Quaresimale 2015 – venerdì 27 febbraio Don Ezio Prato Padre nostro Mt. 6, 7-15 “Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate. Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno; sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”. Riprendiamo la nostra riflessione sul Padre nostro. Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno Sia santificato il tuo nome Per comprendere meglio questa domanda del Padre nostro penso sia utile dire cosa significhi ‘nome’, che significato ha il nome nella tradizione di Israele, perché Gesù è un vero uomo che vive nella sua cultura e si esprime quindi usando le parole e le tradizioni del suo popolo. Per noi il nome che si dà ad un bambino è certamente una cosa importante, ha delle radici, ma non è qualcosa di profondo come intendeva e pensava il popolo di Israele, per cui il nome definisce in profondità una persona, quello che la persona è e la sua missione. Quando Gesù cambia il nome a Pietro e dice appunto “Tu ti chiamerai Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” cambia in un certo senso la realtà di Pietro e la definisce in profondità. Ricordiamo anche il passo della Scrittura in cui, quando il Signore conclude la creazione degli animali e di tutte le altre creature, chiama l’uomo a dare loro un nome. Questo vuol dire che in un certo senso l’uomo è signore del creato (non è padrone arbitrario, ma amministratore, perché il mondo è di Dio) ed è in un qualche modo in grado di definire le cose, di chiamarle per nome, di ordinarle secondo la sua ragione e la sua misura. Perché appunto il nome non è solo qualcosa di estraneo, ma è qualcosa che definisce profondamente quello che una cosa è. Tutto questo per dire che qui il nome di cui si parla è il nome di Dio, e allora quando invochiamo questo nome e diciamo” sia santificato il tuo nome” non intendiamo evidentemente il fatto che l’uomo può in qualche modo possedere Dio, esserne padrone, definirlo secondo la sua misura: se riducessimo Dio alla nostra misura Dio non sarebbe più quello che è, e noi saremmo perduti, perché non avremmo più nessuno da invocare e a cui chiedere la salvezza. Però Dio rivela il suo nome, già nell’Antico Testamento, e in particolare in quel momento decisivo e sorgivo della storia di Israele che è il momento dell’Esodo e del cammino nel deserto. Anzi, all’inizio, prima ancora, 1 quando Mosè dice: “Che nome diremo al Faraone quando ci chiederà quale Dio vuole che usciamo dall’Egitto?”. Il nome di Dio viene rivelato in maniera misteriosa: “Io sono Colui che sono”. Questo significa, come interpretano gli studiosi della Scrittura: “io sarò con te e con il popolo, sarò sempre vicino a te”. Quindi Dio dice che sarà con il suo popolo, ma non svela se stesso fino in fondo, rimane un mistero. Nel cap. 33 del libro dell’Esodo c’è quella scena molto bella in cui Mosè chiede a Dio di vedere il suo volto e Dio gli dice: “Io passerò davanti a te ma tu mi vedrai di spalle”, quindi intuirai in qualche modo la mia fisionomia ma non comprenderai e non conoscerai fino in fondo quello che sono. Perché conoscere vuol dire in qualche modo possedere, definire, e, grazie a Dio (qui è proprio il caso di dirlo!) l’uomo non può definire Dio, non può essere padrone di Dio, non può ridurre Dio alla sua misura. Ma quando arriviamo al Nuovo Testamento noi sappiamo qual è il nome di Dio: è ‘Padre’. Qui Dio si rivela e si fa conoscere fino in fondo. Allora che cosa rimane di misterioso? che cosa rimane ancora da scoprire? Rimane il fatto che Dio è padre come nessun altro: “tam pater nemo”, dice la tradizione cristiana, nessuno è così padre come Dio. Allora quando diciamo” sia santificato il tuo nome” ci ricordiamo di questo: che Dio è sempre più grande di noi, è sempre di più di noi, è sempre aldilà della nostra misura, del nostro criterio, del nostro progetto, del nostro quadro mentale e del nostro cuore. Ma questo ‘di più’ è un mistero buono, è il mistero dell’amore di un padre che non finisce. La parola ‘mistero’ è una parola grande, che può però diventare anche equivoca; mistero è anche tutto quello che non capiamo e che fa paura, ma tutto questo con Dio non c’entra. Dio ci rivela il suo nome, ci dice fino in fondo chi è, ma poiché ci è padre in maniera infinita, sempre e comunque, molto aldilà di tutto quello che noi possiamo pensare, rimane in Dio un di più di amore e paternità e proprio in questo è la nostra salvezza. Quando credi di aver fatto tutto il male possibile e immaginabile per uscire dall’abbraccio di Dio, Dio è lì ancora, pronto ad accoglierti sempre. Noi chiediamo nel Padre nostro che il nome di Dio sia ‘santificato’. Come possiamo intendere questo? Il testo del Levitico (22, 31-33) dice: 31Osserverete dunque i miei comandi e li metterete in pratica. Io sono il Signore. 