Edizioni CFR di Gianmario Lucini Via Amonini, 9 – 23020 Piateda (SO) www.edizionicfr.it [email protected] cell. 3381731774 Poiein – Collana di poesia lirica Poiein n. 15 – Narda Fattori, Cambiare di stato – morire di natura ISBN 978-88-98677-15-3 © Le liriche di questa proprietà dell’autrice. pubblicazione sono di 1 2 Narda Fattori Cambiare di stato – morire di natura (2012 – 2013) Edizioni CFR 2014 3 4 Prefazione cambiare di stato morire di natura. Riflessioni di lettura di Bruno Bartoletti Ogni volta che mi incontro con i versi di Narda Fattori provo un senso indefinibile di appagamento, di pienezza come solo la grande poesia riesce a dare. La stessa indefinibile pienezza di quando si superano i momenti di sconforto per accompagnarsi alle visioni, ai sogni. Questa terra non è più «una valle di lacrime», ma, attraverso la poesia, diventa, come ci svela il libro di Sauro Albisani, La valle delle visioni. Se questa è l’età «degli uomini vuoti», come ricorda Eliot, l’età dell’angoscia e dell’ansia - le tipiche malattie moderne - la poesia cerca di restituirci quel poco che aiuta e che alla fine ci salva. È il commento del poeta Roberto Mussapi nella premessa a quel piccolo libretto L’avventura della poesia: «La poesia è un atto di resistenza, alla morte, al nulla, è memoria, voce che non demorde e ci lega nel tempo». Se compito della poesia è quello di porre delle domande, questa di Narda Fattori si svela nella ricerca estrema del significato della vita che drammaticamente erompe solo sul punto della morte. È il tema del viaggio e della ricerca che solo apparentemente ne segnala la meta, perché nella meta c’è già l’inizio di un altro viaggio e di un’altra sfida, se la riva è più sicura, è solo l’urto del mare che ne sottolinea il profondo ancoraggio alla vita. «La riva è più sicura; ma io amo l’urto del mare», scriveva Emily Dickinson. Dirò di più, a differenza dei tanti libri letti e fatti propri, in questi versi soffia la vita ed è come se le parole prendessero corpo, come se in ogni parola, in ogni sillaba si alzasse la voce, la vera voce di Narda, poeta 5 e donna, figlia e madre. Il bisogno di leggere e rileggere e spesso di fermarsi a riflettere, a pensare, sono segnali che non possono passare sotto silenzio. E così la fatica, la difficoltà di un commento ci prende, perché la vita, come il dolore, non si commentano, si vivono e basta. Questo ultimo libro di Narda Fattori è il libro della memoria, quasi una summa, un testamento, una riga sotto cui scrivere le cifre che contano: “Faccio l’appello per mettere / un po’ d’ordine in capo all’esistenza” e in questo c’è anche la risposta alla domanda vera, che è già stata di tanti poeti, e che Odisseas Elitis nel suo Il metodo del dunque così riassumeva: «Ecco perché scrivo. Perché la poesia comincia là dove la Morte non ha l’ultima parola». Certamente «La poesia non salva la vita – le parole sono ancora di Roberto Mussapi – e difficilmente guarisce, ma accompagna. Estende l’orizzonte percettivo, soffia sulle nostre labbra, cerca di rianimarci, o di tenerci in vita». Un giovane critico ebbe a dire che, a ben guardare, si scrive sempre, una volta di più, lo stesso libro. Non è così per Narda Fattori: in Narda c’è un filo conduttore che guida i suoi versi; ma se un percorso più o meno sotterraneo si può riconoscere nelle precedenti pubblicazioni, un percorso che oltre ad un approfondimento dei contenuti si riconosce nella ricerca della parola, questo ultimo lavoro segna anche una fase nuova di non ritorno, una cesura e una nuova partenza, un ultimo atto che è anche testimonianza di un fare, di un operare. Si dice che non ci sia vita senza morte, o senza il sentimento della morte, pure è stato scritto, l’espressione è del critico Blanchot nel suo Lo spazio letterario, che la poesia nasce nel momento in cui Orfeo perde Euridice: la poesia è distacco, nasce dal dolore, da una perdita. I poeti lo sanno. Finché ci manteniamo sulle definizioni classiche di «catarsi», 6 come quella di Antonia Pozzi quando scrive al giovane poeta Tullio Gadenz, restiamo in un consolidato paradigma; ma molto di più, in una affermazione che meriterebbe più ampi approfondimenti, ci dice Cesare Garboli, in quel bel libro Pianura Proibita, nel tentativo di darsi una risposta alla sua funzione di lettore e fruitore di bellezza: «Si scrive quando la gioia o il desiderio di vivere non basta». Ma Narda è una donna forte, una donna che al tramonto preferisce l’alba, la sorgente, la luce e il sole, è una donna solare che ama e sa che“la forza di una sola goccia / scava abissi crea stalagmiti”, sa che “se non hai passioni e sogni grandi / resti all’anagrafe solo un rigo nero”, versi del suo Le parole agre e che si dovrebbero trascrivere nell’ingresso di ogni scuola. Il sentimento della fine, la visione della morte, non sono fine a se stessi, non compiacimento o ripiegamento sul proprio io, ma si ergono a strumento di riflessione sulla vita. È un viaggio che non nasce all’improvviso, ma, come tutti i temi importanti, si preannuncia già dall’inizio, da quando la prima parola incomincia a prendere forma. L’ultima poesia de Il verso del moto (Mobydick editore, 2009) concludeva un percorso, quello a spirale della vita come cronologia, e non solo, di avvenimenti che si facevano sempre più importanti e vivi, ma lasciava aperto un interrogativo e apriva una nuova strada: “Vorrei dare un nome al più caro / vorrei finire il verso / … Sono pronta finalmente / non mi tiene neppure / quest’ultimo canto”. La strada era ancora quella della ricerca della parola, del «dare il nome alle cose», come affermava Mario Luzi e che Narda Fattori poneva come elemento essenziale del suo fare poesia già da uno dei suoi primi libri L’una e i falò, pubblicato da Il Vicolo nel 1998 (“chiamare le cose per nome / è dirti presente in un luogo”). In Le parole agre questa consapevolezza, questa ricerca, diventava bisogno indispensabile di 7 quiete, quasi necessità: (“e dentro un fuoco che mi brucia / una voglia intatta di andare verso sera”). Poteva allora ancora immaginarsi di essere giunta al punto del non ritorno nella metafora di un paese immerso in una “radura di silenzio” dove “ogni traccia del viaggio è scomparsa”: “Me ne andrò dunque sola all’oscuro / ma non avrò paura non mi stupirò / se nessun luogo è in attesa”. E ancora: “Partirò – mantengo le promesse - partirò / con la rondine che ha perso la rotta / il compagno il nido e la grondaia / e non ha ai rimpianti né volge lo sguardo / sulla terra che fu dono sempre / immeritata meraviglia”. In cambiare di