la Voce
oce
del popolo
POLAFILMFESTIVAL
SESSANT’ANNI TRA ALTI E BASSI
la Voce
del popolo
cinema
www.edit.hr/lavoce
Anno 1 • n. 3
martedì, 28 maggio 2013
IL PERSONAGGIO
CINEMA ASIATICO
POLVERE DI STELLE
CINEMA ITALIANO
RECENSIONE
Oliver Stone in veste
di divulgatore politico
Il Far East Film
Festival di Udine
Ricordiamo la grande
Katharine Hepburn
Il film “Le mani sulla
città” di Francesco Rosi
“La scelta di Barbara”
di Christian Petzold
Il regista americano ospite del
“Subversive film festival” con
il suo documentario
Una coproduzione tra la Corea
del Nord e l’Europa suscita
l’interesse del pubblico
Dieci anni fa se n’è andata una
delle attrici più straordinarie
del cinema americano
Un esempio di cinema
responsabile che denuncia le
brutture nella società
Una pellicola che elabora il
conflitto tra l’individuo e il
potere totalitario
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cinema
martedì, 28 maggio 2013
IL PERSONAGGIO
la Voce
oce
del popolo
di Marin Rogić
di Marin Rogić
IL REGISTA AMERICANO
È STATO OSPITE DEL
“SUBVERSIVE FILM
FESTIVAL” DOVE HA
PRESENTATO IL SUO
ULTIMO LAVORO “USA. LA
STORIA MAI RACCONTATA”
«S
talin, Hitler, Mao, McCarthy.
Queste persone sono state vilipese
già abbastanza nel tempo.
Stalin ha invece completamente un’altra
storia. Non ho intenzione di dipingerlo
come un eroe, ma vorrei raccontarlo
basandomi sui fatti. Lui ha combattuto la
macchina da guerra tedesca più di ogni
singola persona. Non possiamo giudicare
la gente considerandola solo ‘buona’ o
‘cattiva’”. Questa è solo una delle tante forti
affermazioni fatte da Oliver Stone nella sua
attività di “artista-militante-politico“.
Ospite, questo mese, della sesta edizione
del “Subversive Film Festival” di Zagabria, il
regista ha dato voce al suo lato di attivista.
Tutti gli appassionati del cinema conoscono
lo Stone di “Platoon” e “Nato il quattro
luglio”, con i quali ha vinto, in entrambi
i casi, l’Oscar alla regia, oppure lo Stone
sceneggiatore di “Fuga di Mezzanotte”, con il
quale si è portato a casa la terza statuetta.
Temi controversi
Divulgatore politico
Ha fatto molto rumore nella stampa
nazionale la sua presenza al festival
cinematografico, innanzitutto perché è il
nome più popolare che la manifestazione
abbia mai ospitato, ma anche perché il
regista non ha voluto parlare di cinema (o
per lo meno, lo ha fatto in piccola parte),
bensì presentarsi al numeroso pubblico
come divulgatore politico. A prescindere
dall’opinione personale sui “registi attivisti“
come Stone, che usano la settima arte per
fare luce su punti oscuri della storia oppure
si occupano di problemi della società
contemporanea (vedi Michael Moore),
o tentano di farsi conoscere attraverso
esperimenti cinematografici azzardati,
sta di fatto che sono in grado di catturare
l’attenzione ovunque si presentino. Hanno
il potere di smuovere le coscienze e riunire
intorno a se stormi di seguaci. L’arte è arte
perché è libera e non pone vincoli, quindi
ben vengano registi come Stone e Moore,
che danno voce a coloro che fanno fatica a
farsi sentire.
L’appuntamento zagabrese è stato
un’occasione per presentare e parlare della
sua ultima fatica cinematografica, che
raccoglie in dieci Dvd la storia americana
dalla Seconda Guerra Mondiale fino a
Roosevelt, dal presidente J.F.Kennedy fino
OLIVER
STONE:
«SVEGLIATEVI,APRITE GLI OCCHI,
NON SIATE MARIONETTE!»
a Bush e Obama. Un film documentario che
rivela nuove prospettive e scenari inediti.
In questo lavoro, il regista presenta quella
che si può chiamare la “contronarrazione”
fatta per mezzo di un’indagine approfondita
e dell’uso di filmati di archivio che portano
lo spettatore a farsi una domanda molto
semplice: il lancio delle bombe atomiche su
Hiroshima e Nagasaki mirava a concludere
la II Guerra mondiale, o a volgere
l’attenzione del mondo, e in particolare
dell’Unione Sovietica, alla potenza militare
degli Stati Uniti? Man mano che si procede,
la storia diventa più complicata, interessante
e certamente rivelatrice.
L’impatto devastante della Guerra fredda sui
movimenti sociali progressisti è una cosa con
la quale gli americani hanno convissuto fino
ad oggi, dal momento che - come suggerisce
Stone -, l’anti-comunismo degli Stati Uniti
non temeva alcuna “minaccia comunista”,
ma sfruttava l’onda della paura per
intensificare le riforme e promulgare leggi
che favorivano le lobby economiche.
Come spiegato nel documentario, il
dominio dei super-ricchi, ovvero del
cosiddetto uno per cento della popolazione
mondiale, è in molti modi il diretto risultato
dell’indebolimento dei movimenti per la
giustizia sociale attivi prima dell’inizio della
Guerra fredda e negli anni ’70 e ’80. A detta
del regista, il film “non solo deve essere visto
da un numero quanto più grande di persone,
ma - cosa ancora più importante - deve
essere discusso”.
Americanizzazione dell’Europa
Durante il suo soggiorno a Zagabria,
Stone ha parlato del ruolo americano nel
mondo, ovvero del suo ruolo di potenza
egemone globale, colpevole di aver
provocato la crisi mondiale e del fatto
che continui a distruggere ogni minima
volontà di cambiamento. Si è concentrato
sul rapporto America-Unione Europea,
parlando di “americanizzazione“ del
Vecchio Continente, il quale – secondo
Stone - sta copiando, infatti, il peggio
delle recenti amministrazioni americane.
Non ha risparmiato nemmeno il governo
di Obama, che “è partito con intenti nobili,
rivoluzionari, ma poi si è fatto inghiottire
dalle élite economiche che governano il
pianeta“. Si è rivolto quindi ai giovani
dicendo loro di non stare seduti inermi,
mentre davanti ai loro occhi accadono
cose terribili, come guerre, sfruttamenti,
manipolazioni. Li ha spronati ad attivarsi
per favorire i cambiamenti. Alla domanda
giornalistica su come si possa giungere a
un cambiamento, il regista ha risposto:
“Svegliatevi, aprite gli occhi, non siate
marionette e combattete per il vostro
futuro”.
TOMISLAV MILETIC/PIXSELL
Ogni suo lungometraggio crea delle
attese e delle polemiche. I primi due, per
esempio, trattano temi scottanti, come la
guerra in Vietnam (“Nato il quattro luglio”
è esplicitamente dedicato alla memoria
dell’attivista politico Abbie Hoffman).
