C 1 ISSN 0392-8667 OMUNICAZIONI SOCIALI COMUNICAZIONI SOCIALI JOURNAL OF MEDIA, PERFORMING ARTS AND CULTURAL STUDIES In caso di mancato recapito si restituisca al mittente che si impegna a pagare la relativa tassa COP_ComSoc 1_15.indd 1 Poste Italiane SpA spedizione in Abb. Postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27.02.2004 nº 46) art. 1, comma 1, DCB Mi Pubblicazioni dell’Università Cattolica Largo Gemelli 1 20123 Milano Anno XXXVII • January-April 2015 1 Anno XXXVII Nuova serie N. 1 January-April 2015 08/04/15 13:37 Indice/Index SIXTY YEARS OF ITALIAN TV The Medium’s Past and Future edited by Aldo Grasso ALDO GRASSO Introduction p. MASSIMO SCAGLIONI Television as a project. The relation between public service broadcasting and Italian historical cultures (1954-1994) »7 LUCA BARRA Unidentified foreign objects. The difficult path of US sitcoms into Italian TV schedules »22 CECILIA PENATI The hearth of our times: RAI and the domestication of Italian television in the 1950s »36 PAOLA ABBIEZZI The history of food within the history of Italian television »46 Miscellanea CHIARA GIACCARDI Integral awareness and the formal cause in Marshall McLuhan »59 NICK COULDRY Illusioni di immediatezza, voci possibili »71 PIERO DOMINICI Communication and the social production of knowledge. A ‘new contract’ for the ‘society of individuals’ »84 ANDREA MICONI A partire da Grillo: un potere carismatico per il Web? »95 BERNADETTE MAJORANA Nella contemporaneità del teatro. Note su Robert Carsen regista di “Don Giovanni” 00_Sommario.indd 1 3 »104 10/04/2015 11:16:11 «Comunicazioni sociali», 2015, n. 1, 104-122 © 2015 Vita e Pensiero / Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore BERNADETTE MAJORANA* NELLA CONTEMPORANEITÀ DEL TEATRO Note su Robert Carsen regista di “Don Giovanni” Abstract In the Presentness of Theatre: Notes on Robert Carsen directing the “Don Juan” The figure of famous Canadian director Robert Carsen is set in the framework of the international opera renewal that, starting the 1980s, was produced by the increased relevance taken on by staging and, in particular, by the systematic contribution of theatre directors. This paper highlights the technical, practical and creative resources that Carsen considers essential to his work and that seem to be perfectly exemplified through a theatrological analysis of some scenes from his Mozart’s Don Giovanni, staged in Milan at Teatro alla Scala in 2011. The paper refers, in particular, to the narrative and acting processes, found in the libretto, that constitute the basis for the singers’ performance, to the principles that regulate the construction of characters, to the special function of scenography in revealing their sentiments, to the reflexive investigations on theatre-withintheatre, to the important role assigned to the spectator. Through these, Carsen seems to achieve an aesthetics of representation capable to grant him with a creative and responsible directorial freedom while respecting the strict necessities of the libretto and the music. Keywords Opera direction; Canadian opera directors; Mozart’s Don Giovanni staging; theatre-within-theatre. 1. verità del teatro Il finale del Don Giovanni di Mozart-Da Ponte messo in scena da Robert Carsen nel 2011 a Milano, al Teatro alla Scala1, sembra capovolgere le sorti del protagonista: Don Giovanni non scompare nel fuoco dell’Inferno; gli altri sei personaggi, invece, finiscono inghiottiti sotterra. Questa conclusione è segno dell’interpretazione che il regista dà del capolavoro. Fra i tratti costanti degli allestimenti di Carsen (Toronto 1954), uno dei più noti e ambiti registi d’opera dei decenni recenti2, c’è infatti la capacità di trasformare Università degli Studi di Bergamo – [email protected] Prima rappresentazione Milano 7-12-2011. Don Giovanni Peter Mattei/Ildebrando D’Arcangelo, Il Commendatore Kwangchul Youn/Alexander Tsymbalyuk, Donna Anna Anna Netrebko/Tamar Iveri, Don Ottavio Giuseppe Filianoti/John Osborn, Donna Elvira Barbara Frittoli/Maria Agresta, Leporello BrynTerfel/ Ildebrando D’Arcangelo, Masetto Štefan Kocán, Zerlina Anna Prohaska, direzione Daniel Barenboim, regia Robert Carsen, scene Michael Levine, costumi Brigitte Reifenstuel, luci Robert Carsen e Peter Van Praet, coreografia Philippe Giraudeau, drammaturgia Ian Burton, orchestra e coro del Teatro alla Scala. 2 Canadese di famiglia tedesca, particolarmente attivo in Europa, il regista Robert Carsen (d’ora in avanti RC) dal 1977 al 2011 ha diretto novanta produzioni liriche, alcuni musical e progetti speciali, quattro regie drammatiche. In più di un caso è co-autore di luci, scene e costumi. Ha inoltre allestito diverse mostre d’arte. È stato insignito di numerosi premi internazionali: Premio Abbiati (Italia): Dialogues des Carmélites 2000, Fidelio 2003, Kát’a Kabanová 2006, Götterdämmerung 2009; Prix du Syndacat de la critique (Francia): Midsummer Night’s Dream 1992, Candide 2006, Dialogues des Carmélites 2010; Premio Campoamor (Spa* 1 NELLA CONTEMPORANEITÀ DEL TEATRO 105 la comprensione della storia rappresentata, che Carsen intende condurre oltre l’ovvio e il consueto, verso un’essenzialità inattesa, suscitando negli spettatori un’esperienza di gioia e di piacere estetico che è al contempo di riflessione, anche serrata e incalzante. L’attenzione registica si appunta sulla contemporaneità drammaturgica delle opere allestite, resa per lo più mediante un presente appena trascorso o indefinibile, un’attualità esemplare e quasi assoluta, in grado di comunicare vivamente con lo spettatore – generata come è da processi visivi e recitativi spesso spiazzanti ma significativamente chiarificatori, assai congeniali a questo regista3. Mai distratto da se stesso e dai propri fantasmi, distante dalla mera provocazione e, d’altra parte, mai illustrativo o accademico, Carsen ha nel libretto e nella musica, intesi nella loro profonda reciprocità, la propria disciplina creativa: rigore e confine che, come vedremo, lo spingono a cercare, della composizione operistica, quel che oltre l’evidenza ne è sostanza prima e a far fiorire in essa l’invenzione, che nei suoi allestimenti ha il carattere della più naturale, intelligente teatralità4. Il Don Giovanni milanese si colloca esemplarmente nel quadro appena delineato, espressione significativa della prassi di lavoro e dello stile di Carsen, come alcune scene che analizzeremo permettono di far emergere5. Sulle prime note dell’Ouverture, da un ingresso della platea oscurata, sopraggiunge correndo un giovane uomo in abito scuro. Sale d’un balzo sul palcoscenico, la luce soffusa concentrata sulla parte mediana del proscenio: con entrambe le mani strappa il sipario chiuso, che cadendo si raccoglie in una massa rossa e lascia vedere il palcoscegna): Dialogues des Carmélites 2006; Premio della critica (Giappone): Jenůfa 2001; Dora Award (Canada): Orfeo ed Euridice 2011. Il suo primo spettacolo di risonanza internazionale e di lunga circolazione è Mefistofele di Boito, Ginevra 1988, in cui RC pone le fondamenta della propria concezione registica. 3 C. Merlin, “Les grandes tendances de la mise en scène d’opéra”, in Id., éd., Opéra et mise en scène, n. monografico, Avant-scène opéra, 241 (2007): 4-21 (20). Nel quadro della comparazione fra le caratteristiche dell’odierna regia lirica nei diversi paesi e culture, e tenendo conto del fatto che RC ha svolto in Francia una parte essenziale della sua carriera artistica matura, ne dice A. Perroux (“Les goûts désunis. Des disparités dans la mise en scène lirique contemporaine”, in I. Moindrot, A. Perroux, éds., Le théâtre à l’opéra, la voix au théâtre, n. monografico, Alternatives théâtrales, 113-114 [2012]: 10-14 [12]): “Sans doute ce Canadien formé en Grande-Bretagne est-il le plus éminent représentant de ce que la mise en scène anglo-saxonne a de meilleur: une maîtrise de l’image scénique et des techniques les plus modernes mises au service de spectacles cohérents, ménageant ce qu’il faut de surprises pour soutenir l’attention du public mais toujours lisibles, et recherchant même à susciter une forme de plaisir propre à la culture de l’entertainement”. Per parte sua, rispetto a quel che definisce il “nouveau conformisme” registico che “passe par la pratique des réecritures, des transpositions et autres réductions” dell’opera lirica, osserva J. Cabourg (“Académisme et modernité”, in Merlin, éd., Opéra et mise en scène: 56-59 [58-59]): “il nous reste par bonheur le Chéreau des grands jours, un Carsen et un Sellars saisonniers, la fraîcheur d’âme d’un Pelly, l’acuité psychologique d’Hermann ou de Bondy, et de quelques autres encore”. 4 L’apparente facilità dei lavori di RC, l’efficacia dei risultati e l’intesa con il pubblico non convincono inizialmente Stéphane Lissner, che scopre via via il valore del regista (di cui infatti, nel corso della propria direzione artistica al Teatro alla Scala, ospiterà otto spettacoli, conferendogli l’incarico dell’apertura della stagione 2011-2012 appunto con Don Giovanni): “le reproche de la simplicité cache une qualité: celle d’une grande justesse envers l’œuvre, d’un respect de l’œuvre et du public” (“Témoignages”, in Opéra et mise en scène. Robert Carsen, n. monografico, Avant-scène opéra, 269 [2012]: 22-32 [29]). Si vedano anche gli efficaci paragoni a cui viene sottoposto RC nella seguente nota giornalistica, che infine ne sottolinea con una battuta il generale gradimento: “Chez Carsen, rien de la voyoucratie politique d’un Peter Sellars, de l’iconoclastie poétique d’un Christoph Marthaler, de la radicalité plastique d’un Bob Wilson. Ancore moin la métaphysique charnelle d’Olivier Py. Le Canadien a tout ou presque du gendre parfait”: M.