stato morire di natura non ci sono dubbi, non ci sono ipotesi su quello che potrà accadere, ma solo certezza, a incominciare dal titolo. Narda Fattori si vede, si descrive, senza preamboli va al dunque: Me ne uscirò da me prima che si faccia buio il cuore nasconderà nel suo guscio duro ancora sabbia dorata e merli sui castelli E suoneranno a distesa le campane e qualcuno chiederà chissà perché ma già dalla lontana radura potrò guardarvi con l’occhio della madre Suoneranno a distesa le campane e dal corbezzolo fischierà il merlo e sarò stata viva e vera e indolenzita più lieve di una foglia cadere lieve. Anche a Emily Dickinson (la ricordo non a caso, come non posso non ricordare Margherita Guidacci, alle quali tanto si avvicina Narda Fattori) il sentimento della morte fu una costante compagna di viaggio: “L’anno 8 scorso morii, di questo tempo. / So che sentivo il grano, / quando mi trasportaron lungo i campi – / aveva già la spiga”. E sarà Margherita Guidacci a concludere il suo percorso con le 54 poesie di quel libretto consegnato dattiloscritto un mese prima di morire, Anelli del tempo, versi che solo apparentemente annunciano la fine, ma in realtà si innalzano a canto della vita e dell’amore. Anche Narda Fattori unisce a questo inno di gioia e di libertà (“senza inferriate posso volare ovunque”) il sentimento dell’amore (“l’albatros / che sa sempre dove sono il nido e la compagna”) - ci viene naturale pensare all’immagine dell’albatros, scelto non a caso per la bellezza e maestosità del suo volo e per la sua simbologia – e una concezione di poesia come volo verso l’irraggiungibile infinito: “andarsene per troppa vita andarsene / per ingoiare l’azzurro cielo il blu del mare”. Come non ricordare l’albatros di Baudelaire o quello bianco del vecchio marinaio di Coleridge, simboli del volo e di una felicità tristemente spezzata? Ma anche simboli della poesia che dona salvezza, purché la si lasci volare nella sua maestosità e leggerezza. Questo male, questo dolore, questa sofferenza, sono sempre sublimati dal coraggio, da una fede razionale, da una visione. Fu così che conobbi la punteggiatura i puntini di sospensione la virgola per ripartire dopo che la brina ha gelato le spine in arabeschi che raggelano ho salvato una treccia e riparto da un punto e virgola la treccia salvata da una sforbiciata di tanti anni fa. 9 Anche quando la parola si fa più cruda, quando il verso si tinge di colori più cupi, resiste questa certezza, il volo leggero della poesia È un messaggio di speranza. Di fronte alla drammaticità del dolore, c’è sempre una parola che salva, c’è sempre il coraggio di rialzarsi, anche nella caduta, anche nella fine: sarò terra per nespole e ciliegie terra per gramigna e per ginestre argilla che si sbreccia non si corrompe e riflette con uno sprazzo la carezza della stella. E ce lo dice con parole che non lasciano sottintesi, ma si aprono ad altri spazi. Anche Narda si sente foglia fragile nel richiamo di un altro verso di Margherita Guidacci che si descrive nel finale di Su una riva: “Spaurita contemplo / la mia vita di foglia / nel vortice del tempo”. In Narda queste foglie che cadono diventano, per una divina corrispondenza, farfalle in volo, farfalle colorate, leggere, simboli di bellezza e di leggerezza. di me resterà una polvere impalpabile che solleverà una farfalla in volo eccola lieve lieve che si disperde senza alcuna traccia. E ancora una foglia ottobrina non si basta frulla come una farfalla nell’azzurro ma la danza la stordisce e quasi ebbra sente la vita che esce dagli stomi. Lo sciame il fiore la foglia la farfalla quanto basta a regalarmi quel che resta 10 del giorno. Se l’albatros è la maestosità del volo, simbolo di una poesia alta, epica, la cui uccisione fa inorridire e cadere al suolo i marinai di Coleridge, la farfalla è il simbolo del divenire, della leggerezza e della bellezza nella sua fragilità e brevità di vita. Simbolo dunque del viaggio, come lo sono tutte le metamorfosi, e come lo è la poesia. E quante volte ricorre in Narda Fattori questa immagine, metafora di vita e metafora di poesia, di cui la morte è solo un passaggio, un divenire verso altre forme. E simbolo di leggerezza, di cui sembra connotarsi il nuovo secolo e la nuova poesia, non più alla ricerca di quello che abbiamo perduto, del montaliano “non siamo” e “non vogliamo”, ma di una nuova visione del mondo. Non è un caso che la prima delle Lezioni americane di Italo Calvino sia dedicata alla leggerezza e che Paolo Lagazzi raccolga tutta una serie di saggi sotto il titolo Forme della leggerezza, indicando non tanto una superiorità rispetto alla pesantezza, alle forme espressive crude, ma una nuova visione e un nuovo modo di leggere la vita. La «ricerca della leggerezza come reazione al peso del vivere», secondo Italo Calvino, si manifesta in un linguaggio senza peso che stempera il dolore con sguardo distaccato, a volte ironico, ma consapevole della fragilità e brevità del vivere, un linguaggio comunicativo che dice tutto quello che deve dire, senza sottintesi, senza preamboli. questo ti racconto amica mia del mio restare sempre sull’uscio con quell’ansia di volo che mi porta via. ti trovo nel buio del silenzio nella goccia che cade plic plac nel volo di una foglia a morire 11 e non è ancora novembre ma la fede quanta fede superbamente la meglio gioventù che s’è disfatta come una foglia d’autunno dopo il volo. Il senso della vita è nelle cose, nelle piccole cose quotidiane, metafore del vivere: la parola diventa espressione di questo sentimento irrealizzato di volo, desiderio leopardiano di infinito, amara visione di una “meglio gioventù” che si è disfatta, “come una foglia d’autunno”. Ma c’è dietro questa forma espressiva un lungo lavoro di ricerca, Pianura proibita, secondo una felice formula di Cesare Garboli, riferita a «quei territori della scrittura dove lo stile pianeggiante della semplicità nasce dopo un lungo sforzo, e testimonia di laboriose e difficili prove». Lo sciame il fiore la foglia la farfalla quanto basta a regalarmi quel che resta del giorno. Sono le piccole cose che danno senso, metafore che si riempiono di ben altri significati, espressioni di leggerezza che tendono a spostare i macigni della realtà, viaggio come metamorfosi, come un solcare i mari della vita e della conoscenza, come porto sepolto da cui ripartire. Qui sta forse il senso della poesia, in questa farfalla leggera, colorata, non simbolo dantesco, ma luce che dà forma e spazio e ragione di vita, come la farfalla che il mercante Stein trova nei suoi viaggio e nella cui visione si immerge nel finale di Lord Jim di Conrad. Ce lo descrive Pietro Citati in quella raccolta di saggi a cui dà il nome di La malattia dell’infinito: «Agli scrittori e agli uomini, caduti nelle profondità del sogno-mare, Conrad promette appunto questo: “qualcosa di caduco e senza timore di distruzione”». 