la Voce oce del popolo POLAFILMFESTIVAL SESSANT’ANNI TRA ALTI E BASSI la Voce del popolo cinema www.edit.hr/lavoce Anno 1 • n. 3 martedì, 28 maggio 2013 IL PERSONAGGIO CINEMA ASIATICO POLVERE DI STELLE CINEMA ITALIANO RECENSIONE Oliver Stone in veste di divulgatore politico Il Far East Film Festival di Udine Ricordiamo la grande Katharine Hepburn Il film “Le mani sulla città” di Francesco Rosi “La scelta di Barbara” di Christian Petzold Il regista americano ospite del “Subversive film festival” con il suo documentario Una coproduzione tra la Corea del Nord e l’Europa suscita l’interesse del pubblico Dieci anni fa se n’è andata una delle attrici più straordinarie del cinema americano Un esempio di cinema responsabile che denuncia le brutture nella società Una pellicola che elabora il conflitto tra l’individuo e il potere totalitario 2 3 6 7 8 2 cinema martedì, 28 maggio 2013 IL PERSONAGGIO la Voce oce del popolo di Marin Rogić di Marin Rogić IL REGISTA AMERICANO È STATO OSPITE DEL “SUBVERSIVE FILM FESTIVAL” DOVE HA PRESENTATO IL SUO ULTIMO LAVORO “USA. LA STORIA MAI RACCONTATA” «S talin, Hitler, Mao, McCarthy. Queste persone sono state vilipese già abbastanza nel tempo. Stalin ha invece completamente un’altra storia. Non ho intenzione di dipingerlo come un eroe, ma vorrei raccontarlo basandomi sui fatti. Lui ha combattuto la macchina da guerra tedesca più di ogni singola persona. Non possiamo giudicare la gente considerandola solo ‘buona’ o ‘cattiva’”. Questa è solo una delle tante forti affermazioni fatte da Oliver Stone nella sua attività di “artista-militante-politico“. Ospite, questo mese, della sesta edizione del “Subversive Film Festival” di Zagabria, il regista ha dato voce al suo lato di attivista. Tutti gli appassionati del cinema conoscono lo Stone di “Platoon” e “Nato il quattro luglio”, con i quali ha vinto, in entrambi i casi, l’Oscar alla regia, oppure lo Stone sceneggiatore di “Fuga di Mezzanotte”, con il quale si è portato a casa la terza statuetta. Temi controversi Divulgatore politico Ha fatto molto rumore nella stampa nazionale la sua presenza al festival cinematografico, innanzitutto perché è il nome più popolare che la manifestazione abbia mai ospitato, ma anche perché il regista non ha voluto parlare di cinema (o per lo meno, lo ha fatto in piccola parte), bensì presentarsi al numeroso pubblico come divulgatore politico. A prescindere dall’opinione personale sui “registi attivisti“ come Stone, che usano la settima arte per fare luce su punti oscuri della storia oppure si occupano di problemi della società contemporanea (vedi Michael Moore), o tentano di farsi conoscere attraverso esperimenti cinematografici azzardati, sta di fatto che sono in grado di catturare l’attenzione ovunque si presentino. Hanno il potere di smuovere le coscienze e riunire intorno a se stormi di seguaci. L’arte è arte perché è libera e non pone vincoli, quindi ben vengano registi come Stone e Moore, che danno voce a coloro che fanno fatica a farsi sentire. L’appuntamento zagabrese è stato un’occasione per presentare e parlare della sua ultima fatica cinematografica, che raccoglie in dieci Dvd la storia americana dalla Seconda Guerra Mondiale fino a Roosevelt, dal presidente J.F.Kennedy fino OLIVER STONE: «SVEGLIATEVI,APRITE GLI OCCHI, NON SIATE MARIONETTE!» a Bush e Obama. Un film documentario che rivela nuove prospettive e scenari inediti. In questo lavoro, il regista presenta quella che si può chiamare la “contronarrazione” fatta per mezzo di un’indagine approfondita e dell’uso di filmati di archivio che portano lo spettatore a farsi una domanda molto semplice: il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki mirava a concludere la II Guerra mondiale, o a volgere l’attenzione del mondo, e in particolare dell’Unione Sovietica, alla potenza militare degli Stati Uniti? Man mano che si procede, la storia diventa più complicata, interessante e certamente rivelatrice. L’impatto devastante della Guerra fredda sui movimenti sociali progressisti è una cosa con la quale gli americani hanno convissuto fino ad oggi, dal momento che - come suggerisce Stone -, l’anti-comunismo degli Stati Uniti non temeva alcuna “minaccia comunista”, ma sfruttava l’onda della paura per intensificare le riforme e promulgare leggi che favorivano le lobby economiche. Come spiegato nel documentario, il dominio dei super-ricchi, ovvero del cosiddetto uno per cento della popolazione mondiale, è in molti modi il diretto risultato dell’indebolimento dei movimenti per la giustizia sociale attivi prima dell’inizio della Guerra fredda e negli anni ’70 e ’80. A detta del regista, il film “non solo deve essere visto da un numero quanto più grande di persone, ma - cosa ancora più importante - deve essere discusso”. Americanizzazione dell’Europa Durante il suo soggiorno a Zagabria, Stone ha parlato del ruolo americano nel mondo, ovvero del suo ruolo di potenza egemone globale, colpevole di aver provocato la crisi mondiale e del fatto che continui a distruggere ogni minima volontà di cambiamento. Si è concentrato sul rapporto America-Unione Europea, parlando di “americanizzazione“ del Vecchio Continente, il quale – secondo Stone - sta copiando, infatti, il peggio delle recenti amministrazioni americane. Non ha risparmiato nemmeno il governo di Obama, che “è partito con intenti nobili, rivoluzionari, ma poi si è fatto inghiottire dalle élite economiche che governano il pianeta“. Si è rivolto quindi ai giovani dicendo loro di non stare seduti inermi, mentre davanti ai loro occhi accadono cose terribili, come guerre, sfruttamenti, manipolazioni. Li ha spronati ad attivarsi per favorire i cambiamenti. Alla domanda giornalistica su come si possa giungere a un cambiamento, il regista ha risposto: “Svegliatevi, aprite gli occhi, non siate marionette e combattete per il vostro futuro”. TOMISLAV MILETIC/PIXSELL Ogni suo lungometraggio crea delle attese e delle polemiche. I primi due, per esempio, trattano temi scottanti, come la guerra in Vietnam (“Nato il quattro luglio” è esplicitamente dedicato alla memoria dell’attivista politico Abbie Hoffman). Purtroppo, i film sul grande schermo, anche se parlano di argomenti delicati, tendono a produrre un effetto contrario alla volontà del regista. Difatti, le dure vicende trattate lasciano al pubblico l’amaro in bocca durante la visione del film, ma una volta uscito dalla sala cinematografica, lo spettatore medio tende a pensare che ciò che ha visto “è solo un film“. Su questo tema ci sarebbe da discutere più a fondo, ma bisognerebbe entrare nel campo della filmologia. Restiamo sul punto principale. Pochi sanno che Stone ha dedicato la maggior parte della sua carriera cinematografica ad alcuni dei temi più importanti del XX secolo, come l’assassinio di John F.Kennedy, la succitata guerra del Vietnam, la guerra civile in El Salvador e lo stato di oppressione nel quale, secondo lui, vivono i cittadini degli Stati Uniti. È stato il primo regista statunitense riuscito nell’intento di intervistare il líder máximo cubano Fidel Castro, sul quale girò due documentari, “Comandante“ e “Looking for Fidel“. A Zagabria ha presentato il suo ultimo lavoro - a detta di molti critici, il più completo mai realizzato da Stone -, “USA. La storia mai raccontata”. cinema la Voce oce del popolo CINEMA ASIATICO D a ormai quindici anni, Udine è la mecca degli appassionati di film provenienti dall’Asia orientale. E mentre il cinema asiatico è molto più presente a simili rassegne con film artistici, il Far East Film festival preferisce i lavori commerciali e i blockbuster, impegnandosi pure a inventare nuovi generi come “la commedia punk familiare”, “la commedia auto fellatio” oppure la “commedia romantica gangnam style”. Nonostante alcuni leggendari ospiti del festival si siano talmente affezionati a Udine da aver addirittura girato alcune sequenze dei loro film in questa città – come è stato il caso con Johnnie To nella commedia romantica “Yesterday Once More” -, certi decideranno di evitare Udine per motivi promozionali e presentare il loro ultimo film in località più gettonate dai mass media, come lo è Cannes, dove To ha presentato in questi giorni il suo nuovo thriller “Mad Detective”. Oltre a ciò, il workaholic filippino Erik Matti ha presentato al Far East Festival il folle horror “Tik Tik: The Aswang Chronicles”, riservando il nuovo film “On the Job” per Cannes. Ma a Udine tornano sempre. Commedia gangnam style Nonostante non avesse una giuria classica, il “Gelso d’oro”, premio principale del festival che viene conferito dal pubblico, è stato assegnato alla commedia gangnam style sudcoreana “How to use guys with secret tips”, mentre ad attirare maggiormente l’interesse del pubblico, come previsto, è stato il suo vicino nordcoreano Kim Gwang-hun con la pellicola “Comrade Kim goes flying”, che è una delle rare coproduzioni tra la Corea del Nord e l’Europa. Tutto ciò a conferma del fatto che la collaborazione tra questo Stato comunista e l’Occidente risulti molto più facile sul piano cinematografico che su quello politico. Oltre a Kim-Gwang-hun, a firmare la regia del film sono anche il produttore britannico Nicholas Bonner e la produttrice belga Anja Daelmans, che erano strettamente sorvegliati durante tutta la durata delle riprese e non era loro permesso entrare nelle miniere e nelle fonderie d’acciaio nelle quali era martedì, 28 maggio 2013 3 di Dragan Rubeša | Comrade Kim goes flying LA COREA DEL NORD CATTURA L’ATTENZIONE IL FAR EAST FILM FESTIVAL DI UDINE ATTIRA DI ANNO IN ANNO APPASSIONATI DI TITOLI PROVENIENTI DALL’ASIA ORIENTALE hambientata una parte del film. Il film ha avuto la sua première mondiale al Pyongyang Film Festival, il cui motto è “Indipendenza, pace, amicizia”. La rassegna cinematografica ha addirittura uno sponsor, nonostante il concetto fosse stato anatemizzato fino a poco tempo fa come un’attività losca, tipicamente capitalista, e quindi impensabile. Si tratta dell’agenzia turistica “Koryo Tours”, che organizza degli itinerari strettamente sorvegliati per gli stranieri in Corea del Nord. Tuttavia, è risaputo che Kim-Jong-il, come molti dittatori, sia stato un appassionato del cinema. Si dice che amasse molto gli “slasher horror”, i film su Godzilla e Liz Taylor. Ha pure scritto il libretto “L’arte cinematografica”, nel quale sostiene che il film deve essere un “forte mezzo di educazione ideologica”, e ha costruito uno studio cinematografico nel centro di Pyongyang. Ha aperto, inoltre, sette sale cinematografiche per sé stesso e le sue delegazioni. Il pericoloso Topolino Godzilla nordcoreano Sognava un Godzilla nordcoreano. Ma nel suo Paese nessuno sapeva come si fanno i film su Godzilla, per cui organizzò il rapimento del regista sudcoreano Sang-oh Shin, il quale girerà il “monster horror” intitolato “Pulgasari” nella metà degli anni Ottanta, con il Grande leader in veste di produttore esecutivo. Per gli effetti speciali vennero ingaggiati i Toho studios giapponesi. La compagna Kim del film di Gwanghun è una giovane minatrice che sogna di diventare un giorno una famosa artista del trapezio. Dopo aver superato la norma di produzione, si trasferisce, secondo le direttive del Partito, a Pyongyang e va a lavorare in un cantiere edilizio nelle cui vicinanze si trova un circo. Anche se l’arrogante acrobata che vi lavora è convinto che il posto delle minatrici sia sotto terra e non nel cielo, lei non rinuncia e il suo obiettivo finale è di esibirsi al Festival dei lavoratori. Naturalmente, il film è pura propaganda nella quale i colori dei fiori e dell’erba “in Technicolor” sono stridenti, mentre il cielo è sempre azzurro. Se piove, è affinché le sue esercitazioni all’aperto abbiano un effetto più drammatico. E lo spirito forte della classe operaia viene sottolineato in ogni inquadratura. | How to use guys with secret tips Nel documentario molto più autentico “Sona, il mio secondo io”, la regista Yong-li Yang riprende nella tecnica “candid camera” la sua visita ai fratelli a Pyongyang che, da comunisti ortodossi, hanno deciso di lasciare il Giappone ed emigrare in Corea del Nord. Yang regala alla sua piccola nipote un paio di calze con l’immagine di Topolino. Ma la bambina le arrotolerà in modo che nessuno possa vedere il topo pericoloso e proibito. Soltanto alcuni anni più tardi, vedremo il nuovo leader nordcoreano Kim-Jong-un a teatro mentre segue uno spettacolo nel quale recitano i personaggi della Disney. Almeno un po’ di consolazione per la piccola Sona. Se gli aerei invisibili americani smettessero di partecipare a minacciose manovre militari e la presentatrice della televisione di stato nordcoreana cominciasse a parlare più tranquillamente, forse in un sequel del film di Gwang-hun alla compagna Kim si assocerebbe anche PSY in un gangnam style collettivo. 4 lalaVoce oce Voce oce del popolo del popolo martedì, 28 maggio 2013 ANNIVERSARI di Daria Deghenghi UNA CARRELLATA NELLA RICCA STORIA DEL POLA FILM FESTIVAL CHE QUEST’ANNO COMPIE SESSANT’ANNI SFARZO,OSPITIILLUSTRI,STRAPPIDOLO L e altre saranno anche più importanti e sicuramente avranno maggiore prestigio, ma questa è la rassegna del cinema nazionale più longeva in assoluto ed è anche la più seguita dal pubblico a giudicare dalla media di spettatori per proiezione. Quest’anno il Festival del film di Pola compie sessant’anni ed è impossibile sottrarsi all’obbligo di rievocarne la genesi, scartabellando tra date “ufficiali”, ma anche tra gli episodi “rimossi” dell’anteguerra che la propaganda jugoslava ha ignorato di proposito. Ebbene, la prima rassegna internazionale del cinema che ebbe luogo nell’Arena di Pola successivamente all’annessione istriana alla Jugoslavia, risale al 1953, e si deve all’impegno del polese Marijan Rotar, il padre fondatore del Festival. In realtà, però, la storia della rappresentazione cinematografica all’anfiteatro polese affonda le radici nel lontano 1938, quando, il 18 giugno - vale a dire il giorno di apertura della prima “vera” rassegna del cinema polese - venne proiettato “Casta Susanna” (“La chaste Suzanne”) di André Berthoumieu con Meg Lemonnier ed Henrie Gart. Questo prototipo di festival (che solo in seguito avrebbe ottenuto la sua consacrazione, ma in un clima politico e sociale affatto diverso da quello d’origine), durò la bellezza di dieci giorni e anche in questa sua dimensione