Premessa Questo non è un manuale su come vincere la depressione. È la storia di un’esperienza depressiva vissuta in prima persona. Il vero scopo del libro è un atto di denuncia. Alcune persone che l’hanno letto hanno pensato che ho scritto per rimuovere certi ricordi di incubo, ma non è assolutamente così. Il libro non l’ho scritto a scopo terapeutico, per aiutare me stessa. Questo libro è stato scritto soprattutto per aiutare gli altri. Per le persone sole, che non hanno nessuno che va a trovarle in ospedale, per chi subisce delle ingiustizie e per vari motivi non va a denunciarle al tribunale del malato, per chi si vergogna della propria malattia. E infine, c’è la speranza che gli ospedali psichiatrici migliorino, che non siano più squallidi luoghi di reclusione dove il malato viene segnato in modo indelebile. Una volta ho letto un articolo in cui era scritto che la follia è un male contagioso. Credo sia vero. Provate, per assurdo, a mettere una persona perfettamente equilibrata in un reparto psichiatrico per un mese. Quando uscirà, non sarà più come prima. 7 Ad Anita Camera soffocante, desolata, falsamente consolatrice. Tra le tue pareti, poveramente intonacate di celeste, l’illusione del cielo. Raggi solari attraverso una finestra ermeticamente chiusa, dove il mondo esterno ha il divieto d’accesso. Rumori lontani. Sdraiata sul letto vedo il cielo. Tra noi, una barriera di vetro e polvere. Il colore dello spazio si riflette nei miei occhi indifferenti. Conto le nuvole, che si disfano come matasse di cotone, assumendo forme irreali e fantastiche, che fanno illudere i reclusi, di far parte di esse. Grappoli d’aria evanescente... 9 Si dice che nessuno si alza la mattina decidendo di fare qualcosa. Eppure, per quanto strano possa sembrare, a me è successo. Un giorno, all’improvviso, ho sentito il bisogno di scrivere la mia esperienza, di mettere su carta il periodo più buio della mia vita. Ho cominciato subito ad annotare i miei ricordi, non è stato facile ripercorrere certe vicende, ma mi è sembrato quasi doveroso farlo, penso che certe cose vadano denunciate, non subite. Credo che a volte la sofferenza possa essere vista come un dono, da condividere con altri. Mentre scrivevo ho avuto i miei dubbi. Mettersi a nudo fa paura, e quello che ho scritto non è crudele, ed è molto personale. Ho scritto quello che ho vissuto. Questo libro lo dedico a mia madre, e a tutti coloro che mi hanno aiutato. 11 I Questa è la storia di una malattia, di un percorso doloroso sia fisicamente che moralmente. La malattia di cui parlo è la depressione, non so quand’abbia avuto inizio. Credo che le origini del mio male oscuro risalgono alla primissima infanzia, a un periodo che ricordo vagamente, già velato da una luce sinistra. Credo che la depressione, almeno nel mio caso, sia soprattutto un fattore genetico. Alcune persone della mia famiglia, sia paterna che materna, ne hanno sofferto e ci sono stati casi di suicidio. I fortunati, che non sanno cosa sia, dicono spesso: “che motivo hai di essere depresso? Non ti manca nulla”. È come chiedere a un malato di cancro: “che diritto hai di essere malato?”. Una volta ho sentito una persona che affermava che la depressione colpisce solo le classi sociali privilegiate. I poveri che devono guadagnarsi da vivere non hanno tempo per essere depressi; posso dire che non è cosi. Negli ultimi anni sono stata ricoverata diverse volte negli ospedali psichiatrici, e ho visto persone di tutte le età e di tutti i 13 Almorina Festa ceti sociali, dai più ricchi ai più poveri. La malattia non fa distinzione quando deve colpire, e la depressione è una vera malattia. I depressi non devono essere confusi con i pessimisti, i lamentosi, le persone che si piangono addosso. Per anni mi sono sentita in colpa di soffrire di questo male. Questa malattia dell’animo, a differenza di quelle fisiche, non si vede, non è tangibile, può essere nascosta, simulata. C’è ancora molta superficialità e ignoranza intorno a questo male. Molte persone ancora pensano che chi si rivolge a uno psichiatra è pazzo. Pazzo significa essere incapace d’intendere e di volere, mentre il depresso può essere in pieno possesso delle proprie facoltà mentali. C’è anche chi pensa che la depressione si può risolvere avendo degli interessi, distraendosi, o facendo del volontariato, per vedere chi soffre veramente. Tutto questo può aiutare ma non guarire. Bisogna anche distinguere tra la depressione momentanea dovuta a cause esterne, e quella cronica, che può cominciare con l’infanzia, e dalla quale è più difficile uscire. In genere la depressione si manifesta con senso di oppressione, malinconia, abulia, senso di vuoto e inutilità. Può anche manifestarsi con ansia, angoscia, inquietudine, insonnia e problemi alimentari. Ci sono periodi in cui il disagio aumenta, e di solito questo coincide con il cambio delle stagioni: l’arrivo della primavera, l’inizio dell’autunno, 14 Viaggio nella depressione quando cominciano a cadere le foglie e la luce diminuisce. La prima volta che ho desiderato morire avevo dieci anni. Vivevo in montagna. Scappai di casa per un paio d’ore e andai a rifugiarmi in una casa semi distrutta da un incendio. Volevo rimanere lì