Premessa
Questo non è un manuale su come vincere
la depressione. È la storia di un’esperienza depressiva vissuta in prima persona. Il vero scopo
del libro è un atto di denuncia. Alcune persone
che l’hanno letto hanno pensato che ho scritto
per rimuovere certi ricordi di incubo, ma non è
assolutamente così. Il libro non l’ho scritto a scopo terapeutico, per aiutare me stessa. Questo libro è stato scritto soprattutto per aiutare gli altri.
Per le persone sole, che non hanno nessuno che
va a trovarle in ospedale, per chi subisce delle
ingiustizie e per vari motivi non va a denunciarle al tribunale del malato, per chi si vergogna
della propria malattia.
E infine, c’è la speranza che gli ospedali psichiatrici migliorino, che non siano più squallidi
luoghi di reclusione dove il malato viene segnato in modo indelebile.
Una volta ho letto un articolo in cui era scritto
che la follia è un male contagioso. Credo sia vero.
Provate, per assurdo, a mettere una persona
perfettamente equilibrata in un reparto psichiatrico per un mese. Quando uscirà, non sarà più
come prima.
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Ad Anita
Camera soffocante, desolata,
falsamente consolatrice.
Tra le tue pareti,
poveramente intonacate di celeste,
l’illusione del cielo.
Raggi solari attraverso una finestra
ermeticamente chiusa,
dove il mondo esterno ha il divieto d’accesso.
Rumori lontani.
Sdraiata sul letto vedo il cielo.
Tra noi, una barriera di vetro e polvere.
Il colore dello spazio si riflette
nei miei occhi indifferenti.
Conto le nuvole,
che si disfano come matasse di cotone,
assumendo forme irreali e fantastiche,
che fanno illudere i reclusi,
di far parte di esse.
Grappoli d’aria evanescente...
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Si dice che nessuno si alza la mattina decidendo di fare qualcosa. Eppure, per quanto strano possa sembrare, a me è successo. Un giorno,
all’improvviso, ho sentito il bisogno di scrivere
la mia esperienza, di mettere su carta il periodo
più buio della mia vita. Ho cominciato subito ad
annotare i miei ricordi, non è stato facile ripercorrere certe vicende, ma mi è sembrato quasi
doveroso farlo, penso che certe cose vadano denunciate, non subite.
Credo che a volte la sofferenza possa essere
vista come un dono, da condividere con altri.
Mentre scrivevo ho avuto i miei dubbi. Mettersi
a nudo fa paura, e quello che ho scritto non è
crudele, ed è molto personale.
Ho scritto quello che ho vissuto. Questo libro
lo dedico a mia madre, e a tutti coloro che mi
hanno aiutato.
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I
Questa è la storia di una malattia, di un percorso doloroso sia fisicamente che moralmente.
La malattia di cui parlo è la depressione, non so
quand’abbia avuto inizio. Credo che le origini
del mio male oscuro risalgono alla primissima
infanzia, a un periodo che ricordo vagamente,
già velato da una luce sinistra. Credo che la depressione, almeno nel mio caso, sia soprattutto
un fattore genetico. Alcune persone della mia
famiglia, sia paterna che materna, ne hanno sofferto e ci sono stati casi di suicidio. I fortunati, che non sanno cosa sia, dicono spesso: “che
motivo hai di essere depresso? Non ti manca
nulla”. È come chiedere a un malato di cancro:
“che diritto hai di essere malato?”. Una volta
ho sentito una persona che affermava che la depressione colpisce solo le classi sociali privilegiate. I poveri che devono guadagnarsi da vivere non hanno tempo per essere depressi; posso
dire che non è cosi. Negli ultimi anni sono stata
ricoverata diverse volte negli ospedali psichiatrici, e ho visto persone di tutte le età e di tutti i
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Almorina Festa
ceti sociali, dai più ricchi ai più poveri. La malattia non fa distinzione quando deve colpire, e
la depressione è una vera malattia.
I depressi non devono essere confusi con i
pessimisti, i lamentosi, le persone che si piangono addosso. Per anni mi sono sentita in colpa di soffrire di questo male. Questa malattia
dell’animo, a differenza di quelle fisiche, non
si vede, non è tangibile, può essere nascosta,
simulata. C’è ancora molta superficialità e ignoranza intorno a questo male. Molte persone ancora pensano che chi si rivolge a uno psichiatra
è pazzo. Pazzo significa essere incapace d’intendere e di volere, mentre il depresso può essere
in pieno possesso delle proprie facoltà mentali.
C’è anche chi pensa che la depressione si può risolvere avendo degli interessi, distraendosi, o facendo del volontariato, per vedere chi soffre veramente. Tutto questo può aiutare ma non guarire. Bisogna anche distinguere tra la depressione
momentanea dovuta a cause esterne, e quella
cronica, che può cominciare con l’infanzia, e
dalla quale è più difficile uscire. In genere la depressione si manifesta con senso di oppressione, malinconia, abulia, senso di vuoto e inutilità. Può anche manifestarsi con ansia, angoscia,
inquietudine, insonnia e problemi alimentari. Ci
sono periodi in cui il disagio aumenta, e di solito questo coincide con il cambio delle stagioni:
l’arrivo della primavera, l’inizio dell’autunno,
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Viaggio nella depressione
quando cominciano a cadere le foglie e la luce
diminuisce.
La prima volta che ho desiderato morire avevo
dieci anni. Vivevo in montagna. Scappai di casa
per un paio d’ore e andai a rifugiarmi in una casa
semi distrutta da un incendio. Volevo rimanere lì
a lasciarmi morire di freddo e di fame.
