. — Ora possono morire!
L’amico gli fece cenno di avere capito, ma sembrava distrutto. Il tornado stava rallentando, così
come i suoi colpi. L’intero esercito di spettri lo aveva circondato, costringendolo a poco a poco
sull’orlo del baratro di ghiaccio.
Frank afferrò l’arco per aiutarlo, ma lo abbassò subito: normali frecce prese da un negozio per
cacciatori a Seward non avrebbero avuto alcun effetto. Doveva usare il proprio dono.
Pensò di avere capito i propri poteri, finalmente. L’essersene stato lì a guardare bruciare il legno,
a inalare il fumo acre della propria vita, gli aveva trasmesso una strana sicurezza.
«È giusto che la tua vita bruci in così poco tempo e con tanto ardore?» aveva chiesto la Morte.
— La giustizia non esiste — si disse Frank, ad alta voce. — Se devo ardere, tanto vale ardere al
massimo. — Fece un passo verso Percy.
All’improvviso, dal lato opposto del campo, Hazel urlò dal dolore. Arion nitrì forte sotto il colpo
del gigante. Cavallo e cavaliere furono scaraventati in aria, per schiantarsi su uno dei bastioni.
— Hazel! — Frank si voltò a guardare Percy, rimpiangendo la perdita della lancia. Se solo avesse
potuto evocare il Grigio… ma ormai non poteva essere in due posti contemporaneamente.
— Va’ da lei! — urlò Percy, tenendo alta l’aquila. — A questi ci penso io!
Non poteva pensarci lui, Frank lo sapeva. Percy stava per essere sopraffatto, ma lui corse in aiuto
di Hazel.
Era mezzo sepolta sotto le macerie di mattoni di neve. Arion stava sopra di lei e cercava di
proteggerla, impennando e tirando calci al gigante con gli zoccoli anteriori.
Alcione rideva. — Ehilà, piccolo pony. Vuoi giocare? — Sollevò l’enorme scettro di ghiaccio.
Frank era troppo lontano per intervenire… ma immaginò di precipitarsi in avanti, i piedi che si
staccavano da terra.
Sii ciò che vuoi.
Ripensò alle aquile che avevano visto sul treno in corsa. Il suo corpo divenne più piccolo e
leggero. Le sue braccia si distesero in ali, la sua vista si fece migliaia di volte più acuta. Si levò
verso l’alto, poi calò in picchiata verso Alcione, con gli artigli sguainati. Atterrò sul volto del
gigante e cominciò a graffargli gli occhi.
Alcione mugghiò dal dolore. Arretrò barcollando, mentre Frank atterrava di fronte a Hazel e
riacquistava sembianze umane.
— Frank… — Lei lo fissava sconcertata, con il capo ancora coperto di neve sciolta. — Che
cosa… cos’hai fatto?
— Stupido! — sbraitò Alcione. Il volto era sfigurato, con il petrolio che gli colava dagli occhi al
posto del sangue, ma le ferite si stavano già rimarginando. — Sono immortale nella mia terra, Frank
Zhang! E, grazie alla tua amica, la mia nuova terra è l’Alaska. Non puoi uccidermi qui!
— Lo vedremo — replicò lui Si sentiva gambe e braccia permeate di potere. — Hazel, torna a
cavallo.
Il gigante si lanciò all’attacco.
Il figlio di Marte gli andò incontro. Ripensò all’orso che aveva incontrato faccia a faccia da
bambino. Correndo, il suo corpo si fece più pesante, più robusto, straripante di muscoli. Si schiantò
contro il gigante sotto forma di un grizzly adulto, mezza tonnellata di pura forza. Era ancora piccolo
in confronto ad Alcione, ma lo investì con uno slancio tale che il mostro cadde su una torre di guardia
e rimase sepolto sotto le macerie.
Frank si scagliò sulla testa del gigante. Un colpo della sua zampa era come una sega a motore
manovrata da un pugile di peso massimo. Si accanì sul suo volto finché i lineamenti del gigante non
cominciarono a sfigurarsi.
— Arrgggh! — gridò Alcione, ancora stordito.
Frank tornò in forma umana. Aveva ancora lo zaino. Afferrò la corda che aveva comprato a
Seward, fece rapidamente un cappio e lo chiuse intorno all’enorme zampa di drago del gigante. —
Hazel, prendi! — Le lanciò l’altro capo della corda. — Ho un’idea, ma dobbiamo…
— Io ti… io… ti ammaz… — stava farfugliando Alcione.
Frank corse alla testa del gigante, raccolse l’oggetto più pesante che riuscì a trovare nei paraggi –
uno scudo della legione – e glielo sbatté sul naso.
— Arrgggh! — gridò di nuovo Alcione.
— Arion quanto può riuscire a trasportarlo lontano? — chiese Frank a Hazel.
Lei lo fissava smarrita. — Tu… tu eri un uccello. Poi un orso. E…
— Te lo spiego dopo — la interruppe Frank. — Ora dobbiamo trascinare questo coso
nell’entroterra, il più velocemente possibile.
— Ma… Percy? — replicò Hazel.
Frank imprecò. Come aveva potuto dimenticarlo?
Oltre le rovine del campo, vide Percy che dava la schiena all’orlo del ghiacciaio. Il tornado era
scomparso. Percy stringeva Vortice in una mano e l’aquila d’oro della legione nell’altra. L’intero
esercito di ombre era sempre più vicino, con le armi sguainate e minacciose.
— Percy! — urlò Frank.
L’amico gli lanciò uno sguardo. Vide il gigante caduto e sembrò capire cosa stava accadendo.
Urlò qualcosa che si perse nel vento, probabilmente: “Vai!” — Poi conficcò Vortice con violenza nel
terreno.
L’intero ghiacciaio fu scosso da un tremito. Gli spettri caddero in ginocchio. Alle spalle di Percy,
un’onda si levò dalla baia, un muro di acqua alto perfino più del ghiacciaio. Sotto l’impatto
dell’onda, la metà posteriore del campo cominciò a sgretolarsi. L’intero margine del ghiacciaio si
staccò, crollando a cascata nel vuoto, trascinando edifici, fantasmi… e Percy Jackson… con sé.
FRANK
Frank rimase così sbigottito che Hazel dovette gridare il suo nome una decina di volte prima che si
rendesse conto che Alcione si stava riprendendo. Picchiò lo scudo sul naso del gigante finché quello
non perse di nuovo i sensi. Nel frattempo, il ghiacciaio continuava a sgretolarsi, e il margine si
faceva sempre più vicino.
Thanatos planò verso di loro sulle sue ali nere, con il volto sereno. — Ah, sì! — esclamò
soddisfatto. — Ecco che arriva qualche anima. Affogano, affogano. Meglio che vi affrettiate, amici
miei, o affogherete anche voi.
— Ma Percy…? — Frank era senza parole. — È…?
— È troppo presto per dirlo. Quanto a lui… — Thanatos posò uno sguardo disgustato su Alcione.
— Non lo ucciderete mai qui. Sapete cosa fare?
Frank annuì. — Credo di sì.
— Allora abbiamo finito.
Frank e Hazel si scambiarono uno sguardo.
— Ehm… — balbettò Hazel. — Vuoi dire che non… non hai intenzione di…?
— Esigere la tua vita? — proseguì Thanatos. — Be’, vediamo… — Dal nulla tirò fuori un iPad
nero. Toccò lo schermo più volte, mentre Frank riusciva soltanto a pensare: “Ti prego, fa’ che non ci
sia una app anche per falciare le anime.” — Non ti vedo sulla lista — concluse Thanatos. — Plutone
mi dà ordini specifici per le anime evase dagli Inferi. Per qualche ragione, non ha emesso nessun
mandato per te. Forse ritiene che la tua vita non sia finita, o forse si tratta solo di una svista. Se vuoi
posso chiamarlo e…
— No! — strillò subito Hazel. — Non c’è problema.
— Sicura? — insistette Thanatos, sollecito. — Ho la videoconferenza abilitata. Dovrei avere il
suo indirizzo Skype qui da qualche parte…
— No, davvero. — Hazel si sentiva come se qualcuno le avesse appena sollevato parecchie
tonnellate di preoccupazione dalle spalle. — Grazie.
— Arrrrgggh… — si lamentò Alcione.
Frank gli mollò un’altra botta in testa.
La Morte sollevò lo sguardo dall’iPad. — Quanto a te, Frank Zhang, neanche la tua ora è giunta.
Hai ancora un po’ di combustibile da ardere. Ma non credere che ti stia facendo un favore.
C’incontreremo di nuovo in circostanze meno piacevoli.
La scogliera stava ancora crollando, e l’orlo del baratro ormai era solo a una ventina di metri di
distanza. Arion nitrì con impazienza.
Frank sapeva che dovevano andare, ma aveva un’ultima domanda. — E le Porte della Morte? —
chiese. — Dove sono? Come le chiudiamo?
— Ah, già. — Uno sguardo d’irritazione lampeggiò sul volto di Thanatos. — Le mie porte.
Chiuderle sarebbe un bene, ma temo che vada oltre il mio potere. E non ho la minima idea di come
possiate farcela voi. Non posso dirvi dove si trovano esattamente. Il luogo non è… be’, non è un
luogo del tutto fisico. Dovrete andare alla loro ricerca; solo così si possono localizzare. Posso
soltanto dirvi di cominciare da Roma. La Roma originaria. E avrete bisogno di una guida speciale.
Solo un certo tipo di semidio può leggere i segni che alla fine vi condurranno alle mie porte.
Sotto i loro piedi comparvero delle crepe. Hazel accarezzò il collo di Arion per impedirgli di
sfrecciare via. — E mio fratello? — chiese. — Nico è vivo?
— Troverai la risposta a Roma. — Thanatos la guardò con una strana espressione, forse pietà,
anche se non sembrava essere un’emozione che la Morte fosse in grado di comprendere. — E ora
devo volare a sud, al vostro Campo Giove. Ho la sensazione che presto ci saranno molte anime da
raccogliere. Ci vediamo. — Thanatos si dissolse in un fumo nero.
Le crepe sotto i piedi di Frank cominciarono ad allargarsi. — Presto! — urlò a Hazel. —
Dobbiamo portare Alcione a venti chilometri a nord di qui! — Si arrampicò sul petto del gigante e
Arion scattò in avanti, correndo sul ghiaccio e trascinandosi dietro la slitta più grande e brutta del
mondo.
Fu un viaggio breve.
Arion correva sul ghiacciaio come su un’autostrada, sfrecciando sul terreno gelato, balzando
sopra i crepacci e scivolando lungo pendii che avrebbero fatto la gioia di un appassionato di
snowboard.
Frank non dovette mettere KO Alcione troppe volte, perché la testa del gigante continuava a
rimbalzare e a battere sul ghiaccio. Mentre proseguivano nella loro corsa, Alcione mugolava una
canzoncina che somigliava parecchio a Jingle Bells.
Dal canto suo, anche Frank si sentiva piuttosto stordito. Si era appena trasformato in un’aquila e in
un orso. Riusciva ancora a sentire l’energia fluida che gli ribolliva in corpo, come se fosse a metà tra
lo stato liquido e quello solido.
Non solo: lui e Hazel avevano liberato la Morte, ed erano sopravvissuti!
Ma Percy… Frank soffocò la paura. Percy si era buttato giù dal ghiacciaio per salvarli.
… il figlio di Nettuno affogherà.
No. Frank si rifiutava di credere che Percy fosse morto. Non avevano fatto tutta quella strada solo
per perdere un amico. Lo avrebbero ritrovato, ma prima dovevano sistemare Alcione.
Frank visualizzò la mappa che aveva studiato durante il viaggio in treno da Anchorage. Sapeva a
grandi linee dove stavano andando, ma non c’erano cartelli o indicazioni in cima al ghiacciaio. Non
gli restava che fidarsi dell’intuito.
Alla fine Arion oltrepassò un varco tra due montagne ed entrò in una valle di ghiaccio e rocce,
come un’enorme ciotola di latte congelato da cui emergevano schegge di cioccolato. La pelle dorata
del gigante impallidì, come se l’oro si fosse tramutato in ottone.
Frank avvertì un’improvvisa vibrazione in tutto il corpo, come di un diapason premuto contro lo
sterno. Capì di essere appena entrato in territorio amico. — Qui! — gridò.
Arion scartò a destra, Hazel tagliò la corda, e Alcione scivolò sul terreno. Frank balzò giù un
attimo prima di sbattere contro un masso insieme al gigante.