Purtroppo, i film sul grande schermo, anche
se parlano di argomenti delicati, tendono a
produrre un effetto contrario alla volontà
del regista. Difatti, le dure vicende trattate
lasciano al pubblico l’amaro in bocca durante
la visione del film, ma una volta uscito
dalla sala cinematografica, lo spettatore
medio tende a pensare che ciò che ha visto
“è solo un film“. Su questo tema ci sarebbe
da discutere più a fondo, ma bisognerebbe
entrare nel campo della filmologia. Restiamo
sul punto principale. Pochi sanno che
Stone ha dedicato la maggior parte della
sua carriera cinematografica ad alcuni dei
temi più importanti del XX secolo, come
l’assassinio di John F.Kennedy, la succitata
guerra del Vietnam, la guerra civile in El
Salvador e lo stato di oppressione nel quale,
secondo lui, vivono i cittadini degli Stati
Uniti. È stato il primo regista statunitense
riuscito nell’intento di intervistare il líder
máximo cubano Fidel Castro, sul quale girò
due documentari, “Comandante“ e “Looking
for Fidel“. A Zagabria ha presentato il suo
ultimo lavoro - a detta di molti critici, il più
completo mai realizzato da Stone -, “USA. La
storia mai raccontata”.
cinema
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del popolo
CINEMA ASIATICO
D
a ormai quindici anni, Udine
è la mecca degli appassionati
di film provenienti dall’Asia
orientale. E mentre il cinema asiatico
è molto più presente a simili rassegne
con film artistici, il Far East Film
festival preferisce i lavori commerciali
e i blockbuster, impegnandosi pure
a inventare nuovi generi come “la
commedia punk familiare”, “la commedia
auto fellatio” oppure la “commedia
romantica gangnam style”. Nonostante
alcuni leggendari ospiti del festival si
siano talmente affezionati a Udine da
aver addirittura girato alcune sequenze
dei loro film in questa città – come
è stato il caso con Johnnie To nella
commedia romantica “Yesterday Once
More” -, certi decideranno di evitare
Udine per motivi promozionali e
presentare il loro ultimo film in località
più gettonate dai mass media, come
lo è Cannes, dove To ha presentato in
questi giorni il suo nuovo thriller “Mad
Detective”. Oltre a ciò, il workaholic
filippino Erik Matti ha presentato al Far
East Festival il folle horror “Tik Tik: The
Aswang Chronicles”, riservando il nuovo
film “On the Job” per Cannes. Ma a
Udine tornano sempre.
Commedia gangnam style
Nonostante non avesse una giuria
classica, il “Gelso d’oro”, premio
principale del festival che viene
conferito dal pubblico, è stato
assegnato alla commedia gangnam
style sudcoreana “How to use guys
with secret tips”, mentre ad attirare
maggiormente l’interesse del pubblico,
come previsto, è stato il suo vicino
nordcoreano Kim Gwang-hun con la
pellicola “Comrade Kim goes flying”,
che è una delle rare coproduzioni tra la
Corea del Nord e l’Europa. Tutto ciò a
conferma del fatto che la collaborazione
tra questo Stato comunista e l’Occidente
risulti molto più facile sul piano
cinematografico che su quello politico.
Oltre a Kim-Gwang-hun, a firmare la
regia del film sono anche il produttore
britannico Nicholas Bonner e la
produttrice belga Anja Daelmans, che
erano strettamente sorvegliati durante
tutta la durata delle riprese e non era
loro permesso entrare nelle miniere e
nelle fonderie d’acciaio nelle quali era
martedì, 28 maggio 2013
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di Dragan Rubeša
| Comrade Kim goes flying
LA COREA DEL NORD
CATTURA
L’ATTENZIONE
IL FAR EAST FILM FESTIVAL DI UDINE ATTIRA DI ANNO IN ANNO
APPASSIONATI DI TITOLI PROVENIENTI DALL’ASIA ORIENTALE
hambientata una parte del film.
Il film ha avuto la sua première
mondiale al Pyongyang Film Festival,
il cui motto è “Indipendenza, pace,
amicizia”. La rassegna cinematografica
ha addirittura uno sponsor, nonostante
il concetto fosse stato anatemizzato
fino a poco tempo fa come un’attività
losca, tipicamente capitalista, e quindi
impensabile. Si tratta dell’agenzia
turistica “Koryo Tours”, che organizza
degli itinerari strettamente sorvegliati
per gli stranieri in Corea del Nord.
Tuttavia, è risaputo che Kim-Jong-il,
come molti dittatori, sia stato un
appassionato del cinema. Si dice che
amasse molto gli “slasher horror”, i film
su Godzilla e Liz Taylor. Ha pure scritto
il libretto “L’arte cinematografica”,
nel quale sostiene che il film deve
essere un “forte mezzo di educazione
ideologica”, e ha costruito uno
studio cinematografico nel centro di
Pyongyang. Ha aperto, inoltre, sette sale
cinematografiche per sé stesso e le sue
delegazioni.
Il pericoloso Topolino
Godzilla nordcoreano
Sognava un Godzilla nordcoreano.
Ma nel suo Paese nessuno sapeva
come si fanno i film su Godzilla, per
cui organizzò il rapimento del regista
sudcoreano Sang-oh Shin, il quale girerà
il “monster horror” intitolato “Pulgasari”
nella metà degli anni Ottanta, con il
Grande leader in veste di produttore
esecutivo. Per gli effetti speciali vennero
ingaggiati i Toho studios giapponesi.
La compagna Kim del film di Gwanghun è una giovane minatrice che sogna
di diventare un giorno una famosa
artista del trapezio. Dopo aver superato
la norma di produzione, si trasferisce,
secondo le direttive del Partito, a
Pyongyang e va a lavorare in un cantiere
edilizio nelle cui vicinanze si trova un
circo. Anche se l’arrogante acrobata che
vi lavora è convinto che il posto delle
minatrici sia sotto terra e non nel cielo,
lei non rinuncia e il suo obiettivo finale
è di esibirsi al Festival dei lavoratori.
Naturalmente, il film è pura propaganda
nella quale i colori dei fiori e dell’erba
“in Technicolor” sono stridenti, mentre
il cielo è sempre azzurro. Se piove, è
affinché le sue esercitazioni all’aperto
abbiano un effetto più drammatico. E lo
spirito forte della classe operaia viene
sottolineato in ogni inquadratura.
| How to use guys with secret tips
Nel documentario molto più autentico
“Sona, il mio secondo io”, la regista
Yong-li Yang riprende nella tecnica
“candid camera” la sua visita ai fratelli a
Pyongyang che, da comunisti ortodossi,
hanno deciso di lasciare il Giappone
ed emigrare in Corea del Nord. Yang
regala alla sua piccola nipote un paio
di calze con l’immagine di Topolino.
Ma la bambina le arrotolerà in modo
che nessuno possa vedere il topo
pericoloso e proibito. Soltanto alcuni
anni più tardi, vedremo il nuovo leader
nordcoreano Kim-Jong-un a teatro
mentre segue uno spettacolo nel quale
recitano i personaggi della Disney.
Almeno un po’ di consolazione per la
piccola Sona.
Se gli aerei invisibili americani
smettessero di partecipare a
minacciose manovre militari e la
presentatrice della televisione di stato
nordcoreana cominciasse a parlare più
tranquillamente, forse in un sequel del
film di Gwang-hun alla compagna Kim si
assocerebbe anche PSY in un gangnam
style collettivo.
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martedì, 28 maggio 2013
ANNIVERSARI
di Daria Deghenghi
UNA CARRELLATA NELLA
RICCA STORIA DEL POLA
FILM FESTIVAL CHE
QUEST’ANNO COMPIE
SESSANT’ANNI
SFARZO,OSPITIILLUSTRI,STRAPPIDOLO
L
e altre saranno anche più
importanti e sicuramente
avranno maggiore prestigio,
ma questa è la rassegna del cinema
nazionale più longeva in assoluto ed
è anche la più seguita dal pubblico a
giudicare dalla media di spettatori per
proiezione. Quest’anno il Festival del
film di Pola compie sessant’anni ed
è impossibile sottrarsi all’obbligo di
rievocarne la genesi, scartabellando
tra date “ufficiali”, ma anche tra gli
episodi “rimossi” dell’anteguerra che
la propaganda jugoslava ha ignorato
di proposito. Ebbene, la prima
rassegna internazionale del cinema
che ebbe luogo nell’Arena di Pola
successivamente all’annessione istriana
alla Jugoslavia, risale al 1953, e si deve
all’impegno del polese Marijan Rotar, il
padre fondatore del Festival.
In realtà, però, la storia della
rappresentazione cinematografica
all’anfiteatro polese affonda le radici
nel lontano 1938, quando, il 18 giugno
- vale a dire il giorno di apertura della
prima “vera” rassegna del cinema polese
- venne proiettato “Casta Susanna” (“La
chaste Suzanne”) di André Berthoumieu
con Meg Lemonnier ed Henrie Gart.