-A. Roux, “Robert Carsen: les frasques d’un pudique”, Le Monde.fr, 13 séptembre2012. Ultimo accesso: 22 giugno 2014. Http://www.lemonde.fr/culture/article/2012/09/13/robert-carsen-les-frasques-d-un-pudique_1759909_3246.html. 5 Ho condotto le osservazioni che seguono mediante la visione dal vivo di due repliche dello spettacolo (con entrambe le compagnie di canto) e una riproduzione audiovisiva provvisoria della prima rappresentazione, che mi ha permesso di consolidare alcune impressioni; ringrazio vivamente Franco Pulcini per avermela messa a disposizione. 106 BERNADETTE MAJORANA nico, il fondo interamente occupato da uno specchio ondeggiante, su cui insieme con il giovane si riflettono la sala, d’improvviso illuminata, i palchi, le gallerie, il pubblico. L’uomo si volta verso il teatro. Si toglie giacca e cravattino, li lascia cadere, si avvia verso il fondo della scena: al suo incedere, mentre le luci di sala scendono fino al buio, lo specchio riprende a fluttuare. Raggiunto che l’ha, illuminato solo da sinistra, si sofferma a guardare la propria immagine. Questa azione, lenta, presaga di qualcosa che pare contenuto nel vuoto della scena e nello specchio che tutto riflette, si organizza sull’intero Andante, il primo movimento dell’Ouverture, quello che serba in sé la promessa di morte che s’invererà alla fine6. Il giovane che l’ha compiuta è evidentemente – benché non ne porti il costume prevedibile e la sua comparsa anticipi l’entrata stabilita dal libretto – Don Giovanni. Mentre si avvia il secondo movimento, a uno schiocco delle sue dita la visione si chiude nel buio. Don Giovanni scompare con essa. In una luce fievole scende però un nuovo sipario, uguale a quello che era stato strappato: ne è una riproduzione bidimensionale, un fondale disposto in prossimità del boccascena, mentre l’altro è ancora lì abbandonato. La scena resta immutata fino alla fine dell’Ouverture, dominata dal bagliore rossastro del vero e del finto sipario. Tuttavia, come si è visto, all’imporsi gaio del Molto allegro si accorda lo schioccare delle dita di Don Giovanni: questo gesto qualifica il personaggio di un’energia che si sprigiona da lui sicura, compenetrando la scena – una reciprocità subito intelligibile: Don Giovanni appartiene al teatro e il teatro gli appartiene, ne è il demiurgo. Prima ancora che nel potere di seduzione, la sua forza vitale si manifesta nell’essere egli ordinatore dell’esistenza entro un universo artificiale, antinaturale, spazio capace di superare il contingente, dotato di leggi e rapporti suoi propri, dove persone e azioni acquistano significato nuovo. Dietro il sipario strappato, al di là del sipario suscitato, non c’è un altro mondo: c’è ancora il teatro7. L’efficacia del gesto iniziale – lo strappare il sipario, con il rispecchiamento flagrante che subito produce – e poi di quell’altro, da mago (e altri simili gliene si vedrà fare, tanto poco ostentati quanto più capaci di produrre trasformazioni), stringono il nodo di verità e finzione, di vita e teatro appunto. Nel teatro tutto si genera e tutto si assorbe: è la sola, metafisica risposta alla finitezza dell’esperienza amorosa e della morte. Questi istanti iniziali di potenza creativa e visionaria del personaggio alludono al Don Juan kierkegaardiano e a quello esistenzialista sbozzato da Camus, che Carsen e Ian Burton, dramaturg di questo Don Giovanni, mettono tra i loro riferimenti fondamentali8. Sull’Introduzione del primo atto, otto macchinisti raccolgono a vista il sipario caduto e lo portano fuori scena, mentre il fondale a immagine di sipario, guidato da una dozzina di altri macchinisti, gira su se stesso mostrando il rovescio, la superficie grezza 6 M. Mila, Lettura del Don Giovanni di Mozart, Torino: Einaudi, 1988 e 2000, 45-54; N. Pirrotta, Don Giovanni in musica, Venezia: Marsilio, 1999, 157-160. 7 Il tema del teatro, e in particolare del teatro nel teatro, è ritornante nelle regie di RC; sono frequenti anche quello della magia, della moltiplicazione degli elementi scenici, dell’immagine bidimensionale, cioè artificiale, tutti col primo collegati: RC in “L’important c’est ce que l’oeuvre veut”, intervista di C. Cazaux, in Opéra et mise en scène. Robert Carsen: 8-21 (14, 15, 21); I. Moindrot, “Alcina”, ibid.: 50-53 (51); A. Perroux, “Petit précis de grammaire carsénienne”, ibid.: 124-129. Sulla vocazione teatrale del personaggio di Don Giovanni, nello sviluppo della sua tradizione drammatica e letteraria: G. Macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni, Torino: Einaudi, 1978; nonché alcune finissime riflessioni di L. Mariti, “Il comico dell’Arte e Il Convitato di pietra”, in S. Carandini, L. Mariti, Don Giovanni o l’estrema avventura del teatro. Il nuovo risarcito Convitato di pietra di Giovan Battista Andreini, Roma: Bulzoni, 2003, in part. 193-202. 8 I. Burton, “L’archetipo del seduttore”, in Don Giovanni, Programma di sala, Milano: Ed. Teatro alla Scala, [2011]: 177-183; RC, “Note di regia”, ibid., 220. NELLA CONTEMPORANEITÀ DEL TEATRO 107 della tela, l’armatura metallica. Entra al contempo un macchinista da solo: è Leporello. Vagheggiandosi padrone, raccoglie gli indumenti abbandonati di Don Giovanni e li indossa sui propri abiti da lavoro. La rotazione del fondale capovolge anche la percezione dello spazio teatrale: ora gli spettatori ne vedono la parte solitamente nascosta allo sguardo, il luogo dell’artificio meccanico, ciò che sta al di là della finzione, coloro che la muovono. Il mago fabbrica i suoi incanti, e i suoi inganni, e colui che lo serve è uno del mestiere: quello è il suo ambiente – tanto che per annotare le conquiste del padrone (I.v), Leporello ricorrerà al retro di un fondale, che ne risulterà interamente istoriato. Roland Barthes osserva che il sipario, prima di diventare “lo strumento specioso della menzogna pseudo-realistica”, aveva “il compito di rivelare la scenografia come un’apparizione magica e un’opera d’arte al tempo stesso”; e “la scena doveva [...] trasformarsi, non meno magicamente, davanti agli spettatori”, essendo il sipario “il segno di un sogno, di una magia ricercata in modo esplicito”9. Nel Don Giovanni di Carsen l’uso che del sipario si fa è, sin dal principio, l’indicatore di tale negazione di ogni mimetismo e dà forma a un impianto registico che nel peso visivo di cui carica l’oggetto (col moltiplicarlo, dividerlo, muoverlo, voltarlo, dimezzarlo: il sipario è la sola scenografia dello spettacolo, in un mutuo scambio con la sala a palchetti della Scala) si mostra trasparentemente barocco e perciò della medesima estrazione del mito di Don Giovanni: il dispositivo scenografico concretizza il tempo e l’ambiente della tradizione in maniera del tutto antidescrittiva; e l’artificio manifesto parla anche del protagonista-artefice, mediando il dispiegarsi della sua essenza teatrale. I costumi non rimandano all’epoca dell’azione o della composizione: tolti, come vedremo, quelli della festa danzante, sono tutti e sempre abiti moderni, anche se – e in maniera evidente in quelli femminili – la scelta del taglio e dei tessuti, il gusto riconducibile agli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento che complessivamente li informa, ne suggerisce una spiccata atemporalità che, al pari delle scene, marca il loro valore squisitamente teatrale e, unitamente, l’affinità dei personaggi con il presente degli spettatori. Al principio del primo atto, come altrove nello spettacolo, e nonostante l’apparente didascalismo dell’azione rispetto alle parole pronunciate (Voglio far il gentiluomo10), l’indossare Leporello la giacca del padrone introduce un ulteriore elemento, che nel corso della messa in scena si ripete e sviluppa ed è dotato esso pure di valore barocco: lo scambio degli abiti, il travestimento, il mascheramento, il denudamento. Sono azioni capaci di alludere allo stato interiore del personaggio, come è nel caso della comparsa di Donna Elvira – per la quale sono specialmente incisive – con indosso il suo più che sobrio abito da viaggio (I.iv), che copre severo il risentimento dell’abbandono che ella ha subito da Don Giovanni, lasciando il posto a un’esigua sottoveste, ingenua seminudità che rivela la dama fragile, priva di protezione. Elvira ne porta una anche durante l’aria del catalogo – che accoglie lusingata, ma sentendosi pure irrisa dall’elenco di conquiste dello sposo (I.vi) – e di nuovo quando al balcone lamenta dolente le azioni del traditore, subito beffata da Don Giovanni (II.ii). Mentre, volitiva e caparbia, pare acquistare una scorza virile con l’indossare talvolta la giacca di Don Giovanni: così, fra l’altro, nel mettere in guardia Zerlina sedotta da lui (I.x). 9 R. Barthes, Sul teatro, a cura di M. Consolini, Roma: Meltemi, 2002, 160. I corsivi sono nel testo (ugualmente, ove presenti, nelle ulteriori citazioni infra). 