meramente quantitativa è paragonabile al suo discendente più longevo. Sia come sia, sperimentata l’Arena quale cinematografo di massa, quella prima rassegna del cinema italiano e mondiale abbandonò ben presto la culla natale per trasferirsi al teatro romano sul Colle Castello (nel 1939), e poi spegnersi precocemente per lo scoppio della guerra. Retrodatata al ‘38, la rassegna cinematografica polese potrebbe dunque dirsi tre volte nazionale, e tre volte diversamente nazionale, avendo cambiato tre patrie, tre ordinamenti sociali e tre ideologie, restandosene ancorché al proprio posto, e in ciò condividendo il destino dell’Istria e delle sue genti. Kurosawa tra i titoli della prima edizione Ma oggi si festeggia il sessantesimo della rassegna ideata da Marijan Rotar, quella che si tenne dal 13 al 23 agosto 1953. L’evento ebbe una fortuna tale da guadagnarsi l’istituzionalizzazione quasi immediatamente, ad un solo anno dal debutto, e sotto i migliori auspici delle massime autorità jugoslave. | “Tre storie proibite” (1953) Probabilmente l’esperimento di Rotar fu coronato dal successo per la sapiente selezione dei titoli, equamente divisi tra americani e non. Varrà la pena di sottolineare che tra gli autori di quest’ultimo gruppo ci fu anche Kurosawa. Tra i titoli in cartellone brillarono l’italiano “Tre storie proibite”, che ebbe l’onore di inaugurare la rassegna, l’americano “Il grande Caruso”, il giapponese “Rashomon”, il francese “Siamo tutti assassini”, “Operazione Cicero” e il film italiano “Amori e veleni”. Probabilmente anche l’”effetto novità” avrà avuto il suo impatto, e sicuramente la fame di spettacolo, di divertimento, di vita, negli anni della ritrovata pace, avrà contribuito alla gloria di quella prima rassegna del film (gli anni a venire le avrebbero invece riservato una storia costellata di alterne fortune e drammatici strappi). Il riscontro del pubblico? Cinquantamila spettatori, non uno di meno! L’anno successivo, quando la direzione avrebbe abbandonato il cinema straniero per presentare solo quello di produzione jugoslava, ce ne sarebbero stati solo 37.000. Insomma, il ‘54 è l’anno dell’orgoglio nazionale: si vede solo il film “fatto in casa”: è decollata anche ufficialmente la prima Rassegna del film nazionale jugoslavo. Programmazione a parte, bastarono quei due anni di cinema nell’abbraccio solenne dell’anfiteatro polese sotto il cielo stellato d’estate a generare una comprensibile invidia della capitale croata, che difatti rivendicò i diritti ad organizzare la già “importante manifestazione culturale”. Fadil Hadžić e “Vjesnik u srijedu” (Il corriere del mercoledì) firmano una sorta di manifesto programmatico per il futuro festival del film e pretendendo che si faccia a Zagabria. Pola insorge presso la Lega socialista della Repubblica Popolare Croata e l’establishment politico decide mediando fra i contendenti: il Festival sarebbe rimasto a Pola, ma il Corriere sarebbe stato coinvolto nella sua organizzazione. Šime Šimatović, primo direttore della casa di produzioni cinematografiche di Zagabria, Jadran Film, avrebbe poi testimoniato che “la decisione era stata presa esclusivamente a fini politici” per rafforzare cioè “lo spirito di appartenenza storico culturale di Pola e dell’Istria alla Jugoslavia” in tempo di controversie latenti con lo Stato italiano. Il Festival patrocinato da Tito Ma intanto il Festival acquista prestigio con l’istituzione di una giuria per così dire “fissa”, che trova in Ranko Marinković e Ivan Šibl personalità di spicco. Il patrocinio della rassegna è ora in mano al presidente Tito, che non perde occasione di vedere i film in Arena. Da quell’anno, “Tri novčića u fontani” (Tre monete nella fontana) resterà negli annali della cinematografia jugoslava come primo film nazionale girato e proiettato in CinemaScope. Ma la storia dell’uomo, si sa, è anche la somma delle delle rivalità umane. E quella tra cineasti di diverse nazionalità dell’ex Federativa ha giocato un ruolo non indifferente nel circolo vizioso delle tensioni etniche in campo culturale. Il 1956 è l’anno dell’orgoglio dei cineasti croati, che possono finalmente vantare un autentico capolavoro cinematografico: “Ne okreći se sine” (Figlio, non ti voltare) di Branko Bauer, prodotto da Jadran Film, si porta a casa il Primo premio in assoluto dell’edizione, la medaglia d’oro per la regia, e il premio della giuria. Il festival dura dodici giorni e oltre alle 11 pellicole di produzione nazionale, presenta al pubblico anche 37 documentari e sei film stranieri. | Jiři Menzel e la moglie Olinka Menzel tra il pubblico (2007) Una nuova svolta si profila sull’orizzonte del Festival, che d’ora in avanti vivrà anni di intensa centralizzazione e stretto legame con il potere federale. L’arena resta il salotto elegante della rassegna, ma la città perderà i diritti di amministrazione, confluiti nella capitale federale. Per gestire la manifestazione, a Belgrado la Società dei produttori cinematografici istituirà un ente chiamato “Festival del cinema jugoslavo”. L’amministrazione centralizzata durerà fino al 1975 e nella sua fase finale coinciderà con il periodo aureo dei kolossal di guerra esaltanti il movimento partigiano e il comandante supremo della resistenza antifascista dei popoli jugoslavi: Josip Broz. Negli anni Sessanta vige una netta distinzione tra i due centri della promozione cinematografica: mentre Belgrado si dedica interamente al documentario e al cortometraggio, Pola può liberamente godere della più prestigiosa condizione di capitale del lungometraggio. Sophia Loren, Elizabeth Taylor e Richard Burton ospiti d’onore Il 1970 è l’anno dello sfarzo. La sera dell’apertura della rassegna, per la proiezione di “Bitka na Neretvi”, tra il pubblico prendono posto Tito e Sophia Loren. In diecimila applaudono il film e gli ospiti d’onore. Il kolossal bellico di Veljko Bulajić riaccende la passione del Potere per il cinema e viceversa, il cinema si lancia in una strepitosa avventura adulatrice nei confronti del Potere. D’altronde, potere e cultura sono raramente distanti, e quasi mai osano ignorarsi a vicenda, men che meno in uno stato totalitario. L’anno seguente il flirt jugoslavo tra cinema e autorità politiche troverà la sua consacrazione definitiva in “Sutjeska”, l’altro grande kolossal bellico con un virile e distinto Richard Burton nel ruolo di Tito. Elizabeth Taylor e Richard Burton saranno in platea assieme al maresciallo per applaudirlo/applaudirsi. Nel 1975, l’anno in cui la direzione del la Voce oce cinema del popolo 5 DUŠKO MARUŠIĆ/PIXSELL martedì, 28 maggio 2013 | Sophia Loren | Sophia Loren, Tito e Jovanka Broz in Arena nel 1970 | Sophia Loren e Tito | Sophia Loren | Ralph Fiennes alla Comunità degli Italiani di Pola(2012) | Tito, Richard Burton e Liz Taylor OROSI...MA LA RASSEGNA VIVE ANCORA | Relja Bašić e Isabelle Corey, 1955 Festival torna a Pola, la cinematografia jugoslava conta la bellezza di 460 lungometraggi. L’anno successivo, gli ospiti d’onore sono il regista Sam Peckimpah, presente su invito di Igor Galo, e l’attore James Coburn. Nel 1976, Tito visiterà la rassegna per l’ultima volta. Gli anni Ottanta riserveranno al