Questo prototipo di festival (che solo
in seguito avrebbe ottenuto la sua
consacrazione, ma in un clima politico
e sociale affatto diverso da quello
d’origine), durò la bellezza di dieci
giorni e anche in questa sua dimensione
meramente quantitativa è paragonabile
al suo discendente più longevo.
Sia come sia, sperimentata l’Arena quale
cinematografo di massa, quella prima
rassegna del cinema italiano e mondiale
abbandonò ben presto la culla natale
per trasferirsi al teatro romano sul Colle
Castello (nel 1939), e poi spegnersi
precocemente per lo scoppio della
guerra. Retrodatata al ‘38, la rassegna
cinematografica polese potrebbe
dunque dirsi tre volte nazionale, e tre
volte diversamente nazionale, avendo
cambiato tre patrie, tre ordinamenti
sociali e tre ideologie, restandosene
ancorché al proprio posto, e in ciò
condividendo il destino dell’Istria e delle
sue genti.
Kurosawa tra i titoli della prima edizione
Ma oggi si festeggia il sessantesimo
della rassegna ideata da Marijan Rotar,
quella che si tenne dal 13 al 23 agosto
1953. L’evento ebbe una fortuna tale
da guadagnarsi l’istituzionalizzazione
quasi immediatamente, ad un solo anno
dal debutto, e sotto i migliori auspici
delle massime autorità jugoslave.
| “Tre storie proibite” (1953)
Probabilmente l’esperimento di Rotar
fu coronato dal successo per la sapiente
selezione dei titoli, equamente divisi
tra americani e non. Varrà la pena
di sottolineare che tra gli autori
di quest’ultimo gruppo ci fu anche
Kurosawa. Tra i titoli in cartellone
brillarono l’italiano “Tre storie proibite”,
che ebbe l’onore di inaugurare la
rassegna, l’americano “Il grande Caruso”,
il giapponese “Rashomon”, il francese
“Siamo tutti assassini”, “Operazione
Cicero” e il film italiano “Amori e veleni”.
Probabilmente anche l’”effetto novità”
avrà avuto il suo impatto, e sicuramente
la fame di spettacolo, di divertimento, di
vita, negli anni della ritrovata pace, avrà
contribuito alla gloria di quella prima
rassegna del film (gli anni a venire le
avrebbero invece riservato una storia
costellata di alterne fortune e drammatici
strappi). Il riscontro del pubblico?
Cinquantamila spettatori, non uno di
meno! L’anno successivo, quando la
direzione avrebbe abbandonato il cinema
straniero per presentare solo quello di
produzione jugoslava, ce ne sarebbero
stati solo 37.000. Insomma, il ‘54 è
l’anno dell’orgoglio nazionale: si vede
solo il film “fatto in casa”: è decollata
anche ufficialmente la prima Rassegna
del film nazionale jugoslavo.
Programmazione a parte, bastarono
quei due anni di cinema nell’abbraccio
solenne dell’anfiteatro polese sotto il
cielo stellato d’estate a generare una
comprensibile invidia della capitale
croata, che difatti rivendicò i diritti
ad organizzare la già “importante
manifestazione culturale”. Fadil Hadžić
e “Vjesnik u srijedu” (Il corriere del
mercoledì) firmano una sorta di
manifesto programmatico per il futuro
festival del film e pretendendo che si
faccia a Zagabria. Pola insorge presso
la Lega socialista della Repubblica
Popolare Croata e l’establishment politico
decide mediando fra i contendenti: il
Festival sarebbe rimasto a Pola, ma il
Corriere sarebbe stato coinvolto nella
sua organizzazione. Šime Šimatović,
primo direttore della casa di produzioni
cinematografiche di Zagabria, Jadran
Film, avrebbe poi testimoniato che “la
decisione era stata presa esclusivamente
a fini politici” per rafforzare cioè “lo
spirito di appartenenza storico culturale
di Pola e dell’Istria alla Jugoslavia” in
tempo di controversie latenti con lo Stato
italiano.
Il Festival patrocinato da Tito
Ma intanto il Festival acquista prestigio
con l’istituzione di una giuria per così dire
“fissa”, che trova in Ranko Marinković
e Ivan Šibl personalità di spicco. Il
patrocinio della rassegna è ora in mano al
presidente Tito, che non perde occasione
di vedere i film in Arena. Da quell’anno,
“Tri novčića u fontani” (Tre monete
nella fontana) resterà negli annali della
cinematografia jugoslava come primo
film nazionale girato e proiettato in
CinemaScope.
Ma la storia dell’uomo, si sa, è anche
la somma delle delle rivalità umane. E
quella tra cineasti di diverse nazionalità
dell’ex Federativa ha giocato un ruolo
non indifferente nel circolo vizioso delle
tensioni etniche in campo culturale. Il
1956 è l’anno dell’orgoglio dei cineasti
croati, che possono finalmente vantare
un autentico capolavoro cinematografico:
“Ne okreći se sine” (Figlio, non ti voltare)
di Branko Bauer, prodotto da Jadran Film,
si porta a casa il Primo premio in assoluto
dell’edizione, la medaglia d’oro per la
regia, e il premio della giuria. Il festival
dura dodici giorni e oltre alle 11 pellicole
di produzione nazionale, presenta al
pubblico anche 37 documentari e sei film
stranieri.
| Jiři Menzel e la moglie Olinka Menzel tra il pubblico (2007)
Una nuova svolta si profila sull’orizzonte
del Festival, che d’ora in avanti vivrà
anni di intensa centralizzazione e stretto
legame con il potere federale. L’arena resta
il salotto elegante della rassegna, ma la
città perderà i diritti di amministrazione,
confluiti nella capitale federale. Per gestire
la manifestazione, a Belgrado la Società
dei produttori cinematografici istituirà
un ente chiamato “Festival del cinema
jugoslavo”. L’amministrazione centralizzata
durerà fino al 1975 e nella sua fase finale
coinciderà con il periodo aureo dei kolossal
di guerra esaltanti il movimento partigiano
e il comandante supremo della resistenza
antifascista dei popoli jugoslavi: Josip
Broz. Negli anni Sessanta vige una netta
distinzione tra i due centri della promozione
cinematografica: mentre Belgrado si
dedica interamente al documentario e
al cortometraggio, Pola può liberamente
godere della più prestigiosa condizione di
capitale del lungometraggio.
Sophia Loren, Elizabeth Taylor e Richard Burton ospiti d’onore
Il 1970 è l’anno dello sfarzo. La sera
dell’apertura della rassegna, per la
proiezione di “Bitka na Neretvi”, tra il
pubblico prendono posto Tito e Sophia
Loren. In diecimila applaudono il film e gli
ospiti d’onore. Il kolossal bellico di Veljko
Bulajić riaccende la passione del Potere per
il cinema e viceversa, il cinema si lancia
in una strepitosa avventura adulatrice nei
confronti del Potere. D’altronde, potere e
cultura sono raramente distanti, e quasi mai
osano ignorarsi a vicenda, men che meno in
uno stato totalitario. L’anno seguente il flirt
jugoslavo tra cinema e autorità politiche
troverà la sua consacrazione definitiva in
“Sutjeska”, l’altro grande kolossal bellico con
un virile e distinto Richard Burton nel ruolo
di Tito. Elizabeth Taylor e Richard Burton
saranno in platea assieme al maresciallo per
applaudirlo/applaudirsi.
Nel 1975, l’anno in cui la direzione del
la Voce
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del popolo
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DUŠKO MARUŠIĆ/PIXSELL
martedì, 28 maggio 2013
| Sophia Loren
| Sophia Loren, Tito e Jovanka Broz in Arena nel 1970
| Sophia Loren e Tito
| Sophia Loren
| Ralph Fiennes alla Comunità degli Italiani di Pola(2012)
| Tito, Richard Burton e Liz Taylor
OROSI...MA LA RASSEGNA VIVE ANCORA
| Relja Bašić e Isabelle Corey, 1955
Festival torna a Pola, la cinematografia
jugoslava conta la bellezza di 460
lungometraggi. L’anno successivo, gli ospiti
d’onore sono il regista Sam Peckimpah,
presente su invito di Igor Galo, e l’attore
James Coburn. Nel 1976, Tito visiterà la
rassegna per l’ultima volta. Gli anni Ottanta
riserveranno al Festival umori altalenanti
e alterne fortune. Le cronache del tempo
segnalano nel 1985 l’avvicendamento ai
vertici dell’ente: Martin Bizjak lascia il
timone del Festival per consegnarlo in mano
a Gorka Ostojić Cvajner, che rinuncerà a
sua volta all’incarico nel 1994. Tuttavia, il
1986 regalerà al Festival un altro momento
di splendore grazie all’arrivo a Pola di
Miloš Forman, Oscar per l’indimenticabile
“Amadeus” nel 1985.