Alcione saltò subito in piedi. — Cosa? Dove? Chi? — Aveva il naso storto, piegato in
un’angolazione strana. Le ferite erano rimarginate, anche se la pelle dorata si era opacizzata. Cercò
con lo sguardo lo scettro di ferro, che era rimasto sul ghiacciaio di Hubbard. Poi lasciò perdere e
con un pugno polverizzò il masso vicino. — Come hai osato portarmi in giro come una slitta? —
Alcione si irrigidì e fiutò l’aria. — Questo odore… odore di anime snidate. Thanatos è libero, eh?
Bah! Non ha importanza. Gea controlla ancora le Porte della Morte. Perché mi hai portato qui, figlio
di Marte?
— Per ucciderti — rispose Frank. — Hai altre domande?
Il gigante socchiuse gli occhi. — Non avevo mai conosciuto un figlio di Marte capace di mutare
forma, ma questo non significa che tu possa sconfiggermi. Pensi che quello stupido soldato di tuo
padre ti abbia dato la forza di affrontarmi in duello, uno contro uno?
Hazel estrasse la spada. — Che ne dici di due contro uno?
Alcione ringhiò e si lanciò all’attacco contro di lei, ma Arion si tolse agilmente di mezzo, mentre
Hazel colpiva il gigante sul polpaccio. Petrolio nero fuoriuscì subito dalla ferita.
Il mostro vacillò. — Non potete uccidermi, che Thanatos sia libero o meno!
Hazel fece il gesto di afferrare qualcosa con la mano libera. Una forza invisibile strattonò il
gigante per i capelli incrostati di gemme. Hazel si tuffò in avanti, lo colpì all’altra gamba e filò via
prima che quello recuperasse l’equilibrio.
— Basta! — gridò Alcione. — Siamo in Alaska. Nella mia terra sono immortale!
— Purtroppo ho una brutta notizia per te — replicò Frank. — Vedi, mio padre mi ha dato
qualcosa di più della sua forza.
Il gigante ringhiò. — Che vai blaterando, marmocchio?
— Tattica — continuò Frank. — È questo il dono che ho ricevuto da Marte. Si può vincere una
battaglia prima ancora che sia combattuta, se si sceglie il terreno giusto. — Indicò alle proprie
spalle. — Abbiamo attraversato il confine qualche centinaio di metri fa. Non sei più in Alaska. Non
riesci a sentirlo? Se vuoi tornare in Alaska, dovrai passare sul mio corpo.
Lentamente, la luce della comprensione si accese negli occhi del gigante. Abbassò lo sguardo
incredulo sulle proprie gambe ferite. Il petrolio colava ancora dai polpacci, annerendo il ghiaccio.
— Impossibile! — mugghiò il gigante. — Io… io… Grrrrrah! — Si lanciò all’attacco di Frank,
deciso a raggiungere il confine internazionale.
Per una frazione di secondo, Frank dubitò del suo piano. Se non fosse più riuscito a usare il
proprio dono, se si fosse bloccato, sarebbe stata la fine. Poi ripensò alle istruzioni della nonna:
«Conoscere bene la creatura aiuta.»… OK! «Aiuta anche trovarsi in una situazione di vita o di morte,
come in combattimento.»… OK!
Il gigante continuava ad avanzare. Venti metri. Dieci metri.
— Frank? — Hazel lo chiamò, preoccupata.
Il figlio di Marte non si mosse. — Ho tutto sotto controllo.
Un istante prima che Alcione gli si schiantasse addosso, Frank si trasformò. Si era sempre sentito
troppo grosso e goffo. Ora attinse proprio a quella sensazione. Il suo corpo si gonfiò fino a
raggiungere dimensioni enormi. La sua pelle si ispessì. Le braccia si trasformarono in robuste zampe
anteriori. Agli angoli della bocca spuntarono due zanne, e il naso si allungò a dismisura. Divenne
l’animale che conosceva meglio, quello che aveva accudito, nutrito, lavato e al quale aveva perfino
procurato un’indigestione al Campo Giove.
Alcione andò a sbattere contro un elefante adulto di dieci tonnellate. E barcollò di lato. Urlò per
la frustrazione e si fiondò di nuovo contro Frank, solo che non era decisamente la sua categoria di
peso. L’elefante lo colpì con una testata così forte che il gigante volò indietro e atterrò
scompostamente sul ghiaccio.
— Non… puoi… uccidermi — ringhiò. — Non puoi…
Frank riacquistò forma umana e si avvicinò ad Alcione, le cui ferite fumavano e grondavano
petrolio. Le gemme gli cadevano dai capelli e sfrigolavano sul terreno. La sua pelle dorata cominciò
a corrodersi, sgretolandosi in grossi pezzi.
Hazel smontò da cavallo e si portò accanto a Frank, spada alla mano. — Posso?
Frank annuì. Guardò negli occhi fumanti del gigante. — Ti do un piccolo consiglio, Alcione. La
prossima volta che scegli di rinascere in Alaska, non piazzare il campo nella parte più piccola dello
Stato. Benvenuto in Canada, idiota!
La spada di Hazel calò sul collo del gigante. Alcione si sgretolò in una grossa pila di pietre
preziose.
Hazel e Frank rimasero lì fermi per un po’, insieme, a guardare i resti del mostro che si
scioglievano nel ghiaccio. Frank recuperò la corda.
— Un elefante? — chiese lei all’improvviso.
Frank si grattò il collo. — Sì. Mi è sembrata una buona idea. — Non riusciva a interpretare
l’espressione dell’amica. Aveva paura di avere fatto alla fine una cosa così assurda che lei non
avrebbe mai più voluto averlo intorno. Frank Zhang: ciccione imbranato, figlio di Marte, pachiderma
part-time.
Poi Hazel lo baciò: un vero bacio sulle labbra, molto meglio di quello che aveva dato a Percy
sull’aeroplano. — Sei incredibile — disse. — E sei un bellissimo elefante!
Frank era così scombussolato che temette di fondere il ghiaccio con gli stivali.
Ma, prima che potesse rispondere, una voce riecheggiò nella valle: “Non avete vinto!”
Frank alzò lo sguardo. Delle ombre si muovevano sulla montagna più vicina, formando il volto di
una donna addormentata.
“Non tornerete mai a casa in tempo” li schernì la voce di Gea. “In questo stesso istante, Thanatos
sta presenziando alla morte del Campo Giove, la distruzione finale dei vostri amici romani.”
La montagna tuonò come se l’intera terra stesse ridendo. Le ombre scomparvero.
Hazel e Frank si scambiarono uno sguardo. Nessuno dei due disse una parola. Montarono sulla
groppa di Arion e corsero alla velocità della luce verso la baia del ghiacciaio.
FRANK
Percy li stava aspettando, e sembrava arrabbiato. In piedi sul margine del ghiacciaio, appoggiato
all’asta dell’aquila d’oro, scrutava il disastro che aveva provocato: diversi centinaia di chilometri di
mare aperto, nuovi di zecca, punteggiati di iceberg e relitti del campo in macerie.
Le uniche rovine rimaste in piedi erano le porte principali, inclinate di lato, e un logoro stendardo
azzurro su una pila di mattoni di neve.
Quando corsero da lui, Percy disse solo: — Ciao — come se si fossero dati appuntamento per
pranzo.
— Sei vivo! — si meravigliò Frank.
Percy aggrottò la fronte. — La caduta? Figurati, questo è niente. Sono precipitato da molto più in
alto, quando sono saltato giù dall’arco di St Louis.
— Cosa? — domandò Hazel.
— Lascia perdere. L’importante è che non sono affogato.
— Perciò la profezia era incompleta! — Hazel sorrideva contenta. — Probabilmente voleva dire
qualcosa tipo: “Il figlio di Nettuno affogherà un intero esercito di fantasmi.”
Percy si strinse nelle spalle. Guardava Frank come se ce l’avesse con lui. — Ho un conto in
sospeso con te, Zhang. Puoi trasformarti in aquila? E in orso?
— E in elefante — aggiunse Hazel, orgogliosa.
— In elefante. — Percy scosse la testa, incredulo. — È questo il tuo dono di famiglia? Puoi
cambiare forma?
Frank pestò un poco i piedi, imbarazzato. — Ehm… sì. Periclimeno, il mio antenato,
l’argonauta… lui ci riusciva. E ha trasmesso il suo talento a tutta la discendenza.
— E lui aveva ricevuto il dono da Poseidone — disse Percy. — Non è giusto, accidenti! Io non
posso trasformarmi in un animale.
Frank lo fissò a occhi sgranati. — Come sarebbe, non è giusto? Tu sai respirare sott’acqua e puoi
evocare uragani spaventosi… e io non posso trasformarmi in elefante?
— Okay. Non hai tutti i torti. Ma la prossima volta che ti dico che sei una bestia…
— Smettila, Percy — lo interruppe Frank. — Ti prego.
Il figlio di Poseidone sorrise.
— Ragazzi, se avete finito, dovremmo andare — intervenne Hazel. — Il Campo Giove è sotto
attacco. Ai nostri compagni farebbe comodo quell’aquila d’oro.
Percy annuì. — Una cosa per volta, però. Hazel, ci sarà almeno una tonnellata di armi e armature
d’oro imperiale in fondo alla baia, adesso. Scommetto che pure quella roba potrebbe essere utile…
Ci misero molto… troppo… ma sapevano bene che quelle armi potevano fare la differenza per la
vittoria, se fossero riusciti a riportarle al campo in tempo.
Hazel usò i propri poteri per fare levitare un po’ di quegli oggetti dal fondo del mare. Percy si
tuffò e ne recuperò altri. Perfino Frank li aiutò, trasformandosi in foca e divertendosi un mondo,
anche se Percy diceva che gli puzzava l’alito di pesce.
Dovettero sforzarsi in tre per sollevare la biga, ma alla fine riuscirono a issare ogni cosa a riva,
su una spiaggia di sabbia nera ai piedi del ghiacciaio. Non furono in grado di caricare tutto alla
perfezione, ma usarono la corda di Frank per fissare gran parte delle armi e dei pezzi d’armatura
migliori.
— Sembra la slitta di Babbo Natale — commentò Frank. — Dite che Arion ce la farà a trainarla?
Il cavallo sbuffò.
— Hazel, prima o poi gli laverò la bocca col sapone, sul serio — disse Percy. — Comunque… ha
detto di sì, può farcela, ma ha bisogno di mangiare.
Hazel raccolse un vecchio pugnale romano, un pugio. Era piegato e spuntato, perciò non sarebbe
servito a molto in battaglia, ma sembrava comunque fatto d’oro imperiale. — Ecco qua, Arion.
Carburante di prima scelta.
Il cavallo addentò l’arma e la masticò come fosse una mela.
Frank giurò solennemente a se stesso di non avvicinare mai la mano alla bocca di Arion. — Non
dubito della sua forza, ma la biga reggerà? — chiese con prudenza. — L’ultima…
— Questa ha le ruote e l’asse fatti d’oro imperiale — osservò Percy. — Dovrebbe reggere.
— In caso contrario, sarà un viaggio breve — disse Hazel. — Ma non c’è più tempo. Andiamo!
Frank e Percy salirono sulla biga.
Hazel montò in groppa al cavallo. — Vai, Arion!
Il boato sonico dell’animale riecheggiò per tutta la baia. Filarono velocissimi verso sud,
lasciandosi alle spalle una scia di valanghe.
PERCY
Quattro ore.
Fu quanto impiegò il cavallo più veloce del pianeta per arrivare dall’Alaska alla baia di San
Francisco, sorvolando la superficie dell’oceano lungo la costa nordoccidentale degli Stati Uniti.
Fu anche quanto ci mise Percy a recuperare interamente la memoria. Il processo era iniziato a
Portland quando aveva bevuto il sangue della gorgone, ma la sua vita passata era rimasta ancora un
groviglio confuso. Mentre si addentravano sempre di più nel territorio degli dei dell’Olimpo, Percy
ricordò tutto: la guerra contro Crono, il compleanno al Campo Mezzosangue, il centauro Chirone, il
suo migliore amico Grover, suo fratello Tyson e soprattutto Annabeth… due fantastici mesi insieme e
poi BUM! Era stato rapito da un’aliena di nome Era. O Giunone… era lo stesso.
Sette mesi di vita rubati. Se mai avesse rivisto la regina dell’Olimpo, le avrebbe decisamente
rivoltato la faccia con un bel ceffone divino.