12 La scia d’argento di una lumaca percorre il selciato fino alla siepe nel buio della notte a lento piede è andata dove la vita chiamava di me resterà una polvere impalpabile che solleverà una farfalla in volo eccola lieve lieve che si disperde senza alcuna traccia. Polvere che solleva una farfalla in volo che si disperde in questa nuvola di leggerezza “lieve lieve”, polvere o spirito o anima, come già cantava Margherita Guidacci in Mercoledì delle ceneri, polvere che si unisce in un abbraccio d’amore nell’infinito andare, e ancora, nella morte, questo canto d’amore, la speranza di “un sole che non sia stanco di brillare”: chissà che non giunga l’ora del perdono mi servono tutte le vostre mani per spogliarmi dei peccati ma siate buoni –aiutatemi- abbiate mani lievi per strappi con poco dolore che mi resti addosso ancora qualcosa un lenzuolo bianco sul corpo nudo e un sole che non sia stanco di brillare. 13 14 tutti i cari a 15 16 Senza un grido, una lacrima, un rimorso, un lamento, insegnami a morire quieto, nel mio scontento. Come l’ombra ferita, sotto l’ala rattratta, che soffoca il suo canto nell’alba di un autunno, con in petto un rimpianto che diventa un sussurro. Come un fiocco di neve nel sole del deserto, che il cuore nella cenere non arda troppo lento. Insegnami a morire la mia morte furtiva; insegnami a morire ora, se vuoi che viva. Francesco De Girolamo (da La lingua degli angeli, Edizioni del Leone, 1997). 17 18 A futura memoria Me ne uscirò da me prima che si faccia buio il cuore nasconderà nel suo guscio duro ancora sabbia dorata e merli sui castelli me ne uscirò dopo avervi abbracciato tutti quando a ciglio asciutto si fermerà il tempo ci sarete in forme varie e io sarò la mano che non sa più acconciarvi la veste e i capelli me ne starò quindi a braccia aperte a raccogliere il raggio obliquo del tramonto rosso di foglie d’acero sull’orizzonte verde delle colline di viti e di ulivi in corsa me ne andrò da voi quando non sentirò la sete pungermi la pelle e l’ora rintoccherà stonata e il merlo mi fisserà irridente dal quadrato del giardino la bacca nel becco non mancherà nessuno le bestie e i paesaggi gli amati e le mie penne questi tanti libri polvere su polvere io di polvere a nutrimento a chi avrà desiderio di restare per provare come sia luce l’amore e come sappia fare male e come non sia mai troppo e non si sottragga me ne andrò quando non saprò più sommare. 19 E suoneranno a distesa le campane e qualcuno chiederà chissà perché ma già dalla lontana radura potrò guardarvi con l’occhio asciutto mi prenderò cura degli spigoli acuti dei sassi che avete sotto i piedi sì allora sarò leggera e avrò mani quante bastano per acconciarvi come non ho saputo fare prima. Fischierà il merlo sul corbezzolo riderà di me come è giusto che sia anch’io riderò per gli inutili affanni che mi hanno spezzato il fiato e un poco soltanto anche la mente sarà bello circondarvi la vita portarla dentro i girotondi nel mondo che si fa chiaro di luce nel suo nocciolo silenzioso di pace perché tacciono i fucili e l’ottuso bailamme che disconosce mio fratello morto mia sorella storpiata e mio padre estraneo a bocconi sopra un carro e rideranno di voi miei cari amati della mia terra ubertosa e gentile spesso un po’ pacchiana ma sapete la gente che accoglie sempre e ride con tutti coltiva qualche vizio e resta con l’uscio aperto a disposizione. 20 Suoneranno a distesa le campane e dal corbezzolo fischierà il merlo e sarò stata viva e vera e indolenzita più lieve di una foglia cadere lieve. 21 Non ho che uno sguardo presbite per vedervi tutti- ammassati - una ressa e chi saluta con calore e chi strattona e chi mi chiama a alta voce e chi si tace foste come un luccichio di farfalla nei giorni chiari e la favola lunga dei cirri in corsa a mutare fisionomia siete il caffè del risveglio la buona mattina che non mi ferisce l’occhio e torniamo a schiera nei cortei a urlare parole d’ordine grosse e rosse come in un grappolo d’uva matura e torniamo a gruppi sulla spiaggia con lo sciacquio che annuncia il mare e un coro stonato per un basso che accompagna anni che avevano stelle nelle pupille e un’utopia in testa coccinelle di buona sorte sul dorso della mano fate il morto- vi ho spaventato con un lapsus un gesto sconsideratoe mi temete lo so e fate il morto e non so se ridere o piangere o poggiare il palmo dell’altra mano su quel dorso mie prigioniere come nella memoria dove invece vivete sui seminati di grano che i campi imbiondivano e io ero una corsa una rincorsa una fuga anche nessun rimpianto ora e la sveglia tace. 22 23 Faccio l’appello per mettere un po’ d’ordine in capo all’esistenza: la tastiera ribatte l’anima confusa il coltello taglia il pane solo quello mi raccomando e il caffè che sia amaro e che la lettera trascrivi la memoria ho timore che mi sfuggano le storie che il male sani o imputridisca come lische di pesce nei rifiuti una mescita che puzza di libera vita e scaglie d’oro ma dove siete voi occhiali svaniti dalla vista magari sui capelli e i fazzolettini carta le cianfrusaglie del cassetto dello studio la cucitrice che più nulla ha da cucire solo fogli immacolati perché muore l’urlo sul labbro esausto per un bicchiere d’acqua le medicine per il cuore sorridete ? ridete pure il mio cuore va a dieci pasticche al giorno e finirà presto come la scatola che mezza vuota mi guarda e pare rida perché fra il nulla e il vuoto c’è un interstizio dai cui non so cosa trapeli. 24 Gli addii muoiono lenti lontano oltre la luce che cede al tramonto e nasconde la linea curva delle colline gli addii non li capisco non esistono sono carne della mia carne fluido che innesta cellula su cellula perché dirsi addio se qualcosa vibra? i morti invece li conosco sono bianchi e freddi e ti afferrano le mani ho baciato le guance di mia zia chiare e rigide gote della bambola di porcellana con cui non ho mai giocato chissà che non giunga l’ora del perdono mi servono tutte le vostre mani per spogliarmi dei peccati ma siate buoni –aiutatemi- abbiate mani lievi per strappi con poco dolore che mi resti addosso ancora qualcosa un lenzuolo bianco sul corpo nudo e un sole che non sia stanco di brillare. 