Fine del Festival del cinema jugoslavo
Nel 1990 cala il sipario sul Festival del
cinema jugoslavo: l’ultima sua edizione
coronerà vincitore il serbo Bata Čengić con
“Gluvi barut”. Il resto è più o meno storia
dei giorni nostri. Nel 1991 scoppia la guerra
e “salta” un’altra stagione di proiezioni
all’anfiteatro nonostante l’arrivo in città di
John Malkovich per la presentazione di una
retrospettiva in suo onore. Venuto meno
l’apporto cinematografico “jugoslavo”, Ivo
Škrabalo propone di “internazionalizzare” il
Festival con le due sezioni programmatiche
di “Pogled u Europu” (Sguardo all’Europa)
e “Arena hitova” (Un’Arena di successi).
Ma la Croazia è in fiamme e il Consiglio
della rassegna con Antun Vrdoljak in testa
decide di disdire l’appuntamento in segno di
protesta per l’aggressione subita dalle truppe
dell’Armata Popolare Jugoslava.
L’anno seguente il Festival cambia nome e
diventa una rassegna nazionale del film
croato. Con “Priče iz Hrvatske”, Krsto
Papić cerca di ricucire lo strappo e dare
continuità ad una manifestazione senza
capo né coda, ma la cinematografia croata
è troppo povera per alimentare un concorso
| Stipe Gurdulić, Sam Peckinpah, Igor Galo e Davor Antolić, Arena, 1976
degno di questo nome. Il direttore
artistico Škrabalo torna a proporre
soluzioni alternative ipotizzando un
ABC (Alpe-Baltic-Croatia) Festival con
sede a Pola, ma l’idea non attecchisce e
nel ‘93 Škrabalo si dimette. La crisi è al
culmine nel 1994 per il semplice fatto
che non ci sono film da portare in scena.
L’unico lungometraggio di produzione
croata di quell’anno è “Cijena života” (Il
prezzo della vita) di Bogdan Žižić, ma
non basta per fare il Festival, che infatti
salta un turno. In cambio ci saranno
sette proiezioni in ordine sparso senza
comune denominatore, tanto per dare un
po’ di spettacolo al pubblico: una per il
film di Žižić e le altre sei per alcuni tra i
maggiori successi del cinema americano
del momento.
Percavassi. Il primo film europeo che
vince a Pola è “101 Rejkjavik” del
regista islandese Baltasar Vormakur.
Nel 2002 la rassegna mette su casa
al Colle Castello, dentro al Castello
veneziano che è sede del Museo storico,
dove sono di scena i film dell’area
balcanica. Altro giro di boa nel 2003,
in occasione del cinquantesimo: la Città
di Pola decide di fare ordine nel caos
dell’amministrazione della rassegna
e fonda l’ente pubblico Pula Film
Festival. La Selezione europea diventa
la selezione “Music” e porta la firma
di Mike Downey. Jeremy Irons assiste
alla proiezione di “Callas Forever”,
mentre John Malkovich gira uno spot
pubblicitario finalizzato a ripopolare la
rassegna.
Il Festival diventa internazionale
La Comunità degli Italiani sede ufficiale del Festival
A sorpresa nel 1995, si assiste ad
un revival postbellico dell’umile
cinematografia croata ancora
gravemente ossessionata dalla guerra,
dal risveglio nazionale e dal sentimento
del dovere di “servire la patria”. Sei
sono le pellicole in concorrenza ma
poche ispirano autentica ammirazione.
In compenso la direttrice Branka Sömen
porterà a Pola dei mostri sacri del
cinema: Ralph Fiennes, Ben Kingsley e
Philip Noyce.
E veniamo al 2000, l’anno in cui
Branko Čegec subentra ad Antun
Vrdoljak al vertice del Consiglio del
Festival e Armando Debeljuh assume
il ruolo di direttore. Il consenso è
raggiunto, bisogna cambiare direzione.
Il Festival di Pola si aprirà al mondo
e sarò “europeo” a tutti gli effetti.
L’anno successivo si assiste ai film
della Selezione europea a cura di
Dalibor Matanić. Ora c’è anche una
giuria internazionale, composta da
Vinko Brešan, Uli Gaulke e Annamaria
L’anno successivo, la Comunità degli
Italiani di Pola in via Carrara diventerà la
sua sede ufficiale ospitando gli incontri
con la stampa, le presentazioni, le serate
conviviali, i ricevimenti, insomma, gli
appuntamenti di classe che in passato
avevano albergato generalmente
all’hotel “Riviera”. Nessun ripensamento
per quella scelta, né prima né dopo:
Festival e Comunità costituiscono oggi
un binomio da cui non è possibile
prescindere.
Ultimo giro di boa nel 2005 con
strascichi e adeguamenti nei tre anni che
seguono. Assunta la direzione artistica,
Zlatko Vidačković si mette a fare ordine
nel programma che da anni ormai non
ha un concept degno di questo nome.
Il Festival prende a sdoppiarsi e d’ora
in avanti il cartellone viaggerà su due o
tre binari paralleli per trattare il cinema
con la massima serietà e assecondare
la massima parte delle esigenze del
pubblico. Al circolo si assiste al filone
del film europeo d’autore (Europolis-
Meridiani) mentre l’Arena è riservata
ai blockbuster (PoPularni program).
Torna la giuria internazionale presieduta
da Ronald Bergan. Due anni dopo, nel
2007, Zdenka Višković-Vukić assume
le redini dell’ente Pula Film Festival e
porta a Pola Greta Sacchi e Jiři Menzel.
L’anno seguente riaprirà i battenti il
cinema “Valli” (ex Zagreb), ristrutturato
con soldi pubblici (e vale la pena di
ricordarlo visto che per anni Pola era
stata privata del “lusso” di avere una sala
cinematografica). Christopher Lee è in
città per ritirare il premio alla carriera.
Nel 2010, alle selezioni Nazionale
ed Internazionale verrà affiancata la
nuovissima Selezione delle coproduzioni
minoritarie, pensata per dare voce
e riconoscimento ai film girati
generalmente in Slovenia, Serbia o
Bosnia ed Erzegovina con un apporto
artistico o finanziario croato minimo
del dieci per cento. Il Festival si adegua
così alla ritrovata pace e voglia di
cooperazione che ha ultimamente
investito i cineasti e i produttori dell’ex
Jugoslavia.
Pioggia di record negli ultimi cinque anni
Che negli ultimi cinque anni il
“triumvirato” Višković-Vukić, Zlatko
Vidačković e Tanja Miličić (il produttore)
ai vertici della rassegna abbia sortito
alcuni effetti desiderati, lo dimostra la
pioggia di record registrati alla passata
edizione del Festival. Intanto, nel 2012
la rassegna è stata seguita da 78.300
spettatori, cosa che non accadeva dai
tempi dell’ex Federativa, e, in secondo
luogo, il primo film in 3D proiettato
in Arena ha battuto la bellezza di 3
record mondiali: quello del maggior
numero di spettatori ad una proiezione
in 3D (esattamente 5.920), quello
della maggiore distanza tra proiettore
e schermo (73,6 metri) e quello del
maggiore angolo di visuale, pari a 60
metri. Naturalmente ci sono anche pareri
diversi. Non sono pochi gli intellettuali
che negano la continuità della rassegna
in seguito allo strappo del 1991. E non
sono meno coloro che considerano il
festival di oggi ostaggio del monopolio
della distribuzione cinematografica. Da
quest’ottica il film nazionale, ma anche il
film europeo, e in genere il film d’autore,
sarebbero solo degli accessori utili per
giustificare la possente macchina della
pubblicità per l’industria del cinema
americano. Quest’anno – l’anno di un
anniversario, qualunque esso sia – ci sarà
forse l’occasione per discuterne.