a lasciarmi morire di freddo e di fame. Ho cominciato ad avvertire i primi sintomi di malessere verso i tredici anni. A sedici ho cominciato a soffrire di insonnia cronica, a diciotto, per la prima e non ultima volta, ho attentato alla mia vita. In realtà, non volevo morire ma solo chiedere aiuto. Volevo che le persone intorno a me si accorgessero della mia sofferenza. Un pomeriggio, dopo aver ingoiato un tubetto di sonniferi, telefonai alla mia migliore amica e le dissi che stavo morendo. Lei chiamò subito l’ambulanza. Persi conoscenza subito dopo la telefonata e la ripresi prima di venire sottoposta alla lavanda gastrica. Ricordo un’infermiera che mi chiese se volevo veramente morire. Restai tutta la notte stesa su una barella, nel corridoio. Provavo una sensazione di benessere, perché, essendo stordita, quel dolore lacerante era scomparso e tutto mi sembrava lontano, irreale. Nel giro di quindici giorni, la mia amica più cara, colei che mi aveva soccorsa, si allontanò da me completamente. Quando si sta male, le 15 Almorina Festa persone spesso prendono le distanze. Ci si difende spontaneamente da tutto ciò che è negativo. È una legge di sopravvivenza. Ma non è da questo punto che voglio cominciare a scrivere la mia storia. Comincerò dal periodo in cui mi sono ammalata fisicamente. A ventotto anni mi accorsi di avere un minuscolo nodulo sotto il mento. Era come un nocciolo di ciliegia, sia per la dimensione che per la consistenza. Provai una stretta al cuore e pensai subito che si trattasse di un tumore. Per tre giorni non pensai ad altro. Vedevo le cose in modo diverso, sotto un’altra ottica. Ero convinta che avrei avuto poco da vivere. Cominciò così un periodo di analisi e visite mediche. Le analisi risultarono negative, a detta dei medici che consultai non avevo niente, ma nessuno mi fece una diagnosi e intanto il nodulo continuava a ingrandirsi. Essendo stata tranquillizzata dall’esito degli esami e dal parere dei medici, al tumore non pensavo più. Era diventato per me solo un problema estetico, perché il nodulo aumentava di volume e si notava. Mi venne dato il nominativo di un chirurgo maxillo facciale. Ci andai. Lui e un suo collega mi bucarono varie volte il mento con una siringa, per vedere se usciva della materia da analizzare in seguito, ma non usciva nulla. Venni operata. Un intervento in day hospital in anestesia locale. L’esame isto16 Viaggio nella depressione logico non chiarì la situazione. C’era scritto che si trattava di alcune ghiandole che si erano infiammate a causa di un virus, non specificato. Feci altre analisi ma tutto continuava a rientrare nella norma. Dopo circa tre mesi dall’intervento mi resi conto che il nodulo si stava riformando. Mi venne dato il nominativo di un infettivologo che aveva la fama di essere un luminare. Ci andai e mi sentii trattare come un’ipocondriaca. Il luminare disse che dovevo fregarmene (testuali parole), che date le piccole dimensioni del nodulo non poteva essere nulla di grave. Ma il nodulo aumentava e insieme a esso aumentava l’ansia. Sentivo che c’era qualcosa che non andava, ma non sapevo più che cosa fare e a chi rivolgermi. Continuavo a fare visite mediche a vuoto. Vivevo nell’incertezza. Non mi sentivo male fisicamente, a parte una gran stanchezza. A volte avevo qualche linea di febbre, ma essendo inverno pensavo si trattasse di una leggera influenza. Ero molto magra. Il nocciolo di ciliegia nel frattempo era diventato un nocciolo di pesca. Lo sentivo tirare, soprattutto quando mangiavo e mi lavavo i denti. Mi dava fastidio, ed era normale, viste le dimensioni, ma non mi faceva male. Quando uscivo di casa mi coprivo con una sciarpa o un foulard. Finalmente, dopo mesi, ebbi il nominativo giusto. Feci una prima visita e poi un’ecografia. Quando vidi l’esito mi sentii gelare il sangue. I contorni 17 Almorina Festa del nodulo non erano ben definiti, ma sfumati, come una nebulosa. Sapevo che era un brutto segno, e ricominciai a sentirmi spacciata. Alla seconda visita, il medico mi ordinò esami che mi allarmarono, e che nessuno prima di lui mi aveva prescritto. Si trattava del test HIV, di una tac col mezzo di contrasto, e di un prelievo midollare. La tac fu un incubo. Mi diedero da bere più di un litro di liquido strano, che sapeva di anice. L’esame durò molto tempo. Dovevo stare immobile, a tratti non respirare e, soprattutto, non andare in bagno. Nonostante questo, venni nuovamente tranquillizzata, perché, a parte il nodulo, non era stato notato nulla di anomalo. Fui operata per la seconda volta in anestesia totale. Il ricovero durò alcuni giorni. Quando, prima di dimettermi, mi levarono la benda, ebbi l’impressione che metà del mio mento mi fosse stata portata via. Per fortuna nel giro di poche settimane la situazione tornò nella norma, e comunque il peggio doveva ancora venire. Era marzo. Un marzo eccezionalmente caldo. Mi trovavo con mia madre in un giardino botanico. Gli iris erano già sbocciati, c’era un tripudio di fiori. Eravamo sedute su una panchina e mia madre mi disse che doveva parlarmi di una cosa grave. Continuò dicendo che dovevo fare una cura molto forte. Quando pronunciò quella terribile parola “chemio”, restai sbalordita. Mi 18