Ho cominciato ad avvertire i primi sintomi
di malessere verso i tredici anni. A sedici ho cominciato a soffrire di insonnia cronica, a diciotto, per la prima e non ultima volta, ho attentato
alla mia vita. In realtà, non volevo morire ma
solo chiedere aiuto. Volevo che le persone intorno a me si accorgessero della mia sofferenza.
Un pomeriggio, dopo aver ingoiato un tubetto
di sonniferi, telefonai alla mia migliore amica
e le dissi che stavo morendo. Lei chiamò subito
l’ambulanza. Persi conoscenza subito dopo la
telefonata e la ripresi prima di venire sottoposta alla lavanda gastrica. Ricordo un’infermiera
che mi chiese se volevo veramente morire. Restai tutta la notte stesa su una barella, nel corridoio. Provavo una sensazione di benessere, perché, essendo stordita, quel dolore lacerante era
scomparso e tutto mi sembrava lontano, irreale.
Nel giro di quindici giorni, la mia amica più
cara, colei che mi aveva soccorsa, si allontanò
da me completamente. Quando si sta male, le
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Almorina Festa
persone spesso prendono le distanze. Ci si difende spontaneamente da tutto ciò che è negativo. È una legge di sopravvivenza. Ma non è da
questo punto che voglio cominciare a scrivere
la mia storia. Comincerò dal periodo in cui mi
sono ammalata fisicamente.
A ventotto anni mi accorsi di avere un minuscolo nodulo sotto il mento. Era come un nocciolo di ciliegia, sia per la dimensione che per la
consistenza. Provai una stretta al cuore e pensai subito che si trattasse di un tumore. Per tre
giorni non pensai ad altro. Vedevo le cose in
modo diverso, sotto un’altra ottica. Ero convinta
che avrei avuto poco da vivere. Cominciò così
un periodo di analisi e visite mediche. Le analisi risultarono negative, a detta dei medici che
consultai non avevo niente, ma nessuno mi fece
una diagnosi e intanto il nodulo continuava a ingrandirsi. Essendo stata tranquillizzata dall’esito degli esami e dal parere dei medici, al tumore
non pensavo più. Era diventato per me solo un
problema estetico, perché il nodulo aumentava
di volume e si notava. Mi venne dato il nominativo di un chirurgo maxillo facciale. Ci andai.
Lui e un suo collega mi bucarono varie volte
il mento con una siringa, per vedere se usciva
della materia da analizzare in seguito, ma non
usciva nulla. Venni operata. Un intervento in
day hospital in anestesia locale. L’esame isto16
Viaggio nella depressione
logico non chiarì la situazione. C’era scritto che
si trattava di alcune ghiandole che si erano infiammate a causa di un virus, non specificato.
Feci altre analisi ma tutto continuava a rientrare
nella norma. Dopo circa tre mesi dall’intervento
mi resi conto che il nodulo si stava riformando.
Mi venne dato il nominativo di un infettivologo che aveva la fama di essere un luminare. Ci
andai e mi sentii trattare come un’ipocondriaca. Il luminare disse che dovevo fregarmene
(testuali parole), che date le piccole dimensioni del nodulo non poteva essere nulla di grave. Ma il nodulo aumentava e insieme a esso
aumentava l’ansia. Sentivo che c’era qualcosa
che non andava, ma non sapevo più che cosa
fare e a chi rivolgermi. Continuavo a fare visite
mediche a vuoto. Vivevo nell’incertezza. Non
mi sentivo male fisicamente, a parte una gran
stanchezza. A volte avevo qualche linea di febbre, ma essendo inverno pensavo si trattasse di
una leggera influenza. Ero molto magra. Il nocciolo di ciliegia nel frattempo era diventato un
nocciolo di pesca. Lo sentivo tirare, soprattutto
quando mangiavo e mi lavavo i denti. Mi dava
fastidio, ed era normale, viste le dimensioni, ma
non mi faceva male. Quando uscivo di casa mi
coprivo con una sciarpa o un foulard. Finalmente, dopo mesi, ebbi il nominativo giusto. Feci
una prima visita e poi un’ecografia. Quando
vidi l’esito mi sentii gelare il sangue. I contorni
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Almorina Festa
del nodulo non erano ben definiti, ma sfumati,
come una nebulosa. Sapevo che era un brutto
segno, e ricominciai a sentirmi spacciata. Alla
seconda visita, il medico mi ordinò esami che
mi allarmarono, e che nessuno prima di lui mi
aveva prescritto. Si trattava del test HIV, di una
tac col mezzo di contrasto, e di un prelievo midollare. La tac fu un incubo. Mi diedero da bere
più di un litro di liquido strano, che sapeva di
anice. L’esame durò molto tempo. Dovevo stare
immobile, a tratti non respirare e, soprattutto,
non andare in bagno. Nonostante questo, venni nuovamente tranquillizzata, perché, a parte
il nodulo, non era stato notato nulla di anomalo. Fui operata per la seconda volta in anestesia
totale. Il ricovero durò alcuni giorni. Quando,
prima di dimettermi, mi levarono la benda, ebbi
l’impressione che metà del mio mento mi fosse
stata portata via. Per fortuna nel giro di poche
settimane la situazione tornò nella norma, e comunque il peggio doveva ancora venire.
Era marzo. Un marzo eccezionalmente caldo.
Mi trovavo con mia madre in un giardino botanico. Gli iris erano già sbocciati, c’era un tripudio di fiori. Eravamo sedute su una panchina e
mia madre mi disse che doveva parlarmi di una
cosa grave. Continuò dicendo che dovevo fare
una cura molto forte. Quando pronunciò quella
terribile parola “chemio”, restai sbalordita. Mi
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