25 Incontro un ricordo sulla faccia imbronciata di una luna rossa e tonda che segue il mio cammino di vaghezze e disarticolate ossa sì che ogni passo è testarda volontà di procedere non ho trovato la panchina adatta alla forma che mi tesse il pensiero erratico errabondo mai estatico. Nel cono di luce punto fermo del lampione che seziona la notte non cerco esclamativi né interrogativi mi metto in fuga disperando la visione dell’ultimo scontro frontale. Fu così che conobbi la punteggiatura i puntini di sospensione la virgola per ripartire dopo che la brina ha gelato le spine in arabeschi che raggelano ho trovato una treccia salvata da una sforbiciata di tanti anni fa. riparto da un punto e virgola e da uno sberleffo che mi fa bambina. 26 Non so a che serva raccontare che mi crescono le unghie e i capelli e che il dolore è un bottone che devo passare nell’asola per pudicizia perché qualcuno non ama i rampicanti sul tronco teso quell’altro dolore che si sparpaglia nero arraffa a destra e a manca lui non ha pudori neppure freni inibitori- scorazza con l’innocenza di un bambino su un campetto dietro ad un pallone e invece morde sfrigola strizza e non si pente non si pente mai e non sa che cosa sia quel peso sul petto che toglie il respiro e non vede l’azzurro del cielo il bianco della neve. Non serve a raccontare le cuciture i malfatti rammendi su pensieri arruffati piume di pettirosso a gennaio sugli spini delle rose che sono sfiorite e tutto si sono date a poche bacche rosse con i semini neri e agli spini cavalli di Frisia sul gambo che graffiano gli uomini mentre il pettirosso vi si appoggia e scruta attorno per saziare la sua fame. Nel freddo io resto spaventapasseri sui seminati di giugno. 27 Ma non mi salverà la mietitrebbia. cambiare di stato – morire di natura 28 Mi guardano dall’interno i miei morti non hanno vertici e segmenti retta delle assenze senza abrasioni soffiano una brezza sul mio cuore non mi guardano dalle fotografie non amo il cimitero in argento ornato di chi già fu stato di chi non è più no mi guardano da dentro sorridono non mi chiamano aspettano la svolta dentro un gran silenzio che ci abbraccia e dipana con mano ferma l’infinita pace non manca nessuno e hanno braccia tenere per tenermi per mano per acconciarmi i capelli in trecce i capelli nel tempo più corti più breve il respiro il passo e mi aspetta paziente c’è tempo chi mi indicò la via i temi come si guarda negli occhi come si stringe una mano senza fare male solo per donare vi amo come non vi ho amato vi amo come non vi ho amato mai ora che s’avvicina la forbice di Atropo al filo che Cloto con fantasia di colori e molti nodi molti groppi poche ritrosie tessé svagata talvolta con mani smarrite l’orecchio teso a voci lontane. 29 A futura memoria una stanchezza lassa un bruscolo nell’occhio macchie retiniche nella visione imperfetta sassi sotto i piedi vedo il rischio l’orlo dell’abisso salsedine sul ciglio dei viventi ossidiana là dove il midollo trasmetteva senza soste impulsi a andare a resistere a restare testarda succede che fra farfalle e fiori ci si confonda o il fiore è una farfalla e il petalo respira la lama nell’aria che fende il bruno proiettile ? Quattro ossa spolpacchiate nocche erose uno scuro di silenzi poliedri agli angoli la veste cinerina della pazienza così verrò se ci saranno abbagli spoglie memori scuciranno le mie labbra nel sorriso non stringo più nulla e tutta va alla foce dove respira non coatto multiplo arruffato in recinzioni corporali stese a terra come conchiglie vuote dopo la marea sarò dietro l’angolo sotto tegola scheggiata e lì nascosta avrò trovato il mio giaciglio nudo come la bestia che s’acquatta quando sente la fine. A futura memoria neppure un bruscolo 30 qui c’è un niente inerte che fu un tutto pieno un’onda brusca una slavina e parole a scintillare fra le cenere. 31 Dai portoni con serrature di sicurezza sempre nell’ora che ci sembra finale invochiamo il dio che non risponde quello che non ha parole e nel suo nome si sono ridotte le case in calcinacci dove l’argilla primigenia e a mille e mille si sono alzate croci. Non c’è alcun tesoro celato là dove gli arcobaleni si stremano in archi grandi e più nessuno si stupisce dell’inganno come la favola narra e la mente rifiuta. Eppure siamo per scambiarci parole piene per estrarre dolori come spine sottopelle a sudare la terra per il pane per meritarci i nostri avi contadini con le mani di calli e compassione. Ora siamo soltanto groviglio di serpi ai quattro angoli del tempo dentro i muri delle case con troppo silenzio e dove non si fa silenzio mai per udire- pensare - girotondi infantili di grandi allegri occhi scuri c’è chi ha proibito ai bambini i girotondi nei cortili del mondo 32 In cattedrali di vento si dibatte il tempo si sforma in rosa sfiorita tutta spine un agoraio per rammendi che non so eseguire e perde la direzione assume la forma a spirale per dirle tutte le storie sul palmo segnate e nelle ossa scolpite senza arte e sui cassettoni del soffitto lascia un seme che ha messo radici rovesciate come capelli di Medusa anime con i piedi all’aria che vanno senza orme. 33 Di cinabro le nubi crepuscolari trattengono il colore al suo svanire nel grembo scuro prima delle stelle suonano passi svelti sui marciapiedi pensiero alla fiction alla partita al divano che ha sempre tempi suppletivi pensiero pieno sarebbe se ci fosse tempo d’aspettare l’affacciarsi delle stelle quanto spreco tanto algido splendore se in dicembre se in vetta se solitaria mi punge l’iride il sidereo immenso qui la presunzione degli angoli acuti qui un tutto che sborda e pulsa con respiro freddo che brucia in gola e rattrappisce in lame le parole non rivelano nuove malattie i chiodi non scricchiola lo scheletro non cado resto se ci fosse tempo quanto basta il tempo che rimane per mettere una toppa a questo strappo nella stoffa senza grazia. 34 Non c’è nessun incontro oltre la porta mansueto comignolo di polvere e la cipria non cela pustole e crateri solo imperfezioni celle d’ impurità ho imparato la diffidenza lo starmene da parte che tutto punge e può far male equivoci ai quattro lati del tavolo mani di carte truccate dal mazziere le mie mani straripano di parole come gocce d’acqua le perdo fra le dita oltre il confine del giardino giace distesa la lunga fila delle utopie voraci che dei miei anni hanno calcinato ossa fin dentro il midollo e stirato i nervi così che ora possa vantare un io che fu che non sarà più nell’ultimo domani e scrivo ancora senza una ragione forse per una parca identità residuale forse per regalare fiabe a chi non sa invecchiare dentro opache costumanze . 