10 Le citazioni testuali dal Don Giovanni di Da Ponte, comprese le didascalie, sono qui riportate in corsivo senza virgolette e sono tratte dal libretto pubblicato nel programma di sala scaligero del Don Giovanni, 5-49, che d’ora in avanti si ometterà di richiamare in nota. 108 BERNADETTE MAJORANA Talune azioni legate alla circostanza della mutazione a vista dei costumi evocano però, più strettamente, la simulazione, la contraffazione, l’estrema contaminazione della realtà da parte della finzione, del teatro. Così Don Giovanni, dopo aver scambiato, secondo il libretto, i propri abiti con quelli di Leporello e aver malmenato Masetto (II.v), rafforza il godimento dell’inganno con l’assistere, seduto dal lato del pubblico, a quel che segue: il proscenio, ribassato di un buon metro, diventa il luogo da cui egli osserva l’effetto prodotto dai propri artifici. Vi siede accanto alla cameriera di Donna Elvira (che ha risposto al richiamo della sua canzonetta e che spogliandosi via via, fino a restare nuda, si stringe a lui): liberatosi delle vesti del servo, si mostra in un abbigliamento comune, t-shirt e pantaloni. Questo nuovo Don Giovanni conserva tutte le tracce dei precedenti, ma per via di levare: quel che ora indossa è l’ultima pelle sua, la più intima, e pare estranea alla finzione rappresentata: egli fa la spola tra scena e proscenio, cioè tra azione e visione, e più volte, con un cenno, fa sì che i sipari si levino, che le quinte si moltiplichino, i personaggi compaiano e agiscano sulla scena, della quale è autore e osservatore. Così, in quel punto, voyeur disincantato, guarda e commenta il rimprovero impartito da Zerlina a Masetto geloso, i due giovani risplendenti nel buio, sublimati dalla bianchezza di perla dei loro abiti di nozze; e si compiace della malizia con cui Zerlina volta la punizione in provocazione erotica, ogni parola in un’azione corrispondente: Sentilo battere, Toccami qua (II.vi). Col gesto di una mano fa che il fondale si alzi sulla prospettiva di quinte che era già della gran festa di ballo (I.xx), comparendovi nel mezzo Leporello, con la marsina e la maschera del padrone, costretto a continuare la burla della rappacificazione con Elvira, mentre tenta di sfuggirle: l’uno e l’altra portano abiti settecenteschi, ancora quelli della festa. (È, quello della festa, l’unico momento in cui Carsen cita apertamente il contesto storico-cronologico dell’opera e la tradizione. Lo fa appunto mediante costumi di foggia antica e, a ridondanza del sipario, di velluto monocromo rosso scuro: nel luogo esplicito del mascheramento e della simulazione, proprio secondo l’indicazione di Da Ponte, la regia raddoppia i segni di una rappresentazione che rimanda costantemente al teatro). Quindi il fondale si leva per mostrare, in una profondità ulteriore, Don Ottavio e Donna Anna in abiti neri – daccapo moderni – e confacenti alla morte recentissima del Commendatore, poi Masetto e Zerlina nelle vesti disordinate dell’amplesso. E ancora, Don Giovanni assiste al penoso riconoscimento del suo servo, incalzato, minacciato di morte, smascherato, confessatosi Leporello, implorante salvezza, per carità! (è il sestetto famoso: II.vii). Palesatosi l’inganno, nella larga scena vuota ciascuno rimane solo, nei suoi torbidi pensieri (II.viii). Don Giovanni applaude allora all’indirizzo del palcoscenico e con la giovane donna abbandona il suo posto in proscenio per rientrare fra le quinte. Delle scene sesta, settima e ottava del secondo atto, dove si parla di lui e si agisce per lui, negli abiti come nella posizione assunta nello spazio, egli si è mostrato sempre il primo spettatore. Il teatro nel teatro: la struttura portante, barocca in radice, dell’intero spettacolo. 2. cantare da attori Il dispositivo metateatrale si mette dunque in moto con le prime battute della partitura e governa la rappresentazione sempre, fino a questa sequenza del secondo atto, registicamente cruciale, e fino al termine dell’opera, come vedremo. Le sue implicazioni drammaturgiche sono evidenti però già nella prima scena del primo atto, dove si origina il dramma e la storia rappresentata prende la sua piega. NELLA CONTEMPORANEITÀ DEL TEATRO 109 Al nascondersi di Leporello, infatti (Ma mi par... che venga gente; Non mi voglio far sentir), il finto sipario torna a girarsi verso la sala: vi è appoggiato un letto disfatto, illuminato sul rosso opaco del fondo (I.i). Don Giovanni e Donn’Anna sono lì: lei sensuale, una lunga sottoveste di raso chiaro, braccia e piedi nudi; lui, la camicia in disordine sui pantaloni dello smoking, la giacca negligentemente abbandonata per terra. Per I.i-iii Da Ponte indica esplicitamente un esterno notturno: qui si allude invece a un interno, per tramite appunto del letto, esiguo spazio di quel che segue. Mentre riguardo all’abbigliamento di Leporello, in I.i il libretto prescrive il ferraiuolo, quanto a Don Giovanni tace. Carsen pare servirsi di questa omissione per instaurare una drammaturgia recitativa che impone una comprensione inusuale degli accadimenti a venire. Infatti, per questo episodio iniziale, dal quale tutto dipende, la consuetudine scenica si basa su una didascalia dello stesso I.i, che indica Don Giovanni nell’atto sempre di celarsi, e su quanto in seguito riferirà Donna Anna dicendo di essere stata aggredita da un uomo in un mantello avvolto, irriconoscibile (I.xiii). Qui invece, nell’atto di ricomporsi, Don Giovanni non nasconde il proprio aspetto: al contrario mostra il volto a Donn’Anna apertamente, e questa gli si accosta invaghita. Ciò che lo spettatore vede non è, dunque, l’erompere abituale di due litiganti irriducibili, lui irato, occupato a non tradirsi, in fuga da lei sdegnata, offesa per l’abuso perpetrato a suo danno dall’ignoto cavaliere, bensì la conclusione di un amplesso goduto dalla dama non meno che dall’uomo che l’ha posseduta. Le parole Donna folle! indarno gridi! Chi son io tu non saprai, dette da Don Giovanni, non riguardano allora l’identità della propria persona: sottintendono un’inafferrabilità che non investe la circostanza ma il personaggio inesauribile del mito. Sono rivolte al pubblico, dice Carsen: Don Giovanni ci è inconoscibile11. Donn’Anna si mostra completamente attratta da lui: con gli atti che accompagnano il terribile Non sperar, se non m’uccidi, Ch’io ti lasci fuggir mai mostra di volerlo minacciare non perché egli le abbia usato violenza, ma perché intende trattenerlo nel proprio letto. Anche il chiamare aiuto pare un modo per intimorirlo e far sì che l’accontenti (ma quello le chiude la bocca con una mano: Taci, e trema al mio furore!). Fiera e dominatrice, ha gesti di capricciosa risolutezza e una determinazione concitata, che le viene da lui restituita (“le due voci si avvinghiano l’una all’altra”, osserva Massimo Mila nella sua analisi del capolavoro – un testo critico di riferimento quanto alla sostanza drammatica della partitura – e “la risorsa del contrappunto [...] si rivela quanto mai adatta a rendere la situazione teatrale”)12. Tra sé Don Giovanni replica: Questa furia disperata Mi vuol far precipitar, ma un po’ le si oppone, un po’ la asseconda voluttuoso. Nel ribattergli Come furia disperata Ti saprò perseguitar Donn’Anna lo abbraccia ridente, indugia sulle sue spalle. Scellerato!: lo guarda negli occhi – ne è “come ipnotizzata”, osserva Carsen13 – e gli prende la testa fra le mani, lo attrae con audacia graziosa. Al ripetere tra sé Mi farà precipitar Don Giovanni la bacia a lungo. A ben vedere, questa azione è formata, retroattivamente e con aderenza pressoché letterale, sul racconto della notte sciagurata che il giorno seguente Anna farà a Ottavio (I.xiii) – Tacito a me s’appressa, E mi vuole abbracciar: sciogliermi cerco, Ei più mi stringe; grido: Non viene alcun. Con una mano cerca D’impedire la voce, E coll’altra m’afferra Stretta così, che già mi credo vinta – pur se intrisa, come si è visto, di tutt’altro umore. Negli ultimi venticinque anni Robert Carsen si è segnalato come uno degli uomini 11 12 13 RC, “Note di regia”, in Don Giovanni, 219-220. Mila, Lettura del Don Giovanni, 61. RC, “Note di regia”, in Don Giovanni, 221. 110 BERNADETTE MAJORANA di teatro meglio capaci di rispondere alle esigenze peculiari dell’opera lirica. Particolarmente spiccata, in questo senso, è la sua competenza nel mettervi a profitto risorse propriamente drammatiche e in ispecie recitative (secondo una preoccupazione registica che è già di Strehler o di Ponnelle, di Chéreau e di Brook)14, nonché la sapienza con cui costruisce e definisce la drammaturgia dei personaggi mediante un processo d’indagine profonda del testo15, sentito però nella sua relazione d’equilibrio intoccabile con la musica, dalla quale il regista trae molte delle qualità dei personaggi rappresentati e delle circostanze16. La pertinenza tra universo del personaggio, gestualità e mimica del cantante, il perseguimento di una dinamica scenica e recitativa in cui l’espressione teatrale trovi nel testo e nella musica, unitamente, la propria necessità erano ancora una promessa nei primi anni Ottanta, quando li si considerava “un immense domain” ancora interamente “à explorer”, ma tuttavia “un enjeu essentiel pour l’opéra”17. Sono le istanze che diedero l’avvio a quella “sorte de révolution”18 che avrebbe condotto a rifondare la rappresentazione dell’opera lirica. Nei confronti di essa era emerso, a quell’epoca, un interesse nuovo da parte sia del pubblico, sia di alcuni registi di teatro per i quali la lirica rappresentava una realtà non ancora sperimentata (con l’eccezione di alcuni contributi ritenuti straordinari ed esemplari, come per esempio quelli di Giorgio Strehler). Per la 14 Secondo G. Guccini, “L’opera come teatro. Percorsi e prospettive della regia lirica”, in G. Guccini, L. Zoppelli, L. Bianconi, “Ancora sulla regìa nell’opera lirica”, Il Saggiatore musicale, 17, 1 (2010): 83-118 (87), fra i registi che delineano la “tendenza a coniugare spettacolo operistico e rappresentazione drammatica” facendosi “fautori d’una spettacolarità corrispondente ai contenuti emozionali e narrativi del dramma musicale”, mediante una particolare “attenzione alla preparazione dei cantanti”, si possono riunire Vilar, Strehler, Zeffirelli, Vitez, Ponnelle, Chéreau, Pasqual e Brook, quest’ultimo specialmente nel Don Giovanni del 1998; nonché G. Guccini, Direzione scenica e regìa, in Storia dell’opera italiana, a cura di L. Bianconi, G. Pestelli, vol. V, La spettacolarità, Torino: EDT, 1988, 165-170. Christian Merlin, “Les grandes tendances de la mise en scène d’opéra”: 16-18, 20-21 accosta senz’altro Carsen a Jean-Pierre Ponnelle; mentre lo stesso RC in “L’important c’est ce que l’oeuvre veut”, 11 dichiara di sentirsi “marqué” da alcuni spettacoli, teatrali e operistici, realizzati tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Novanta da Strehler, Brook, Peymann e Chéreau. 