I suoi amici e la sua famiglia dovevano essere impazziti dalla preoccupazione. Se il Campo Giove
era in un guaio così grosso, poteva solo immaginare cosa stesse affrontando il Campo Mezzosangue
senza di lui.
Peggio ancora: salvare i due campi sarebbe stato solo l’inizio. Secondo Alcione, la vera guerra
avrebbe avuto luogo lontano, nella patria degli dei. I giganti avevano intenzione di attaccare il Monte
Olimpo originario e distruggere gli dei per sempre.
Percy sapeva che i giganti non potevano morire a meno che gli dei e i semidei non li
combattessero insieme. Nico gliel’aveva detto. Anche Annabeth ne aveva parlato, ad agosto, quando
ragionava sul fatto che i giganti potessero fare parte della nuova Grande Profezia, quella che i
Romani chiamavano la Profezia dei Sette. Era lo svantaggio di stare insieme alla ragazza più
intelligente del campo: finivi per sapere un sacco di cose.
Capiva bene il piano di Giunone: unire i semidei greci e romani per creare un’élite di eroi, e poi
convincere in qualche modo gli dei a combattere al loro fianco. Prima però dovevano salvare il
Campo Giove.
La costa cominciò a sembrare familiare. Superarono il faro di Mendocino. Poco dopo, il Monte
Tam e i promontori di Marin spuntarono dalla nebbia. Arion si tuffò sicuro sotto il Golden Gate ed
entrò nella baia di San Francisco.
Volarono come razzi sopra Berkeley e le colline di Oakland. Quando raggiunsero la cima della
collina sul Caldecott Tunnel, Arion fu scosso da un brivido, come se avesse un guasto al motore, e si
fermò con il fiato grosso.
Hazel gli accarezzò i fianchi con affetto. — Sei stato fantastico, Arion.
Il cavallo era troppo stanco perfino per imprecare e ribattere: “Certo che sono stato fantastico.
Che ti aspettavi?”
Percy e Frank saltarono giù dalla biga. Il figlio di Poseidone rimpianse di non avere avuto un
sedile comodo e un servizio di pasti a bordo. Gli tremavano le gambe e aveva le giunture così rigide
che faticava a camminare. Se fosse entrato in battaglia in quelle condizioni, i nemici lo avrebbero
chiamato Jackson il Vecchio.
Frank non sembrava passarsela meglio. Si arrampicò zoppicando in cima alla collina e sbirciò il
campo sottostante. — Ragazzi… dovete venire a vedere.
Quando lo raggiunsero, Percy ebbe un tuffo al cuore. Lo scontro era iniziato, e non stava andando
bene. La Dodicesima Legione era schierata sul Campo Marzio e cercava di proteggere la città. Le
baliste scaricavano raffiche di colpi contro i Gegenees. Annibale l’elefante schiacciava mostri a
destra e a manca, ma i difensori erano in netta inferiorità numerica.
In groppa al suo pegaso, Reyna volava intorno al gigante Polibote, tentando di tenerlo occupato. I
Lari avevano formato delle file compatte e violacee contro una massa informe di ombre di vapore
nero, vestite con antiche armature. Semidei veterani della città si erano uniti alla lotta e spingevano
la loro parete di scudi contro l’assalto furioso dei centauri selvaggi. Aquile gigantesche sorvolavano
il campo di battaglia, impegnate in un combattimento aereo contro le due signore con i grembiuli
verdi e le chiome fatte di serpenti: Euriale e Steno.
La legione stava sostenendo l’urto dell’attacco, ma la formazione si stava spezzando. Ogni coorte
era un’isola in un mare di nemici. La torre d’assedio dei ciclopi lanciava palle di fuoco verde sulla
città, aprendo crateri nel foro, riducendo le case in macerie. In quello stesso istante, una palla di
cannone colpì il Senato, e parte della cupola crollò.
— Siamo arrivati troppo tardi! — esclamò Hazel.
— No! — ribatté Percy. — La battaglia è ancora in corso. Possiamo farcela.
— Dov’è Lupa? — chiese Frank, con una vena di disperazione nella voce. — Lei e il branco…
dovrebbero essere qui.
Percy ripensò al periodo trascorso con la dea. Era giunto a rispettare i suoi insegnamenti, ma
aveva anche imparato che i lupi hanno dei limiti. Non combattono in prima linea. Attaccano solo
quando possono contare su una grande superiorità numerica e, di solito, con il favore delle tenebre. E
poi la prima regola di Lupa era l’autosufficienza. Aiutava i suoi figli più che poteva, li addestrava a
combattere, ma alla fine il loro destino era quello di predatori o prede. I Romani dovevano
combattere da soli le proprie battaglie. Dovevano dimostrare il proprio valore o morire. Era questo
lo stile di Lupa.
— Ha fatto quello che poteva — disse Percy. — Ha rallentato l’esercito nella sua avanzata verso
sud. Ora sta a noi. Dobbiamo portare l’aquila e le armi d’oro alla legione.
— Ma Arion è sfinito! — osservò Hazel. — Non possiamo caricare tutta questa roba da soli.
— Forse non sarà necessario. — Percy scrutò le colline. Se Tyson aveva ricevuto il suo
messaggio in sogno a Vancouver, forse i soccorsi erano vicini. Fischiò più forte che poteva, un bel
fischio newyorchese, di quelli buoni a chiamare un taxi da Times Square fino a Central Park.
Delle ombre si incresparono tra gli alberi. Un’enorme sagoma nera balzò fuori dal nulla: un
mastino grande quanto un SUV, con un ciclope e un’arpia sulla groppa.
— Un segugio infernale! — Frank arretrò barcollando.
— Va tutto bene! — Percy sorrise. — Sono amici.
— Fratello! — Tyson smontò dalla groppa del cane e gli corse incontro.
Percy cercò di tenersi forte, ma non servì a nulla. Tyson lo investì in pieno, stritolandolo in un
abbraccio. Per qualche secondo, Percy riuscì solo a vedere dei puntini neri e strati di felpa.
Poi Tyson mollò la presa e rise contento, guardando Percy dalla testa ai piedi con il suo grande
occhio castano. — Non sei morto! — esclamò. — Mi piace quando non sei morto!
Ella si posò a terra con grazia e cominciò a lisciarsi le penne. — Ella ha trovato un cane —
annunciò. — Un grosso cane. E un ciclope.
Era arrossita? Prima che Percy potesse stabilirlo, fu il turno del mastino nero, che lo atterrò con
un balzo abbaiando così forte che perfino Arion fece due passi indietro.
— Ehi, signora O’Leary! — esclamò Percy. — Sì, ti voglio bene anch’io, bella. Brava ragazza.
Hazel emise una sorta di squittio. — Hai un segugio infernale chiamato “signora O’Leary”?
— È una lunga storia. — Percy riuscì a rimettersi in piedi e a ripulirsi dalla bava del cane. —
Chiedilo a tuo fratello… — Ma gli mancò la voce quando vide l’espressione di Hazel. Aveva
dimenticato che Nico Di Angelo era disperso.
Hazel gli aveva riferito le parole di Thanatos, l’indicazione di cercare le Porte della Morte a
Roma, e Percy era ansioso di trovare Nico anche per ragioni personali, tipo torcergli il collo per
avere finto di non conoscerlo quando era arrivato al campo. Ma era pur sempre il fratello di Hazel, e
come e quando ritrovarlo era una questione da affrontare in un altro momento. — Scusa — disse. —
Comunque, sì, è il mio cane, la signora O’Leary. Tyson… questi sono i miei amici Frank e Hazel. —
Percy si voltò verso Ella, che stava contando tutte le barbe di una delle sue penne. — Stai bene? —
chiese. — Eravamo preoccupati per te.
— Ella non è forte — replicò lei. — I ciclopi sono forti. Tyson ha trovato Ella. Tyson ha pensato
a Ella.
Percy alzò le sopracciglia: Ella stava davvero arrossendo! — Tyson… e bravo il mio rubacuori!
— esclamò il figlio di Poseidone.
Tyson divenne dello stesso colore del piumaggio dell’arpia. — Ehm… io non… — Poi si chinò a
bisbigliare nervoso, ma a un volume tale che lo sentirono tutti: — È carina.
Frank si diede dei colpetti in testa come per accertarsi di non avere il cervello in corto. —
Comunque… ehm… ci sarebbe una battaglia in corso.
— Giusto — concordò Percy. — Tyson, dov’è Annabeth? Ci sono altri aiuti in arrivo?
Tyson si imbronciò. Il suo enorme occhio castano si annebbiò un poco. — La grande nave non è
pronta. Leo dice domani, forse due giorni. Poi arriveranno.
— Non abbiamo neanche due minuti — replicò Percy. — Va bene, ecco il piano. — Rapidamente,
indicò i buoni e i cattivi sul campo di battaglia.
Tyson si allarmò quando venne a sapere che c’erano ciclopi e centauri cattivi nell’esercito del
gigante. — Devo colpire i pony?
— Cerca solo di spaventarli e metterli in fuga — rispose Percy.
— Percy? — Frank guardava Tyson con una certa ansia. — Non voglio che il nostro amico qui…
si faccia male. Tyson sa combattere?
— Se sa combattere? — Percy sorrise. — Frank, quello che hai di fronte è il generale Tyson
dell’esercito dei ciclopi. A proposito, Tyson: Frank è un discendente di Poseidone.
— Fratello! — Tyson stritolò Frank in un abbraccio.
Percy soffocò una risata. — A dire il vero, è più un nostro bis-bis-bis… Oh, lascia perdere. Sì, è
tuo fratello.
— Grazie — borbottò Frank, semisoffocato dalla felpa del ciclope. — Ma se la legione lo
scambia per un nemico…
— Trovato! — Hazel corse alla biga e tirò fuori l’elmo romano più grande che riuscì a trovare,
oltre a un vecchio vessillo romano con le lettere SPQR ricamate sopra. Le consegnò a Tyson. —
Mettiti questi. E i nostri amici sapranno che sei nella nostra squadra.
— Sììì! — replicò il ciclope. — Tyson è nella vostra squadra! — L’elmo era decisamente
piccolo, e il vessillo era stato indossato come una specie di bavaglino.
— Funzionerà — decretò Percy. — Ella… tu resta qui. Al sicuro.
— Al sicuro — ripeté l’arpia. — A Ella piace stare al sicuro. La sicurezza è nel numero. Cassette
e depositi di sicurezza. Ella va con Tyson.
— Cosa? — replicò Percy. — Oh… e va bene. Come vuoi. Cerca solo di non farti male. — Il
semidio si rivolse al cane: — Signora O’Leary…
— Bauuu!
— Ti andrebbe di trainare una biga?
PERCY
Erano, senza ombra di dubbio, i rinforzi più stravaganti dell’intera storia militare romana. Hazel
cavalcava Arion, che si era ripreso abbastanza per sostenere una sola persona in groppa e galoppare
a normale velocità equina, anche se imprecò per tutta la discesa lamentandosi per gli zoccoli
doloranti.
Frank si era trasformato in un’aquila – cosa che Percy continuava a trovare molto, molto ingiusta –
e volteggiava nel cielo. Tyson correva a rotta di collo, roteando la mazza al grido di: — Pony cattivi!
Buuu! — Mentre Ella gli svolazzava intorno, recitando articoli dell’Almanacco del contadino.
Quanto a Percy, guidava la signora O’Leary in battaglia con una biga carica di armi d’oro
imperiale che sferragliavano a più non posso, tenendo alta l’aquila d’oro della Dodicesima Legione.
Costeggiarono il perimetro del campo e imboccarono il ponte settentrionale sul Piccolo Tevere,
facendo il loro ingresso sul Campo Marzio dal margine occidentale della battaglia. Un’orda di
ciclopi si stava facendo largo a mazzate tra i ragazzi della Quinta Coorte, che si sforzavano di serrare
gli scudi solo per non lasciarci la pelle.
Quando li vide nei guai, Percy ebbe un moto di rabbia protettiva. Quelli erano i ragazzi che lo
avevano accolto, quella era la sua famiglia. — Quinta Coorte! — gridò, avventandosi sul ciclope più
vicino.
L’ultima cosa che il povero mostro vide furono le fauci della signora O’Leary. Dopo che il
ciclope si fu disintegrato – e rimase disintegrato, grazie a Thanatos – Percy balzò giù dal segugio
infernale e cominciò a farsi largo a suon di spada in mezzo agli altri mostri.