Festival umori altalenanti e alterne fortune. Le cronache del tempo segnalano nel 1985 l’avvicendamento ai vertici dell’ente: Martin Bizjak lascia il timone del Festival per consegnarlo in mano a Gorka Ostojić Cvajner, che rinuncerà a sua volta all’incarico nel 1994. Tuttavia, il 1986 regalerà al Festival un altro momento di splendore grazie all’arrivo a Pola di Miloš Forman, Oscar per l’indimenticabile “Amadeus” nel 1985. Fine del Festival del cinema jugoslavo Nel 1990 cala il sipario sul Festival del cinema jugoslavo: l’ultima sua edizione coronerà vincitore il serbo Bata Čengić con “Gluvi barut”. Il resto è più o meno storia dei giorni nostri. Nel 1991 scoppia la guerra e “salta” un’altra stagione di proiezioni all’anfiteatro nonostante l’arrivo in città di John Malkovich per la presentazione di una retrospettiva in suo onore. Venuto meno l’apporto cinematografico “jugoslavo”, Ivo Škrabalo propone di “internazionalizzare” il Festival con le due sezioni programmatiche di “Pogled u Europu” (Sguardo all’Europa) e “Arena hitova” (Un’Arena di successi). Ma la Croazia è in fiamme e il Consiglio della rassegna con Antun Vrdoljak in testa decide di disdire l’appuntamento in segno di protesta per l’aggressione subita dalle truppe dell’Armata Popolare Jugoslava. L’anno seguente il Festival cambia nome e diventa una rassegna nazionale del film croato. Con “Priče iz Hrvatske”, Krsto Papić cerca di ricucire lo strappo e dare continuità ad una manifestazione senza capo né coda, ma la cinematografia croata è troppo povera per alimentare un concorso | Stipe Gurdulić, Sam Peckinpah, Igor Galo e Davor Antolić, Arena, 1976 degno di questo nome. Il direttore artistico Škrabalo torna a proporre soluzioni alternative ipotizzando un ABC (Alpe-Baltic-Croatia) Festival con sede a Pola, ma l’idea non attecchisce e nel ‘93 Škrabalo si dimette. La crisi è al culmine nel 1994 per il semplice fatto che non ci sono film da portare in scena. L’unico lungometraggio di produzione croata di quell’anno è “Cijena života” (Il prezzo della vita) di Bogdan Žižić, ma non basta per fare il Festival, che infatti salta un turno. In cambio ci saranno sette proiezioni in ordine sparso senza comune denominatore, tanto per dare un po’ di spettacolo al pubblico: una per il film di Žižić e le altre sei per alcuni tra i maggiori successi del cinema americano del momento. Percavassi. Il primo film europeo che vince a Pola è “101 Rejkjavik” del regista islandese Baltasar Vormakur. Nel 2002 la rassegna mette su casa al Colle Castello, dentro al Castello veneziano che è sede del Museo storico, dove sono di scena i film dell’area balcanica. Altro giro di boa nel 2003, in occasione del cinquantesimo: la Città di Pola decide di fare ordine nel caos dell’amministrazione della rassegna e fonda l’ente pubblico Pula Film Festival. La Selezione europea diventa la selezione “Music” e porta la firma di Mike Downey. Jeremy Irons assiste alla proiezione di “Callas Forever”, mentre John Malkovich gira uno spot pubblicitario finalizzato a ripopolare la rassegna. Il Festival diventa internazionale La Comunità degli Italiani sede ufficiale del Festival A sorpresa nel 1995, si assiste ad un revival postbellico dell’umile cinematografia croata ancora gravemente ossessionata dalla guerra, dal risveglio nazionale e dal sentimento del dovere di “servire la patria”. Sei sono le pellicole in concorrenza ma poche ispirano autentica ammirazione. In compenso la direttrice Branka Sömen porterà a Pola dei mostri sacri del cinema: Ralph Fiennes, Ben Kingsley e Philip Noyce. E veniamo al 2000, l’anno in cui Branko Čegec subentra ad Antun Vrdoljak al vertice del Consiglio del Festival e Armando Debeljuh assume il ruolo di direttore. Il consenso è raggiunto, bisogna cambiare direzione. Il Festival di Pola si aprirà al mondo e sarò “europeo” a tutti gli effetti. L’anno successivo si assiste ai film della Selezione europea a cura di Dalibor Matanić. Ora c’è anche una giuria internazionale, composta da Vinko Brešan, Uli Gaulke e Annamaria L’anno successivo, la Comunità degli Italiani di Pola in via Carrara diventerà la sua sede ufficiale ospitando gli incontri con la stampa, le presentazioni, le serate conviviali, i ricevimenti, insomma, gli appuntamenti di classe che in passato avevano albergato generalmente all’hotel “Riviera”. Nessun ripensamento per quella scelta, né prima né dopo: Festival e Comunità costituiscono oggi un binomio da cui non è possibile prescindere. Ultimo giro di boa nel 2005 con strascichi e adeguamenti nei tre anni che seguono. Assunta la direzione artistica, Zlatko Vidačković si mette a fare ordine nel programma che da anni ormai non ha un concept degno di questo nome. Il Festival prende a sdoppiarsi e d’ora in avanti il cartellone viaggerà su due o tre binari paralleli per trattare il cinema con la massima serietà e assecondare la massima parte delle esigenze del pubblico. Al circolo si assiste al filone del film europeo d’autore (Europolis- Meridiani) mentre l’Arena è riservata ai blockbuster (PoPularni program). Torna la giuria internazionale presieduta da Ronald Bergan. Due anni dopo, nel 2007, Zdenka Višković-Vukić assume le redini dell’ente Pula Film Festival e porta a Pola Greta Sacchi e Jiři Menzel. L’anno seguente riaprirà i battenti il cinema “Valli” (ex Zagreb), ristrutturato con soldi pubblici (e vale la pena di ricordarlo visto che per anni Pola era stata privata del “lusso” di avere una sala cinematografica). Christopher Lee è in città per ritirare il premio alla carriera. Nel 2010, alle selezioni Nazionale ed Internazionale verrà affiancata la nuovissima Selezione delle coproduzioni minoritarie, pensata per dare voce e riconoscimento ai film girati generalmente in Slovenia, Serbia o Bosnia ed Erzegovina con un apporto artistico o finanziario croato minimo del dieci per cento. Il Festival si adegua così alla ritrovata pace e voglia di cooperazione che ha ultimamente investito i cineasti e i produttori dell’ex Jugoslavia. Pioggia di record negli ultimi cinque anni Che negli ultimi cinque anni il “triumvirato” Višković-Vukić, Zlatko Vidačković e Tanja Miličić (il produttore) ai vertici della rassegna abbia sortito alcuni effetti desiderati, lo dimostra la pioggia di record registrati alla passata edizione del Festival. Intanto, nel 2012 la rassegna è stata seguita da 78.300 spettatori, cosa che non accadeva dai tempi dell’ex Federativa, e, in secondo luogo, il primo film in 3D proiettato in Arena ha battuto la bellezza di 3 record mondiali: quello del maggior numero di spettatori ad una proiezione in 3D (esattamente 5.920), quello della maggiore distanza tra proiettore e schermo (73,6 metri) e quello del maggiore angolo di visuale, pari a 60 metri. Naturalmente ci sono anche pareri diversi. Non sono pochi gli intellettuali che negano la continuità della rassegna in seguito allo strappo del 1991. E non sono meno coloro che considerano il festival di oggi ostaggio del monopolio della distribuzione cinematografica. Da quest’ottica il film nazionale, ma anche il film europeo, e in genere il film d’autore, sarebbero solo degli accessori utili per giustificare la possente macchina della