35 Il fato mi fece a dado tratto lucertola esiliata a pelo d’acqua nella mezz’ombra il cui sangue caldo si disperse in fiati brevi e pure insiste sulle corte zampe la sua ricerca di sole. Certi giorni l’aurora tarda a oriente l’occaso è fosco bosco bruciato rami neri che tramano nel cielo chi siamo a non tacere ancora o a gridare dentro una conchiglia il richiamo assoluto del mare la voce del pesce il canto della balena? chi mi fece sorella figlia madre lacciolo per inganni dipanato amore ? Troppe voci a ciarlare e nulla che somigli alle corde della mia laringe non odo il richiamo del grillo e la lucciola che mi fa l’occhiolino è rimasta nel paesaggio di ieri. Si è sparpagliato tutto l’amore ma questo che mi scorre fra le dita qualcuno sa dirmi cosa sia ? 36 Ancora mi racconto le distese belle d’erba tenerella paziente e verde la bellezza che mi manca- quanto mi mancadelle mercanzie tutte farne un baratto con un mazzo di papaveri che si disfa due istanti appena dalla presa però l’incanto… e sulla mente si posa distesa una trama che tinge lo sguardo e l’ordito che mai più sarà circuìto da mutazioni di sinapsi perché è lì nel centro dell’iride che si nasconde il punto fisso della visione conoscerlo mi è stato fatto dono e mi manca come un azzurro di settembre mi manca come le ossa agili al salto e resto immobile non ancora immune. 37 Stringo polpastrelli e dita sporchi d’inchiostro nei tempi miei equinoziali i piedi calzati in scarpe troppo strette per il passo che volevo per andare l’ossame che s’infiamma uno scrocchio un accendino dismesso fra le carte nei cassetti le calze velate un’ invetriata d’alabastro sul cuore a preservarlo dall’artificio della troppa luce che spiove animale a sangue caldo annidata in cucce di stanchezze in nanne buone e corrosa da una ruggine impotente che serra l’indignazione incernierata dentro un golfino e nel silenzio che rode all’incrocio dei mali incontrarti salvezza di lemmi ri-creati cieli spalancati mani inermi incontri di res totius su fragile argilla –mia terra mia vita- mia voce. 38 Che cosa ti racconto amica mia? Che or sono vent’anni che ho seminato la gramigna e l’ortica mi è fiorita sui palmi come un cespetto di viole ma siamo un niente che abbaglia e a volte acceca più spesso spento come la focaraccia di San Giuseppe il 20 marzo che sparpaglia polvere cenerina sui campi sui finestrini delle automobili e sulla messinpiega fresca della signora in spolverino. Siamo nelle lunghe giornate tumuli di pensieri- intenti sfioriti -vanità violate come quella mia cocorita che presuntuosamente avevo chiamato Nietzsche disinteressata al sesso ( il suo) e al suo essere un uccello nato libero di cui il gatto ha fatto pasto la notte che dimenticai la gabbietta sul davanzale. Ecco la colpa le omissioni il restare fra il poco e il nulla come su una foglia di novembre che il vento ruba se gli pare e quando le omissioni appunto gli esclamativi caduti quei punti fermi e neri come il tronco che il fulmine ha colpito questo ti racconto amica mia 39 del mio restare sempre sull’uscio con quell’ansia di volo che mi porta via. 40 Al freddo che si sbraccia e disperde il calore polveroso annidato negli angoli al vuoto che inabissa l'orgoglio e m’ ingorga senza una mia casa senza un dopo le mano infilate nelle tasche vuote di note di ninnoli di melodie al poco al niente al male che rattrappisce i cuori storcendoli come panni zuppi a voi amici parole per unire come si faceva bambini mani in girotondo e non casca il mondo- lo sorreggiamoè il mio grido di poco fiato. 41 Trovarti fra il niente e il buio trapassarti e derubarti il brillio come una bicicletta abbandonata di un bambino che si allena a farsi uomo dappoco ti trovo nel buio del silenzio nella goccia che cade plic plac nel volo di una foglia a morire e non è ancora novembre mi fai immensa e greve di domande scolara ignara vicino al fondo nell’ultimo banco che non ha imparato la lezione non è questo che chiedo non lo voglio fammi bruciare le ali per l’ardire di troppa vicinanza al sole. 42 Le domeniche non hanno più odori non hanno rumori mi riempivano le narici l’aroma del caffè e dello zucchero sulla ciambella lì cuoceva un pollo - dalla casa a fianco saliva un profumo di ragù sul fuoco poi quattro chiacchiere in piazza e incontravi l’amichetta di banco la sua mamma quel compagno briccone che ti tirava le trecce se a tiro c’era un vocio buono nell’andare l’uno verso l’altro e dirsi di affari di donne godute di piaceri alimentari le domeniche di oggi sono vuote silenti e frettolose – aspirano alla corsa verso una costellazione di eventi senza peso perché ne scriva è simbolo della pochezza che non saranno i miei versi a fare santa. 43 Spaccare la forma perfetta del geode trovare l’utero tondo che cova cristalli di ametista e il grigio della pietra nella sua forma che all’infinito rimanda alla domanda dove come quando e perché io resto qui voglio la durezza e la luce del nido di ametiste che mi chiamano ad una sostanza di stelle e nonostante l’opacità mi forma sprecandosi in parole che sanno di destino e destinazione qui su queste strade in questi incontri nel sale dei dolori nel sangue che sgorga e si raggruma ci chiama a essenza di luce tagliente cristallina appunto e fa male e sana le molte malattie che piagano la carne sarcofago come il geode che si spacca. 44 Uno sciame di api ronza sul fiore che uscirà sconfitto senza seme una sciame di pensieri mi ronzano dentro la desta – aspri e oscuripensieri senza la luce attorno e contorto il ramo del mio tronco si piega resiste al furto frusta nell’aria una foglia ottobrina non si basta frulla come una farfalla nell’azzurro ma la danza la stordisce e quasi ebbra sente la vita che esce dagli stomi. Lo sciame il fiore la foglia la farfalla quanto basta a regalarmi quel che resta del giorno. 45 I rebbi inetti di questa forchetta raccolgono frammenti di carne si fanno avvinghiare dagli spaghetti infilzano ( oh) fusilli e maccheroni a volte un rebbo cede si piega troppo dura la materia sasso puntuto posata sulla tovaglia ha un suo onore con le punte sollevate appena curve la forma morbida dell’impugnatura somiglia ad un cavaliere nell’armatura invece è un don Chisciotte che perde col tempo lo sguardo così la forchetta scambia per pasta le valve delle patelle e si fa male quanto mi somiglia l’utensile umile facilmente sostituibile a poco prezzo ormai tutti i miei rebbi sono curvati e più non riescono a farsi uncini ma la forma ha una sua armonia scura da ringhiera di balcone che consente il riposo al pettirosso con l’aria per il volo dietro l’angolo la storpiatura la ruggine tutta corrosa la bellezza cambiare di stato morire di natura. 