Tyson si lanciò all’attacco della comandante dei ciclopi, Mamma Cinghia, la cui vestaglietta
ferrata era sporca di fango e ornata di lance spezzate.
Lei lo guardò strabuzzando gli occhi e cominciò a dire: — Chi cavolo…?
Ma Tyson le diede una botta in testa così forte che la ciclope girò su se stessa e piombò a terra sul
sedere. — Ciclope cattiva! — mugghiò. — Il generale Tyson dice: “Vattene!” — La colpì di nuovo,
e Mamma Cinghia si sgretolò in polvere.
Nel frattempo, Hazel attaccava restando sulla groppa di Arion, passando a fil di spada un ciclope
dietro l’altro, mentre con gli artigli Frank accecava i nemici.
Quando ogni ciclope nel raggio di cinquanta metri fu ridotto in polvere, Frank atterrò di fronte alle
proprie truppe e assunse di nuovo forma umana. Il distintivo di centurione e la Corona Muralis
scintillavano sul suo giubbotto. — Quinta Coorte! — gridò. — Ecco le vostre armi d’oro imperiale.
Prendetele!
I ragazzi si riebbero dallo shock e presero d’assalto la biga. Percy fece del proprio meglio per
rifornirli in fretta.
— Svelti, svelti! — incalzava tutti Dakota, sorridendo come un pazzo e mandando giù gran sorsate
di Super Fresh dalla borraccia. — I nostri compagni hanno bisogno d’aiuto!
Ben presto la Quinta Coorte fu equipaggiata fino ai denti di armi, scudi ed elmi nuovi. Il risultato
non era del tutto coerente: in effetti sembravano di ritorno da una svendita ai magazzini di Re Mida.
Ma tutt’a un tratto era la coorte più potente della legione.
— Seguite l’aquila! — ordinò Frank. — All’attacco!
I ragazzi esultarono.
Quando Percy e la signora O’Leary si lanciarono in avanti, l’intera coorte li seguì: quaranta
guerrieri assetati di sangue e laminati d’oro scintillante. Si avventarono contro un’orda di centauri
che stava attaccando la Terza Coorte. Quando i legionari videro l’emblema dell’aquila, liberarono un
urlo folle e cominciarono a combattere con rinnovata forza.
I centauri non ebbero la minima possibilità. Le due coorti li schiacciarono come in una morsa. Ben
presto di loro non rimase altro che un mucchio di polvere e zoccoli e corna assortiti. Percy sperò che
Chirone lo perdonasse, ma quei centauri non erano come i Party Pony che aveva conosciuto.
Appartenevano decisamente a un’altra specie. Dovevano essere sconfitti.
— Formate i ranghi! — gridarono i centurioni.
Le due coorti si unirono, contando sull’addestramento ricevuto. A scudi serrati, avanzarono in
battaglia contro i Gegenees.
Frank gridò: — Pila!
E un centinaio di lance spuntò sopra gli scudi.
All’urlo di Frank: — Fuoco! — le lance fendettero l’aria: un’onda mortale che si abbatté sui
mostri a sei braccia. Poi i legionari sguainarono le spade e avanzarono verso il cuore della battaglia.
Ai piedi dell’acquedotto, la Prima e la Seconda Coorte stavano cercando di circondare Polibote,
ma stavano avendo la peggio. I Gegenees rimasti lanciavano senza sosta raffiche di blocchi di pietra
e fango. I karpoi – gli spiriti del grano, quei piccoli e orrendi cupidi piranha – sfrecciavano nell’erba
alta rapendo legionari a casaccio, strappandoli via dal fronte.
Polibote stesso continuava a rovesciare basilischi dai capelli. Ogni volta che ne atterrava uno, i
Romani fuggivano nel panico. A giudicare dagli scudi corrosi e dai pennacchi di fumo sugli elmi,
avevano già conosciuto il veleno e il fuoco dei serpenti.
Reyna volteggiava sopra il gigante, tuffandosi col giavellotto ogni volta che veniva distratto dalle
truppe. Il mantello sbatteva al vento, l’armatura dorata scintillava. Polibote sferrava colpi di tridente
e lanciava la rete, ma Scipione era agile quasi quanto Arion.
Poi la ragazza notò la Quinta Coorte che marciava in loro soccorso con l’aquila. Rimase così
sbigottita che per poco non fu colpita da una manata del gigante, che Scipione riuscì a schivare
all’ultimo momento. Reyna incrociò lo sguardo di Percy e gli rivolse un gran sorriso. — Romani! —
La sua voce tuonò per tutto il campo. — All’aquila!
Semidei e mostri si voltarono e sgranarono gli occhi quando videro Percy avanzare in groppa al
segugio infernale.
— E quello cos’è? — domandò Polibote. — Cos’è?
Percy avvertì una scossa di potenza che fluiva lungo tutta l’asta dell’insegna. Sollevò l’aquila e
urlò: — Dodicesima Legione Fulminata!
Un tuono scosse la vallata. L’aquila liberò un lampo accecante, e mille saette esplosero dalle sue
ali dorate arcuandosi di fronte a Percy come i rami di un gigantesco albero mortale, colpendo i
mostri più vicini, balzando da uno all’altro, ignorando completamente le forze romane.
Quando i fulmini si interruppero, la Prima e la Seconda Coorte si trovarono dinanzi un solo
gigante stupefatto e diverse centinaia di mucchietti di cenere. La linea centrale del nemico era stata
carbonizzata.
L’espressione sulla faccia di Ottaviano era impagabile. Il centurione guardò Percy prima
scioccato, poi indignato. Quando però le sue stesse truppe cominciarono a esultare, non ebbe altra
scelta che unirsi alle grida: — Roma! Roma!
Polibote arretrò incerto, ma Percy sapeva che la battaglia non era finita.
La Quarta Coorte era ancora circondata dai ciclopi. Perfino Annibale stava avendo qualche
difficoltà a farsi largo in mezzo a tanti mostri. L’armatura antiproiettile era strappata, e il cartello ora
diceva solo FANTE.
I veterani e i Lari sul fianco orientale venivano spinti sempre più verso la città. La torre d’assedio
dei mostri stava ancora scagliando palle di fuoco verde ed esplosivo nelle strade. Le gorgoni
avevano messo fuori uso le aquile e volavano indisturbate sopra i centauri rimasti e i Gegenees,
cercando di serrare i ranghi.
— Tenete la posizione! — strillava Steno. — Ho degli assaggini gratuiti!
Polibote lanciò un urlo possente. Una decina di nuovi basilischi gli piovve dai capelli, ingiallendo
l’erba di veleno. — Pensi che questo cambi qualcosa, Percy Jackson? Nessuno può distruggermi.
Fatti avanti, ti spezzerò!
Percy scese dalla groppa della signora O’Leary e porse l’aquila a Dakota. — Sei il centurione più
anziano della Quinta Coorte. Abbine cura.
Dakota strizzò gli occhi, poi raddrizzò la schiena inorgoglito. Buttò via la borraccia di Super
Fresh e prese l’aquila. — La porterò con onore.
— Frank, Hazel, Tyson, aiutate la Quarta Coorte — disse Percy. — Ho un gigante da far fuori. —
Sollevò Vortice, ma prima ancora che potesse muovere un passo si udirono dei corni sulle colline
settentrionali.
Un altro esercito comparve sul crinale: centinaia di guerriere in mimetica nera e grigia, armate di
lance e scudi. Qua e là, tra le fila, comparivano carrelli elevatori da guerra, con i rebbi affilati che
scintillavano al tramonto e i proiettili di fuoco incoccati sulle balestre.
— Amazzoni — mormorò Frank. — Ci mancava solo questa…
Polibote rise. — Visto? I nostri rinforzi sono arrivati! Oggi sarà la fine di Roma!
Le amazzoni abbassarono le lance e partirono all’assalto lungo la collina, seguite dai carrelli
elevatori. L’esercito del gigante esultò, finché le guerriere non cambiarono bruscamente direzione e
puntarono dritto verso il fianco orientale dei mostri, ancora intatto.
— Amazzoni, all’attacco! — Sul carrello più grande c’era una ragazza che pareva una versione
poco più grande di Reyna, in armatura nera da combattimento e con una scintillante cintura d’oro in
vita.
— La regina Hylla! — esclamò Hazel. — Ce l’ha fatta!
— Aiutiamo mia sorella! — gridò la regina delle amazzoni. — Distruggete i mostri!
— Distruggiamo i mostri! — le fecero eco le sue truppe per tutta la vallata.
Reyna rivolse il pegaso verso Percy. Era raggiante. Aveva scritto in faccia: “Quanto vorrei
abbracciarti.” Gridò: — Romani, all’attacco!
Sul campo di battaglia scoppiò il caos più totale. La linea delle amazzoni e quella dei Romani
avanzarono con violenza contro il nemico, serrandolo come fossero le Porte della Morte.
Ma l’obiettivo di Percy era uno solo. Si rivolse al gigante: — Tu. Io. All’ultimo sangue.
Si incontrarono all’acquedotto, che in qualche modo era riuscito a rimanere in piedi fino ad allora.
Polibote sferrò un colpo con il tridente e demolì il primo arco in muratura, sprigionando una
cascata. — Avanti, figlio di Nettuno! — lo schernì. — Fammi vedere il tuo potere! L’acqua esegue i
tuoi ordini? Ti guarisce? Ma io sono nato per oppormi a Nettuno. — Il gigante infilò la mano
sott’acqua. Scorrendo tra le sue dita, il torrente diventò verde scuro. Polibote lanciò uno schizzo
contro Percy, che lo deviò d’istinto ordinandogli di cambiare traiettoria. Il liquido si sparse ai suoi
piedi, e con un sibilo tremendo, l’erba appassì in una nuvola di fumo.
— Il mio tocco trasforma l’acqua in veleno — disse Polibote. — Vediamo che effetto può avere
sul tuo sangue!
Lanciò la sua rete, ma Percy si tolse subito di mezzo, e dirottò la cascata sulla faccia del gigante.
Mentre Polibote era accecato, il semidio attaccò. Gli conficcò Vortice in pancia, la estrasse e balzò
via, lasciando il mostro a ruggire dal dolore.
Il colpo avrebbe disintegrato qualsiasi mostro più piccolo, ma Polibote si limitò a barcollare,
fissando l’icore dorato – il sangue degli immortali – che si riversava fuori dalla ferita. Il taglio si
stava già sanando. — Bella mossa, semidio — ringhiò. — Ma ti distruggerò lo stesso.
— Prima devi prendermi — replicò Percy. Poi si voltò e corse verso la città.
— Cosa? — urlò il gigante incredulo. — Scappi, codardo? Affrontami da uomo e muori!
Percy non aveva alcuna intenzione di farlo. Sapeva di non poter uccidere Polibote da solo, ma
aveva un piano.
Superò la signora O’Leary, nelle cui fauci si agitava una gorgone. — Sto bene! — gridò Percy
senza smettere di correre, inseguito da un assassino sanguinario, urlante e gigantesco. Superò con un
salto una balista in fiamme e si chinò per schivare il ciclope scagliato da Annibale. Con la coda
dell’occhio, vide Tyson abbattere un gigante a sei braccia come se fosse un pupazzo del luna park.
Ella gli svolazzava intorno, scansando missili e gridando consigli: — All’inguine! I Gegenees
sono sensibili all’inguine!
Smash!
— Bravo. Sì. Tyson ha trovato l’inguine.
— Percy, vuoi aiuto? — gridò Tyson.
— Sto bene!
— Muori! — urlò Polibote, sempre più vicino.
Percy continuò a correre. In lontananza, vide Hazel e Arion che galoppavano nel campo di
battaglia, abbattendo centauri e karpoi. Uno spirito del grano strillò: — Frumento! Ti darò tanto
frumento! — ma Arion lo ridusse a un bel mucchietto di cornflakes.
La regina Hylla e Reyna avevano unito le forze, l’una sul carrello e l’altra sul pegaso, e
disperdevano le ombre scure dei guerrieri caduti. Frank si era trasformato in un elefante e si faceva
largo calpestando ciclopi, mentre Dakota teneva alta l’aquila d’oro, fulminando qualunque mostro
osasse sfidare la Quinta Coorte.
Tutto fantastico, ma Percy aveva bisogno di un aiuto diverso: gli serviva un dio. Lanciò una rapida
occhiata alle proprie spalle, e vide il gigante quasi a portata di braccia. Per guadagnare un po’ di
tempo, si infilò dietro una delle colonne dell’acquedotto.