pubblicità per l’industria del cinema americano. Quest’anno – l’anno di un anniversario, qualunque esso sia – ci sarà forse l’occasione per discuterne. (Le foto d’epoca ci sono state gentilmente concesse dal signor Igor Galo) 6 cinema martedì, 28 maggio 2013 POLVERE DI STELLE la Voce oce del popolo di Aldo Paquola DIECI ANNI FA MORIVA KATHARINE HEPBURN, L’ATTRICE RIBELLE, TESTARDA, ANTICONFORMISTA E INFINITAMENTE AFFASCINANTE P resentando le opere di John Ford, lunedì 6 maggio una TV privata ha mandato in onda il film “Maria di Scozia” (Mary of Scotland), protagonista Katharine Hepburn. Abbiamo così potuto vedere l’attrice da giovane, in un relitto del cinema di ieri colmo di intrighi e assassinii inseriti nel generale grigiore che pervade un’opera di assai poco conto del noto regista. Il critico americano Charles Higham le rinfacciò un’interpretazione “troppo americana”, accusa che, detto per inciso, verrà mossa mezzo secolo dopo a Tom Hulce per il ruolo di Mozart nell’”Amadeus” di Forman. In un’opera indubbiamente rigida sotto tutti gli aspetti, l’attrice, già affermata e premio Oscar, diede prova di un’energica femminilità permettendo allo spettatore di cogliere nella serie di primi piani (peraltro non prevalenti) un profondo travaglio emotivo. Comunque fosse, qui si intende assumere “Maria di Scozia” quale connessione con la popolare attrice scomparsa nel giugno di dieci anni fa. Katharine Houghton Hepburn (12 maggio 1907, Hartford, Connecticut – 29 giugno 2003, Old Saybrook, Connecticut) nacque in una famiglia di agiati intellettuali e protestanti moderati. Il padre Thomas Norval Hepburn era un apprezzato urologo, la madre Katharine Martha Houghton nota attivista per i diritti delle donne. In casa i bambini venivano stimolati a parlare e discutere, a esprimere liberamente la propria posizione ed anche a polemizzare. L’indottrinamento fece capolino nella loro stanza? I biografi sostengono che si trattò di un’educazione adeguata e molto liberale che la modellò sia come donna che come attrice. Nel 1928 si laureò in storia e filosofia al Byrn Mawr College, lo stesso anno debuttò a Broadway e sposò l’uomo d’affari Ludlow Ogden Smith. I primi passi: una catastrofe L’approccio alla recitazione era avvenuto al Byrn Mawr, ma i primi passi a Broadway furono segnati da parecchi inciampi, intesi non solo alla lettera. Dimenticava le battute, affondava i testi in una scoraggiante dizione, si muoveva in maniera catastrofica, tanto da venir licenziata. Rimase comunque in scena in sostituzione di un’altra attrice. Nel 1932 ebbe il ruolo di Antiope, principessa delle amazzoni in “The Warrior’s Husband“. Fu un successo. Acquisì critiche di prim’ordine e si creò un’ampia fama. Era un biglietto d’accesso privilegiato per Hollywood. Firmato il contratto con la RKO, prese parte al film “Febbre di vivere” (A Bill of Divorcement) di George Cukor con cui formerà un saldo sodalizio professionale. L’anno dopo, nel 1933, ottiene il primo Oscar per “La gloria del mattino” e recita in contemporanea nelle sue “Piccole donne”, con un record d’incassi. Soffermiamoci ora sulla prima delle due etichette, ambedue false, espressione di pregiudizi campati in aria, che l’accompagneranno tutta la vita. Spinti dall’ingordigia del guadagno, i produttori le affibbiarono il nomignolo “veleno del botteghino” in quanto la vedevano come la gallina dalle uova d’oro, poiché altrimenti sarebbe stata nient’altro che un investimento sbagliato. I suoi film potevano sia rivelarsi un flop finanziario sia fruttare incassi da capogiro, per cui quel “veleno del botteghino” era falso (o solo in parte valido) quanto ingiusto. Ogni incasso altro non è che un dato statistico, sia che provenga dalla vendita di grano, petrolio o da una sala cinematografica... Si tratta della stessa cosa che nulla dice sulle intrinseche qualità umane e il vero filmofilo non s’interessa di quanto abbia incassato la pellicola. Icona femminista? Anche l’etichetta “icona femminista” non rende giusto merito alla Hepburn. Era una ribelle, pronta di lingua, arrogante e testarda. Rifiutava gli autografi, ignorava i media e trattava con grossolanità i giornalisti. Si vestiva alla buona e di raro ricorreva ai cosmetici. Per questo sarebbe stata un’icona? Era attaccata al denaro. Non sostengo che una femminista debba essere povera, però... Alla firma del contratto con la RKO per “Febbre di vivere” (A Bill of Divorcement) chiese e ottenne 1500 dollari la settimana. Era in grado di usare gli uomini con criteri tutt’altro che femministi. Trionfò a Broadway con “Scandalo a Filadelfia” (The Philadelphia story) e poi, con il sostegno dell’ex amante Howard Hughes, ne acquistò i diritti che vendette alla MGM. Quale regista scelse INTERPRETE DI SOTTILE SENSIBILITÀ E TEMPERAMENTO VULCANICO George Cukor, quali interpreti principali Cary Grant e James Stewart. Mossa davvero molto femminista. Anticonvenzionale e anticonformista, nel contempo traeva da Hollywood una marea di utili e privilegi. “Scandalo a Filadelfia” costituì nel 1940 un grosso successo cinematografico. Soffermiamoci ora un po’ sui suoi Oscar che, dopo il riconoscimento per “La gloria del mattino”, mancarono per decenni. Il secondo arrivò nel 1967 per “Indovina chi viene a cena” interpretato nel 1967 con uno Spencer Tracy - da tempo suo amante e partner professionale - visibilmente provato nella salute. Firmato da Stanley Kramer, è un mediocre melodramma con messaggi moralizzatori sulla tolleranza razziale. Lei stessa disse che con quell’assegnazione si era voluto rendere omaggio a Tracy con cui girò complessivamente nove pellicole, fra cui vanno evidenziate “La costola di Adamo” e “Lui e lei” (Pat and Mike), firmate ambedue da George Cukor. In quello stesso anno però fu ingiustamente privata dell’Oscar Anne Bancroft, indimenticabile signora Robinson nel cult movie “Il laureato”. Il premio sarebbe potuto andare anche ad Audrey Hepburn (nessuna parentela con Katharine) per il ruolo della donna cieca indotta da una minaccia criminale a vivere nella claustrofobia della propria casa in “Gli occhi della notte”. Gli Oscar Segue un’accelerazione degli Oscar alla Hepburn, che si guadagna la terza statuetta nel 1968 per Eleanor, la moglie di Enrico II il Plantageneto nello spettacolo storico “Il leone d’inverno”. Quell’anno, fatto senza precedenti, furono assegnati due Oscar a protagoniste femminili. Il fronte dei giurati dell’Academy si spaccò, una metà dei 3.030 voti andò alla Hepburn, l’altra ad una giovane Barbra Streisand interprete del recital “Funny girl”. L’ultimo Oscar arrivò nel 1981 con “Il lago dorato”, per il ruolo della paziente, cordiale e saggia moglie di un uomo iroso e intrattabile, interpretato da un Henry Fonda pure già gravemente malato che, dopo essersi a lungo rifiutato, si concilia con la figlia, e dato che questo ruolo venne affidato a Jane Fonda, si trattò anche di una riconciliazione reale fra i due. Il cottage in cui si svolge l’azione diventò davvero la casetta fiorita, ideale per una sentimentalistica riconciliazione familiare. Privato e pubblico si intrecciarono in maniera irritante ed il nuovo vincitore fu di nuovo Hollywood. Impersonale e bruttino