(Le foto d’epoca ci sono state gentilmente
concesse dal signor Igor Galo)
6
cinema
martedì, 28 maggio 2013
POLVERE DI STELLE
la Voce
oce
del popolo
di Aldo Paquola
DIECI ANNI FA
MORIVA KATHARINE
HEPBURN, L’ATTRICE
RIBELLE, TESTARDA,
ANTICONFORMISTA
E INFINITAMENTE
AFFASCINANTE
P
resentando le opere di John Ford,
lunedì 6 maggio una TV privata ha
mandato in onda il film “Maria di
Scozia” (Mary of Scotland), protagonista
Katharine Hepburn. Abbiamo così potuto
vedere l’attrice da giovane, in un relitto del
cinema di ieri colmo di intrighi e assassinii
inseriti nel generale grigiore che pervade
un’opera di assai poco conto del noto
regista. Il critico americano Charles Higham
le rinfacciò un’interpretazione “troppo
americana”, accusa che, detto per inciso,
verrà mossa mezzo secolo dopo a Tom
Hulce per il ruolo di Mozart nell’”Amadeus”
di Forman. In un’opera indubbiamente
rigida sotto tutti gli aspetti, l’attrice, già
affermata e premio Oscar, diede prova di
un’energica femminilità permettendo allo
spettatore di cogliere nella serie di primi
piani (peraltro non prevalenti) un profondo
travaglio emotivo. Comunque fosse, qui
si intende assumere “Maria di Scozia”
quale connessione con la popolare attrice
scomparsa nel giugno di dieci anni fa.
Katharine Houghton Hepburn (12 maggio
1907, Hartford, Connecticut – 29 giugno
2003, Old Saybrook, Connecticut) nacque
in una famiglia di agiati intellettuali e
protestanti moderati. Il padre Thomas
Norval Hepburn era un apprezzato urologo,
la madre Katharine Martha Houghton
nota attivista per i diritti delle donne. In
casa i bambini venivano stimolati a parlare
e discutere, a esprimere liberamente la
propria posizione ed anche a polemizzare.
L’indottrinamento fece capolino nella loro
stanza? I biografi sostengono che si trattò
di un’educazione adeguata e molto liberale
che la modellò sia come donna che come
attrice. Nel 1928 si laureò in storia e filosofia
al Byrn Mawr College, lo stesso anno debuttò
a Broadway e sposò l’uomo d’affari Ludlow
Ogden Smith.
I primi passi: una catastrofe
L’approccio alla recitazione era avvenuto al
Byrn Mawr, ma i primi passi a Broadway
furono segnati da parecchi inciampi, intesi
non solo alla lettera. Dimenticava le battute,
affondava i testi in una scoraggiante dizione,
si muoveva in maniera catastrofica, tanto da
venir licenziata. Rimase comunque in scena
in sostituzione di un’altra attrice. Nel 1932
ebbe il ruolo di Antiope, principessa delle
amazzoni in “The Warrior’s Husband“. Fu
un successo. Acquisì critiche di prim’ordine
e si creò un’ampia fama. Era un biglietto
d’accesso privilegiato per Hollywood.
Firmato il contratto con la RKO, prese
parte al film “Febbre di vivere” (A Bill of
Divorcement) di George Cukor con cui
formerà un saldo sodalizio professionale.
L’anno dopo, nel 1933, ottiene il primo
Oscar per “La gloria del mattino” e recita in
contemporanea nelle sue “Piccole donne”,
con un record d’incassi.
Soffermiamoci ora sulla prima delle due
etichette, ambedue false, espressione
di pregiudizi campati in aria, che
l’accompagneranno tutta la vita. Spinti
dall’ingordigia del guadagno, i produttori
le affibbiarono il nomignolo “veleno
del botteghino” in quanto la vedevano
come la gallina dalle uova d’oro, poiché
altrimenti sarebbe stata nient’altro che un
investimento sbagliato. I suoi film potevano
sia rivelarsi un flop finanziario sia fruttare
incassi da capogiro, per cui quel “veleno del
botteghino” era falso (o solo in parte valido)
quanto ingiusto. Ogni incasso altro non è
che un dato statistico, sia che provenga dalla
vendita di grano, petrolio o da una sala
cinematografica... Si tratta della stessa cosa
che nulla dice sulle intrinseche qualità umane
e il vero filmofilo non s’interessa di quanto
abbia incassato la pellicola.
Icona femminista?
Anche l’etichetta “icona femminista” non
rende giusto merito alla Hepburn. Era una
ribelle, pronta di lingua, arrogante e testarda.
Rifiutava gli autografi, ignorava i media
e trattava con grossolanità i giornalisti. Si
vestiva alla buona e di raro ricorreva ai
cosmetici. Per questo sarebbe stata un’icona?
Era attaccata al denaro. Non sostengo che
una femminista debba essere povera, però...
Alla firma del contratto con la RKO per
“Febbre di vivere” (A Bill of Divorcement)
chiese e ottenne 1500 dollari la settimana.
Era in grado di usare gli uomini con criteri
tutt’altro che femministi. Trionfò a Broadway
con “Scandalo a Filadelfia” (The Philadelphia
story) e poi, con il sostegno dell’ex amante
Howard Hughes, ne acquistò i diritti che
vendette alla MGM. Quale regista scelse
INTERPRETE
DI SOTTILE SENSIBILITÀ
E TEMPERAMENTO VULCANICO
George Cukor, quali interpreti principali
Cary Grant e James Stewart. Mossa davvero
molto femminista. Anticonvenzionale e
anticonformista, nel contempo traeva da
Hollywood una marea di utili e privilegi.
“Scandalo a Filadelfia” costituì nel 1940 un
grosso successo cinematografico.
Soffermiamoci ora un po’ sui suoi Oscar
che, dopo il riconoscimento per “La gloria
del mattino”, mancarono per decenni. Il
secondo arrivò nel 1967 per “Indovina chi
viene a cena” interpretato nel 1967 con
uno Spencer Tracy - da tempo suo amante e
partner professionale - visibilmente provato
nella salute. Firmato da Stanley Kramer, è
un mediocre melodramma con messaggi
moralizzatori sulla tolleranza razziale. Lei
stessa disse che con quell’assegnazione si
era voluto rendere omaggio a Tracy con cui
girò complessivamente nove pellicole, fra cui
vanno evidenziate “La costola di Adamo” e
“Lui e lei” (Pat and Mike), firmate ambedue
da George Cukor. In quello stesso anno però
fu ingiustamente privata dell’Oscar Anne
Bancroft, indimenticabile signora Robinson
nel cult movie “Il laureato”. Il premio
sarebbe potuto andare anche ad Audrey
Hepburn (nessuna parentela con Katharine)
per il ruolo della donna cieca indotta da
una minaccia criminale a vivere nella
claustrofobia della propria casa in “Gli occhi
della notte”.
Gli Oscar
Segue un’accelerazione degli Oscar alla
Hepburn, che si guadagna la terza statuetta
nel 1968 per Eleanor, la moglie di Enrico II
il Plantageneto nello spettacolo storico “Il
leone d’inverno”. Quell’anno, fatto senza
precedenti, furono assegnati due Oscar a
protagoniste femminili. Il fronte dei giurati
dell’Academy si spaccò, una metà dei 3.030
voti andò alla Hepburn, l’altra ad una
giovane Barbra Streisand interprete del
recital “Funny girl”. L’ultimo Oscar arrivò
nel 1981 con “Il lago dorato”, per il ruolo
della paziente, cordiale e saggia moglie di
un uomo iroso e intrattabile, interpretato
da un Henry Fonda pure già gravemente
malato che, dopo essersi a lungo rifiutato,
si concilia con la figlia, e dato che questo
ruolo venne affidato a Jane Fonda, si trattò
anche di una riconciliazione reale fra i due.