Polibote sferrò il tridente.
Quando la colonna cedette, Percy usò l’acqua liberata per direzionare il crollo, facendo atterrare
diverse tonnellate di mattoni sulla testa del gigante. Poi scattò come un fulmine verso i confini della
città. — Terminus! — urlò.
La statua più vicina del dio era a una ventina di metri di distanza. I suoi occhi di pietra si
spalancarono di scatto quando Percy gli corse incontro. — Assolutamente inaccettabile! — si
lamentò il dio. — Edifici in fiamme! Invasori! Cacciali subito via di qui, Percy Jackson!
— Ci sto provando — replicò lui. — Ma c’è un gigante che…
— Sì, lo so! Aspetta… Scusa un momento… — Terminus chiuse gli occhi, concentrato. Una palla
di fuoco verde volò in cielo ed evaporò in un istante. — Non posso fermare tutti i missili — si
lamentò il dio dei confini. — Perché non hanno la decenza di attaccarmi più lentamente? Sono solo
uno.
— Aiutami a uccidere il gigante, e tutto questo caos finirà — disse Percy. — Un dio e un semidio
che operano insieme: è l’unico modo per abbatterlo.
Terminus tirò su col naso. — Io mi occupo di fare la guardia ai confini. Non uccido giganti. Non è
nelle mie mansioni.
— E dai, Terminus! — Percy fece un altro passo avanti.
Il dio strillò indignato. — Fermo lì, giovanotto! Non si portano armi oltre la linea del pomerium!
— Ma siamo sotto attacco!
— Non mi interessa! Le regole sono regole. Quando la gente non segue le regole, mi arrabbio
davvero, davvero tanto.
Percy sorrise. — Bene. Concentrati su questo principio. — Corse indietro, verso il gigante. —
Ehi, brutto mostro!
Polibote esplose dalle macerie dell’acquedotto. L’acqua gli si riversava ancora addosso,
trasformandosi in veleno e creando una palude fumante ai suoi piedi. — Tu… morirai lentamente —
promise. Raccolse il tridente, che ormai colava veleno verde.
Nel frattempo, la battaglia stava giungendo al termine. Dopo essersi sbarazzati degli ultimi mostri,
gli amici di Percy cominciarono a raccogliersi, formando un anello intorno al gigante.
— Sarai mio prigioniero, Percy Jackson — ringhiò Polibote. — Ti torturerò sotto il mare. Ogni
giorno l’acqua ti sanerà, e ogni giorno io ti riporterò vicino alla morte.
— Bella proposta, grazie — replicò Percy. — Ma credo invece che ti ucciderò.
Polibote urlò infuriato. Scosse la testa, e altri basilischi gli piovvero dai capelli.
— Indietro! — gridò Frank.
Il caos si diffuse di nuovo tra i ranghi. Hazel spronò Arion e si mise tra i serpenti e i legionari.
Frank mutò forma, rimpicciolendosi in una creatura snella e pelosa.
Una donnola? Percy pensò che avesse perso il lume della ragione, ma quando Frank attaccò, i
basilischi impazzirono e se la diedero a gambe, inseguiti da un semidio in versione donnola
inferocita.
Polibote puntò il tridente e corse verso Percy.
Non appena il gigante ebbe raggiunto la linea del pomerium, Percy si fece da parte con un salto,
come un torero, e Polibote varcò il confine della città.
— Beccato! — strepitò Terminus. — Questo è contro le regole!
Polibote aggrottò la fronte, palesemente confuso dal rimprovero della statua. — E tu chi accidenti
sei? — ringhiò. — Stai zitto! — Rovesciò la statua e si voltò ad affrontare Percy.
— Ora sono furioso! — strillò Terminus. — Ti strangolerò con le mie mani! Le senti le mie mani
intorno al collo, brutto bestione prepotente? Fuori di qui! Ti darò una di quelle testate che…
— Smettila! — Il gigante schiacciò la statua, spezzandola in tre: piedistallo, corpo e testa.
— Come hai osato?! — urlò Terminus. — Percy Jackson, affare fatto! Ammazziamo questo
pivello.
Polibote rise così forte che si accorse dell’attacco solo all’ultimo.
Percy saltò in alto, prendendo slancio sul ginocchio del gigante, e conficcò Vortice direttamente in
una delle fauci di metallo spalancate che decorava il pettorale dell’armatura, affondando il bronzo
celeste fino all’elsa. Il gigante arretrò barcollando, inciampò sul piedistallo di Terminus e si abbatté
al suolo. Mentre l’avversario cercava di rialzarsi e di strapparsi la lama dal petto, Percy issò la testa
della statua.
— Non vincerai mai! — gemette Polibote. — Non puoi sconfiggermi da solo.
— Non sono solo. — Percy sollevò la testa di pietra sopra la faccia del gigante. — Lieto di
presentarti il mio amico Terminus. È un dio!
Troppo tardi, un barlume di comprensione e di paura si accese sul volto del gigante. Percy gli
calò la testa del dio sul naso con tutte le forze, e Polibote si dissolse, sgretolandosi in un gran
mucchio di alghe, pelle di rettile e fanghiglia velenosa.
— Ah! — esclamò la testa di Terminus. — E così impari a non rispettare le regole di Roma!
Il figlio di Poseidone arretrò barcollando, completamente esausto.
Per un attimo, il campo di battaglia rimase in silenzio, tranne per i focolai che ardevano ancora e i
pochi mostri che battevano in ritirata strillando in preda al panico.
Un cerchio scombinato di Romani e amazzoni si formò intorno a Percy. C’erano Tyson, Ella e la
signora O’Leary. Frank e Hazel lo guardavano sorridendo fieri. Arion mordicchiava soddisfatto uno
scudo d’oro.
I Romani cominciarono a urlare: — Percy! Percy! — E lo travolsero. Prima che se ne rendesse
conto, lo avevano sollevato su uno scudo. Il grido cambiò in: — Pretore! Pretore!
Tra le voci c’era anche quella di Reyna, che alzò la mano e afferrò quella di Percy per
congratularsi con lui. Poi la folla di Romani esultanti lo portò in trionfo intorno alla linea del
pomerium, evitando con cura i confini di Terminus, e lo scortò a casa, fino al Campo Giove.
PERCY
La Festa della Fortuna non aveva niente a che vedere con la lotteria, e a Percy andava benissimo
così.
Romani, Lari e amazzoni gremivano la mensa per un sontuoso banchetto. Persino i fauni erano stati
invitati, dato che avevano aiutato a medicare i feriti dopo la battaglia. Le ninfe del vento
sfrecciavano per la sala, consegnando pizze, hamburger, bistecche, insalate e burritos, il tutto
volando a velocità supersonica.
Nonostante i postumi della battaglia, tutti erano felici. Non c’erano feriti gravi, e i pochi ragazzi
che erano morti e tornati in vita, come Gwen, non erano stati riportati negli Inferi. Forse Thanatos
aveva chiuso un occhio. O forse Plutone aveva concesso loro un lasciapassare, come aveva fatto con
Hazel. In ogni caso, nessuno se ne lamentava.
I vessilli colorati delle amazzoni e dei Romani pendevano gli uni di fianco agli altri dalle travi.
L’aquila d’oro recuperata si ergeva fieramente dietro il tavolo del pretore, e le pareti erano ornate di
cornucopie, i corni magici dell’abbondanza da cui si riversavano cascate di frutta, cioccolato e
biscotti appena sfornati.
Le coorti si mescolavano liberamente con le amazzoni, saltando da un divano all’altro come più
gli piaceva, e per una volta i soldati della Quinta erano i benvenuti ovunque. Percy cambiò posto così
tante volte che dimenticò dove fosse la propria cena.
Flirt e gare a braccio di ferro si vedevano un po’ dovunque; a quanto pareva, per le amazzoni
equivalevano alla stessa cosa. A un certo punto Percy fu messo all’angolo da Kinzie, la guerriera che
lo aveva disarmato a Seattle. Dovette spiegarle che aveva già una ragazza. Per fortuna, lei la prese
bene. Gli raccontò cos’era successo dopo la loro partenza da Seattle, come Hylla avesse sconfitto
Otrera in due duelli mortali consecutivi, tanto che ormai la chiamavano “Hylla Ammazza Due Volte”.
— Otrera è rimasta morta, la seconda volta — disse Kinzie, sbattendo le ciglia. — Dobbiamo
ringraziare te per questo. Se mai avessi bisogno di una nuova ragazza… be’, penso che staresti
benissimo con il collare di ferro e la tuta arancione.
Percy non capì se stesse scherzando o meno. La ringraziò educatamente e andò a sedersi da
un’altra parte.
Quando tutti ebbero finito di mangiare e non ci furono più piatti volanti in circolazione, Reyna
fece un breve discorso. Diede il benvenuto ufficiale alle amazzoni, ringraziandole per l’aiuto. Poi
abbracciò Hylla, e tutti applaudirono.
Reyna sollevò le mani per chiedere il silenzio. — Io e mia sorella non siamo sempre andate
d’amore e d’accordo…
Hylla rise. — A dir poco…
— Lei è entrata nelle amazzoni, io nel Campo Giove — continuò la ragazza. — Ma, guardando
oggi questa sala, penso che entrambe abbiamo fatto ottime scelte. Stranamente, i nostri due destini
sono stati resi possibili dall’eroe che tutti voi avete appena innalzato a pretore sul campo di
battaglia: Percy Jackson.
Altre grida di esultanza. Le sorelle sollevarono i calici verso Percy e lo invitarono a farsi avanti.
Tutti volevano un discorso, ma lui non sapeva cosa dire. Si schermì dicendo che in realtà non era
la persona migliore per quel ruolo, ma i ragazzi lo zittirono a suon di applausi.
Reyna gli sfilò la piastrina della probatio.
Ottaviano gli scoccò uno sguardo truce e poi si rivolse alla folla sorridendo come se fosse tutta
una sua idea. Squarciò un orsacchiotto di peluche e pronunciò degli ottimi presagi per l’anno a
venire: la dea Fortuna li avrebbe benedetti! Passò la mano sul braccio di Percy e gridò: — Percy
Jackson, figlio di Nettuno, primo anno di servizio!
I simboli romani arsero sulla pelle di Percy: un tridente, le lettere SPQR e una singola linea. Fu
quasi come se lo avessero marchiato con un ferro incandescente, ma riuscì a non urlare.
Ottaviano lo abbracciò e bisbigliò: — Spero che ti abbia fatto male.
Poi Reyna offrì a Percy una medaglia a forma di aquila e un mantello, simboli del pretore. — Te li
sei meritati.
La regina Hylla gli diede una pacca sulle spalle. — E io ho deciso di non ammazzarti.
— Ehm… grazie. — Percy fece di nuovo il giro della mensa, perché tutti lo reclamavano al
proprio tavolo.
Il Lare Vitellio lo seguì tra i soliti inciampi, dicendo a tutti di come aveva predetto la sua ascesa.
— Sono stato io a chiedere la sua ammissione nella Quinta Coorte! — diceva con orgoglio. — Ho
visto subito il suo talento!
Don il fauno spuntò con un cappellino da infermiera e una pila di biscotti in ciascuna mano. —
Congratulazioni, bello! Figata! Ehi, hai degli spiccioli?
Tutta quell’attenzione imbarazzava Percy, ma era felice di vedere quanto anche Hazel e Frank
fossero trattati bene. Tutti li chiamavano “i salvatori di Roma”, e se lo meritavano. Si parlava
perfino di reintegrare il bisnonno di Frank, Shen Lun, nell’albo d’onore della legione. Dopotutto, non
era stato lui a causare il terremoto del 1906, a quanto pareva.
Percy si sedette per un po’ insieme a Tyson ed Ella, che erano gli ospiti d’onore al tavolo di
Dakota. Tyson continuava a chiedere panini al burro di arachidi, mangiandoli alla velocità con cui le
ninfe glieli portavano.
Ella se ne stava appollaiata in cima al divano alle sue spalle, e sbocconcellava con furia dei
panini alla cannella. — I panini alla cannella sono ottimi per le arpie — diceva. — Il 24 giugno è un
bel giorno. Il compleanno di Roy Disney, e la Festa della Fortuna, e il giorno dell’Indipendenza di
Zanzibar. E Tyson. — Lanciò un’occhiata al ciclope, arrossì e distolse lo sguardo.