nell’aspetto, l’Oscar ha un incontestabile significato sociale e culturale, peraltro ipotecato e in odore di sospetto per la lunga serie di assegnazioni sbagliate. La Hepburn ne ha meritato quattro. Per “Scandalo a Filadelfia” e “La regina d’Africa”, quale indimenticabile zitella missionaria nei pungenti duelli con un alcolizzato Humphrey Bogart; lo ha meritato pure per “Il diavolo è femmina”, eppure il brillante ruolo di Sylvia Scarlett non le ha procurato neppure la nomination. Parecchi gli errori dunque, anche se l’equilibrio finale non ne ha sofferto, e questa è la sola cosa di cui Hollywood tiene conto. Molti dicono che Spencer Tracy fu il suo partner ideale sul set. Rispettando per inerzia il vecchio slogan dell’attrazione degli opposti, si dirà che dando prova di semplicità, saggezza, fiducia ed una certa mascolinità irlandese nei ruoli che gli venivano affidati, Tracy parava adeguatamente la mordace loquacità e la sofisticata femminilità della donna. Intesa straordinaria con Cary Grant Al loro comune attivo vi sono indubbiamente taluni buoni film, ai quali tuttavia anteporrei sempre quelli da lei girati assieme a Cary Grant. “Incantesimo” (Holiday), “Il diavolo è femmina” e “Scandalo a Filadelfia” diretti da George Cukor (tolti i film di questi, l’opera della Hepburn sarebbe molto più ridotta e impoverita), a cui va aggiunta la nota commedia “Susanna” (Bringing up Baby) di Howard Hawks, costituiscono la testimonianza permanente della sua bravura e dell’impressionante complementarietà fra la coppia d’attori. Qui vale il principio che il simile attrae il simile. Anche Cary Grant infatti era, al pari della Hepburn, ricco di una mobilità verbale e fisica, tanto da venir definito acrobata da salotto. Nonostante le opposte diversità, i due sono stati una coppia d’attori d’impressionante affiatamento. Il film “The aviator” di Martin Scorsese s’incentra sulla figura del miliardario e avventuriero Howard Hughes, compreso, anche se privo di un maggior peso nell’economia della pellicola, il suo legame con la Hepburn interpretata da Cate Blanchett che ebbe l’Oscar per il ruolo. Fin qui nulla da contestare. L’uomo però viene presentato con un’untuosa condiscendenza che arriva al limite della glorificazione, assolutamente non meritate da quel grande egocentrico, senza scrupoli, arrogante e persistente sessista qual era. La scena in cui Katharine porta Hughes (Leonardo DiCaprio) nella casa dei suoi genitori non fa assolutamente onore a Scorsese. Ne nasce infatti un colloquio pseudointellettuale, artificioso, al limite della posa, in cui il povero Hughes non può neanche respirare liberamente per cui si è portati ad identificarsi con lui, avvilito, senza protezione, esposto al dileggio della famiglia Hepburn. Questo è un procedere improntato a meschinità e sfacciataggine. A leggere taluni romanzi di James Ellroy si arriva a una visione ben diversa della sua figura, molto più vicina al vero Hughes di quello tratteggiato da Scorsese. Nel periodo in cui fu legata a lui, Katharine era nella miglior forma artistica. Oltre a recitare in alcune fra le commedie già citate, in “Palcoscenico” (Stage door, 1937) di Gregory La Cava, contrastò in forma artisticamente smagliante una bionda Ginger Rogers, personificazione di una donna facente capo a uno strato sociale più basso. Esprimere un concetto definitivo sulla Hepburn è impossibile perché essa sfugge a ogni scritta lapidaria. Di due sole cose possiamo essere assolutamente certi: che è arrivata alla davvero veneranda età di 96 anni e che è stata attrice di straordinario talento e sottile sensibilità. E di simili oggi ce ne sono ben poche. cinema la Voce oce del popolo BLOCK NOTES 1963 martedì, 28 maggio 2013 7 di Francesco Cenetiempo “LE MANI SULLA CITTÀ” DI FRANCESCO ROSI, PREMIATO CON IL LEONE D’ORO A VENEZIA CINQUANT’ANNI FA ILFILMCOME DENUNCIAE TESTIMONIANZA DIREALTÀ L’ Italia del 1963 presentava uno scenario di sviluppo economico mutato e teso a stabilizzarsi dopo una folle ed euforica corsa sotto la bandiera del “miracolo economico”. Il suo governo, come del resto gran parte dell’industria nazionale, assapora le prime difficoltà legate al modello di sviluppo in chiave capitalista. Ormai risulta chiaro che il “miracolo” è stato per i grandi gruppi imprenditoriali e che poco è stato fatto per il benessere generale del Paese. Manca una programmazione economica articolata, proliferano gli enti e le industrie pubbliche e in barba al buon senso si applicano inopportune teorie di liberalismo economico a settori che non ne necessitano. La speculazione mascherata in sviluppo comincia a tentacolare il tessuto sociale italiano mediante la corruzione sistematica. Le proteste dei lavoratori delle fabbriche, che lamentano una scarsa attenzione per i loro contratti di categoria, cominciano a farsi sentire. Spiazza tutti, credenti e non, l’annuncio di Papa Giovanni XXIII dell’enciclica “Pacem in terris” che presenta la Chiesa come “Popolo di Dio” e non più come un lontano e inafferrabile santuario. Rivela una grande attualità e una notevole sensibilità sull’ascesa e sui diritti universali delle classi lavoratrici, dei mutamenti della condizione femminile e il convincimento che i conflitti tra gli Stati devono essere risolti con la collaborazione reciproca e non con le armi. I cineasti registrano la realtà In questo disordinato scenario di inizio anni Sessanta anche l’arte gioca la sua carta: scrittori e cineasti si situano in prima fila nel raccogliere e registrare ogni cambiamento e denunciare le brutture che si profilano all’orizzonte. Una delle speculazioni, forse la più redditizia per il momento, è quella che interessa l’edilizia civile. Un mare di cemento invade la penisola e le sue coste, i piani e le autorizzazioni piovono senza grandi formalità, nel nome di un ipotetico progresso si chiudono gli occhi sull’aspetto legale e ambientale di queste opere. Questa è l’ambientazione del film di Francesco Rosi “Le mani sulla città“ (Italia, 1963), la cui sceneggiatura porta la firma dello stesso regista, di Raffaele La Capria, Enzo Provenzale ed Enzo Forcella. Nel cast gli attori Rod Steiger, Salvo Randone, Guido Alberti, Angelo d’Alessandro, Carlo Fermariello e Marcello Cannavale. Il film, che fu premiato con il Leone d’oro a Venezia nel 1963, riproduce il clima di quegli anni, i conflitti tra una classe politica, irrimediabilmente compromessa con il potere economico, i cui interessi sono in contrasto con il bene pubblico, e l’opposizione, animata da passione politica e civile, la quale denuncia, senza mezzi termini, i crimini compiuti ai danni della collettività. La trama è arcinota come lo è l’ultima scena del film che non lascia spazi ad interpretazioni: “I personaggi e i fatti sono immaginari, autentica è invece la realtà che li produce”. Politica corrotta a favore del profitto Il film di Rosi ci catapulta nella Napoli della fine degli anni ‘50 descrivendo, sullo sfondo di una città da ricostruire, le vicende immaginarie ma verosimili di un consigliere comunale di fede comunista (De Vita) e di un cinico e ipocrita imprenditore edile (Nottola), in lizza per diventare assessore e smanioso di grandi