Il cottage in cui si svolge l’azione diventò
davvero la casetta fiorita, ideale per una
sentimentalistica riconciliazione familiare.
Privato e pubblico si intrecciarono in
maniera irritante ed il nuovo vincitore fu di
nuovo Hollywood.
Impersonale e bruttino nell’aspetto, l’Oscar
ha un incontestabile significato sociale e
culturale, peraltro ipotecato e in odore di
sospetto per la lunga serie di assegnazioni
sbagliate. La Hepburn ne ha meritato
quattro. Per “Scandalo a Filadelfia” e “La
regina d’Africa”, quale indimenticabile
zitella missionaria nei pungenti duelli con
un alcolizzato Humphrey Bogart; lo ha
meritato pure per “Il diavolo è femmina”,
eppure il brillante ruolo di Sylvia Scarlett
non le ha procurato neppure la nomination.
Parecchi gli errori dunque, anche se
l’equilibrio finale non ne ha sofferto, e
questa è la sola cosa di cui Hollywood tiene
conto. Molti dicono che Spencer Tracy fu
il suo partner ideale sul set. Rispettando
per inerzia il vecchio slogan dell’attrazione
degli opposti, si dirà che dando prova
di semplicità, saggezza, fiducia ed una
certa mascolinità irlandese nei ruoli
che gli venivano affidati, Tracy parava
adeguatamente la mordace loquacità e la
sofisticata femminilità della donna.
Intesa straordinaria con Cary Grant
Al loro comune attivo vi sono indubbiamente
taluni buoni film, ai quali tuttavia anteporrei
sempre quelli da lei girati assieme a Cary
Grant. “Incantesimo” (Holiday), “Il diavolo
è femmina” e “Scandalo a Filadelfia” diretti
da George Cukor (tolti i film di questi,
l’opera della Hepburn sarebbe molto più
ridotta e impoverita), a cui va aggiunta la
nota commedia “Susanna” (Bringing up
Baby) di Howard Hawks, costituiscono la
testimonianza permanente della sua bravura
e dell’impressionante complementarietà fra
la coppia d’attori. Qui vale il principio che
il simile attrae il simile. Anche Cary Grant
infatti era, al pari della Hepburn, ricco di
una mobilità verbale e fisica, tanto da venir
definito acrobata da salotto. Nonostante le
opposte diversità, i due sono stati una coppia
d’attori d’impressionante affiatamento.
Il film “The aviator” di Martin Scorsese
s’incentra sulla figura del miliardario e
avventuriero Howard Hughes, compreso,
anche se privo di un maggior peso
nell’economia della pellicola, il suo legame
con la Hepburn interpretata da Cate
Blanchett che ebbe l’Oscar per il ruolo.
Fin qui nulla da contestare. L’uomo
però viene presentato con un’untuosa
condiscendenza che arriva al limite della
glorificazione, assolutamente non meritate
da quel grande egocentrico, senza scrupoli,
arrogante e persistente sessista qual era.
La scena in cui Katharine porta Hughes
(Leonardo DiCaprio) nella casa dei suoi
genitori non fa assolutamente onore a
Scorsese. Ne nasce infatti un colloquio
pseudointellettuale, artificioso, al limite
della posa, in cui il povero Hughes non può
neanche respirare liberamente per cui si è
portati ad identificarsi con lui, avvilito, senza
protezione, esposto al dileggio della famiglia
Hepburn. Questo è un procedere improntato
a meschinità e sfacciataggine. A leggere
taluni romanzi di James Ellroy si arriva a
una visione ben diversa della sua figura,
molto più vicina al vero Hughes di quello
tratteggiato da Scorsese. Nel periodo in cui
fu legata a lui, Katharine era nella miglior
forma artistica. Oltre a recitare in alcune fra
le commedie già citate, in “Palcoscenico”
(Stage door, 1937) di Gregory La Cava,
contrastò in forma artisticamente smagliante
una bionda Ginger Rogers, personificazione
di una donna facente capo a uno strato
sociale più basso. Esprimere un concetto
definitivo sulla Hepburn è impossibile perché
essa sfugge a ogni scritta lapidaria. Di due
sole cose possiamo essere assolutamente
certi: che è arrivata alla davvero veneranda
età di 96 anni e che è stata attrice di
straordinario talento e sottile sensibilità. E di
simili oggi ce ne sono ben poche.
cinema
la Voce
oce
del popolo
BLOCK NOTES 1963
martedì, 28 maggio 2013
7
di Francesco Cenetiempo
“LE MANI SULLA CITTÀ” DI FRANCESCO ROSI, PREMIATO
CON IL LEONE D’ORO A VENEZIA CINQUANT’ANNI FA
ILFILMCOME
DENUNCIAE
TESTIMONIANZA
DIREALTÀ
L’
Italia del 1963 presentava uno
scenario di sviluppo economico
mutato e teso a stabilizzarsi dopo
una folle ed euforica corsa sotto la bandiera
del “miracolo economico”. Il suo governo,
come del resto gran parte dell’industria
nazionale, assapora le prime difficoltà legate
al modello di sviluppo in chiave capitalista.
Ormai risulta chiaro che il “miracolo” è stato
per i grandi gruppi imprenditoriali e che
poco è stato fatto per il benessere generale
del Paese. Manca una programmazione
economica articolata, proliferano gli enti e le
industrie pubbliche e in barba al buon senso
si applicano inopportune teorie di liberalismo
economico a settori che non ne necessitano.
La speculazione mascherata in sviluppo
comincia a tentacolare il tessuto sociale
italiano mediante la corruzione sistematica.
Le proteste dei lavoratori delle fabbriche,
che lamentano una scarsa attenzione per
i loro contratti di categoria, cominciano
a farsi sentire. Spiazza tutti, credenti e
non, l’annuncio di Papa Giovanni XXIII
dell’enciclica “Pacem in terris” che presenta
la Chiesa come “Popolo di Dio” e non più
come un lontano e inafferrabile santuario.
Rivela una grande attualità e una notevole
sensibilità sull’ascesa e sui diritti universali
delle classi lavoratrici, dei mutamenti della
condizione femminile e il convincimento che
i conflitti tra gli Stati devono essere risolti con
la collaborazione reciproca e non con le armi.
I cineasti registrano la realtà
In questo disordinato scenario di inizio anni
Sessanta anche l’arte gioca la sua carta:
scrittori e cineasti si situano in prima fila nel
raccogliere e registrare ogni cambiamento
e denunciare le brutture che si profilano
all’orizzonte. Una delle speculazioni, forse
la più redditizia per il momento, è quella
che interessa l’edilizia civile. Un mare
di cemento invade la penisola e le sue
coste, i piani e le autorizzazioni piovono
senza grandi formalità, nel nome di un
ipotetico progresso si chiudono gli occhi
sull’aspetto legale e ambientale di queste
opere. Questa è l’ambientazione del film di
Francesco Rosi “Le mani sulla città“ (Italia,
1963), la cui sceneggiatura porta la firma
dello stesso regista, di Raffaele La Capria,
Enzo Provenzale ed Enzo Forcella. Nel
cast gli attori Rod Steiger, Salvo Randone,
Guido Alberti, Angelo d’Alessandro, Carlo
Fermariello e Marcello Cannavale. Il
film, che fu premiato con il Leone d’oro
a Venezia nel 1963, riproduce il clima di
quegli anni, i conflitti tra una classe politica,
irrimediabilmente compromessa con il potere
economico, i cui interessi sono in contrasto
con il bene pubblico, e l’opposizione,
animata da passione politica e civile, la quale
denuncia, senza mezzi termini, i crimini
compiuti ai danni della collettività. La trama
è arcinota come lo è l’ultima scena del film
che non lascia spazi ad interpretazioni:
“I personaggi e i fatti sono immaginari,
autentica è invece la realtà che li produce”.