15 “Cogliere l’essenza dell’opera, al di là della lettera: è quanto caratterizza di solito il lavoro del regista Robert Carsen, che si spinge, talvolta, al limite dell’arbitrio, trattenendosi, però, da forzature che stravolgano il testo. Anzi, questo è sempre il punto di partenza, fatto oggetto di una lettura attenta”: P. Gallarati, L’essenza di Salome nella regia di Carsen”, TurinD@msReview, 6 aprile 2008. Ultimo accesso: 11 febbraio 2014. Http://www.turindamsreview.unito.it/sezione.php?idart=392. 16 “Il riconoscimento unanime che saluta in genere gli spettacoli di Robert Carsen [...] deriva senza dubbio dall’attenzione con cui l’attualizzazione visiva traspone il gioco dei rapporti [i rapporti interni stabiliti dal libretto e dalla partitura] [...] ma anche la pregnanza di certi dettagli appartenenti al piano significante”: L. Zoppelli, ‘“Alla borghese moderna’? Regìa d’opera, traduzione dei codici e pubblici”, in Guccini, Zoppelli, Bianconi, “Ancora sulla regìa nell’opera lirica”, 100-101. Va sottolineato che RC dispone di un’elevata competenza linguistica oltre che nell’inglese, anche in francese, italiano e tedesco, che gli permette di accedere direttamente ai libretti; inoltre ha ricevuto una formazione pianistica ed è uno dei non molti registi capaci di leggere una partitura (RC in “L’important c’est ce que l’oeuvre veut”, 21). Sulla necessaria capacità dei registi di “snidare [...] quanto di drammatico c’è nella pagina musicale”, senza “appiattire il teatro sulle sole componenti testuali scritte”, e senza trattare, d’altronde, “il testo come un pretesto”, P. Fabbri, “‘Di vedere e non vedere’: lo spettatore all’opera”, Musica docta, 5 (2011), http://www.musicadocta.cib.unibo.it. L’attenzione su questi punti è similmente posta da A. Tubeuf, “Droits et devoirs du metteur en scène”, in Merlin, éd., Opéra et mise en scène: 22-25, e da A. Perroux, “Le metteur en scène, interprète ou créateur?”, ibid.: 48-55. 17 F. Collin et al., “L’opéra, art des temps modernes?”, L’opéra aujourd’hui, n. speciale, Alternatives théâtrales, 16-17 (1983): 5-19 (10). Per parte sua J.-P. Piemme, “La dramaturgie visible”, ibid.: 20-23 (21), sottolinea: “On regarde aujourd’hui la théâtralité fanée qui naguère encore fondait la legitimité de l’opéra comme une survivance du siècle dernier. La gestuelle redondante du chanteur, l’anedoctisme scénographique, la sacro-sainte loi de l’expressivité avaient fait de l’opéra un art bête, c’est-à-dire abêti, un art tout entier suspendu à la performance de la voix, un art pour tout dire un peu fétichiste, réplié sur lui-même, donnant lieu à la célébration culturelle plus qu’à un travail de connaissance”. 18 B. Debraux, L’Opéra aujourd’hui, in L’Opéra aujourd’hui: 2-3 (2). NELLA CONTEMPORANEITÀ DEL TEATRO 111 prima volta si realizzava la convergenza teorico-pratica e critica di registi, dramaturg, scenografi, direttori d’orchestra, cantanti – quanti fra questi erano disposti a riconsiderare le proprie possibilità sceniche – e direttori artistici, la cui mutua collaborazione fu indispensabile a intraprendere e ad attuare il cambiamento19. Carsen avvia la propria attività nel pieno di queste innovazioni e del loro coesistere e confliggere con la tradizione. Fa proprie le questioni sorte allora e, insieme con altri registi attivi lungo gli stessi anni, riesce a spostare nella direzione auspicata il baricentro degli interessi e del gusto di molta parte del pubblico. Tuttavia la concezione di regia d’opera determinatasi allora è spesso oggetto, fino a oggi, di accuse e semplificazioni proprio a causa della centralità che essa ha assunto negli allestimenti dell’ultimo trentennio20; ne dice lo stesso Carsen: “Longtemps, aller à l’opéra n’a pas été considéré comme un moment où l’on allait avoir une rencontre théâtralement forte avec l’œuvre”, ma alcuni registi “ont permis cette prise de conscience, et maintenant la demande du public s’est généralisée”21. Benché abbia finito col contraddistinguerne la vita artistica, l’opera lirica è per Robert Carsen un’opportunità sopraggiunta casualmente. La sua originaria vocazione è infatti schiettamente teatrale – recitazione prima, regia in seguito. E se, come si osserva già negli anni Ottanta, la “pratique scénique de l’opéra ne cesse de composer son tissu à partir des fils déjà tissés par les pratiques théâtrales”22, quanto a lui si deve ritenere in modo non generico che il suo stile di direzione degli interpreti sia l’esito maturo e meditato della formazione d’attore drammatico che egli ha ricevuto a metà degli anni Settanta, alla Bristol Old Vic Theatre School, sotto la guida di Rudi Shelley, uno dei maggiori e più autorevoli maestri della tradizione recitativa britannica (lo stesso che individuando in Carsen un notevole “instinct for observation and persuasion” gli suggerì di orientar19 Alla fine del 1983, a fare il punto su questi temi esce sul citato numero speciale di Alternatives théâtrales, 16-17, dedicato a L’opéra aujourd’hui, un’importante, vivacissima riflessione, dove le trasformazioni appena avviate vengono osservate particolarmente attraverso l’attività dell’Opéra National di Bruxelles al Théâtre Royal de la Monnaie, che con Gerard Mortier alla direzione artistica (1981-1991) si era costituito come uno dei maggiori laboratori della nuova regia lirica. 20 In prospettiva storica, la supremazia conquistata con gli anni Ottanta dalla regia, e in particolare dai registi teatrali, nell’ambito della lirica è valutazione largamente condivisa: fra gli altri, S. Cappelletto, “Inventare la scena: regia e teatro d’opera”, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, a cura di R. Alonge, G. Davico Bonino, vol. iii, Avanguardie e utopie del teatro. Il Novecento, Torino: Einaudi, 2001, 1199-1217; C. Deshoulières, “La regia moderna delle opere del passato”, in Enciclopedia della musica, a cura di J.-J. Nattiez, vol. ii, Il sapere musicale, Torino: Einaudi, 2002, 1029-1063; Guccini, Zoppelli, Bianconi, Ancora sulla regìa nell’opera lirica. Interessanti esiti del dibattito più recente sono in Merlin, éd., Opéra et mise en scène e in Moindrot, Perroux, éds., Le théâtre à l’opéra, la voix au théâtre. Aperto da Lorin Maazel, seguito da Franco Zeffirelli, uno scontro esemplare sulla pretesa dittatura dei registi, che ha coinvolto Peter Zadek, RC, Robert Wilson, Claus Guth, Graham Vick, Denis Krief e altri, è registrato sul Corriere della Sera, 20, 22, 23, 24 agosto 2008. 21 RC in “L’important c’est ce que l’oeuvre veut”, 20. L’analisi complessiva dei contributi registici condotta da Merlin, “Les grandes tendances de la mise en scène d’opéra”, 4-21, fa emergere l’attenzione ma anche l’autonomia di RC rispetto alle grandi correnti europee del secondo Novecento, la scuola tedescoorientale, il realismo critico, il Regie theater, ma pure le tendenze di estrazione teatrale post-drammatica di cui parla Perroux, “Le metteur en scène, interprète ou créateur?”. Lo stesso RC ritiene che il suo lavoro non sia ascrivibile all’una o all’altra corrente, in particolare quanto all’identificazione dell’allestimento con il regista: per esempio, proprio a proposito del Don Giovanni milanese, alla domanda “S’agit-il de votre ‘lecture’ – ou relecture – au sens où on l’entend aujourd’hui dans les débats opposant mise en scène classique et Regie theater?”, risponde, sottolineando il valore della cooperazione creativa dell’intero gruppo di lavoro: “Une mise en scène est forcément une lecture! C’est une proposition forcément filtrée par l’équipe qui la présente, une équipe choisie et coordonnée par le metteur en scène” ecc. (RC in “L’important c’est ce que l’œuvre veut”, 15). 22 Piemme, “La dramaturgie visible”, 21. 112 BERNADETTE MAJORANA si alla regia23). Shelley concentrava il lavoro dell’attore su “motivation”, “character”, “action”, principi estratti dalle pratiche e dalle riflessioni del primo Novecento, in particolare da Stanislavskij, ma profondamente ricompresi nella sua pedagogia e nel suo training, fondato sul rapporto fra il corpo, da esercitare finché non lo si sia “neutralized”, e la voce, intesa come espansione della condizione fisica raggiunta24. Carsen interviene sulle contraintes abituali del cantante, stimolandolo a valorizzare le proprie risorse e forzandolo a trovarle col varcare i limiti delle proprie consuetudini psicofisiche; ma fa pure in modo che nessun contributo personale dei cantanti vada perduto: “il faut un côté laboratoire, qui ne fixe pas les choses”25 (il mezzosoprano Susan Graham lo conferma col dire che la fiducia di Carsen nei cantanti fa sì che essi possano avere il tempo d’“un travail de détail” e di “découvrir par eux-même beaucoup de choses, de proposer des idées, des gestes”26). L’individuazione della “motivation”, dice Carsen, come Shelley, costituisce per un regista “the essential job” nei confronti degli interpreti, “actors or singers”: è cruciale “to help them create their character” e, di più, “helping people stay in character”27. Egli lavora in primo luogo sul vincolo che i cantanti devono stabilire col testo del libretto, sempre subordinato – a differenza di quanto non avvenga nelle scelte attoriali o registiche del teatro parlato – ai tempi stabiliti dalla partitura e dall’esecuzione musicale28. Dinanzi a tale dato fondativo della drammaturgia lirica, scenicamente ineludibile, Carsen osserva come i cantanti fatichino ad affrontare il testo da pronunciare sottraendolo alla mediazione della musica: “Singers tend to learn the text after the music” (benché “That’s exactly the opposite to how it was composed”); imparatolo a memoria per questa via, essi lo pronunciano – e lo pensano, anche – solamente cantandolo, anche quando, secondo un procedimento teatrale apparentemente elementare, li si invita a dirlo: “They won’t say [...]