46 La scia d’argento di una lumaca percorre il selciato fino alla siepe nel buio della notte a lento piede è andata dove la vita chiamava con occhi ottusi e vista breve aperto l’uscio cerco la meta non ci sarà ma non lascerò scie perché altri percorrano la stessa via non so nulla e alzo una cortina per nascondermi o per pudore sarete voi che ve andate viandanti piste per i miei passi stanchi se il vento così a caso cancella i segni di polvere resto confusa fra cianfrusaglie dove lo specchio non mostra ma abbaglia. 47 Seduta sulla panchina guarda basso la vecchia - ha pudore dei baci dei due innamorati sulla panchina di fronte. Lei non li ricorda neppure il sapore dei baci- forse non ne ha mai avuti- bestia da soma- albe e nottate a forarsi gli occhi su un rammendo infinito – la sclera bianca bianca – le mani ragnate da dinastie di lavori che facevano il giorno un rosario di sassi pesanti le some portate a testa bassa nascoste sotto il fazzoletto scuro lo scricchiolio del materasso la presa improvvisa - di forza. La vecchia alza lo sguardo e guarda i due e spera che conoscano solo l’ombra che dà frescura e nessuno diventi come lei un cencio inetto da dimenticare sopra una panchina. 48 Finire dentro un silenzio tondo nella cova di un nido finire dimenticando il volo le ali lasciare che il niente pettini le piume e sostare senza fretta alla porta che non si conosce nessun sussurro nessuna preghiera nel silenzio tondo la nescienza dell’essere stati del non essere più vita che voli ad ali tese sulla corrente d’aria –Jonathan che vai in stallo a precipizio e poi riprendi fiatoperché questo ricordo è entrato nel silenzio e ha portato un respiro nel tondo che ora si contorce per uscire da sé - per altra forma. 49 A linimento la brezza furtiva che amoreggia con le foglie del tiglio e gli ruba i minuti fiori alati ingombro sui marciapiedi una folata più aspra tende un agguato al fiore elegante nel giardino gli spettina i petali quel vento quella brezza non porta via che le voci in sussurro entrano nel lobo gli schianti dietro una curva sull’autostrada di una mitraglia da una delle infinite violenze che l’uomo sa praticare e il creato la creatura ne geme. Linimento è il silenzio la requie dei passi senz’orma già fiato soltanto nell’ora che si fa chiara lucente vengono tutti a me con una domanda inespressa. Mi accompagnano. 50 Mi sono accorta che non so più scrivere l’amore quello che strizza la carne e fa gemere il cuore nelle sue corse impazzite l’amore di Guido per Lucia di Gerardo che è morto e Maria ancora lo piange è bambola rotta che dondola sul letto l’ho perduto questo amore non ricordo quando ma s’è diffuso come portato dal vento e dalle zampe delle api si è disseminato su tutta la carne e anche su tutta la terra e le sue creature una amore che di continuo si rinnova dopo ogni fioritura altro frutto altro seme si è posato sulle mie mani e ci tuffo il volto per farmi fecondare tutta e germinare anche nelle pozze d’ombra dove vanamente si accaniscono il sole e il vento. Non so più scrivere d’amore carnale dissemino senza diminuirmi briciole che chi vuole becchetta e forse ne trae ristoro. 51 Tu non li vedrai più quei papaveri che sono tornati a fiorire fra le messi sono tornati abbandonati i pesticidi e le fanno belle come era bella l’infanzia che correva sulle zampe di grillo col canto serale quando chiamava la sua bellaio li ho visti andando per campi quasi a ricercarmi fra odori e colori la timida viola l’azzurro fiordaliso sulle prode dei fossi che non disegnano più verdi diversi in rettangoli regolari li ho qui tutti fra le mie mani un mazzo grande per una bambinetta che abbandonava la bambola bionda per rincorrere le lucciole di giugno non ardono più i seminati la via è ben asfaltata ma le foglie di un gelso superstite mi dice di morti veloci di svolte improvvise e al posto del melo signoreggia una superba magnolia dove i passeri non possono fare il nido. 52 Il sonno sudario non mi ha avuta a sottrarmi i sogni della veglia non mi ha rubato ore amici parole non si è preso cura di me come farebbe un medico paziente. Il sonno è altra forma di vita distinta dal fare quotidiano allaga la coscienza s’allarga distoglie dal tic tac del tempo. E’ superbo il sonno e prepotente ti fa chinare il capo appesantire il fiato stendere il corpo sì che sia la spianatoia dei suoi dadi truccati e tuttavia sfuggendolo lo cercavo ed era un gioco a chi oltre il chiarore della luna sorprendeva il sole nell’aurora. Ormai lui si è arreso in un freddo addio e mi manca come un fardello mi donava la gravità che mi manca la notte è lunga e nera nei pensieri che non trovano ristoro sotto palpebre dischiuse mi dimentico di me rimango nuda. 53 Mi viene incontro una nausea avvizzita di beffardi oleandri che spartiscono l’autostrada non sentono il puzzo dei fumi il veleno che lento s’infila fra le crepe e a una a una ne strangola le radici? tu pianta di lanceolate foglie ancora perduri t’allarghi t’allunghi t’infiori e intanto muori se ne accorgeranno sguardi radi distratti da una visione di mare di profumo di protezione solare forse diranno ok che malconci forse non se ne avvedrà nessuno sull’autostrada la vita tras-corre incernierata in lucente metallo forse non pensa non vede non sente s’accuccia o canticchia e tutto se non le appartiene ad personam vada pure in malora. 54 Sono arrivati al passo i tempi attesi che hanno squadernato risse di pensieri quelli che hanno bruciato la terra la terra mia di cui sono impastata e hanno inciso crepe a colpi di tridente sono venuti senza bussare di soppiatto un po’ maleducati riottosi a farsi ordinare in liste di registri commerciali rotolano sui gradini ferendosi le ossa ridono se alzano polvere se c’è un mistero rannicchiato in un cono d’ombra eppure non li temo e spalanco i vetri avessero voglia di farsi un volo attorno a respirare aria tumefatta e greve di me resterà una polvere impalpabile che solleverà una farfalla in volo eccola lieve lieve che si disperde senza alcuna traccia. 55 Non ho più un buon equilibrio lucido corrimani in salita e in discesa scrivo sulla carta qualche volta e non salvo con nome in qualche file dentro la pancia piatta del computer scrivo quasi domassi il mondo ma i pochi leggeranno parole smunte di pallido inchiostro su carta bianca che si perde anche il gesto della mano che a fatica nuota fino al margine cari saluti distintamente sua un abbraccio e hasta la vita siempre mi vedesse qualcuno lo sguardo contratto su palpebre abbassate che la vergogna travalica e mi rode tarlo nel legno che fu tronco e foresta. 