Dopo cena, la legione ebbe la serata libera. Percy e i suoi amici scesero in città. Nuova Roma non si
era ancora ripresa dalla battaglia, ma gli incendi erano spenti, gran parte delle macerie erano state
rimosse e i cittadini erano decisi a festeggiare.
Sulla linea del pomerium, la statua di Terminus portava un cappellino da party. — Benvenuto,
pretore! — esclamò. — Se hai bisogno di spaccare la faccia a qualche gigante mentre sei in città, fai
un fischio.
— Grazie, Terminus — disse Percy. — Me lo ricorderò.
— Sì, bene. Il tuo mantello da pretore pende di due centimetri a sinistra. Ecco… così va meglio.
Dov’è la mia assistente? Julia!
La bambina corse fuori da dietro il piedistallo. Indossava una veste verde e portava ancora i
codini. Quando sorrise, Percy vide che i due denti davanti stavano cominciando a spuntare. Gli porse
una scatola piena di cappellini di carta. Il semidio cercò di declinare l’offerta, ma Julia lo guardò
con occhioni adoranti.
— Ah, certo — disse allora Percy. — Prendo la corona blu.
Poi la bambina offrì a Hazel un cappello d’oro da pirata. — Da grande diventerò Percy Jackson
— disse in tono solenne.
Hazel sorrise e le scompigliò i capelli. — Mi sembra un’ottima idea, Julia.
— Ma potresti anche diventare Frank Zhang — suggerì Frank, scegliendo un cappello a forma di
testa d’orso polare. — Non sarebbe male.
— Frank! — esclamò Hazel.
Indossarono i cappellini e continuarono diretti al foro, che era illuminato di lanterne multicolore.
Le fontane scintillavano di una tonalità violacea. I caffè erano pieni, e i musicisti di strada
riempivano l’aria con il suono di chitarre, lire, flauti di Pan e pernacchie ascellari. Queste ultime
sconcertarono Percy, ma poi si disse che forse era un’antica tradizione musicale romana.
Anche la dea Iride doveva essere in vena di festeggiare. Quando i ragazzi passarono di fronte al
palazzo danneggiato del Senato, uno splendido arcobaleno comparve nel cielo della sera. Purtroppo
la dea mandò anche un’altra benedizione: una lieve pioggerellina di dolcetti senza glutine della
ALI.ST.AR. Percy pensò che avrebbero reso più difficili le pulizie, o più facile la ricostruzione. Erano
dei magnifici mattoni.
Per un po’ passeggiò per le strade insieme a Hazel e Frank, che continuavano a finire sempre
molto vicini. Alla fine disse: — Sono un po’ stanco, ragazzi. Andate avanti senza di me.
Hazel e Frank protestarono, ma Percy intuiva che avevano bisogno di stare un po’ da soli.
Tornando verso il campo, vide la signora O’Leary giocare con Annibale nel Campo Marzio:
finalmente aveva trovato un degno compagno di giochi. Correvano, si davano addosso, abbattevano
le fortificazioni e se la spassavano un mondo.
Arrivato ai cancelli del campo, Percy si fermò a scrutare la valle. Sembrava passato un secolo da
quando si era affacciato e aveva visto quel panorama per la prima volta. Ora gli interessava di più
l’orizzonte orientale.
Presto i suoi amici del Campo Mezzosangue sarebbero arrivati. Per quanto tenesse al Campo
Giove, non vedeva l’ora di rivedere Annabeth. Aveva una grande nostalgia della propria vecchia vita
– New York e il Campo Mezzosangue – ma qualcosa gli diceva che ci sarebbe voluto ancora un po’
per tornare a casa. Gea e i giganti non avevano smesso di creare problemi, neanche lontanamente.
Reyna gli aveva assegnato la casa del secondo pretore sulla Via Principalis, ma Percy, non
appena aveva gettato un’occhiata dentro, si era reso conto di non poterci stare. Era un bel posto, ma
era pieno della roba di Jason. Percy si sentiva a disagio ad accettare il suo titolo, e non voleva
prendersi anche la sua casa. Le cose sarebbero già state abbastanza imbarazzanti quando Jason fosse
tornato, e Percy era sicuro di trovarlo a bordo della nave da guerra con la testa di drago.
Raggiunse gli alloggi della Quinta Coorte e si distese sul letto. Si addormentò all’istante.
Sognò di attraversare il Piccolo Tevere, con Giunone in braccio.
Era travestita da vecchia stracciona pazza, sorrideva e cantava un’antica ninnananna greca, con le
mani incartapecorite strette al collo di Percy. — Vuoi ancora prendermi a schiaffi, mio caro?
Percy si fermò. Mollò la presa, e la dea piombò nel fiume.
Nell’istante in cui toccò l’acqua, Giunone scomparve e riapparve sulla riva. — Oh, santi numi! —
ridacchiò. — Non è stato un gesto molto eroico, nemmeno in sogno!
— Sette mesi — ringhiò Percy. — Hai rubato sette mesi della mia vita per una missione di una
settimana. Perché?
Giunone fece un cenno noncurante. — Voi mortali e le vostre brevi vite. Sette mesi non sono nulla,
mio caro. Una volta ho perso otto secoli, un’assenza che è durata per gran parte dell’impero
bizantino.
Percy evocò il potere del fiume. L’acqua prese a roteargli spumosa e candida intorno.
— Su, su… non ti agitare — continuò la dea. — Per sconfiggere Gea, dovevamo sincronizzare
alla perfezione i nostri piani. Prima avevo bisogno che Jason e i suoi amici mi liberassero dalla
prigione…
— La tua prigione? Eri in prigione e loro ti hanno lasciata andare?
— Non essere così sorpreso, mio caro! Sono una tenera vecchietta, dopotutto. Comunque, non
c’era bisogno di te al Campo Giove fino a ora, per salvare i Romani nel momento di massima crisi. I
sette mesi nel mezzo… be’, ho altri piani in preparazione, figliolo. Contrastare Gea, agire alle spalle
di Giove, proteggere i tuoi amici… è un lavoro a tempo pieno! Se dovevo proteggere anche te dai
mostri e dai piani malvagi di Gea, e tenerti ben nascosto dai tuoi amici dell’Est per tutto quel
tempo… non c’era niente di meglio di un bel sonnellino. Saresti stato solo una distrazione. Una mina
vagante.
— Una distrazione! — Percy percepì l’acqua che si alzava insieme alla sua rabbia, roteando
sempre più veloce. — Una mina vagante…
— Esatto. Lieta che tu comprenda.
Percy inviò un’onda ad abbattersi contro la vecchia, ma Giunone non fece altro che scomparire e
materializzarsi poco lontano.
— Misericordia! — esclamò la dea. — Sei davvero di pessimo umore. Ma sai che ho ragione. Il
tuo arrivo qui è stato di un tempismo perfetto. Ora si fidano di te. Sei un eroe di Roma. E, mentre tu
dormivi, Jason Grace ha imparato a fidarsi dei Greci. Hanno avuto il tempo di costruire l’Argo II.
Insieme, tu e Jason riunirete i due campi.
— Perché io? — ribatté Percy. — Io e te non siamo mai andati d’accordo. Perché dovresti volere
una mina vagante nella tua squadra?
— Perché ti conosco, Percy Jackson. Sei un impulsivo, ma quando si tratta dei tuoi amici sei
coerente come l’ago di una bussola. Sei di una lealtà ferrea, e ispiri lealtà negli altri. Sei il collante
che unirà i Sette.
— Fantastico — commentò Percy. — Ho sempre desiderato essere una colla.
Giunone intrecciò le dita contorte. — Tutti gli eroi dell’Olimpo devono unirsi! Dopo la tua
vittoria su Crono a Manhattan… be’, temo che Giove sia rimasto un po’ ferito nell’orgoglio.
— Perché io avevo ragione, e lui aveva torto — osservò Percy.
La vecchia si strinse nelle spalle. — Dovrebbe esserci abituato, dopo tanti secoli di matrimonio,
ma ahimè! Il mio orgoglioso e ostinato marito si rifiuta di chiedere nuovamente aiuto a semplici
semidei. Crede che i giganti si possano combattere senza di voi, e che sia possibile costringere di
nuovo Gea a dormire. Certo, io so come stanno le cose. Ma voi dovete dimostrare il vostro valore.
Solo partendo per le antiche terre e chiudendo le Porte della Morte convincerete Giove di essere
degni di combattere fianco a fianco con gli dei. Sarà l’impresa più eroica mai vista dopo che Enea
salpò da Troia!
— E se fallissimo? — ribatté Percy. — Se Romani e Greci non riuscissero a collaborare?
— Allora Gea ha già vinto. Ti dico questo, Percy Jackson. Quella che ti causerà maggiori
problemi è colei che è più vicina al tuo cuore, colei che mi odia di più.
— Annabeth? — Percy sentì montare di nuovo la rabbia. — Non ti è mai piaciuta. Adesso pensi
che sarà lei a causare problemi? Non la conosci per niente. Lei è la persona che più di tutte vorrei a
guardarmi le spalle.
La dea sorrise freddamente. — Lo vedremo, giovane eroe. L’attende un compito difficile, quando
arriverete a Roma. E non so se ne sarà all’altezza.
Percy evocò un pugno d’acqua e lo diresse contro la vecchia.
Quando l’onda scemò, la dea era scomparsa. Il fiume turbinò fuori dal controllo di Percy, e il
semidio affondò nelle tenebre del vortice.
PERCY
Il mattino dopo, Percy, Hazel e Frank fecero colazione presto, poi si diressero in città prima della
seduta del Senato. Ora che Percy era pretore, aveva accesso libero ovunque, a qualsiasi ora.
Lungo la strada passarono davanti alle scuderie, dove Tyson e la signora O’Leary si erano
sistemati per la notte. Tyson russava su un letto di fieno accanto agli unicorni, con un’espressione
beata in viso, come se sognasse dei pony. La signora O’Leary si era rotolata sulla schiena e ronfava
con le zampe sugli occhi. Sul tetto delle scuderie, Ella aveva fatto il nido con una pila di vecchie
pergamene romane, la testa infilata sotto le ali.
Arrivati al foro, i tre semidei sedettero vicino alla fontana e guardarono sorgere il sole. I cittadini
erano già impegnati a ripulire le strade da dolcetti ALI.ST.AR, coriandoli e cappellini di carta della
sera prima. Il reparto edile stava già lavorando a un nuovo arco che avrebbe commemorato la vittoria
su Polibote.
Hazel disse che aveva sentito parlare perfino di un trionfo in loro onore – una parata intorno alla
città seguita da una settimana di ludi e feste – ma Percy sapeva che non avrebbero mai avuto la
possibilità di parteciparvi. Non ne avevano il tempo.
Raccontò del sogno di Giunone agli amici.
Hazel si accigliò. — Gli dei si sono dati da fare, ieri sera. Mostraglieli, Frank.
Il figlio di Marte si infilò una mano nella tasca del giubbotto, e Percy pensò che tirasse fuori il
pezzo di legno. Invece Frank estrasse un libretto tascabile e un appunto su un foglio di carta da lettere
rosso. — Li ho trovati sul mio cuscino stamattina. — Passò gli oggetti a Percy. — Come se li avesse
lasciati la Fatina dei Denti.
Il libro era L’arte della guerra, di Sun Tzu. Percy non ne aveva mai sentito parlare, ma non faticò
a immaginare chi fosse il mittente. La lettera diceva: Ottimo lavoro, figliolo. L’arma migliore di un
uomo è il cervello. Questo era il libro preferito di tua madre. Dagli un’occhiata. P.S.: Spero che il
tuo amico Percy abbia imparato a portarmi un po’ di rispetto.
— Wow! — Percy riconsegnò il libro all’amico. — Forse Marte è diverso da Ares. Dubito che
Ares sappia leggere.
Frank sfogliò rapidamente le pagine. — Qui si fa un gran parlare di sacrifici e di costi della
guerra. A Vancouver, Marte mi ha detto di mettere il dovere al primo posto, prima ancora della mia
vita, o la guerra avrebbe preso il verso sbagliato. Pensavo che si riferisse all’obiettivo di liberare
Thanatos, ma ora… non lo so. Sono ancora vivo, perciò forse il peggio deve ancora venire.