. They won’t speak the text”. Cosicché, al principio delle prove, Carsen obbliga i cantanti a misurarsi col ‘dire’ oltre che col ‘cantare’: “It’s important to separate those things to rediscover their essence before putting them together again”29. La coscienza fisica e mentale della rottura dell’abitudine rinnova il sentimento del testo; e temporaneamente degerarchizzandolo, sottraendolo alla logica e all’orientamento impressole dalla musica, alla ricchezza extra-letteraria ed extra-verbale che gli conferisce, tale coscienza produce un diverso radicamento del testo nell’interprete, un più sfaccettato dominio delle parole appartenenti al proprio personaggio e all’altrui. Il cantante, infatti, osserva ancora il regista, è abituato a prestare attenzione soltanto alla propria parte: Carsen lo incalza, invece, perché nel cantare si concentri sull’effettivo ascolto delle parole che l’altro gli dice e con l’altro si metta in rapporto consapevolmen23 M. Aster, “Head and Heart”, The Walrus, 2009. Ultimo accesso: 18 luglio 2014. Http://thewalrus.ca/ head-and-heart/. 24 E. Roberts, “Just Do It. Theory and Practice in Acting”, in Yu Jin Ko, M.W. Shurgot, eds., Shakespeare’s Sense of Character. On the Page and from the Stage, Farnham Uk-Burlington Vt: Ashgate, 2012, 171-172, che sottolinea come alla Old Vic School la classe di Shelley, dal 1946 al 1998, “was central to the training”. Di origine tedesca, Rudi Shelley è una figura leggendaria nella cultura teatrale inglese, maestro amatissimo e influente di generazioni di attori. Fra i suoi allievi: Peter O’Toole, Anthony Hopkins, Jeremy Irons, Pete Postlethwaite, Daniel Day-Lewis, Miranda Richardson. 25 RC in “L’important c’est ce que l’oeuvre veut”, 11. 26 “Témoignages”, 31. 27 RC in J. Jampol, “Robert Carsen, or Building the Bridge between Head and Heart”, in J. Jampol, Living Opera, New York: Oxford University Press, 2010, 29-30. 28 Guccini, “L’opera come teatro”, 84-86. 29 RC in Jampol, “Robert Carsen”, 30. Sul rapporto parola-musica, dire-cantare F. Regnault, “Il faut croire Elisabeth Schwarzkopf. Notes péremptoires sur la mise en scène d’opéra”, in L’Opéra aujourd’hui: 43-53 (43-45). NELLA CONTEMPORANEITÀ DEL TEATRO 113 te, interrogandosi sulle ragioni drammatiche di tale scambio: insiste perché si determini in ciascuno una competenza pienamente recitativa e relazionale, indispensabile a parere suo all’azione scenica cantata (il soprano Natalie Dessay ricorre a una serie di espressioni tra loro affini che, formando una sequenza coerente, delineano i tratti caratterizzanti del lavoro di questo regista con gli interpreti: “précision”, “souci du détail”, richiesta “de choses exactes”, “exigeant” e, aggiunge, “ne nous prenant jamais pour des chanteurs piètres acteurs mais pour des acteurs à part entière, à diriger”30). Dice inoltre Carsen, parlando dei diversi contributi dell’équipe di lavoro: “Tout notre travail [...] est d’essayer d’exprimer au mieux ce qui est contenu dans le personnage. Or”, precisa, “ce que dit le personnage est une approximation de ce qu’il pense, et il faut trouver sa pensée à travers la totalité de ce qu’il dit”31. Alla lettura ad alta voce del libretto “comme une pièce de théâtre”32 – che il regista compie con i cantanti e con il dramaturg e lo scenografo – segue l’interrogazione profonda della letteralità testuale; e segue, inoltre, il racconto della storia, operazione secondo Carsen mobilitante il processo d’invenzione: “the most important thing is deciding what the opera is about” e di qui ciò che “concretely” si dovrà “translate into staging”33 (dopo averlo ricondotto però alla musica: “Because everything you’re going to do is going to come from the text and the music”34). Riguardo a questa pratica, ricostruendo il suo lavoro con Carsen a datare dagli anni Novanta, Ian Burton scrive che essa consiste infatti nel “minutieusement passer en revue le texte du livret, l’intrigue, les principaux personnages, le cadre de l’action”, quindi nell’“essayer d’estimer ce qui la musique nous di[t] à propos de tous ces éléments”: di capire, cioè, “ce dont parl[e] l’opéra”; ma quel che Carsen considera irrinunciabile, aggiunge Burton, è il passaggio successivo, la comprensione di “ce dont parl[e] réellement l’opéra”35. Questo aspetto metodologicamente costante del suo lavoro registico pare attingere direttamente da Stanislavskij, anzi dall’ultimo Stanislavskij; ed è riconducibile alla formazione teatrale ricevuta: di quello che, senza approfondire oltre, Carsen definisce il proprio “fantastic training in text study as an actor”, egli ricorda infatti che l’impegno maggiore richiesto agli allievi dallo stanislavskiano Rudi Shelley riguardava appunto “how carefully you have to study a text in order to find what’s hidden in it”; poiché, dice ancora, “what the piece is about is not the story itself, but in the subtext under the story”36. Di ciò che emerge dal procedimento narrativo a cui sottopone collaboratori e cantanti – “some of the essence, [...] of what is contained there in”, poiché “you can’t call it truth, because there is no truth in a piece of theater”37 – egli fa appunto il primo nucleo dell’azione da rappresentare: è, questa di Carsen, osserva ancora Dessay, “une façon originale de raconter les histoires – en particulier celles que l’on connaî déjà [...]. Cette manière personnelle de lire les histoires, c’est sa marque de fabrique”38. Nel caso che stiamo esaminando, la ‘vera’ storia, afferma il regista, non può prescindere dal fatto che la dama e il cavaliere si conoscano già da prima della notte fati“Témoignages”, 27. RC in “L’important c’est ce que l’œuvre veut”, 10. 32 RC in Le Figaro, 15 juin 2004, riportato in Merlin, éd., Opéra et mise en scène: 21. 33 RC in Jampol, “Robert Carsen”, 23. 34 Ibid., 26. 35 I. Burton, “Le travail du dramaturge”, in Opéra et mise en scène. Robert Carsen: 120-123 (120); nonché RC in Le Figaro, 18 juin 2002, riportato in Merlin, éd., Opéra et mise en scène: 11. 36 RC in Jampol, “Robert Carsen”, 23-24. 37 Ibid., 27-28. 38 “Témoignages”, 27. 30 31 114 BERNADETTE MAJORANA dica (I.i) e certo “da tempo”, facendo parte entrambi “del circolo ristretto della nobiltà sivigliana”39. E altro significato assume allora, in I.xi, anche l’incontro fra Don Giovanni, Don Ottavio, che gli si rivolgerà per nome, e Donna Anna che gli chiederà soccorso in grazia di quel sacro manto d’amicizia che li unisce e che lo stesso Ottavio ribadirà di lì a poco (I.xiii). 3. il sentimento della scena La narrazione come criterio di sondaggio del testo (verbale e musicale) e quel che ne emerge sono dunque il dato interpretativo particolare che fonda l’idea registica e l’adesione a essa della troupe: affinché tutti gli elementi – tecnici, visivi, corporei, cinetici, vocali, musicali – lavorino insieme “You have to have quite a clear narrative line”, indispensabile “to bring everyone [...] into the service of the story you are tryng to tell”40. In questo processo la collaborazione con lo scenografo è principalissima per il regista, “puisqu’il s’agit d’explorer l’univers visuel dans lequel on va raconter une histoire”41: anche la scenografia “doit venir de l’intérieur de l’œuvre”: essa non è “décoration”, ma necessità “de trouver le langage visuel qui va aider le spectateur à entrer dans l’œuvre et la sentir à son tour le plus fortement possible”. Poiché “il faut sentir l’œuvre” oltre che capirla42. Dal punto di vista dello spettatore, d’altronde, Carsen ritiene che la scena debba sempre valorizzare l’interpretazione: “j’ai [...] tendance à privilégier des espaces où l’on ne soit pas distrait par les décors, où l’on puisse se concentrer sur les comédiens et les chanteurs, les mots et la musique”43, dice. Il Don Giovanni che stiamo osservando lo dimostra. E nella varietà degli allestimenti di Carsen il criterio si riafferma costante: l’orientamento mimico-gestuale minuto e psicologicamente approfondito, appuntato sui volti e sulla mutevolezza espressiva di occhi, mani, posture, andatura, corrispondente al variare degli stati d’animo, tende a produrre un esito iperrealistico, una visione che nella sua nitidezza e incisività di dettaglio si costituisce come una lente che potenzia il personaggio, rivelandone quel che solitamente sfugge all’approssimazione percettiva della visione teatrale. Per un processo più che mai singolare rispetto alla convenzionalità dell’opera lirica, il personaggio si forma allora sotto gli occhi degli spettatori, determinato da una fedeltà al naturale la cui evidenza, la cui certezza incontrovertibile – la cui credibilità – paiono garantite per converso proprio dall’astrattezza simbolica, dall’allusività suggestiva, ma a un tempo esattissima, dell’impianto scenico scarno, da un vuoto che esalta l’estrema concentrazione del tratto recitativo, senza consentire che esso si disperda nel contesto. Negli spettacoli più riusciti ciò produce una notevole leggibilità drammaturgica, una forte unità di senso e, nello spettatore, anche di sentimento44. 39 RC in G. Manin, “Difendo il mio Don Giovanni un peccatore come tanti altri”, Corriere della Sera, 13 dicembre 2011. 40 RC in P. Margles, “Robert Carsen: The Way I Direct”, The Whole Note, November 30, 2011. Ultimo accesso: 30 gennaio 2014. Http://www.thewholenote.com/index.php/newsroom/feature-stories/12599-robertcarsen-the-way-i-direct. 41 RC in “L’important c’est ce que l’oeuvre veut”, 17. Alla pratica del racconto fa riferimento anche M. Levine, scenografo del Don Giovanni e della maggior parte degli spettacoli di RC dal 1988: “Témoignages”, 32, e in N. Rewa, Scenography in Canada. Selected Designers, Toronto-Buffalo-London: University of Toronto Press, 2004, 183-184, 187, 195. 