32Non profanerete il mio santo nome, perché io mi manifesti santo in mezzo agli Israeliti. Io sono il Signore che vi santifico, 33che vi ho fatto uscire dal paese d'Egitto per essere vostro Dio. Io sono il Signore". “Io”, dice il Signore, quindi quando diciamo “sia santificato il tuo nome” diciamo un’azione che innanzitutto è compiuta da Dio, non da noi; il protagonista della santificazione non siamo mai innanzitutto noi; non c’è nulla di più lontano dall’idea giudaico-cristiana di santità che pensarla come qualcosa innanzitutto dovuto al nostro impegno, al nostro sforzo, alla nostra capacità. Dunque il protagonista è Dio, è lui che fa, è lui che rende gloria innanzitutto al suo nome. Ma per noi santificare il nome di Dio cosa significa? Essere santi secondo la Scrittura e secondo la tradizione cristiana cosa significa? Santificare, come scrive don Bruno Maggioni, significa “permettere a Dio di svelare nella vita del singolo e della comunità la sua potenza salvifica”. Quindi quando il popolo di Israele è un popolo santo? Quando è di Dio. Quando noi siamo santi, personalmente e come comunità? Quando siamo di Dio. Allora possiamo avvicinare il concetto di santità a quello di appartenenza, molto più che al concetto di coerenza. Troppe volte noi pensiamo al Cristianesimo, alla vita cristiana secondo l’ideale della coerenza. Non vi sto certo invitando ad essere incoerenti e peccatori, ma sto dicendo che, se pensiamo alla posizione che ha un bambino, capiamo veramente come vanno le cose. Un bambino non obbedisce sempre alla mamma, e non obbedisce subito, ma un bambino è certo di appartenere a suo padre e a sua madre, e non puoi toccargli il padre o la madre senza che lui reagisca, perché un bambino senza questo rapporto e senza questa appartenenza non è più nessuno. E allora stando dentro ad un rapporto con suo padre e sua madre diventa grande, sarà educato da loro, imparerà a chiamare le cose con il loro nome, imparerà che cosa è bene e che cosa è male. 2 La radice è questa: un’appartenenza. Sapere questo dovrebbe togliere alle nostre vite molte ansie, anche molti scrupoli, molte titubanze, che ci vengono sempre quando ci misuriamo non tanto a partire dall’amore che Dio ci vuole e dalla nostra decisione di appartenere a lui, ma ci misuriamo troppo in fretta su quello che è il risultato delle nostre azioni, su quello che è la nostra capacità di incarnare fino in fondo il Cristianesimo. Se si cambia la radice sono cose tutte impossibili che servono a rattristare il cuore più che a rallegrarlo. La misura della nostra vita cristiana è un attaccamento, e finché non veniamo via da questo attaccamento tutto serve alla nostra santificazione. Tanti santi nella vita della Chiesa hanno detto persino il peccato, proprio come succede ad un bambino. Un bambino quando sbaglia, pesta i piedi, fa i capricci, ma poi ritorna da suo padre e da sua madre. Dovremmo essere un po’ di fronte al nostro male, alle nostre mancanze e fragilità, alle nostre titubanze, un po’ di più come bambini, che entreranno nel regno dei cieli proprio perché bambini, perché capaci di riconoscere che la consistenza della vita non è nella propria capacità ma nel rapporto e nel legame che abbiamo con un altro. Quindi essere santi non significa essere perfetti ma accogliere sempre l’abbraccio di uno che dà forza e gioia alla nostra vita. Rimane da vedere cosa significa il “tuo” nome. Qui di nuovo c’è l’alternativa di fondo, perché io penso che proprio un tempo come questo, la Quaresima, sia un tempo in cui bisogna tirar via dalla nostra vita tutte quelle cose che non sono sbagliate, ma non sono l’essenziale. Una volta che togliamo queste cose, al fondo di ogni nostra scelta c’è una certa decisione o il suo contrario. E queste due decisioni sono rendere gloria al mio nome o al suo nome. Noi lo diciamo correntemente anche di qualcuno che ‘si è fatto un nome’, in un certo campo, per certe capacità, per quello che ha costruito, per progetti che ha realizzato, e questa è l’espressione (anche se può avere un significato buono) che fotografa un po’ chi nella vita afferma solo se stesso, e questa posizione ha come conseguenza il fatto che uno misura un po’ tutte le cose secondo la propria misura. E guardate che la nostra misura è piccola, e quando