speculazioni. In un degradato quartiere di Napoli, un palazzo crolla a causa dei lavori di demolizione ad esso adiacenti, causando morti e feriti. Responsabile del disastro, l’imprenditore edile Edoardo Nottola viene coinvolto in un’inchiesta da cui esce senza ripercussioni giudiziarie, ma inevitabilmente compromesso agli occhi del partito di Destra per cui è consigliere comunale. I compagni lo abbandonano e il suo nome alle elezioni viene ritirato, ma Nottola, inflessibile e protervo, attinge ad ogni risorsa del suo potere e, spalleggiato da alcuni consiglieri corrotti, diviene il primo candidato nel gruppo di Centro. Solo l’opposizione di Sinistra sembra decisa a contrastare la prepotente ascesa del costruttore: a guidarla è il consigliere De Vita che, dopo meticolose indagini, porta alla luce il coinvolgimento di Nottola e dei suoi seguaci nella conquista di un appalto su cui poggiano cospicui interessi economici e politici. Nel frattempo, il quartiere afflitto dal recente disastro, subisce un’ordinanza di sfratto che provoca la sommossa dei suoi occupanti, sfociando in duri scontri con le forze di polizia. Nonostante il malcontento popolare, i disordini dovuti al rovesciamento della maggioranza e la tenace resistenza dei suoi oppositori, Nottola otterrà comunque la carica di assessore all’edilizia, provocando profonde incrinature anche nel suo partito. Questo, con i suoi rappresentanti più implicati, tornerà infine ad appoggiarlo per puro interesse. Chi è il protagonista? Ma qual è la chiave interpretativa del film di Francesco Rosi? Qualcuno sostiene, e a ragione, che il vero protagonista del film non sia, come si può facilmente prevedere, un personaggio, bensì il Piano Regolatore Generale, ovvero uno strumento squisitamente urbanistico! Un protagonista muto e poco vistoso, ma che è presente nell’intera struttura della narrazione. Il film, ben oltre la cronaca e le vicende politiche, mostra l’essenza della pianificazione urbanistica pubblica a vantaggio di quella privata sostenuta da potenti lobby affaristiche. Una per tutte la scena che precede i titoli di testa e che si apre su di un luogo desolato e squallido. Non è né campagna, né città e una massiccia cortina di palazzine, di recente costruzione, chiude l’orizzonte. Sono i lembi di una periferia urbana inquietante e minacciosa, che sembra abbia fretta di crescere. Il luogo è animato solo da alcuni individui. E proprio qui il regista mette in scena un breve dialogo che è la chiave di volta di tutto il film. La scena è la prima (“La strategia speculativa”): Nottola “Lo so che la città sta là e da quella parte sta andando perché il Piano Regolatore così ha stabilito. Ma è proprio per questo che noi da là la dobbiamo fare arrivare qua!” Voce fuori campo: “E ti pare una cosa facile?!” Altra voce fuori campo: “Eh!… Cambiamo il Piano Regolatore!”. Nottola: - “Non c’è bisogno. La città va in là? E questa è zona agricola! E quanto la puoi pagare oggi… trecento, cinquecento, mille lire a metro quadrato? Ma domani, questa terra, questo stesso metro quadrato, ne può valere sessanta… settantamila… e pure di più! Tutto dipende da voi! Il cinquemila percento di profitto! Eccolo là! Quello è l’oro oggi! E chi te lo dà: il commercio, l’industria, l’avvenire industriale del mezzogiorno?! Sì!… Investi i tuoi soldi in una fabbrica: sindacati, rivendicazioni, scioperi, cassa malattia!… Ti fanno venire l’infarto co’ sti’ cose! E invece, niente affanni e niente preoccupazioni. Tutto guadagno e nessun rischio. Noi dobbiamo fare solo in modo che il Comune porti qua le strade, le fogne, l’acqua, il gas, la luce e il telefono”. Più chiaro di così! Altro discorso centrale della narrazione filmica, quasi a rappresentarne il nucleo, è quello tra l’imprenditore Nottola e l’oppositore De Vita. Come abbiamo visto, i lavori di costruzione di un palazzo di Nottola provocano il crollo di un vecchio edificio adiacente. Ci sono dei morti e numerosi feriti e la polemica è alle stelle. Imprenditore fuori legge Con il pretesto della sicurezza, il Sindaco ordina lo sgombero delle altre case circostanti la zona del crollo e in sostanza da via libera a Nottola per poter proseguire la sostituzione dei vecchi edifici con i suoi nuovi palazzi. Quest’ultimo invita il suo acerrimo nemico De Vita a visionare la sua opera di costruttore. Nottola: “E allora, voi mi dovete dire perché non è meglio che quella roba si leva da mezzo per fare tanti palazzi come questo qua… Un’altra cosa De Vita. Perché prendete questa posizione contro di me?… Fate per confondere le idee alla gente per la vostra politica?” De Vita: - “Voglio solo fargli capire chi siete voi e quelli come voi!” Nottola: “Chi sono io?! Io sono uno che rischia il suo tempo, la sua fatica per fare sparire queste catapecchie fetenti!” De Vita:- “Non è vero niente! I fatti sono altri. Voi siete un fuori legge! La legge stabilisce un Piano Regolatore, e voi ve ne infischiate! La legge stabilisce che non bisogna fare danno alla gente, e voi gli togliete le case, gli togliete il lavoro, e non vi importa niente di dove vanno a finire! Perché certo… non vanno a finire in case come queste.” Nottola: “Io non sono un benefattore!” De Vita: “E chi lo pretende! Ma voi non vi fermate davanti a niente! Ci sono stati dei morti per il crollo, un bambino ha perso le gambe, e voi niente! E tutto questo solo per riempire di soldi le vostre tasche! Questi sono i vostri sistemi. E contro questi sistemi io combatto. Non contro i palazzi! A me basta che i palazzi siano costruiti dove e come vuole la legge e non dove e come volete voi”. L’epilogo è scontato: l’inchiesta finisce nel nulla e Nottola riuscirà a farsi eleggere assessore continuando così lo scempio del territorio. Nel 1992, trent’anni dopo “Le mani sulla città”, Rosi si cimenta con “Diario napoletano”, che considera un prosieguo del primo: “Sono tornato a Napoli. Un dibattito sul film alla Facoltà di Architettura mi diede occasione di rivisitare la mia città sfigurata dalla speculazione edilizia, violentata dalla malavita infiltratasi in tutti i centri di potere politici e amministrativi [...] Se ‘Le mani sulla città’ iniziava con un crollo, ‘Diario napoletano’ termina con la ricomposizione di quel crollo, un sogno che è speranza e invito a non deporre le armi e a combattere. Se l’Italia si arrende a Napoli si arrende dovunque, dicevo nel film. [...] Un film è il risultato di un lavoro di collaborazione e della passione con la quale ognuno è capace di vivere la grande avventura della creatività. Il cinema responsabile Ma un film è anche un fatto responsabile. Ed è un atto responsabile soprattutto quando chi lo fa, riesce a non tenere separato il suo ruolo di artefice dell’opera dall’uomo che egli è, dal proprio coinvolgimento morale. Con i miei film ho cercato più che altro di capire il mio Paese e di raccontarlo attraverso uno strumento, il cinema, che tra i mezzi di comunicazione e di conoscenza è quello che ci consente, davanti alle ombre che sullo schermo diventano vita, di riconoscere le nostre speranze, le sconfitte e le vittorie. [...] Ho sempre creduto nella funzione del cinema come denuncia e come testimonianza di realtà, e come racconto di storie attraverso le quali i figli possano conoscere meglio i padri e trarne insegnamento per un giudizio di cui la Storia costituisce il riferimento”. 