42 RC in “L’important c’est ce que l’oeuvre veut”, 10. 43 Ibid.. 44 Riguardo alla recitazione, alla “part purement théâtrale, celle des acteurs, [...] Carsen st maître d’un NELLA CONTEMPORANEITÀ DEL TEATRO 115 Così, dunque, nel Don Giovanni, non meno che nei celebrati A Midsummer’s Night Dream, 1991, e Dialogues des Carmélites, 1997; o ancora in Alcina, 1999, Kát’a Kabanová, 2004, e recentemente, pur se meno felicemente, in Die Zauberflöte, 2013: nel sentire e nell’agire, nell’asciuttezza dei segni prodotti dalla scenografia, i personaggi s’impongono allo spettatore, che ne è subito attratto come per una rivelazione inattesa – e insospettabile – della loro umanità. Dinanzi all’apparente inevitabilità di questa verità estrema, si genera nel pubblico una partecipazione che fa spazio anche all’inquietudine per il troppo vedere – i volti, le mani, gli occhi – e per l’entrare nell’intimità dell’animo e delle relazioni sulla scena, ma che incalza vivamente lo spettatore. In una rappresentazione che si potrebbe, dunque, definire per primi piani, Carsen mobilita una sensibilità intermediale, insieme teatrale, cinematografica e visiva, che sollecita le competenze consapevoli o inconsapevoli del pubblico d’oggi. Persegue questo esito attraverso l’uso delle luci, di cui infatti è spesso autore. Essenziali, le luci assolvono l’esigenza di guidare lo sguardo dello spettatore sulle azioni: “I feel like I’m the camera”, afferma il regista; aggiungendo: “Sometimes I need the audience to look at a wide shot, and sometimes I need them to look at a close up. That is, of course, in a way impossible to do on the stage because the relationship of the audience to the stage always stays the same. So I try to do it through the use of lighting and movement. I want the audience to follow the story in a certain way”45. In Don Giovanni, allora, dopo il ‘totale’ dell’immensa sala scaligera riflessa nello specchio, l’impianto scenico di I.i-iii – le luci concentrate sulla piccola superficie del letto chiaro dove spiccano nette le azioni, sospinte in avanti dal fondale, avanzatissimo verso il proscenio – impone una visione ravvicinata, di ‘dettaglio’, sulla sensualità e i turbamenti dei personaggi46. 4. costruzione di un personaggio Quella della schermaglia fra i due amanti dopo la notte di passione, come si è detto, è infatti una scena essenziale riguardo a tutto lo sviluppo dello spettacolo; e lo è, in particolare, la lettura che Carsen fornisce del personaggio di Donn’Anna, dotandolo di un’ambivalenza radicale, affidata a una drammaturgia recitativa che si può definire antifrastica: rispetto alla consuetudine, qui il significato delle parole pronunciate da entrambi i personaggi non è assecondato ma modificato dai movimenti e dalle espressioni jeu qui, sans s’inscrire dans la tradition classique de l’opéra, est d’une force et évidence absolues: puissanse expressive des corps mis en avant comme rarement par la nudité de la production”: P. Flinois, “Kátia Kabanová”, in Opéra et mise en scène. Robert Carsen: 66-69 (69); e Merlin, “Les grandes tendances de la mise en scène d’opéra”, 20-21. 45 RC in Margles, “Robert Carsen”. 46 RC dichiara più volte di impostare in modo analogo a quello fin qui descritto ogni tipo di lavoro, dall’opera alla mostra d’arte (RC, G. Cogeval, “L’Impressionnisme et la mode: l’exposition”, in G. Groom, éd., L’Impressionnisme et la mode, Catalogo della mostra, Paris: Skira-Flammarion, 2013, 27); in particolare afferma di svolgere in maniera “very similar” il processo creativo registico del teatro drammatico e della lirica (RC in Jampol, “Robert Carsen”, 26-27). Si può ritenere senz’altro, però, che l’ampia esperienza operistica di questo regista così sensibile al teatro abbia maturato il suo stile di lavoro e la sua concezione estetica fino a fare dei suoi lavori tra le espressioni più rappresentative di quel processo che, dagli anni Ottanta, ha visto costituirsi la lirica come spazio di una sperimentazione innovativa, approfondita quanto ardita, proprio sul rapporto fra testo drammatico e messa in scena (fra ‘prima’ e ‘seconda’ creazione, che dall’altra dipende ma che interamente in sé la include, ri-generandola, per stare alla riflessione di condotta, su questo punto dibattuto, da G. Guccini, “La ‘regìa lirica’, livello contemporaneo della ‘regia teatrale’”, TurinD@msReview, 8 febbraio 2010. Ultimo accesso: 15 ottobre 2014. Http://www.turindamsreview.unito.it/sezione.php?idart= 621&idsezione=4&idcat=1). 116 BERNADETTE MAJORANA dei volti, marcando una potente inversione semantica che colloca quelle di lei (la donna violata) nel campo dell’ambiguità, facendole talvolta slittare decisamente in quello del contrario o dell’infingimento (la donna tentata o consenziente). D’altronde il gesto che contrassegna lungo tutto lo spettacolo il personaggio di Donn’Anna è la mano esitante portata alla bocca: a lei per prima la sua stessa voce non suona sincera. Sin da questa scena, dalla presentazione del personaggio di Donn’Anna, lo spettatore si trova di fronte a una prospettiva inattesa di fondazione della storia; e tuttavia, proprio per la coerenza recitativa raggiunta dai cantanti, essa risulta rispetto alle parole scambiate pienamente persuasiva, anzi la sola possibile. Carsen prende visibilmente partito, così, nella controversia che da sempre investe l’interpretazione della natura del rapporto di Don Giovanni e Donna Anna, stante l’ellissi testuale su quanto accaduto prima della loro entrata in scena47. In I.i, dunque, sul bacio appassionato dei due amanti entra il Commendatore: Lasciala, indegno. La figlia gli si accosta coprendosi gli occhi, vergognosa. Allontanatala da sé, egli si avvicina irato al letto dove ancora si trova Don Giovanni; e nell’alterco che segue il cavaliere lo uccide involontariamente. Rientrata e trovato il padre morto, Donn’Anna sviene. Quando si riprende, Don Ottavio è accanto a lei. D’impeto ella esclama: Fuggi, crudele, fuggi!. Stando alle “Note di regia” di Carsen, è nel duetto di I.iii avviato da queste parole che si rivela l’effettivo stato interiore di Donn’Anna (e perciò pure il senso reale dell’intrigo), il quale, attestato poi dall’intera scena, è per lui del tutto “chiaro”. Quel che Mila, per esempio, considera un ben “strano movimento psicologico” assegnato a Donn’Anna dal libretto, “una strana confusione” – il musicologo arriva a definirla un “lapsus”, spiegabile solo secondo l’interpretazione romantica di una Donn’Anna sconvolta dalla passione erotica48 – si configura per Carsen come un “indizio importante”, il maggiore lasciato da Da Ponte, e che anche la “musica di Mozart [...] ha sottolineato”: Anna non potrebbe infatti rivolgere le parole Fuggi, crudele, fuggi! all’ignaro fidanzato che cerca di confortarla se non perché lo sta scambiando per l’altro49. Secondo la concezione drammaturgica di Carsen, ‘what’s hidden in’ – nella letteralità del duetto – fornisce materia al personaggio e, nell’azione, acquista concretezza visiva. Nel riprendersi dal malore, frastornata, Donn’Anna tende la mano a toccare il viso che si protende verso di lei: il gesto è il medesimo che aveva riservato solo poco prima a Don Giovanni e quell’esclamazione, in cui ella immediatamente proprompe, pare più d’esortazione, a che l’uomo si salvi, che non d’accusa. Solo quando riconosce Ottavio è colta dall’evidenza dell’errore. Nei trasalimenti della sua coscienza, Anna si porta al viso le mani esistanti (Tu sei... perdon... mio bene...), cerca poi di cancellare la macchia che il sangue del padre le ha lasciato sulla veste, ricompone la propria sconveniente nudità in un bell’abito di broccato bianco e guardando finalmente Ottavio negli occhi gl’impone la promessa: Ah! vendicar, se il puoi, Giura quel sangue ognor. Il disegno della vendetta pare esserlesi formato in mente soltanto allora e ha anche il pregio – come il vestito appena indossato – di conferire il necessario decoro alle sue azioni e ai suoi pensieri. Lo smarrimento sopravviene subito però, mentre i vocalizzi “in funzione [...] drammatica” chiudono il duetto “tragico”50: Fra cento affetti e cento 47 Su questa controversia Mila, Lettura del Don Giovanni, 65-68; la richiama lo stesso RC, “Note di regia”, in Don Giovanni, 221. 48 Mila, Lettura del Don Giovanni, 80-81. 49 RC, “Note di regia”, in Don Giovanni, 221. 