56 Mia vita- lasciami un tramonto che mi brilli sui capelli e sciolga i nodi rimasti impigliati dai venti nel folto della capigliatura lunga nelle articolazioni con cartilagini dure regalami quel tepore che trattiene la foglia al suo ramo prima del suo volo breve gioioso come una capovolta sui tappeti d’erba arrivata al margine alla svolta giunta come a dieci anni la gioia e l’indecenza. Quale meraviglia cattura l’uscio discosto su due occhi vivi di sole piume senza remiganti 57 Arriverà lento il treno in stazione con un cigolio lungo di freni senza olio e si fermerà con un sobbalzo. Sarò rimasta seduta svagata allora la signora gentile scenderà leggera mi prenderà sottobraccio- E’ ora . Il posto riservato è in carrozza nove lato finestrino così che con lo sguardo possa seguire la corsa dei campi dei pioppi lungo i fossati- come la prima volta- ricordi?- la meraviglia mi sono sempre accontentata del poco il bello lo aggiungeva il mio sguardo e quanto e quanti mi parevano tanto. 58 Si sta chiudendo come una prigione attorno a me il silenzio il silenzio bianco che non stringe e non fa del male i canti le battute un po’ sboccate la parola sempre pronta a maglie strette sono rotolati da non so quale declivio tratturo senza transumanza imbelle in questo silenzio ho fatto il nido ho arato parole in sillabe in solchi dove far giacere in un riposo dimentico la collana di granati della nonna ma voglio invece voci amiche che vi sporchiate le mani nella fruga verso l’ultimo passo oltre quel ponte. Prometto che non sarà un tedio solo un trapasso. 59 Si andava verso il culmine del giorno irti di fiori azzurri piume di carciofi dentro le ali distese delle farfalle si era dentro la storia della vita appoggiata sul muro la bicicletta fra l’erbe che vibravano d’elitre non ho sorvegliato il pieno di quegli anni prima avevo perduto altro e conosciuto le notti in fuga sulle righe nere dei libri in viaggi sempre troppo brevi di sbucciature sui gomiti e sulle ginocchia e il male trapanava stanco dentro lunghissimi voli incoscienti. Ma lì è rimasto- tarlo che corrodela ruggine delle giunture rende il passo breve resta un pallido sole biondo a consolarmi mentre le piume nere del merlo posato sull’erba del giardino mi guarda sbieco e pare sorrida all’ombra che s’allunga. 60 I nomi eccoli i nomi – troppiné posso incasellarli – doni che la vita porge frutti maturi andrò con i nomi fitti infitti sui capelli e qualcuno cade i nomi non mi dicono qualificano un andare o uno stare mi donano un’eternità che non si piega a orologi e calendari e ore e anni rimbalzano sul pavimento nudo alla fine restano suoni persone stralci di vita in fila o in ammucchiata nomi che perdo ogni giorno e che ritrovo nel silenzio grande nomi di poco valore nomi della mia storia la vita in una manciata di parole. 61 Estranea la città passi su orme orme su passi e nessuno entra dentro respiro sui denti polveri sottili a morte lenta a lento pede a pensiero spento domani come oggi barcollo sulla caviglia che cede nella fortuna di avere oltrepassato i vent’anni i trenta e la musica è un fastidio non muovo i fianchi anche stanche la musica cede sugli ossari dei ricordi note vive ardite scale romanticherie mi fa sol mi re e voce in accordo disaccordo di mani cade il bicchiere cade il pensiero cade e si frantuma la fiorita comunanza di giovani utopie su garibaldini zuccherini tricolori nessun problema di dieta e due dita di wisky puro malto e per una settimana non c’era una lira da spendere ma la fede quanta fede superbamente la meglio gioventù che s’è disfatta come una foglia d’autunno dopo il volo. 62 M’aspettavi allo specchio a tarda notte con il trucco sceso lacrime annerite sulle guance mascara non ancora waterprof e lacrime salse acqua come aceto di donna di ragazza per non piacersi per assenza di pace lo sguardo scuro imperdonato soffiava su veloci gesti la noncuranza e il sonno tardava tardava sempre. Ora lo aspetto su giunture lese e non viene a me non viene non viene resta una notte bianca bianca come piume cadute al gufo in volo a predare il topo. 63 Non ho mai messo inferriate alla mia vita ali spiumate di poco volo piume cadute infatti sono andata da qui a lì però sono andata non sono rimasta a rammendare toppe di cuscini che chiudevano le piume in un sacco per una testa ben acconciata non ho messo corolle di fiori lungo la via li ho lasciate sulle prode nei giardini e i gatti sui tetti e nei cortili a osservarmi con occhi irridenti a fare birignao alla luna che indifferente mi rubava il broncio quando fissava con lo sguardo arrossato no non ho messo inferriate al tempo che con allegria ha signoreggiato negli anni né ho ritirato il braccio negli incontri e fortunatella sì nel palmo tanto bene qualche chiodo come è toccato ad altri senza inferriate posso volare ovunque andare quando voglio inseguire l’albatros che sa sempre dove sono il nido e la compagna e sei mila chilometri di cielo andarsene per troppa vita andarsene per ingoiare l’azzurro cielo il blu del mare. 64 Dell’entrata in scena non ricordo il prezzo aria che brucia dentro luce che brucia gli occhi una lavata tiepida e frettolosa di quanto rimasto della pre-vita e la puerpera ha ancora fitte l’entrata in scena è un calcio violento uno spintone e sei sul palco- riempi la scena scimmiotta - se necessario- ma vedi di fare il tuo monologo non sbagliare le entrate nei dialoghi- diaminenon ti nascondere dietro il sipario- dietro le quinte non s’impara mai abbastanza a sipario aperto ci vuole competenza e un poco di fortuna e non uscire mai resisti anche per i bisogni corporali per le frivolezze e la malattia show must go on l’entrata in scena decide lo spettacolo se dramma o commedia o avanspettacolo o balera in uno struscio di lustrini e di sudore di gonne sbieche sopra i polpacci nudi. 65 Argilla sfiorata da luce di stella presi respiro e fui d’aria di fuoco d’acqua e la terra mi rimase tutta argilla lavorata da dilettante Mi vedo sulla piastra sopra la ruota e il vasaio che mi dà una forma quasi sono e m’imbratto di colori sarò terra per nespole e ciliegie terra per gramigna e per ginestre argilla che si sbreccia non si corrompe e riflette con uno sprazzo la carezza della stella. 