Politica corrotta a favore del profitto
Il film di Rosi ci catapulta nella Napoli
della fine degli anni ‘50 descrivendo,
sullo sfondo di una città da ricostruire, le
vicende immaginarie ma verosimili di un
consigliere comunale di fede comunista (De
Vita) e di un cinico e ipocrita imprenditore
edile (Nottola), in lizza per diventare
assessore e smanioso di grandi speculazioni.
In un degradato quartiere di Napoli,
un palazzo crolla a causa dei lavori di
demolizione ad esso adiacenti, causando
morti e feriti. Responsabile del disastro,
l’imprenditore edile Edoardo Nottola viene
coinvolto in un’inchiesta da cui esce senza
ripercussioni giudiziarie, ma inevitabilmente
compromesso agli occhi del partito di Destra
per cui è consigliere comunale. I compagni
lo abbandonano e il suo nome alle elezioni
viene ritirato, ma Nottola, inflessibile e
protervo, attinge ad ogni risorsa del suo
potere e, spalleggiato da alcuni consiglieri
corrotti, diviene il primo candidato nel
gruppo di Centro. Solo l’opposizione di
Sinistra sembra decisa a contrastare la
prepotente ascesa del costruttore: a guidarla
è il consigliere De Vita che, dopo meticolose
indagini, porta alla luce il coinvolgimento di
Nottola e dei suoi seguaci nella conquista di
un appalto su cui poggiano cospicui interessi
economici e politici.
Nel frattempo, il quartiere afflitto dal recente
disastro, subisce un’ordinanza di sfratto che
provoca la sommossa dei suoi occupanti,
sfociando in duri scontri con le forze di
polizia. Nonostante il malcontento popolare,
i disordini dovuti al rovesciamento della
maggioranza e la tenace resistenza dei suoi
oppositori, Nottola otterrà comunque la
carica di assessore all’edilizia, provocando
profonde incrinature anche nel suo partito.
Questo, con i suoi rappresentanti più
implicati, tornerà infine ad appoggiarlo per
puro interesse.
Chi è il protagonista?
Ma qual è la chiave interpretativa del film
di Francesco Rosi? Qualcuno sostiene,
e a ragione, che il vero protagonista del
film non sia, come si può facilmente
prevedere, un personaggio, bensì il Piano
Regolatore Generale, ovvero uno strumento
squisitamente urbanistico! Un protagonista
muto e poco vistoso, ma che è presente
nell’intera struttura della narrazione. Il film,
ben oltre la cronaca e le vicende politiche,
mostra l’essenza della pianificazione
urbanistica pubblica a vantaggio di
quella privata sostenuta da potenti lobby
affaristiche. Una per tutte la scena che
precede i titoli di testa e che si apre su di
un luogo desolato e squallido. Non è né
campagna, né città e una massiccia cortina
di palazzine, di recente costruzione, chiude
l’orizzonte. Sono i lembi di una periferia
urbana inquietante e minacciosa, che sembra
abbia fretta di crescere. Il luogo è animato
solo da alcuni individui. E proprio qui il
regista mette in scena un breve dialogo che è
la chiave di volta di tutto il film. La scena è la
prima (“La strategia speculativa”): Nottola “Lo so che la città sta là e da quella parte sta
andando perché il Piano Regolatore così ha
stabilito. Ma è proprio per questo che noi da
là la dobbiamo fare arrivare qua!” Voce fuori
campo: “E ti pare una cosa facile?!” Altra
voce fuori campo: “Eh!… Cambiamo il Piano
Regolatore!”. Nottola: - “Non c’è bisogno.
La città va in là? E questa è zona agricola!
E quanto la puoi pagare oggi… trecento,
cinquecento, mille lire a metro quadrato?
Ma domani, questa terra, questo stesso
metro quadrato, ne può valere sessanta…
settantamila… e pure di più! Tutto dipende
da voi! Il cinquemila percento di profitto!
Eccolo là! Quello è l’oro oggi! E chi te lo dà: il
commercio, l’industria, l’avvenire industriale
del mezzogiorno?! Sì!… Investi i tuoi soldi
in una fabbrica: sindacati, rivendicazioni,
scioperi, cassa malattia!… Ti fanno venire
l’infarto co’ sti’ cose! E invece, niente affanni
e niente preoccupazioni. Tutto guadagno e
nessun rischio. Noi dobbiamo fare solo in
modo che il Comune porti qua le strade, le
fogne, l’acqua, il gas, la luce e il telefono”. Più
chiaro di così! Altro discorso centrale della
narrazione filmica, quasi a rappresentarne il
nucleo, è quello tra l’imprenditore Nottola e
l’oppositore De Vita. Come abbiamo visto, i
lavori di costruzione di un palazzo di Nottola
provocano il crollo di un vecchio edificio
adiacente. Ci sono dei morti e numerosi feriti
e la polemica è alle stelle.
Imprenditore fuori legge
Con il pretesto della sicurezza, il Sindaco
ordina lo sgombero delle altre case
circostanti la zona del crollo e in sostanza
da via libera a Nottola per poter proseguire
la sostituzione dei vecchi edifici con i suoi
nuovi palazzi. Quest’ultimo invita il suo
acerrimo nemico De Vita a visionare la sua
opera di costruttore. Nottola: “E allora, voi
mi dovete dire perché non è meglio che
quella roba si leva da mezzo per fare tanti
palazzi come questo qua… Un’altra cosa
De Vita. Perché prendete questa posizione
contro di me?… Fate per confondere le idee
alla gente per la vostra politica?” De Vita: -
“Voglio solo fargli capire chi siete voi e quelli
come voi!” Nottola: “Chi sono io?! Io sono
uno che rischia il suo tempo, la sua fatica per
fare sparire queste catapecchie fetenti!” De
Vita:- “Non è vero niente! I fatti sono altri.
Voi siete un fuori legge! La legge stabilisce
un Piano Regolatore, e voi ve ne infischiate!
La legge stabilisce che non bisogna fare
danno alla gente, e voi gli togliete le case,
gli togliete il lavoro, e non vi importa niente
di dove vanno a finire! Perché certo… non
vanno a finire in case come queste.” Nottola:
“Io non sono un benefattore!” De Vita: “E
chi lo pretende! Ma voi non vi fermate
davanti a niente! Ci sono stati dei morti per
il crollo, un bambino ha perso le gambe, e
voi niente! E tutto questo solo per riempire
di soldi le vostre tasche! Questi sono i
vostri sistemi. E contro questi sistemi io
combatto. Non contro i palazzi! A me basta
che i palazzi siano costruiti dove e come
vuole la legge e non dove e come volete
voi”. L’epilogo è scontato: l’inchiesta finisce
nel nulla e Nottola riuscirà a farsi eleggere
assessore continuando così lo scempio del
territorio. Nel 1992, trent’anni dopo “Le
mani sulla città”, Rosi si cimenta con “Diario
napoletano”, che considera un prosieguo del
primo: “Sono tornato a Napoli. Un dibattito
sul film alla Facoltà di Architettura mi diede
occasione di rivisitare la mia città sfigurata
dalla speculazione edilizia, violentata dalla
malavita infiltratasi in tutti i centri di potere
politici e amministrativi [...] Se ‘Le mani
sulla città’ iniziava con un crollo, ‘Diario
napoletano’ termina con la ricomposizione
di quel crollo, un sogno che è speranza e
invito a non deporre le armi e a combattere.
Se l’Italia si arrende a Napoli si arrende
dovunque, dicevo nel film. [...] Un film è
il risultato di un lavoro di collaborazione e
della passione con la quale ognuno è capace
di vivere la grande avventura della creatività.
Il cinema responsabile
Ma un film è anche un fatto responsabile. Ed
è un atto responsabile soprattutto quando
chi lo fa, riesce a non tenere separato il suo
ruolo di artefice dell’opera dall’uomo che
egli è, dal proprio coinvolgimento morale.
Con i miei film ho cercato più che altro di
capire il mio Paese e di raccontarlo attraverso
uno strumento, il cinema, che tra i mezzi
di comunicazione e di conoscenza è quello
che ci consente, davanti alle ombre che sullo
schermo diventano vita, di riconoscere le
nostre speranze, le sconfitte e le vittorie. [...]