50 Mila, Lettura del Don Giovanni, 84. NELLA CONTEMPORANEITÀ DEL TEATRO 117 Vammi ondeggiando il cor: lo spettatore ne coglie e sente le lacerazioni, gli affanni della mente e della volontà. Queste primissime scene del primo atto dello spettacolo lasciano scorgere la tradizione romantica della Donn’Anna mozartiana che E.T.A. Hoffmann aveva messo al centro del racconto Don Juan (1813): anche colui che qui narra i fatti accadutigli – il Poeta – osserva che nella rappresentazione dell’opera cui aveva assistito ella “faceva al tempo stesso riscontro e contrasto con Don Giovanni”51. Destinata a riscattare l’eroe caduto, ella non riesce nell’intento, poiché diventa preda dell’ardimento erotico suscitatole dall’uomo singolarissimo; e finisce allora col provare un tale orrore di sé da ambire a una pace che solo la distruzione del cavaliere le potrebbe garantire; ma infine si perde con lui, non gli può sopravvivere. Vagliando gli esiti molteplici prodotti in sede critica e speculativa dalle interpretazioni del racconto di Hoffmann, sempre Mila sostiene che attribuire a Donn’Anna un sentimento di colpa per aver ceduto alla seduzione di Don Giovanni, magari soltanto col pensiero, “non è proibito: la musica lo sopporta, e certe situazioni del dramma sembrano quasi suggerirlo: la complessità del personaggio ha tutto da guadagnarci”52. Benché né Carsen né Burton richiamino esplicitamente la prospettiva hoffmanniana, il Don Giovanni del 2011 dispone di un sottotesto spettacolare che invece rimanda a essa direttamente e che appartiene alla produzione registica dello stesso Carsen: Les contes d’Hoffmann di Offenbach, realizzato nel 2000. Entrambi mossi da un dispositivo drammaturgico e visivo metateatrale, i due lavori sono in stretta relazione anche quanto alla drammaturgia dei personaggi. Nei Contes, Donn’Anna è importante già secondo il libretto di Jules Barbier: la cantante Stella ne è l’interprete in un teatro non lontano dalla taverna dove l’E.T.A. Hoffmann del titolo, che ne è innamorato, sta narrando i suoi antichi amori a un gruppo di studenti e dove la diva viene festeggiata dopo il successo riscosso. Olympia, Antonia, Giulietta – le amate di Hoffmann – sono anche per Carsen, come intendeva Barbier, “proiezioni di Stella”; ma “per collegare tre storie che altrimenti sarebbero rimaste slegate”, il regista le concepisce riunite “nel segno di una quinta donna immaginaria”, alla quale le altre rimandano come a un archetipo: la Donn’Anna secondo l’Hoffmann storico, l’autore del racconto Don Juan appunto: “una Donna Anna emblema dell’amore tormentato”, dice Carsen, “anziché della vendetta”53 – la Donn’Anna infelice e appassionata, chiave di volta anche del suo Don Giovanni. Inoltre, nell’opera di Offenbach Carsen introduce una seconda Donna Anna: la madre di Antonia, celebrata cantante uccisa dalla tubercolosi, che dalla giovane figlia ha ereditato la bellissima voce e la malattia. Il libretto si limita a presentarla ritratta in un quadro che, a colloquio con la figlia, si animerà di quella voce (III.xii). Carsen la mostra invece in carne e ossa, e proprio “mentre interpreta Donna Anna nel suo vecchio abito di scena ormai consunto”54. Senza che alcuna traccia musicale o verbale immediata leghi tale comparsa al personaggio mozartiano, lo spettatore non ha però nessun dubbio: l’apparizione della madre di Antonia si svolge infatti emblematicamente nella scena di un Don Giovanni possibile, visivamente riferito – come senz’altro parrebbe – a quello scaligero del 1987, allestito da Strehler con le 51 E.T.A. Hoffmann, Don Giovanni, in Id., L’allievo di Tartini e altri racconti musicali, trad. di R. Spaini et al., Firenze: Passigli, 1984, 64. 52 Mila, Lettura del Don Giovanni, 68. Per la novella di Hoffmann, e la sua influenza posteriore, anche Macchia, Vita avventure e morte di Don Giovanni, 46-49 e passim. 53 RC, “Note di regia”, in Les Contes d’Hoffmann, Programma di sala, Milano: Ed. Teatro alla Scala, [2012], 178. 54 Ibid. 118 BERNADETTE MAJORANA scene di Ezio Frigerio55. A distanza di oltre dieci anni, il Don Giovanni rielabora dunque quel che già appartiene ai Contes intimamente, avendo condotto, Carsen, in quel lasso di tempo, una verifica serrata delle possibilità del teatro nel teatro (Les Boréades 2003, Capriccio 2004, Tannhäuser 2007, Salome e Ariadne auf Naxos 2008, Tosca 2009, Affare Makropulos 2011; e in primo luogo, molto più indietro, Mefistofele 198856). Si deve probabilmente a questo lungo, coerente ragionare sui propri mezzi se le scelte registiche del 2011 appaiono così necessarie, quasi inevitabili, si direbbe, tanto risultano leggibili, pertinenti: un Don Giovanni a doppiofondo, nel quale tuttavia ogni cosa si fa evidente, facile persino, e la cui comprensione è di spiazzante immediatezza, inscindibile qual è, per di più, dal sentimento dello spettatore d’essere egli pure convocato sulla scena, interpellato senza tregua – cosicché via via che la sua comprensione aumenta esso si sente sempre più attratto e più inquisito a un tempo. Se Carsen fa sì che le ragioni dell’agitato incontro iniziale siano subito note al pubblico, la scena che secondo il libretto sarebbe destinata a sciogliere l’enigma di quell’incontro, vale a dire I.xiii, l’episodio in cui Anna racconta a Ottavio della notte trascorsa col suo esito di morte, diventa invece il pendant drammaturgico di I.i, confermato dal medesimo modo antifrastico. Da I.vii a I.xiv il libretto prevede che si mantenga sempre una stessa ambientazione, quella delle nozze di Masetto e Zerlina – nell’allestimento del 2011, due gruppi di sedie impagliate davanti a un triplo fondale voltato dalla parte armata, che traguarda il palcoscenico per metà altezza, su un soverchiante fondo nero. Al principio di I.xi Carsen apporta però un cambiamento: mentre Don Giovanni medita sul proprio insuccesso con la contadina, il fondale muta mostrando l’immagine del sipario, la luce illividisce, si fa scuro d’un colpo; due tenui candele rette da chierici introducono una bara e un rado corteo: passa il feretro del Commendatore. Non è un buio notturno e nemmeno quello di un ambiente poco illuminato, una chiesa magari (le luci, d’altronde, non simulano mai, in nessun momento dello spettacolo, il variare delle ore, un esterno, un interno: accentuano invece la dimensione chiusa e artificiale del luogo teatrale, privandolo di ogni riferimento all’ambiente): è il buio inerte di un palcoscenico vuoto, nel quale il fondale rosso diventa bruno come sangue rappreso, mentre una luce fredda laterale bagna l’area dell’azione, i pochi arredi e i volti dei personaggi, i cui abiti neri soltanto illustrano direttamente l’occasione del cordoglio. I convenuti prendono posto, mentre Ottavio e Anna si fanno incontro al cavaliere per chiedergli sostegno: Don Giovanni acconsente (I.xi). La densità immobile, solenne, prodotta dai segni ritualizzati del lutto sospinge l’entrata di Donna Elvira, accentua la riservatezza delle riflessioni dei due fidanzati dinanzi alla sua maestosa figura di sofferenza, rende ancor meno remissibili le parole meschine di Don Giovanni sul conto di lei (I.xii). Con il delinearsi della circostanza del funerale del Commendatore si determina dunque una condizione imprevista, assente dal disegno di Da Ponte, e d’altra parte registicamente potente, tanto quanto lo esige la rilevanza musicale e testuale delle scene in cui si svolge. Questo assetto drammaturgico deve essere stato suggerito a Carsen da una 55 Si confrontino i bozzetti di scena e le fotografie pubblicati ibi, in part. 40 e 176, e in Don Giovanni, Programma di sala, Milano: Ed. Teatro alla Scala, 1987, passim; nonché la documentazione fotografica dei due spettacoli on line: Http://www.archiviolascala.org/. Un omaggio a Strehler non è da escludere, data l’ammirazione di RC nei suoi riguardi e a segno dell’esemplarità delle regie strehleriane per molti registi attivi nell’opera dagli anni Ottanta. 56 RC in “‘L’important c’est ce que l’oeuvre veut’”, 14-15; e in Opéra et mise en scène. Robert Carsen, passim. NELLA CONTEMPORANEITÀ DEL TEATRO 119 didascalia dell’atto successivo, nella quale si prescrive che Anna e Ottavio compaiano vestiti a lutto (II.vii). Coll’anticipare tale condizione e il suo sottotesto a quelle quattro scene decisive dell’opera (I.xi-xiv) Carsen inventa lo spazio narrativo e lo spazio delle relazioni tra i personaggi – non meno che quello percettivo e emozionale del pubblico – per fare avanzare l’azione “tutta interiore e psicologica” di “uno dei momenti più geniali dell’ispirazione teatrale e drammatica di Mozart”57. Inoltre, genera una forte continuità tra primo e secondo atto, tracciata appunto sulla permanenza – anche nella mente dello spettatore – della figura del Commendatore, opposto o oppositore di Don Giovanni58: in queste scene si tesse il legame, assente nella lettera ma attestato dalla musica, fra la morte del padre di Donn’Anna, che muove l’intera macchina della vendetta (I.i), e il fatale conclusivo riapparire di lui prima nel cimitero (II.xi) e poi alla cena in casa di Don Giovanni (II.xv, dove si configura un’ulteriore condizione di reciprocità tra scena e platea, giacché il Commendatore si mostra dal palco reale e si rivolge da qui, verso il palcoscenico, a Don Giovanni). In particolare nel passaggio da I.xii a I.xiii il rito sociale delle esequie – a maggior ragione per l’evidenza borghese dei costumi – è la situazione dove il dolore e la dignità, aureolati di convenienza, rendono più singolare l’esito prodotto in Donn’Anna dal congedarsi fuor di luogo disinvolto di Don Giovanni (vicinissimo a lei, le toglie i grandi occhiali scuri; i due si guardano: Perdonate, bellissima Donn’Anna; Se servirvi poss’io, in casa mia v’aspetto). Svigorita dall’inquietudine erotica, che inopportunamente la insegue anche nel momento alto del compianto del padre ucciso, restituisce affascinata la confidenza all’assassino, con lo sfiorargli il viso e i capelli – memoria coattiva di un gesto già compiuto, sconsideratamente, e che alla luce dell’esito mortale prodotto forma in quel punto una visione penosa del sentimento di colpa della donna. All’uscita di Don Giovanni il grido della dama risuona: Don Ottavio son morta! [...] Per pietà soccorretemi! (I.xiii). La richiesta dovrebbe stringere i due fidanzati l’uno all’altra; il grande palcoscenico semivuoto diventa invece il campo di un confronto irrisolto e di nuovo in virtù dell’ambiguità di lei: si tengono distanti, Ottavio ancora sconcertato dal gesto d’intimità verso il cavaliere che ella viene dal compiere, Anna disorientata, i passi scomposti, la mano come sempre a coprire le labbra in cerca di parole o a provare a camuffarle. Solo quando prende a narrargli lo strano avvenimento – ciò che è accaduto la notte precedente – lo guarda in faccia, ma, allora, quasi a volerlo meglio persuadere. Nel dirgli le azioni di quell’incontro singolare ella percorre le braccia, le spalle di Ottavio: le dita biancheggiano nell’oscurità tetra del funerale appena trascorso, enfatizzate dalla luce, e spiccano irrequiete sotto lo sguardo dello spettatore, tese nel rosso delle unghie laccate. L’azione rivela come ella stia nuovamente provando in se stessa – e non descrivendo all’altro – quello che le sue parole dicono, dibattuta tra memoria e desiderio: una rievocazione tanto veritiera da farsi esperienza viva (il suo recitativo è “un capolavoro del genere, e consente a Donna Anna un’evidenza plastica [...] quasi morbosa”, scrive Mila59). Si tratta appunto del corrispettivo drammaturgico-recitativo di I.i, dove, come si diceva, l’agire dei due amanti aveva anticipato, o meglio svelato anzitempo, il tracciato del resoconto che la dama avrebbe fatto al fidanzato: non un combattimento, come vogliono il libretto e la consuetudine rappresentativa, ma un trasporto incapace di resistenze. D’altronde, già E.T.A. Hoffmann, in Don Juan, su questo punto della rappre57 58 59 Mila, Lettura del Don Giovanni, 123. Ibid., 42-44, 218, 231-235. Ibid., 124. 