misuriamo con la nostra misura riduciamo un po’ tutto: gli affetti, le passioni, le gioie… Tutto diventa piccolo e noi rimaniamo sempre un po’ tristi, mentre il Signore ci vuole felici. Per cui il Padre nostro, con il Vangelo, dice: riconoscete il primato del regno di Dio, e tutto il resto vi sarà dato in più. Poi possiamo scegliere se vogliamo vivere affermando noi stessi o affermando un altro, che ci ama in maniera così grande che esalta, rende grande tutto quello che facciamo e che viviamo. Io penso che nei tempi che ci attendono, sempre di più, il Cristianesimo in noi e negli altri si giocherà su questo: se gli altri vedranno (ma se noi prima faremo l’esperienza, se no è ipocrisia pura) che rendere gloria al nome di un altro riempie la nostra vita di una pienezza inimmaginabile umanamente. Continueremo a fare discorsi cristiani che probabilmente interesseranno e convinceranno molto meno, ma la vita no. Se vedi uno che vive felice, uno che vive in pienezza, uno che proprio perché ama Dio è capace di amare di più la moglie, i figli, il lavoro, di affrontare la sofferenza, la malattia, le difficoltà in un certo modo, questo sì che può interessare. Penso che su questo per noi si gioca molto del futuro del Cristianesimo qui nella nostra civiltà, nel nostro mondo, Cristianesimo di fronte al quale siamo sempre di più, sembra, timorosi e un po’ dubbiosi. Nella nostra vita si vedrà, si vede (e questo conterà sempre di più) se rendiamo gloria a noi stessi (e tutto diventa misurato da noi) o a un altro. I Gesuiti dicevano che tutto va fatto ad maiorem Dei gloria, per la più grande gloria di Dio, che è la felicità nostra, la felicità dell’uomo. “Venga il tuo regno” Un breve pensiero su questa invocazione. Abbiamo sentito anche poche domeniche fa l’invocazione con cui comincia la missione di Gesù: “il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al Vangelo”. Il Regno di Dio è Cristo che viene e che regna, è Cristo che è venuto e che regna, Signore del tempo e della storia. 3 Però se andiamo avanti, all’ultimo passaggio della Scrittura, troviamo un’altra invocazione, all’ultima riga del Libro dell’Apocalisse (Ap. 22, 20): “Colui che attesta queste cose dice: "Sì, verrò presto!". Amen. Vieni, Signore Gesù”. La condizione dei cristiani è tra questi due annunci: il Signore è venuto, ha salvato il mondo ma che cosa questa presenza è sarà chiaro alla fine dei tempi, nella pienezza dei tempi. Una formula semplice, per dire come il cristiano vive, in che condizioni il cristiano è, è quella che dice che il cristiano vive nel “già e non ancora”: già salvati, ma con una salvezza che non è ancora manifestata in pienezza. Allora questa invocazione chiede che, nell’istante in cui la diciamo, nella giornata in cui siamo, nel tempo di questa vita che il Signore venga sempre di più. Ma ci ricorda anche che la venuta piena del Signore sarà, alla fine dei tempi, personalmente per ognuno di noi, nel giorno della nostra morte. Allora recitando questa invocazione ci ricordiamo anche del nostro destino eterno, della condizione a cui è indirizzata la nostra vita. Termino con una brevissima riflessione sul nostro destino eterno, sulla méta ultima della nostra vita, che prendo da un’intervista del card. Biffi (contenuta in un piccolo libretto dal titolo “L’Aldilà”) a cui viene chiesto: “Nel complesso lei ha un’idea serena della morte?” “Intanto credo di poter dire che ho una grande curiosità, perché siccome sono più le cose che non si sanno, desidero andare a vedere direttamente la realtà. Se poi veramente la morte è l’incontro con Cristo, come io credo,... finalmente!... . Io ho puntato la vita su di lui e non so neanche di che colore abbia gli occhi! Insomma, è una soddisfazione poterlo incontrare”. Il cristiano conosce, come tutti gli uomini, il dramma della morte, e di tutto ciò che anticipa la morte (la sconfitta, la sofferenza, la malattia), però noi sappiamo anche che proprio attraverso la morte si realizza il compimento della vita, e il compimento della vita è l’incontro con Cristo. E tanto più viviamo per Cristo, tanto più desideriamo questo incontro, e dopo aver invocato tante, tante volte “venga il tuo regno”, finalmente (preghiamo per questo, chiediamo questo) per la misericordia di Dio il Cristo che abbiamo invocato, il Cristo che vogliamo veder venire nella nostra vita, il Cristo che vogliamo presente in ogni istante della nostra giornata, potremo vederlo in faccia. Che sia così per ognuno di noi e per ogni uomo. (da registrazione – non corretta dal relatore) 4