8 martedì, 28 maggio 2013 RECENSIONE cinema la Voce oce del popolo di Ana Varšava “LA SCELTA DI BARBARA” DI CHRISTIAN PETZOLD SUL CONFLITTO DELL’INDIVIDUO CON IL POTERE TOTALITARIO IL BISOGNO DI LIBERTÀ IN UN FILM DI RARA BELLEZZA L a dignità umana, il bisogno di libertà e l’importanza dei valori umani e dell’individualismo. Ne parla il film “La Scelta di Barbara“ di Christian Petzold, un film tedesco di rara bellezza che con grande maestria ed eleganza riesce a raccontare ed esprimere attraverso sottili accenni anche ciò che non è stato detto esplicitamente. La problematica del film è assai complessa e tratta il conflitto dell’individuo con il potere totalitario. Nel contesto storico, sociale e politico della Germania dell’Est nell’anno 1980, nove anni prima della caduta del Muro di Berlino, il film si concentra sui dilemmi personali della protagonista Barbara, che lavora come pediatra nell’ospedale Charité a Berlino Est. Barbara viene costretta a lasciare il posto a Berlino e incominciare a lavorare in un piccolo ospedale di campagna come punizione per aver chiesto il visto che le permetterebbe di raggiungere il suo amante all’Occidente. La protagonista diventa oggetto di continui controlli sia nell’ambito di lavoro che nella vita privata. La narrazione procede gradualmente ed è un dramma lento nel quale a piano a piano si rivela la sua vita interiore e il suo passato. “Non entrerà nemmeno un secondo in la Voce del popolo Anno 1 /n. 3 / martedì, 28 maggio 2013 IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina [email protected] Edizione Progetto editoriale Caporedattore responsabile Errol Superina Redattore esecutivo Helena Labus Bačić Impaginazione Denis Host-Silvani CINEMA Silvio Forza Collaboratori Francesco Cenetiempo, Daria Deghenghi, Aldo Paquola, Marin Rogić, Dragan Rubeša, Ana Varšava Foto Goran Žiković anticipo. È fatta così.“ “Com’è Barbara?“ “Se avesse sei anni, avresti detto che era imbronciata.“... “Da quando è stata incarcerata, il suo gruppo di amici è andato distrutto”. È questo il discorso che apre il film mentre due uomini, André Reiser e il funzionario della Stasi (agente della polizia segreta), osservano Barbara seduta nel parco a fumare una sigaretta. È un momento significativo. È appena scesa dalla corriera ed è già sorvegliata dalla finestra dell’ospedale. Cosa di cui lei è consapevole. André è il suo superiore all’ospedale nel quale è stata trasferita. Fin dall’inizio seguiamo l’isolamento di Barbara, che non si fida di nessuno, dai suoi colleghi, mentre invece la fiducia nei collaboratori è essenziale nell’ambiente in cui lavora. Il che è a sua volta in contraddizione con i principi dello stato totalitario. I conflitti interiori del personaggio In un primo momento, Barbara sembra lontana, ma gradualmente ci avviciniamo al personaggio, iniziamo a conoscere i suoi conflitti interiori e vediamo come cresce la sua fiducia in André, l’uomo del quale si innamora. Barbara è confusa e insicura nei suoi confronti e non sa come accogliere i suoi sorrisi. Ma André si rivela una persona cordiale e umana. La tensione è un elemento importante nel film ed è rappresentata con molta precisione. La paura si rispecchia negli occhi di Barbara. Si volta continuamente indietro mentre sta tornando a casa in bicicletta. Soffia il vento e il cielo diventa buio come prima di un temporale. I suoi sguardi sono sempre pieni di paura. Mentre suona il pianoforte, ci aspettiamo che il crescendo venga interrotto dal bussare alla porta. Il suo sguardo impaurito rivela la tensione interiore che sente in quasi tutti i contatti sociali. Non appena sente il rumore di una macchina che si ferma nella sua via, si avvicina alla finestra per dare un’occhiata piena di sospetto. Le tendenze degenerative di un regime totalitario si rivelano nel sospetto, nella sorveglianza, nel controllo e nella paura. È questo il mondo di Barbara, che vive in silenzio e in tal modo riflette l’alienazione e la solitudine dell’essere umano. Il che è in contrasto con il luogo in cui viene trasferita: in campagna, in natura, tra i colori caldi, così diversi dall’umore dei personaggi, che rivelano a loro volta il buio di un sistema in collasso. Il film rispecchia la realtà del mondo totalitario della Repubblica Democratica Tedesca, ma non è politicamente impegnato in modo esplicito. Thriller psicologico È essenzialmente un thriller psicologico che si propone di indagare sulla condizione dell’individuo in una società repressiva. La tragedia di intere generazioni non viene raccontata o analizzata indagando sui fatti storici ma viene presentata tramite gli stati d’animo dei personaggi, suggeriti attraverso atmosfere e particolari che si susseguono tra dialoghi significativi e intense interpretazioni degli attori. In questo contesto si distingue in modo particolare l’attrice tedesca Nina Hoss nel ruolo di Barbara. È un film intelligente e raffinato, pieno di momenti silenziosi e di sguardi, preciso nei dettagli e impregnato di tensione, che richiama la poetica di Hitchcock. Un thriller sottile e sofisticato, nel quale la suspense è ottenuta con l’utilizzo dei suoni e con il montaggio. Non manca nemmeno la “bionda fredda e distaccata” che fugge dalla legge. Nina Hoss è la musa di Petzold. Un’attrice che ricorda Grace Kelly, una delle muse ispiratrici di Hitchcock: intelligente, raffinata e di una femminilità gelida. L’elemento più caratteristico dei film di Hitchcock, il colpo di scena, è presente anche nel film di Petzold, che si chiude in maniera piuttosto melodrammatica. Barbara sta pianificando, con l’aiuto del suo ricco amante, la fuga verso l’Occidente attraversando il Mar Baltico. Il film è pieno di citazioni. Uno di questi è “Acque del Sud“ di Howard Hawks. Una storia di amanti consapevoli del fatto di essere spiati dalla polizia segreta. Un altro cenno è il fatto che Barbara si decide di leggere “Le avventure di Huckleberry Finn“ di Mark Twain alla paziente di nome Stella, arrivata all’ospedale dal campo di lavoro Torgau. La protagonista si prende personalmente cura della donna, anche perché Stella è incinta e sogna di allevare suo figlio altrove. “La scelta di Barbara” è un eco del racconto di Mark Twain, nel quale il personaggio principale di Huck, un reietto sempre in conflitto con le norme sociali, decide di aiutare lo schiavo Jim che sta per essere venduto e in tal modo separato dalla propria famiglia. Huck e Jim pianificano la fuga lungo il fiume, per giungere negli Stati liberi dove la schiavitù è abolita. Infine, Barbara aiuterà Stella a fuggire verso l’Occidente, mentre la sua - questa volta libera - scelta sarà di rimanere con André. “La scelta di Barbara” ha vinto l’Orso d’Argento per la migliore regia al 62.esimo Festival di Berlino e il premio dei lettori del “Berliner Morgenpost“. Ha pure ottenuto due nominations al Premio cinematografico europeo per il miglior film e la migliore attrice protagonista, nonché selezionato come candidato tedesco all’Oscar per il miglior film straniero.