Ho sempre creduto nella funzione del cinema
come denuncia e come testimonianza di
realtà, e come racconto di storie attraverso le
quali i figli possano conoscere meglio i padri
e trarne insegnamento per un giudizio di cui
la Storia costituisce il riferimento”.
8
martedì, 28 maggio 2013
RECENSIONE
cinema
la Voce
oce
del popolo
di Ana Varšava
“LA SCELTA DI BARBARA”
DI CHRISTIAN PETZOLD
SUL CONFLITTO
DELL’INDIVIDUO CON IL
POTERE TOTALITARIO
IL BISOGNO DI LIBERTÀ
IN UN FILM DI RARA BELLEZZA
L
a dignità umana, il bisogno di
libertà e l’importanza dei valori
umani e dell’individualismo. Ne
parla il film “La Scelta di Barbara“ di
Christian Petzold, un film tedesco di rara
bellezza che con grande maestria ed
eleganza riesce a raccontare ed esprimere
attraverso sottili accenni anche ciò che
non è stato detto esplicitamente.
La problematica del film è assai complessa e
tratta il conflitto dell’individuo con il potere
totalitario. Nel contesto storico, sociale e
politico della Germania dell’Est nell’anno
1980, nove anni prima della caduta del
Muro di Berlino, il film si concentra sui
dilemmi personali della protagonista
Barbara, che lavora come pediatra
nell’ospedale Charité a Berlino Est. Barbara
viene costretta a lasciare il posto a Berlino
e incominciare a lavorare in un piccolo
ospedale di campagna come punizione per
aver chiesto il visto che le permetterebbe
di raggiungere il suo amante all’Occidente.
La protagonista diventa oggetto di continui
controlli sia nell’ambito di lavoro che
nella vita privata. La narrazione procede
gradualmente ed è un dramma lento nel
quale a piano a piano si rivela la sua vita
interiore e il suo passato.
“Non entrerà nemmeno un secondo in
la Voce
del popolo
Anno 1 /n. 3 / martedì, 28 maggio 2013
IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina
[email protected]
Edizione
Progetto editoriale
Caporedattore responsabile
Errol Superina
Redattore esecutivo
Helena Labus Bačić
Impaginazione
Denis Host-Silvani
CINEMA
Silvio Forza
Collaboratori
Francesco Cenetiempo, Daria Deghenghi, Aldo Paquola, Marin Rogić,
Dragan Rubeša, Ana Varšava
Foto
Goran Žiković
anticipo. È fatta così.“ “Com’è Barbara?“
“Se avesse sei anni, avresti detto che
era imbronciata.“... “Da quando è stata
incarcerata, il suo gruppo di amici è andato
distrutto”.
È questo il discorso che apre il film mentre
due uomini, André Reiser e il funzionario
della Stasi (agente della polizia segreta),
osservano Barbara seduta nel parco a
fumare una sigaretta. È un momento
significativo. È appena scesa dalla
corriera ed è già sorvegliata dalla finestra
dell’ospedale. Cosa di cui lei è consapevole.
André è il suo superiore all’ospedale nel
quale è stata trasferita. Fin dall’inizio
seguiamo l’isolamento di Barbara, che
non si fida di nessuno, dai suoi colleghi,
mentre invece la fiducia nei collaboratori è
essenziale nell’ambiente in cui lavora. Il che
è a sua volta in contraddizione con i principi
dello stato totalitario.
I conflitti interiori del personaggio
In un primo momento, Barbara sembra
lontana, ma gradualmente ci avviciniamo
al personaggio, iniziamo a conoscere i suoi
conflitti interiori e vediamo come cresce la
sua fiducia in André, l’uomo del quale si
innamora. Barbara è confusa e insicura nei
suoi confronti e non sa come accogliere i
suoi sorrisi. Ma André si rivela una persona
cordiale e umana.
La tensione è un elemento importante
nel film ed è rappresentata con molta
precisione. La paura si rispecchia negli occhi
di Barbara. Si volta continuamente indietro
mentre sta tornando a casa in bicicletta.
Soffia il vento e il cielo diventa buio come
prima di un temporale. I suoi sguardi sono
sempre pieni di paura. Mentre suona il
pianoforte, ci aspettiamo che il crescendo
venga interrotto dal bussare alla porta. Il
suo sguardo impaurito rivela la tensione
interiore che sente in quasi tutti i contatti
sociali. Non appena sente il rumore di una
macchina che si ferma nella sua via, si
avvicina alla finestra per dare un’occhiata
piena di sospetto.
Le tendenze degenerative di un regime
totalitario si rivelano nel sospetto, nella
sorveglianza, nel controllo e nella paura.
È questo il mondo di Barbara, che vive in
silenzio e in tal modo riflette l’alienazione
e la solitudine dell’essere umano. Il che è in
contrasto con il luogo in cui viene trasferita:
in campagna, in natura, tra i colori caldi,
così diversi dall’umore dei personaggi, che
rivelano a loro volta il buio di un sistema in
collasso.
Il film rispecchia la realtà del mondo
totalitario della Repubblica Democratica
Tedesca, ma non è politicamente impegnato
in modo esplicito.
Thriller psicologico
È essenzialmente un thriller psicologico
che si propone di indagare sulla condizione
dell’individuo in una società repressiva. La
tragedia di intere generazioni non viene
raccontata o analizzata indagando sui fatti
storici ma viene presentata tramite gli stati
d’animo dei personaggi, suggeriti attraverso
atmosfere e particolari che si susseguono tra
dialoghi significativi e intense interpretazioni
degli attori. In questo contesto si distingue in
modo particolare l’attrice tedesca Nina Hoss
nel ruolo di Barbara.
È un film intelligente e raffinato, pieno di
momenti silenziosi e di sguardi, preciso
nei dettagli e impregnato di tensione, che
richiama la poetica di Hitchcock. Un thriller
sottile e sofisticato, nel quale la suspense
è ottenuta con l’utilizzo dei suoni e con il
montaggio.
Non manca nemmeno la “bionda fredda
e distaccata” che fugge dalla legge. Nina
Hoss è la musa di Petzold. Un’attrice
che ricorda Grace Kelly, una delle muse
ispiratrici di Hitchcock: intelligente, raffinata
e di una femminilità gelida. L’elemento
più caratteristico dei film di Hitchcock, il
colpo di scena, è presente anche nel film di
Petzold, che si chiude in maniera piuttosto
melodrammatica.
Barbara sta pianificando, con l’aiuto del
suo ricco amante, la fuga verso l’Occidente
attraversando il Mar Baltico. Il film è pieno
di citazioni. Uno di questi è “Acque del Sud“
di Howard Hawks. Una storia di amanti
consapevoli del fatto di essere spiati dalla
polizia segreta. Un altro cenno è il fatto che
Barbara si decide di leggere “Le avventure
di Huckleberry Finn“ di Mark Twain alla
paziente di nome Stella, arrivata all’ospedale
dal campo di lavoro Torgau. La protagonista
si prende personalmente cura della donna,
anche perché Stella è incinta e sogna di
allevare suo figlio altrove. “La scelta di
Barbara” è un eco del racconto di Mark
Twain, nel quale il personaggio principale
di Huck, un reietto sempre in conflitto con
le norme sociali, decide di aiutare lo schiavo
Jim che sta per essere venduto e in tal modo
separato dalla propria famiglia. Huck e
Jim pianificano la fuga lungo il fiume, per
giungere negli Stati liberi dove la schiavitù
è abolita.
Infine, Barbara aiuterà Stella a fuggire verso
l’Occidente, mentre la sua - questa volta
libera - scelta sarà di rimanere con André.
“La scelta di Barbara” ha vinto l’Orso
d’Argento per la migliore regia al 62.esimo
Festival di Berlino e il premio dei lettori del
“Berliner Morgenpost“. Ha pure ottenuto
due nominations al Premio cinematografico
europeo per il miglior film e la migliore
attrice protagonista, nonché selezionato
come candidato tedesco all’Oscar per il
miglior film straniero.
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