66 La grammatica del dolore la sua punteggiatura l’ho imparata con un vagito nell’afa di luglio sono stati molti gli esercizi per la sua signoria avevo il fuoco sotto lo sguardo basso mentre mi piagavo e resistevo come al calcio un sasso e ora che ho col tempo ed esperienze la padronanza di tutte le declinazioni e le eccezioni taglio via la talea marcita rigetto quel pensiero nero che non buca il silenzio e incrina l’osso la grammatica del dolore è sbocciata intera e ha disegnato le mia forma la piega nuova invasiva come la gramigna s’estende dalla guancia alla caviglia e fiorisce sottopelle e più la strappo via più prende terreno mi inseguirà come la preda il predatore nascondermi non serve mi troverà ovunque la luna al suo primo quarto ambisce farsi piena. 67 Stelle spini nuvole in viaggio sassi a montagnola prati per stendere il bucato odore di liscivia lampioni siepi lampade crepuscolari e inferriate ossa grevi passi brevi vaghezze in testa ancora sta in poche parole la mia vita e un figlio per perdonarmi. 68 Non resterò col richiamo della civetta dentro l’udito e il boato che schianta qualcosa di vivo di vecchio di casa non resterò con le ali bruciacchiate senza più l’ebbrezza del volo e lo sguardo incantato sulle stelle fredde e lontane non resterò senza un mistero senza una fiaba senza un trasalimento e mano con mano mi porterò dove il lupo gioca con l’agnello e le donne sono belle ogni alba più splendenti e amano gli uomini e le donne e i bambini e i bambini non sono angeli sono uccelli in lenta migrazione…. non resterò dove si alza solo polvere e le parole sono flauti di canne a quattro note e non si può fare sinfonia e l’armonia cade si spezza come cristallo sul pavimento duro del cuore non resterò se il cuore mi muore. 69 Non mi è servito tempo per imparare il candore della neve la sua innocenza lieve in trine di perfetta meraviglia non mi è servito tempo per riconoscere le aritmie del cuore e tenerle care con la mano sopra a protezione che l’amore se cade si fa male e mi ha fatto male perché la fretta l’impazienza l’incanto dell’inganno del volo di una farfalla o di una foglia ho lasciato la cura per la bellezza e la bellezza scambiata per svagatezza la cura necessaria perché duri quel palpito veloce da puledro che salta sgroppa e vive quasi senza toccare terra gli zoccoli nell’aria mi è servito tempo e tanto tempo per ritrovarmi quieta ancora incantata per l’innocenza lieve dei fiocchi di neve che fitti fitti mi portano al silenzio dove incontro tutti voi che mi siete cari. I pifferai incantano solo i topi non abituati al sole. 70 Al corrimano stringo le dita sporche d’inchiostro per colorarmi la vita di parole mi duole l’ossame delle gambe corte per il passo che volevo per andare dove c’era l’altro e il più lontano. Sulla scrivania nella borsa ricordo a memoria un accendino dismesso fra le carte nei cassetti le calze velate un’ invetriata d’alabastro sul cuore a preservarlo dall’artificio della troppa luce che spiove animale a sangue caldo annidata in cucce di stanchezze in nanne buone e corrosa da una ruggine impotente che serra l’indignazione incernierata dentro un golfino e nel silenzio che rode all’incrocio dei mali incontrarti salvezza di lemmi ri-creati porte spalancate non più inferriate incontri di res totius su fragile argilla –mia voce mia vita- mia terra. 71 Ho sempre desiderato fare figli. Fare impastare il materiale per la tenera carne vene e arterie per il sangue rosso e un tum tum nel petto che solleva per fare figli occorre un progetto di futuro di giorni incardinati su un binario la mia libertà svolava via se ne svolava ma io volevo un figlio sulla mia orma un fiore – maledetta presunzioneE un figlio ho avuto e altri mille ho amato e mi sono fatta saggia e salda – di principie li ho fatti vivi e la vita se li è presi a me è rimasto un vuoto che quando penso si slarga a dismisura e impasta terra. 72 Incontro un ricordo sulla faccia imbronciata di una luna rossa e tonda che segue il mio cammino di vaghezze e disarticolate ossa sì che ogni passo è testarda volontà di procedere non ho trovato la panchina adatta alla forma che mi tesse il pensiero erratico errabondo mai estatico. Nel cono di luce punto fermo del lampione che seziona la notte non cerco esclamativi né interrogativi mi metto in fuga disperando la visione dell’ultimo scontro frontale. Fu così che conobbi la punteggiatura i puntini di sospensione la virgola per ripartire dopo che la brina ha gelato le spine in arabeschi che raggelano ho salvato una treccia e riparto da un punto e virgola la treccia salvata da una sforbiciata di tanti anni fa. (è doppia) 73 Sommario Prefazione.................................................................................5 A futura memoria E suoneranno a distesa le campane Non ho che uno sguardo presbite Faccio l’appello per mettere Gli addii muoiono lenti lontano Incontro un ricordo sulla faccia Non so a che serva raccontare Mi guardano dall’interno i miei morti A futura memoria una stanchezza lassa Dai portoni con serrature di sicurezza In cattedrali di vento Di cinabro le nubi crepuscolari Non c’è nessun incontro oltre la porta Il fato mi fece a dado tratto Ancora mi racconto le distese belle Stringo polpastrelli e dita Che cosa ti racconto amica mia? Al freddo che si sbraccia e disperde Trovarti fra il niente e il buio Le domeniche non hanno più odori Spaccare la forma perfetta del geode trovare Uno sciame di api ronza sul fiore I rebbi inetti di questa forchetta La scia d’argento di una lumaca Seduta sulla panchina guarda Finire dentro un silenzio tondo A linimento la brezza furtiva Mi sono accorta che non so più scrivere Tu non li vedrai più quei papaveri Il sonno sudario non mi ha avuta Mi viene incontro una nausea 19 20 22 24 25 26 27 29 30 32 33 34 35 36 37 38 39 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 74 Sono arrivati al passo i tempi attesi Non ho più un buon equilibrio Mia vita- lasciami un tramonto Arriverà lento il treno in stazione Si sta chiudendo come una prigione Si andava verso il culmine del giorno I nomi eccoli i nomi – troppiEstranea la città passi su orme M’aspettavi allo specchio Non ho mai messo inferriate alla mia vita Dell’entrata in scena non ricordo il prezzo Argilla sfiorata da luce di stella La grammatica del dolore la sua punteggiatura Stelle spini nuvole in viaggio sassi a montagnola Non resterò col richiamo della civetta Non mi è servito tempo Al corrimano stringo le dita Ho sempre desiderato fare figli. Incontro un ricordo sulla faccia 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 Sommario................................................................................74 75 76 Finito di stampare nel mese di gennaio 2014 da Universal Book Srl – Rende (CS) 77 Per conto di CFR Edizioni 78