120 BERNADETTE MAJORANA sentazione a cui il Poeta aveva assistito fa cadere un segno rivelatore del turbamento di Donn’Anna: uno spettatore giudica che ella fosse stata “troppo appassionata”, tanto che “nella scena del racconto, un ricciolo dei suoi capelli si era disfatto ed aveva gettato un’ombra sullo scorcio del suo viso!”60. La linea interpretativa di Carsen si conferma tracciata sul paradigma hoffmanniano. 6. un presente intemporale Finge, allora, o dice il vero Donn’Anna quando sul punto di allontanarsi pretende imperiosa che Ottavio vendichi lei violata e il padre ucciso? “Non lo sapremo mai”, afferma ancora Mila61: l’impianto registico di Carsen fa sì, però, che il cedimento di quella giovane donna di temperamento, contegnosa, racée, sia noto non soltanto a lei stessa (e a Don Giovanni), ma anche agli spettatori: lo specchio iniziale – fluttuante e perciò pure deformante – e l’intero dispositivo del teatro nel teatro fanno del pubblico, oltre che l’osservatore onnisciente, un testimone non estraneo all’azione: quel rispecchiamento, l’appartenere di attori e spettatori a un unico luogo, gli conferiscono un ruolo attivo, obbligandolo a sottoporsi al giudizio non meno che a formularlo. Carsen tende volentieri “son miroir au public: spectacle bourgeois offert au public bourgeois”; soggetto drammatico-musicale e oggetto scenico coincidono nel presente dello spettatore, “révélé[s] par aujourd’hui, jugé[s] par aujourd’hui”62: l’antirealistica rappresentazione del teatro è più che mai reale, pubblico e personaggi sono più che mai contemporanei. La visione dello spettatore è d’altronde per Carsen ciò che guida la messa in scena: egli stesso predilige la posizione del pubblico giacché, afferma, “il faut qu’une production soit complétée par celui qui la regarde – mêmes’il ne l’aime pas!”63. La possibilità che un tale compimento si realizzi comporta precise scelte drammaturgiche ed estetiche, come si è visto. Uno spettacolo deve essere al contempo “intellectually coherent and incredibly moving”64 perché lo spettatore possa esercitare appieno il proprio ruolo, critico e coinvolto, e si possa sentire interpellato dalla scena; Carsen lo vuole “impliquer dans le spectacle”, così da costringerlo a “sortir de son regard passif”. E se lo spettatore “doit être actif”65, la rappresentazione, anche quella delle opere del passato, dev’essere attuale, come è nella prospettiva dei compositori: “when I study what the composer wanted”, dice Carsen, “what I pick up on is the relationship between the audience and the stage”. L’opera lirica “is living, contemporary theatre” sempre66. Nel finale del Don Giovanni, lo accennavamo avviando questa riflessione, tale Hoffmann, Don Giovanni, 57. Mila, Lettura del Don Giovanni, 124. 62 I.A. Alexandre, “Lost in transposition”, in Merlin, éd., Opéra et mise en scène: 32-39 (36). 63 RC in “‘L’important c’est ce quel’oeuvre veut’”, 21. Dice RC in Jampol, “Robert Carsen”, 19: “I’m talking as an audience member”, non “as a director”. 64 RC in Margles, “Robert Carsen”. Il regista usa volentieri la formula “head and heart” per significare l’unione di ‘concreto’ e ‘astratto’ che aspira a realizzare negli allestimenti: nell’opera lirica le parole corrispondono all’intelletto e la musica all’emozione. Altrove RC precisa: “Donc, vous avez une liaison entre la tête et le coeur, c’est pour ça que l’opéra peut être – quand ça marche – si satisfaisant, puis que vous avez les deux qui travaillent en même temps”: Carsen, Cogeval, L’Impressionnisme et la mode, 27. 65 RC in “‘L’important c’est ce que l’oeuvre veut’”, 14. Negli allestimenti più significativi degli ultimi decenni la messa in scena operistica richiede sempre allo spettatore un’intensa esperienza di ascolto e visione, che lo rende singolarmente attivo: cfr. I. Moindrot, La représentation d’opéra: poétique et dramaturgie, Paris: PUF, 1993. 66 RC in Margles, “Robert Carsen”. RC riserva molto studio alla storia artistica e umana del compositore di cui allestisce un’opera. 60 61 NELLA CONTEMPORANEITÀ DEL TEATRO 121 contemporaneità necessitante si personifica nella figura del protagonista. Trafitto dal Commendatore, nella penultima scena Don Giovanni sprofonda nel baratro infernale tra bagliori rosseggianti (II.xv): ma ecco che nella scena ultima egli riappare. Mentre gli altri sei, schierati in proscenio, moraleggiano sul fin di chi fa mal, il finto sipario si leva alle loro spalle e Don Giovanni compare dal fondo del palcoscenico vuoto. Avanza a passi lenti, elegante, disincantato, quale già era parso al suo arrivo, nell’Ouverture: giunto dietro di quelli, con due dita che stringono una sigaretta accesa fa appena un cenno, ma efficace: i sei scivolano nei fumi di una botola apertasi sotto i loro piedi e spariscono. Aspirata ancora una boccata, Don Giovanni vi getta dentro il mozzicone. Guarda il pubblico e sorride mentre il sipario del teatro si chiude. Il Don Giovanni che compare nella scena ultima non è però colui che abbiamo visto perire nel fuoco e che ora, per un vano coup de théâtre, ci si ripresenta vigoroso a punire quel manipolo di ipocriti zelatori della rettitudine: niente di futile, di sensazionale; niente che appaghi il pubblico il tempo di un applauso. Il Don Giovanni di questo finale non è il personaggio, ma il mito. Dominus della vita mediante il teatro, Don Giovanni mette in scena se stesso sera dopo sera, a piacimento, e dello spettacolo di sé si compiace (come si è detto riguardo alla sua posizione di spettatore-artefice in I.vi-vii-viii). Nel finale, dunque, egli non è vivo: è “libre”67, come afferma Carsen. Al termine dell’azione drammatica la sua presenza, non meno della sua essenza, si ricongiunge a quella del principio, avanti che cominciasse l’azione. La sua irriducibilità al tempo, alla cronaca, esige secondo questa regia che Don Giovanni faccia coincidere la propria eterna circolarità con lo spazio metafisico del teatro. Egli ama l’amore e non teme la morte: li signoreggia, attraversandoli all’infinito col farli attuali a ogni rappresentazione e grazie al generarsi ogni volta del legame con il pubblico. Di questo spettacolo avevamo visto il principio oltre due ore prima, quando per mostrarcelo Don Giovanni aveva strappato il sipario, chiamandoci a guardare con lui il dramma dove anche quella sera egli sarebbe comparso nel teatro. La scena a immagine di teatro ipostatizza, dunque, tale complessa visione del Don Giovanni (e ragiona infatti Carsen, indicando a posteriori l’intuizione che sta all’origine di tale esito: “j’avais dès le départ cette certitude: je ne voulais pas que le décor représente quelque chose. Il fallait donc rester... sur scène, dans le théâtre. D’où ce rideau que Don Giovanni arrache devant le public pour raconter lui-même sa propre histoire”68) e rivela appieno la propria natura polisemica: astrazione spazio-temporale quanto alla vicenda spagnola sei-settecentesca indicata nel libretto, luogo teatrale che rimanda sempre a se stesso e che, dividendosi e moltiplicandosi fino alla prospettiva infinita, distrugge la propria contingenza; opera di un artefice che muove attori, scene e pubblico e, via via che la scena si fa, vi si rappresenta esso pure, mentre agisce nella vicenda che ha creato in forma di teatro e mentre vi assiste da spettatore, come gli altri spettatori. Una mise en abyme che non permette mai di raggiungere una realtà univoca, incontrovertibile, e che esalta e smarrisce il pubblico per quel riflettersi della scena nella sala e della sala nella scena, per il comporsi dell’azione recitativa, credibile, umanissima, con le immagini artificiose del teatro. L’“intémporalité [...] métaphysique”69 voluta da Carsen è qui propriamente attualità, efficacia nel presente, e si raccorda con la perpetuità del mito nella virtuosistica oscillazione tra verità e inganno, universo e vicende particolari, arte e vita, drammatiz67 68 69 RC in “‘L’important c’est ce que l’oeuvre veut’”, 15. Ibid., 20. Ibid., 15. 122 BERNADETTE MAJORANA zazione di spazio e di elementi scenografici, non meno che dell’intero edificio teatrale e di coloro che lo occupano in quel preciso momento: la reciprocità – la permeabilità, si direbbe – della scena agita e della scena percepita e meditata, di guardanti e guardati, attori e spettatori riuniti, al di qua e al di là dei sipari, nella superficie dello specchio. Un teatro-mondo. Il lavoro registico di Carsen si qualifica e si distingue per la capacità di condurre – altrove e più avanti rispetto ai processi di decostruzione e dissezione della regia critica, alle trasposizioni e riletture del Regie theater, alle attualizzazioni dissacranti e agli orientamenti attinti dalle pratiche post-drammatiche – alla rivelazione di quella storia celata nel libretto e nella musica, non scritta, che assume forma e pieno significato nei personaggi sulla scena, nel rapporto vivo con lo spettatore, il cui sguardo soltanto, infine, la fa vera e necessaria.