Percy ebbe la sensazione che non gli stesse dicendo tutto. Si chiese se Marte non gli avesse
rivelato anche qualcosa che lo riguardava, ma non era certo di volerlo sapere. E poi Frank aveva già
dato abbastanza; aveva visto la propria casa ridursi in cenere, aveva perso la madre e la nonna. —
Hai rischiato la vita — gli disse Percy. — Eri disposto a consumare te stesso per la missione. Marte
non può chiederti più di questo.
— Forse è così. — Frank annuì, dubbioso.
Hazel e Frank sembravano più a loro agio quella mattina, senza nervosismi o imbarazzi. Percy si
domandò se si fossero messi insieme. Si augurò di sì, ma decise che fosse meglio non indagare.
— Hazel, e tu? — chiese invece. — Notizie da Plutone?
Lei abbassò lo sguardo. Diversi diamanti le spuntarono ai piedi. — No — confessò. — In un certo
senso, credo che abbia mandato un messaggio tramite Thanatos. Il mio nome non era sulla lista delle
anime fuggitive, come avrebbe dovuto.
— Pensi che tuo padre ti stia dando un lasciapassare?
Hazel si strinse nelle spalle. — Plutone non può venire a trovarmi o parlare con me senza
riconoscere che sono viva. Nel qual caso, dovrebbe far valere le leggi della morte e ordinare a
Thanatos di riportarmi negli Inferi. Credo che stia chiudendo un occhio. Credo… credo voglia che io
trovi Nico.
Percy lanciò un’occhiata al tramonto, sperando di vedere una nave da guerra volante che si calava
giù dal cielo. Per il momento, nulla di fatto. — Troveremo tuo fratello — promise. — Non appena
arriva la nave, salperemo per Roma.
Hazel e Frank si scambiarono uno sguardo imbarazzato, come se ne avessero già parlato tra loro.
— Percy, se vuoi che veniamo con te, puoi contare su di noi — disse Frank. — Ma sei sicuro?
Cioè… sappiamo che hai una tonnellata di amici nell’altro campo. E ora potresti scegliere chiunque
qui al Campo Giove. Se non ci vuoi nei Sette, lo capiremmo…
— Stai scherzando? Pensi che lascerei indietro la mia squadra? Dopo che sono sopravvissuto al
tè verde al germe di grano, sono scappato dai cannibali e mi sono nascosto sotto le chiappe azzurre
di un gigante in Alaska?
La tensione si spezzò, e scoppiarono tutti e tre a ridere. Forse perfino troppo, ma era un tale
sollievo essere vivi e crogiolarsi al sole del mattino senza doversi preoccupare – almeno per il
momento – di volti sinistri che comparivano sui fianchi ombrosi delle colline.
Hazel trasse un respiro profondo. — La profezia che Ella ha pronunciato, a proposito della figlia
della saggezza, e del marchio di Atena che brucerà su Roma… sai di che si tratta?
Percy ripensò al sogno. Giunone lo aveva avvisato che Annabeth avrebbe avuto un compito
difficile, e che avrebbe causato problemi alla missione. Non poteva crederci, però… era
preoccupato. — Non ne sono sicuro — ammise. — Credo che ci sia dell’altro. Forse Ella riuscirà a
ricordare il resto della profezia.
Frank si infilò il libro in tasca. — Dobbiamo portarla con noi… per tenerla al sicuro. Se
Ottaviano scopre che Ella ha imparato a memoria i Libri Sibillini…
Percy rabbrividì. Ottaviano si serviva delle profezie per conservare il potere al campo. Ora che
lui gli aveva strappato la possibilità di diventare pretore, avrebbe cercato altri modi per estendere la
sua influenza. Se avesse messo le mani su Ella…
— Hai ragione — disse. — Dobbiamo proteggerla. Spero solo che riusciremo a convincerla…
— Percy! — Tyson arrivò di corsa nel foro.
Ella svolazzava alle sue spalle, con una pergamena stretta fra le zampe. Quando raggiunsero la
fontana, lasciò cadere il rotolo sul grembo di Percy.
— Buongiorno, fratelli! — Tyson aveva la paglia tra i capelli e il burro di arachidi tra i denti. —
La pergamena è di Leo. Un tipo buffo e basso.
Il rotolo non sembrava niente di speciale ma, quando Percy lo aprì, un video prese vita sulla
superficie della pergamena. Un ragazzo in armatura greca gli sorrise. Aveva un’espressione furba,
con i capelli ricci e neri e gli occhi un po’ folli, come se avesse appena bevuto diverse tazze di caffè.
Era seduto in una stanza buia con le pareti di legno, simile alla cabina di una nave. Lampade a olio
ondeggiavano sul soffitto.
Hazel soffocò un grido.
— Che c’è? — domandò Frank. — Che succede?
Lentamente, Percy si rese conto che quel ragazzo riccio aveva un’aria familiare, e non solo per via
dei sogni. Aveva visto quel volto in una vecchia fotografia.
— Ehi! — disse il ragazzo nel video. — Tanti saluti dai tuoi amici del Campo Mezzosangue,
eccetera eccetera. Io sono Leo. Sono il… — Guardò fuori dall’inquadratura e gridò: — Ehi, qual è il
mio titolo? Sono l’ammiraglio, il capitano o…?
La voce di una ragazza suggerì: — Il ragazzo della manutenzione.
— Molto divertente, Piper — brontolò Leo. Tornò a guardare lo schermo. — Allora, sì, io sono…
ehm… il comandante supremo della Argo II. Sì, mi piace! Comunque, arriveremo da voi tra, non lo
so, diciamo un’oretta, a bordo di questa grande nave da guerra. Ci farebbe molto piacere se… ecco,
se non ci bombardaste o roba del genere. Perciò, se per favore puoi dirlo ai Romani… be’, mille
grazie. Ci vediamo. Distinti saluti semidivini eccetera eccetera. Pace, bello!
La pergamena si spense.
— Non è possibile — mormorò Hazel.
— Che c’è? — chiese Frank. — Conosci quel ragazzo?
Sembrava che la ragazza avesse appena visto un fantasma. E Percy comprese perché: il ragazzo
sulla nave era identico alla foto che aveva visto nella casa abbandonata a Seward, quella del
fidanzato di Hazel.
— È Sammy Valdez — disse la figlia di Plutone. — Ma come… come…?
— Impossibile — ribatté Percy. — Quel ragazzo si chiama Leo. E sono passati più di settant’anni.
Dev’essere una… — Stava per dire “coincidenza”, ma nemmeno lui ci credeva. Nel corso degli
ultimi anni si era imbattuto in un sacco di cose: destino, profezie, magia, mostri, fato… Ma di
coincidenze neppure l’ombra.
Furono interrotti dal suono di corni in lontananza. I senatori arrivarono nel foro, con Reyna in
testa.
— Sta per cominciare la seduta — disse Percy. — Venite. Dobbiamo avvisarli della nave.
— Perché dovremmo fidarci di quei Greci? — chiese Ottaviano. Stava misurando a grandi passi il
pavimento del Senato da cinque minuti, avanti e indietro, cercando di confutare quanto Percy aveva
riferito sui piani di Giunone e sulla Profezia dei Sette.
I senatori erano in agitazione, ma la maggior parte aveva troppa paura di interrompere Ottaviano
quando questi partiva in quarta con uno dei suoi discorsi. Nel frattempo, il sole si era alzato in cielo
e penetrava dallo squarcio nel soffitto, illuminando l’augure come un riflettore naturale.
Il Senato era pieno da scoppiare. La regina Hylla, Frank e Hazel sedevano in prima fila con i
senatori. Veterani e fantasmi riempivano le ultime file. Perfino Tyson ed Ella erano stati ammessi a
sedere, in fondo. Tyson continuava a sorridere e a salutare Percy con la mano.
Percy e Reyna occupavano le sedie dei pretori, sulla pedana, con grande imbarazzo di Percy. Non
era facile darsi un contegno con un lenzuolo e un mantello viola indosso.
— Il campo è salvo — continuò Ottaviano. — Sono stato il primo a congratularsi con i nostri eroi
per averci riportato l’aquila della legione e tutto quell’oro imperiale! Siamo stati davvero benedetti
dalla fortuna. Ma perché fare di più? Perché sfidare il fato?
— Sono felice che tu l’abbia chiesto. — Percy si alzò, interpretando la domanda come
un’apertura.
Ottaviano balbettò. — Io non…
— … non hai partecipato all’eroica impresa, lo so. E sei molto saggio a permettere che mi
spieghi, dato che io c’ero.
Tra i senatori si levò qualche verso di scherno.
Ottaviano non poté faro altro che sedersi e sforzarsi di non sembrare imbarazzato.
— Gea si sta svegliando — disse Percy. — Abbiamo sconfitto due dei suoi giganti, ma è soltanto
l’inizio. La vera guerra avrà luogo nell’antica terra degli dei. Questa nuova missione ci porterà a
Roma, e infine in Grecia.
Un rivolo di inquietudine si diffuse per il Senato.
— Lo so, lo so — continuò il figlio di Poseidone. — Avete sempre pensato che i Greci fossero
vostri nemici. E per una buona ragione. Credo che gli dei abbiano tenuto separati i due campi perché
ogni volta che ci siamo incontrati abbiamo combattuto. Ma è una situazione che può cambiare. Deve
cambiare se vogliamo sconfiggere Gea. Ecco che cosa significa la Profezia dei Sette. Sette semidei,
greci e romani, dovranno chiudere le Porte della Morte insieme.
— Ah! — gridò un Lare dall’ultima fila. — L’ultimo pretore che cercò di interpretare la Profezia
dei Sette fu Michael Varus, e fu proprio lui a perdere la nostra aquila in Alaska. Perché dovremmo
credere a te, adesso?
Ottaviano sorrise con arroganza. Alcuni dei suoi alleati nel Senato cominciarono ad annuire e a
brontolare. Anche qualche veterano sembrò incerto.
— Ho portato in braccio Giunone attraverso il Tevere — rammentò loro Percy, parlando con il
tono più fermo che riuscì a trovare. — Mi ha detto che la Profezia dei Sette si sta avverando. Anche
Marte in persona è comparso davanti a voi. Pensate che due delle vostre divinità più importanti
apparirebbero al campo se la situazione non fosse seria?
— Ha ragione! — esclamò Gwen dalla seconda fila. — Io mi fido della parola di Percy. Greco o
non greco, ha restituito l’onore alla legione. Lo avete visto combattere, ieri notte. Qualcuno dei
presenti oserebbe dire che non è un vero eroe romano?
Nessuno si azzardò a contraddirla. Qualcuno annuì.
Reyna si alzò. Percy la guardò ansioso. La sua opinione poteva cambiare tutto, in meglio o in
peggio.
— Dici che questa è una missione speciale, di gruppo — esordì Reyna. — Dici che Giunone
vuole che cooperiamo con altri semidei… quelli del Campo Mezzosangue. Eppure i Greci sono
nostri nemici da secoli. Sono noti per i loro inganni.
— Forse è così, ma i nemici possono diventare amici — ribatté Percy. — Una settimana fa,
avresti pensato che Romani e amazzoni potessero combattere fianco a fianco?
La regina Hylla rise. — Non ha tutti i torti.
— I semidei del Campo Mezzosangue hanno già cooperato con il Campo Giove — proseguì
Percy. — Solo che non ce ne siamo resi conto. Durante la guerra dei Titani, la scorsa estate, mentre
voi attaccavate il Monte Otri, noi difendevamo il Monte Olimpo a Manhattan. Io stesso ho combattuto
contro Crono.
Reyna fece un passo indietro, e per poco non inciampò nella toga. — Tu… cosa?
— So che è difficile da credere, ma penso di essermi guadagnato la vostra fiducia. Sono dalla
vostra parte. Hazel e Frank… sono sicuro che hanno intenzione di partire con me per questa impresa.
Gli altri quattro stanno arrivando dal Campo Mezzosangue in questo preciso momento. Uno di loro è
Jason Grace, il vostro vecchio pretore.
— Oh, per favore! — gridò Ottaviano. — Adesso si sta inventando le cose!
Reyna aggrottò la fronte. — Stai mettendo a dura prova la nostra fiducia. Jason sta tornando con
un manipolo di semidei greci? Dici che appariranno in cielo con una nave da guerra, e noi non
dovremmo preoccuparci?
— È così. — Percy fece scorrere lo sguardo sui membri del Senato. — Lasciateli atterrare,
ascoltateli. Jason confermerà tutto quello che vi sto dicendo. Lo giuro sulla mia vita.
— Sulla tua vita? — Ottaviano guardò con aria allusiva i senatori. — Ce lo ricorderemo, se si
rivelerà un trucco.
In quello stesso istante, un messaggero irruppe nell’aula del Senato, boccheggiando come se non si
fosse mai fermato lungo tutta la strada dal campo. — Pretori! Mi dispiace interrompere, ma le nostre
vedette riferiscono…
— La nave! — gridò Tyson contento, indicando lo squarcio sul soffitto. — Evviva!
Una nave greca apparve tra le nuvole, a poche centinaia di metri di distanza. Stava calando verso
l’edificio del Senato. Percy vide gli scudi di bronzo che scintillavano sui fianchi, le vele gonfie, e
una familiare polena metallica a forma di testa di drago; sull’albero più alto, una grande bandiera
bianca sbatteva al vento in segno di tregua. L’ Argo II era la nave più incredibile che avesse mai
visto.
— Pretori! — gridò il messaggero. — Quali sono i vostri ordini?
Ottaviano balzò in piedi. — C’è bisogno di chiederlo? — Il suo volto era paonazzo dalla rabbia.
Stava strangolando un orsacchiotto. — Ci sono orrendi presagi! Questo è un trucco, un inganno.
Guardatevi dai Greci che portano doni! — Puntò il dito contro Percy. — I suoi amici ci stanno
attaccando con una nave da guerra. Lui li ha condotti qui. Dobbiamo attaccare!
— No — replicò Percy, in tono fermo. — Voi tutti mi avete elevato al grado di pretore per una
ragione: combattere per difendere questo campo fino alla morte. Ma questi non sono nemici. Io dico
di tenerci pronti, ma di non attaccare. Lasciamoli atterrare, lasciamoli parlare. Se è un trucco, allora
combatterò con voi, come ho fatto ieri. Ma non è un trucco.
Tutti gli occhi si voltarono verso Reyna.
Lei studiò la nave in avvicinamento e la sua espressione si indurì. Se avesse annullato gli ordini
di Percy… be’, non sapeva cosa sarebbe successo. Caos e confusione, come minimo. Molto
probabilmente, i Romani avrebbero seguito lei; era al comando da molto più tempo di Percy. — Non
fate fuoco — disse infine. — Ma che la legione si tenga pronta. Percy Jackson è il vostro legittimo
pretore. Ci fideremo della sua parola… a meno che non ci venga dato un chiaro motivo per dubitarne.
Senatori, aggiorniamo la seduta e andiamo a incontrare i nostri… nuovi amici.
I senatori corsero via dall’aula, se per il panico o per l’entusiasmo Percy non era in grado di
stabilirlo.
Tyson gli corse incontro gridando: — Yuppie! Yuppie! — con Ella che svolazzava intorno alla
sua testa.
Ottaviano rivolse a Percy un’occhiata sprezzante, poi gettò a terra l’orsacchiotto e seguì la folla.
Reyna si fermò alle spalle di Percy. — Hai il mio sostegno — gli disse. — Mi fido del tuo
giudizio. Ma, per il nostro bene, spero che riusciremo a mantenere la pace tra i nostri guerrieri e i
tuoi amici greci.
— Ce la faremo — promise lui. — Vedrai.
Reyna osservò la nave da guerra, e sul suo viso si disegnò un barlume di speranza. — Dici che
Jason è a bordo… spero che sia vero. Ho sentito la sua mancanza. — Uscì a passo spedito, lasciando
Percy da solo con Hazel e Frank.
— Stanno atterrando proprio nel foro — osservò Frank, nervoso. — A Terminus verrà un colpo.
— Percy, hai giurato sulla tua vita — disse Hazel. — È un giuramento che i Romani prendono
seriamente. Se qualcosa andasse storto, anche per sbaglio, Ottaviano ti ucciderà. Lo sai, vero?
Percy sorrise. Sapeva che la posta in gioco era alta. Sapeva che tutto in quella giornata poteva
andare molto storto. Ma sapeva pure che Annabeth era su quella nave. Se le cose fossero andate per
il verso giusto, quello sarebbe stato il giorno più bello della sua vita. Mise un braccio sulle spalle di
Hazel e uno sulle spalle di Frank. — Andiamo — disse. — Voglio presentarvi l’altra mia famiglia.
GLOSSARIO
Achille: il più potente semidio greco che combatté nella guerra di Troia.
Alcione: gigante, figlio maggiore di Gea, destinato a combattere contro Plutone.
Amazzoni: popolo di donne guerriere.
Anaklusmos: Vortice. Il nome della spada di Percy Jackson.
Argonauti: equipaggio di eroi greci che accompagnarono Giasone nella ricerca del Vello d’Oro. Il
nome viene dalla loro nave, la Argo.
Arpie: creature con volto umano e corpo di uccello.
Auguri: segni di qualcosa che sta per avvenire, auspici.
Aurae: spiriti invisibili del vento.
Balista: arma d’assedio, capace di lanciare grandi proiettili a lunga distanza.
Basilisco: serpente sputafiamme.
Bellerofonte: semidio greco, figlio di Poseidone. Sconfisse i mostri cavalcando Pegaso.
Bellona: dea della guerra, nel pantheon romano.
Bisanzio: capitale dell’impero romano d’Oriente, che sotto l’influenza della cultura greca durò altri
mille anni dopo la caduta di Roma. Prese successivamente il nome di Costantinopoli.
Bronzo celeste: metallo raro, mortale per i mostri.
Campi della Pena: parte degli Inferi dove le anime malvagie vengono torturate in eterno.
Caronte: traghettatore che trasporta le anime lungo i fiumi Stige e Acheronte, i quali dividono il
mondo dei vivi dal mondo dei morti.
Centauro: creatura per metà umana e per metà equina.
Centurione: ufficiale dell’esercito romano.
Cerbero: cane a tre teste che sta a guardia delle porte degli Inferi.
Cerere: dea dell’agricoltura, nel pantheon romano.
Ciclopi: razza primordiale di giganti, muniti di un solo occhio.
Cintura della regina Ippolita: dono di Ares, simbolo della carica di regina delle amazzoni.
Coorte: unità militare romana.
Denarii: la moneta comune nel sistema monetario romano.
Dracma: la moneta d’argento dell’Antica Grecia.
Elisio: luogo in cui riposano le anime degli eroi e dei virtuosi.
Ercole: equivalente romano di Eracle. Figlio di Giove e Alcmena, nato con una grandissima forza.
Erebo: luogo di tenebre tra la terra e gli Inferi.
Esculapio: dio della medicina, nel pantheon romano.
Fauno: creatura dei boschi, per metà capra e per metà uomo. Forma greca: satiro.
Ferro dello Stige: come il bronzo celeste e l’oro imperiale, metallo magico capace di uccidere i
mostri.
Finea: figlio di Poseidone, dotato del dono della profezia. Quando rivelò troppo dei piani degli dei,
Zeus lo punì accecandolo.
Fortuna: dea della buona sorte, nel pantheon romano.
Foschia: forza magica che maschera le cose agli occhi dei mortali.
Fulminata: “armata di fulmini”. Legione romana il cui emblema era una folgore.
Gea: dea della terra; madre dei Titani, dei giganti, dei ciclopi e di altre creature.
Gegenees: mostri nati dalla terra.
Giove: re degli dei, nel pantheon romano. Forma greca: Zeus.
Giunone: sorella e moglie di Giove, dea protettrice delle donne, del matrimonio e della fertilità.
Forma greca: Era.
Gladius: spada corta.
Gorgoni: tre sorelle mostruose (Steno, Euriale e Medusa) dotate di una chioma di serpenti vivi e
velenosi. Gli occhi di Medusa possono trasformare in pietra chi li guarda.
Gris-gris: amuleto vudù che protegge dal male o porta fortuna.
Guerra di Troia: la guerra combattuta contro la città di Troia dai Greci dopo che il principe troiano
Paride rapì Elena dal marito Menelao, re di Sparta. Cominciò con un litigio tra le dee Atena, Era
e Afrodite.
Icore: sangue dorato degli immortali.
Iperborei: pacifici giganti del Nord.
Iride: dea dell’arcobaleno.
Karpoi: spiriti del grano.
Lari: spiriti degli antenati, vegliano sulla casa e sulla famiglia.
Legione: l’unità più grande dell’esercito romano, costituita da fanteria e cavalleria.
Lestrigoni: alti cannibali del Nord, forse all’origine della leggenda dei Sasquatch.
Liberalia: festa romana che celebrava il rito di passaggio di un giovane dalla fanciullezza all’età
adulta.
Libri Sibillini: raccolta di profezie in rima scritte in greco. Il re Tarquinio il Superbo li comprò da
una profetessa di nome Sibilla e li consultava nei momenti di grave pericolo.
Lupa: l’animale sacro che allattò Romolo e Remo.
Marte: dio della guerra, nel pantheon romano. Protettore dell’impero; padre divino di Romolo e
Remo. Forma greca: Ares.
Minerva: dea della saggezza, nel pantheon romano. Forma greca: Atena.
Monte Otri: la base dei Titani durante la guerra contro gli dei dell’Olimpo; quartier generale di
Saturno.
Nebulae: ninfe delle nubi.
Nettuno: dio del mare, nel pantheon romano. Forma greca: Poseidone.
Oro imperiale: metallo raro, mortale per i mostri. Consacrato nel Pantheon, la sua esistenza era un
segreto gelosamente custodito dagli imperatori romani.
Otrera: prima regina delle amazzoni, figlia di Ares.
Pallium: mantello indossato dai Romani.
Pantheon: tempio dell’Antica Roma dedicato a tutti gli dei.
Pentesilea: una regina delle amazzoni; figlia di Ares e di Otrera.
Periclimeno: principe greco di Pylos e figlio di Poseidone, che gli donò la capacità di mutare forma.
Era noto per la sua forza e prese parte alla spedizione degli Argonauti.
Pilum: lancia romana.
Plutone: dio della morte, dei metalli e delle pietre preziose nel pantheon romano. Forma greca: Ade.
Polibote: gigante figlio di Gea.
Praterie degli Asfodeli: la parte degli Inferi dove riposano le anime che hanno compiuto un’uguale
parte di bene e di male.
Pretore: nell’Antica Roma, magistrato e capo dell’esercito.
Priamo: re di Troia durante la guerra che oppose i Greci ai Troiani.
Principia: quartier generale negli accampamenti militari romani.
Probatio: periodo di prova delle nuove reclute di una legione.
Pugio: pugnale romano.
Romolo e Remo: figli gemelli di Marte e della sacerdotessa Rea Silvia, gettati nel Tevere da
Amulio. Furono trovati e allevati da una lupa; raggiunta l’età adulta, fondarono Roma.
Saturno: dio dell’agricoltura nel pantheon romano; figlio di Urano e Gea, e padre di Giove. Forma
greca: Crono.
Schinieri: parte dell’armatura per proteggere gli stinchi.
Senatus Populusque Romanus (SPQR): “Il Senato e il Popolo di Roma”; la sigla si riferisce al
governo della Repubblica di Roma e veniva usata come emblema ufficiale.
Spartus: guerriero-scheletro.
Spatha: spada da cavalleria.
Stige: il fiume che fa da confine tra la terra e gli Inferi.
Tartaro: spirito dell’abisso, marito di Gea, padre dei giganti. È così chiamata anche la regione più
bassa degli Inferi.
Terminus: dio dei confini, nel pantheon romano.
Tevere: il terzo fiume più lungo d’Italia, sulle cui sponde fu fondata Roma. Nelle sue acque i
Romani gettavano i condannati a morte.
Thanatos: dio greco della morte. Forma romana: Letus.
Trionfo: solenne corteo in onore dei generali romani e delle loro truppe per festeggiare una grande
vittoria militare.
Trireme: tipo di nave da guerra.
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Gli eroi dell’Olimpo 2. - Il figlio di Nettuno
di Rick Riordan
M appa di Kayley LeFaiver, su licenza di Disney – Hyperion Books
© 2011 Rick Riordan
© 2013 Arnoldo M ondadori Editore S.p.A., M ilano, per l’edizione italiana
Pubblicato per accordo con Nancy Gallt Literary Agency
Titolo dell’opera originale The Heroes of Olympus: The Son of Neptune
Ebook ISBN 9788852044724
COPERTINA || ART DIRECTOR: FERNANDO AMBROSI | GRAPHIC DESIGNER: DANIELE GASPARI | ILLUSTRAZIONE DI DANIELE GASPARI-
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